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AGGIORNAMENTO AL 30.09.2014 |
ã |
dite la vostra ....
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
PUBBLICO IMPIEGO:
R. Lasca,
IL CERTIFICATO MEDICO DI “RETTIFICA” DELL'ORIGINARIA
PROGNOSI DI MALATTIA, OVVERO: COME NEL PUBBLICO
IMPIEGO (E NON SOLO) SI RITORNA AL LAVORO IN CASO DI
GUARIGIONE ANTICIPATA (29.09.2014). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
PROVINCE: APPROVATO IL D.P.C.M. SUL TRASFERIMENTO
DI FUNZIONI PREVISTO DALLA LEGGE DELRIO
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 24.09.2014).
---------------
Si leggano anche:
►
la bozza del D.P.C.M.
►
l'accordo sancito tra Governo e Regioni in sede di
Conferenza Unificata |
PUBBLICO IMPIEGO:
A PROPOSITO DI LAVORATORI DI SERIE A) E SERIE B)
- La disparità di trattamento tra pubblici dipendenti
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 22.09.2014). |
UTILITA' |
LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
Modelli semplificati per la redazione:
► del
piano operativo di
sicurezza (Pos) - allegato I
► del
piano di sicurezza e di coordinamento (Psc)
- allegato II
► del
piano di
sicurezza sostitutivo (Pss) - allegato III
►
del
fascicolo dell'opera (Fo) - allegato IV
in formato .doc per la facile compilazione personalizzata,
di cui al
decreto 09.09.2014 del
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
sul posto di lavoro, cosa fare nei casi d’emergenza? Dal
SUVA una utile check-list.
Per affrontare in tutta sicurezza le varie condizioni di
emergenza che possono verificarsi (infortuni, malattie
acute, incendi) sui luoghi di lavoro è opportuna una buona
organizzazione del piano d’emergenza.
Il SUVA svizzero ha realizzato un’utile check-list
contenente una serie di domande sul piano, per avere una
corretta gestione dei casi d’emergenza.
Il documento aiuta a tener sotto controllo il piano di
emergenza, a gestire con efficacia un primo soccorso e a
garantire un’adeguata formazione del personale, consentendo
una notevole riduzione delle possibili conseguenze.
Gli argomenti affrontati nella presente lista sono:
● organizzazione dell’allarme
●
pronto soccorso
●
istruzione e comportamento
●
varie
(25.09.2014 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Libretto
di impianto, nuove FAQ aggiornate del Ministero.
Il 15.10.2014 scatterà l’obbligo di adottare i nuovi modelli
di libretto di impianto e i nuovi rapporti di efficienza
energetica introdotti dal D.M. 10.02.2014.
A seguito delle richieste di chiarimento sollevate da
amministrazioni locali, operatori del settore (imprese,
installatori, manutentori) e cittadini, il Ministero dello
Sviluppo Economico ha pubblicato sul proprio sito le domande
e le risposte più frequenti in materia di efficienza
energetica degli impianti di climatizzazione invernale ed
estiva.
Le FAQ aggiornate al 19.09.2014 hanno l’obiettivo di
rispondere ai quesiti avanzati e di fornire gli opportuni
chiarimenti per una corretta applicazione di quanto previsto
dal Decreto.
Ecco gli argomenti trattati:
● impianto termico
●
controllo e manutenzione ai fini della sicurezza
●
libretto di impianto
●
trattamento dell’acqua di raffreddamento dell’impianto di
climatizzazione estiva
●
controlli di efficienza energetica
●
periodicità dell'invio del rapporto di controllo di
efficienza energetica
Ricordiamo ai lettori che il nuovo software ACCA,
Impiantus-LIBRETTO, consente la redazione del nuovo libretto
di impianto per la climatizzazione e dei rapporti di
controllo di efficienza energetica, in ottemperanza alle
recenti prescrizioni normative
(25.09.2014 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (settembre
2014 - tratto da www.agenziaentrate.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreti “Competitività” e “Sblocca Italia”:
novità in campo ambientale (ANCE Bergamo,
circolare 26.09.2014 n. 183). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Impianti termici - Differimento dei termini per
l’entrata in vigore del nuovo libretto di impianto (ANCE
Bergamo,
circolare 26.09.2014 n. 182). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Registro Sonde Geotermiche (RSG) – Nuovo Manuale
Utente e nuove condizioni d’uso al servizio (ANCE
Bergamo,
circolare 26.09.2014 n. 181). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Regione Lombardia – Provvedimenti relativi al
periodo dal 15.10.2014 al 15.04.2015: 1) Misure per la
limitazione del traffico veicolare; 2) Misure per il
contenimento dell’inquinamento da combustione di biomasse
legnose (ANCE Bergamo,
circolare 26.09.2014 n. 178). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Decreto 28.02.2014 recante "Regola tecnica di
prevenzione incendi per la progettazione, costruzione e
l'esercizio delle strutture turistico - ricettive in aria
aperta (campeggi, villaggi turistici, ecc.) con capacità
ricettiva superiore a 400 persone" - Chiarimenti ed
indirizzi applicativi (Ministero dell'Interno,
Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico ed
ella Difesa Civile,
nota 12.09.2014 n. 11002 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 29.09.2014, "Direzione
centrale Legale, controlli, istituzionale, prevenzione
corruzione - Nomine e designazioni di competenza della
Giunta regionale: Commissioni regionali per il paesaggio
(rif. art. 78 della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il
governo del territorio»)"
(comunicato
regionale 24.09.2014 n. 121). |
CONDOMINIO: G.U.
24.09.2014 n. 222 "Regolamento recante la determinazione
dei criteri e delle modalità per la formazione degli
amministratori di condominio nonché dei corsi di formazione
per gli amministratori condominiali" (Ministero
della Giustizia,
decreto 13.08.2014 n. 140). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: D.
Tramutoli,
“Valutazione delle offerte tecniche e possibile
annullamento della gara d'appalto” (cfr. Cons. Stato,
Sez. VI, sentenza n. 4514 del 04.09.2014)
(24.09.2014 - link a www.diritto.it). |
VARI: G.
Milizia,
Il pedone nell’attraversare deve rispettare il codice della
strada: doppia condanna per aver distrattamente investito un
ciclista
(23.09.2014 - link a www.diritto.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
A. P. Esposito,
Dichiarazione di falsità di documenti di una graduatoria di
concorso pubblico: il giudice penale non può “depennare” i
candidati (Corte di Cassazione, V sez. pen., con sentenza
del 21.07.2014, n. 32035) (22.09.2014 - link a
www.diritto.it). |
ENTI
LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale News (tratto
dalla newsletter gratuita di www.publika.it, 16.09.2014 n. 17). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
D. Romei,
Lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per
infiltrazioni o condizionamento mafioso (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2014).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa: lo scioglimento dei
consigli comunali e provinciali per infiltrazioni della
criminalità organizzata di tipo mafioso nel sistema dei
controlli - 2. L’originaria disciplina sullo scioglimento
degli enti locali per infiltrazioni della criminalità
organizzata di tipo mafioso e l’intervento della Corte
costituzionale - 3. La disciplina di cui all’art. 143
T.U.E.L. e le modifiche apportate dal c.d. Pacchetto
sicurezza - 4. La natura del decreto di scioglimento - 5. Il
vigente sistema dello scioglimento dei consigli comunali. Il
quadro indiziario posto a base delle valutazioni
dell’autorità prefettizia ex art. 143 T.U.E.L. Natura
ampiamente discrezionale dell’accertamento prefettizio - 6.
Gli elementi sintomatici della ricorrenza dei presupposti
richiesti dall’art. 143 T.U.E.L. per lo scioglimento del
Consiglio comunale - 7. Gli effetti dello scioglimento nei
confronti degli amministratori degli enti locali - 8.
Considerazioni conclusive. |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
R. Steffenoni,
L’abolizione delle province: evoluzione di un processo di
semplificazione delle autonomie locali (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2014).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. Le riforme degli
anni ’90, il nuovo titolo V della Costituzione e la legge
“La Loggia” - 3. La riforma delle province nell’ambito della
legge 05.05.2009, n. 42 - 4. L’utilizzo della decretazione
d’urgenza per riformare le province e la sentenza n.
220/2013 della Corte Costituzionale - 5. La legge
07.04.2014, n. 56 sulla c.d. “abolizione delle province” -
6. Conclusioni. |
PATRIMONIO:
S. Peluso,
La sponsorizzazione dei beni culturali: opportunità e
criticità dello strumento alla luce del caso Colosseo (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2014). |
APPALTI:
V. Cardellicchio e F. Gallo,
Stazione unica appaltante e centrale di committenza: lo
sviluppo degli istituti nella prospettiva di
riorganizzazione dei livelli di Governo (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2014). |
APPALTI:
A. Mutarelli,
L’insostenibile pesantezza economica dei diritti. Nuovo rito
speciale sugli appalti pubblici: verso un processo senza
giudizio? (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014). |
APPALTI:
A. Fragomeni,
Il problema (irrisolto) del rapporto tra esame del ricorso
principale e ricorso incidentale alla luce dei principi
comunitari (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).
---------------
SOMMARIO: 1. Breve sintesi della problematica
secondo la giurisprudenza del giudice civile e del giudice
amministrativo di primo e secondo grado - 2. Segue. Le nuove
Adunanze Plenarie del 2014 nel solco dell’Adunanza 4/2011 -
3. Il punto di vista comunitario: principi e giurisprudenza
della Corte di giustizia sul tema dell’effettività della
tutela giurisdizionale e del giusto processo: uno sguardo
particolare alle nuove direttive appalti e concessioni
pubblicate nella G.U.C.E. del 28.03.2014 - 4. Le divergenze
intorno al concetto di oggetto del processo amministrativo e
di domande giudiziali - 5. Brevi conclusioni: opportunità di
un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia della
problematica in oggetto - 6. Segue. Il rischio di azioni di
risarcimento danni contro il Governo italiano sia in sede
comunitaria che interna. |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione
unica.
Domanda
In campo di energia eolica il termine per il rilascio
dell'autorizzazione unica può essere derogato dalla regione?
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione quinta, con la sentenza del
09.09.2013, numero 4473, ha affermato che il termine
massimo entro il quale si deve concludere, alla luce del
disposto dell'articolo 12, del decreto legislativo numero
387, del 29.12.2003, il procedimento relativo al
rilascio dell'autorizzazione unica alla costruzione e
all'esercizio di impianti alimentati da fonti energetiche
rinnovabili, è un termine perentorio, atteso che esso
risponde a evidenti finalità di semplificazione e
accelerazione.
La normativa su citata prevede, all'articolo 12, comma 3,
che la conferenza dei servizi deve essere convocata dalla
regione entro 30 giorni dal ricevimento della domanda di
autorizzazione.
Inoltre le Linee guida nazionali di cui al decreto
ministeriale del 10.09.2010, al punto 14.6, prevedono
che entro 30 giorni dal ricevimento dell'istanza,
l'amministrazione convoca la conferenza dei servizi, che si
deve svolgere con le modalità previste dall'articolo 14 e
seguenti della legge numero 241, del 1990. Inoltre, ai sensi
della normativa portata dal comma 4, del citato articolo 12,
il termine massimo per la conclusione del procedimento unico
non può essere superiore a 90 giorni.
Si sottolinea inoltre, che alla luce della sentenza numero
124 del 2010, della Corte costituzionale, la disciplina
relativa alla realizzazione ed esercizio degli impianti
alimentati da fonti energetiche rinnovabili attiene
prevalentemente alla materia di produzione, trasporto e
distribuzione dell'energia di cui all'articolo 117, comma
terzo, della Costituzione ed è, quindi, di competenza
concorrente stato-regioni.
E, al riguardo, rientra nelle competenze del legislatore
nazionale dettare le disposizioni di principio, mentre
rientrano nelle competenze delle regioni il dettare le
disposizioni di dettaglio. E, ancora, anche alla luce della
sentenza del Consiglio di stato, sezione quinta, del 15.05.2013, numero 2634, il termine suddetto è, come detto,
perentorio e non derogabile, in alcun modo, dalle regioni.
Ne consegue che termini più lunghi, stabiliti dalle regioni
in materia, devono essere abbreviati nel rispetto del
termine stabilito dal citato articolo 12
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.201). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali
sono gli enti tenuti a consentire l'accesso e a rilasciare
l'informazione ambientale?
Partendo dal presupposto che il diritto di accesso alle
informazioni e agli atti delle autorità pubbliche o detenute
dalle stesse a qualsiasi titolo è riconosciuto dalla maggior
parte degli ordinamenti democratici, la Corte di giustizia
dell'Unione europea, grande sezione, con la sentenza del 19.12.2013 (causa C-279/12)- Fish legali e altri, ha
approfondito, ai sensi dell'articolo 2, punto n. 2, della
direttiva 2003/Ce, gli elementi attraverso i quali devono
esser individuati gli enti obbligati a consentire l'accesso
e a rilasciare l'informazione ambientale.
Essi vanno
individuati, innanzitutto, oltre che nelle amministrazioni
centrali, nelle cosiddette autorità amministrative, che
all'interno degli stati sono custodi delle informazioni
ambientali. Sono quegli apparati-organi, costituiti da
persone fisiche e giuridiche che svolgono funzioni di
pubblica amministrazione. Essi, operando sotto il controllo
di soggetti pubblici, vengono a erogare servizi pubblici
connessi all'ambiente.
Vi sono , poi, gli enti funzionali con poteri di imperio,
che hanno il compito di prestare , alla luce della normativa
loro applicabile, servizi di interesse pubblico, e, a tal
fine, sono investiti di poteri speciali (al riguardo si
rimanda, pure, alla sentenza della Corte di giustizia Ue del
19.12.2013, causa C-279/12).
Vi sono, infine, i cosiddetti enti oggetto di controllo,
autorizzati dall'autorità statale ad agire per suo conto o
per un ente controllato dallo stato, e che hanno il potere
di impartire ordini, di esercitare i diritti dell'azionista,
nominare o revocare i membri degli organi direttivi, ecc..
Sono organismi, anche alla luce della sentenza della Corte
di giustizia Ue del 12.07.1990, causa C-188/89, che
indipendentemente dalla loro forma giuridica, sono stati
incaricati, «con un atto della pubblica autorità, di
prestare, sotto il controllo di quest'ultima, un servizio di
interesse pubblico e che dispone a questo scopo di poteri
che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che
si applicano nei rapporti fra i singoli»
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Centri
commerciali.
Domanda
I centri commerciali di media dimensione sono soggetti alla
procedura di valutazione di impatto ambientale?
Risposta
La Corte costituzionale, con la sentenza del 28.10.2013, numero 251, ha affermato che sono soggetti alla
procedura di valutazione di impatto ambientale (Via) anche i
centri commerciali di media dimensione, alla luce della
disciplina nazionale dettata dal Testo unico ambientale
(decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006), che
all'allegato IV, parte II, punto 7, lettera b), prevede
espressamente che siano sottoposti alla citata procedura di
valutazione di impatto ambientale (Via) tutti i «centri
commerciali».
Di conseguenza, i giudici costituzionali hanno
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 22
della legge della regione Veneto del 28.12.2012,
numero 50, per violazione dell'articolo 117, comma 2,
lettera s), della Costituzione. E ciò in considerazione del
fatto che la procedura di valutazione di impatto ambientale
(Via) rientra nella competenza esclusiva dello stato. Per la
Corte costituzionale, però, rimane in vita, alla luce della
normativa vigente, la deroga dell'allargamento dei casi di
verifica di assoggettabilità a Via delle grandi strutture di
vendita che non costituiscano centri commerciali.
Peraltro, è da dire che l'articolo 6, comma 9, del Testo
unico ambientale, su citato, prevede testualmente che: «Le
regioni e le province di Trento e di Bolzano possono
definire, per determinate tipologie progettuali o aree
predeterminate, sulla base degli elementi indicati
nell'allegato V, un incremento nella misura massima del
trenta per cento o decremento delle soglie di cui
all'allegato IV.
Con riferimento ai progetti di cui all'allegato IV, qualora
non ricadenti neppure parzialmente in aree naturali
protette, le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano possono determinare, per specifiche categorie
progettuali o in particolari situazioni ambientali e
territoriali, sulla base degli elementi di cui all'allegato
V, criteri o condizioni di esclusione dalla verifica di
assoggettabilità».
Alla luce di detta disposizione, la legislazione regionale
potrebbe escludere l'applicazione della verifica di
assoggettabilità a Via quelle strutture di modeste
dimensioni che non determinino significativi impatti anche
se qualificabili come centro commerciale ai sensi della
normativa del commercio
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Revoche senza contrasti. Il regolamento va
adeguato allo statuto. Maggioranze e
quorum per destituire il presidente del consiglio.
Qual è l'esatto numero di consiglieri comunali necessario
per la votazione della proposta di revoca del presidente del
consiglio comunale?
Nel caso di specie, la proposta di revoca è stata votata
favorevolmente dai due terzi dei componenti il consiglio; il
regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede
che la proposta di revoca del presidente possa essere
presentata da un terzo dei consiglieri assegnati e debba
essere approvata con il voto favorevole di almeno dodici
consiglieri; tale previsione risulterebbe parzialmente non
coerente con lo statuto, che si limita a disciplinare la
presentazione della proposta da parte di dodici consiglieri,
senza indicare la maggioranza necessaria per la sua
approvazione.
La discordanza rilevata e la circostanza legata alla
riduzione del numero dei consiglieri per effetto delle
modifiche di legge introdotte successivamente all'adozione
degli strumenti normativi del comune, cui non è seguito
alcun ulteriore adeguamento, determinerebbero problemi
applicativi.
Il Tar Puglia–Lecce, con sentenza n. 528/2014, ha
evidenziato che «la giurisprudenza ha chiarito che la figura
del presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto
funzionamento di detto organo e della corretta dialettica
tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può
essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in
quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata
perciò con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un
rapporto di fiducia (conforme, Consiglio di stato, sez. V,
26.11.2013, n. 5605)».
In merito alla specifica tematica, lo statuto del comune,
prevedendo la possibilità di revoca del presidente, fissa
esclusivamente il numero (dodici) dei proponenti necessari
ad avanzare la richiesta.
La percentuale di un terzo, indicata dal regolamento
consiliare come numero minimo di consiglieri necessari per
la presentazione della richiesta, risulta in contrasto con
lo statuto, per cui, seguendo la gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del decreto legislativo
n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e
dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n.
2625 del 28.12.2009) la citata disposizione
regolamentare dovrebbe essere disapplicata, prevalendo la
norma statutaria.
In carenza di apposita disposizione statutaria, il
regolamento trova applicazione, invece, nella parte in cui
si individua la maggioranza numerica necessaria per
l'approvazione della deliberazione. In merito
all'adeguamento alla legge, il Tar Marche, con sentenza n.
970 del 02.09.2002, emessa in fattispecie relativa
alla composizione del consiglio di una comunità montana, ha
affermato che: «Anche ammettendo che le disposizioni del
decreto legislativo n. 267/2000 sul numero dei componenti
gli organi collegiali siano di principio, tanto non comporta
affatto l'immediata e diretta abrogazione delle norme
statutarie con esse incompatibili, né l'immediata
applicazione della nuova composizione, ma tanto si verifica
solo con l'adeguamento dello Statuto, perché così dispone,
appunto, l'art. 1 del suindicato decreto legislativo».
Pertanto, ferma restando la regolarità degli atti assunti
con le maggioranze comunque previste dallo statuto o dal
regolamento (per quest'ultimo, solo se non in contrasto con
lo statuto), appare opportuna la revisione delle
disposizioni statutarie e regolamentari che disciplinano i
quorum e le maggioranze necessarie per il
funzionamento del consiglio, al fine del loro corretto
adeguamento alle disposizioni di legge che hanno innovato in
merito alla riduzione del numero dei componenti del
consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi del 26.09.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Disciplina delle interrogazioni.
La disciplina delle interrogazioni è
demandata al regolamento consiliare il quale deve, in
particolare, prevedere 'le modalità di presentazione di tali
atti e delle relative risposte'.
Non si rinviene alcun obbligo normativo a che una
interrogazione debba essere, necessariamente, ed a
prescindere da una specifica indicazione in tal senso
contenuta nel regolamento, trattata in consiglio comunale.
Tuttavia, considerando il ruolo del consiglio comunale e
nell'ottica di dare conoscenza all'organo collegiale
dell'attività di sindacato ispettivo esercitata dai singoli
consiglieri, si ritiene opportuno che il consiglio sia
informato dell'avvenuta presentazione di una interrogazione
e della risposta eventualmente fornita, secondo modalità
definite nel regolamento.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
disciplina dell'istituto delle interrogazioni. In
particolare, premesso che l'attuale regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale prevede che 'Il
Sindaco o l'Assessore da lui delegato risponde, entro trenta
giorni, alle interrogazioni e ad ogni altra istanza di
sindacato ispettivo presentata dai Consiglieri. La risposta
è data, di norma, nella prima adunanza del Consiglio che si
tiene entro il termine di cui sopra. Nel caso in cui entro
il termine predetto non si tengano adunanze del Consiglio,
la risposta è data per iscritto. Se il Consigliere
interessato lo richiede, l'interrogazione e la risposta sono
comunicate al Consiglio, alla prima adunanza, nel corso
della trattazione delle interrogazioni' (articolo 17,
comma 3) chiede se sia possibile eliminare l'ultimo periodo
della norma citata sopprimendo la possibilità per il
consigliere comunale, che ha ricevuto risposta scritta alla
interrogazione dallo stesso formulata, di comunicare, nel
primo consiglio utile, l'oggetto dell'interrogazione e la
relativa risposta.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti
osservazioni.
In via preliminare, si osserva che l'articolo 43, comma 1,
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede che i
consiglieri comunali hanno il diritto di presentare
interrogazioni e mozioni. Il successivo comma 3 stabilisce,
ulteriormente, che il sindaco o gli assessori da esso
delegati 'rispondono, entro 30 giorni, alle
interrogazioni e ad ogni istanza di sindacato ispettivo
presentata dai consiglieri. Le modalità di presentazione di
tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo
statuto e dal regolamento consiliare'.
Si tratta di istituti il cui utilizzo è garantito ai
consiglieri comunali al fine di poter esercitare il proprio
munus publicum. La facoltà di presentare
interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno rientra
tra le funzioni di sindacato ispettivo attribuite dalla
legge agli amministratori locali. Si tratta di istituti
finalizzati a garantire la funzione propria del consigliere
comunale che è quella di verificare che il sindaco e la
giunta esercitino correttamente la loro attività di governo.
Quanto alla disciplina di tali istituti essa è demandata al
regolamento consiliare il quale deve, in particolare,
prevedere 'le modalità di presentazione di tali atti e
delle relative risposte'. Non si rinviene alcun obbligo
normativo a che una interrogazione debba essere,
necessariamente, ed a prescindere da una specifica
indicazione in tal senso contenuta nel regolamento, trattata
in consiglio comunale.
Sul tema si è espresso il Ministero dell'Interno il quale ha
sottolineato la non necessità della trattazione in aula
consiliare. Il parere ministeriale, recita, al riguardo,
che: 'Non si evincono elementi che inducano a configurare
la sussistenza di un obbligo di riscontrare la medesima
interrogazione sia per iscritto, sia nell'aula consiliare;
si potrebbe addirittura pervenire ad ipotizzare la necessità
di una alternatività fra le due modalità, ove si consideri
che nello specifico caso (diverso da quello ricorrente nella
fattispecie in esame) dell'interrogazione urgente,
presentata durante la seduta del consiglio, si prevede che,
ove non vi siano le condizioni per dare immediatamente
risposta, la stessa potrà essere 'inviata entro trenta
giorni o nelle adunanze successive'. Per quanto precede si
ritiene, conclusivamente, che nel caso di specie non sembra
sussistere un obbligo di procedere alla trattazione anche in
aula consiliare dell'interrogazione già riscontrata per
iscritto'. [1]
Tuttavia, considerando il ruolo del consiglio comunale e
nell'ottica di dare conoscenza all'organo collegiale
dell'attività di sindacato ispettivo esercitata dai singoli
consiglieri, si ritiene opportuno che il consiglio sia
informato dell'avvenuta presentazione di una interrogazione
e della risposta eventualmente fornita, secondo modalità
definite nel regolamento.
---------------
[1] Ministero dell'Interno, parere del 14.09.2004. Nello
stesso senso si veda, anche, il parere del 25.05.2012 (25.09.2014
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Commissioni comunali.
La scelta delle modalità con le quali il
comune intende garantire le pari opportunità è demandata
dalla legge all'autonomia normativa dell'ente, il quale può
liberamente decidere di utilizzare gli strumenti ritenuti
più idonei, tra i quali la istituzione di una commissione
consiliare o di una commissione comunale mista, intesa quale
'organismo di pari opportunità'.
È compito, poi, dei regolamenti dettare la disciplina delle
stesse, compresi gli aspetti concernenti le funzioni e la
composizione (che solo nel caso di commissione comunale
mista può prevedere la presenza di soggetti non facenti
parte del consiglio comunale).
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
possibilità di procedere all'accorpamento di due commissioni
comunali esistenti, rispettivamente la 'Commissione pari
opportunità tra uomo e donna' e la 'Commissione
attività sociali, assistenziali ed economiche'.
In particolare, l'Ente vorrebbe mantenere la sola
Commissione pari opportunità ampliandone le funzioni con
alcune attualmente svolte dalla Commissione attività
sociali, assistenziali ed economiche. Specifica, altresì,
che mentre la Commissione pari opportunità è composta di
sole donne, per l'altra Commissione è prevista la presenza
sia di soggetti femminili che maschili.
In via preliminare, si osserva che le commissioni comunali
le quali prevedono la partecipazione, accanto a soggetti
politici, di rappresentanti degli interessi della
collettività, rientrano tra gli organismi di partecipazione
popolare previsti dall'articolo 12, comma 2, della legge
regionale 09.01.2006, n. 1 [1]
e dall'articolo 8 del D.Lgs. 267/2000. Il comma 3 di tale
ultima norma individua nello statuto l'atto normativo nel
quale devono essere previste le forme di consultazione della
popolazione.
L'articolo 12, comma 2, della legge regionale 1/2006,
prevede, poi, in particolare, che lo statuto debba stabilire
'le condizioni per assicurare pari opportunità tra uomo e
donna anche in ordine alla presenza negli organi collegiali
dell'ente'. La scelta delle modalità con le quali il
comune intende garantire le pari opportunità è, pertanto,
demandata dalla legge all'autonomia normativa dell'ente, il
quale può liberamente decidere di utilizzare gli strumenti
ritenuti più idonei, tra i quali la istituzione di una
commissione consiliare o di una commissione comunale mista,
intesa quale 'organismo di pari opportunità'.
È compito, poi, dei regolamenti dettare la disciplina delle
stesse tra cui gli aspetti concernenti le funzioni e la
composizione (che solo nel caso di commissione comunale
mista potrà prevedere la presenza di soggetti non facenti
parte del consiglio comunale).
Con riferimento al quesito posto l'Ente dovrà, pertanto,
valutare la necessità di modificare il proprio regolamento
sul funzionamento della Commissione pari opportunità al fine
di renderlo coerente con le funzioni che alla stessa si
vorrebbero attribuire valutando la congruenza delle stesse
con il tipo di Commissione in oggetto.
Quanto alla composizione si rileva che, in linea generale,
non sussiste alcun divieto a che le Commissioni delle pari
opportunità siano costituite anche da soggetti di sesso
maschile, ferme rimanendo eventuali previsioni contrarie
contenute nel regolamento dell'Ente.
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[1] Tale disposizione, che nella nostra Regione si
applica in luogo dell'articolo 6 TUEL, prevede che lo
statuto stabilisca, tra l'altro, le forme della
partecipazione popolare (17.09.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Partecipazione alle sedute del consiglio comunale da parte
degli amministratori locali. Presentazione di
interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno da parte
dei consiglieri di minoranza.
1) I consiglieri che si collocano nello
spazio riservato al pubblico sono considerati assenti dalla
riunione a tutti gli effetti, compresi quelli relativi ai
diritti previsti dalle norme sullo status degli
amministratori locali; non sono pertanto computabili nel
numero minimo necessario per rendere legale l'adunanza.
2) Ai consiglieri è garantito l'esercizio del diritto di
presentare interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno
al fine di poter esercitare il proprio munus publicum, di
talché pare non consentito introdurre particolari vincoli
all'utilizzo di tali strumenti da parte degli amministratori
locali, che possano tramutarsi in una inammissibile
limitazione del loro diritto. Si ritiene, invece, possibile
regolamentare le modalità di esercizio del diritto di
sindacato ispettivo spettante ai consiglieri, allo scopo di
salvaguardare le esigenze di operatività degli uffici.
Il Comune pone due distinti quesiti afferenti la condotta
dei consiglieri comunali ed, in particolare:
1) premesso che, durante una seduta consiliare, i
consiglieri di minoranza hanno preso posto tra il pubblico e
non già nei posti loro assegnati, chiede di sapere se la
deliberazione assunta possa incorrere in qualche vizio in
considerazione di questa peculiare collocazione degli
stessi. L'Ente, facendo presente che il sindaco ha,
inutilmente, rivolto vari inviti a prendere correttamente
posto negli spazi assegnati, desidera, altresì, sapere quali
ulteriori strumenti possa adottare qualora si ripresenti
tale situazione;
2) atteso il comportamento di alcuni consiglieri consistente
nella presentazione di una moltitudine di interrogazioni,
interpellanze ed ordini del giorno, molti dei quali
caratterizzati da ripetitività, l'Ente desidera sapere se
tali condotte possano essere fonte di responsabilità
erariale.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti
considerazioni.
Con riferimento alla prima questione posta, si osserva che
l'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267, prevede che il funzionamento dei consigli sia
disciplinato dal relativo regolamento, nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto. Al riguardo, l'articolo
14, comma 1, del regolamento per il funzionamento del
consiglio comunale dell'Ente prevede che: 'I Consiglieri
parlano dal posto loro assegnato, rivolgendosi sempre al
Presidente'.
L'ANCI, in un proprio parere, ha affermato che: 'I
Consiglieri che [...] si collocano nello spazio riservato al
pubblico sono considerati assenti dalla riunione a tutti gli
effetti, compresi quelli relativi ai diritti previsti dalle
norme sullo status. Non sono inoltre computabili nel numero
minimo necessario per rendere legale l'adunanza'.
Dalle considerazioni sopra esposte segue che la
deliberazione assunta nel corso di una seduta nella quale
tutti i consiglieri di minoranza hanno preso parte tra il
pubblico e non già nei posti loro assegnati potrà
considerarsi validamente assunta qualora, sulla base del
numero dei consiglieri presenti nell'apposito settore, siano
stati raggiunti i quorum costitutivo e deliberativo previsti
dalla normativa dell'Ente.
Quanto agli strumenti adottabili nel caso in cui si
ripresenti la situazione prospettata si osserva che
l'articolo 43, comma 6, del TUEL prevede che: 'Lo statuto
stabilisce i casi di decadenza per la mancata partecipazione
alle sedute e le relative procedure, garantendo il diritto
del consigliere a far valere le cause giustificative'. In
attuazione di tale norma, lo statuto dell'Ente, all'articolo
21, dispone che si abbia la decadenza dalla carica di
consigliere comunale 'per mancato intervento, senza
giustificati motivi, ad una intera sessione ordinaria'.
La giurisprudenza ha chiarito che la decadenza dalla carica
di consigliere appartiene alla categoria di quelle
limitazioni all'esercizio di un diritto al munus publicum
che devono essere interpretate restrittivamente.
Segue che, qualora si verificasse la condizione prevista
nello statuto, il consiglio comunale dovrebbe, comunque,
valutare i motivi posti alla base di un tale astensionismo
dando ai consiglieri interessati la completa facoltà di far
valere le cause giustificative delle assenze al fine di
mettere in condizione il Consiglio di escludere che le
assenze dalle sedute siano motivate da 'un atteggiamento
di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli
impegni con l'incarico pubblico elettivo'.
Il Consiglio di Stato ha affermato, in proposito, che spetta
al consigliere nei confronti del quale è stato instaurato il
procedimento di decadenza fornire ragionevoli
giustificazioni dell'assenza non rilevando, ad esempio, il
generico richiamo ad una c.d. protesta politica, dichiarata
soltanto a posteriori che, in quanto appunto non esternata
in anticipo, sia tale da 'impedire qualsiasi accertamento
della fondatezza, serietà e rilevanza del motivo'.
Il Ministero dell'Interno, intervenuto sull'argomento, ha, a
tale proposito, ulteriormente sostenuto che: 'Si osserva,
al riguardo, che pur non essendo necessaria, secondo una
consolidata giurisprudenza, la preventiva giustificazione
delle assenze, sarebbe buona consuetudine, ove possibile,
giustificare l'assenza prima della seduta alla quale non si
può partecipare, consentendo in tal modo all'adunanza di
conoscerne i motivi che, una volta verbalizzati, potrebbero
valere da causa giustificativa'.
Passando a trattare della seconda questione posta, si
osserva che l'articolo 43, comma 1, del D.Lgs. 267/2000
prevede che i consiglieri comunali hanno il diritto di
presentare interrogazioni e mozioni. Il successivo comma 3
stabilisce, ulteriormente, che il sindaco o gli assessori da
esso delegati 'rispondono, entro 30 giorni, alle
interrogazioni e ad ogni istanza di sindacato ispettivo
presentata dai consiglieri. Le modalità di presentazione di
tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo
statuto e dal regolamento consiliare'.
Si tratta di istituti il cui esercizio è garantito ai
consiglieri comunali al fine di poter esercitare il proprio
munus publicum di talché pare non ammissibile
introdurre particolari vincoli all'utilizzo di tali
strumenti da parte degli amministratori locali che
potrebbero tramutarsi in una inammissibile limitazione del
loro diritto.
Si osserva, in particolare, come la facoltà di presentare
interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno rientra
tra le funzioni di sindacato ispettivo attribuite dalla
legge agli amministratori locali. Si tratta di istituti
finalizzati a garantire la funzione propria del consigliere
comunale che è quella di verificare che il sindaco e la
giunta esercitino correttamente la loro attività di governo.
Come più sopra già affermato, ogni limitazione all'esercizio
di tale diritto dovrà essere attentamente valutata e
motivata, al fine di dettare una disciplina sulle modalità
attuative di tale diritto che non restringa in modo
ingiustificato l'utilizzo di strumenti che sono
istituzionalmente riconosciuti ai consiglieri comunali.
Si rileva, comunque, che il diritto dei consiglieri in
oggetto non può essere esercitato con modalità tali da
pregiudicare lo svolgimento dell'attività amministrativa e
l'ordinario funzionamento delle strutture burocratiche
dell'ente, in modo da assurgere a comportamento di carattere
emulativo e paralizzante dell'attività dello stesso. Di
conseguenza, si reputa che, allo scopo di salvaguardare le
esigenze di operatività degli uffici, sia possibile
regolamentare le modalità di esercizio del diritto di
sindacato ispettivo spettante ai consiglieri.
Una forma di regolamentazione ammissibile si ritiene possa
riguardare le istanze caratterizzate da ripetitività
rispetto ad altre già presentate a vicina distanza di tempo.
A tal fine l'Ente potrebbe modificare il proprio regolamento
per il funzionamento del consiglio comunale integrando, ad
esempio, la previsione di cui all'articolo 28 afferente il 'rigetto
delle interrogazioni, interpellanze, mozioni e ordini del
giorno' e inserendo, quale ulteriore ipotesi di rigetto,
il caso di presentazione di istanze meramente ripetitive.
Si ritiene, infine, che l'esercizio del diritto in
riferimento, nei termini sopra riportati, difficilmente
possa comportare l'insorgere di responsabilità erariale da
segnalare alla Corte dei Conti (16.09.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rimborso spese legali a dipendente pubblico nel caso di
archiviazione per prescrizione da parte del G.I.P. (parere
04.06.2014 n. 240745 di prot. - Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 2/2014). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sulle procedure concorsuali nella p.A. (parere
15.04.2014 n. 169698 di prot. - Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 2/2014). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Sulla quantificazione del danno all'immagine della P.A. per
reato di concussione.
1. L’art. 1, comma 1-sexies della L. n.
20/1994, introdotto dall’art. 1, comma 62, della L. n.
190/2012, il quale prevede che il danno all’immagine si
presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma
di denaro o del valore patrimoniale o di altra utilità
percepita dal dipendente, è norma sostanziale e, pertanto,
non può trovare applicazione per i danni erariali
realizzatisi prima dell'entrata in vigore di quest'ultima
legge.
2. Qualora, in caso di concussione, l’Amministrazione abbia
rimosso il dipendente dalle sue funzioni entro pochi giorni
dalla notizia del reato, lo strepitus fori causativo di
danno all’immagine è stato limitato e circoscritto; pertanto
esso va quantificato equitativamente nella metà della somma
illecitamente percepita dal dipendente
(massima tratta da
www.lexitalia.it).
---------------
3. Fondata –ma, come si vedrà nel prosieguo, priva di
effetti pratici– è la deduzione difensiva secondo la quale,
mentre potrebbe essere causativa di danno all’immagine la
condotta criminosa di cui all’art. 317 c.p. (concussione)
non altrettanto potrebbe dirsi dell’imputazione di cui
all’art. 615-ter, comma 2, n. 1 c.p. (accesso abusivo ad un
sistema informatico o telematico). In effetti, l’art. 30-ter
del citato D.L. n. 78/2009, nel ridefinire l’ipotesi del
danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, ha
stabilito che “le Procure della Corte dei conti esercitano
l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli
casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27.03.2001, n. 97”.
Tale ultima disposizione normativa stabilisce
che “la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei
confronti dei dipendenti indicati nell’art. 3 per i delitti
contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del
titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata
al competente procuratore regionale della Corte dei conti
affinché promuova entro 30 giorni l’eventuale procedimento
di responsabilità per danno erariale nei confronti del
condannato”. Si tratta di norma che, peraltro, ha superato
il vaglio della Corte Costituzionale la quale, con sentenza
n. 355/2010, ha dichiarato inammissibili le relative
questioni di costituzionalità.
Alla stregua di siffatto quadro normativo deve essere
disattesa la giurisprudenza minoritaria di questa Corte
(Sez. Toscana, n. 332/2012) che ha continuato ad ammettere
il danno all’immagine anche per i reati non contemplati nel
citato art. 7, non solo perché in contrasto con
l’interpretazione che del citato art. 17, comma 30-ter, del
D.L. n. 78/2009 ha dato il giudice delle leggi, ma anche per
il chiaro dettato normativo della stessa disposizione, alla
quale non potrebbe essere attribuito alcun altro significato
ragionevole.
Mentre dunque si deve inferire che la presente azione
erariale può essere esperita unicamente in relazione alla
condanna per l’art. 317 c.p. e non anche 615-ter, comma 2,
n. 1, come già anticipato, la questione è sostanzialmente
priva di effetto pratico in quanto, come emergerà più
ampiamente in sede di disamina della prova e quantificazione
del danno, il clamor fori conseguente ai fatti delittuosi di
che trattasi è derivato essenzialmente dalla concussione,
mentre l’illecita introduzione nei sistemi informatici da
parte del M. è stata strumentale alla consumazione del
primo reato ed intimamente connessa con esso.
4. Come è andato emergendo nella parte in “fatto”, la difesa
del convenuto ha contestato i criteri di quantificazione del
danno all’immagine, i quali sono stati tratti in
applicazione dell’art. 1, comma 62, della L. n. 190/2012:
tale norma non sarebbe, infatti, applicabile al caso
concreto, giacché norma sostanziale, non applicabile per i
fatti di causa occorsi prima della sua entrata in vigore.
L’eccezione è fondata. Infatti, per “norma processuale” deve
intendersi una disposizione che regoli le fasi processuali e
che, entrando in vigore nel corso del processo medesimo,
trovi immediata applicazione, nel senso che è destinata a
regolare le fasi non ancora compiute, rimodulandole,
implementandole o, addirittura, escludendole. Norme
tipicamente processuali sono, dunque, quelle che attengono
ai modi ed ai termini per l’assunzione delle prove (ad
esempio, quelle contenute nel Libro II, Titolo I, Capo II,
Sezione III del Codice di procedura civile e, segnatamente,
quelle concernenti l’assunzione e l’esibizione delle prove
di cui agli artt. 202 e ss. c.p.c.); per contro appartengono
al diritto sostanziale quelle che attengono all’efficacia ed
ai limiti della loro ammissibilità, ai vincoli inerenti alla
loro disponibilità ed al loro eventuale valore legale (Cass.
civ. Sez. III, n. 2879/1979).
Costituiscono pertanto norme sostanziali quelle che
concernono la quantificazione del danno da inadempimento e
da illecito (artt. 1223, 1226, 1227 e 2056 c.c.) non tanto
perché ricomprese nel codice civile, quanto perché attinenti
alla misura degli effetti dannosi dell’inadempimento o
dell’illecito extracontrattuale e per le quali vige il
principio generale dell’irretroattività della legge (art. 11,
comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile).
Nello specifico, per quel che interessa, è sicuramente norma
di diritto sostanziale l’art. 1226 c.c., in tema di
valutazione equitativa del danno da inadempimento, di cui
l’art. 1, comma 62, della L. n. 190/2012 –nello stabilire
che il danno all’immagine si presume, salvo prova contraria,
pari al doppio della somma di denaro o del valore
patrimoniale o di altra utilità illecitamente percepita dal
dipendente- costituisce un’applicazione.
Non soccorrendo dunque detto criterio di quantificazione del
danno all’immagine –il quale, va detto incidentalmente, ha
carattere di presunzione semplice– non può che farsi
ricorso ai criteri adottati dalla giurisprudenza di questa
Corte, per determinare l’entità del clamor fori, tra i quali
vanno principalmente annoverati: - la funzione rivestita dal
convenuto in seno all’Amministrazione di appartenenza;
l’ammontare della somma oggetto di concussione; - la
sussistenza di uno strascico di ricorsi amministrativi o
giurisdizionali contro eventuali provvedimenti sanzionatori;
- le eventuali spese sostenute dall’Amministrazione per il
ripristino della funzione lesa dall’atto delittuoso (Sez. I
Appello, n. 976/2013 e n. 494/2010; Sez. II Appello, n.
461/2010; Sez. III Appello, n. 132/2011).
Peraltro, solo per
tale ultima ipotesi di danno all’immagine, il risarcimento
può essere puntualmente quantificato (ad esempio, nella
misura delle spese sostenute dall’Amministrazione per
un’inserzione pubblicitaria di rettifica di una notizia
infondata), mentre negli altri casi esso è soggetto ad una
necessaria valutazione equitativa.
Ebbene, riguardando i fatti di causa alla luce dai predetti
indicatori, emerge che il danno all’immagine conseguito al
reato di concussione consumato dal M., sebbene
sicuramente sussistente, non ha assunto i caratteri di
gravità individuati dal Pubblico Ministero.
Con riguardo, infatti, al clamor fori inteso come
propagazione sociale del fatto illecito, risponde al vero il
rilievo difensivo secondo il quale l’Amministrazione di
appartenenza ha immediatamente sanzionato il convenuto col
licenziamento (in data 20.11.2011, sedici giorni dopo
il suo arresto), dandone tempestiva comunicazione alla
stampa e limitando così gli effetti della negativa risonanza
sociale che l’episodio delittuoso aveva sollevato. Né, a
tale riguardo, può rilevare che siffatto effetto riduttivo
del danno all’immagine sia da attribuirsi proprio
all’Amministrazione danneggiata e non ad un’azione del
convenuto: ciò in ragione della natura risarcitoria e non
sanzionatoria del danno di cui si discute, del quale deve
essere quantificata l’effettiva portata lesiva.
A ciò aggiungasi –come correttamente rilevato dalla difesa
convenuta– che il M. ha mostrato acquiescenza ai
provvedimenti sanzionatori inflittigli dall’Amministrazione,
con ciò sicuramente contribuendo a sopìre il propagarsi
della risonanza sociale del reato commesso.
Per quanto concerne, invece, la posizione funzionale del
convenuto, la Procura regionale non ha contestato che egli
non rivestisse alcuna posizione di rilievo in seno
all’Amministrazione di appartenenza (dipendente di II area
F3) e che egli abbia agito nell’ambito di un limitato
segmento di competenza ed anzi travalicando i limiti stessi
delle sue funzioni, giacché è riuscito a perpetrare il reato
concussivo con l’ausilio dell’accesso abusivo agli strumenti
informatici in dotazione all’Amministrazione finanziaria:
sicché è stato scongiurato il sopravvenire del convincimento
sociale che episodi criminosi di tale fatta fossero radicati
o trovassero copertura negli alti vertici burocratici
dell’apparato amministrativo.
In ordine, infine, al profitto conseguito dal convenuto, la
somma che egli ha illecitamente conseguito con la propria
attività delittuosa non è stata particolarmente rilevante (a
fronte di analoghi episodi), ma nemmeno irrisoria o
trascurabile, di talché si può ritenere che tale specifico
elemento assuma valenza neutra nella determinazione del
danno all’immagine.
In definitiva, dopo avere soppesato tutti i predetti
fattori, può trarsi la conclusione che la negatività
dell’impatto sociale derivato dall’episodio criminoso
occorso si sia in larga parte riversata proprio sulla
persona del M. e solo parzialmente nei confronti
dell’Amministrazione finanziaria.
Alla stregua di tali considerazioni ed attingendo alla
possibilità di quantificazione in via equitativa,
è di
giustizia quantificare il danno all’immagine nella metà
della somma oggetto del reato per cui è occorsa condanna
penale; somma che va rivalutata sin dalla data in cui il
M. è stato tratto in arresto, momento che segna
l’esordio del clamor fori, alla stregua di quanto più sopra
argomentato.
5. In via ulteriormente subordinata la difesa ha dedotto
l’improcedibilità dell’azione per il principio del ne bis in
idem, dal momento che il Tribunale di Cagliari, con
ordinanza del 09.12.2013, ha confiscato al convenuto la
somma di € 39.950,00 ai sensi dell’art. 322-ter c.p. Tale
misura, infatti, avrebbe carattere prevalentemente
sanzionatorio, al pari della condanna conseguente al danno
all’immagine; per cui –laddove il presente giudizio si
concludesse con una sentenza di condanna- vi sarebbe una
duplicazione dell’effetto sanzionatorio già insito nella
confisca.
La deduzione difensiva non può essere condivisa.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza della
Cassazione, la confisca per equivalente dei beni e del
denaro che hanno costituito il profitto o il prezzo del
reato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 322-ter e
640-quater c.p., costituisce una misura di sicurezza
patrimoniale, che assume carattere preventivo e
sanzionatorio: essa tende, infatti, a prevenire la
commissione di nuovi reati mediante l’acquisizione a favore
dello Stato di beni che perpetuerebbero la tendenza a
delinquere (Cass. pen. Sez. III, n. 18311/2014 e Sez. II, n.
5553/2014).
E tale funzione eminentemente sanzionatoria è
stata rilevata anche dalla giurisprudenza di questa Corte,
la quale ha affermato come detto strumento non ha la natura
risarcitoria tipica della condanna in sede
amministrativo-contabile, non risolvendosi automaticamente
in un risarcimento per l’Amministrazione danneggiata: tale
misura può, infatti, assumere, come estrema finalità, una
forma di ristoro del soggetto privato danneggiato, per il
tramite di appositi fondi all’uopo costituiti (Sez. Lazio,
n. 1463 del 2004; Sez. Umbria, n. 76 del 2008).
Ne consegue,
dunque, che la presente sentenza di condanna non costituisce
una duplicazione della disposta confisca
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna,
sentenza 02.09.2014 n. 173). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Le Sezioni Riunite, pronunciandosi -oltre
che sull’art. 92, comma 5, dlgs 163/2006- sul disposto dell’art. 1,
comma 208, l. 266/2005 (a mente del quale le somme
finalizzate alla corresponsione di compensi professionali
dovuti al personale dell’Avvocatura interna delle pubbliche
amministrazioni sulla base di specifiche disposizioni
contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri
riflessi a carico del datore di lavoro),
hanno precisato che
l’espressione “oneri riflessi”, contenuta nella
disposizione, non comprende l’IRAP che costituisce un onere
fiscale a carico esclusivo dell’amministrazione.
In particolare, le Sezioni Riunite osservano che “…..anche
l’interpretazione sistematica delle disposizioni all’esame è
confermativa della soluzione che esclude la riconducibilità
dell’IRAP nell’ambito degli “oneri riflessi”. Sia la Corte
dei conti (nelle deliberazioni citate), che il Consiglio di
Stato (adunanza plenaria sent. n. 32 del 1994) ritengono che
i compensi professionali da corrispondere a titolo di
onorari ai dipendenti comunali appartenenti all’Avvocatura
interna, oltre che al personale tecnico, costituiscono parte
della retribuzione; sicché, per detti soggetti, non si
realizzano i presupposti per l’applicazione dell’IRAP, dato
che tali soggetti sono privi di autonoma
organizzazione….Infatti, il presupposto impositivo dell’IRAP
si realizza in capo all’ente che eroga il compenso di lavoro
dipendente, il quale rappresenta il soggetto passivo
dell’imposta, cioè colui che, nella valutazione del
legislatore, in quanto titolare di detta organizzazione è
tenuto a concorrere alle spese pubbliche, ai fini di detto
tributo; conseguentemente l’onere fiscale non può gravare
sul lavoratore dipendente in relazione a compensi di natura
retributiva (Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 123/E del
02.04.2008) bensì unicamente sul datore di lavoro”.
Come osservato dalla Sezione regionale per il controllo per
l’Umbria, “Il principio di diritto affermato dalla SS.RR.
comporta, pertanto, che l’inclusione dell’Irap nel fondo
disponibile per il pagamento delle competenze all’avvocatura
interna rappresenta un fatto puramente contabile che non
incide assolutamente sulla liquidazione dei compensi
professionali. Ciò nel senso che non vi è alcuna
decurtazione dei compensi professionali degli avvocati
interni, semmai una riduzione (a monte), e in proporzione
all’ammontare Irap, delle risorse che, in base alla
regolamentazione interna, sono distribuibili tra detti
dipendenti a titolo di compensi professionali. E’ quanto
stabilito dalle SS.RR nella deliberazione anzi citata,
laddove si osserva che “le disponibilità di bilancio da
destinare ai “fondi” da ripartire non possono che essere
quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili)
a coprire gli oneri che gravano sull’amministrazione a
titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde
interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro
disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il
principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81,
quarto comma, Cost.)".
Di conseguenza: “nel calcolo del fondo di incentivazione
destinato (o destinabile) agli avvocati interni deve tenersi
conto anche della relativa quota IRAP, il cui importo
l’Amministrazione sarà tenuto ad accantonare per far fronte
agli obblighi tributari…… Invero, il preventivo
accantonamento, nell’ambito del fondo di incentivazione,
delle somme dovute dall’ente datore di lavoro per far fronte
agli obblighi tributari (ivi compresa l’Irap) relativi ai
compensi professionali spettanti agli avvocati interni,
comporta il divieto di operare qualsiasi trattenuta (per la
quota dovuta dall’ente a titolo di Irap o di altri tributi)
in sede di liquidazione dei compensi medesimi, avendo l’ente
già garantito adeguata copertura finanziaria agli obblighi
in questione, che pertanto gravano definitivamente sul
bilancio dell’ente.”
---------------
Il Sindaco del Comune di Bari formula un articolato parere
in merito ai compensi professionali ed alle spese di
trasferta spettanti agli avvocati civici, in applicazione
delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 457, l. 147/2013 ed
all’art. 6, comma 12, l. 78/2010 conv. in l. 122/2010, nonché
in merito all’assoggettamento dei menzionati compensi ai
vincoli di cui agli artt. 1, comma 557, l. 296/2006 e 9, comma
2-bis, d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010.
In particolare, il Sindaco formula i seguenti quesiti:
1)
se, in relazione alla disposizione di cui all’art. 1, comma
457, l. 147/2013 (a mente della quale “A decorrere dal
01.01.2014 e fino al 31.12.2016, i compensi
professionali liquidati, esclusi, nella misura del 50 per
cento, quelli a carico della controparte, a seguito di
sentenza favorevole per le pubbliche amministrazioni ai
sensi del regio decreto-legge 27.11.1933, n. 1578,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22.01.1934,
n. 36, o di altre analoghe disposizioni legislative o
contrattuali, in favore dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, ivi incluso il personale dell'Avvocatura
dello Stato, sono corrisposti nella misura del 75 per cento.
Le somme provenienti dalle riduzioni di spesa di cui al
presente comma sono versate annualmente dagli enti e dalle
amministrazioni dotate di autonomia finanziaria ad apposito
capitolo di bilancio dello Stato. La disposizione di cui al
precedente periodo non si applica agli enti territoriali e
agli enti, di competenza regionale o delle province autonome
di Trento e di Bolzano, del Servizio sanitario nazionale”)
la decurtazione ivi prevista vada operata con il criterio
della competenza finanziaria, sui compensi che, nel triennio
2014-2016, verranno a scadenza e saranno liquidati
dall’amministrazione comunale con proprio atto deliberativo,
in base ai presupposti di cui agli artt. 37 CCNL 23.12.1999
e 27 CCNL 14.09.2000 ed al Regolamento Comunale sui compensi
professionali ai legali in servizio presso l’avvocatura
(deliberazioni di G.C. n. 403 del 15.05.2003 e n. 86 del
09.02.2006) oppure se il termine “liquidati” contenuto nel
testo normativo vada inteso con riferimento al provvedimento
giudiziale, con la conseguenza che la norma si applicherebbe
solo ai compensi liquidati dal giudice in base a sentenze
depositate dopo il 01.01.2014.
Chiede, altresì, se le
somme provenienti dalle riduzioni di spesa derivati dalla
disposizione in esame possano confluire nel fondo per il
trattamento accessorio per il personale dipendente,
analogamente a quanto previsto dall’art. 61, co. 9, d.l.
112/2008 (collaudi ed arbitrati) oppure tali somme debbano
essere acquisite al bilancio comunale, in analogia alla
disciplina dettata per il bilancio dello Stato.
Chiede,
infine, se l’onere per il pagamento dell’IRAP afferente ai
compensi per gli avvocati interni debba essere finanziato a
valere sui compensi liquidati dal giudice, non potendo
costituire un onere aggiuntivo per l’ente, oppure debba
calcolarsi sui compensi liquidati dal giudice e, quindi, con
onere a carico dell’Ente;
2)
se, in relazione al disposto dell’art. 6, comma 12, d.l.
78/2010 (“A decorrere dall'anno 2011 le amministrazioni
pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto
nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3
dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196,
incluse le autorità indipendenti, non possono effettuare
spese per missioni, anche all'estero, con esclusione delle
missioni internazionali di pace e delle Forze armate, delle
missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del
personale di magistratura, nonché di quelle strettamente
connesse ad accordi internazionali ovvero indispensabili per
assicurare la partecipazione a riunioni presso enti e
organismi internazionali o comunitari, nonché con
investitori istituzionali necessari alla gestione del debito
pubblico, per un ammontare superiore al 50 per cento della
spesa sostenuta nell'anno 2009. Gli atti e i contratti posti
in essere in violazione della disposizione contenuta nel
primo periodo del presente comma costituiscono illecito
disciplinare e determinano responsabilità erariale. Il
limite di spesa stabilito dal presente comma può essere
superato in casi eccezionali, previa adozione di un motivato
provvedimento adottato dall'organo di vertice
dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli
organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente”)
le spese di trasferta degli avvocati civici per la difesa
delle dell’amministrazione comunale presso i vari distretti
di Corte d’Appello abbiano natura giuridica di “spese di
missione” con assoggettamento al limite di cui all’art. 6, co.
12 oppure, trattandosi di spese obbligatorie da assumere per
la regolare costituzione in giudizio e patrocinio dell’Ente,
possano essere considerati oneri e spese accessorie per
l’attività professionale svolta e, di conseguenza,
suscettibili di essere disciplinate (sul piano di limiti,
presupposti e modalità di liquidazione) dal Regolamento
Comunale sui compensi professionali ai legali in servizio
presso l’avvocatura con assimilazione contabile alle spese
di lite;
3)
se, in relazione al disposto dell’art. 1, comma 557, l.
296/2006 (“Ai fini del concorso delle autonomie regionali e
locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, gli
enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la
riduzione delle spese di personale, al lordo degli oneri
riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, con
esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali,
garantendo il contenimento della dinamica retributiva e
occupazionale, con azioni da modulare nell'ambito della
propria autonomia e rivolte, in termini di principio, ai
seguenti ambiti prioritari di intervento: a) riduzione
dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto
al complesso delle spese correnti, attraverso parziale
reintegrazione dei cessati e contenimento della spesa per il
lavoro flessibile; b) razionalizzazione e snellimento delle
strutture burocratico-amministrative, anche attraverso
accorpamenti di uffici con l'obiettivo di ridurre
l'incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali in
organici; c) contenimento delle dinamiche di crescita della
contrattazione integrativa, tenuto anche conto delle
corrispondenti disposizioni dettate per le amministrazioni
statali”) gli incentivi professionali ex art. 27 CCNL
23.12.1999 e art. 37 CCNL 14.09.2000 siano da escludere
totalmente dal computo ai fini del tetto di spesa del
personale oppure, essendo spese autofinanziate solo quelle
derivati da cause con vittoria di spese a carico della
controparte, nel calcolo della spesa del personale vadano
escluse solo queste ultime, mentre vi dovrebbero rientrare i
compensi dovuti con riferimento a sentenze favorevoli con
spese compensate, essendo queste a carico dell’Ente;
4)
se, in relazione al disposto dell’art. 9, comma 2-bis, d.l.
78/10 conv. il l. 122/2010 (“A decorrere dal 01.01.2011
e sino al 31.12.2014 l'ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il
corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque,
automaticamente ridotto in misura proporzionale alla
riduzione del personale in servizio”) nel calcolo del
limite del fondo per la contrattazione integrativa, siano da
escludere totalmente i compensi dovuti all’avvocatura
interna oppure l’esclusione vada circoscritta ai soli
compensi derivati da cause con vittoria di spese a carico
della controparte, trattandosi di spese eterofinanziate,
mentre rimangono a carico del bilancio dell’Ente i compensi
relativi a sentenze favorevoli con compensazione di spese.
...
Passando al merito della richiesta, il Comune istante pone
una serie di questioni relative all’interpretazione di
alcune disposizioni che dettano vincoli e limiti in materia
di compensi professionali spettanti all’avvocatura interna
e, più in generale, vincoli e limiti in materia di spesa del
personale.
Con il primo quesito, l’Ente chiede se la decurtazione
prevista dall’art. 1, comma 457, l. 147/2013 (legge di
stabilità 2014) operi con riferimento ai compensi che, nel
triennio 2014-2016, verranno a scadenza e saranno liquidati
dall’amministrazione comunale con proprio atto deliberativo
-sulla base di quanto previsto dagli artt. 37 CCNL
23.12.1999 (area dirigenza) e 27 CCNL 14.09.2000 (personale
del comparto) nonché dal regolamento comunale sui compensi
professionali ai legali dell’avvocatura interna
(deliberazioni di GC n. 403 del 15.03.2003 e n. 86 del
9.02.2006)- oppure operi con riferimento ai compensi
liquidati dal giudice in base a sentenze depositate
successivamente all’entrata in vigore della disposizione.
L’art. 1, comma 457, legge di stabilità 2014 prevede, in
un’ottica di risparmio di spesa, che, per il triennio
2014-2016, le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs.
165/2001, dotate di personale di avvocatura interna,
corrispondano nella misura del 75% “i compensi professionali
liquidati, esclusi, nella misura del 50%, quelli a carico
della controparte, a seguito di sentenza favorevole per le
pubbliche amministrazioni ai sensi del regio decreto-legge
27.11.1933 n. 1578, convertito, con modificazioni,
dalla legge 22.01.1934 n. 36, o di altre analoghe
disposizioni legislative o contrattuali”.
La disposizione
prevede, altresì, che “Le somme provenienti dalle riduzioni
di spesa di cui al presente comma sono versate annualmente
dagli enti e dalle amministrazioni dotate di autonomia
finanziaria ad apposito capitolo di bilancio dello Stato”.
Quest’ultima disposizione ha un ambito si applicazione
espressamente circoscritto alle sole amministrazioni
statali, essendo previsto che “La disposizione di cui al
precedente periodo non si applica agli enti territoriali e
agli enti, di competenza regionale o delle province autonome
di Trento e di Bolzano, del Servizio sanitario nazionale”.
Ciò posto, in via preliminare occorre precisare che il
rinvio, contenuto nella disposizione in esame, alla legge 22.01.1934 n. 36 deve essere inteso come relativo alla
nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense,
introdotta con legge del 31.12.2012 n. 247, in vigore
dall’01.02.2013 (a cui si affiancano l’abrogazione del
sistema tariffario di determinazione dei compensi
dell’avvocatura operata con d.l. 24.01.2012 n. 1 conv.
in l. 24.03.2012 n. 27 nonché la previsione introdotta
con d.m. 140/2012 di determinazione dei parametri per la
liquidazione giudiziale dei compensi), trattandosi di un
rinvio c.d. “mobile” o “recettizio”, come si desume dal
riferimento alle altre “analoghe disposizioni legislative e
contrattuali” che appalesa l’intenzione del legislatore di
richiamarsi non tanto e non solo al singolo testo di legge,
ma all’intero corpus disciplinante l’ordinamento della
professione forense.
Passando all’esame del quesito avanzato dal Comune, la
disposizione in esame è suscettibile di due diverse
interpretazioni, potendo il termine “liquidati” essere
riferito sia ai compensi professionali pagati
dall’amministrazione nel triennio di interesse (01.01.2014-31.12.2016), a prescindere dalla data di deposito
della sentenza favorevole (e, quindi, anche in relazione a
sentenze pubblicate prima dell’entrata in vigore della
legge), sia ai compensi liquidati dal giudice nell’arco
triennale di riferimento, con la conseguenza che- stante
l’irretroattività della disposizione ai sensi dell’art. 11 disp. prel. c.c. - rimarrebbero esclusi dalla decurtazione
le somme dovute in base a sentenza depositate prima del
01.01.2014.
A parere di questa Sezione, in assenza di espresse
indicazioni legislative, l’interpretazione preferibile è
quella che ancora il termine “liquidati” al provvedimento
giudiziale, atteso che spetta al giudice il potere di
liquidazione delle spese in sentenza, mentre
l’amministrazione procede alla corresponsione delle somme
già in precedenza liquidate. A norma dell’art 91 c.p.c.,
infatti, “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo
davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso
delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida
l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”, mentre, in
base al disposto del successivo art. 92 c.p.c. “Se vi è
soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed
eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella
motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per
intero, le spese tra le parti”.
La liquidazione delle spese processuali, così come la
compensazione delle stesse, è espressione di un potere
discrezionale del giudice, insindacabile in sede di
legittimità, salvo i casi di violazione del principio della
soccombenza (cfr., tra le altre, Cass., sez. VI, ord.
7654/2013, Cass., sez I, n. 14542/2011 e C.d.S, sez. VI ,n.
7581/2005, secondo cui la statuizione del giudice prime cure
sulle spese sulle spese e sugli onorari di giudizio
costituisce espressione di un ampio potere discrezionale).
A conferma di quanto sopra, si osserva che sia l’art. 37 CCNL
23.12.1999 che l’art. 27 CCNL 14.09.2000, nel riferirsi alla
disciplina dei compensi spettanti all’avvocatura interna,
prevedono espressamente che gli enti locali procedano alla
mera corresponsione dei compensi, già liquidati dal giudice
in sentenza: “Gli enti provvisti di Avvocatura costituita
secondo i rispettivi ordinamenti disciplinano la
corresponsione dei compensi professionali, dovuti a seguito
di sentenza favorevole all’ente, secondo i principi di cui
al regio decreto legge 27.11.1933 n. 1578 valutando
l’eventuale esclusione, totale o parziale, dei dirigenti
interessati, dalla erogazione della retribuzione di
risultato”.
Siffatta interpretazione risulta, inoltre, suffragata da
quanto sancito dall’art. 152-bis disp. att c.p.c. (introdotto
dall’art 4 comma 42 l. 183/11, legge di stabilità 2013) che,
sotto la rubrica “liquidazione di spese processuali”,
dispone: “Nelle liquidazioni delle spese di cui all'art. 91
del codice di procedura civile a favore delle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, se assistite da propri dipendenti ai sensi
dell'articolo 417-bis del codice di procedura civile, si
applica la tariffa vigente per gli avvocati, con la
riduzione del 20 per cento degli onorari di avvocato ivi
previsti”, con ciò confermando che la liquidazione a favore
della parte vittoriosa trova la propria base normativa
nell’art. 91 c.p.c, che disciplina il potere giudiziale di
liquidazione.
In assenza di precise indicazione ad opera del legislatore,
si deve, pertanto, preferire un’interpretazione della
disposizione coerente con il sistema, con la conseguenza
che, essendo la liquidazione delle spese un tipico
potere/dovere che il giudice esercita in sentenza, deve
ritenersi che la decurtazione riguardi solo i compensi
liquidati con sentenze depositate dopo il 01.01.2014, mentre
rimangono esclusi i compensi liquidati con sentenze
antecedenti, anche se corrisposti dall’ente in epoca
successiva al sopra menzionato termine.
Il quesito posto Comune di Bari in merito
all’interpretazione dell’art. 1, comma 457, l. 147/2013 si
articola, inoltre, in due ulteriori sotto-quesiti, essendo
richiesto a questa Sezione:
a) se le somme provenienti dalle riduzioni di spesa possano
confluire nel fondo per il trattamento accessorio per il
personale dipendente, analogamente a quanto previsto
dall’art. 61, comma 9, d.l. 112/2008 in materia di collaudi ed
arbitrati oppure se tali somme debbano essere acquisite al
bilancio comunale in analogia con la disciplina dettata per
il bilancio dello Stato;
b) se l’onere per il pagamento dell’IRAP afferente ai
compensi per gli avvocati interni debba essere finanziato a
valere sui compensi liquidati dal giudice, non potendo
costituire un onere aggiuntivo per l’Ente, oppure debba
calcolarsi sui compensi liquidati dal giudice e, quindi, con
onere a carico dell’Ente.
Quanto al profilo sub a), l’art. 1, comma 457, dopo aver
previsto che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa
così disposte debbano essere versate annualmente dagli enti
e dalle amministrazioni dotate di autonomia finanziaria ad
apposito capitolo di bilancio dello Stato, espressamente
esclude siffatto obbligo con riferimento, tra l’altro, agli
enti territoriali. L’esclusione deve essere intesa,
logicamente, nel senso che le risorse di cui sopra vengono
trattenute nel bilancio dell’Ente.
Per contro, non sembra possibile far confluire le risorse in
questione nel fondo per il trattamento accessorio del
personale dipendente poiché, contrariamente a quanto
disposto dall’art. 61, co. 9, d.l. 112/2008 (ove si legge
espressamente: “il predetto importo è riassegnato al fondo
di amministrazione per il finanziamento del trattamento
economico accessorio dei dirigenti”), siffatta
finalizzazione non risulta prevista da alcuna disposizione
di legge (cfr. art. 15, comma 1, lett. k, CCNL 01.04.1999 e
Sezioni Riunite n. 51/CONTR/2011, paragrafo 3 della
motivazione; in tal senso, anche l’Aran-Ral1047 orientamenti
applicativi- che esclude dal campo di applicazione dell’art.
15, lett. k, del CCNL 01.04.1999 le risorse destinate al
finanziamento del compenso in esame in quanto la norma
contrattuale fa riferimento solo alle risorse che specifiche
disposizioni di legge finalizzano alla incentivazione di
prestazioni o di risultati del personale e nel caso di
specie “non solo non vengono in considerazione risorse
previste da specifiche fonti legislative e finalizzate
all’incentivazione del personale, ma i compensi dei
professionisti legali, di cui all’art. 27 del CCNL del
14.09.2000, non sono neppure oggetto di contrattazione né
per l’individuazione dei destinatari né per ciò che attiene
alla misura ed alle modalità di erogazione degli stessi”).
Passando alla soluzione del quesito sub b), si ricorda che
sul punto sono intervenute le Sezioni Riunite, con una
pronuncia di orientamento generale a cui tutte le Sezioni
regionali sono tenute a conformarsi (deliberazione n. 33/CONTR/2010).
Più precisamente, le Sezioni Riunite, pronunciandosi -oltre
che sull’art. 92, comma 5, dlgs 163/2006- sul disposto dell’art. 1,
comma 208, l. 266/2005 (a mente del quale le somme
finalizzate alla corresponsione di compensi professionali
dovuti al personale dell’Avvocatura interna delle pubbliche
amministrazioni sulla base di specifiche disposizioni
contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri
riflessi a carico del datore di lavoro), hanno precisato che
l’espressione “oneri riflessi”, contenuta nella
disposizione, non comprende l’IRAP che costituisce un onere
fiscale a carico esclusivo dell’amministrazione.
In particolare, le Sezioni Riunite osservano che “…..anche
l’interpretazione sistematica delle disposizioni all’esame è
confermativa della soluzione che esclude la riconducibilità
dell’IRAP nell’ambito degli “oneri riflessi”. Sia la Corte
dei conti (nelle deliberazioni citate), che il Consiglio di
Stato (adunanza plenaria sent. n. 32 del 1994) ritengono che
i compensi professionali da corrispondere a titolo di
onorari ai dipendenti comunali appartenenti all’Avvocatura
interna, oltre che al personale tecnico, costituiscono parte
della retribuzione; sicché, per detti soggetti, non si
realizzano i presupposti per l’applicazione dell’IRAP, dato
che tali soggetti sono privi di autonoma
organizzazione….Infatti, il presupposto impositivo dell’IRAP
si realizza in capo all’ente che eroga il compenso di lavoro
dipendente, il quale rappresenta il soggetto passivo
dell’imposta, cioè colui che, nella valutazione del
legislatore, in quanto titolare di detta organizzazione è
tenuto a concorrere alle spese pubbliche, ai fini di detto
tributo; conseguentemente l’onere fiscale non può gravare
sul lavoratore dipendente in relazione a compensi di natura
retributiva (Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 123/E del
02.04.2008) bensì unicamente sul datore di lavoro”.
Resta fermo, peraltro, che gli enti che corrispondono
compensi professionali alle avvocature interne sono tenuti,
sul piano contabile, a provvedere ed accantonare nei fondi
gli importi necessari a fronteggiare il pagamento dell’IRAP,
rendendoli indisponibili.
Come osservato dalla Sezione regionale per il controllo per
l’Umbria, “Il principio di diritto affermato dalla SS.RR.
comporta, pertanto, che l’inclusione dell’Irap nel fondo
disponibile per il pagamento delle competenze all’avvocatura
interna rappresenta un fatto puramente contabile che non
incide assolutamente sulla liquidazione dei compensi
professionali. Ciò nel senso che non vi è alcuna
decurtazione dei compensi professionali degli avvocati
interni, semmai una riduzione (a monte), e in proporzione
all’ammontare Irap, delle risorse che, in base alla
regolamentazione interna, sono distribuibili tra detti
dipendenti a titolo di compensi professionali. E’ quanto
stabilito dalle SS.RR nella deliberazione anzi citata,
laddove si osserva che “le disponibilità di bilancio da
destinare ai “fondi” da ripartire non possono che essere
quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili)
a coprire gli oneri che gravano sull’amministrazione a
titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde
interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro
disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il
principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81,
quarto comma, Cost.)” (Sezione regionale per il controllo
Umbria, deliberazione n. 25/PAR/2014, nello stesso senso:
Sezione regionale per il controllo Lombardia, deliberazione
n. 73/PAR/2012, Sezione regionale per il controllo
Basilicata, deliberazione n. 115/PAR/2013, Sezione regionale
per il controllo Sardegna, deliberazione n. 18/PAR/2012 ).
Di conseguenza: “nel calcolo del fondo di incentivazione
destinato (o destinabile) agli avvocati interni deve tenersi
conto anche della relativa quota IRAP, il cui importo
l’Amministrazione sarà tenuto ad accantonare per far fronte
agli obblighi tributari…… Invero, il preventivo
accantonamento, nell’ambito del fondo di incentivazione,
delle somme dovute dall’ente datore di lavoro per far fronte
agli obblighi tributari (ivi compresa l’Irap) relativi ai
compensi professionali spettanti agli avvocati interni,
comporta il divieto di operare qualsiasi trattenuta (per la
quota dovuta dall’ente a titolo di Irap o di altri tributi)
in sede di liquidazione dei compensi medesimi, avendo l’ente
già garantito adeguata copertura finanziaria agli obblighi
in questione, che pertanto gravano definitivamente sul
bilancio dell’ente.”
Le coordinate tracciate dalla giurisprudenza contabile sopra
richiamata inducono ad affermare che l’Irap debba calcolarsi
sui compensi liquidati dal giudice, stante l’obbligo di
preventivo accantonamento nell’ambito del fondo di
incentivazione.
Sotto altro profilo, si osserva che i
compensi liquidati in sentenza non contemplano l’Irap,
sicché una diversa interpretazione si tradurrebbe
inevitabilmente in una traslazione del tributo in capo al
lavoratore, in contrasto con quanto osservato dalle Sezioni
Riunite,(sul presupposto dell’IRAP, cfr. Corte Cost. sent.
156/2001 “l’IRAP non è un’imposta sul reddito, bensì
un’imposta di carattere reale che colpisce –come già si è
osservato- il valore aggiunto prodotto dalle attività
autonomamente organizzate (……..) è evidente che nel caso di
una attività professionale che fosse svolta in assenza di
elementi di organizzazione –il cui accertamento, in
mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce
questione di mero fatto- risulterà mancante il presupposto
stesso dell’imposta sulle attività produttive, per l’appunto
rappresentato, secondo l’art. 2, dall’"esercizio abituale di
un’attività autonomamente organizzata diretta alla
produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di
servizi”, con la conseguente inapplicabilità dell’imposta
stessa).
Passando all’esame del quesito n. 2, il Comune di Bari
chiede se le spese di trasferta degli avvocati civici per la
difesa dell’amministrazione comunale presso le Magistrature
di ogni distretto di Corte d’Appello abbiano natura
giuridica di spese di missione di dipendenti pubblici e
siano soggette alla disciplina di cui all’art. 6, comma 12,
d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010 oppure, trattandosi di
spese obbligatorie da assumere per la regolare costituzione
in giudizio e patrocinio dell’Ente, possano considerarsi
oneri e spese accessorie per l’attività professionale svolta
che potrebbero trovare disciplina nel Regolamento Comunale
sui compensi professionali ai legali in servizio presso
l’avvocatura ed assimilate contabilmente alle spese di lite.
Il quesito attiene all’interpretazione dell’espressione
“spese di missione” contenuta nell’art. 6, comma 12, d.l.
78/2010. Siffatta disposizione si colloca nel quadro delle
norme vincolistiche e restrittive con cui il legislatore,
nell’ambito di una più ampia procedura di risanamento dei
conti pubblici, ha cercato di ridurre le spese degli
apparati politici ed amministrativi.
In particolare, l’art. 6, rubricato “Riduzione dei costi
degli apparati amministrativi”, prevede che, a decorrere
dall’anno 2011, le amministrazione pubbliche inserite nel
conto consolidato della pubblica amministrazione di cui
all’art. 1, comma 3, della l. 196/2009 (comprensivo degli enti
territoriali) non possono effettuare spese per missioni in
misura superiore al 50% di quella sostenuta nell’anno 2009.
La stessa disposizione, nell’introdurre il limite de quo,
prevede espressamente l’esclusione per talune tipologie di
spesa (missioni internazionali di pace e delle Forze armate,
missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del
personale di magistratura, quelle strettamente connesse ad
accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare
la partecipazione a riunioni presso enti e organismi
internazionali o comunitari, nonché con investitori
istituzionali necessaria alla gestione del debito pubblico)
ed una deroga generale con riferimento a “casi eccezionali”
(la cui individuazione in concreto spetterà all’Ente: cfr.,
sul punto, Sezione regionale controllo della Toscana
deliberazioni n. 185/PAR/2011 e n. 249/PAR/2012, secondo cui
“i casi per i quali derogare al limite di spesa non possono
che essere situazioni fuori dall’ordinaria attività
amministrativa ed istituzionale dell’ente che giustifichino,
appunto, l’eccezionalità dello sforamento. In assenza di
norme o interpretazioni in merito può essere considerata
eccezionale, ad esempio, anche una spesa per una missione
non sostenuta in passato e che si ritiene, in ragione della
sua natura, possa essere sostenuta una tantum…..” ) a cui si
accompagna l’indicazione dell’iter da seguire per
l’autorizzazione al superamento (adozione di un motivato
provvedimento adottato dall’organo di vertice
dell’amministrazione, da comunicare preventivamente agli
organi di controllo ed agli organi di revisione dell’ente).
Tale iter procedimentale per l’autorizzazione allo
sforamento del tetto è strumentale a consentire un vaglio
del requisito dell’eccezionalità, anche alla luce delle
responsabilità disciplinare ed erariale scaturenti dalla
violazione ingiustificata del limite, come previsto dal
medesimo art. 6, comma 12 (“Gli atti e i contratti posti in
essere in violazione della disposizione contenuta nel primo
periodo del presente comma costituiscono illecito
disciplinare e determinano responsabilità erariale”).
In materia di spese di missione sono intervenute a più
riprese le Sezioni Riunite con deliberazioni n. 8/CONTR/2011,
9/CONTR/2011 e 21/CONTR/2011 le quali hanno, da un lato
chiarito, come l’art. 6 in esame abbia limitato le spese
connesse al trattamento di missione, “ossia ai trasferimenti
effettuati per conto dell’amministrazione di appartenenza
per l’espletamento di funzioni ed attività da compiere fuori
sede” (deliberazione n. 9/CONTR/2011) e, dall’altro lato,
precisato- con riferimento all’uso del mezzo proprio da
parte del dipendente- che ”il dipendente che intenda
avvalersi del mezzo proprio, al fine di rendere più agevole
il proprio spostamento, potrà comunque conseguire
l’autorizzazione da parte dell’amministrazione, con il
limitato effetto di ottenere la copertura assicurativa
dovuta in base alle disposizioni vigenti. Le disposizioni
interne delle singole amministrazioni potranno prevedere, in
caso di autorizzazione all’uso del mezzo proprio, un
indennizzo corrispondente alla somma che il dipendente
avrebbe speso se fosse ricorso ai mezzi pubblici, ove ciò
determini un più efficace espletamento dell’attività,
garantendo, ad esempio, un più rapido rientro in servizio,
risparmi del pernottamento, l’espletamento di un numero
maggiore di interventi” (deliberazione n. 8/CONTR/2011).
Le Sezioni Riunite nella successiva deliberazione n. 21/CONTR/2011
hanno, inoltre, osservato che ”va affermata l’impossibilità
per l’amministrazione di reintrodurre, attraverso una
regolamentazione interna, il rimborso delle spese sostenute
dal dipendente sulla base delle indicazioni fornite dal
disapplicato art. 8 della legge n. 417 del 1988. Tale modo di
operare, infatti, costituirebbe una chiara elusione del
dettato e della ratio del disposto del richiamato art. 6,
comma 12, del decreto legge n. 78 del 2010.” La
giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo si è
successivamente conformata alle statuizioni appena
richiamate: Sezione regionale controllo Toscana
deliberazioni n. 183/PAR/2011 e n. 249/PAR/2012, Sezione
regionale controllo Veneto deliberazione n. 392/PAR/2011,
Sezione regionale controllo Campania deliberazione n.
21/PAR/2013 Sezione regionale controllo Piemonte
deliberazioni n. 390/PAR/2013 e 400/PAR/2013.
Le coordinate ermeneutiche appena esposte si attagliano
anche alle spese di trasferta degli avvocati dell’Ente per
il patrocinio presso i vari distretti di Corte d’Appello,
trattandosi di esborsi che rientrano nel concetto di “spese
di missione”, secondo la definizione fornita dalle Sezioni
Riunite nella deliberazione n. 9 del 2011, sopra richiamata
(“trasferimenti effettuati per conto dell’amministrazione di
appartenenza per l’espletamento di funzioni ed attività da
compiere fuori sede”), sicché risulta applicabile, in prima
battuta, anche alle trasferte dei legali la disciplina
contenuta nell’art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010.
Tuttavia, la Sezione osserva come, nel caso dell’avvocatura
interna, la missione del dipendente assuma una valenza
particolare, trattandosi di attività strumentale e
prodromica all’esplicazione della difesa in giudizio
dell’Ente ed afferendo all’esercizio di un diritto di
rilievo costituzionale, al pari degli interessi alla cui
tutela sono funzionalizzate le missioni espressamente
escluse dalla disciplina in esame (le missioni
internazionali di pace e delle Forze armate, strumentali
all’attuazione dei disposti di cui agli artt. 10 e 11 Cost.,
le missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco
strumentali alla tutela dell’ordine e della sicurezza
pubblica, le missioni della magistratura, strumentali
all’esercizio della funzione giurisdizionale ecc).
L’’interpretazione letterale della disposizione in esame,
pertanto, si tradurrebbe in una compressione di un diritto
di rilievo costituzionale (sia pure ai fini della tutela di
un altro interesse di pari rango, quello degli equilibri di
bilancio), sicché è necessario accedere ad una
interpretazione che, oltre ad essere costituzionalmente
orientata, consenta un equo contemperamento degli interessi
in gioco.
D’altra parte, un’applicazione rigorosa del limite
rischierebbe, in siffatta ipotesi, di radicare situazioni
contrastanti con la ratio di contenimento di spesa sottesa
alla disposizione in esame, costringendo l’ente a ricorrere
a professionisti esterni con conseguente aggravio di costi.
Il medesimo legislatore ha ammesso una deroga al limite in
presenza di situazioni eccezionali, prevedendo, come già
chiarito, un iter procedimentale di approvazione tale da
consentire il vaglio del presupposto dell’eccezionalità,
anche al fine di valutare un’eventuale responsabilità
disciplinare o erariale in caso di autorizzazione di assenza
dei presupposto richiesto.
La trasferta dell’avvocato dell’Ente per patrocinare presso
diversi distretti di Corte d’Appello, se non rientra nel
concetto di eccezionalità previsto dalla disposizione in
esame (non essendo eccezionale il patrocinio presso
un’Autorità Giudiziaria situata in un distretto diverso da
quello in cui è la sede dell’Ente: cfr. le conclusioni cui è
pervenuta la Sezione regionale di controllo della Toscana in
merito al requisito dell’eccezionalità con deliberazioni
n. 185/PAR/2011 e n. 249/PAR/2012, sopra richiamate),
tuttavia risponde alla medesima ratio di evitare che il
formale rispetto del limite si traduca di fatto in un
aggravamento di spesa per fronteggiare la situazione,
finalità a cui anche la deroga prevista sul piano normativo
evidentemente si ispira.
Una interpretazione formalistica, quindi, potrebbe
determinare l’effetto paradossale di una moltiplicazione dei
costi, laddove l’ente fosse costretto a ricorrere a
professionisti esterni.
Ad identiche conclusioni, sia pure con riferimento alla
diversa problematica del rispetto del limite di cui all’art.
9 comma 2-bis d.l. 78/2010, ma con argomentazioni che
conservano validità anche in relazione alla questione
oggetto di esame, sono pervenute le Sezioni Riunite nella
deliberazione n. 51/CONTR/2011, sancendo che
sono escluse
dal limite di cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 (a
mente del quale l’ammontare complessivo delle risorse
destinate al trattamento accessorio del personale non può
superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed è
automaticamente ridotto in misura proporzionale alla
risoluzione del personale in servizio) quelle risorse
destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di
soggetti individuati o individuabili e che, peraltro,
potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso
all’esterno dell’amministrazione pubblica, con possibili
costi aggiuntivi per i bilanci dei singoli enti. Nell’ambito
delle prestazioni escluse, le Sezioni Riunite menzionano
espressamente le risorse destinate a remunerare le
prestazioni professionali dell’avvocatura interna.
Sotto altro profilo, si osserva che, anche in relazione alla
problematica- più strettamente afferente al quesito in
esame- relativa all’utilizzo del mezzo proprio, le Sezioni
Riunite hanno sottolineato che occorre evitare il rischio di
interpretazione applicative le quali, pur formalmente
rispettose della norma, si pongano, in realtà, in contrasto
con lo scopo di riduzione dei costi degli apparati
amministrativi, determinando addirittura un incremento dei
medesimi. In questo caso, infatti, per l’Ente è possibile
“il ricorso a regolamentazioni interne volte a disciplinare,
per i soli casi in cui l’utilizzo del mezzo proprio risulti
economicamente più conveniente, forme di ristoro del
dipendente dei costi dallo stesso sostenuti che, però,
dovranno tenere conto delle finalità di contenimento della
spesa introdotte con la manovra estiva e degli oneri che in
concreto avrebbe sostenuto l’ente per le sole spese di
trasporto in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici di
trasporto” (deliberazione n. 21/CONTR/2011)
Alla luce di quanto statuito dalla giurisprudenza contabile
sopra richiamata, questa Sezione ritiene che le spese di
trasferta degli avvocati civici per il patrocinio dell’Ente
presso diversi distretti di Corte d’Appello abbiano natura
giuridica di spese di missione e, in quanto tali, soggette
al vincolo di cui all’art. 6, comma 12, d.l. 78/2010.
Tuttavia, atteso il carattere non assoluto del vincolo per
le ragioni sopra esposte, si ritiene che il limite possa
essere derogato allorché la missione risulti necessaria per
l’esercizio del diritto di difesa in giudizio e l’osservanza
dello stesso determini la necessità del ricorso a
professionisti esterni con aggravio di costi per il bilancio
dell’Ente.
In altri termini, solo nel caso in cui sia accertato che il
rispetto limite si tradurrebbe in un effettivo aumento di
costi per il bilancio dell’ente (anche in considerazione
della necessità di ricorso a professionisti esterni) è
consentito lo sforamento, venendo altrimenti frustrata la
finalità di risparmio di spesa.
La deroga deve, infine, come correttamente osservato dalle
Sezioni Riunite, “tenere conto delle finalità di
contenimento della spesa introdotte con la manovra estiva”
sia con riferimento alle spese di trasporto (cfr.
deliberazione Sezioni Riunite n. 21/CONTR/2011, già
richiamata, in relazione alla necessità per l’Ente di tenere
conto degli oneri che in concreto l’ente avrebbe sostenuto
per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo di
mezzi di trasporto pubblici) sia con riferimento alle
eventuali spese di vitto e pernottamento, la cui
autorizzazione dovrà essere adottata con provvedimento
rigorosamente motivato anche ai fini della valutazione
dell’eventuale responsabilità disciplinare ed erariale.
Passando all’esame dei quesiti n. 3 e 4, il Comune di Bari
chiede se gli incentivi professionali spettanti
all’avvocatura interna ai sensi degli artt. 37 del CCNL
23.12.1999 e 27 del CCNL 14.09.2000 siano da escludere
totalmente dal computo del tetto di spesa del personale
previsto dall’art. 1, comma 557, della l. 296/2006 e dal
vincolo previsto dall’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 oppure
debbano considerarsi esclusi solo i compensi derivati da
sentenze favorevoli con vittoria di spese a carico della
controparte, rivestendo solo questi ultimi i caratteri di
spese eterofinanziate (mentre i compensi derivanti da
sentenze favorevoli con compensazioni di spese rimangono a
carico del bilancio dell’Ente).
L’art. 1, comma 557, l. 296/2006 (finanziaria 2007) introduce
l’obiettivo di riduzione della spesa del personale,
garantendo il contenimento della dinamica retributiva ed
occupazionale ed indicando espressamente gli ambiti
prioritari di intervento al fine del raggiungimento
dell’obiettivo del contenimento (riduzione dell’incidenza
percentuale delle spese del personale rispetto al complesso
delle spese correnti, razionalizzazione e snellimento delle
strutture burocratico-amministrative, contenimento delle
dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, sul
punto cfr. Sezioni Riunite deliberazione n. 27/CONTR/2011).
Le voci escluse dal computo ai fini della determinazione
dell’aggregato “spesa del personale”, rilevante ai sensi
dell’art. 1, comma 557, sono indicate nella tabella n. 6.3 dei
questionari (quanto ai comuni sopra i 5.000 abitanti) per
gli organi di revisione economico finanziaria degli enti
locali relativi al rendiconto 2013 ed approvati con
deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 11/SEZAUT/2014/
INPR. Nell’elenco delle voci da sottrarre all’ammontare
della spesa in questione non sono compresi gli incentivi
professionali spettanti all’avvocatura interna, a
prescindere dalla circostanza che si tratti di somme
derivanti da sentenze favorevoli con vittoria di spese a
carico della controparte o di somme derivanti da sentenze
favorevoli con spese compensate.
Per tali ragioni, i compensi in questione rientrano nel
computo del tetto di spesa del personale di cui all’art. 1,
comma 557, l. 266/2005, a prescindere dalle statuizioni
contenute in sentenza in merito alla condanna o meno alle
spese di parte soccombente.
Venendo all’esame dell’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010, si
osserva preliminarmente come la disposizione, da ultimo
modificata dall’art. 1, comma 456, l. 147/2013, si ponga
l’obiettivo di riduzione della spesa del personale, sancendo
che “a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31.12.2014 l'ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale, anche
di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni
di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente
importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente
ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale
in servizio. A decorrere dal 01.01.2015, le risorse
destinate annualmente al trattamento economico accessorio
sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per
effetto del precedente periodo”.
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, nella già citata
deliberazione n. 51/CONTR/2011, hanno precisato che la ratio
dell’art. 9 comma 2-bis, è quella di cristallizzare al 2010 il
tetto di spesa relativo all’ammontare complessivo delle
risorse presenti nei fondi unici che dovrebbero
tendenzialmente essere destinate al trattamento accessorio
del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna
delle amministrazioni pubbliche ed, alla luce di tale ratio,
non sembra possa ammettere deroghe ed esclusioni, in quanto
la regola generale voluta dal legislatore è quella di porre
un limite alla crescita dei fondi della contrattazione
integrativa destinati alla generalità dei dipendenti
dell’ente pubblico.
Tra le risorse incentivanti solo quelle destinate a
remunerare prestazioni professionali per la progettazione di
opere pubbliche e quelle dell’avvocatura interna devono,
secondo la Sezioni Riunite, ritenersi escluse dall’ambito
applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, del DL n. 78/2010
poiché trattasi di prestazioni professionali tipiche la cui
provvista all’esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a
carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche, mentre
le risorse che alimentano il fondo derivanti dal recupero
dell’ICI o da contratti di sponsorizzazione non si
sottraggono alla regola generale e devono essere computate
ai fini della determinazione del tetto di spesa posto al
fondo per la contrattazione integrativa dall’art. 9, comma 2
bis in quanto potenzialmente destinabili alla generalità dei
dipendenti dell’ente attraverso lo svolgimento della
contrattazione integrativa.
Con la successiva deliberazione n. 56/CONTR/11 del
2/11/2011, le Sezioni Riunite hanno ulteriormente precisato
che “qualunque sia la fonte di finanziamento del fondo per
la contrattazione, in particolare le risorse per sostenere
le iniziative rivolte a migliorare la produttività,
l’efficienza e l’efficacia dei servizi, non sono consentite
deroghe a quanto disposto dall’art. 9, comma 2-bis” , in
quanto è “chiara è l’intenzione del legislatore di ridurre
la spesa di personale, anche attraverso il blocco delle
risorse decentrate, blocco che non ammette in via generale
alcuna deroga”.
Ciò posto, in tema di assoggettamento dei compensi
professionali, derivanti da sentenze favorevoli all’Ente, al
vincolo di cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 si sono
espresse le Sezioni regionali di controllo di questa Corte.
Ad una prima pronuncia della Sezione regionale di controllo
per l’Umbria, secondo cui rimangono assoggettati all’art. 9,
comma 2-bis, d.l. 78/2010 i compensi a favore dell’avvocato
non derivanti da condanna alle spese della controparte
(deliberazione n. 3/PAR/2012, nello stesso senso Ragioneria
Generale dello Stato, parere prot. 72010 del 04.09.2013), è seguita una successiva deliberazione della Sezione
regionale di controllo della Liguria (deliberazione n.
86/PAR/2013) che ha incentrato la soluzione alla questione,
più che sul carattere eterofinanziato dei compensi a carico
della parte soccombente, sulla natura di retribuzione
principale e non accessoria dei compensi professionali
spettanti agli avvocati interni.
La Sezione ligure ha, infatti, osservato che “la norma
citata fissa un tetto di spesa al trattamento accessorio del
personale in servizio presso le pubbliche amministrazioni,
ma i compensi all’esame di questo Collegio non costituiscono
trattamento accessorio alla retribuzione degli avvocati alle
dipendenze degli enti locali bensì rappresentano essi stessi
retribuzione per l’attività professionale espletata in
favore dell’ente pubblico, e pertanto è del tutto
irrilevante la derivazione dei compensi dalla condanna di
controparte alle spese del giudizio piuttosto che dalla loro
compensazione tra le parti…….pertanto, i compensi non hanno
valenza incentivante in quanto con essi non si mira ad
aumentare la produttività del personale dell’avvocatura
interna bensì a compensare il lavoro svolto”.
Questa Sezione ritiene che l’esclusione dei compensi
professionali dell’avvocatura interna dal limite di cui
all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2009 discenda direttamente da
quanto osservato dalle Sezioni Riunite nella più volte
citata deliberazione n. 51/CONTR/2011.
In quella sede,
infatti, le Sezioni Riunite hanno statuito che “ai fini del
calcolo del tetto di spesa cui fa riferimento il citato
vincolo, necessario a calcolare l’ammontare complessivo
delle risorse destinate annualmente al trattamento economico
accessorio, occorrerà sterilizzare, non includendole nel
computo dell’importo 2010, le risorse destinate a remunerare
le prestazioni di progettazione interna e le prestazioni
professionali dell’avvocatura interna, stante la loro natura
“professionale” che le rende non destinabili alla generalità
dei dipendenti dell’Ente attraverso lo
svolgimento della contrattazione integrativa.”
Ciò in quanto
si tratta di risorse “destinate a remunerare prestazioni
professionali tipiche di soggetti individuati o
individuabili e che peraltro
potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso
all’esterno dell’amministrazione pubblica con possibili
costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti” (nello
stesso senso, di recente, Sezione regionale controllo Veneto
deliberazione n. 200/PAR/2014).
Trattandosi di somme destinate alla remunerazione di
prestazioni professionali tipiche, suscettibili di essere
acquisite tramite esternalizzazione con conseguente aggravio
di costi per l’Ente, devono ritenersi sottratte al limite di
cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010, a prescindere dalla
natura eterofinanziata (in quanto gravanti su controparte
soccombente) o meno (in quanto compensate dal giudice).
In conclusione i compensi professionali all’avvocatura
interna rimangono interamente assoggettati al limite di cui
all’art. 1, comma 557, l. 296/2006, mentre sono esclusi dal
computo del tetto di cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010,
a prescindere dalla circostanza che derivino da sentenza
favorevole con vittoria di spese a carico della controparte
o da sentenza favorevole con spese compensate
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 07.07.2014 n. 127). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulle caldaie controlli senza standard. Alle
regole europee, statali e regionali si aggiungono le
indicazioni di Comuni e Province.
Impianti. Gli enti locali scelgono le apparecchiature da
ispezionare, le società a cui affidare il servizio e persino
i modelli da compilare.
Non bastano le norme europee, quelle statali e quelle
regionali: sui controlli per gli impianti termici, di fatto,
sono Province e Comuni a "dettare" legge, sia sotto il
profilo della frequenza che sotto quello delle tariffe. Con
il risultato di un fai-da-te senza limiti.
C'è chi, come Civitanova Marche, ha affidato i controlli,
anziché a un'agenzia per l'energia, al centro di ecologia e
climatologia dell'Osservatorio geofisico sperimentale. Chi
ha stabilito, come Sanremo e Castellammare di Stabia,
importi diversi per il bollino, a seconda che si tratti di
una prima o una seconda casa. Chi preleva la tariffa delle
verifiche, come Scandicci o Sesto Fiorentino, dalla bolletta
del gas e senza attendere l'effettivo controllo e l'invio
dell'autodichiarazione.
Lo spaccato emerge da un monitoraggio realizzato per il Sole
24 Ore del lunedì, dalla società di consulenza e formazione
tecnico-normativa «E-training». Ciò che emerge è allarmante:
nonostante il controllo delle caldaie a gas naturale (cioè
il 95% degli impianti installati nelle case e negli uffici
d'Italia) sia regolato da una norma comunitaria (Direttiva
2010/31/UE) e da una legge nazionale (Dlgs 192/2005 attuato
dal recente Dpr 74/2013), nei fatti le regole sono
differenti, città per città.
Le Regioni
Tolta l'Unione europea e lo Stato, le Regioni sarebbero le
uniche - secondo la clausola di cedevolezza del titolo V
della Costituzione - ad avere facoltà di varare norme, per
recepire senza stravolgimenti le leggi nazionali e
comunitarie adattandole al contesto locale. Tuttavia solo
quattro di loro (Lombardia, Umbria, Emilia Romagna e Veneto)
hanno recepito la direttiva 2010/31/Ue. Nove governi
regionali e province autonome sono ancora ferme alla
Direttiva precedente 2002/91/CE, mentre in otto territori
nulla è mai stato approvato.
In compenso, a scendere in campo ci hanno pensato le
Province o addirittura i Comuni: questi enti, sopra i 40mila
abitanti, dovrebbero avere l'unico compito di organizzare i
controlli, non di scrivere leggi. Tanto più che spesso le
regole varate risultano in contrasto con quanto deciso da
Roma e da Bruxelles.
Ma procediamo per esempi. La direttiva europea prescrive
controlli obbligatori per le caldaie sopra i 20 kW in caso
di riscaldamento e i 12kW in caso di condizionamento. Già di
suo, il Dpr 74/2013 ha allargato in Italia la platea degli
impianti soggetti a verifiche, fissando per il riscaldamento
l'obbligo sopra i 10 kW. Ma ancora più in là si è spinta la
Lombardia, dove le ispezioni scattano sopra i 5 kW. Che, di
fatto, significa far partire ispezioni su 3,5 milioni di
impianti, altrove esonerati.
Altro caso. Secondo la recente norma di attuazione - Dm
10.02.2014 -(la cui entrata in vigore è stata prorogata al
15 ottobre) caldaie e impianti di climatizzazione dovranno
essere dotati di un libretto e, se soggetti a controlli, di
un rapporto di verifica, stilati secondo un preciso modello,
uguale per tutti. Nella pratica non è così. In Lombardia e
in Veneto, infatti, la modulistica da utilizzare è
differente.
L'Europa e lo Stato prevedono, poi, controlli sia per gli
impianti invernali che estivi. Tuttavia, in Provincia di
Matera, ad esempio, il regolamento, modificato dopo
l'entrata in vigore del Dpr 74/2013, contiene
un'interpretazione "fantasiosa": sono infatti esclusi
dall'accertamento gli impianti di condizionamento. Al
contrario, vanno a rapporto le caldaie per uso sanitario
superiori ai 10 kW (cioè la quasi totalità), nonostante
queste siano esplicitamente escluse a livello nazionale.
Chi esegue i controlli
In genere, il compito spetta ad agenzie per l'energia o
società in house. Ma non mancano eccezioni. La Provincia e
il Comune di Isernia hanno affidato l'attività, senza alcuna
gara, a una società misto pubblico-privata che vede
all'interno della compagine anche tecnici manutentori (cioè
coloro il cui operato dovrebbe essere oggetto di verifica).
Il Comune di Fasano -che non arriva a 40mila abitanti- ha
affidato i controlli ad una società privata, dimenticandosi
che il compito spetterebbe alla Provincia di Brindisi.
Quest'ultima, a sua volta, ha provveduto a dare l'incarico a
un proprio ente. Risultato: in due sono sullo stesso bacino.
Estremo e finale paradosso: quando si parla di controlli
d'impianto in Italia ci si riferisce a verifiche attuate per
il solo rendimento energetico. Giocoforza i tecnici
dell'ente locale che entrano nelle case, finiscono con il
riscontrare e correggere eventuali problemi anche sul fronte
della sicurezza. Compito che però non sarebbe loro
richiesto, visto che su questo fronte si è ancora in attesa
della pubblicazione di un decreto, previsto già da dicembre
2007. Non è mai arrivato.
---------------
Anche le tariffe per il «bollino» sono
diverse da città a città. I costi. Il prezzo può variare per
la seconda casa o in base alla periodicità.
Il quadro frammentato di norme si traduce in un puzzle di
tariffe diverse a carico dei cittadini, che, in materia di
ispezione del rendimento energetico degli impianti, devono
far fronte a due tipologie di "oneri" differenti. Il primo
chiamato anche «bollino», scatta nel momento in cui
l'utente, rispettando la legge, chiama un tecnico per far
verificare i propri impianti e trasmette all'ente preposto
l'autodichiarazione al termine della procedura. Il secondo
corrisponde all'equivalente di una tariffa per il servizio,
che è dovuta se, a fronte di un accertamento, solitamente
effettuato a campione dall'ente preposto ai controlli,
emerge che l'impianto è sprovvisto di autocertificazione o
addirittura non è autocertificabile.
Il compito di stabilire importi e modalità di erogazione di
bollini e tariffe per le ispezioni sugli impianti è stato
lasciato, dallo Stato, agli enti locali. Il risultato è uno
spaccato di prezzi -rilevato attraverso un puntuale
censimento diretto da e-training per il Sole 24 Ore-
estremamente eterogeneo. Non solo fra una Regione e l'altra,
ma anche all'interno di uno stesso territorio regionale o
provinciale.
Gli importi
In Piemonte, ad esempio, o nelle Province autonome per
depositare l'autodichiarazione nulla è dovuto (oltre la
spesa da sostenere per pagare il lavoro della ditta o del
tecnico che effettua il controllo). In Puglia, per una
caldaia sotto i 35 kW, si arriva a spendere anche 25 euro a
biennio: solo per comunicare che l'ispezione è stata
effettuata. Ben più alte, ma ugualmente discordanti, le
cifre per le ispezioni onerose: si va dai 40 euro della
Puglia per gli impianti sotto i 35 kW ai 200 del Lazio o
dell'Abruzzo. In genere il costo sale insieme alla taglia
dell'impianto.
Cifre difformi anche in una stessa Regione. Prendiamo
l'Emilia Romagna. A Ferrara è previsto un bollino unico per
tutte le potenze a cadenza biennale di importo pari a 5
euro. Viceversa a Parma e Ravenna si arriva a tariffe
biennali pari a 140 euro, per impianti sopra i 600 kW. Così
anche per le ispezioni: a Modena la massima tariffa è pari a
145 euro mentre a Ravenna e Forlì si arriva a 600 euro. Ma
il paradosso si raggiunge in Provincia di Roma: qui su uno
stesso territorio vigono dieci tariffe diverse per il
bollino e l'ispezione a seconda di dieci fasce di potenza
degli impianti predeterminate.
Sanremo e Castellammare di Stabia hanno fissato importi
diversi per le caldaie installate in una prima o in una
seconda casa o per quelle di un'attività commerciale.
Il Comune o la Provincia di Lecce così come quella di
Pesaro-Urbino hanno imposto una somma anche per comunicare
la messa a norma dell'impianto in seguito a un'ispezione per
irregolarità. Una cifra che normalmente, in altri territori,
è inclusa nella lauta "ammenda" che già scatta in sede di
verifica. La Provincia di Brindisi, al contrario, applica
una sanzione se l'autodichiarazione non è trasmessa in modo
corretto mentre la Provincia di Lecce ha previsto un bollino
ad hoc in caso di dismissione di impianto.
Ma forse il caso più eclatante è quello della Provincia di
Savona che chiede, peraltro con cadenza annuale, un bollino
persino per gli split domestici (articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2014). |
SICUREZZA LAVORO:
La sicurezza nei cantieri boccia i piani
«fotocopia». I modelli sintetici devono essere specifici e
adattati a ogni struttura. Prevenzione infortuni. Come si
tutela l'impresa che adotta la forma semplificata.
La semplificazione dei documenti per la sicurezza sui luoghi
di lavoro arriva anche nei cantieri temporanei o mobili
regolati dal Titolo IV del decreto legislativo 81/2008, il
Testo unico delle norme sulla salute e sicurezza sul lavoro.
Il decreto interministeriale del 09.09.2014 (pubblicato
sulla «Gazzetta Ufficiale» 212 del 12 settembre), dando
attuazione alle disposizioni dell'articolo 104-bis del Dlgs
81/2008, con i suoi quattro allegati tecnici, disciplina le
modalità di redazione in forma semplificata del piano
operativo di sicurezza (Pos), del piano di sicurezza e
coordinamento (Psc), del piano di sicurezza sostitutivo (Pss)
e del fascicolo dell'opera.
Su questi documenti si fonda la traduzione in pratica delle
norme di sicurezza nei cantieri e della sicurezza post
lavori per quanto riguarda il fascicolo dell'opera. Vediamo
dunque, in che cosa consiste la semplificazione.
Modelli già utilizzabili
La parte descrittiva del decreto è sintetica, ma contiene
alcune disposizioni attuative da tenere in considerazione:
in primo luogo, a prescindere dal contenuto del modelli
semplificati, rimane ferma l'integrale applicazione di
quanto previsto nel titolo IV del Dlgs 81/2008. Questo
significa che se i modelli ministeriali dovessero rivelarsi
insufficienti o carenti, chi predispone il documento non è
esonerato dal completarlo con le informazioni mancanti
comunque previste dalla normativa vigente.
L'adozione dei modelli semplificati si presenta peraltro
come facoltativa, perché nel decreto è specificato che le
diverse figure responsabili (imprese affidatarie, imprese
esecutrici, coordinatori, committenti, appaltatori o
concessionari) possono predisporre i documenti di sicurezza
usando il modello semplificato. Al contrario di quanto era
accaduto per il decreto che aveva introdotto i modelli di
valutazione dei rischi standardizzati per le imprese che
occupano fino a dieci lavoratori, il decreto
interministeriale del 9 settembre non prevede una
presunzione legale di conformità a quanto previsto dalla
legge per i piani di sicurezza dei cantieri in forma
semplificata.
Questo significa che chi predispone il documento ha la piena
responsabilità di verificarne la rispondenza con quanto
previsto dalle disposizioni del Titolo IV del Dlgs 81/2008.
Infine, non è previsto alcun periodo transitorio, per cui i
documenti sono già legalmente utilizzabili.
La compilazione
In realtà i modelli allegati al decreto non rappresentano
una rivoluzione: i datori di lavoro delle imprese esecutrici
e affidatarie dovranno probabilmente continuare ad avvalersi
di esperti della materia per predisporre i Pos (per i Psc,
Pss e fascicolo dell'opera è già previsto che a occuparsene
sia un tecnico specializzato), a meno che non si tratti di
cantieri con fattori di rischio davvero minimi e
immediatamente percepibili.
La compilazione è solo in parte guidata da schemi
esemplificativi e da campi da riempire con informazioni
essenziali. L'essenza dei diversi documenti –cioè la
valutazione dei rischi del cantiere e le misure per
prevenire o ridurre al minimo il rischio di infortuni–
continua a essere una valutazione tecnica e descrittiva che
non può in alcun modo essere affidata a schemi prestabiliti,
a meno di non voler correre il rischio di redigere documenti
sostanzialmente inutili.
Bisogna infatti ricordare che, ad esempio, i piani operativi
di sicurezza devono essere documenti unici, cioè riferiti al
cantiere specifico, e non valutazioni dei rischi di
carattere generale e generico, riferite all'attività edile o
di ingegneria civile. Non dovrebbero perciò esistere Pos
"fotocopia", documenti identici utilizzati indistintamente
per diversi cantieri, perché ogni luogo di lavoro ha le sue
peculiari fonti di rischio, non standardizzabili e quindi da
valutare di volta in volta.
Si tratta in sostanza di piani che per la loro natura sono
dinamici, da adattare alla singola realtà lavorativa. L'uso,
come purtroppo spesso accade, di Pos identici in diversi
cantieri, espone il titolare dell'impresa esecutrice (ma
anche il coordinatore e il committente, che ben può essere
un imprenditore) a rischi enormi, poiché attesta in modo
inequivocabile che in realtà non è stata fatta alcuna
valutazione dei rischi riferita a quello specifico luogo di
lavoro, e pertanto –soprattutto in caso di infortunio– la
difesa rispetto all'imputazione di lesioni colpose o
omicidio colposo conseguenti alla omessa valutazione del
rischio, sarebbe estremamente complessa.
I modelli semplificati possono guidare chi li compila a
predisporre i piani senza «dimenticanze», poiché contengono
i campi da riempire in modo guidato e le norme di
riferimento. È evidente, comunque, che la redazione degli
allegati al decreto non può essere sufficiente per chi
intende predisporre piani di sicurezza esaustivi: nel Pos,
ad esempio, deve essere specificamente indicata la
predisposizione di eventuali misure di prevenzione
integrative rispetto a quanto previsto nel Psc, per cui sarà
indispensabile integrare il Pos con il piano di sicurezza e
coordinamento, che nessun modello semplificato può
standardizzare. Dunque semplificazione sì, ma con attenzione
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO: Se
manca il fascicolo sanzioni penali per il coordinatore. Le
ricadute. Arresto e ammenda.
Il modello che risponde
maggiormente alle esigenze di semplificazione e chiarezza,
tra quelli allegati al decreto interministeriale del
09.09.2014, è probabilmente quello relativo al fascicolo
dell'opera, previsto come adempimento obbligatorio a carico
del coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione
(articolo 91 del Dlgs 81/2008).
Il modello deve avere, in primo luogo, i contenuti elencati
dall'allegato XVI del Testo unico sulla sicurezza. Si tratta
in sostanza della «carta di identità» dell'opera, che deve
contenere tutte le informazioni relative alla vita di un
fabbricato o di un'altra opera, con l'indicazione delle
misure preventive in dotazione (ad esempio la presenza di
linee vita sul tetto), i punti di accesso, gli impianti di
alimentazione e il riferimento alla documentazione di
supporto e alle schede tecniche.
Questo per consentire che successivi interventi di
manutenzione siano svolti nella massima sicurezza, poiché
con un fascicolo dell'opera ben strutturato l'impresa
esecutrice o l'artigiano incaricato, saranno a piena
conoscenza dei fattori di rischio ambientali che troveranno
sul luogo di lavoro e potranno adeguare le misure di
prevenzione con efficacia.
La cura del fascicolo
Il fascicolo dell'opera è un documento al quale il
legislatore ha attribuito la massima importanza, tanto che
l'articolo 90, comma 10 del Testo unico sicurezza prevede
espressamente che in assenza del fascicolo del fabbricato
sia sospesa l'efficacia del titolo abilitativo per la
realizzazione dell'opera. Una volta predisposto il fascicolo
–sempre a cura del coordinatore in fase di progettazione–
questo deve essere aggiornato a cura del committente a ogni
intervento che non si risolva in opere di manutenzione
ordinaria.
È comunque il coordinatore della sicurezza il vero regista
di questo documento, ed è a lui che il legislatore rivolge
l'attenzione in termini sanzionatori. È previsto infatti l'
arresto da tre a sei mesi o l' ammenda da 2.740 euro a
7.014,40 euro per il coordinatore in fase di progettazione
che ometta gli adempimenti relativi al fascicolo. Il
documento dovrà poi essere conservato e successivamente
utilizzato dal committente-proprietario in occasione delle
opere di manutenzione future.
Già nell'allegato XVI del Dlgs 81/2008 erano contenute una
serie di schede esemplificative suddivise per
caratteristiche dell'opera: il modello semplificato adottato
con il decreto racchiude queste schede in un unico
documento, rendendolo più fruibile e di immediato utilizzo e
compilazione.
Come già accaduto per Pos, Psc e Pss in forma semplificata,
anche per quanto riguarda il fascicolo dell'opera, il
legislatore ha inteso lasciare al coordinatore per la
sicurezza in fase di progettazione la scelta se avvalersi
del modello semplificato allegato al decreto, o se
predisporre il fascicolo in autonomia, pur rispettando
sempre le prescrizioni dell'articolo 91 e dell'allegato XVI
del Dlgs 81/2008 (il riferimento normativo da seguire per
determinare la conformità dell'elaborato alla legge)
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondi
decentrati, tagli «flessibili» per il turn over.
Personale. Possibili più criteri di calcolo.
Nella costituzione del fondo per le
risorse decentrate del 2014 Regioni ed enti locali devono
verificare il puntuale rispetto dei vincoli dettati dai
contratti nazionali, disponendo l'eventuale recupero. A tal
fine possono utilizzare i nuovi strumenti previsti dal D
16/2014.
Lo ricorda la circolare con cui i ministri di Economia,
Affari regionali e Pa hanno ufficializzato il documento
approvato dalla Conferenza Unificata lo scorso luglio
sull'applicazione della "sanatoria" dei contratti decentrati
illegittimi.
La costituzione del fondo del 2014 è un adempimento assai
rilevante: la legge di stabilità ne ha fatto la base
(analogamente a quanto i contratti nazionali hanno disposto
per i fondi del 1999 e poi del 2004) su cui determinare gli
importi degli anni successivi.
La maggioranza degli enti sta procedendo solo ora alla
costituzione del fondo in quanto, erroneamente, si subordina
l'operazione all'approvazione dei preventivi. Il che non è
previsto da alcuna legge o contratto, ed è inopportuno
poiché determina ritardi nell'avvio della contrattazione
decentrata.
L'attenzione deve essere dedicata al rispetto dei vincoli
dettati dai contratto nazionale per l'incremento dei fondi,
sempre nel tetto del 2010. L'ente deve avere rispettato il
patto e i vincoli alla spesa del personale. Inoltre, per
incrementare il fondo, entro il tetto dell'1,2% del monte
salari 1997, deve assumere una specifica deliberazione, da
motivare in relazione a risparmi conseguiti o al
miglioramento dei servizi, e acquisire l'attestazione
dell'organismo di valutazione. Per incrementarlo in
relazione all'attivazione di nuovi servizi o al loro
miglioramento occorre adottare una deliberazione nella fase
iniziale dell'anno, in cui si dimostri la finalizzazione
dell'incremento al miglioramento delle attività.
L'aumento deve essere quantificato con criteri oggettivi, di
regola non va ripetuto nel corso degli anni e va erogato
dopo il conseguimento dell'obiettivo. Altro errore da
evitare, che depaupera il fondo, è la mancata inclusione
delle risorse utilizzate per l'adeguamento ai miglioramenti
contrattuali degli importi delle progressioni orizzontali
dei dipendenti cessati. Sulla base delle indicazioni
contenute nella circolare non c'è un unico criterio da
utilizzare per la quantificazione dei tagli al fondo a
seguito della diminuzione del personale.
Di conseguenza, non maturano responsabilità se non si
utilizza quello della media aritmetica del personale in
servizio scelto dalla Ragioneria dello Stato, preferendo
quello delle diminuzioni effettive suggerito dalla Corte dei
conti della Lombardia e dalla Conferenza dei presidenti
delle regioni.
Si deve infine sottolineare la condizione di pesante
incertezza che grava sull'applicazione della "sanatoria",
che sta portando i singoli enti a cercare soluzioni in
ordine sparso o a restare fermi: conseguenza pressoché
obbligata della mancanza di indicazioni applicative
univoche. Proprio il rischio che si voleva evitare delegando
la soluzione dei dubbi alla Conferenza Unificata (articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi gratuiti e rimborsi tassati.
Partecipate. Le nomine dopo il Dl Pa.
L'articolo 16 del decreto di
riforma della Pa impone ai dipendenti delle amministrazioni
nominati in società partecipate di riversare i compensi
all'ente di appartenenza, fatto salvo il diritto al rimborso
delle spese documentate.
Il trattamento fiscale dei rimborsi spese nell'ambito del
reddito di lavoro dipendente è regolato dall'articolo 51,
comma 5, del Tuir, che stabilisce che non concorrono a
formare il reddito da lavoro dipendente i rimborsi spese
relativi a trasferte effettuate fuori dal territorio del
Comune in cui si trova la sede di lavoro del dipendente nei
limiti previsti dall'articolo stesso. Quando la trasferta si
realizza nel territorio del Comune, si applica l'ultimo
periodo del comma 5, che fa rientrare queste somme nel
reddito.
Anche la prassi, con la risoluzione n. 10/816 del
27.06.1975, ha ribadito che «nessuna esclusione
dall'imposizione è consentita per le eventuali somme
corrisposte dal datore di lavoro ai propri dipendenti a
titolo di rimborso delle spese di viaggio, anche sotto forma
di indennità chilometriche, per l'attività lavorativa
esplicata nell'ambito del Comune in cui si trova la sede di
lavoro» precisando che nel caso di attività svolta nel
Comune sede di lavoro, le somme sono considerate
integrazioni della retribuzione e assoggettate ad Irpef
cumulandole con la retribuzione.
Di conseguenza la nomina conferita dall'amministrazione per
un incarico da svolgersi nel Comune sede di lavoro del
dipendente comporterà degli oneri per quest'ultimo, in
quanto oltre a dover riversare il compenso erogato dalla
partecipata, egli riceverà un rimborso spese inferiore a
quanto effettivamente speso, posto che le spese diverse da
quelle di trasporto documentate dal vettore, vitto e
alloggio tipicamente, si cumulano con la retribuzione e
subiscono le vigenti ritenute previdenziali ed erariali,
tanto più elevate quanto maggiore è l'aliquota marginale del
dipendente (articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti, caos sanzioni sugli errori delle
imprese. Gare. Dichiarazioni.
Le stazioni appaltanti non possono più escludere le imprese
da una gara per una dichiarazione sostitutiva mancante o
irregolare, ma devono sanzionarle e chiedere la
regolarizzazione, con un procedimento che presenta vari
problemi.
Le nuove norme introdotte nel Codice appalti dalla legge
114/2014 mirano a garantire la massima partecipazione,
evitando che la dimenticanza di una dichiarazione, magari
per semplice distrazione di chi ha preparato l'istanza,
comporti l'esclusione dalla gara.
Nel Dlgs 163/2006 è stato quindi introdotto all'articolo 38
il comma 2-bis, il quale prevede che la mancanza,
l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli
elementi e delle dichiarazioni sostitutive relative al
possesso dei requisiti generali obbliga il concorrente al
pagamento, in favore della stazione appaltante, di una
sanzione pecuniaria, che deve essere stabilita
dall'amministrazione aggiudicatrice nel bando. Il range
della sanzione è individuato tra l'uno per mille e l'uno per
cento del valore della gara (quindi con riferimento alla
base d'asta), ma con un massimale di 50mila euro.
La prima criticità rilevante deriva proprio
dall'applicazione della sanzione, in quanto la disposizione
individua fattispecie differenti di violazioni delle regole
di gara: la mancanza, l'incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni
sostitutive, per cui necessiterebbe, in base al principio
della gradualità, un'articolazione in base alla diversa
gravità delle infrazioni. Nei primi bandi di gara emanati
con la nuova norma, tuttavia, la scelta effettuata da molte
stazioni appaltanti si è concretizzata nella definizione di
una sanzione unica.
La norma richiede inoltre che il versamento della sanzione
sia garantito dalla cauzione provvisoria, quindi con
possibilità di escussione parziale solo quando il
concorrente non paghi. Tuttavia molte Pa hanno scelto di
prevedere nel bando anche un'integrazione supplementare del
valore della garanzia provvisoria, corrispondente alla
sanzione, determinando un maggior onere per le imprese.
Il nuovo comma 2-bis prevede che la stazione appaltante
richieda al concorrente di rendere la dichiarazione
mancante, di completarla o di regolarizzarla, dando un
termine massimo di 10 giorni. Solo se l'operatore non
provvede, l'amministrazione potrà escluderlo.
La regolarizzazione, peraltro, non è correlata al pagamento
della sanzione, quindi le imprese che abbiano reso o
completato le dichiarazioni insufficienti sono ammessi alla
gara, indipendentemente dall'assolvimento della sanzione.
Problemi altrettanto rilevanti sono determinate dal nuovo
articolo 46, comma 1-ter, del Codice appalti, introdotto
anch'esso dalla legge 114, il quale prevede che le
disposizioni del comma 2-bis si applicano a ogni ipotesi di
mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e
delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono
essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando
o al disciplinare di gara.
Proprio il riferimento agli elementi che devono essere
prodotti in gara induce a ritenere che questi non siano
riferiti tanto al contenuto delle dichiarazioni sostitutive,
quanto ai documenti che devono essere presentati in gara.
Questa lettura ha portato molte Pa a disciplinare nel bando
la sottoposizione alla sanzione e alla regolarizzazione
anche di situazioni come la mancata presentazione della
cauzione provvisoria o dell'attestazione di pagamento del
contributo gare, che sono invece obblighi per la
partecipazione alla gara (articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO: Amministratori condominiali, la formazione non è un optional.
Pubblicato sulla G.U. n. 222 il regolamento che disciplina
le competenze dei professionisti.
Gli amministratori condominiali tornano sui banchi di
scuola. Con la pubblicazione sulla G.U. n. 222 del 24
settembre scorso del regolamento del ministero della
giustizia e che entrerà in vigore il prossimo 9 ottobre si è
finalmente completato il percorso normativo che stabilisce
regole certe per l'accesso al mercato di amministratori
professionali e tecnicamente preparati e aggiornati.
La legge n. 220/2012 di riforma del condominio, oltre a
rafforzare prerogative e obblighi dell'amministratore, ha,
infatti, inteso restringere le modalità di accesso allo
svolgimento di detta attività. È infatti da decenni che si
parlava della necessità di rendere maggiormente
professionale la categoria degli amministratori di
condominio, garantendone la formazione e l'aggiornamento.
D'altra parte nel corso degli anni, l'attività si è pian
piano arricchita di nuove attribuzioni e responsabilità che
hanno reso sempre più necessario per i condomini rivolgersi
a soggetti in grado di svolgere questo compito con
professionalità e competenza.
In mancanza di norme che
disciplinassero questo specifico aspetto, sono state le
associazioni di categoria ad assumersi l'onere di formare e
aggiornare i propri iscritti, in certo qual modo
certificandone il possesso di una serie di competenze di
base.
Il nuovo art. 71-bis disp. att. c.c. ha quindi previsto che
possano svolgere per la prima volta l'attività di
amministratore condominiale soltanto quei soggetti che siano
in possesso di una serie di specifici requisiti di serietà e
professionalità. Fra di essi spiccano i requisiti di
carattere per così dire culturale e di istruzione, ovvero il
conseguimento del diploma di scuola secondaria di secondo
grado e lo svolgimento di appositi corsi di formazione
iniziale e di aggiornamento periodico.
È stata comunque
opportunamente prevista anche una norma di salvaguardia per
quanti già svolgessero detta attività. Infatti, per coloro
che possano dimostrare di avere esercitato per almeno un
anno nell'arco dei tre anni precedenti alla data di entrata
in vigore della legge di riforma del condominio (dunque dal
18.06.2010 al 18.06.2013), lo svolgimento
dell'attività è consentito anche in assenza dei predetti
requisiti (anche in questi casi rimane però l'obbligo di
aggiornamento periodico).
Dette disposizioni erano però sostanzialmente rimaste sulla
carta, perché non era stato chiarito come dovessero essere
organizzati i predetti corsi di formazione (su quali materie
dovessero vertere, quale fosse il monte ore minimo da
rispettare, chi potesse organizzarli ecc.). Successivamente,
con la c.d. mini-riforma del condominio operata dal dl n.
145/2013, convertito con modificazioni dalla legge n.
9/2014, il ministero della giustizia era stato delegato a
emanare il regolamento che avrebbe dato concreta attuazione
a quanto previsto dall'art. 71-bis, comma 1, lett. g), delle
disposizioni di attuazione del codice civile. Dopo una serie
di continui rinvii che hanno messo più volte in
fibrillazione la categoria degli amministratori (e dei
fornitori di servizi di formazione professionale) si è
quindi giunti alla pubblicazione in G.U. del tanto agognato
decreto ministeriale che, nelle intenzioni del legislatore,
dovrebbe fissare dei paletti certi per l'organizzazione e la
gestione dei corsi di formazione iniziale e di aggiornamento
periodico.
Il regolamento è molto snello ed essenziale nei contenuti e
si compone di soli 5 articoli. Dopo aver sinteticamente
indicato oggetto e finalità del decreto, il ministero ha,
infatti, disciplinato i requisiti dei formatori (art. 3) e
del responsabile scientifico del corso (art. 4), per poi
giungere alla definizione dei contenuti dei corsi di
formazione iniziale e di aggiornamento periodico (art. 5).
Nel rimandare agli altri articoli in pagina per una compiuta
illustrazione di questi ultimi tre fondamentali aspetti
della disciplina della formazione degli amministratori
condominiali, si può sin d'ora affermare che il regolamento
licenziato dal ministero della giustizia, contrariamente a
quanto molti temevano, si mostra alquanto liberale
nell'individuazione dei requisiti dei formatori (è stata per
esempio evitata la riserva del servizio di formazione in
capo alle associazioni degli amministratori condominiali) e
delle modalità di gestione e organizzazione dei corsi
(questi ultimi potranno essere svolti anche interamente
online, salvo però l'esame finale, da tenersi presso la sede
individuata dal responsabile scientifico, previsione che
dovrebbe circoscrivere i rischi legati alla promozione di
corsi a costi eccessivamente bassi e, quindi, di contenuto
poco professionale).
Quanto alla spinosa questione della spendibilità dei corsi
svolti dagli aspiranti amministratori di condominio nel
periodo intercorrente tra la data di entrata in vigore della
legge di riforma del condominio (18.06.2013) che, come
detto, ha introdotto l'obbligo della formazione iniziale, e
quella di efficacia del regolamento ministeriale (09.10.2014), occorre evidenziare come il decreto non contenga
alcuna norma transitoria e come, quindi, sia ragionevole
ritenere che quanti abbiano seguito fino a oggi corsi
inferiori alle 72 ore previste dal decreto ministeriale
possano tranquillamente continuare a svolgere la propria
attività.
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Da dimostrare i requisiti di onorabilità e professionalità.
Per poter svolgere l'attività di formatore è necessario
provare al responsabile scientifico, con apposita
documentazione, il possesso di requisiti di onorabilità e
professionalità. I formatori, quindi, dovranno essere
selezionati in base a elevati criteri di competenza e
onorabilità, senza tralasciare il requisito di possedere una
fedina penale trasparente per ciò che riguarda un'ampia
serie di reati. In relazione alle qualità morali e civili
dei formatori si richiede il godimento dei diritti civili,
la mancanza di condanne per delitti contro la pubblica
amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede
pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo
per il quale la legge commini la pena della reclusione non
inferiore, nel minimo, a due anni, e, nel massimo, a cinque
anni, il non essere stati sottoposti a misure di prevenzione
divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la
riabilitazione, nonché il non essere interdetti o
inabilitati.
Sono poi previsti requisiti relativi alla qualificazione
professionale del formatore e alla sua preparazione tecnica
specifica. In particolare gli stessi devono aver maturato
una congrua competenza in materia di amministrazione
condominiale o di sicurezza degli edifici e aver conseguito,
alternativamente, una laurea anche triennale, l'abilitazione
alla libera professione, la docenza in materie giuridiche,
tecniche ed economiche presso università, istituti e scuole
pubbliche o private riconosciute. Peraltro i docenti in
materie giuridiche, tecniche o economiche potranno
dimostrare la loro specifica competenza in materia
condominiale (e quindi svolgere attività di formazione e
aggiornamento) anche qualora possano vantare pubblicazioni
in materia di diritto condominiale o di sicurezza degli
edifici, dotate di codice identificativo internazionale (Isbn).
Un particolare caso di esenzione dai titoli di studio (ma
non dalla competenza specifica) riguarda coloro che abbiano
già svolto attività di formazione in materia di diritto
condominiale o di sicurezza degli edifici in corsi della
durata di almeno 40 ore ciascuno, per almeno sei anni
consecutivi prima della data di entrata in vigore del
regolamento. A tale proposito merita di essere segnalato
come il decreto non precisi le modalità con cui si può
dimostrare l'attività di formazione per almeno sei anni. In
mancanza di precise indicazioni si può pensare che sia
sufficiente una dichiarazione dell'ente formatore
accompagnata da idonea documentazione.
In ogni caso non sono previsti registri ad hoc dei formatori
e dei responsabili scientifici né uno specifico sistema di
controlli sui corsi di formazione e sul possesso dei
richiesti requisiti da parte dei soggetti chiamati a
svolgere la predetta attività formativa. Quanto sopra, come
si legge nel parere del Consiglio di stato del 04.06.2014
n. 1802, è dovuto semplicemente al fatto che nell'ambito
della discrezionalità riservata al ministero dalla normativa
di riferimento, si è preferito non far gravare sul bilancio
del dicastero gli ulteriori oneri che deriverebbero
dall'espletamento delle predette incombenze.
---------------
È d'obbligo l'aggiornamento.
Per accedere all'attività di amministratore condominiale
occorrerà aver frequentato un corso di formazione iniziale
di almeno 72 ore e per mantenersi aggiornati si avrà
l'obbligo di frequentare ogni anno un corso di almeno 15
ore.
I corsi potranno essere svolti anche online, ma occorrerà
sempre un esame finale da svolgersi nella sede individuata
dal responsabile scientifico.
Mentre in tempi meno recenti l'incarico di amministratore
veniva spesso conferito a uno dei condomini che avesse del
tempo a disposizione (lavoratori part-time, pensionati
ecc.), negli ultimi anni si è reso necessario affidare la
gestione dei caseggiati a professionisti esperti in materia
di condominio e in grado di assolvere alle numerose e gravi
responsabilità ascritte all'amministratore dalle leggi
speciali (per tutte, le norme in materia edilizia, di
sicurezza degli impianti, di obblighi tributari come
sostituto d'imposta ecc.). Si può quindi affermare che
l'obbligatorietà di un corso di formazione iniziale e di
aggiornamento annuale (che richiedono l'intervento di
soggetti competenti e di adeguate modalità attuative) siano
espressione dell'evoluzione della figura dell'amministratore
di condominio, i cui compiti, anche a seguito della recente
riforma, sono andati incrementandosi.
L'art. 5 del decreto ministeriale, che fissa i criteri, le
modalità e i contenuti dei corsi di formazione per gli
amministratori condominiali, conferma la volontà del
legislatore di consentire l'esercizio di detta attività solo
a soggetti con adeguate conoscenze tecniche, giuridiche,
contabili e fiscali (che rappresentano la base dalla quale
deve partire chi vuole svolgere questa funzione). Per
conseguire tale risultato il corso di formazione iniziale
(che può anche essere svolto anche on line) non può avere
durata inferiore a 72 ore e si dovrà articolare, nella
misura di un terzo della sua durata effettiva, secondo
moduli che prevedano anche necessarie esercitazioni
pratiche. Naturalmente il programma, che è predisposto dal
responsabile scientifico, sarà costituito da moduli
didattici relativi a tutte le materie di interesse
dell'amministratore.
Per una preparazione completa sarà quindi necessario
conoscere i compiti e i poteri dell'amministratore previsti
dalla legge, ma anche tutte le problematiche relative al
corretto uso degli spazi comuni, ai regolamenti
condominiali, alla ripartizione delle spese condominiali
sulla base delle tabelle millesimali (ma anche alla riparto
delle spese per la manutenzione del lastrico solare di uso
esclusivo, per la manutenzione e la ricostruzione delle
scale, per i solai interpiano, balconi ecc.), alla gestione
dei diversi impianti e servizi condominiali (impianto di
riscaldamento e di condizionamento, impianti idrico,
elettrico, ascensori e montacarichi ecc.).
Nell'ambito dei temi da trattare nel corso iniziale non
potranno certo mancare le fondamentali materie della
sicurezza degli edifici e della prevenzione incendi (nulla
osta, collaudi, ispezioni ecc.), dei diritti reali (con
particolare riguardo al condominio degli edifici e alla
proprietà edilizia), della normativa urbanistica (con
particolare riguardo ai regolamenti edilizi, alla
legislazione speciale delle zone territoriali di interesse
per l'esercizio della professione ecc.), delle disposizioni
sulle barriere architettoniche (in particolare la legge n.
13/89 e le problematiche per l'installazione dell'ascensore
a cura e spese del singolo condomino, l'installazione
dell'ascensore in forza di delibera assembleare ecc.), del
risparmio energetico (si pensi alla termoregolazione e alla
contabilizzazione di calore), delle nozioni per la verifica
e la manutenzione delle strutture degli edifici.
In ogni caso, oltre a una competenza specifica, si rende
necessaria anche una preparazione generale di base, che
richiede la conoscenza della disciplina dei principali
contratti utilizzati in condominio (appalto, sub-appalto,
locazione, contratto di lavoro subordinato ecc.), delle
tecniche di risoluzione dei conflitti, nonché dell'utilizzo
degli strumenti informatici.
Inoltre bisogna considerare che con l'entrata in vigore
della riforma del condominio, le nuove disposizioni in
materia di contabilità e rendicontazione comportano
l'acquisizione di alcuni concetti di contabilità generale
indispensabili alla corretta rendicontazione del condominio,
come previsto dal codice civile.
Da segnalare che è necessario un esame finale, che si
svolgerà nella sede individuata dal responsabile scientifico
anche in caso di corso on line e fungerà da verifica
complessiva delle conoscenze acquisite dai partecipanti al
corso: il responsabile scientifico sarà tenuto ad attestare
il superamento del suddetto esame da parte del futuro
amministratore.
Per quanto riguarda gli obblighi formativi di aggiornamento,
che hanno una cadenza annuale, l'art. 5 del decreto
stabilisce una durata minima di almeno 15 ore. I corsi
riguarderanno elementi in materia di amministrazione
condominiale in relazione all'evoluzione normativa,
giurisprudenziale e alla risoluzione di casi
teorico-pratici.
In ogni caso l'inizio di ciascun corso, le modalità di
svolgimento, i nominativi dei formatori e dei responsabili
scientifici dovranno ogni volta essere comunicati al
ministero della giustizia non oltre la data di inizio del
corso, tramite posta elettronica certificata, all'indirizzo
che verrà tempestivamente indicato sul sito del dicastero.
---------------
In primo piano il responsabile scientifico.
Nel nuovo sistema di formazione e aggiornamento obbligatori
disegnato dal ministero della giustizia per gli
amministratori condominiali riveste un ruolo fondamentale il
responsabile scientifico del corso, ovvero il soggetto che,
in mancanza di controlli puntuali da parte del dicastero (si
veda l'articolo sui formatori), avrà l'onere di attestare la
rispondenza dei corsi alle direttive regolamentari, il
possesso dei necessari requisiti in capo ai formatori e lo
svolgimento di un serio esame finale da svolgersi in una
sede appositamente individuata (anche per i corsi online).
Il decreto ministeriale prevede che la funzione di
responsabile scientifico possa essere svolta
alternativamente da un docente in materie giuridiche,
tecniche o economiche (ricercatore universitario a tempo
determinato o a tempo indeterminato, professore di prima o
di seconda fascia, docente di scuole secondarie di secondo
grado), un avvocato o un magistrato, un professionista
dell'area tecnica.
I soggetti in questione dovranno comunque essere in possesso
dei requisiti di onorabilità e professionalità previsti per
i formatori e indicati all'art. 3 del medesimo regolamento
(si veda l'articolo sui formatori).
Come anticipato, il responsabile scientifico è chiamato a
verificare il possesso dei requisiti di onorabilità e
professionalità dei formatori tramite riscontro documentale,
a sovrintendere al rispetto dei contenuti minimi dei corsi
di formazione e aggiornamento di cui al medesimo regolamento
(si veda l'altro articolo in pagina), a stabilire le
modalità di partecipazione degli iscritti ai corsi e di
rilevamento delle presenze, anche in caso di svolgimento dei
corsi in via telematica (in questo caso viene lasciata ampia
discrezionalità tecnica agli organizzatori dei corsi).
Il responsabile scientifico, infine, è chiamato ad attestare
il superamento con profitto di un esame finale sui contenuti
del corso di formazione e di aggiornamento seguito dai
partecipanti
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014). |
APPALTI: Appalti, è l'ora delle liti light.
Tre norme del dl 90 vogliono accelerare il processo
amministrativo. Facendo scrivere meno.
Correre, correre. E scrivere poco! Anche per la giustizia
amministrativa, così come per quella civile, la parola
d'ordine è: sbrigarsi. Il contenzioso in materia di appalti
pubblici, in particolare, è stato di recente sottoposto a un
«mini restyling» che ha esattamente questo obiettivo.
Tre le misure principali adottate dal dl 90/2014, cosiddetto
decreto semplificazioni: la prima, l'introduzione nel
processo davanti a Tar e Cds della Pec; la seconda, la
condanna alle spese per la parte soccombente in caso di
«abuso del processo» (l'importo della sanzione pecuniaria
per lite temeraria può essere elevato fino all'1% del valore
del contratto); la terza, e forse più curiosa, è stata
introdotta in fase di conversione del dl, attraverso l'art.
40 della legge 114/2014.
Eccone il testo: «Al fine di
consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza
con il principio di sinteticità di cui all'art. 3, comma 2,
le parti contengono le dimensioni del ricorso e degli altri
atti difensivi nei termini stabiliti con decreto del
Presidente del Consiglio di stato, sentiti il Consiglio
nazionale forense e l'Avvocato generale dello stato, nonché
le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti».
Scrivere di meno, insomma, per
facilitare il compito al giudice che deve decidere
(naturalmente, l'art. 40 prevede una deroga nel caso di
particolare complessità tecnica del giudizio...). La domanda
che spesso ci facciamo davanti alle scelte del legislatore
è: funzioneranno queste norme? Questa settimana, su Affari
Legali, l'abbiamo chiesto agli amministrativisti, e ci
sembrano abbastanza perplessi. Noi vogliamo proprio vedere
che effetto produrrà lo scrivere di meno...
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014). |
APPALTI: Le appaltanti al setaccio. Tavolo tecnico per la sforbiciata
alle stazioni. Al via il comitato che dovrà definire il modello per i piani
di acquisto.
Al via il tavolo tecnico delle centrali di committenza; fra
gli obiettivi da realizzare nel 2014 la pianificazione e
armonizzazione dei programmi e la definizione del modello
base per i piani di acquisto aggregato.
È quanto prevede lo schema di dpcm messo a punto dal governo e trasmesso a
comuni e regioni, che definisce la composizione e le
funzioni della struttura operativa e di coordinamento dei
diversi soggetti aggregatori della domanda per gli appalti
di lavori, forniture e servizi.
È questo un ulteriore passo
verso la completa attuazione della legge 89/2014 di
conversione del decreto 66/2014 che, si è posta l'obiettivo
di concentrare in un numero massimo di 35 soggetti (centrali
di committenza) la maggior parte degli acquisiti di beni e
servizi. Lo schema di decreto (che segue quello della scorsa
settimana in cui si definivano i requisiti per potere
svolgere le funzioni di «soggetto aggregatore della
domanda»), prevede che al tavolo tecnico, siano affiancati
un comitato guida e una segreteria tecnica.
Al tavolo, che
avrà il compito di assicurare l'efficace realizzazione
dell'attività di razionalizzazione della spesa per beni e
servizi, potranno sedere un rappresentante del ministero
dell'economia, cui farà capo il coordinamento, uno della
presidenza del consiglio e un membro per ciascun soggetto
aggregatore iscritto nell'elenco tenuto dall'Anac (Autorità
nazionale anticorruzione).
I compiti affidati dal
provvedimento al tavolo tecnico saranno principalmente di
istruttoria sui fabbisogni, attraverso la raccolta dei dati
e la previsione dei fabbisogni di beni e servizi, oltre che
di programmazione integrata delle attività dei diversi
soggetti e controllo su come il processo di aggregazione
viene portato avanti.
Oltre a tutto ciò sarà fondamentale
anche la predisposizione di «metodologie e linguaggi comuni»
applicabili da tutti i soggetti aggregatori della domanda.
Il comitato guida sarà invece più operativo e sarà composto,
oltre che dai nuovi soggetti aggregatori in possesso dei
requisiti previsti dal dpcm della scorsa settimana, anche da
quelli esistenti (Consip, le poche centrali regionali
costituite).
Entro il 30 settembre di ogni anno, il comitato guida dovrà
indicare «gli indirizzi strategici di gestione delle
attività». Infine saranno dieci i componenti della
segreteria tecnica
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2014). |
APPALTI: Debiti Pa, si riapre la compensazione.
Firmato il decreto per il 2014: cartelle esattoriali
«ridotte» dai crediti commerciali.
Si aggiunge un nuovo
tassello all'operazione pagamenti della Pa. Stavolta a
intervenire è un decreto attuativo atteso ormai da diversi
mesi: era previsto dal decreto legge Destinazione Italia del
dicembre 2013.
Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha
infatti controfirmato nei giorni scorsi il decreto del
ministero dell'Economia che sblocca per il 2014 la
compensazione di cartelle esattoriali, ovvero gli atti di
accertamento, a favore di imprese titolari di crediti
commerciali nei confronti di tutte le Pubbliche
amministrazioni.
La compensazione sarà possibile per cartelle esattoriali
notificate fino al 31.03.2014. Si riapre, in sostanza,
una possibilità che era stata riattualizzata dal decreto
35/2013 del governo Monti, ma con un preciso limite
temporale: solo per cartelle notificate entro il 31.12.2012.
Il decreto Padoan-Guidi consente ora la compensazione,
«nell'anno 2014, delle cartelle esattoriali notificate entro
il 31.03.2014, in favore delle imprese titolari di
crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, per
somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni
professionali» maturati nei confronti della Pa. Ci sono
alcune condizioni da rispettare, ovvero i crediti devono
essere certificati e la somma iscritta a ruolo deve essere
inferiore o pari al credito vantato.
I crediti che hanno queste caratteristiche possono essere
portati in compensazione secondo le modalità previste da
precedenti decreti ministeriali del 2012. In sostanza, il
titolare del credito, acquisita la certificazione, la
presenta all'agente della riscossione competente. Se la
regione, l'ente locale o l'ente del Servizio sanitario
nazionale non versa all'agente della riscossione l'importo
oggetto della certificazione entro 60 giorni dal termine
indicato, l'agente può procedere, sulla base del ruolo
emesso, alla riscossione coattiva nei confronti dell'ente.
Sul tema della compensazione restano in campo anche altre
proposte, spesso di complessa praticabilità. Dalla
compensazione universale –per tutte le tipologie di debiti
con la Pa senza distinzioni– (un'idea da sempre sostenuta
da Rete Imprese), alla recente proposta di legge Ncd portata
avanti da Nunzia De Girolamo.
In quest'ultimo caso (l'esame
in Aula della Camera non è stato ancora fissato) si punta a
corrispondere all'imprenditore il 50% di quanto dovuto
dall'amministrazione pubblica a fronte dell'impegno di
chiedere la rateizzazione del debito fiscale, superata
questa procedura verrebbe liquidato l'altro 50% (articolo Il Sole 24 Ore del
26.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Gare, antimafia solo se serve. Il procedimento pendente non
blocca l'attestazione. Una determina dell'Anac, pubblicata in Gazzetta Ufficiale,
fissa i paletti alle Soa.
Il divieto per le Soa (Società organismi di attestazione) di
rilasciare l'attestazione all'impresa di costruzioni scatta
soltanto se i soggetti censiti a fini antimafia hanno a loro
carico un provvedimento espresso del giudice che ordina
l'esecutività della misura di prevenzione antimafia; non è
quindi sufficiente la mera pendenza del procedimento;
obbligo di verifiche antimafia anche nei confronti dei
sindaci della società e dei soggetti che svolgono funzioni
di vigilanza ai sensi del decreto 231/2001.
È quanto afferma
l'Autorità nazionale anticorruzione con la
determinazione 02.09.2014 n. 2 relativa all'applicazione dell'articolo 38,
comma 1, lett. b) del decreto 163/2006 (codice dei contratti
pubblici) e dell'articolo 78 del regolamento attuativo del
codice, le cui prescrizioni hanno necessitato un
coordinamento con le novità apportate dal Codice antimafia,
il decreto legislativo 06.09.2011, n. 159.
Nella determina, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 223
di ieri, si osserva come il Codice antimafia -pur non
prevedendo l'abrogazione espressa dell'articolo 38, il quale
continua quindi ad esplicare i propri effetti- abbia
senz'altro innovato la disciplina dettata dalla norma del
codice dei contratti pubblici, per quanto riguarda i
controlli antimafia ai fini del rilascio delle attestazioni Soa alle imprese di costruzioni.
In particolare secondo l'Anac,
la verifica circa l'assenza delle cause ostative antimafia
ex art. 38, comma 1, lettera b), del Codice dei contratti
(richiamato dall'art. 78 del Regolamento ai fini del
conseguimento dell'attestato di qualificazione) «deve essere
effettuata anche nei confronti dei soggetti indicati dal
comma 2-bis dell'art. 85 del Codice antimafia, quale
ulteriore garanzia dell'affidabilità morale dell'impresa che
intende ottenere l'attestato di qualificazione».
Pertanto,
oltre ai soggetti già contemplati fino ad oggi, gli
organismi di attestazione dovranno effettuare le verifiche
antimafia anche nei confronti del sindaco della società,
nonché dei soggetti che svolgono i compiti di vigilanza ai
sensi del decreto 231/2001. Tutto ciò partendo dalla
assimilazione delle Soa alle amministrazioni pubbliche,
«seppur nel senso di soggetti preposti all'esercizio di
pubbliche funzioni».
Nella determina si precisa inoltre che
il divieto di rilascio dell'attestazione Soa non opera più
sulla base della mera pendenza del procedimento per
l'applicazione delle misure di prevenzione - ma sulla base
di un provvedimento espresso del giudice con il quale sia
disposta in via provvisoria l'operatività del divieto stesso
durante il procedimento per l'applicazione delle misure di
prevenzione.
Sarà infine possibile procedere all'emissione
dell'attestato Soa ove siano decorsi infruttuosamente i
termini per il rilascio della comunicazione antimafia, fatta
salva la facoltà di revoca del documento in caso di
successiva documentazione antimafia dalla quale emerga, a
carico dei soggetti censiti, la sussistenza di cause di
decadenza di cui all'art. 67 del Codice antimafia
(articolo ItaliaOggi del 26.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI:
Gestioni associate, anche il termine del 30/9 è a rischio.
Si avvicina la scadenza del 30 settembre sulle gestioni
associate. Entro tale data, i piccoli comuni dovranno cedere
altre tre delle proprie funzioni fondamentali. Il termine è
stato fissato dall'art. 23, comma 1-quinquies, della legge
114/2014 (di conversione del dl 90), concedendo un'ulteriore
proroga di tre mesi rispetto alla precedente dead line del
30 giugno.
Ricordiamo che l'obbligo di gestire a livello sovracomunale
le funzioni fondamentali, previsto dall'art. 14 del decreto
n. 78/2010, interessa tutti i comuni inferiori a 5.000
abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli appartenenti
o appartenuta a comunità montane.
Le funzioni da associare sono quelle identificate come
fondamentali dalla legge statale: al momento, il relativo
elenco è dettato dall'art. 14, comma 27, del dl 78 (come
sostituito dall'art. 19, comma 1, del dl 95/2012), che ne
enumera 10. Di queste solo una (anagrafe, stato civile e
servizi elettorali) può continuare a essere gestita
singolarmente, mentre le altre vanno obbligatoriamente
conferite a una unione di comuni ovvero esercitate tramite
una convenzione.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue proroghe:
al momento, delle nove funzioni obbligatorie, tre sono state
associate entro il 31.12.2012, altre dovrebbero
esserlo, come detto, entro il 30 settembre, mentre per le
restanti tre la scadenza è fissata al prossimo 31 dicembre.
I nodi, però stanno venendo al pettine solo ora, dato che
funzioni già devolute a livello sovracomunale o erano già
gestite in forma associata (per esempio, servizi sociali) o
sono piuttosto «leggere» (per esempio, protezione civile o
catasto). Il vero «core business» include le funzioni
«pesanti» (come, per esempio, amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici
locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed è ancora tutto
da trasferire.
La maggior parte delle amministrazioni interessate è ancora
impreparata a questo passaggio, complice anche la recente
tornata elettorale e le numerose novità introdotte in
materia dalla recente legge 56/2014 (legge Delrio).
Essa, fra l'altro, ha modificato la soglia demografica
minima che le forme associative devono raggiungere, che
rimane fissata in 10.000 abitanti, ma che ora vale anche per
le convenzioni, oltre che per le unioni. Fanno eccezione le
unioni già costituite, alle quali tale limite non si
applica. Per i comuni montani, la soglia è 3.000 abitanti,
ma le eventuali unioni devono essere formate da almeno tre
comuni.
Restano salvi, tuttavia, il diverso limite demografico ed
eventuali deroghe in ragione di particolari condizioni
territoriali, individuati dalla regione. Ciò, si ritiene
(contrariamente a quanto sostenuto da alcune regioni) anche
rispetto alle leggi regionali anteriori alla legge Delrio.
Il risultato è che il termine intermedio del 30 giugno è
stato quasi ovunque ignorato, costringendo il legislatore a
concedere l'ennesimo extra time. Ma la sensazione è che
anche la scadenza del 30 settembre non verrà rispettata.
Di ciò è consapevole la stessa Anci, che per voce del suo
presidente, Piero Fassino, ha puntato il dito contro
l'attuale quadro legislativo, «che non incoraggia lo
sviluppo delle gestioni associate e delle unioni di comuni».
Secondo Anci, «la battaglia da fare per rilanciare le
gestioni associate è quella di arrivare a un nuovo strumento
normativo che renda più semplice e più vantaggioso ai comuni
associarsi».
Nel frattempo, però gli obblighi rimangono e molte
prefetture hanno pronte le lettere di messa in mora dei
sindaci: il mancato adempimento, infatti, è sanzionato con
il possibile esercizio del potere sostitutivo del governo
attraverso il commissariamento degli enti che non si
adeguano
(articolo ItaliaOggi del 26.09.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., la mobilità può attendere. Precedenza ai lavoratori in
disponibilità o demansionati.
Prima di procedere con i trasferimenti bisogna verificare la
presenza di lavoratori in esubero.
Obbligatorio verificare la presenza di dipendenti in lista
di disponibilità o demansionati, prima di indire non solo i
concorsi, ma anche la procedura di mobilità volontaria che
deve precedere i concorsi.
La riforma della mobilità volontaria contenuta nel dl
90/2014, convertito in legge 114/2014, dovrebbe eliminare
ogni residuo dubbio sull'eventualità che occorra applicare
le disposizioni dell'articolo 34-bis del dlgs 165/2001 anche
alla disciplina della mobilità volontaria.
Occorre superare quanto sancito, in un regime giuridico
molto diverso, dalla Funzione pubblica col parere 198/2005 e
ritenere obbligatorio per le amministrazioni di verificare
se nelle liste di disponibilità siano presenti lavoratori in
esubero, prima di effettuare qualsiasi assunzione a
qualsiasi titolo, compresa la mobilità.
Non vi è da dubitare che la nuova formulazione normativa
configuri la mobilità volontaria come una vera e propria
procedura selettiva, tanto da rendere obbligatoria la
pubblicazione per trenta giorni di un bando di reclutamento
vero e proprio. Non solo: il nuovo comma 1 dell'articolo 30
del dlgs 165/2001 impone a Palazzo Vidoni di agevolare le
procedure di mobilità istituendo un portale finalizzato
all'incontro tra la domanda e l'offerta di mobilità.
Risulta evidente che l'interesse prioritario al detto
incontro domanda/offerta per la mobilità ricade sui
dipendenti pubblici in esubero, collocati nelle liste di
disponibilità e, dunque, alle soglie del licenziamento.
Proprio attraverso la mobilità verso un altro ente, questi
dipendenti potrebbero evitare la risoluzione del rapporto di
lavoro.
Il dl 90/2014 ha anche apportato due importanti modifiche
all'articolo 34 del dlgs 165/2001, finalizzate proprio a
rafforzare le tutele nel mercato del lavoro per i dipendenti
in esubero. Il comma 4 è stato arricchito dalla precisazione
secondo cui nei sei mesi anteriori alla data di scadenza del
termine di permanenza nelle liste di disponibilità, i
dipendenti possono chiedere di transitare in mobilità presso
altre amministrazioni anche con un demansionamento di una
categoria o di un livello. Non solo: questi dipendenti
mantengono il diritto di essere successivamente ricollocati
nella propria originaria qualifica e categoria di
inquadramento, anche attraverso le procedure di mobilità
volontaria. In secondo luogo, il comma 6 novellato dispone
che nell'ambito della programmazione triennale del personale
sia «l'avvio di procedure concorsuali» sia «le nuove
assunzioni a tempo indeterminato o determinato per un
periodo superiore a dodici mesi», debbono essere precedute
dalla «verificata impossibilità di ricollocare il personale
in disponibilità iscritto nell'apposito elenco».
L'accezione «nuove assunzioni» indubbiamente si estende a
reclutamenti diversi da quelli tramite concorsi, tra i quali
rientrano di conseguenza quelli mediante mobilità
volontaria. Del resto, se le amministrazioni sono chiamate a
prevedere nella programmazione triennale delle assunzioni la
verifica dell'esistenza di personale in disponibilità come
condizione per attivare i concorsi e, comunque, assumere,
ciò significa che occorre applicare l'articolo 34-bis del dlgs
165/2001 a qualsiasi forma di reclutamento, ivi compresa la
mobilità volontaria. La quale, per altro, in un regime di
vincoli e restrizioni alle assunzioni per concorso,
costituisce una chiave d'ingresso fondamentale negli enti
per il personale in disponibilità
(articolo ItaliaOggi del 26.09.2014). |
CONDOMINIO:
Rate condominiali in contanti. Al di sotto di mille euro non
è obbligatorio il bonifico.
Il chiarimento del Mineconomia dato in risposta a
un'interrogazione parlamentare.
Rate condominiali pagabili in contanti. Purché inferiori a
mille euro e purché il versamento sia assistito da pezze
giustificative chiare.
Questa l'interpretazione del ministero dell'economia e
finanze, chiamato a interpretare la norma della riforma del
condominio, che ha obbligato all'apertura del conto corrente
del fabbricato (risposta a interrogazione fornita ieri in
commissione finanze alla camera dal viceministro Luigi
Casero).
La legge 220/2012 ha preteso che ogni condominio abbia il
suo conto, ma il problema riguarda la possibilità di
versamento o prelevamento del contante.
Nella prassi molti amministratori hanno informato i
proprietari della impossibilità di accettare pagamenti in
contanti (per rate della gestione o per il riscaldamento),
contemporaneamente richiedendo il pagamento a mezzo di
bonifico.
Da questo scenario, è partita l''interrogazione
23.09.2014 a risposta immediata in Commissione n. 5-03617
(Pisano e altri), cui il Mef ha risposto aprendo
all'uso del contante, ma con operazioni sempre tracciate con
documentazione giustificativa. Ma partiamo
dall'interrogazione.
In essa si ricorda che dal 18.06.2013 è in vigore la riforma del condominio (legge 220/2012)
e che tra i nuovi adempimenti amministrativi e contabili
spicca l'obbligo, imposto all'amministratore, di aprire e
usare il conto corrente bancario o postale intestato al
condominio: sul conto devono transitare tutte le somme
percepite dai condòmini o da terzi, nonché quelle a chiunque
erogate per conto del condominio (è il nuovo articolo 1129,
comma 7, codice civile.
Il legislatore vuole, dunque,
rendere tracciabili le somme della gestione condominiale.
Questo giova, innanzitutto ai comproprietari, che possono
controllare analiticamente tutte le operazioni e serve anche
per far emergere tutte le transazioni fatte dal condomino
con terzi fornitori. Tuttavia, si rileva nella
interrogazione, i nuovi obblighi a carico degli
amministratori hanno creato non poche preoccupazioni tra gli
addetti al settore. E, secondo alcuni, si rischia di
paralizzare la gestione condominiale, imponendo un divieto
assoluto all'amministratore di prelevare o depositare dei
contanti dal conto corrente.
Per arginare lo stallo, qualche
interprete propone di consentire le operazioni per cassa,
consentendo all'amministratore di versare o prelevare
contante dal conto corrente, anche mediante l'indicazione di
una generica causale (per esempio, fondo cassa), purché
della gestione del denaro vi sia dettagliato riscontro nella
contabilità condominiale: per i versamenti, mediante la
specificazione della provenienza e del titolo del pagamento;
per i prelievi, mediante l'annotazione analitica delle spese
effettuate nel registro di contabilità e nel rendiconto
condominiale. Ma questa strada è incompatibile con
l'esigenza di rendere tracciabile tutte le operazioni, sia
per il condomino, ma anche per il fisco.
Il dilemma è quindi
che cosa voglia dire l'articolo 1129, comma 7 del codice
civile quando dice che le somme devono necessariamente
transitare sul conto. La risposta del Mef lascia spazi
all'uso del contante, ma strettamente tracciato. Il
ministero richiama una circolare sulla tracciabilità dei
canoni di locazione (circolare 05.02.2014), che si è
occupata del problema analogo dell'uso del contante per
pagare gli affitti. Il Mef in quella circolare, ai fini
dell'irrogazione delle sanzioni antiriciclaggio ha stabilito
che sono da prendere in considerazione solo i pagamenti pari
o superiori a mille euro e, conseguentemente, ha ritenuto
pericolose unicamente le movimentazioni di contante
eccedenti la soglia fissata dalla legge.
La circolare
conclude nel senso che, sotto la soglia dei mille euro, la
finalità di conservare traccia delle transazioni in contante
può ritenersi soddisfatta fornendo una prova documentale,
comunque formata, ma chiara e idonea ad attestare la
destinazione di una determinata somma di denaro contante al
pagamento del canone di locazione. Questa interpretazione,
dice ora il Mef, può essere estesa al pagamento delle rate
condominiali. E, quindi, le operazioni sotto soglia non
comportano rischio di sanzioni antiriciclaggio, ma bisogna
avere una pezza d'appoggio precisa sulla provenienza e sulla
destinazione dei fondi
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2014). |
PATRIMONIO: Alienabili gli immobili non abitativi.
Nota anci.
Solo gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo, e
non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali
dei comuni, potranno essere alienati dagli enti che vorranno
aderire al programma straordinario di cessione di asset
immobiliari previsto dalla legge di stabilità 2014 (legge
147/2013).
Anche gli enti territoriali possono infatti
essere ricompresi nel programma da cui il governo si attende
500 milioni di introiti l'anno. I comuni interessati
dovranno con delibera consiliare individuare i beni da
dismettere e dare mandato al Mef affinché vengano inseriti
nel decreto dirigenziale che autorizza il trasferimento.
A quel punto sarà l'Agenzia del Demanio a vendere i beni
secondo le modalità della trattativa privata
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2014). |
SICUREZZA
LAVORO: Sicurezza, arrivano i modelli semplificati per i piani
operativi.
È stato pubblicato nella G.U. n. 212 il Decreto
interministeriale del 09/09/2014 relativo a «Modelli
semplificati per la redazione del piano operativo di
sicurezza (Pos), del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc)
e del fascicolo dell'opera (Fo) nonché del piano di
sicurezza sostitutivo (Pss)».
La scelta del legislatore di allegare al testo del decreto
gli schemi di redazione dei modelli semplificati (il cui
utilizzo da parte delle imprese affidatarie ed esecutrici o
dei coordinatori è facoltativa) consente di esprimere un
primo giudizio nel merito di un provvedimento da tempo
richiesto alle sedi competenti.
È apprezzabile la volontà del legislatore di condurre la
redazione a criteri di semplicità, brevità e immediata
comprensione, pur senza mettere in discussione la doverosa
completezza: il rischio da evitare, soprattutto quando si
parla di sicurezza, è che «modello semplificato» diventi
sinonimo di «modello poco rilevante».
Sorprende, invece, la mancata rivisitazione del titolo IV
del dlgs 81/2008, in particolare per ciò che concerne i
compiti del coordinatore in fase di progettazione e di
esecuzione dei lavori; a causa delle responsabilità dirette
a lui attribuite, è obbligato a dover prevedere
l'imprevedibile, con l'esposizione di casistiche di rischio
talmente vasta da rendere molto difficile la
razionalizzazione della documentazione.
L'auspicio è che si possa andare nella direzione in cui al
coordinatore sia consentito di concentrare la propria
attività nella progettazione e programmazione delle opere
secondo canoni di salute e sicurezza, intervenendo nella
gestione dei soli rischi da interferenza e lasciando a terzi
quelli propri d'impresa
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2014). |
APPALTI: Appalti in deroga, stretta sulle varianti. L'Anac: obbligo
di comunicazione anche se i lavori sono stati affidati senza
gara.
Opere pubbliche. L'Autorità anticorruzione dà una nuova
interpretazione della norma contenuta nel decreto legge 90.
Dall'Anac di Raffaele
Cantone arriva un nuovo giro di vite sulle varianti, le
modifiche ai progetti decise a cantieri già aperti, da cui
in un caso su due dipendono gli aumenti di costo delle
grandi opere pubbliche.
D'ora in avanti anche le correzioni apportate ai che godono
di procedure in deroga dovranno passare sotto il vaglio
dell'Anticorruzione. Dunque non potranno sfuggire ai
controlli neppure le opere affidate a commissari o appaltate
senza gara. E soprattutto non sarà possibile tentare di
sfuggire ai controlli "frazionando" artificiosamente
l'importo delle variazioni al progetto, perché saranno
sottoposte a verifica anche le varianti plurime relative
allo stesso appalto, se l'importo cumulativo porta a
superare la soglia del 10% che fa scattare i controlli.
Il
chiarimento arriva con
il
comunicato 17.09.2014 firmato da Cantone.
La nota serve a chiarire nel dettaglio quando scattano i
controlli sulle varianti introdotte dal decreto Pa (Decreto
legge n. 90/2014, articolo 37) indicando anche quali
documenti vanno inviati all'Autorità, in che modo e con
quali responsabilità.
Il decreto impone di trasmettere all'Anac tutte le varianti
(che comportano aumenti di costo superiori al 10% delle
opere di importo superiore alla soglia europea di 5,186
milioni), con l'esclusione di quelle dovute a evoluzioni
normative o errori progettuali.
Nei casi previsti dal decreto, spiega l'Anac, le stazioni
appaltanti dovranno inviare all'Anac l'atto di validazione
della variante con la relazione del funzionario pubblico che
segue l'appalto (il Rup) insieme alla perizia di variante e
al progetto esecutivo. In particolare, tra i documenti
dovranno essere «inderogabilmente» compresi un computo metrico-estimativo di raffronto dei costi, l'atto aggiuntivo
e «i verbali di concordamento dei nuovi prezzi, se
presenti».
Il comunicato spiega nel dettaglio anche i contenuti cui
dovrà attenersi la relazione del Rup e specifica che la
documentazione dovrà essere inviata tramite un Cd. Nella
nota vengono date anche alcune indicazioni di coordinamento
tra i precedenti metodi di comunicazione delle varianti alla
vecchia Avcp e la nuova disciplina. Vanno comunicate solo le
varianti relative ad appalti superiori a 40mila euro, ma
cambia il termine massimo della comunicazione che scende a
30 giorni dopo l'approvazione, dai precedenti 60 giorni.
Cantone precisa che l'obbligo di comunicazione da parte
della stazione appaltante sussiste anche in alcuni casi che
avrebbero potuto far sporgere dubbi restando alla lettera
del decreto. La novità più importante riguarda l'obbligo di
comunicazione delle varianti di opere affidate tramite
procedure speciali. Saranno soggetti ai controlli anche gli
appalti che godono di corsie preferenziali rispetto ai
controlli ordinari.
Infine, si specifica che il controllo scatta anche quando la
soglia del 10% del valore dell'appalto viene superata
attraverso più varianti relative allo stesso contratto.
Dunque, strada sbarrata ai frazionamenti artificiosi allo
scopo di aggirare i controlli. In tal caso -è questa
l'ulteriore precisazione- il termine di 30 giorni per la
comunicazione parte dall'approvazione della variante che ha
determinato il superamento della soglia del 10%. Infine, l'Anac
ricorda che tocca al Rup adempiere agli obblighi di
trasmissione delle varianti.
E le inadempienze si pagano a
caro prezzo. Le multe possono arrivare a 25.822 euro per
mancata trasmissione e fino a 51.545 euro per false
comunicazioni (articolo Il Sole 24 Ore del
24.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PATRIMONIO: Immobili dei comuni in vendita. Il Demanio potrà cedere i
beni non più funzionali. Nota Anci: anche gli enti locali possono partecipare al
programma di dismissione
Immobili dei comuni in vendita. Anche i municipi possono
partecipare al programma straordinario di cessione di asset
immobiliari pubblici rilanciato dalla legge di stabilità
2014 che dalle dismissioni si aspetta introiti non inferiori
a 500 milioni di euro l'anno per il triennio 2014-2016.
A chiarirlo è l'Anci che in una
nota
tecnica ha voluto richiamare l'attenzione delle
amministrazioni locali sull'opportunità di cogliere la
chance offerta dal comma 391 della legge 147/2013.
L'estensione agli enti territoriali della possibilità di
aderire al programma straordinario di cessione è stabilita
dal decreto legge 30.11.2013 n. 133 (il cosiddetto dl Imu che l'anno scorso cancellò la seconda rata dell'imposta
municipale). Alla base dell'operazione di dismissione,
«obiettivi di finanza pubblica» (fare cassa per abbattere il
debito) ma anche ambientali («prevenire nuove urbanizzazioni
e ridurre il consumo di suolo»).
Gli enti interessati dovranno individuare con delibera
consiliare i beni da dismettere. Nella stessa delibera dovrà
essere conferito mandato al ministero dell'economia per
inserire la lista degli immobili da cedere nel decreto
dirigenziale che ne dovrà autorizzare il trasferimento.
Potranno essere alienati a titolo oneroso beni ad uso
prevalentemente abitativo che l'ente ritenga non strumentali
all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali. Il dl
133 vieta l'alienazione di immobili a società la cui
struttura non consenta l'identificazione delle persone
fisiche o giuridiche che ne detengono la proprietà.
Per questo genere di operazioni, dunque, non potranno essere
utilizzate società anonime con sede all'estero e un
eventuale atto di trasferimento a società di questo tipo
sarà nullo.
Sarà l'Agenzia del demanio a vendere, con trattativa
privata, gli immobili per i quali sia stata espressamente
autorizzata con decreto del Mef. Dalla trattativa privata
dovranno essere esclusi i soggetti che siano stati
condannati, con sentenza irrevocabile, per reati fiscali o
tributari.
Le amministrazioni cedenti, chiarisce l'Anci, saranno
esonerate dall'obbligo di rendere le dichiarazioni
urbanistiche richieste dalla legge per la validità degli
atti e dall'obbligo di allegare il certificato di
destinazione urbanistica contenente le prescrizioni
riguardanti le aree interessate dal trasferimento.
Nessuna indicazione invece sulle modalità di determinazione
del valore dell'immobile oggetto di dismissione
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2014). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing solo quando c'è causa-effetto.
Cassazione. Deve essere dimostrata la connessione tra azioni
vessatorie e danno alla dignità o alla salute personale.
La Corte di Cassazione,
con sentenza 25.09.2014 n. 20230, nell'ambito del
giudizio promosso da un dipendente che affermava la nullità
del licenziamento irrogato dal datore di lavoro quale
culmine di un comportamento ritorsivo e vessatorio, ha
precisato i tratti distintivi e peculiari del mobbing nello
specifico contesto lavorativo.
Si qualifica come mobbing il comportamento ostile e
persecutorio che la vittima subisce da parte dei componenti
del gruppo in cui è inserito o da parte del suo responsabile
con l'intento di ottenere la sua espulsione dall'ambiente di
lavoro. Si tratta di una fattispecie a formazione
progressiva, precisa la Suprema corte,
che richiede per la
sua configurazione una serie ripetuta e protratta nel tempo
di atti e di comportamenti vessatori che, valutati
complessivamente, risultano diretti a perseguitare la
vittima con l'obiettivo primario di emarginarla.
La Cassazione si affida a questa definizione di mobbing in
ambito lavorativo riprendendo le valutazioni che, a tale
proposito, sono state espresse dalla Corte costituzionale e
fatte proprie dalla giurisprudenza di legittimità. Tali
valutazioni hanno qualificato il mobbing come una condotta
vessatoria nei confronti di una vittima ascrivibile a uno o
più colleghi, protratta nel tempo e consistente nella
ripetizione di azioni ostili, che assumono la forma di
persecuzione nei confronti del lavoratore e da cui
discendono la mortificazione morale e l'emarginazione del
dipendente, con effetti pregiudizievoli per la sua
personalità e integrità psicofisica.
Nel quadro di questa più generale qualificazione si osserva
nella sentenza 20230 che, ai fini dell'effettiva
configurabilità del mobbing, devono essere
contemporaneamente presenti una serie di essenziali e
insostituibili condizioni. Il primo requisito consiste in
azioni e comportamenti di carattere persecutorio –che sono
generalmente illeciti, ma possono essere anche leciti se
considerati singolarmente– posti in essere in modo
sistematico e prolungato nel tempo con una precisa finalità
vessatoria da parte di uno o più dipendenti o responsabili
aziendali o anche da parte dello stesso datore di lavoro.
Deve quindi derivare da queste condotte persecutorie la
lesione del bene salute, ovvero una compromissione
dell'integrità psicofisica del lavoratore e la
mortificazione del dipendente sul piano della personalità o
della dignità.
La Corte prosegue evidenziando che, ai fini dell'insorgenza
del mobbing, è necessario che tra azioni vessatorie e
lesione della dignità personale e/o della salute del
lavoratore vi sia un nesso eziologico di causa ed effetto,
cui si deve, infine, aggiungere la sussistenza di un intento
persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Conclude la Cassazione affermando che, data la complessità e
specificità della fattispecie, va esclusa la possibilità di
ritenere il mobbing implicitamente dedotto dalla parte che
ricorre al giudice del lavoro, atteso che è invece
necessario allegare e dimostrare con dovizia e precisione
gli specifici elementi di fatto e le circostanze da cui si
possa risalire ai molteplici elementi che qualificano la
figura del mobbing.
È stata, quindi, confermata la sentenza della Corte
d'appello impugnata dal lavoratore proprio sul presupposto
che nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio non
era presente alcuna allegazione specifica in merito al fatto
che il licenziamento fosse diretta conseguenza di una
condotta vessatoria e ritorsiva del datore di lavoro
(articolo Il Sole 24 Ore del
26.09.2014). |
COMPETENZE
GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE:
Rientra tra gli ordinari poteri gestori del dirigente
adottare il provvedimento di proroga del termine di pubblica
utilità dell’opera pubblica ai fini dell’espropriazione.
Con riferimento alla dedotta
incompetenza del dirigente a disporre la proroga, anche in
disparte la disposizione attributiva di competenza, invocata
dal Comune appellante, di cui all'art. 6, comma 7, del
d.P.R. n. 327/2001 (che radica la competenza del dirigente
dell'ufficio espropriazioni ove istituito a emanare "...ogni
provvedimento conclusivo del procedimento o di singole fasi
di esso..."), deve ritenersi che l'adozione dell'atto non
esula dagli ordinari poteri gestori ex art. 107, comma 2,
del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, tenuto conto che ai medesimi
è riconducibile addirittura l'emanazione di atti ablativi
con immediata e diretta efficacia nella sfera giuridica dei
destinatari quali ad esempio l'emanazione del decreto di
occupazione d'urgenza.
... per la riforma della sentenza del TAR per il Lazio,
Sezione staccata di Latina, n. 564 del 17.06.2013,
notificata il 31.07.2013, resa tra le parti, con cui, in
accoglimento del ricorso in primo grado n.r. 5/2013, sono
stati annullati il decreto dirigenziale di esproprio n. 3
del 18.04.2009 e il presupposto decreto dirigenziale n. 2
del 06.04.2007, di proroga della dichiarazione di pubblica
utilità, con declaratoria dell'obbligo del Comune di
Frosinone di emanare provvedimento di acquisizione ex art.
42-bis del d.P.R. n. 327/2001 e contestuale determinazione
del risarcimento dovuto, con condanna al pagamento delle
spese del giudizio liquidate in complessivi € 1.500,00
...
Da ultimo, e con riferimento alla dedotta incompetenza del
dirigente a disporre la proroga, anche in disparte la
disposizione attributiva di competenza, invocata dal Comune
appellante, di cui all'art. 6, comma 7, del d.P.R. n.
327/2001 (che radica la competenza del dirigente
dell'ufficio espropriazioni ove istituito a emanare "...ogni
provvedimento conclusivo del procedimento o di singole fasi
di esso..."), deve ritenersi che l'adozione dell'atto
non esula dagli ordinari poteri gestori ex art. 107, comma
2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, tenuto conto che ai
medesimi è riconducibile addirittura l'emanazione di atti
ablativi con immediata e diretta efficacia nella sfera
giuridica dei destinatari (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
25/11/2008, n. 5816) quali ad esempio l'emanazione del
decreto di occupazione d'urgenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
04/04/2011, n. 2107, 18/03/2010, n. 161) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 25.09.2014 n. 4825 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La dichiarazione di pubblica utilità é implicita
nell’approvazione del progetto esecutivo di un’opera
pubblica.
Per la dichiarazione di pubblica utilità
non è necessaria una particolare motivazione, essendo questa
conseguenza ex lege dell'approvazione del progetto
definitivo.
Inoltre, la volontà di realizzare un'opera pubblica deve
esplicitarsi in provvedimenti tipici, dichiarativi della
pubblica utilità, come evincibili dall'art. 12 del d.P.R. n.
327 del 2001, in sostanziale continuità con quanto in
precedenza previsto dall'art. 14 comma 13, l. 11.02.1994 n.
109.
In questo senso, la giurisprudenza successiva a tale decreto
(differentemente dall’unico precedente di questo Consiglio
indicato dalla difesa della parte appellata, dato nel 1987)
ha chiarito come, per la dichiarazione di pubblica utilità,
non sia necessaria una particolare motivazione, essendo
questa conseguenza ex lege dell'approvazione del
progetto definitivo (vedi Consiglio di Stato, sez. IV,
09.12.2011 n. 6468); e che la volontà di realizzare un'opera
pubblica deve esplicitarsi in provvedimenti tipici,
dichiarativi della pubblica utilità, come evincibili
dall'art. 12 del d.P.R. n. 327 del 2001, in sostanziale
continuità con quanto in precedenza previsto dall'art. 14
comma 13, l. 11.02.1994 n. 109 (Consiglio di Stato, sez. VI,
24.11.2011 n. 6207) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.09.2014 n. 4824 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria.
---------------
Secondo una tesi sostenuta
dalla giurisprudenza di primo grado <<è possibile procedere
a condono senza il consenso ed anche contro la volontà del
proprietario del bene oggetto del procedimento di
sanatoria>>.
Una tesi intermedia, invece, ritiene che alla
richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono
provvedere, non solo «coloro che hanno titolo, ai sensi
della l. 28.01.1977 n. 10, a richiedere la concessione
edilizia o l’autorizzazione» (oggi i soggetti indicati
dall’art. 11 t.u. edilizia), ma anche, «salvo rivalsa nei
confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato
al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria,
quindi, sarebbe fungibile ratione personarum, ma a
condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso
comunque manifestato dal proprietario.
In quest’ottica:
a) è stata considerata sufficiente l'avvenuta
sottoscrizione, da parte di un soggetto, di un atto di
impegno ad acquistare il locale interessato alla sanatoria;
b) è stato ritenuto indispensabile, in caso di dissidio fra
proprietari perché le opere di cui si chiede il condono
incidono sul diritto di alcuni di essi, che l’istruttoria
della pratica ed il provvedimento finale diano conto della
verifica della legittimazione del soggetto richiedente;
c) è stato considerato inapplicabile l’istituto del condono,
laddove l’abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree
comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la
volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente
opinando, l’amministrazione finirebbe per legittimare una
sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte
del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà
contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati
all’eliminazione dell’abuso anche in via amministrativa e
non solo con azioni privatistiche.
A tale tesi intermedia aderisce il Collegio.
---------------
L'autocertificazione della qualità di proprietario, ancorché
resa nelle forme di legge, non è sufficiente ad accertare
l'esistenza in capo al soggetto richiedente la sanatoria
edilizia di un valido titolo di disponibilità giuridica
dell’immobile (nel caso di specie era stata resa
un'autocertificazione ai sensi dell’art. 2 della L. n. 15
del 1968 e art. 1 del DPR n. 403/1998).
L’appello è infondato.
Occorre premettere che, in base all’art. 11, comma primo,
del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.04.2012 n.
1990).
Secondo una tesi sostenuta dalla giurisprudenza di
primo grado (cfr. Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.07.2011,
n. 1057), <<è possibile procedere a condono senza il
consenso ed anche contro la volontà del proprietario del
bene oggetto del procedimento di sanatoria>>.
Una tesi intermedia, invece, ritiene che alla
richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono
provvedere, non solo «coloro che hanno titolo, ai sensi
della l. 28.01.1977 n. 10, a richiedere la concessione
edilizia o l’autorizzazione» (oggi i soggetti indicati
dall’art. 11 t.u. edilizia), ma anche, «salvo rivalsa nei
confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato
al conseguimento della sanatoria medesima»: la
sanatoria, quindi, sarebbe fungibile ratione personarum,
ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il
consenso comunque manifestato dal proprietario (cfr. Cons.
St., sez. IV, 26.01.2009, n. 437; sez. IV, 22.06.2000, n.
3520, secondo la quale, però, la riduzione della misura
dell’oblazione prevista dall’art. 34 l. n. 47 cit., essendo
calcolata in base al solo criterio funzionale della
destinazione economica delle opere, opererebbe
esclusivamente ratione rei).
In quest’ottica:
a) è stata considerata sufficiente l'avvenuta
sottoscrizione, da parte di un soggetto, di un atto di
impegno ad acquistare il locale interessato alla sanatoria
(cfr. Cons. St., sez. VI, 27.06.2008, n. 3282);
b) è stato ritenuto indispensabile, in caso di dissidio fra
proprietari perché le opere di cui si chiede il condono
incidono sul diritto di alcuni di essi, che l’istruttoria
della pratica ed il provvedimento finale diano conto della
verifica della legittimazione del soggetto richiedente (cfr.
Cons. giust. amm. 03.06.2009, n. 84/2009);
c) è stato considerato inapplicabile l’istituto del condono,
laddove l’abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree
comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la
volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente
opinando, l’amministrazione finirebbe per legittimare una
sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte
del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà
contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati
all’eliminazione dell’abuso anche in via amministrativa e
non solo con azioni privatistiche (cfr. Cons. St., sez. VI,
27.06.2008, n. 3282).
A tale tesi intermedia aderisce il Collegio (cfr.
Cons. St, sez. V, 08.11.2011, n. 5894).
Nel caso di specie la richiesta del controinteressato non è
stata preceduta da alcuna manifestazione di volontà dei
comproprietari avente carattere autorizzatorio; sicché deve
ritenersi, conformemente a quanto sostenuto dalla ricorrente
in prime cure, che questi fosse privo di legittimazione a
richiedere il titolo edilizio.
Il Comune di San Pietro Vernotico, invero, ha omesso
l’accertamento relativo all’esistenza in capo al sig.
Daniele Bagordo di un valido titolo di disponibilità
giuridica dell’immobile, ritenendo idonea prova del diritto
di proprietà semplicemente un’autocertificazione resa ai
sensi dell’art. 2 della L. n. 15 del 1968 e art. 1 del DPR
n. 403/1998.
Tale dovere di accertamento l’amministrazione avrebbe dovuto
compiere avendo il sig. Bagordo Daniele rappresentato ed
asserito che il lastrico solare sul quale era stata
edificata l’opera abusiva fosse in comproprietà tra i
sigg.ri Bagordo Stefano, Bagordo Daniele e Foscarini
Giuseppa, e quindi avrebbe dovuto prendere in considerazione
l’insussistente consenso del comproprietario, il quale,
anzi, aveva più volte manifestato il proprio dissenso,
rispetto al rilascio del titolo volto a legalizzare il
manufatto abusivo (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.09.2014 n. 4818 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il procedimento di riconoscimento di
debito fuori bilancio, di cui all'art. 194 del TUEL,
presuppone che il creditore possa vantare, a fondamento
della propria pretesa, l’esistenza di un titolo valido ed
efficace.
La giurisprudenza sul punto è univoca essendo pacifico che
detto procedimento “rispondendo all'interesse pubblico alla
regolarità della gestione finanziaria dell'ente, è diretto
esclusivamente a sanare irregolarità di tipo contabile
dell'ente locale e non può sopperire alla mancanza di
un'obbligazione validamente sorta”.
Passando ad esaminare nel merito la domanda di parte
ricorrente, se ne rileva l’infondatezza per le ragioni che
seguono.
Il procedimento di riconoscimento di debito fuori bilancio,
di cui all'art. 194 del TUEL, presuppone che il creditore
possa vantare, a fondamento della propria pretesa,
l’esistenza di un titolo valido ed efficace.
La giurisprudenza sul punto è univoca essendo pacifico che
detto procedimento “rispondendo all'interesse pubblico
alla regolarità della gestione finanziaria dell'ente, è
diretto esclusivamente a sanare irregolarità di tipo
contabile dell'ente locale e non può sopperire alla mancanza
di un'obbligazione validamente sorta” (cfr. Cons. Stato
Sez. V, 29.12.2009, n. 8953).
Orbene, nella fattispecie sottoposta all’esame di questo
Tribunale, difetta proprio il presupposto dato
dall’esistenza in capo ai professionisti di un valido ed
efficace titolo fonte di obbligazioni per il Comune
intimato.
Non è controverso, infatti, che, come esposto nelle premesse
in fatto, il Tribunale di Enna (con sentenza n. 185/2011) ha
statuito che “il provvedimento di conferimento
dell’incarico sarebbe stato nullo per mancanza di copertura
finanziaria e, di riflesso, la nullità avrebbe reso tale
anche il disciplinare stipulato tra le parti”.
Ne consegue che, poiché l’esistenza del credito di cui parte
ricorrente ha chiesto il riconoscimento fuori bilancio era,
al memento di proposizione dell’istanza ex art. 194 del
D.lgs. 267/2000 dalla stessa formulata, sub judice,
stante l’impugnazione della citata sentenza del Tribunale di
Enna, in maniera legittima il Comune di Valguarnera, lungi
dal rimanere inerte alla suddetta istanza, con la nota
sindacale del 06.12.2013, l’ha respinta per insussistenza
dei presupposti di legge.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato (TAR Sicilia-Catania,
Sez. III,
sentenza 24.09.2014 n. 2458 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
materia di gare pubbliche per l'affidamento di appalti di
servizi, il ricorso all'avvalimento avente ad oggetto il
fatturato o l'esperienza pregressa è legittimo, atteso che
la disciplina dell'art. 49 del D.Lgs. n. 163 del 2006 non
pone alcuna limitazione, se non per i requisiti strettamente
personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39
dello stesso Codice degli appalti.
In punto di fatto va premesso:
a) che il contestato contratto di avvalimento riguarda
esclusivamente il possesso del fatturato e dell’esperienza
pregressa, non anche la messa a disposizioni di mezzi e
risorse necessari per l’esecuzione del servizio, di cui la
società controinteressata era già in possesso (circostanza
questa non contestata dalla ricorrente);
b) che l’accordo di avvalimento reca un’analitica ed
esaustiva elencazione del fatturato globale degli ultimi tre
esercizi (distinto per singolo anno), del fatturato
specifico nel settore oggetto della gara e dell’elenco dei
principali servizi, prestati negli ultimi tre anni, con
l’espressa indicazione degli importi e dei destinatari.
Sulla base di tali elementi e della natura dei requisiti
messi a disposizione dall’ausiliaria, l’avvalimento appare
sufficientemente determinato e idoneo ad assicurare la
serietà e l'affidabilità dell'offerta tecnica, poiché dal
contratto di avvalimento si evince con esattezza e
precisione la natura dell'impegno assunto (riguardante la
messa a disposizione del fatturato e dell’esperienza
pregressa) e la sua concreta portata (coincidente con il
rispetto degli importi minimi fissati dalla lex specialis),
tenuto anche conto che, nel caso di specie, i requisiti
prestati dall’ausiliaria servono essenzialmente ad accedere
alla gara, non già ad incrementare i mezzi e gli strumenti
operativi della Eurogroup che già possiede gli altri
requisiti di partecipazione.
A tal riguardo, va richiamata la consolidata giurisprudenza
amministrativa in base alla quale il ricorso all'avvalimento,
avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa, è
legittimo, atteso che la disciplina dell'art. 49 del D.Lgs.
n. 163 del 2006 non pone alcuna limitazione, se non per i
requisiti strettamente personali di carattere generale, di
cui agli artt. 38 e 39 dello stesso Codice degli appalti
(cfr. ex multis, Cons. Stato Sez. III, 06.02.2014, n.
584 e 25.02.2014, n. 895; sez. V, 14.02.2013, n. 911)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 24.09.2014 n. 2449 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In tema di verifica dell'anomalia dell'offerta,
la consolidata giurisprudenza ritiene:
a) che il giudizio della stazione appaltante costituisce
esplicazione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in
caso di macroscopica illogicità, irrazionalità o erroneità
che rendano palese l'inattendibilità complessiva
dell'offerta;
b) che, pertanto, il giudice amministrativo può sindacare le
valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo
della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza
dell'istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle
singole voci, cosa che rappresenterebbe invece
un'inammissibile invasione della sfera propria della
pubblica amministrazione;
c) che anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai
concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della
propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica
dell'amministrazione, con la conseguenza che soltanto in
caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di
valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o
inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può
intervenire; fermo restando l'impossibilità di sostituire il
proprio giudizio a quello dell'amministrazione;
d) che la valutazione di congruità debba essere globale e
sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo
parcellizzato sulle singole voci di prezzo, giacché
l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità
dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci
che lo compongono, e che il solo scostamento dagli importi
fissati nelle tabelle ministeriale del costo del lavoro non
costituisce ex se fattore di anomalia.
Il Collegio premette che in tema di verifica dell'anomalia
dell'offerta, la consolidata giurisprudenza ritiene:
a) che il giudizio della stazione appaltante costituisce
esplicazione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in
caso di macroscopica illogicità, irrazionalità o erroneità
che rendano palese l'inattendibilità complessiva
dell'offerta (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26.06.2012, n. 3737;
22.02.2011, n. 1090);
b) che, pertanto, il giudice amministrativo può sindacare le
valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo
della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza
dell'istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle
singole voci, cosa che rappresenterebbe invece
un'inammissibile invasione della sfera propria della
pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 18.02.2013,
n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206;
11.05.2012, n. 2732);
c) che anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai
concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della
propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica
dell'amministrazione, con la conseguenza che soltanto in
caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di
valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o
inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può
intervenire; fermo restando l'impossibilità di sostituire il
proprio giudizio a quello dell'amministrazione (Cons. Stato,
sez. V, 06.06.2012, n. 3340; 29.02.2012, n. 1183);
d) che la valutazione di congruità debba essere globale e
sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo
parcellizzato sulle singole voci di prezzo, giacché
l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità
dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci
che lo compongono (Cons. Stato, sez. V, 27.08.2012, n. 4600;
sez, V, 16.08.2011, n. 4785), e che il solo scostamento
dagli importi fissati nelle tabelle ministeriale del costo
del lavoro non costituisce ex se fattore di anomalia
(Cons. Stato, sez. III, 28.05.2012, n. 3134)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 24.09.2014 n. 2449 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
principio della necessità della motivazione in caso di
reiterazione del vincolo (poi espressamente disposto
dall'art. 9, comma 4, del D.P.R. n. 327 del 2001) è stato
affermato dalla giurisprudenza quale temperamento dell'altro
principio per il quale un atto di pianificazione generale
-tranne i casi di incidenza su posizioni consolidate da
giudicati o da convenzioni di lottizzazione- non ha bisogno
di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si
esprime con i criteri posti a sua base.
In base a tale temperamento, poiché l'art. 2 della legge n.
1187 del 1968 aveva previsto la decadenza del vincolo
preordinato all'esproprio per il decorso del quinquennio in
assenza della dichiarazione della pubblica utilità, si è
ammesso che l'esercizio del potere di reiterazione del
vincolo possa essere esercitato solo sulla base di una
idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che faccia
escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei
relativi atti, occorrendo l'effettiva cura di un pubblico
interesse.
Infatti, “l'Amministrazione deve indicare la ragione che la
induce a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la
precedente scelta si era appuntata: la reiterazione del
vincolo espropriativo, sic et simpliciter, non è dunque
consentita, dovendo l'Amministrazione evidenziare
l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, in quanto
si va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario
che già per un quinquennio è stato titolare di un bene
suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e
successivamente di esproprio".
La censura merita condivisione in virtù di quanto statuito
su tale questione giuridica con decisione 24.05.2007 n. 7
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato le cui
essenziali argomentazioni qui di seguito si riportano (in
termini Cfr. Tar Sicilia-Palermo, II Sez,
05/12/2008-15/01/2009 n. 80).
Il nuovo quadro normativo risultante dal testo unico
approvato con il D.P.R. n. 327 del 2001 (come
successivamente modificato), si caratterizza oggi per una
espressa ed unitaria disciplina del procedimento volto alla
espropriazione per pubblica utilità, al cui interno si
inserisce la fase della apposizione del vincolo preordinato
all'esproprio (ovvero quella della sua reiterazione, a
seguito della sua scadenza). In particolare, il legislatore
ha previsto:
- sul piano procedimentale e sostanziale, l’abrogazione (con
l'art. 58, comma 1, n. 96) dell'art. 2 della legge n. 1187
del 1968, da cui la giurisprudenza traeva la regola della
decadenza del vincolo preordinato all'esproprio per il
decorso del termine di cinque anni dalla sua imposizione, e
(con l'art. 9, commi 3 e 4) ha esplicitato con una diversa
terminologia la regola della durata quinquennale,
disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e
della reiterazione;
- per quanto riguarda l'indennità, con l'art. 39 ha fissato
alcune regole riguardanti l'an e il quantum,
nonché il procedimento avente ad un tempo natura di
presupposto processuale per la proponibilità della domanda e
la funzione di determinare gli elementi rilevanti per la
fattispecie.
Tale normativa trova applicazione nella specie, in quanto è
entrata in vigore prima della data di emanazione del decreto
dirigenziale impugnato.
Il testo unico si è ispirato –come ha osservato l’Adunanza
Plenaria- ad un tempo al criterio della tabula rasa
(disciplinando un unico modello procedimentale, per la
reductio ad unum del sistema) e a quello -indispensabile per
ravvisare il rispetto della delega legislativa- della
esplicitazione dei principi desumibili dal precedente
complesso quadro normativo (caratterizzato dalla coesistenza
di regulae iuris derivanti da leggi, regolamenti e da
sentenze interpretative o di incostituzionalità della Corte
Costituzionale).
Ciò premesso, va osservato che il principio della necessità
della motivazione in caso di reiterazione del vincolo (poi
espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, del D.P.R. n.
327 del 2001) è stato affermato dalla giurisprudenza quale
temperamento dell'altro principio per il quale un atto di
pianificazione generale -tranne i casi di incidenza su
posizioni consolidate da giudicati o da convenzioni di
lottizzazione- non ha bisogno di una motivazione ulteriore
rispetto a quella che si esprime con i criteri posti a sua
base.
In base a tale temperamento, poiché l'art. 2 della legge n.
1187 del 1968 aveva previsto la decadenza del vincolo
preordinato all'esproprio per il decorso del quinquennio in
assenza della dichiarazione della pubblica utilità, si è
ammesso che l'esercizio del potere di reiterazione del
vincolo possa essere esercitato solo sulla base di una
idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che faccia
escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei
relativi atti, occorrendo l'effettiva cura di un pubblico
interesse.
Infatti, “l'Amministrazione deve indicare la ragione che
la induce a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale
la precedente scelta si era appuntata: la reiterazione del
vincolo espropriativo, sic et simpliciter, non è dunque
consentita, dovendo l'Amministrazione evidenziare
l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, in quanto
si va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario
che già per un quinquennio è stato titolare di un bene
suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e
successivamente di esproprio" (Cons. Stato Sez. IV, dec.
n. 159 del 1994, cit., § 11)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.09.2014 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Attività
di vigilanza. Esercizio di poteri repressivi. Ricorso in
sede giurisdizionale. Contointeressati in senso formale.
Proprietari di fondo limitrofo. Esclusione.
Ove siano gravati in sede
giurisdizionale provvedimenti repressivi di abusi edilizi, i
proprietari confinanti con il terreno interessato dall'abuso
non hanno la posizione di controinteressati in senso
giuridico formale in rapporto agli atti impugnati.
---------------
In applicazione del c.d. criterio della vicinitas, i
proprietari di immobile limitrofo a quello interessato da
attività edilizia sono titolari di un interesse protetto
alla regolare edificazione sul fondo vicino, con possibilità
di sollecitare interventi repressivi dell’Amministrazione e
di impugnare titoli abilitativi rilasciati con riferimento a
quest’ultimo, se ritenuti illegittimi; l’Amministrazione,
tuttavia, è tenuta ad adottare i provvedimenti ritenuti
necessari nei confronti del solo proprietario dell’area,
direttamente interessata dall’intervento edilizio ritenuto
irregolare, senza che l’atto rechi alcuna indicazione
riguardo ai soggetti, che abbiano eventualmente sollecitato
le iniziative comunali e senza pertanto che tali soggetti
possano ritenersi controinteressati, se non in via di mero
fatto, con conseguente ininfluenza dell’eventuale notifica
del ricorso agli stessi.
L’art. 41, comma 2 del Codice del processo amministrativo
(approvato con d.lgs. n. 104 del 2010) è del resto chiaro
nell’indicare quale “controinteressato” alla conservazione
dell’atto il soggetto “che sia individuato nell’atto
stesso”.
Sono pure da respingere alcune eccezioni preliminari
contenute nell’appello incidentale dei signori Sodano e Di
Giorgio (da ritenere, in primo luogo, strumento non idoneo
per contestare l’originario permesso di costruire, in quanto
possibile oggetto di tempestiva impugnazione solo in via
principale): irrilevante, in primo luogo, risulta la
prospettata tardività della notifica del ricorso di primo
grado a detti appellanti incidentali, non avendo questi
ultimi la posizione di controinteressati in senso giuridico
formale in rapporto agli atti, impugnati dal signor Montone.
Detti appellanti incidentali infatti, in quanto proprietari
di un immobile limitrofo a quello di cui si discute, sono
titolari di un interesse protetto alla regolare edificazione
sul fondo vicino, con possibilità di sollecitare interventi
repressivi dell’Amministrazione e di impugnare titoli
abilitativi rilasciati con riferimento a quest’ultimo, se
ritenuti illegittimi; l’Amministrazione, tuttavia, è tenuta
ad adottare i provvedimenti ritenuti necessari nei confronti
del solo proprietario dell’area, direttamente interessata
dall’intervento edilizio ritenuto irregolare, senza che
l’atto rechi alcuna indicazione riguardo ai soggetti, che
abbiano eventualmente sollecitato le iniziative comunali e
senza pertanto che tali soggetti possano ritenersi
controinteressati, se non in via di mero fatto, con
conseguente ininfluenza dell’eventuale notifica del ricorso
agli stessi (notifica da ritenersi effettuata, nel caso di
specie, per mero tuziorismo).
A maggior ragione tale posizione di controinteresse non può
essere invocata per l’ordine di cessazione dell’attività, in
rapporto al quale viene meno anche il criterio della
vicinitas e a cui i signori Sodano e Di Giorgio possono
ritenersi interessati solo in via indiretta, ovvero con
esclusivo riferimento ad una destinazione d’uso
dell’edificio di cui trattasi, conforme a quella prevista
dalla vigente disciplina urbanistica.
L’art. 41, comma 2, del Codice del processo amministrativo
(approvato con d.lgs. n. 104 del 2010) è del resto chiaro
nell’indicare quale “controinteressato” alla
conservazione dell’atto il soggetto “che sia individuato
nell’atto stesso”. Quanto all’eccezione di omessa
notifica al Sindaco quale “Ufficiale di Governo”, la
circostanza è stata smentita in fatto, con richiamo
all’intervenuta notifica di copia dell’atto di appello
all’Avvocatura Generale dello Stato.
L’eccezione di improcedibilità, infine, appare a sua volta
da respingere, in quanto riferita ad omessa impugnazione di
un provvedimento (revoca di parere favorevole della
Soprintendenza n. prot. 9917 del 04.04.2012), che appare
riferibile alle difformità rilevate rispetto al progetto
assentito e non –come viene rappresentato– all’originario
titolo abilitativo, rilasciato nel 2002 e ampiamente
consolidato, senza che emergano precise ragioni per ritenere
che –in contrasto con quanto previsto dall’art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990 in tema di autotutela, in
particolare sotto il profilo dei tempi ragionevolmente
rapidi di esercizio– la Soprintendenza intendesse eliminare
il presupposto del titolo abilitativo originario.
Detta revoca, pertanto, non può che essere riferita alle
difformità riscontrate e ritenute non sanabili, senza
coinvolgere la richiesta valutazione di legittimità delle
misure repressive e ripristinatorie, previste dall’ordinanza
n. 45 del 17.11.2012, la cui esecuzione avrebbe dovuto non
regolarizzare dette difformità, ma ripristinare la
conformità dell’edificio al progetto assentito, sia pure con
modifica –ritenuta non incompatibile con la normativa
urbanistica– dei livelli altimetrici del suolo a valle
dell’edificio stesso.
Analoghe considerazioni vanno riferite all’appello
incidentale del Comune, concernente la medesima revoca della
Soprintendenza (mentre altre considerazioni investono solo
l’impugnazione con motivi aggiunti –ritenuti tardivi– di
atti endoprocedimentali, conseguenti a quelli impugnati in
via principale)
Nella citata ordinanza n. 45/2012 –rilevate diverse
difformità di quanto realizzato, in rapporto al permesso di
costruire n. 1931 (prot. 2872) del 04.03.2002– si imponeva
di riportare l’immobile costruito allo stato originario
previsto in progetto, con limitate demolizioni e
adeguamenti, ripristinando “plano-altimetricamente il
piano di campagna che circonda l’immobile” e chiudendo “le
finestre a servizio del piano interrato, che danno sul
prospetto che sporge per circa un metro dall’attuale piano
di campagna”. Detta ordinanza è stata resa oggetto di
comunicazione di avvio del procedimento e, successivamente,
di revoca in autotutela, con contestuale ordine di
demolizione, per ragioni che il Collegio intende esaminare
sotto i fondamentali profili di stretta legittimità, che
appaiono assorbenti rispetto alle ipotesi di sviamento e
incompetenza, prospettate dalla difesa dell’appellante in
modo diffuso e, per certi aspetti, disorganico.
Deve quindi essere sottolineato come l’originario permesso
di costruire del 04.03.2002, nonché l’autorizzazione unica
del 10.08.2006, consentissero l’installazione sull’area di
cui trattasi di un edificio di tre piani, uno dei quali
completamente interrato, da adibire alla lavorazione
artigianale del ferro e dell’alluminio. Dopo alcuni anni
l’immobile realizzato è stato oggetto di contestazioni, sul
piano sia strettamente edilizio che della destinazione
d’uso.
Sotto il primo profilo, i rilievi riguardavano alcune
difformità minori e, soprattutto, la parziale fuoriuscita
del piano interrato per un dislivello naturale del terreno,
con conseguente superamento dei limiti volumetrici e di
altezza, come calcolati nel progetto approvato.
In rapporto a quanto sopra –escluse ipotesi di sanatoria,
che non costituiscono oggetto del presente giudizio– la
citata ordinanza n. 45 del 2012 disponeva la rimessa in
pristino dell’immobile in base a detto progetto, anche
tramite un riporto di terreno, tale da rendere nuovamente
interrato il piano, parzialmente emergente a causa del
predetto dislivello. Non è contestato che tale ordinanza sia
stata eseguita dall’interessato, né che il livellamento
fosse compatibile con la vigente normativa urbanistica.
In tale situazione, il Collegio ritiene che le successive
contestazioni, inerenti ad altezza e volumetria
dell’edificio (calcolate come se la parziale fuoriuscita dal
terreno non fosse stata eliminata), nonché allo stesso
livellamento del terreno (intervenuto in esecuzione
dell’ordinanza comunale e al fine di eliminare le difformità
anzidette) non possano ritenersi legittime, in quanto frutto
di erronea applicazione delle norme, dettate in materia di
difformità essenziale dell’edificio rispetto al relativo
titolo abilitativo
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.09.2014 n. 4790 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire. Interventi eseguiti con variazioni essenziali.
Rimozione difformità. Residue difformità. Valutazione loro
rilevanza in base ai principi di proporzionalità e
ragionevolezza. Necessità.
L’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia), nella parte in cui prevede la
“rimozione” delle difformità essenziali rilevate, rispetto
al progetto assentito, deve trovare lettura, seppure con le
dovute cautele, conforme ai principi di proporzionalità e
ragionevolezza.
In base a tali principi, ove, successivamente all'intervento
di ripristino, emergano assai modeste difformità rispetto al
progetto assentito dall'Amministrazione comunale,
l’interesse pubblico al rispetto dei parametri urbanistici
può essere perseguito senza necessaria e, a tal punto,
sproporzionata compromissione degli interessi del
proprietario dell’immobile, se costretto ad una demolizione
dell’edificio inevitabilmente totale, poiché riferita a
parti strutturali (nella specie si trattava del piano
seminterrato di sostegno).
L’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia), nella parte in cui prevede la “rimozione”
delle difformità essenziali rilevate, rispetto al progetto
assentito, deve infatti trovare lettura, seppure con le
dovute cautele, conforme ai principi di proporzionalità e
ragionevolezza.
In base a tali principi, ove un assai modesto eccesso di
altezza e di volumetria fossero conseguenza –come viene
rappresentato nel caso di specie– di un mero dislivello del
terreno e ove quest’ultimo potesse venire corretto con un
riporto di terreno, se non incompatibile con la normativa
vigente in tema di calcolo delle volumetrie interrate,
l’interesse pubblico al rispetto dei parametri urbanistici
avrebbe potuto essere perseguito (come in un primo tempo
avvenuto) senza necessaria e, a tal punto, sproporzionata
compromissione degli interessi del proprietario
dell’immobile (se costretto ad una demolizione dell’edificio
inevitabilmente totale, poiché riferita al piano
seminterrato di sostegno) (massima tratta da
www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.09.2014 n. 4790 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Piano
regolatore. Destinazione di zona. Insediamenti produttivi a
supporto dello sviluppo turistico. Limite dimensionale e non
tipologico. Destinazione artigianale. Compatibilità.
In un'area che, secondo il vigente
strumento urbanistico comunale, ha destinazione a
"Insediamenti produttivi a supporto dello sviluppo
turistico”, va ritenuto che la previsione urbanistica
imponga limiti di dimensioni più che di tipologia degli
insediamenti stessi, potendo questi ultimi supportare lo
sviluppo turistico dell’area solo se a carattere di
esercizio commerciale o artigianale, in settori utili anche
per le esigenze di turisti e viaggiatori (soggiornanti, o in
transito con autovetture, imbarcazioni, caravan o roulottes),
senza quella compromissione delle caratteristiche funzionali
al turismo, che potrebbe ravvisarsi in presenza di
insediamenti di livello industriale, o comunque inidonei a
soddisfare esigenze contingenti dell’utenza.
Quanto alla destinazione dell’immobile di cui trattasi, il
Collegio ugualmente non concorda con quanto rappresentato
nell’atto di revoca, risultando ancora una volta
irragionevole un’interpretazione restrittiva della
destinazione dell’area (D2: “Insediamenti produttivi a
supporto dello sviluppo turistico”), dovendo ritenersi
che la norma imponga limiti di dimensioni più che di
tipologia degli insediamenti stessi, potendo questi ultimi
supportare lo sviluppo turistico dell’area solo se a
carattere di esercizio commerciale o artigianale, in settori
utili anche per le esigenze di turisti e viaggiatori
(soggiornanti, o in transito con autovetture, imbarcazioni,
caravan o roulottes), senza quella compromissione delle
caratteristiche funzionali al turismo, che potrebbe
ravvisarsi in presenza di insediamenti di livello
industriale, o comunque inidonei a soddisfare esigenze
contingenti dell’utenza (cfr. in senso sostanzialmente
conforme Cons. Stato, V, 23.10.2013, n. 5132, citata dalla
appellante) (massima tratta da
www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.09.2014 n. 4790 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Opere realizzare in assenza di titolo abilitativo. Area
soggetta a vincolo ex art. 142 d.lgs. 42/2004. Repressione
dell'abuso. Proporzionalità della sanzione. Individuazione
del pregiudizio concreto. Occorre. Scarso impatto delle
opere realizzate. Demolizione. Illegittimità.
1.1. Qualora siano realizzate opere
edilizie senza titolo abilitativo in zona gravata da vincolo
paesaggistico, queste non violano la disciplina sostanziale
delle area di sedime come disciplinata dagli strumenti
urbanistici se non danno vita a nuovi volumi non incidendo,
quindi, sul carico insediativo.
In questa ipotesi le opere realizzate rappresentano al più
violazioni di natura formale in quanto realizzate senza
titolo abilitativo ovvero senza previa presentazione della
SCIA (nel caso di specie le opere in questione consistevano
nell'installazione di una nuova recinzione di un immobile
abitativo in proprietà, una diversa pavimentazione delle
aree esterne rispetto a quella preesistente nonché la
sistemazione del terreno).
1.2. Qualora siano realizzate alcune opere in assenza di
titolo abilitativo, purché non violino in maniera
sostanziale la normativa urbanistica, anche qualora ricadano
in un'area tutelata ex art. 142 d.lgs. n. 42/2004 –ma non
soggetta a vincolo specifico ex art. 136 d.lgs. n. 42/2004–
non è giustificabile la sanzione della demolizione a meno
che non venga individuato il concreto pregiudizio recato da
dette opere.
2. (segue): ordinanza di demolizione. Accertamento di
conformità in sanatoria. Obbligo di definizione del
procedimento prima di adottare la sanzione irrogata.
Necessità.
Qualora le opere realizzate sine titulo
abbiano scarso o nullo (sostanziale) rilievo
urbanistico-edilizio, una volta presentata la domanda
d’accertamento di conformità delle opere realizzate senza
titolo edilizio, il Comune deve necessariamente definire il
procedimento di sanatoria prima di adottare la sanzione
irrogata.
Tulle le censure denunciate
colgono nel segno.
Nell’ordine.
Effettivamente le opere oggetto dell’ordinanza impugnata non
violano la disciplina sostanziale delle area di sedime come
disciplinata dagli strumenti urbanistici.
Tant’e che né la comunicazione d’avvio del procedimento né
l’ordine di demolizione indicano le norme del PRG o del
regolamento edilizio violate. La contestazione degli abusi
dal punto di vista urbanistico-edilizio rappresenta
piuttosto violazioni di natura formale: le opere sono state
realizzate senza titolo abilitativo ovvero senza previa
presentazione della SCIA.
Nulla si dice in ordine al pregiudizio recata all’assetto
urbano.
Il fatto che incidano su area tutelata ex lege (ex
art. 142 t.u. bb. cc.) –e non da vincolo specifico (ex art.
136 bb. cc.)– non giustifica affatto la sanzione della
demolizione: occorre(va) individuare il concreto pregiudizio
recato al paesaggio dalla recinzione e da una diversa
pavimentazione, rispetto a quella preesistente, del terreno
circostante la casa.
In considerazione dello scarso o nullo (sostanziale) rilievo
urbanistico-edilizio delle opere, va altresì ribadito
l’orientamento giurisprudenziale (cfr., TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 14.07.2008 n. 8769; Cons. St., sez. IV,
27.09.2005 n. 4473) che, una volta presentata la domanda
d’accertamento di conformità delle opere realizzate senza
titolo edilizio, onera il Comune a definire il procedimento
di sanatoria prima di adottare la sanzione (massima
tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Liguria, Sez.
I,
sentenza 23.09.2014 n. 1361 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Dichiarazione di inizio attività. Non legittima. Esercizio
dei poteri inibitori repressivi da parte
dell’Amministrazione. Esercizio dei c.d. poteri di
autotutela decisoria.
La dichiarazione di inizio attività si
consolida nel momento in cui l’Amministrazione omette di
esercitare sia il potere inibitorio-repressivo ad essa
spettante in caso di carenza dei presupposti per la d.i.a.,
nel termine perentorio previsto dall’art. 23, comma 6,
d.P.R. n. 380 del 2001, sia i c.d. poteri di autotutela
decisoria, espressamente richiamati dal secondo periodo del
comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
2. (segue): esercizio dei poteri di autotutela oltre i
termini perentori ex art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380/2001.
Limiti ex art. 21-nonies legge n. 241/1990. Osservanza.
Necessità. Motivazione. Bilanciamento tra interesse pubblico
e affidamento del privato per effetto del decorso del tempo.
2.1. In presenza di una d.i.a. ritenuta
illegittima, è certamente consentito all’Amministrazione
Comunale di intervenire anche oltre il termine perentorio di
cui all’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001, ma solo
alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge
subordina il potere di annullamento d’ufficio dei
provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre
che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori
assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi,
dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto
del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di
interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
2.2. La d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce un
titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo
equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento
espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione
legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di
autotutela decisoria. È dunque illegittimo il provvedimento
repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano
oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del
decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
2.3. È illegittimo il modus procedendi dell’Amministrazione
Comunale che, decorso il termine ex art. 23, comma 5, d.P.R.
n. 380/2001 invece di procedere all’annullamento d’ufficio,
ai sensi dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990, di
d.i.a. ritenuta illegittima, provveda direttamente, senza
alcuna motivazione ulteriore rispetto alla ritenuta
illegittimità delle opere eseguite, ad ordinare la
sospensione dei lavori e la rimozione degli interventi
realizzati.
7. L’appello merita accoglimento.
8. Anche a prescindere dai profili di ambiguità presenti
nella sentenza appellata (che effettivamente, in
motivazione, sembra fare riferimento, per sostenere la
legittimità del provvedimento impugnato, a lavori di
ristrutturazione concernenti un diverso immobile ed un
diverso procedimento di d.i.a.) risulta, nel caso di specie,
dirimente la circostanza (non contestata) secondo cui il
provvedimento di demolizione impugnato ha ad oggetto lavori
regolarmente assentiti in base alla d.i.a. del 19.06.2008,
n. 41741.
Risulta, in particolare, che l’Amministrazione comunale non
solo ha lasciato che la menzionata d.i.a. si consolidasse,
omettendo di esercitare, nel termine perentorio previsto
dall’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001, il potere
inibitorio-repressivo ad essa spettante in caso di carenza
dei presupposti per la d.i.a., ma ha omesso anche
l’esercizio dei c.d. poteri di autotutela decisoria,
espressamente richiamati dal secondo periodo del comma 3
dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
L’Amministrazione comunale, in altri termini, anziché
procedere, come avrebbe dovuto, all’annullamento d’ufficio,
ai sensi dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990, della
d.i.a. ritenuta illegittima, ha provveduto direttamente,
senza alcuna motivazione ulteriore rispetto alla ritenuta
illegittimità delle opere eseguite, ad ordinare la
sospensione dei lavori e la rimozione degli interventi
realizzati.
In tal modo ha violato le garanzie previste dall’art. 19
legge n. 241 del 1990 che, in presenza di una d.i.a.
illegittima, consente certamente all’Amministrazione di
intervenire anche oltre il termine perentorio di cui
all’art. 23, comma 6, d.P.r. n. 380 del 2001, ma solo alle
condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge
subordina il potere di annullamento d’ufficio dei
provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre
che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori
assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi,
dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto
del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di
interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
Il modus procedendi seguito dall’Amministrazione comunale
–tradottosi nella diretta adozione di un provvedimento
repressivo-inibitorio, oltre il termine perentorio di
sessanta giorni dalla presentazione della d.i.a. e senza le
garanzie e i presupposti previsti dall’ordinamento per
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio– si
appalesa, pertanto, senz’altro illegittimo.
La d.i.a, infatti, una volta perfezionatasi, costituisce un
titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo
equiparabile quoad effectum al rilascio del
provvedimento espresso), che può essere rimosso, per
espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio
del potere di autotutela decisoria. Ne consegue
l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio
avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a.
già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non
previamente rimossa in autotutela.
10. L’appello va, dunque, accolto e, per l’effetto in
riforma della sentenza impugnata, deve essere annullato il
provvedimento impugnato in primo grado
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.09.2014 n. 4780 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ illegittimo il diniego del parere paesaggistico espresso
dalla Sopraintendenza allorché la motivazione risulta
generica, soprattutto nella fattispecie in cui l’intervento
da realizzare é in sintonia con una zona tipizzata.
La Soprintendenza ha motivato il proprio
diniego sulla base della seguente motivazione:
“l’intervento, se realizzato, a causa delle linee
architettoniche adottate e per la sopraelevazione proposta,
per la caratterizzazione dell’area, dove le costruzioni
esistenti sono di semplice fattura ed ad un unico livello,
di fatto costituirebbe una alterazione agli stati cognitivi
dello stato dei luoghi”.
Si tratta, come appare evidente, di una motivazione quasi
tautologica, la quale, anziché evidenziare nello specifico i
profili di pregiudizio che la realizzazione dell’intervento
proposto arrecherebbe al bene paesaggistico tutelato, si
limita, in maniera del tutto generica, a rilevare che le
caratteristiche dell’intervento oggetto dell’istanza
(ambiguamente richiamate con il riferimento alle “linee
architettoniche adottate” e alla “sopraelevazione proposta”)
lederebbero l’interesse tutelato, determinando, in
particolare, una non meglio precisata “alterazione agli
stati cognitivi dello stato dei luoghi”.
Dalla citata motivazione non è dato comprendere né quali
siano in concreto gli aspetti dell’opera proposta la cui
realizzazione contrasterebbe con il vincolo paesistico (in
altri termini, non è dato comprendere in che senso e in che
modo le linee architettoniche adottate e la sopraelevazione
proposta arrecherebbero tale pregiudizio), né, tantomeno, la
reale consistenza del paventato pregiudizio al bene
paesaggio, essendo tutt’altro che perspicuo l’ambiguo
riferimento alla “alterazione agli stati cognitivi dello
stato dei luoghi”.
6. L’appello non merita accoglimento.
7. Il Collegio condivide le conclusioni cui è giunta la
sentenza di primo grado in merito alla riscontrata carenza
motivazionale che inficia il parere negativo espresso dalla
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di
Lecce.
Nel caso in esame, infatti, la Soprintendenza ha motivato il
proprio diniego sulla base della seguente motivazione: “l’intervento,
se realizzato, a causa delle linee architettoniche adottate
e per la sopraelevazione proposta, per la caratterizzazione
dell’area, dove le costruzioni esistenti sono di semplice
fattura ed ad un unico livello, di fatto costituirebbe una
alterazione agli stati cognitivi dello stato dei luoghi”.
8. Si tratta, come appare evidente, di una motivazione quasi
tautologica, la quale, anziché evidenziare nello specifico i
profili di pregiudizio che la realizzazione dell’intervento
proposto arrecherebbe al bene paesaggistico tutelato, si
limita, in maniera del tutto generica, a rilevare che le
caratteristiche dell’intervento oggetto dell’istanza
(ambiguamente richiamate con il riferimento alle “linee
architettoniche adottate” e alla “sopraelevazione
proposta”) lederebbero l’interesse tutelato,
determinando, in particolare, una non meglio precisata “alterazione
agli stati cognitivi dello stato dei luoghi”.
Dalla citata motivazione non è dato comprendere né quali
siano in concreto gli aspetti dell’opera proposta la cui
realizzazione contrasterebbe con il vincolo paesistico (in
altri termini, non è dato comprendere in che senso e in che
modo le linee architettoniche adottate e la sopraelevazione
proposta arrecherebbero tale pregiudizio), né, tantomeno, la
reale consistenza del paventato pregiudizio al bene
paesaggio, essendo tutt’altro che perspicuo l’ambiguo
riferimento alla “alterazione agli stati cognitivi dello
stato dei luoghi”.
Le suddette carenze motivazionali sono nel caso di specie
aggravate dal fatto che, come evidenzia la sentenza
appellata, l’intervento proposto è destinato a collocarsi in
un’area (tipizzata dal PRG quale “zona BT
turistico-residenziali edificate e di completamento”)
nella quale è, peraltro, consentita la realizzazione di
fabbricati articolati in piano terra e primo piano e che,
nella stessa zona, risultano già presenti diversi fabbricati
con sviluppo del primo piano. A ciò deve aggiungersi che,
nella specie, il fabbricato proposto presenta un primo piano
arretrato rispetto alla quinta stradale e, per la sua
dimensione, poco visibile dalla strada.
9. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali deve,
pertanto, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.09.2014 n. 4778 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Compatibilità
paesaggistica e compatibilità edilizia. Autonomia dei
procedimenti. Connessione. Sussiste.
Il procedimento per il rilascio del
permesso di costruire e quello per il nulla osta di
compatibilità paesaggistica dell’intervento, sebbene
procedimenti ontologicamente e logicamente distinti, avendo
a oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati
sulla base di competenze diverse, sono strettamente connessi
tra di loro.
2.2. Qualora la competente Soprintendenza non rilasci il
nulla osta paesaggistico, il diniego di permesso di
costruire pronunciato dall'amministrazione comunale è un
atto dovuto e ben può essere adottato con il semplice
richiamo al diniego di nulla osta paesaggistico.
2. Con il secondo motivo di appello vengono reiterati tutti
i motivi aggiunti diretti avverso il diniego di permesso di
costruire successivo al diniego di nulla osta paesaggistico
dal competente ufficio del Comune introdotti in primo grado,
che la sentenza non li avrebbe compiutamente esaminati.
I motivi devono poi essere disattesi nell’ordine che segue.
2.1. In conseguenza delle considerazioni che precedono circa
la ritenuta legittimità del provvedimento della
Soprintendenza deve esser respinto il terzo motivo con cui
si assume l’illegittimità del diniego del Comune che sarebbe
derivata dall’illegittimità del diniego del nulla osta della
Soprintendenza.
Come è noto, il procedimento per il rilascio del permesso di
costruire e quello per il nulla osta di compatibilità
paesaggistica dell’intervento, sebbene procedimenti
ontologicamente e logicamente distinti, avendo a oggetto la
tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di
competenze diverse, sono strettamente connessi tra di loro
(cfr. ex multis CdS sez. VI, n. 6878/2011, CdS sez.
IV, 4312/2012, CdS sez. IV n. 2513/2013).
In definitiva dunque il diniego di permesso di costruire
pronunciato dal Comune era un atto dovuto e ben poteva
essere adottato con il semplice richiamo al diniego di nulla
osta paesaggistico
(massima
tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 22.09.2014 n. 4759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire. Strumenti urbanistici sopravvenuti. Lavori
assentiti e cominciati: irrilevanza. Attrezzature balneari
stagionali: rilevanza.
L'art. 15, comma 4, del T.U. n. 380/2001
detta una deroga alla regola generale della decadenza del
titolo edilizio in contrasto con un nuovo piano regolatore,
prevedendo la continuazione di lavori precedentemente
assentiti, pur in contrasto col piano sopravvenuto in
vigore, se già cominciati nel vigore del piano precedente (e
se completati entro il termine di tre anni dalla data di
inizio).
Con riferimento all'installazione di attrezzature balneari
aventi carattere stagionale, va escluso che l’art. 15 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 possa applicarsi ai permessi in
precario e temporanei assentiti per il solo periodo estivo
in quanto esse oltre il termine del periodo stagionale per
il quale sono funzionalmente installate non possono
considerarsi strutture integrate nel contesto
edilizio-urbanistico. In tale ipotesi, qualora sopravvenga
uno strumento urbanistico contrastante con l'installazione
di manufatti precari stagionali, assume carattere prevalente
l'esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche
trovino indefettibile applicazione poiché finalizzate ad un
più razionale assetto del territorio.
2.3. Infondato è poi anche il
primo motivo con cui la società assume che sarebbe stata
titolare di un permesso temporaneo n. 24247/2007 che
legittimerebbe il posizionamento tra il 15 giugno al 15
settembre del 24.05.2007. Tale permesso essendo precedente
il provvedimento di approvazione definitiva del PRG di
Gallipoli avvenuta il 09.10.2007 con G.R. n. 1613 , ai sensi
dell’art. 15 del T.U. n. 380/2001 sarebbe restato valido in
quanto i suoi lavori sarebbero stati iniziati nel triennio
precedente alla sua approvazione. Pertanto la richiesta del
03.12.2007 non sarebbe stata la richiesta di un nuovo
permesso, ma una variante ad un permesso esistente.
L’assunto va respinto.
In primo luogo, sotto altro profilo, deve comunque
escludersi in linea di principio che l’art. 15 del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, possa applicarsi ai permessi in precario
e temporanei assentiti per il solo periodo estivo in quanto
esse oltre il termine del periodo stagionale per il quale
sono funzionalmente installate non possono considerarsi
strutture integrate nel contesto edilizio-urbanistico.
Infatti la deroga alla regola generale della decadenza del
titolo edilizio in contrasto con un nuovo piano regolatore
di cui all'art. 15, comma 4, del T.U. n. 380/2001, che
prevede la continuazione di lavori precedentemente
assentiti, pur in contrasto col piano sopravvenuto in
vigore, se già cominciati nel vigore del piano precedente (e
se completati entro il termine di tre anni dalla data di
inizio) in tale ipotesi non ricorre e assume carattere
prevalente l'esigenza che le sopravvenute previsioni
urbanistiche trovino indefettibile applicazione poiché
finalizzate ad un più razionale assetto del territorio.
Ma è risolvente al riguardo la circostanza per cui
l’invocato permesso n. 24247 è stato oggetto di revoca con
un provvedimento, la cui legittimità è stata riconosciuta in
esito all’appello n. 3213/2012 deciso in pari data.
Per questo del tutto inconferente è l’assunto per cui il
dicembre 2007 la Praia avrebbe prodotto una domanda di
variante al precedente permesso (massima
tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 22.09.2014 n. 4759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
La Sezione non si discosta dalla stessa
giurisprudenza di questo Consesso la quale conferma la
competenza del geometra nella progettazione in cemento
armato di dimensioni minori, tra le quali, alla luce della
disposizione citata, non sembra proprio potersi iscrivere un
fabbricato-villino di abitazione che consta di sei piani e
livelli.
Quanto poi alla sostenuta esistenza del limite dei 5000 mc.,
sino al quale il geometra potrebbe progettare opere in
cemento armato, il Collegio non rileva nell’argomentazione
dell’appellante la fonte normativa recante detto parametro.
Il limite compare invece in una datata pronunzia di questo
Consiglio (sez. V, n. 25/1999), peraltro assolutamente
ignorata dalla successiva e prevalente giurisprudenza.
Entrando nei profili
sostanziali della controversia, il secondo motivo argomenta
in sintesi che la normativa non vieta in assoluto al
geometra la progettazione di costruzioni in cemento armato,
consentendogli in tale modalità le piccole costruzioni; tale
precisazione della competenza è del resto stata evidenziata
dalla giurisprudenza amministrativa ed in particolare il
limite dimensionale sarebbe da individuarsi nei 5000 mc.,
sicché presentando il progetto assentito un volume di mc.
479 rientrava pienamente nelle competenze del tecnico che lo
ha redatto. La tesi accolta dal TAR, infine, contrasterebbe
con il dettato dell’art. 2, c. 14, della legge n. 1086/1971,
che riconosce la competenza in questione con riferimento
alle opere in conglomerato cementizio. Al riguardo il
Collegio osserva quanto segue.
Non v’è dubbio che il divieto non deriva “tout court”
dalla tipologia costruttiva nel materiale previsto dal
progetto (per la competenza in generale a progettare in
cemento armato vedasi ad es. Cons. di Stato, sez. Sez. IV,
sent. n. 784/1997), ma la questione in controversia si
correla diversamente a complessità e natura funzionale
dell’edificio nella fattispecie concreta progettato ed
assentito; la tesi che il geometra poteva progettare la
costruzione in esame è smentita dal dato letterale dell’art.
16 del r.d. n 274/1929, rapportato alle caratteristiche
della costruzione, quali emergono dagli atti; la norma, alla
lettera “l”, dispone che la competenza riguarda “progetto,
direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali
e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata
importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole
costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono
particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione
non possono comunque implicare pericolo per la incolumità
delle persone”.
Nell’applicare alla fattispecie questo orientamento, la
Sezione, peraltro, non si discosta dalla stessa
giurisprudenza di questo Consesso citata dall’appellante
(cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 7121/2003), la quale
conferma la competenza del geometra nella progettazione in
cemento armato di dimensioni minori, tra le quali, alla luce
della disposizione citata, non sembra proprio potersi
iscrivere un fabbricato-villino di abitazione che (come
riferisce a p. 14 la documentata consulenza tecnica in atti
a firma dell’arch. Remo Colonna) consta di sei piani e
livelli.
Quanto poi alla sostenuta esistenza del limite dei 5000 mc.,
sino al quale il geometra potrebbe progettare opere in
cemento armato, il Collegio non rileva nell’argomentazione
dell’appellante la fonte normativa recante detto parametro.
Il limite compare invece in una datata pronunzia di questo
Consiglio (sez. V, n. 25/1999), peraltro assolutamente
ignorata dalla successiva e prevalente giurisprudenza.
Infine sulla portata del citato art. 2 legge n. 1086/1971,
basti considerare il fatto noto che le opere in conglomerato
cementizio e quelle in cemento armato costituiscono nozioni
diverse
(Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 22.09.2014 n. 4751 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: 1.
Accesso agli atti. Diritto di cronaca e diritto di difesa.
Limiti oggettivi e soggettivi ex legge n. 241/1990.
Operatività.
1. In tema di rapporto tra diritto di
cronaca nell’esercizio dell’attività giornalistica e diritto
di accesso ai documenti detenuti dall’amministrazione,
assumendo valore la libertà di informazione, parte della
giurisprudenza riconosce una posizione qualificata e
differenziata della stampa in relazione alla conoscenza
degli atti detenuti dalla pubblica Amministrazione,
rilevando inoltre -sempre in linea di principio- i nuovi
approdi dell’ordinamento comunitario in subjecta materia
circa una compiuta evoluzione verso una società
dell’informazione e della conoscenza (cfr. Direttiva
2003/98/CE).
2. In relazione alla domanda di accesso formulata da
giornalista in relazione ad atti detenuti dalla P.A., al
fine di vagliarne la fondatezza, occorre tener presente
l’ambito soggettivo e quello oggettivo prescritti dalla
legge entro i quali va riconosciuta la tutela sottesa
all’accesso, presupponendo, un siffatto diritto (art.22
della legge n. 241/1990 -legge sul procedimento
amministrativo e art. 2, comma 1, del DPR n. 352/1992-
regolamento di attuazione) un interesse personale e
concreto, strumentale all’accesso, in quanto volto alla
tutela di situazioni giuridicamente rilevanti.
Infatti, in linea di principio non si può equiparare la
posizione di una testata giornalistica o di un operatore
della stampa a quella di un qualunque soggetto giuridico per
quanto attiene al diritto di accesso ai documenti
amministrativi, nondimeno, non è consentito dilatare
l’ambito applicativo della normativa di tipo garantista di
cui all'art. 22 della legge n. 241/1990.
3. Nel valutare l'istanza di accesso agli atti proposta da
un giornalista il quale, a seguito di querela avanzata nei
suoi confronti da un funzionario appartenente alla stessa
amministrazione a cui si chiede l'ostensione della
documentazione debba difendersi nel conseguente processo
penale e, pertanto, motivi l'istanza ex art. 22 legge n.
241/1990 adducendo la necessità di ristabilire tanto la
verità giudiziaria quanto quella giornalistica (richiamando,
quindi, sia il diritto di cronaca sia il diritto di difesa),
occorre procedere alle seguenti considerazioni:
a) qualora il numero dei documenti di cui si domanda l'ostensione
sia elevato e la loro individuazione risulti del tutto
generica, la richiesta potrebbe risolversi nell'intento di
esercitare un controllo generalizzato sull'attività della
P.A., il che equivarrebbe a introdurre una inammissibile
azione popolare sulla trasparenza dell’azione amministrativa
che si pone al di fuori della portata della norma di cui
all'art. 22 legge n. 241/1990;
b) una richiesta formulata in maniera troppo generica, nel senso di
richiedere atti e documenti riguardanti l’organizzazione, le
attività, le competenze e le attribuzioni delle Autorità
coinvolte in una determinata vicenda, si estenderebbe
indiscriminatamente ad atti e documenti che possono essere
del tutto indifferenti ai fini della richiesta, con un
conseguente aggravio ingiustificato dell’attività
amministrativa;
c) qualora l’esercizio del diritto di cronaca venga in rilievo non
in quanto tale oggettivamente, ma nella misura in cui è
strumentale ad altra finalità, quale quella di reperire
materiale documentale utile alla difesa in un giudizio
penale, il diritto d’accesso non può non essere limitato a
quei documenti correlati direttamente alla situazione
giuridicamente rilevante (il diritto di difesa) e per la
quale sussiste l’esigenza concreta ed attuale di accordare
la relativa tutela, senza che possa parlarsi di quale che
sia la lesione al diritto di informazione;
d) occorre valutare se il soggetto che richiede l'accesso agli atti
possa attingere conoscenza della documentazione non
strettamente funzionale al diritto di difesa e rientrante
nel concetto di informazioni da rendersi all’opinione
pubblica attraverso lo strumento informatico di
consultazione di dati e notizie presenti sui siti
istituzionali esistenti;
4. Nel caso in cui un soggetto proponga istanza ex art. 22
legge n. 241/1990 al fine di ottenere l'ostensione di un
documento per cui vale l'esclusione dal diritto di accesso
in quanto riguardante un'attività della P.A. diretta
all'emanazione di atti normativi, adducendo un interesse
circostanziato sia in relazione al diritto di cronaca, sia
in relazione al diritto alla difesa ex art. 24, comma 7,
legge n. 241/1990, qualora non sia possibile individuare la
correlazione logica tra il contenuto dell'atto di cui si
richiede l'ostensione e il processo penale da cui origina il
diritto alla difesa, l'esercizio del diritto di accesso
incontra comunque il limite di cui all'art. 24, comma 1,
lett. c), legge n. 241/1990.
5. L'istanza di accesso agli atti proposta da un giornalista
il quale, a seguito di querela avanzata nei suoi confronti
da un funzionario di una delle amministrazioni che detengono
la documentazione di cui si ordina l'ostensione, adduce un
interesse circostanziato sia in relazione al diritto di
cronaca, sia in relazione al diritto alla difesa può essere
accolta –qualora vengano in rilevo aspetti di riservatezza e
di sicurezza pubblica– solo in relazione a quei documenti
direttamente ancorati, quanto al loro contenuto, alle
controverse contestazioni oggetto del procedimento penale
(nella specie era stato negato l'accesso alla certificazione
antimafia di un'impresa nonché agli elenchi delle imprese
non soggette a rischio d’inquinamento mafioso, in quanto
nulla avevano a che vedere con l'oggetto del processo che
interessava l'istante).
In linea generale, ferma restando la delicatezza della
questione riguardante il rapporto tra diritto di cronaca
nell’esercizio dell’attività giornalistica e diritto di
accesso ai documenti detenuti dall’amministrazione, la
Sezione è ben consapevole del particolare valore che assume
la libertà di informazione (Corte Costituzionale nn.
126/1995; idem 225/1077 e 105/1972), così come è ben a
conoscenza di un preciso orientamento giurisprudenziale di
questo stesso consesso (sentenza Sez. VI 05 marzo-06.05.1996
n. 570) circa la posizione qualificata e differenziata della
stampa in relazione alla conoscenza degli atti detenuti
dalla pubblica Amministrazione.
Parimenti, sempre in linea di principio, vanno rammentati i
nuovi approdi dell’ordinamento comunitario in subjecta
materia circa una compiuta evoluzione verso una società
dell’informazione e della conoscenza (cfr. Direttiva
2003/98/CE) .
Ciò preliminarmente precisato, occorre però pur sempre tener
presente l’ambito soggettivo e quello oggettivo prescritti
dalla legge entro i quali va riconosciuta la tutela sottesa
all’accesso, presupponendo, un siffatto diritto (art. 22
della legge n. 241/1990 -legge sul procedimento
amministrativo e art. 2, comma 1, del DPR n. 352/1992-
regolamento di attuazione) un interesse personale e
concreto, strumentale all’accesso, in quanto volto alla
tutela di situazioni giuridicamente rilevanti (in tal senso
Cons. Stato VI 13/07/2000 n. 2109; idem 22/05/1998 n. 820).
Ora, se in linea di principio non si può equiparare la
posizione di una testata giornalistica o di un operatore
della stampa a quella di un qualunque soggetto giuridico per
quanto attiene al diritto di accesso ai documenti
amministrativi, nondimeno,nella specie non è consentito
dilatare l’ambito applicativo della normativa di tipo
garantista di cui al citato art. 22 della legge n. 241/1990
nei confronti del sig. V. ove si consideri che:
a) il numero dei documenti variamente chiesti di conoscere
nonché la genericità della richiesta avanzata alle
Amministrazioni complessivamente coinvolte nella vicenda
lasciano intravvedere un intento che si pone al di fuori
della portata della norma di cui al citato art. 22, e cioè
quello di esercitare un controllo generalizzato
sull’attività della P.A. il che equivale a introdurre una
inammissibile azione popolare sulla trasparenza dell’azione
amministrativa;
b) chiedere genericamente atti e documenti riguardanti “l’organizzazione,
le attività, le competenze e le attribuzioni delle Autorità
coinvolte” vuol dire formulare istanze che, in
definitiva si estendono indiscriminatamente ad atti e
documenti che possono essere del tutto indifferenti ai fini
della richiesta, tramutandosi la domanda di conoscenza in un
aggravamento dell’attività amministrativa, senza che possa
essere non consentito, tenuto conto agli interessi (pubblici
e privati) coinvolti;
c) nella specie l’esercizio del diritto di cronaca viene in
rilievo non in quanto tale oggettivamente, ma nella misura
in cui è strumentale ad altra finalità, quella di reperire
materiale documentale utile alla difesa in giudizio e se
così è, il diritto d’accesso non può non essere limitato a
quei documenti (esattamente individuati dal Tar in sede di
accoglimento parziale) correlati direttamente alla
situazione giuridicamente rilevante (il diritto di difesa) e
per la quale sussiste l’esigenza concreta ed attuale di
accordare la relativa tutela (Cons. Stato Sez. VI 02/03/2003
n. 1122), senza che possa parlarsi di quale che sia la
lesione al diritto di informazione;
d) il giornalista-pubblicista sig. V. può attingere
conoscenza degli atti e documenti non strettamente
funzionali al diritto di difesa e rientranti nel concetto di
informazioni da rendersi all’opinione pubblica attraverso lo
strumento informatico di consultazione di dati e notizie
presenti sui siti istituzionali esistenti.
Col secondo e terzo motivo di gravame (da trattarsi
congiuntamente per ragioni di connessione) l’appellante
critica la sentenza del Tar nella parte in cui viene nega la
possibilità di ostensione della OPCM n. 3820 del 12/11/2009
e degli atti ad essa connessi sul rilievo che detta
ordinanza reca determinazioni amministrative per le quali
non sussistono ragioni tali da escluderla dall’accesso.
La statuizione impugnata si rivela immune dal vizio dedotto
a suo carico.
L’OPCM in parola reca “ulteriori interventi urgenti
diretti fronteggiare gli eventi sismici verificatisi nella
regione Abruzzo il giorno 06.04.2009 e altre disposizioni di
protezione civile” e avuto riguardo al contenuto delle
disposizioni in essa contenute, ha natura di atto
sostanzialmente normativo, come tale sottratto all’accesso
ai sensi dell’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n.
241/1990 che esclude espressamente l’accesso per “gli
atti normativi/amministrativi generali, di pianificazione e
programmazione per i quali restano ferme le particolari
norme che ne regolano la formazione”.
Il sig. Venti poi, con altri profili di doglianza rivendica
il diritto a conoscere gli atti e documenti che hanno
condotto alla formulazione dell’art. 2 di detta OPCM recante
una clausola sanante per i subappalti, quelli riguardanti la
gestione dei rifiuti liquidi, nonché gli atti di
costituzione del “Gruppo interforze centrale per
l’emergenza e la ricostruzione - GICER-".
Ora, con riferimento ai primi atti, gli stessi hanno una
funzione meramente ancillare rispetto alla disposizione
normativa di che trattasi (l’art. 2 dell’OPCM) senza
assumere una rilevanza esterna, sicché la richiesta di
accedere agli stessi è del tutto inammissibile.
Quanto agli altri atti e documenti richiesti, non è dato in
ogni caso conoscere in concreto la necessaria, stretta
correlazione logica tra il contenuto di tali determinazioni
di carattere organizzativo e il processo penale da cui si
origina la vicenda all’esame.
In altri termini, anche in questo caso le ragioni
dell’accesso appaiono strumentali alla finalità di rendere
informazioni al pubblico, nell’esercizio dell’attività di
pubblicista e le stesse si sovrappongono a quelle inerenti
strettamente l’esercizio del diritto di difesa: la richiesta
di accesso va ad interessare indiscriminatamente atti di
tipo organizzativo la cui conoscenza appare finalizzata
all’esercizio del diritto di cronaca che qui però, come già
sopra esposto, non può essere fatto valere.
Né, d’altra parte per i profili meritevoli di tutela è stata
data dimostrazione alcuna della correlazione
logico-funzionale tra la cognizione di detti atti e la
tutela delle esigenze difensive.
Le censure di cui al quarto motivo d’appello investono le
statuizioni con cui il primo giudice con riferimento agli
atti e documenti indicati alla lettera B della sentenza
impugnata ha ritenuto fondata la richiesta di accesso solo
per alcuni di detti documenti, negandola per il resto.
Ritiene il Collegio che la decisione del Tar sul punto sia
ineccepibile.
Rimanendo nell’ ambito soggettivo ed oggettivo dell’istituto
dell’accesso come applicabile al caso di specie, occorre
prendere le mosse dal concreto e attuale interesse
dell’appellante suscettibile di far insorgere il diritto
alla conoscenza degli atti detenuti dalla pubblica
amministrazione, quello esattamente coincidente con le
esigenze di pieno esercizio del diritto di difesa
dell’appellante nel giudizio penale instauratosi a suo
carico.
Ebbene, se è vero che l’aspetto fondamentale che viene in
rilievo nel giudizio penale è quello consistente in una
presunta inerzia del dr. G. nello svolgimento delle funzioni
di controllo sull’attività di ricostruzione circa
l’assegnazione degli appalti e il regolare svolgimento delle
attività nei cantieri, correttamente il primo giudice ha
limitato il riconoscimento del diritto di accesso in favore
del sig. V. a quegli atti e documenti, precipuamente
indicati ai paragrafi 3.6.3 e 3.6.5 che sono direttamente
ancorati, quanto al loro contenuto, alle controverse
contestazioni oggetto del procedimento penale.
I restanti atti di cui è stata chiesta l’ostensione non
ineriscono la posizione legittimante vantata dal sig. V.,
proprio perché, non esiste correlazione alcuna tra detti
documenti e il giudizio penale: così dicasi per gli atti
inerenti gli elenchi delle imprese non soggette a rischio
d’inquinamento mafioso e così ancora per gli atti
riguardanti il comitato provinciale per l’ordine e la
sicurezza pubblica dell’11.11.2009.
Relativamente poi agli atti e documenti inerenti la
certificazione antimafia della Impresa Di Marco s.r.l., al
di là degli aspetti di riservatezza e di sicurezza pubblica
pure sussistenti, il diniego di accesso appare giustificato
in assenza di un interesse concretamente dimostrato circa la
necessità di conoscere detta documentazione ai fini
dell’esercizio di difesa.
Col quinto ed ultimo motivo parte appellante lamenta la
mancata pronuncia del TAR in ordine alla richiesta di
accedere agli atti di costituzione e attivazione della
Direzione di Comando e Controllo (DI.COMA.C).
Sul punto la difesa dell’Amministrazione resistente
eccepisce la inammissibilità del motivo, posto che al Venti
sarebbe stata rilasciata detta documentazione e su tale
eccezione parte appellante nulla obietta.
Ora, a prescindere dalla esattezza o meno del rilievo mosso
da parte resistente circa l’avvenuta insorgenza di una causa
di improcedibilità del mezzo d’impugnazione, va osservato
come la censura dedotta con il motivo de quo sia stata
introdotta in termini del tutto generici, senza essere
accompagnata da minimi elementi di fatto e di diritto volti
ad evidenziare la correlazione di tali documenti con la
propria posizione legittimante: anche sotto tale profilo la
doglianza deve considerarsi inammissibile.
Conclusivamente, l’appello all’esame, in quanto infondato,
va respinto, con la precisazione che ogni altro motivo
dedotto o adombrato deve ritenersi assorbito o comunque
inidoneo a mutare l’esito delle prese conclusioni
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.09.2014 n. 4748 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1.
Aggiudicazione definitiva. Annullamento in via di
autotutela. Ricorso in sede giurisdizionale limitatamente
all'incameramento della cauzione. Accoglimento del ricorso.
Scadenza del termine di validità della polizza fideiussoria.
Appello. Interesse a ricorrere. Sussiste.
1.1. Laddove la sentenza di I grado
escluda –sia pure ai limitati e conseguenti fini
dell’incameramento della cauzione– la legittimità del
provvedimento di revoca dell’aggiudicazione definitiva della
gara, sussiste l’interesse all’impugnazione da parte della
stazione appaltante, ancorché la polizza fideiussoria possa
essere venuta medio tempore a scadenza.
1.2. La circostanza che possa essere scaduto il termine di
validità della polizza fideiussoria e, dunque, non sia
possibile, tramite l’escussione del fideiussore,
l’incameramento della cauzione, non esclude ex se
l’interesse alla verifica, innanzi al giudice
amministrativo, della legittimità del provvedimento sul
quale si fonda il diritto di credito dell’amministrazione
alla riscossione di un importo pari a quello della somma da
offrire a garanzia in sede di gara e che l’art. 75 d.lgs. n.
163/2006 consente che venga assicurata (anche) per il
tramite di fideiussione bancaria o assicurativa.
2. Cauzione provvisoria. Incameramento. Limiti.
Ragionevolezza. Presupposti. Esclusione dalla gara di
appalto. Atti di incameramento. Illegittimità derivata.
2.1. Nel quadro delle sanzioni
conseguenti all’esclusione, l’istituto della cauzione
provvisoria si profila come garanzia del rispetto dell'ampio
patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare
pubbliche, ed il suo incameramento, sussistendone i
presupposti, risulta coerente con tale finalità, avendo esso
la funzione di garantire la serietà e l'affidabilità
dell'offerta, sanzionando la violazione dell'obbligo di
diligenza gravante sull'offerente, mediante l'anticipata
liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante.
E ciò tenuto conto del fatto che, con la domanda di
partecipazione alla gara, l’operatore economico sottoscrive
e si impegna ad osservare le regole della relativa
procedura, delle quali ha, dunque, contezza.
2.2. L’incameramento della cauzione provvisoria costituisce
una scelta del legislatore ordinario, scelta che,
considerate la natura e le finalità della detta cauzione,
non può essere giudicata frutto di un uso distorto ed
arbitrario della discrezionalità allo stesso spettante e
contrastante con il canone della ragionevolezza.
2.3. L’esclusione dalla gara di appalto costituisce il
presupposto perché si faccia luogo alle due ipotesi
sanzionatorie previste dall’art. 48, comma 1, d.lgs. n.
163/2006 di modo che, mentre l’impresa ben può dolersi della
legittimità dell’esclusione, in relazione alle ragioni che
la giustificano, al contrario non costituisce oggetto di
sindacato giurisdizionale –sotto il profilo dell’eccesso di
potere- la successiva determinazione dell’amministrazione di
incameramento della cauzione e di segnalazione all’Autorità
garante, posto che esse costituiscono conseguenze del tutto
automatiche del provvedimento di esclusione, come tali non
suscettibili di alcuna valutazione discrezionale da parte
dell’amministrazione, con riguardo ai singoli casi concreti
e/o alle possibili differenti ragioni poste a
giustificazione dell'esclusione medesima.
2.4. Ai fini dell'applicazione delle sanzioni previste
dall’art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, il presupposto
determinante (e dunque assorbente) è rappresentato
dall'esclusione dell'impresa concorrente dalla gara
pubblica. Ciò che è quindi possibile censurare, innanzi al
giudice amministrativo, è la legittimità dell’esclusione,
non –una volta che questa sia intervenuta (e sia ritenuta
legittima)– l’adozione dei conseguenti atti di incameramento
della cauzione e di segnalazione, essendo questi conseguenze
automatiche, previste ex lege.
Soltanto nell'ipotesi in cui l’esclusione disposta ex art.
48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006 venisse ritenuta illegittima
in sede giurisdizionale, difetterebbe il presupposto per
l’adozione degli atti di incameramento e segnalazione, che
risulterebbero illegittimi in via derivata.
3. Dichiarazione sulla c.d. moralità professionale.
Individuazione dei soggetti tenuti a renderla.
Amministratori muniti dei poteri di rappresentanza.
3.1. Al fine di individuare la persona
fisica, rispetto alla quale, nell'ambito del rapporto
societario, assume rilievo la causa di esclusione ex art. 38
d.lgs. n. 163/2006, e, dunque, il soggetto tenuto alla
dichiarazione sostitutiva, richiesta, a pena di decadenza,
dal bando di gara, il criterio interpretativo da seguire
consiste nel ricercare, nello statuto della persona
giuridica, quali siano i soggetti dotati di poteri di
rappresentanza.
3.2. La verifica del possesso dei requisiti, ex art. 38 d.
lgs. n. 163/2006, non è solo da riferirsi, formalisticamente,
al soggetto che riveste la qualifica di amministratore ed è
dotato di poteri di rappresentanza, ma a tutti quei soggetti
che, per l’ampiezza dei poteri e la capacità di
rappresentare la società nei confronti dei terzi, sono in
grado di instaurare per essa rapporti giuridici e per essa
assumere obbligazioni.
3.3. Con la locuzione di “amministratori muniti del potere
di rappresentanza” l’art. 38 lett. c) cod. contratti ha
inteso, riferirsi ad un’individuata cerchia di persone
fisiche che, in base alla disciplina codicistica e dello
statuto sociale, sono abilitate ad agire per l’attuazione
degli scopi societari e che, proprio in tale veste
qualificano in via ordinaria, quanto ai requisiti di
moralità e di affidabilità, l’intera compagine sociale.
4. (segue): procuratori ad negotia. Esclusione dal
novero dei soggetti tenuti a rendere le dichiarazioni sulla
c.d. moralità professionale. Procuratori muniti di poteri
decisionali particolarmente ampi. Amministratori di fatto.
Sono tenuti a rendere le dichiarazioni ex art. 39 cod.
contratti.
4.1. Il procuratore ad negotia è una
figura eventuale e non necessaria nell’assetto istituzionale
delle società di capitali. Elemento differenziale fra gli
amministratori ed i procuratori ad negotia è che ai primi è,
di norma, affidata l’attività gestoria dell’impresa con
potere di rappresentanza generale, mentre i secondi, oltre a
derivare il proprio potere dalla volontà (di regola) degli
amministratori, operano di massima nell’interesse societario
per oggetto limitato e soggiacciono al controllo di chi ha
conferito la procura.
4.2. Nella modulazione degli assetti societari, la prassi
mostra l’emersione, in talune ipotesi, di figure di
procuratori muniti di poteri decisionali di particolare
ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti così che,
per sommatoria, possano configurarsi omologhi, se non di
spessore superiore, a quelli che lo statuto assegna agli
amministratori.
In questo caso si pone l’esigenza di evitare, nell’ottica
garantista dell’art. 38, comma 1, lett. c), che
l’amministrazione contratti con persone giuridiche governate
in sostanza, per scelte organizzative interne, da persone
fisiche sprovviste dei necessari requisiti di onorabilità ed
affidabilità morale e professionale, che si giovino dello
schermo di chi per statuto riveste la qualifica formale di
amministratore con potere di rappresentanza.
4.3. Ove risulti che il procuratore speciale sia munito di
poteri di rappresentanza particolarmente ampi, il
procuratore speciale finisce col rientrare a pieno titolo
nella figura cui si richiama l’art. 38, comma 1, lett. c),
del d.lgs. n. 163 del 2006, poiché da un lato si connota
come amministratore di fatto ai sensi dell’art. 2639, comma
1, cod. civ. e, d’altro lato, in forza della procura
rilasciatagli, assomma in sé anche il ruolo di
rappresentante della società, sia pure eventualmente solo
per una serie determinata di atti.
Detta conclusione non è smentita dall’art. 45 Direttiva
2004/18/CE, il quale anzi, facendo riferimento a “qualsiasi
persona” che “eserciti il potere di rappresentanza, di
decisione o di controllo” dell’impresa, sembra mirare,
conformemente del resto all’orientamento generale del
diritto dell’Unione, ad una interpretazione sostanzialista
della figura.
5. (segue): omessa dichiarazione ex art. 38 cod. contratti
da parte di procuratori speciali. Assenza di specifica
comminatoria di esclusione nella lex specialis.
Soccorso istruttorio. Occorre. Clausola di esclusione.
Legittimità.
5.1. A causa della non univocità della
norma circa l’onere dichiarativo da parte del procuratore
speciale, deve intendersi che, qualora la lex specialis non
contenga al riguardo una specifica comminatoria di
esclusione, quest’ultima potrà essere disposta non già per
la mera omessa dichiarazione ex art. 38 cit., ma soltanto là
dove sia effettivamente riscontrabile l’assenza del
requisito in questione.
5.2. Ove la lex specialis di gara contenga una specifica
comminatoria di esclusione per le imprese che non rendano le
dichiarazioni ex art. 38, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006,
anche per i procuratori speciali, la clausola del bando non
viola l'art. 46 D.Lgs. n. 163/2006, poiché non crea una
nuova clausola di esclusione, bensì l'applicazione di una
norma del codice dei contratti, resa esplicita dalla
Stazione appaltante per il tramite della puntuale previsione
del bando.
2. Preliminarmente, il Collegio deve rigettare l’eccezione
di inammissibilità dell’appello, per difetto di interesse.
Ed infatti, la circostanza che possa essere scaduto il
termine di validità della polizza e, dunque, non sia
possibile, tramite l’escussione del fideiussore,
l’incameramento della cauzione, non esclude ex se
l’interesse alla verifica, innanzi al giudice
amministrativo, della legittimità del provvedimento sul
quale si fonda il diritto di credito dell’amministrazione
alla riscossione di un importo pari a quello della somma da
offrire a garanzia in sede di gara e che l’art. 75 d.lgs. n.
163/2006 consente che venga assicurata (anche) per il
tramite di fideiussione bancaria o assicurativa.
Ne consegue che, laddove la sentenza di I grado esclude –sia
pure ai limitati e conseguenti fini dell’incameramento della
cauzione– la legittimità del provvedimento di revoca
dell’aggiudicazione definitiva della gara, sussiste
l’interesse all’impugnazione da parte della stazione
appaltante, ancorché la polizza fideiussoria possa essere
venuta medio tempore a scadenza.
3. Nel merito, l’appello è fondato e deve essere, pertanto,
accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Giova, innanzi tutto, ricordare che, nel quadro delle
sanzioni conseguenti all’esclusione, l’istituto della
cauzione provvisoria si profila come garanzia del rispetto
dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a
gare pubbliche, ed il suo incameramento, sussistendone i
presupposti, risulta coerente con tale finalità, avendo esso
la funzione di garantire la serietà e l'affidabilità
dell'offerta, sanzionando la violazione dell'obbligo di
diligenza gravante sull'offerente, mediante l'anticipata
liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante. E
ciò tenuto conto del fatto che, con la domanda di
partecipazione alla gara, l’operatore economico sottoscrive
e si impegna ad osservare le regole della relativa
procedura, delle quali ha, dunque, contezza.
Come ha osservato la Corte Costituzionale (sent. 13.07.2011
n.211), l’incameramento della cauzione provvisoria
costituisce una scelta del legislatore ordinario, scelta
che, considerate la natura e le finalità della detta
cauzione, non può essere giudicata frutto di un uso distorto
ed arbitrario della discrezionalità allo stesso spettante e
contrastante con il canone della ragionevolezza.
Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di
osservare (Cons. Stato, sez. IV, 16.02.2012 n. 810): “l’esclusione
dalla gara costituisce, dunque, il presupposto perché si
faccia luogo alle due ipotesi sanzionatorie previste
dall’art. 48, comma 1, di modo che, mentre l’impresa ben può
dolersi della legittimità dell’esclusione, in relazione alle
ragioni che la giustificano, al contrario non costituisce
oggetto di sindacato giurisdizionale –sotto il profilo
dell’eccesso di potere- la successiva determinazione
dell’amministrazione di incameramento della cauzione e di
segnalazione all’Autorità garante, posto che esse, come la
giurisprudenza ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato,
sez. V, 01.10.2010 n. 7263), costituiscono conseguenze del
tutto automatiche del provvedimento di esclusione, come tali
non suscettibili di alcuna valutazione discrezionale da
parte dell’amministrazione, con riguardo ai singoli casi
concreti e/o alle possibili differenti ragioni poste a
giustificazione dell'esclusione medesima.
In sostanza, ai fini dell'applicazione delle sanzioni
previste, il presupposto determinante (e dunque assorbente)
è rappresentato dall'esclusione. Ciò che è quindi possibile
censurare, innanzi al giudice amministrativo, è la
legittimità dell’esclusione, non –una volta che questa sia
intervenuta (e sia ritenuta legittima)– l’adozione dei
conseguenti atti di incameramento della cauzione e di
segnalazione, essendo questi conseguenze automatiche,
previste ex lege.
Ovviamente, laddove l’esclusione disposta venisse ritenuta
illegittima, difetterebbe il presupposto per l’adozione
degli atti di incameramento e segnalazione, che
risulterebbero illegittimi in via derivata”.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha accertato che
la disciplina di gara prevedeva l’esclusione in caso di
dichiarazione incompleta, anche con riferimento alla
precisazione in base alla quale le dichiarazioni di cui
all’art. 38, co. 1, d.lgs. n. 163/2006, limitatamente alle
lettere b), c) ed m-ter) “devono essere rese anche dai
soggetti previsti dall’art. 38, comma 1, lett. b) e c) del
codice dei contratti e da procuratori speciali, institori e
comunque da tutti i soggetti aventi poteri di rappresentanza”
(v. pagg. 8 – 9 sent.).
E proprio per questo tale sentenza ha ritenuto che il bando
di gara, in violazione dell’art. 46 d.lgs. n. 163/2006 (nel
suo nuovo testo introdotto dal d.lgs. n. 70/2011), “ha
finito per creare una nuova clausola di esclusione non
prevista dalla legge”.
Orbene, alla luce di quanto esposto, il Collegio non deve,
dunque, accertare se la disciplina di gara prevedesse (più o
meno chiaramente) la sanzione dell’esclusione per
documentazione incompleta anche nel caso dei procuratori
speciali (come avvenuto in specie), poiché la sentenza di I
grado non è stata oggetto di impugnazione per questa parte.
Deve, invece, porsi il diverso problema della ammissibilità
della causa di esclusione prevista dalla lex specialis
di gara, successiva (sia pure di pochi giorni) all’entrata
in vigore del nuovo testo dell’art. 46, co. 1-bis, d.lgs. n.
163/2006, al fine di verificare se tale causa sia
riconducibile alle ipotesi già previste dall’art. 38, ovvero
costituisca una previsione ulteriore della amministrazione
appaltante, come tale non consentita dall’art. 46 del Codice
dei contratti.
4. Sul punto, questa Sezione (sent. 01.04.2011 n. 2068) ha
già avuto modo di osservare che “come già affermato da
Cons. Stato, sez. V, 20.09.2005 n. 4856, il criterio
interpretativo da seguire (al fine di individuare la persona
fisica, rispetto alla quale, nell'ambito del rapporto
societario, assume rilievo la causa di esclusione, e,
dunque, il soggetto tenuto alla dichiarazione sostitutiva,
richiesta, a pena di decadenza, dal bando di gara) consiste
nel ricercare, nello statuto della persona giuridica, quali
siano i soggetti dotati di poteri di rappresentanza (sul
punto, anche sent. 21.12.2012 n. 6664)".
In sostanza, la verifica del possesso dei requisiti, ex art.
38 d.lgs. n. 163/2006, non è solo da riferirsi,
formalisticamente, al soggetto che riveste la qualifica di
amministratore ed è dotato di poteri di rappresentanza, ma a
tutti quei soggetti che, per l’ampiezza dei poteri e la
capacità di rappresentare la società nei confronti dei
terzi, sono in grado di instaurare per essa rapporti
giuridici e per essa assumere obbligazioni.
Tale interpretazione della locuzione “amministratori
muniti del potere di rappresentanza”, di cui al citato
art. 38, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellata
(v. pag. 4 memoria del 29.05.2014), appare condivisa anche
dall’Adunanza Plenaria, la quale, con sentenza 16.10.2013 n.
23, ha affermato: “Con la locuzione di “amministratori
muniti del potere di rappresentanza” l’art. 38, lett. c), ha
inteso, quindi, riferirsi ad un’individuata cerchia di
persone fisiche che, in base alla disciplina codicistica e
dello statuto sociale, sono abilitate ad agire per
l’attuazione degli scopi societari e che, proprio in tale
veste qualificano in via ordinaria, quanto ai requisiti di
moralità e di affidabilità, l’intera compagine sociale.
In diverso modo si atteggia la posizione del procuratore ad
negotia.
Questa figura è eventuale e non necessaria nell’assetto
istituzionale delle società di capitali. Elemento
differenziale fra gli amministratori ed i procuratori ad
negotia è che ai primi è, di norma, affidata l’attività
gestoria dell’impresa con potere di rappresentanza generale,
mentre i secondi, oltre a derivare il proprio potere dalla
volontà (di regola) degli amministratori, operano di massima
nell’interesse societario per oggetto limitato e
soggiacciono al controllo di chi ha conferito la procura.
Nella modulazione degli assetti societari la prassi mostra
tuttavia l’emersione, in talune ipotesi, di figure di
procuratori muniti di poteri decisionali di particolare
ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti così che,
per sommatoria, possano configurarsi omologhi, se non di
spessore superiore, a quelli che lo statuto assegna agli
amministratori. Anche in questo caso .... si pone l’esigenza
di evitare, nell’ottica garantista dell’art. 38, comma 1,
lett. c), che l’amministrazione contratti con persone
giuridiche governate in sostanza, per scelte organizzative
interne, da persone fisiche sprovviste dei necessari
requisiti di onorabilità ed affidabilità morale e
professionale, che si giovino dello schermo di chi per
statuto riveste la qualifica formale di amministratore con
potere di rappresentanza.
A ben vedere, in altre parole, in tal caso il procuratore
speciale finisce col rientrare a pieno titolo nella figura
cui si richiama l’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n.
163 del 2006, poiché da un lato si connota come
amministratore di fatto ai sensi dell’art. 2639, comma 1,
cod. civ. e, d’altro lato, in forza della procura
rilasciatagli, assomma in sé anche il ruolo di
rappresentante della società, sia pure eventualmente solo
per una serie determinata di atti.
Detta conclusione non è smentita dal menzionato art. 45
della direttiva U.E., il quale anzi, facendo riferimento ...
a “qualsiasi persona” che “eserciti il potere di
rappresentanza, di decisione o di controllo” dell’impresa,
sembra mirare, conformemente del resto all’orientamento
generale del diritto dell’Unione, ad una interpretazione
sostanzialista della figura.
Naturalmente, in aderenza a quanto affermato da questa
medesima Adunanza plenaria con sentenza n. 10 del 2012 ....
stante la non univocità della norma circa l’onere
dichiarativo dell’impresa nelle ipotesi in esame (cui va
aggiunta, per il passato, l’incertezza degli indirizzi
giurisprudenziali) deve intendersi che, qualora la lex
specialis non contenga al riguardo una specifica
comminatoria di esclusione, quest’ultima potrà essere
disposta non già per la mera omessa dichiarazione ex art. 38
cit., ma soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile
l’assenza del requisito in questione.”.
Nel caso di specie, come innanzi riportato, il bando
contiene una specifica comminatoria di esclusione per le
imprese che non rendano le dichiarazioni ex art. 38, lett.
c) d.lgs. n. 163/2006, anche per i procuratori speciali, con
ciò rispondendo –nel quadro di una interpretazione “sostanzialistica”
della locuzione “amministratori muniti del potere di
rappresentanza”– a quel requisito richiesto dalla
surriportata giurisprudenza amministrativa.
In definitiva, come appare evidente, non ricorre alcuna
violazione dell’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, poiché non vi è
stata –così come invece sostenuto dalla sentenza impugnata–
la creazione di una nuova clausola di esclusione, bensì la
applicazione di una norma del codice dei contratti, come
innanzi interpretata, resa esplicita dall’amministrazione
per il tramite della puntuale previsione del bando.
La riconosciuta legittimità del provvedimento di revoca
della aggiudicazione definitiva dei lavori, in riforma della
sentenza impugnata, comporta la reiezione del ricorso anche
nei limiti del richiesto annullamento dell’incameramento
della cauzione.
Pertanto, alla luce delle ragioni esposte, l’appello deve
essere accolto, in relazione al secondo motivo proposto (sub
b) dell’esposizione in fatto), con assorbimento del primo
motivo e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere
rigettato il ricorso instaurativo del giudizio di I grado
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.09.2014 n. 4733 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La pianificazione urbanistica non si limita ad individuare
le destinazioni delle zone del territorio comunale, ma é
diretta anche a realizzare le finalità economico-sociali
della comunità locale nel rispetto dei valori tutelati dalla
Costituzione.
Il potere di pianificazione urbanistica
del territorio –la cui attribuzione e conformazione
normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art.
117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente
attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti
di pianificazione, al Comune– non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio
comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti
edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica
che non è limitato solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per
mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico–sociali della comunità locale (non
in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge
17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1),
non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato,
ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel
territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è
funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
---------------
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte
urbanistiche, occorre ricordare che l’onere di motivazione
gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno
strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su
zone territorialmente circoscritte ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto
con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che
sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una
motivazione puntuale e “mirata”.
Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare, con
considerazioni che devono intendersi riconfermate nella
presente sede: “le scelte urbanistiche, dunque, richiedono
una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti
di previsioni interessanti la pianificazione in generale
ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree
specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre
richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del PRG., per le quali
quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior
ragione in presenza di legittime aspettative dei privati),
non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di
un’area muta per effetto della adozione di un nuovo
strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e
complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la
destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno
di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo
che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo
criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle
scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento
urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente
impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo
appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un
nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva
valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e
delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
Questa Sezione, con sentenza 10.05.2012 n. 2710, ha già
avuto modo di osservare che il potere di pianificazione
urbanistica del territorio –la cui attribuzione e
conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla
potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni,
ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è
normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori
livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è
limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone
del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità
e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica
che non è limitato solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per
mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico–sociali della comunità locale (non
in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge
17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art.
1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio”
dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in
genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è
funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte
urbanistiche, occorre ricordare che l’onere di motivazione
gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno
strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su
zone territorialmente circoscritte ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto
con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che
sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una
motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV,
03.11.2008 n. 5478).
Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare (Cons.
Stato, sez. IV, 08.06.2011 n. 3497), con considerazioni che
devono intendersi riconfermate nella presente sede: “le
scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più
o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area
determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche,
ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una
motivazione specifica una variante che interessi aree
determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di
legittime aspettative dei privati), non altrettanto può
dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto
della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del
territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la
destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno
di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo
che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo
criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle
scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento
urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente
impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo
appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un
nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva
valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e
delle esigenze medio tempore sopravvenute” (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 22.09.2014 n. 4731 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: P.a. lenta, indennizzo solo se c'è stato un danno.
Lo ha affermato il tribunale amministrativo regionale per la
Campania.
È necessario dimostrare che la situazione d'incertezza
ingenerata dall'inosservanza del termine di durata del
procedimento da parte della pubblica amministrazione abbia
prodotto un danno, patrimoniale o non patrimoniale.
Lo hanno
sottolineato i giudici della V Sez. del TAR
Campania-Napoli, con
sentenza
19.09.2014 n. 4988.
Secondo un recente orientamento giurisprudenziale «la
risarcibilità del cosiddetto danno da ritardo “puro”, vale a
dire del pregiudizio derivante dal solo fatto dell'inerzia
dell'amministrazione e a prescindere dalla spettanza del
“bene della vita”, oggetto del procedimento (ovvero a
prescindere dalla conclusione della procedura concorsuale e
dall'effettivo inquadramento quali vincitori), implica
l'allegazione e prova di tutti gli elementi costitutivi
della responsabilità, compresa l'esistenza del danno, che
non è in re ipsa (Tar Toscana, Firenze, sez.
I, 22.01.2014, n. 138)».
Già il Consiglio di stato con una recente sentenza ebbe modo
di osservare che «se è vero che l'art. 2-bis della legge n.
241/1990 rafforza la tutela risarcitoria del privato nei
confronti dei ritardi delle pubbliche amministrazioni,
stabilendo che esse e i soggetti equiparati sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento, tuttavia, la richiesta di
accertamento del danno da ritardo ovvero del danno derivante
dalla tardiva emanazione di un provvedimento legittimo e
favorevole, se, da un lato, deve essere ricondotta al danno
da lesione di interessi legittimi pretensivi per
l'ontologica natura delle posizioni fatte valere,
dall'altro, in ossequio al principio dell'atipicità
dell'illecito civile, costituisce una fattispecie «sui
generis», di natura del tutto specifica e peculiare, che
deve essere ricondotta nell'alveo dell'art. 2043 c.c. per
l'identificazione degli elementi costitutivi della
responsabilità.
Di conseguenza l'ingiustizia e la sussistenza stessa del
danno non possono, in linea di principio, presumersi «iuris
tantum», in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al
silenzio nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma
il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare la
sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della relativa
domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere
oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia
dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere
soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) (Cons. di St.,
sez. V, 13.01.2014, n. 63)»
Ciò significa che, «l'art. 2-bis, comma 1, legge 07.08.1990, n. 241, nel prevedere il danno per l'inosservanza del
termine di conclusione del procedimento, non collega, però,
l'ipotesi risarcitoria al mero superamento del termine
procedimentale (senza che sia intervenuta l'emanazione del
provvedimento finale), ma pone l'inosservanza del termine
normativamente previsto come presupposto causale del danno
ingiusto eventualmente cagionato «in conseguenza»
dell'inosservanza dolosa o colposa di detto termine» (Cons.
di st., sez. IV, 20.05.2014, n. 2543).
In pratica, osservano i giudici amministrativi campani, la
sola violazione del termine di durata del procedimento, di
per sé, non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la
particolare complessità delle attività prescritte o il
sopraggiungere di evenienza non imputabili
all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
inammissibile l’integrazione postuma della motivazione di un
atto amministrativo, realizzata mediante atti procedimentali
successivi e/o scritti difensivi predisposti
dall’amministrazione resistente, e ciò anche dopo le
modifiche apportate alla legge n. 241/1990 dalla legge n.
15/2005, rimanendo sempre valido il principio secondo cui la
motivazione del provvedimento non può essere integrata in un
secondo momento, anche in corso di causa, con la
specificazione di elementi di fatto in origine non presi in
considerazione, dovendo la motivazione precedere e non
seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon
andamento e dell’esigenza di delimitazione del controllo
giudiziario.
Invero, la norma contenuta nell’art. 3 della legge n.
241/1990, che prescrive che ogni provvedimento
amministrativo sia motivato, non è riconducibile a quelle
“sul procedimento o sulla forma degli atti”, poiché la
motivazione non ha alcuna attinenza né con lo svolgimento
del procedimento né con la forma degli atti in senso
stretto, riguardando, più precisamente, l’indicazione dei
presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno
determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione
alle risultanze dell’istruttoria”; tant’è che nella stessa
giurisprudenza comunitaria la motivazione viene configurata
come requisito di “forma sostanziale”.
Merita di essere disattesa anche l’eccezione, opposta dalla
difesa comunale, mediante la quale si sostiene che l’istanza
di riduzione della ricorrente doveva essere rigettata, oltre
che per i motivi indicati nel provvedimento di diniego,
anche perché non era stata presentata prima che fosse
deliberata la tariffa con riferimento agli anni 2011 e 2012.
A prescindere dalla scarsa fondatezza dell’argomentazione
utilizzata, non prevedendo la legge che la riduzione
proporzionale della TIA sia subordinata alla tempestività
della domanda rispetto alla deliberazione della tariffa, è
sufficiente replicare che l’eccezione in parola si risolve
in un’indebita integrazione postuma della motivazione.
Infatti, è inammissibile l’integrazione postuma della
motivazione di un atto amministrativo, realizzata mediante
atti procedimentali successivi e/o scritti difensivi
predisposti dall’amministrazione resistente, e ciò anche
dopo le modifiche apportate alla legge n. 241/1990 dalla
legge n. 15/2005, rimanendo sempre valido il principio
secondo cui la motivazione del provvedimento non può essere
integrata in un secondo momento, anche in corso di causa,
con la specificazione di elementi di fatto in origine non
presi in considerazione, dovendo la motivazione precedere e
non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del
buon andamento e dell’esigenza di delimitazione del
controllo giudiziario (orientamento consolidato: cfr. ex
multis Consiglio di Stato, Sez. VI, 18.10.2011 n. 5598 e
30.06.2011 n. 3882; TAR Campania Salerno, Sez. II,
15.02.2012 n. 218; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 10.06.2011
n. 3081).
Invero, la norma contenuta nell’art. 3 della legge n.
241/1990, che prescrive che ogni provvedimento
amministrativo sia motivato, non è riconducibile a quelle “sul
procedimento o sulla forma degli atti”, poiché la
motivazione non ha alcuna attinenza né con lo svolgimento
del procedimento né con la forma degli atti in senso
stretto, riguardando, più precisamente, l’indicazione dei
presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che
hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in
relazione alle risultanze dell’istruttoria”; tant’è che
nella stessa giurisprudenza comunitaria la motivazione viene
configurata come requisito di “forma sostanziale”
(cfr. TAR Sicilia Catania, Sez. IV, 29.03.2012 n. 900)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 19.09.2014 n. 4978 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Indicazione
del termine e dell'autorità cui ricorrere. Omissione. Mera
irregolarità.
Ancorché l'art. 3, comma 4, legge n.
241/1990 preveda, in termini generali, che i provvedimenti
amministrativi rechino l'indicazione del termine e
dell’autorità cui ricorrere, l'omissione di tale indicazione
non determina l’illegittimità del provvedimento
amministrativo, ma solo una mera irregolarità. La previsione
dell’art. 3 comma 4, della l. n. 241 del 1990, infatti,
tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela
giurisdizionale, per cui la segnalata omissione potrebbe dar
luogo, nel concorso di significative ulteriori circostanze,
alla sola concessione del beneficio della rimessione in
termini per proporre impugnazione.
Quanto alla violazione della L.
241/1990 ed all’eccesso di potere per disparità di
trattamento, è sufficiente richiamare l’orientamento per il
quale:
- [ì] “L’omessa indicazione del termine e dell’autorità
cui ricorrere non determina l’illegittimità del
provvedimento amministrativo, ma solo una mera irregolarità.
La previsione dell’art. 3, comma 4, della l. n. 241 del
1990, infatti, tende semplicemente ad agevolare il ricorso
alla tutela giurisdizionale, per cui la segnalata omissione
potrebbe dar luogo, nel concorso di significative ulteriori
circostanze, alla sola concessione del beneficio della
rimessione in termini per proporre impugnazione.” (TAR
Catanzaro Calabria sez. II, 24.05.2012, n. 515; Consiglio di
Stato sez. VI, 05.03.2013, n. 1297)
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR
Lazio-Latina,
sentenza 19.09.2014 n. 720 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 2.
Condono edilizio. Rilascio previo accertamento dei
presupposti. Diniego. Discrezionalità della PA. Non
sussiste. Disparità di trattamento. Irrilevanza.
Il provvedimento di diniego di condono
edilizio costituisce espressione di potere vincolato
rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve
farsi applicazione, con la conseguenza che in ordine al
medesimo non possono venire in rilievo profili di eccesso di
potere quali la disparità di trattamento, propri
dell’esercizio del potere discrezionale, atteso che il
rilascio del condono registratosi in analoghi casi di abusi
non condonabili, e quindi suscettibili di annullamento
giurisdizionale o amministrativo, non può “ex se”
legittimare la fattispecie provvedimentale “sub iudice”, che
resta regolata dall’insussistenza dei presupposti richiesti
dalla legge per il rilascio del condono richiesto.
3. (segue): data di ultimazione dei manufatti suscettibili
di sanatoria. Onere della prova. È a carico del privato.
Rilievi aerofotogrammetrici. Sufficienza.
3.1. In tema di sanatoria edilizia
straordinaria, l’onere della prova dell’ultimazione dei
lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul
richiedente la sanatoria; ciò perché mentre
l’amministrazione comunale non è normalmente in grado di
accertare la situazione edilizia di tutto il proprio
territorio alla data indicata dalla normativa sul condono,
colui che richiede la sanatoria può fornire qualche
documentazione da cui si desuma che l’abuso sia stato
effettivamente realizzato entro la data predetta come ad es.
fatture, ricevute, bolle di consegna, relative
all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali
ecc.
Pertanto colui che ha commesso l’abuso non può trasferire il
suddetto onere in capo all’Amministrazione, qualora non sia
in grado di fornire elementi e documenti atti a sostenere la
richiesta legittima di condono edilizio.
3.2. Legittimamente l'Amministrazione Comunale nega il
rilascio di condono edilizio ex art. 32, comma 25, della
legge 326/2003 e art. 2, comma 1°, L.R. Lazio n. 12/2004,
laddove risulti da aerofotogrammetria che l'immobile oggetto
della domanda di sanatoria non fosse nemmeno presente al
31.03.2003.
Il provvedimento di diniego deve infatti ritenersi
sufficientemente giustificato dal richiamo alla mancanza
della condizione posta dalle legge per beneficiare del
condono edilizio, vale a dire dell’ultimazione dei lavori
entro il 31.03.2003.
Quanto alla violazione della L.
241/1990 ed all’eccesso di potere per disparità di
trattamento, è sufficiente richiamare l’orientamento per il
quale:
- [ìì] “Il provvedimento di diniego di condono edilizio
costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai
presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi
applicazione, con la conseguenza che in ordine al medesimo
non possono venire in rilievo profili di eccesso di potere
quali la disparità di trattamento, propri dell’esercizio del
potere discrezionale, atteso che il rilascio del condono
registratosi in analoghi casi di abusi non condonabili, e
quindi suscettibili di annullamento giurisdizionale o
amministrativo, non può “ex se” legittimare la fattispecie
provvedimentale “sub iudice”, che resta regolata
dall’insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per
il rilascio del condono richiesto.” (TAR Latina Lazio
sez. I, 06.12.2010, n. 1935; Consiglio di Stato sez. IV,
24.02.2011. n. 1235).
L’esame dei restanti motivi implica un sintetico richiamo
alle ragioni poste a supporto del diniego sì come illustrate
dalla relazione e dalla documentazione depositate il
14.11.2006.
Il provvedimento di diniego ha escluso di poter riscontrare
positivamente la dichiarazione sostitutiva di atto notorio
allegata all’istanza di condono edilizio perché “Dall’aerofoto
relativa al volo del 24/1/2004 effettuato dalla soc. LAMCO
srl, al fotogramma 1117, strisciata 90, l’immobile in
oggetto non risulta ancora realizzato, in tale data e
pertanto in contrasto con quanto previsto dall’art. 2, comma
1, della predetta legge regionale n. 12/04 che definisce
suscettibili di sanatoria gli immobili ultimati entro il
31/03/2003;”.
Dalla documentazione versata dal comune si ricava:
- il rapporto della polizia locale prot. n. 757 del
12.05.2005 con allegato rilievo fotografico, di accertamento
della recente realizzazione di un fabbricato per civile
abitazione oggetto di lavori, in corso, di riquadratura dei
telai delle finestre;
- la copia della ripresa aerofotogrammetrica del 24.01.2004,
rappresentativa di una superficie ripartita in tre
appezzamenti, delimitata da vegetazione di basso fusto ed
interessata dalla presenza di un solo albero posto sul
vertice basso ed in prossimità della strada; in particolare
poi l’area di interesse del ricorrente, cerchiata e segnata
sull’acquisito rilievo è priva di costruzioni;
- la descritta, da ultimo, situazione emerge anche dalle
riprese effettuate dalla soc. Lamco nell’anno 2002 ed
impresse nel quadro 414103.
Tutto ciò premesso il motivo con il quale il ricorrente
lamenta il difetto di istruttoria, il travisamento ed il
difetto di motivazione va respinto. Secondo l’articolo 32,
comma 25, della legge 326/2003, “Le disposizioni di cui
ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive
modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate
dall’articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724, e
successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente
articolo, si applicano alle opere abusive che risultino
ultimate entro il 31.03.2003 …”; in termini analoghi si
esprime l’articolo 2, comma 1, della legge regionale n. 12
del 2004.
Ciò posto, diversamente da quanto prospettato, il
provvedimento deve ritenersi sufficientemente giustificato
dal richiamo alla mancanza della condizione posta dalle
legge per beneficiare del condono edilizio, vale a dire
dell’ultimazione dei lavori entro il 31.03.2003. Ed,
infatti, per come è dato evincere dalla documentazione ed in
particolare dai rilievi aerofotogrammetrici, a quelle date
non era presente alcun manufatto. In argomento è poi
irrilevante quanto dedotto dal ricorrente che, con l’ausilio
di relazioni di parte, ha tentato di sostenere
l’inattendibilità di tali ultimi rilevi; lo stesso, infatti,
pur se onerato non ha dato prova della data di ultimazione
dei lavori nei termini di legge.
Come chiarito dal costante orientamento giurisprudenziale “l’onere
della prova dell’ultimazione dei lavori entro la data utile
per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria;
ciò perché mentre l’amministrazione comunale non è
normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di
tutto il proprio territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può
fornire qualche documentazione da cui si desuma che l’abuso
sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta
come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative
all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali
ecc. Pertanto colui che ha commesso l’abuso non può
trasferire il suddetto onere in capo all’Amministrazione,
qualora non sia in grado di fornire elementi e documenti
atti a sostenere la richiesta legittima di condono edilizio.”
(Consiglio di Stato sez. VI, 15.10.2013, n. 5007; Consiglio
Stato, sez. IV, 02.02.2011, n. 752; 12.02.2010, n. 772;
13.01.2010, n. 45).
In definitiva il provvedimento resiste alle censure mosse
tese a contestare, soprattutto, gli elementi supportanti il
diniego i quali trovano ulteriore conferma, il che va
ribadito anche per disattendere la reiterata istanza di
accesso ad una consulenza tecnica d’ufficio, non solo per
via dell’inesistenza di una vegetazione folta e di alto
fusto sotto la quale sarebbe stata allocato il fabbricato ma
anche in ragione dell’esecuzione di lavori all’11.05.2005,
relativi non alla sola riquadratura delle finestre, per come
certificato dal rilievo fotografico di cui al rapporto della
polizia municipale prot. n. 757 del 12.05.2005
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR
Lazio-Latina,
sentenza 19.09.2014 n. 720 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Al fine di definire e meglio individuare gli
“interventi di manutenzione straordinaria”, distinti
–come evidente- dagli “interventi di ristrutturazione
edilizia”, la giurisprudenza ha avuto poi modo di
affermare che:
- gli interventi in questione “sono qualificati dal duplice
aspetto della finalità dei lavori, diretti alla mera
sostituzione o al puro rinnovo di parte del fabbricato e dal
divieto di alterare i volumi e le superfici delle singole
unità immobiliari o di mutarne la destinazione”;
- più in particolare, gli interventi di manutenzione
straordinaria “non implicano modifiche tali da alterare
i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari, né
comportano una diversa destinazione d’uso, questa essendo la
linea di demarcazione tra manutenzione straordinaria e vera
e propria ristrutturazione edilizia che … si risolve nella
creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso da quello preesistente agli interventi di recupero
posti in essere, richiedendo il rilascio di un titolo
concessorio”, con l’ulteriore precisazione che –ai fini
della conformità urbanistica- solo l’osservanza di tutti i
parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, da intendere
come volumetria, sagoma, area di sedime ma anche numero
delle unità immobiliari, comporta la possibilità di tenere a
riferimento la normativa vigente all’epoca di realizzazione
del manufatto, perché –ove tale condizione non ricorra–
l’intervento è da qualificare in termini di ristrutturazione
edilizia, richiedente la conformità dell’intervento stesso
alla disciplina urbanistica applicabile al momento
dell’esecuzione dei lavori.
---------------
La realizzazione di un intervento edilizio consistente nella
“riduzione di unità immobiliari da n. 2 negozi ad un unico
locale destinato a negozio” non può essere ricondotto
nell’ambito di quelli di manutenzione straordinaria
-atteso che chiara si profila l’alterazione dei “volumi” e
delle “superfici delle singole unità immobiliari”- e,
dunque, debba essere correttamente qualificato come
intervento di “ristrutturazione edilizia”,
subordinato a permesso di costruire.
Al fine del decidere, appare opportuno ricordare che:
- ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001
–c.d. TUE– si intendono per interventi di manutenzione
straordinaria, “le opere e le modifiche necessarie per
rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli
edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi
igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i
volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non
comportino modifiche delle destinazioni di uso” (lett.
b), mentre si intendono per interventi di ristrutturazione
edilizia, “gli interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo in tutto o in parte
diverso dal precedente” (lett. d);
- ai sensi del successivo art. 6, comma 2, del medesimo
D.P.R., così come sostituito dalla legge n. 73 del 2010 (o,
meglio, dall’art. 5 del d.l. 25.03.2010, n. 40, in seguito
convertito da tale legge), invocata dalla ricorrente,
possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo ma
esclusivamente previa comunicazione dell’inizio dei lavori,
tra gli altri, “gli interventi di manutenzione
straordinaria di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), ivi
compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di
pareti interne, sempre che non riguardino le parti
strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero
delle unità immobiliari e non implichino incremento dei
parametri urbanistici”, con l’ulteriore prescrizione –al
comma 7– che "la mancata comunicazione dell’inizio dei
lavori ovvero la mancata trasmissione della relazione
tecnica, di cui ai commi 2 e 4 del presente articolo,
comportano la sanzione pecuniaria pari a 258 euro…”;
- l’art. 10, comma 1, del medesimo D.P.R. prevede, ancora,
che “costituiscono interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a
permesso di costruire: …….. c) gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, dei prospetti e delle superfici, ovvero che,
limitatamente agli immobili ricompresi nelle zone omogenee
A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli
interventi che comportino modificazioni della sagoma di
immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni”.
Al fine di definire e meglio individuare gli “interventi
di manutenzione straordinaria”, distinti –come
evidente- dagli “interventi di ristrutturazione
edilizia”, la giurisprudenza ha avuto poi modo di
affermare che:
- gli interventi in questione “sono qualificati dal
duplice aspetto della finalità dei lavori, diretti alla mera
sostituzione o al puro rinnovo di parte del fabbricato e dal
divieto di alterare i volumi e le superfici delle singole
unità immobiliari o di mutarne la destinazione” (cfr.,
tra le altre, C.d.S., Sez. V, 06.02.2003, n. 617; TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 14.03.2007, n. 2076);
- più in particolare, gli interventi di manutenzione
straordinaria “non implicano modifiche tali da
alterare i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari, né comportano una diversa destinazione d’uso,
questa essendo la linea di demarcazione tra manutenzione
straordinaria e vera e propria ristrutturazione edilizia che
… si risolve nella creazione di un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso da quello preesistente agli
interventi di recupero posti in essere, richiedendo il
rilascio di un titolo concessorio” (TAR Sicilia,
Palermo, Sez. III, 24.01.2007, n. 222), con l’ulteriore
precisazione che –ai fini della conformità urbanistica- solo
l’osservanza di tutti i parametri urbanistici ed edilizi
preesistenti, da intendere come volumetria, sagoma, area di
sedime ma anche numero delle unità immobiliari, comporta la
possibilità di tenere a riferimento la normativa vigente
all’epoca di realizzazione del manufatto, perché –ove tale
condizione non ricorra– l’intervento è da qualificare in
termini di ristrutturazione edilizia, richiedente la
conformità dell’intervento stesso alla disciplina
urbanistica applicabile al momento dell’esecuzione dei
lavori (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 27.04.2006, n.
2341).
Tutto ciò premesso, è da considerare che, nel caso di
specie, la società ricorrente ha realizzato un intervento
edilizio consistente nella “riduzione di unità
immobiliari da n. 2 negozi ad un unico locale destinato a
negozio” (cfr. “relazione tecnica asseverata”,
allegata al ricorso).
Ciò detto e tenuto conto di quanto sopra riportato, il
Collegio ritiene che tale intervento non possa essere
ricondotto nell’ambito di quelli di manutenzione
straordinaria -atteso che chiara si profila
l’alterazione dei “volumi” e delle “superfici
delle singole unità immobiliari”- e, dunque, debba
essere correttamente qualificato come intervento di “ristrutturazione
edilizia”, subordinato a permesso di costruire
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 17.09.2014 n. 9773 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare svolte con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, l'eventuale articolazione
dei criteri valutativi previsti dal bando in sub-criteri
deve essere stabilita dalla stazione appaltante ed indicata
nel bando.
Ai sensi dell'art. 83 del D.Lgs. n. 163/2006, nelle gare
svolte con il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, l'eventuale articolazione dei criteri
valutativi previsti dal bando in sub-criteri, cui assegnare
sub-pesi o sub-punteggi, deve essere stabilita dalla
stazione appaltante ed indicata nel bando, mentre non può
essere stabilita dalla Commissione di gara dopo la
presentazione delle offerte. Lo stesso art. 83 stabilisce,
poi, che "ove necessario" il bando può prevedere, per
ciascun criterio di valutazione prescelto, anche i
sub-criteri e i sub-pesi o i sub-punteggi, definendo così
una griglia di valutazione ancora più analitica (c.4).
Ora, l'opportunità, o la necessità, di definire anche i
sub-criteri o i subpunteggi va valutata in relazione
all'analiticità dei criteri principali (o primari) ed
all'idoneità di questi ad assicurare, per un verso,
un'adeguata e compiuta valutazione delle offerte e, per
altro verso, il rispetto del principio di trasparenza ed
efficacia. Pertanto, nel caso di specie, proprio in
relazione al particolare e limitato oggetto della fornitura
in questione, i criteri primari indicati dal bando di gara,
sopra menzionati, nella loro ampia e compiuta
configurazione, sono sufficienti a garantire il
raggiungimento delle finalità appena ricordate
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 17.09.2014 n. 1219 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Congedo al padre ampio.
Sì ai congedi parentali al lavoratore anche se la madre del
bambino è casalinga. Non solo il lavoro domestico è
assimilabile all'attività autonoma, ma implica un'attività
più intensa e carica di responsabilità rispetto ai compiti
svolti dal prestatore d'opera dipendente: deve dunque essere
dichiarato illegittimo il rifiuto opposto dal Ministero alla
domanda di riposi giornalieri presentata dal dipendente in
base all'articolo 40 del decreto legislativo 151/2001.
È
quanto emerge dal Consiglio di Stato, Sez. III, nella
sentenza 10.09.2014 n. 4618, che tra l'altro smentisce
l'interpretazione della norma offerta dagli stessi
magistrati di Palazzo Spada, però in sede consultiva.
Il
punto della questione sta nella disposizione che consente la
fruizione del riposo giornaliero al lavoratore padre «nel
caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente».
È
stata la giurisprudenza di legittimità ad assimilare le
giornate della casalinga fra pavimenti, lavatrici e fornelli
a un vero e proprio lavoro autonomo quando si è trattato di
risarcire la perdita di capacità di lavoro, facendo
riferimento agli articoli 4, 36, 37 della Costituzione
(Cassazione 20324/2005). E il fatto che la legge escluda
l'ipotesi in cui la madre è lavoratrice dipendente consente
di ritenere che invece il beneficio possa essere
riconosciuto in tutti gli altri casi, anche quando la mamma
del bambino non lavora (fuori casa): la legge, infatti,
indica in modo puntiglioso le varie ipotesi e, dunque, le
indicazioni fornite devono ritenersi tassative (diversamente
il legislatore avrebbe scritto «nel caso in cui la madre sia
lavoratrice non dipendente»).
Di più. Il fatto che
l'attività domestica debba essere considerata un vero lavoro
a favore della famiglia non esclude ma anzi comprende le
cure parentali: la giurisprudenza amministrativa si rifà a
un dato di esperienza, secondo cui quando in una casa nasce
un bambino si ricorre a un aiuto, sia colf o baby sitter.
Ecco allora che le famiglie monoreddito, conclude la
sentenza, possono farne a meno grazie ai permessi fruibili
dall'altro genitore lavoratore dipendente. Che se avesse
portato le prove dei soldi spesi ad hoc forse sarebbe stato
pure risarcito
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel processo amministrativo è controinteressato
colui che è portatore di un interesse qualificato alla
conservazione dell’assetto recato dal provvedimento
impugnato e di natura uguale e contrario a quello del
richiedente (controinteressato in senso sostanziale) e che
inoltre sia stato nominativamente indicato nel provvedimento
o sia facilmente individuabile (controinteressato in senso
formale).
... deve rilevarsi che nel processo amministrativo è
controinteressato colui che è portatore di un interesse
qualificato alla conservazione dell’assetto recato dal
provvedimento impugnato e di natura uguale e contrario a
quello del richiedente (controinteressato in senso
sostanziale) e che inoltre sia stato nominativamente
indicato nel provvedimento o sia facilmente individuabile (controinteressato
in senso formale) (tra le più recenti Con. Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1862; 24.03.2014, n. 1448;
09.10.2007, n. 5241)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4525 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Secondo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di
discostarsi, i consiglieri comunali hanno un non
condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano
essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò
anche al fine di permettere di valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una
ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di
accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla
generalità dei cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque sia portatore di un
"interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss.
della legge 07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea
generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai
singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela
delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese,
quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente
funzionale all’esercizio delle loro funzioni, alla verifica
e al controllo del comportamento degli organi istituzionali
decisionali dell’ente locale ai fini della tutela degli
interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e
personali) e si configura come peculiare espressione del
principio democratico dell’autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare
alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di
accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i
propri uffici, sull’esercizio delle funzioni del consigliere
comunale; è stato osservato d’altra parte che dal termine
“utili”, contenuto nell’articolo 43 del D.Lgs. 18.08.2000,
n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di
accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo
comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle
funzioni.
Deve anche aggiungersi che il diritto del consigliere
comunale ad ottenere dall’ente tutte le informazioni utili
all’espletamento delle funzioni non incontra neppure alcuna
limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata,
in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio.
In definitiva gli unici limiti all’esercizio del diritto di
accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un
verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono
fissate nel regolamento dell’ente) e, per altro verso, che
esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso.
Sotto altro profilo, deve
altresì ricordarsi che, secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi
(Cons. Stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), i consiglieri comunali hanno un non
condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano
essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò
anche al fine di permettere di valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una
ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di
accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla
generalità dei cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque sia portatore di un
"interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss.
della legge 07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea
generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai
singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela
delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese,
quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente
funzionale all’esercizio delle loro funzioni, alla verifica
e al controllo del comportamento degli organi istituzionali
decisionali dell’ente locale (Cons. Stato, sez. IV, 21.08.2006, n. 4855) ai fini della tutela degli interessi
pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si
configura come peculiare espressione del principio
democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza
esponenziale della collettività (Cons. Stato, sez. V, 08.09.1994, n. 976).
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare
alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di
accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i
propri uffici, sull’esercizio delle funzioni del consigliere
comunale (Cons. Stato, sez. V, 22.02.2007, n. 929; 09.12.2004, n. 7900); è stato osservato d’altra parte che
dal termine “utili”, contenuto nell’articolo 43 del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna
limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali,
poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di
tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per
l’esercizio delle funzioni (Cons. Stato, sez. V, 20.10.2005, n. 5879).
Deve anche aggiungersi che il diritto del consigliere
comunale ad ottenere dall’ente tutte le informazioni utili
all’espletamento delle funzioni non incontra neppure alcuna
limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata,
in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio
(Cons. Stato, sez. V, 29.08.2011, n. 4829; 04.05.2004, n. 2716).
In definitiva gli unici limiti all’esercizio del diritto di
accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un
verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono
fissate nel regolamento dell’ente) e, per altro verso, che
esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4525 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce jus receptum
che la c.d. "vicinitas", cioè la situazione di stabile
collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento edilizio assentito, è sufficiente a radicare
la legittimazione a ricorrere dei confinanti, non essendo
necessario che la parte ricorrente debba anche allegare e
provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto
dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo,
atteso che la realizzazione di consistenti interventi che
comportino contra legem l’alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio deve ritenersi
pregiudizievole in re ipsa.
Quanto al primo profilo, costituisce jus receptum che la c.d. "vicinitas", cioè la situazione di
stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento edilizio assentito, è sufficiente a radicare
la legittimazione a ricorrere dei confinanti, non essendo
necessario che la parte ricorrente debba anche allegare e
provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto
dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo
(Cons. Stato, sez. IV, 18.12.2013, n. 6082), atteso
che la realizzazione di consistenti interventi che
comportino contra legem l’alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio deve ritenersi
pregiudizievole in re ipsa
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4524 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte Costituzionale, con la ordinanza n. 167 del 16.05.1995, ha dichiarato manifestamente infondate le
questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2,
primo comma, e 3 della legge regionale della Lombardia 07.06.1980, n. 93 (in riferimento agli artt. 3, 5, 117 e
128 della Costituzione), osservando tra l’altro che:
►
quelle
norme “…sono frutto di un’insindacabile scelta del
legislatore regionale, diretta a limitare l’utilizzazione
edilizia dei territori agricoli e a frenare il processo di
erosione dello spazio destinato alle colture, scelta che ha
il suo fondamento della Costituzione…il quale facoltizza il
legislatore, anche regionale, a predisporre aiuti e sostegni
all’impresa agricola e alla proprietà coltivatrice” e che
►
sotto tale profilo esso “…non può essere affatto considerata
un’irragionevole discriminazione, lesiva dell’art. 3 della
Costituzione, la subordinazione del rilascio della
concessione edilizia sia al possesso della qualità di
imprenditore agricolo o di altra figura assimilata, sia
all’accertamento del collegamento funzionale dell’opera con
l’attività agricola, essendo elementi volti a denotare la
destinazione effettiva delle opere alla conduzione del fondo
o, in genere, alla attività di agricoltura”.
La legge regionale della
Lombardia 07.06.1980, n. 93, recante “Norme in materia di
edificazione nelle zone agricole”, vigente all’epoca
dell’emanazione dell’impugnata concessione edilizia (essendo
poi stata abrogata dall’art. 104, comma 1, lett. h), della
legge regionale 11.03.2005, n. 12), dopo aver stabilito
all’articolo 1, tra l’altro, che “I piani regolatori
generali dei comuni, al fine di valorizzare e recuperare il
patrimonio agricolo, assicurare la tutela e la efficienza
delle unità produttive anche mediante il soddisfacimento
delle esigenze degli imprenditori e dei lavoratori agricoli,
individuano: a) le zone a destinate ad attività agricola, ai
sensi del D.M. 02.04.1968...”, al successivo articolo 2,
primo comma stabiliva il principio secondo cui “In tutte le
aree destinate dagli strumenti urbanistici generali a zona
agricola sono ammesse esclusivamente le opere realizzate in
funzione della conduzione del fondo e destinate alle
residente dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti
dell’azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture
produttive, quali stalle, silos, serre, magazzini, locali
per la lavorazione e la conservazione e la vendita dei
prodotti agricoli secondo i criteri e le modalità previsti
dal successivo art. 3”.
Quest’ultimo al primo comma prevedeva poi che “In tutte le
aree previste dagli strumenti urbanistici generali come zone
agricole, la concessione edilizia può essere rilasciata
esclusivamente: a) all’imprenditore agricolo singolo o
associato, iscritto all’albo di cui alla legge regionale 13.04.1974, n. 18, per tutti gli interventi di cui al
precedente art. 2 comma 1°, a titolo gratuito ai sensi
dell’art. 9, lett. a) della legge 28.01.1977, n. 10; b)
al titolare o al legale rappresentante dell’impresa agricola
per la realizzazione delle sole attrezzature ed
infrastrutture produttive e delle sole abitazioni per i
salariati agricoli, subordinatamente al versamento dei
contributi di concessione; c) limitatamente ai territori dei
comuni indicati nella tabella allegata alla legge regionale
19.11.1976, n. 51, ai soggetti aventi i requisiti di
cui all’art. 8 della legge 10.05.1976, n. 352 e all’art.
8 punto 4) della legge regionale sopraccitata,
subordinatamente al pagamento dei contributi di concessione,
per tutti gli interventi di cui al precedente art. 2, comma
1°”.
L’attività cinotecnica è regolata dalla legge 23.08.1993, n. 349, per essa intendendosi, ai sensi dell’articolo
1, “l’attività volta all’allevamento, alla selezione e
all’addestramento delle razze canine”.
Secondo quanto disposto dall’articolo 2 della medesima legge
“1. L’attività cinotecnica è considerata a tutti gli effetti
attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne
derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività
economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto. 2. I
soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati,
che esercitano l’attività cinotecnica di cui al comma 1 sono
imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2135 del codice
civile. 3. Non sono comunque imprenditori agricoli gli
allevatori che producono nell’arco di un anno un numero di
canoni inferiori a quello determinato, per tipi o per razze,
con decreto del Ministro dell’agricoltura e delle foreste…”.
Ai sensi di tale decreto, emanato il 28.01.1994, “Non
sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in
allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che
annualmente producono un numero di cuccioli inferiori alle
trenta unità”.
Secondo le sopra riportate disposizioni normative
regionali, vigenti all’epoca del rilascio della contestata
concessione edilizia, gli interventi edilizi in zona a
destinazione agricola erano ammissibili solo se funzionali
alla conduzione del fondo e destinate alle residenze
dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti dell’azienda,
nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive (Cons.
Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2041).
Il rilascio della concessione edilizia in tal senso
costituiva un’ipotesi residuale ed eccezionale, sottoposta
ad una specifica e puntuale istruttoria volta ad accertare
con assoluta certezza ed inequivocità non solo il vincolo
funzionale tra le costruzioni per le quali si richiedeva il
titolo e la loro effettiva ed obiettiva connessione con
l’attività agricola (in tal senso Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4472), ma anche la stessa qualità di
imprenditore agricolo del richiedente.
La Corte Costituzionale, con la ordinanza n. 167 del 16.05.1995, ha dichiarato manifestamente infondate le
questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2,
primo comma, e 3 della legge regionale della Lombardia 07.06.1980, n. 93 (in riferimento agli artt. 3, 5, 117 e
128 della Costituzione), osservando tra l’altro che quelle
norme “…sono frutto di un’insindacabile scelta del
legislatore regionale, diretta a limitare l’utilizzazione
edilizia dei territori agricoli e a frenare il processo di
erosione dello spazio destinato alle colture, scelta che ha
il suo fondamento della Costituzione…il quale facoltizza il
legislatore, anche regionale, a predisporre aiuti e sostegni
all’impresa agricola e alla proprietà coltivatrice” e che
sotto tale profilo esso “…non può essere affatto considerata
un’irragionevole discriminazione, lesiva dell’art. 3 della
Costituzione, la subordinazione del rilascio della
concessione edilizia sia al possesso della qualità di
imprenditore agricolo o di altra figura assimilata, sia
all’accertamento del collegamento funzionale dell’opera con
l’attività agricola, essendo elementi volti a denotare la
destinazione effettiva delle opere alla conduzione del fondo
o, in genere, alla attività di agricoltura”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4524 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE: Forniture al 100% in Cina: via l'appalto.
Tar Campania. Per legge nelle gare pubbliche non si può
superare il 50%.
Sì all'annullamento
dell'appalto pubblico per la fornitura di materiale per la
rete idrica anche all'impresa con sede legale e
amministrativa in Italia ma con produzione delocalizzata
interamente in Cina. La marcia indietro è possibile poiché
per le offerte nell'ambito dei settori speciali quali acqua,
gas, energia termica, elettricità, trasporti, servizi
postali e sfruttamento di area geografica, la parte dei
prodotti originari di Paesi terzi non può superare il 50%
del valore totale fissato dal Codice dei contratti pubblici
(articolo 234, Dlgs n.163/2006) in linea con le norme
comunitarie sull'import-export da e verso tali zone
(regolamento Cee n. 2913/92, Codice doganale comunitario).
L'ha stabilito il TAR
Campania-Napoli, Sez. V, con la
sentenza
03.09.2014 n. 4695, dando ragione ad un'azienda speciale locale
nel revocare a una società di prodotti in ghisa
l'affidamento della fornitura di chiusini per un acquedotto
perché tutti realizzati in Cina.
I giudici hanno chiarito la ratio della disciplina speciale
per gli appalti di forniture, merci o prodotti, e la natura
di "Paese terzo" per la materia. La lex specialis si fonda
sull'adesione ad accordi internazionali di reciprocità e
garantisce «non tanto la qualità dei prodotti quanto parità
di accesso alle imprese che producono in ambito comunitario
rispetto alle imprese che producono, delocalizzando, in
territori non compresi nell'Unione europea, che non
garantiscono determinate condizioni (es. rispetto degli 'standards'
in termini di sicurezza e tutela dei lavoratori)».
Per il
Tar la Cina è così "Paese terzo"perché pur aderendo
all'Organizzazione mondiale del commercio, non ha mai
firmato il collegato Accordo sugli appalti pubblici che
fissa le condizioni eque per le gare internazionali basate
sulla concorrenza: per i giudici solo quell'ulteriore passo
ulteriore passo poteva consentire «l'apertura del proprio
mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e
dignità giuridica nei confronti delle imprese Ue».
Quanto al
prodotto -integralmente made in Cina contro il limite del
50% e senza riferimenti ai siti operativi in Ue dell'impresa
italiana- «acquista rilievo la sede dello stabilimento in cui
esso viene realizzato». La natura italiana dell'impresa non
rende italiano il prodotto realizzato altrove anche se la
produzione è effettuata in proprio
(articolo Il Sole 24 Ore del
25.09.2014). |
COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI:
Risultano in capo alla Giunta Comunale le
funzioni inerenti l’approvazione del progetto definitivo di
un’opera pubblica comunale, residuando alle attribuzioni
dirigenziali, invece, la sola approvazione del relativo
progetto esecutivo
E’ da respingere, in primo luogo, la censura di incompetenza
della Giunta comunale ad adottare la deliberazione
principalmente impugnata dai ricorrenti. Risultano infatti
attribuite a tale organo le funzioni inerenti l’approvazione
del progetto definitivo di un’opera pubblica comunale,
residuando alle attribuzioni dirigenziali, invece, la sola
approvazione del relativo progetto esecutivo (v. in termini:
TAR Emilia Romagna–BO- sez. II, n. 409 del 2004) (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 02.09.2014 n. 828 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Circa la scelta progettuale
del percorso della strada, con specifico riferimento
alle modalità di attuazione dell’ampliamento della sede
stradale, il Collegio osserva che tali scelte della P.A.
costituiscono esercizio di poteri ampiamente discrezionali,
con conseguente limitazione del sindacato giurisdizionale di
legittimità ai casi in cui il provvedimento risulti
manifestamente irragionevole, contraddittorio, o il
risultato di palese travisamento dei fatti o di evidente
carenza di attività istruttoria.
Per quanto concerne la scelta
del percorso della strada, con specifico riferimento alle
modalità di attuazione dell’ampliamento della sede stradale,
il Collegio osserva che –per costante giurisprudenza del
giudice amministrativo– tali scelte della P.A. costituiscono
esercizio di poteri ampiamente discrezionali, con
conseguente limitazione del sindacato giurisdizionale di
legittimità ai casi in cui il provvedimento risulti
manifestamente irragionevole, contraddittorio, o il
risultato di palese travisamento dei fatti o di evidente
carenza di attività istruttoria.
Di qui, invece, la piena legittimità della deliberazione
impugnata, dagli atti di causa risultando trattarsi di
scelta non manifestamente illogica, come si evince dalle
circostanziate motivazioni rese dall’amministrazione
comunale agli odierni ricorrenti in sede di controdeduzioni
alle osservazioni dagli stessi presentate, nelle quali era
proposto un allargamento delle sede stradale dalla parte
opposta a quella in cui si trova la loro abitazione.
Secondo l’amministrazione, infatti, il percorso alternativo
proposto dai ricorrenti non poteva essere attuato, in quanto
avrebbe comportato un maggiore consumo di nuovo territorio
rispetto al percorso scelto, con conseguente contrasto con
quanto disposto, in materia urbanistica, dall’art. 2 della
L.R. Emilia Romagna n. 20 del 2000, ove si prescrive di “…prevedere
il consumo di nuovo territorio, solo quando non sussistano
alternative derivanti dalla sostituzione di tessuti
insediativi esistenti…”.
Nel caso in esame, quindi, la scelta del Comune risulta
oltre che non manifestamente illogica, anche coerente con la
disciplina urbanistica regionale, con particolare
riferimento ad un ulteriore profilo, parimenti emergente
dagli atti di causa, che evidenzia come, in realtà, il nuovo
tracciato nel suo complesso non comporti un avvicinamento
della sede stradale all’area di proprietà dei ricorrenti
rispetto all’originario tracciato (v. doc. n. 2 all. C del
Comune).
Quanto, poi, alla asserita mancata partecipazione
procedimentale, il Collegio rileva che la censura è
palesemente infondata, avendo i ricorrenti ricevuto in data
09/10/2006 l’avviso di avvio del procedimento relativo al
progetto in parola (successivamente approvato con la
deliberazione di Giunta impugnata) contenente le modifiche
apportate dal Comune in esecuzione delle osservazioni della
Provincia di Bologna ed avendo i medesimi preso visione dei
relativi atti in data 28/10/2006, con conseguente oggettiva
possibilità di partecipare al relativo procedimento, come
del resto è dimostrato dalla presentazione di osservazioni e
dalle controdeduzioni rese dal Comune a riscontro delle
stesse
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 02.09.2014 n. 828 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Mafia, l'interdittiva dovuta a subappalto va proporzionata.
Tar Friuli. Sentenza sulle grandi imprese.
I provvedimenti antimafia
devono considerare dimensioni e contesto aziendale: lo
sottolinea il TAR Friuli Venezia Giulia con
sentenza 29.08.2014 n. 457, importante perché riguarda un'impresa
attiva a livello europeo coinvolta in indagini a causa di
subappaltatori in vari cantieri.
A giugno la Prefettura
aveva emesso un'interdittiva antimafia, con revoca
dell'affidamento di lavori autostradali perché il legale
rappresentante di un'impresa subappaltatrice era la figlia
del genero di un presunto mafioso. Il Tar chiarisce che
l'informativa, pur basata su condivisibili intenzioni e
apprezzabile volontà, poteva ritenersi effetto di generico
"contagio", frutto di un metodo di vago sospetto e
indimostrate illazioni, costituzionalmente scorretto perché
potenzialmente idoneo a estendere il rischio d'infiltrazione
mafiosa a tutte le grandi imprese, per il sol fatto di
operare in un territorio o di utilizzare massicciamente il
subappalto.
Nel caso deciso, l'impresa era stata autorizzata a gestire
ben 237 subappalti, tra cui quello che generava dubbi di
infiltrazione era di importo particolarmente modesto (50.000
euro, su lavori per oltre un milione). La subappaltatrice
contaminata, poi, aveva superato seri controlli di
Carabinieri e militari Usa: eseguiva lavori in una base
aerea con armi nucleari. Già questi elementi avrebbero reso
labile la credibilità dell'informativa, ma il Tar aggiunge
che l'impresa risultava avere un portafoglio lavori di oltre
2.300 milioni di euro e diverse migliaia di dipendenti.
Osserva il Tar che il laborioso e zelante lavoro
investigativo non aveva fornito un quadro logico, coerente e
convincente sulle possibilità di infiltrazione mafiosa. Di
qui l'annullamento dell'interdittiva, ferma restando la
necessità di attenta e continua vigilanza, con monitoraggio
sui subappaltatori e i loro dipendenti, attuando un
principio di leale collaborazione tra soggetti privati e
pubblici per combattere la criminalità organizzata.
La lotta alla mafia –si sottolinea– va condotta
nell'ambito della legalità costituzionale, e il fine non può
giustificare tutto: il mezzo giuridico utilizzato deve
sempre rimanere nell'alveo dei valori democratici
costituzionali che la mafia vuol corrodere alla radice. In
tale quadro, l'utilizzo prudente, bilanciato ed equilibrato
dell'informativa prefettizia antimafia è essenziale per
evitare ogni tipo d'influenza mafiosa nelle scelte
strategiche delle imprese. Ma va correlativamente evitato
che, seppur involontariamente, le ditte "sane" siano espulse
dal mercato, con possibile vantaggio indiretto per le
società più o meno colluse con la mafia, ottenendo un
risultato opposto a quello voluto dall'ordinamento.
La sentenza dà quindi alle informative un peso diverso
secondo il calibro delle imprese che potrebbero risultarne
travolte. Lo stesso Dlgs. 159/2011 (codice antimafia)
prevede controlli diversificati in proporzione alla
tipologia della società: per le spa l'articolo 85 impone
verifiche aggiuntive, su amministratori e collegio
sindacale. Per tutte le imprese l'articolo 91 ammette
accertamenti su chi (anche non amministratore) risulti poter
determinare in qualsiasi modo scelte o indirizzi aziendali,
indipendentemente dalla presenza (Dlgs. 231/2001) di un
organismo di vigilanza (articolo Il Sole 24 Ore del
25.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti verdi, è infrazione bruciare quelli abbandonati.
Sentenza della Cassazione sulla combustione illecita di
residui urbani.
Appiccare il fuoco a rifiuti urbani vegetali provenienti da
aree verdi costa meno, in termini sanzionatori, se l'abbruciamento
riguarda sfalci e potature abbandonati o depositati in modo
incontrollato piuttosto che residui verdi preventivamente
raccolti e trasportati senza autorizzazione al fine di
sottoporli a tale smaltimento. Nel primo caso la sanzione è
quella amministrativa pecuniaria da 300 euro a 3 mila euro,
mentre nel secondo caso è quella penale della reclusione da
2 a 5 anni.
A far luce tra le pieghe della complessa
disciplina che punisce la «Combustione illecita di rifiuti»
è la Corte di Cassazione, Sez. III penale, che con
sentenza
01.08.2014 n.
34098 ha tracciato i confini tra le diverse fattispecie incriminatrici previste dall'articolo 256-bis del dlgs
152/2006.
Il contesto normativo. La pronuncia interviene su un testo
normativo (quello recato dall'articolo 256-bis del «Codice
ambientale») che punisce lo smaltimento dei residui tramite
combustione attraverso tre distinte fattispecie: il delitto
di «combustione illecita» di rifiuti propriamente detta
(coincidente, ex comma 1 dell'articolo in parola,
nell'appiccare il fuoco a rifiuti di qualsiasi genere e
provenienza, abbandonati o depositati in modo
incontrollato), il delitto di gestione illecita di rifiuti
in funzione della loro successiva combustione (coincidente
con la conduzione di operazioni non autorizzate sui residui
al fine di disfarsene tramite abbruciamento; comma 2); la
residuale fattispecie punitiva di natura amministrativa
(comma 6) che colpisce la combustione illecita dei (soli)
«rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini,
parchi e aree cimiteriali» (ossia di quelli classificati
come rifiuti urbani dall'articolo 184, comma 2, lettera e)
del dlgs 152/2006).
La pronuncia della Corte. Come ora chiarito dalla Cassazione
affinché la combustione illecita di rifiuti vegetali possa
essere inquadrata come mera infrazione amministrativa (ex
comma 6, articolo 256-bis citato) occorre non solo che abbia
a oggetto esclusivamente rifiuti di provenienza urbana ma
altresì che detti residui versino in stato di abbandono o
deposito incontrollato, poiché laddove gli stessi siano
stati preventivamente e illecitamente raccolti e trasportati
al fine di porre in essere la medesima modalità di
smaltimento a essere configurata sarebbe la diversa figura
di reato penale ex comma 2 dell'articolo (dunque, la stessa
ipotesi delittuosa applicabile all'abbruciamento degli altri
rifiuti vegetali, ossia di quelli provenienti da attività
agricole o agroindustriali, classificati dall'articolo 184,
comma 3, del dlgs 152/2006 come rifiuti speciali).
Ciò, motiva il giudice nella sentenza, per il fatto che la
stessa struttura dell'illecito amministrativo ex comma 6,
articolo 256-bis del «Codice ambientale» prevede tra
i suoi elementi costitutivi (tramite puntuale richiamo
normativo) quello della «condotta» ex comma 1 stesso
articolo, ossia la combustione di residui in condizione di «abbandono
o deposito incontrollato»
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Combustione illecita.
A seguito dell'introduzione del delitto
di cui all'art. 256-bis, comma 2, d.lgs. 152/2006, la
combustione non autorizzata, quale modalità di smaltimento
dei rifiuti dolosamente perseguita all'esito dell'attività
di raccolta, trasporto e spedizione, qualifica le
corrispondenti condotte previste dagli artt. 256 e 259,
d.lgs. 152/2006, facendole assurgere a fattispecie autonoma
di reato, ancorché a tali fasi di gestione del rifiuto,
prodromiche alla combustione, non segua la combustione
stessa.
Il residuo illecito amministrativo di cui all'art. 256-bis,
comma 6, d.lgs. 152/2006, ha invece ad oggetto i rifiuti
vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e
aree cimiteriali di cui all'art. 184, lett. e), non dunque
la paglia, gli sfalci, le potature e il materiale agricolo o
forestale non pericoloso di cui all'art. 185, comma 1, lett.
f).
La condotta, però, deve avere ad oggetto rifiuti vegetali
abbandonati o depositati in modo incontrollato (tale il
senso del richiamo al comma 1°), non anche raccolti e
trasportati dallo stesso autore della combustione, poiché,
in tal caso, la condotta ricadrebbe nella previsione di cui
al comma 2° dello stesso art. 256-bis, d.lgs. cit.; ne
consegue che la condotta di autosmaltimento mediante
combustione illecita di rifiuti continua ad avere penale
rilevanza
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.08.2014 n. 34098
- tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI:
No alla cauzione per chi vuole bloccare l'appalto.
Non si può imporre una cauzione a chi vuole bloccare un
appalto, anche se oggi il versamento della somma di denaro
risulta prescritto dal decreto semplificazioni entrato in
vigore a giugno per evitare lungaggini burocratiche nei
contratti pubblici. Possibile? Sì, perché la nuova
disposizione risulta contraria alle direttive comunitarie
che prevedono procedure accessibili a tutti, senza
discriminazioni di ordine finanziario in ogni Paese Ue.
Risultato: la norma di cui all'articolo 40, comma 1, lettera
b) del decreto legge 90/2014 deve essere disapplicata perché
contraria ai principi comunitari.
È quanto emerge
dall'ordinanza
30.07.2014 n. 1070, pubblicata dalla IV Sez. del
TAR Lombardia-Milano.
Stop all'aggiudicazione della gara senza che l'impresa
esclusa debba sborsare un euro: sussistono i presupposti per
la concessione della misura cautelare di cui all'articolo
119, comma 3, del codice del processo amministrativo
nell'ambito della controversia sull'affidamento della
gestione di una farmacia comunale. E ciò perché risulta
fondata la censura che lamenta l'errata applicazione della
formula matematica prevista per il calcolo del punteggio
dell'offerta economica: di conseguenza la commissione di
gara non ha applicato il criterio di proporzionalità nella
valutazione di questa componente dell'offerta.
Attenzione,
però: il dl 90/2014 ha tentato di scoraggiare le sospensive
degli appalti introducendo una cauzione fino allo 0,5% del
valore della gara alla quale il giudice può subordinare
l'efficacia della misura cautelare richiesta. La prestazione
pecuniaria può essere imposta anche quando dalla decisione
non derivano effetti irreversibili: la somma va poi
sbloccata dopo sessanta giorni dalla pubblicazione
dell'ordinanza.
Ma Palazzo Chigi, a quanto pare, ha fatto i
conti senza le autorità Bruxelles: i paletti in soldoni
posti allo stop degli appalti risultano in contrasto con le
direttive 2004/18/Ce e 2004/17/Ce e il giudice
amministrativo lombardo decide di dribblarli, nonostante
accolga le richieste di annullamento degli atti adottati dal
Comune, che è la stazione appaltante.
Tra gli atti dei quali l'azienda chiede e ottiene la
sospensione, nella specie, ci sono anche le formule che
attribuiscono i punteggi economici contenute nel bando di
gara, «ove mai dovessero interpretarsi nel senso che gli
elementi d'offerta da inserirsi nelle medesime debbano
ricomprendere i valori economici a base d'asta».
L'udienza pubblica è fissata al 13 novembre, le spese della
fase cautelare compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi del 26.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it).
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massima
V'è l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione di
una cauzione, in quanto l’art. 40, comma 1, lett. b), del
d.l. n. 90/2014 deve essere disapplicato per incompatibilità
comunitaria, nella parte in cui stabilisce l’obbligo di
subordinare necessariamente l’efficacia della misura
cautelare alla prestazione di una cauzione, atteso che tale
previsione risulta contrastante con gli artt. 1 e 2 della
direttiva comunitaria 2007, n. 66, che impongono agli Stati
membri l’adozione di misure idonee a garantire, per quanto
riguarda gli appalti disciplinati dalle direttive 2004/18/CE
e 2004/17/CE, procedure di ricorso accessibili ed efficaci,
senza alcuna discriminazione tra i vari operatori in
dipendenza della loro diversa capacità finanziaria. |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costruire non basta la Pec.
Galeotta fu la Pec: il messaggio incompleto di posta
elettronica certificata mandato dal tecnico di fiducia fa
sfumare per la società committente l'opportunità di ottenere
il permesso di costruire con le premialità del decreto
sviluppo. Il punto è che il silenzio-assenso del comune non
può formarsi quando all'e-mail con valore legale non sono
allegati l'atto di conferimento dell'incarico al
professionista e la copia del documento di identità della
società richiedente: valgono i principi dell'autoresponsabilità
e dell'autocertificazione e senza le carte che diano
certezze sulla provenienza, le dichiarazioni contenute nel
messaggio di posta elettronica non hanno valore.
È quanto
emerge dalla
sentenza
15.07.2014 n. 347, pubblicata dalla I Sez.
del TAR Abruzzo-Pescara.
Niente da fare, dunque, per l'azienda, anche se il comune ha
fatto di tutto per «boicottare» il ricorso al digitale,
facendosi mandare tutti i documenti in formato cartaceo per
«l'impossibilità» di gestire il materiale in formato
elettronico. In effetti si scopre che la Pec spedita dal
tecnico è insufficiente: intendiamoci, il permesso di
costruire ben può essere richiesto con l'e-mail col «bollino
blu», ma servono riferimenti certi sui soggetti in campo.
Altrimenti fa bene l'ente a disporre l'archiviazione della
pratica, come in questo caso.
L'azienda dovrà probabilmente rivalersi sul tecnico: l'atto
non risulta in grado di dispiegare gli effetti di
certificazione previsti perché manca una forma essenziale
prescritta dalla legge e non sanabile in altro modo. Il
silenzio-assenso, spiegano i giudici, non può infatti
formarsi senza la documentazione completa prescritta dalle
norme in materia per il rilascio del titolo edilizio:
l'eventuale inerzia della p.a. nel provvedere non può far
guadagnare agli interessati un risultato che non potrebbero
mai conseguire con un provvedimento espresso.
Il professionista, fra l'altro, manca di apporre la sua
firma digitale su alcuni atti
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AGGIORNAMENTO AL 24.09.2014 |
ã |
State pensando a come integrare agevolmente la
misera pensione, sempre che lo Stato non fallisca
prima?? Non vi sovviene nulla??
Vi diamo una dritta: l'ultimo anno di lavoro (prima
della pensione) prendete l'aspettativa e fatevi
assumere da un un sindacato (uno vale l'altro) con
uno stipendio mensile di 2, 4 o 7mila euro ... ed il
gioco è fatto: avrete una pensione integrativa (a
quella di tecnico comunale) da far invidia pure ad
un Onorevole o Senatore che dir si voglia. |
NON CI CREDETE?? |
Guardate
questo servizio de LE IENE, andato in onda su
Italia Uno lo scorso 17.09.2014 ...
semplicemente
VOMITEVOLE!!
Ed i sindacalisti
sarebbero quelli che dovrebbero tutelare gli
interessi dei lavoratori?? O tutelano
(non tutti, per la
verità) il
proprio portafoglio!! |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
F. Gavioli,
Il cottimo fiduciario è una trattativa privata: giusto il
ricorso dell’impresa (19.09.2014 - tratto
da www.ipsoa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
D. Tramutoli,
“La duplice natura dell'azione avverso il silenzio”
(cfr. TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 29.08.2014 n.
2233) (17.09.2014 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
D. Minussi,
Prescrizione e decadenza dell'azione dell'appaltatore ed
eccepibilità della garanzia per i vizi dell'opera (15.09.2014
- link a www.e-glossa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
C. Cataldi,
Le nuove figure amministrative locali: Consiglieri Comunali
Delegati, Consiglieri Comunali Collaboratori, Consiglieri
Comunali Aggiunti, etc. (12.09.2014 -
tratto da www.diritto.it). |
VARI:
D. Minussi,
Contratto preliminare e menzioni urbanistiche (04.08.2014
- link a
www.e-glossa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -EDILIZIA PRIVATA: G.U.
18.09.2014 n. 217 "Abrogazione del decreto 19.06.2009 e
contestuale pubblicazione dell’Elenco delle Zone di
Protezione Speciale (ZPS) nel sito internet del Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 08.08.2014).
---------------
L’elenco delle ZPS istituite ai sensi dell’ art. 3, comma
3, del decreto ministeriale 17.10.2007, con i relativi
formulari e cartografie, è pubblicato nel sito internet del
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del
mare:
http://www.minambiente.it/pagina/rete-natura-2000 ed è
tenuto aggiornato con le eventuali modifiche apportate nel
rispetto delle procedure comunitarie. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
18.09.2014 n. 217 "Approvazione delle delibere dell’Albo
nazionale gestori ambientali nn. 1 del 23.07.2014, 2, 3, 4 e
5 del 03.09.2014 e 6 del 09.09.2014" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
comunicato). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: forestazione; competenze professionali degli
Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati. Legge 11.08.2014
n. 116, art. 1-bis, comma 16 (Consiglio Nazionale degli
Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati,
nota 17.09.2014 n. 3475 di prot.). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto:
Modalità di pagamento in via telematica dell'imposta di
bollo dovuta per le istanze e per i relativi atti e
provvedimenti trasmessi in via telematica ai sensi dell'art.
1, comma 596, della legge 27.12.2013 n. 147 - servizio @e.bollo
(Agenzia delle Entrate e Dipartimento della Funzione
Pubblica,
provvedimento 19.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: D.P.R. 151/2011. Attività n. 2 e n. 6
dell'Allegato I. Attestazioni di rinnovo periodico di
conformità antincendio. Chiarimenti (Ministero
dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del
Soccorso Pubblico e della Difesa Civile,
nota 05.09.2014 n. 10694). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Indicazioni applicative in materia di trattamento
retributivo accessorio del personale di regioni ed enti
locali. Articolo 4 del decreto-legge 06.03.2014, n. 16 "Misure
urgenti conseguenti al mancato rispetto di vincoli
finanziari posti alla contrattazione integrativa e
all'utilizzo dei relativi fondi"
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
nota 12.08.2014 n. 10946 di prot.). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Modalità di riscossione della contribuzione dovuta dalle
stazioni appaltanti ed enti aggiudicatori, dagli operatori
economici e dalle società organismo di attestazione (avviso
12.09.2014 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. b), del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 a seguito dell’entrata in vigore del
D.Lgs. 06.09.2011, n. 159 (determinazione
02.09.2014 n. 2 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Qualificazione - Emanata una Determinazione sulla
verifica dei requisiti per la partecipazione alle procedure
di affidamento.
---------------
MASSIMA
Le disposizioni dettate dal
d.lgs. 06.09.2011 n. 159, cd. Codice antimafia, comportano
l’esigenza di effettuare un coordinamento delle stesse con
quanto disposto dall’art. 38, comma 1, lett. b), del d.lgs.
163/2006 e dall’art. 78 del d.p.r. 05.10.2010 n. 207.
Ai fini del rilascio dell’attestato di qualificazione, la
verifica sull’assenza delle cause ostative antimafia ai
sensi dell’art. 38, comma 1, lett. b), del d. lgs. 163/2006,
richiamato dall’art. 78, del d.p.r. 207/2010, va effettuata
anche nei riguardi dei soggetti indicati dall’art. 85, comma
2-bis, del Codice antimafia, come ulteriore garanzia
dell’affidabilità morale dell’impresa che volesse ottenere
l’attestato di qualificazione.
Il divieto di cui all’art. 38, comma 1, lett. b), del d.lgs.
163/2006, in relazione al rilascio dell’attestato di
qualificazione, non opera più in base alla mera pendenza del
procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione,
bensì in forza di un provvedimento espresso del giudice che
dispone espressamente l’operatività del divieto durante il
procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione.
Nelle more del rilascio della certificazione antimafia, vi è
la possibilità di procedere all’emissione dell’attestato di
qualificazione, ferma restando la facoltà di revocare detto
attestato ai sensi dell’art. 40, comma 9-ter, del d.lgs.
163/2006, nel caso in cui dalla documentazione antimafia
emerga, a carico dei soggetti censiti, la sussistenza di
cause di decadenza di cui all’art. 67 del Codice antimafia.
|
APPALTI:
Problematiche in ordine all’uso della cauzione
provvisoria e definitiva (artt. 75 e 113 del Codice) (determinazione
29.07.2014 n. 1
- link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
MASSIMA
Le disposizioni normative in tema di
cauzioni negli appalti pubblici non rientrano tra le norme
di diretta applicazione ai settori speciali, tuttavia quando
gli enti aggiudicatori decidono di richiedere una cauzione,
provvisoria o definitiva, necessariamente devono trovare
applicazione i principi stabiliti all’art. 2 del Codice, di
cui gli artt. 75 e 113, non trovando spazio alcuno
l’introduzione di regole più stringenti o limitative della
concorrenza.
La normativa relativa agli intermediari finanziari offre
adeguati strumenti per la valutazione e il controllo
dell’affidabilità dei soggetti che operano sul mercato, e
pertanto non si rilevano ostacoli all’applicazione dell’art.
127 del d.P.R. 207/2010, che ammette la possibilità che la
cauzione definitiva possa essere rilasciata dagli
intermediari anche per gli appalti ricadenti nei settori
speciali.
La richiesta di rating ai garanti inserita nei bandi di gara
appare clausola discriminante, perché determina disparità
tra i soggetti che operano nel mercato
creditizio/finanziario (intermediari, banche, assicurazioni)
e potrebbe limitare la partecipazione alle gare delle
imprese che segnalano difficoltà a reperire le garanzie
necessarie per accedere alla gara d’appalto.
Le previsioni concernenti il progressivo svincolo della
cauzione definitiva, espressamente dettate per gli appalti
di lavori, sono direttamente applicabili anche agli appalti
di servizi e forniture. |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Nessun contrasto di pronunce
giurisprudenziali si ritiene sussistente tra quanto statuito
sia dalla deliberazione 15.04.2014 n. 7
della Sezione delle Autonomie sia dalla deliberazione
28.06.2013 n. 2 di queste Sezioni Riunite per la Regione
siciliana.
Con la nota in epigrafe indicata, il Sindaco del Comune
di Solarino (SR), dopo aver operato un ampio excursus
sugli orientamenti giurisprudenziali formatisi in tema di
presupposti per la riconoscibilità del compenso incentivante
di cui all’art. 92, comma 6, del d.lgs. 163/2006 e ss.mm.ii,
recepito in Sicilia con legge regionale n. 12/2011,
chiede di conoscere se <<risulta maggiormente coerente
con lo Statuto regionale attenersi all’interpretazione
dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. 163/2006 e s.m.i., come
recepito in Sicilia dalla legge regionale n. 12/2001, data,
in sede consultiva, dalle Sezioni Riunite per la Regione
siciliana di codesta Corte con deliberazione n.
2/2013/SS.RR./PAR>>.
La richiesta di parere avanzata muove dal presupposto di un
contrasto di giurisprudenza in ordine alle condizioni per il
riconoscimento del compenso incentivante tra la citata
deliberazione n. 2/2013/SS.RR./PAR delle Sezioni Riunite per
la Regione siciliana e quella, successiva, della Sezione
delle Autonomie (deliberazione n. 7/SEZAUT/2014/QMIG).
...
Passando al merito della questione, la stessa riguarda la
corretta interpretazione della normativa di cui all’art. 92,
comma 6, del d.lgs. 163/2006 e ss.mm.ii, recepito in Sicilia
con legge regionale n. 12/2011, a norma del quale <<il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5, tra i dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto>>.
In proposito la Sezione rileva come
entrambe le deliberazioni citate in premessa -relative alla
definizione dei presupposti per il riconoscimento del
suddetto compenso incentivante e per le quali si presume
l’esistenza di un non meglio specificato contrasto-
convergano in realtà nella medesima direzione ermeneutica.
Entrambe, infatti, espressamente subordinano la concessione
dell’incentivo ad un’attività progettuale, legata alla
realizzazione di un’opera pubblica o di pubblico interesse,
ulteriore rispetto alla mera attività di pianificazione
urbanistica generale.
Tale condizione è infatti rinvenibile sia nella
deliberazione 15.04.2014 n. 7
della Sezione delle Autonomie,
laddove si subordina la riconoscibilità del compenso
incentivante al contenuto specifico dell’atto di
pianificazione <<che deve risultare strettamente connesso
alla realizzazione di un’opera pubblica>>, attraverso
un’attività ulteriore e specifica di progettualità interna,
sia nella deliberazione n. 2/2013/SS.RR./PAR di queste
Sezioni Riunite per la Regione siciliana, laddove si afferma
che <<l’attività di pianificazione, ai fini dell’incentivabilità
delle prestazioni tecniche del personale dipendente, si
ritiene, infatti, che debba prevedere una localizzazione di
interventi pubblici o di opere di pubblico interesse, in
relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione
appaltante, nei termini previsti dal Codice dei contratti e
dalle direttive n. 2004/17/CE e 2004/18/CE>>.
Ancora più chiaramente, nella citata
deliberazione, si rileva come <<l’attività di
pianificazione debba essere contestualizzata nell’ambito dei
lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità
con l’attività di progettazione di opere pubbliche>>.
Tanto fermo restando l’imprescindibile rispetto delle
condizioni, fissate dalla legislazione vigente, per il
riconoscimento dei compensi incentivanti al personale
dipendente.
Nessun contrasto di pronunce
giurisprudenziali si ritiene pertanto sussistente
ed ogni altra questione posta, anche di natura preliminare,
si ritiene conseguentemente assorbita
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 30.07.2014 n. 91). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
La festa di Natale può essere «illegittima».
Controlli. No alla spesa di rappresentanza.
Niente
festeggiamenti natalizi per gli anziani con le spese di
rappresentanza, perché non accrescono il prestigio dell'ente
verso l'esterno.
La Corte dei conti, sezione Lombardia, con il
parere 20.11.2013 n.
495 ha dichiarato non conformi le spese sostenute per
una festa di scambio degli auguri natalizi con gli anziani.
L'ente aveva organizzato un evento per lo scambio di auguri
natalizi con in cittadini ultrasettantenni, accompagnato da
un buffet (con costi limitati). La Corte ha evidenziato che
esulano dall'attività di rappresentanza le spese non
strettamente finalizzate a mantenere o accrescere il
prestigio dell'ente verso l'esterno nel rispetto della
diretta inerenza ai propri fini istituzionali.
Il Comune si è giustificato specificando che con
l'organizzazione dell'evento intendeva perseguire una
finalità assistenziale. Nella delibera, però, la Corte
rileva come il fatto che l'evento sia destinato ai cittadini
«ultrasettantenni» non giustifichi in sé la sussistenza
della finalità «assistenziale»; piuttosto, l'amministrazione
comunale ha il dovere di palesare in modo inequivoco nella
motivazione del provvedimento quali sono le ragioni per le
quali intende far fronte alle necessità di categorie sociali
bisognose (articolo Il Sole 24 Ore del
16.12.2013). |
QUESITI & PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Nel Decreto sblocca Italia si dispongono novità in materia
di gestione delle terre e rocce da scavo?
Il DECRETO-LEGGE 12.09.2014, n. 133 recante “Misure
urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle
opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la
semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto
idrogeologico e per la ripresa delle cattività produttive”
(G.U. n. 212 del 12.09.2014) all’art. 8 prevede “Disciplina
semplificata del deposito preliminare alla raccolta e della
cessazione della qualifica di rifiuto delle terre e rocce da
scavo che non soddisfano i requisiti per la qualifica di
sottoprodotto. Disciplina della gestione delle terre e rocce
da scavo con presenza di materiali di riporto e delle
procedure di bonifica di aree con presenza di materiali di
riporto”.
Nel medesimo si dispone che al fine di rendere più agevole
la realizzazione degli interventi che comportano la gestione
delle terre e rocce da scavo, con decreto del Presidente
della Repubblica, saranno adottate entro novanta giorni
dalla data di entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto, le disposizioni di riordino e di
semplificazione della materia secondo i seguenti principi e
criteri direttivi:
a) coordinamento formale e sostanziale delle disposizioni
vigenti, apportando le modifiche necessarie per garantire la
coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e
per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio
normativo;
b) indicazione esplicita delle norme abrogate, fatta salva
l'applicazione dell'articolo 15 delle disposizioni sulla
legge in generale premesse al codice civile;
c) proporzionalità della disciplina all'entità degli
interventi da realizzare;
d) divieto di introdurre livelli di regolazione superiori a
quelli minimi previsti dall'ordinamento europeo ed, in
particolare, dalla direttiva 2008/98/UE (22.09.2014 -
link a www.ambientelegale.it). |
APPALTI: Gara
telematica offerta illeggibile.
Domanda
Una stazione appaltante ha indetto una procedura di gara
telematica attraverso una piattaforma informatica. Può
essere escluso il concorrente nel caso in cui il file
dell'offerta risulti illeggibile?
Risposta
Il «caricamento» del file contenente l'offerta presenta fasi
di competenza del privato e fasi di competenza del gestore
del sistema. Il rischio connesso al malfunzionamento del
sistema deve essere attribuito alla parte che, rispetto alla
singola fase, è competente a gestire l'operazione di
caricamento.
In particolare il Consiglio di stato, sez. III,
sentenza 02/07/2014 n. 3329 ha precisato che: «Stante la netta
distinzione delle fasi di competenza del mittente e di Sintel, ognuno di tali soggetti assume su di sé il solo
rischio afferente al segmento di sua propria e precipua
spettanza, senza poterlo riversare sull'altro».
Questo criterio, in base alla motivazione riportata nella
sentenza del Consiglio di stato, sarebbe perfettamente
compatibile con il principio del favor partecipationis in
quanto «la gestione interamente informatizzata della
procedura di gara ben può implicare l'esclusione dalla gara
della domanda che risulti illeggibile per un guasto non dei
comandi di trasmissione, ma dell'originazione del relativo
file»
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI - VARI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Riprese, ok dal presidente. Niente
via libera solo se la seduta è riservata.
Spetta al regolamento disciplinare i casi in cui ammettere
la registrazione.
Un cittadino può filmare i lavori del consiglio comunale e
diffondere i contenuti delle riprese video se, come nel caso
di specie, il regolamento comunale affida al presidente del
consiglio comunale il potere di autorizzare l'ingresso in
Aula dei fotografi e dei teleoperatori, di emanare apposite
direttive e di decidere la diffusione radiofonica,
televisiva e telematica dei lavori, sentita la «Conferenza
dei presidenti di gruppo» e informandone i consiglieri?
Ai sensi dell'art. 38, comma 7, del Tuel, le sedute del
consiglio comunale sono pubbliche, salvo i casi previsti dal
regolamento. La disposizione va letta nel senso che, in
linea generale, deve essere consentito al pubblico di
assistere alle sedute consiliari dalle apposite postazioni
riservate.
A fronte di detto principio, il successivo art.
39, comma 1, attribuisce al presidente del consiglio i
poteri di direzione dei lavori e delle attività del
consiglio, ove è compresa ogni facoltà strumentale alla
garanzia del regolare svolgimento delle sedute e a tutela
delle prerogative dell'organo assembleare medesimo.
Peraltro, il consiglio, ai sensi del comma 3 del richiamato
articolo 38, ha potestà di disciplinare, con apposite norme
regolamentari, ogni aspetto attinente al funzionamento
dell'assemblea.
È, pertanto, nell'ambito delle norme interne all'ente
locale, che dovrebbero rinvenirsi anche disposizioni sulla
possibilità di registrazione del dibattito e delle votazioni
con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto
all'attività di verbalizzazione del segretario comunale
(art. 97, comma 4, lett. a del Tuel) che da parte dei
consiglieri comunali, nonché dei cittadini ammessi ad
assistere alla seduta e degli organi di informazione
radiotelevisiva. In assenza di esplicita previsione
regolamentare l'ammissione alla registrazione potrebbe
essere regolata caso per caso dal presidente del consiglio
proprio nell'esercizio dei richiamati poteri di direzione
dei lavori dell'assemblea, in stretta correlazione alle
esigenze di ordinato svolgimento dell'attività consiliare.
Tuttavia, occorre osservare che il Tribunale amministrativo
regionale del Veneto, con la sentenza n. 826/2010, ha negato
il potere in parola in capo al sindaco-presidente del
consiglio comunale il quale in carenza di apposita fonte
regolamentare di competenza consiliare non può procedere ad
estemporanei assensi alla videoregistrazione. A margine di
tale potere regolamentare e, nell'ambito del citato
principio di pubblicità della seduta, l'amministrazione può
legittimamente riservarsi il compito di registrazione con
mezzi audiovisivi, anche escludendo che altri soggetti e il
pubblico in aula possano procedervi.
In questo senso, la
pubblicità della seduta non implica la facoltà di
registrazione ma la libera presenza di chi abbia interesse
ad assistere alle sedute. Tale posizione trova conforto
nella giurisprudenza che non ha rilevato profili di
illegittimità in un regolamento che poneva il divieto di
introdurre nella sala del consiglio apparecchi di
riproduzione audiovisiva, se non previa autorizzazione
(Corte di cassazione, sez. I n. 5128/2001).
Di uguale tenore
è la pronuncia n. 44094 del 17.03.2002 del Garante per la
protezione dei dati personali nella quale si afferma la
necessità di regolamentare la materia che scaturisce
dall'obbligo di informare i partecipanti alla seduta
dell'esistenza delle telecamere. Sempre il Garante, con nota
del 03.01.2008, ha riaffermato che l'ente, con apposita
norma regolamentare, può porre limiti al regime di
pubblicità degli atti e delle sedute del consiglio comunale.
Tale regolamento può costituire fonte idonea a disciplinare
i limiti e le modalità di pubblicità delle sedute
consiliari, ivi compresi eventuali divieti di registrazione
e di diffusione di immagini relative alle riunioni di
consiglio da parte di terzi. Sono previsti, altresì, a
carico dell'amministrazione, l'onere della preventiva
informazione dei presenti in aula circa le riprese con le
telecamere.
Peraltro, le limitazioni alle riprese potrebbero
essere correlate anche alla mancata attivazione, da parte
dell'amministrazione comunale, di un autonomo sistema di
registrazione, stante l'esigenza di escludere che l'unico
supporto audiovisivo di documentazione dello svolgimento dei
lavori consiliari resti nella disponibilità esclusiva di
soggetti estranei all'amministrazione, fuori dalle
necessarie garanzie di autenticità.
Pertanto, tenendo
presente che la normativa tende ormai a evolvere verso la
più totale trasparenza della p.a. (dlgs 14.03.2013, n. 33),
nel caso in esame, in presenza di apposita disciplina
regolamentare, al di fuori dei casi in cui il consiglio si
riunisca in seduta riservata, spetta presidente del
consiglio comunale la possibilità di valutare di volta in
volta se ammettere la videoregistrazione in relazione
all'oggetto dei lavori
(articolo ItaliaOggi del 19.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
I rifiuti sanitari possono essere sottoposti indistintamente
a processo di sterilizzazione?
I rifiuti sanitari sono attualmente disciplinati dalla
normativa speciale contenuta nel D.P.R. del 15.07.2003, n.
254 “Regolamento recante disciplina della gestione dei
rifiuti sanitari a norma dell'articolo 24 della legge
31.07.2002, n. 179”.
All’art. 2, lett. m), del citato regolamento si definisce “sterilizzazione”:
“l’abbattimento della carica microbica tale da garantire un
S.A.L. (Sterility Assurance Level) non inferiore a 10-6. E
si precisa che la stessa deve effettuarsi “secondo le norme
UNI 10384/94, parte prima, mediante procedimento che
comprenda anche la triturazione e l'essiccamento ai fini
della non riconoscibilità e maggiore efficacia del
trattamento, nonché della diminuzione di volume e di peso
dei rifiuti stessi”.
Viene, inoltre stabilito, che possono essere sterilizzati
unicamente i rifiuti sanitari pericolosi a solo rischio
infettivo. L'efficacia della sterilizzazione viene
verificata secondo quanto indicato nell'Allegato III del
predetto regolamento.
La sterilizzazione dei rifiuti sanitari a rischio infettivo
risulta essere una facoltà esercitabile ai fini della
semplificazione delle modalità di gestione dei rifiuti
stessi.
All’art. 10 del regolamento, inoltre, si precisa che “i
rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo devono
essere smaltiti mediante termodistruzione in impianti
autorizzati ai sensi del decreto legislativo 05.02.1997, n.
22, con le modalità di cui ai commi 2 e 3”.
All’art. 11 - Smaltimento dei rifiuti sanitari sterilizzati
– si prevede che “i rifiuti sanitari sterilizzati possano
essere avviati in impianti di produzione di CDR o
direttamente utilizzati come mezzo per produrre energia;
oppure smaltiti in impianti di incenerimento di rifiuti
urbani o in impianti di incenerimento di rifiuti speciali
alle stesse condizioni economiche adottate per i rifiuti
urbani” (15.09.2014 - link a
www.ambientelegale.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Eccedenza di personale e
procedura conseguente.
L'art. 33, comma 1, del d.lgs. 165/2001
prevede che le pubbliche amministrazioni che hanno
situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di
personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla
situazione finanziaria, anche in sede di ricognizione
annuale prevista dall'articolo 6, comma 1, terzo e quarto
periodo del medesimo decreto, sono tenute ad osservare le
procedure previste dallo stesso articolo dandone immediata
comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica.
Al riguardo il giudice del lavoro ha affermato il principio
secondo cui i dipendenti e i dirigenti pubblici da collocare
in esubero devono essere scelti sulla base di criteri
oggettivi e predeterminati dalle singole amministrazioni, al
fine di scongiurare ogni forma di arbitrarietà.
Il Comune illustra l'intenzione di riorganizzare gli uffici
e servizi, per conseguire una maggiore efficienza e una
maggiore economia di spesa, mediante la gestione associata
con un altro comune limitrofo dei servizi tributi e
finanziari, creando all'uopo un ufficio unico dotato del
personale di entrambi i Comuni aderenti. Di conseguenza
diverrebbe inutile -sostiene l'Amministrazione istante-
mantenere in organico la figura professionale di un
istruttore direttivo di categoria D dell'Area
commercio-tributi. L'Ente chiede, pertanto, se sia
possibile, in tale circostanza, dichiarare in esubero la
predetta figura professionale e, in caso affermativo,
gradirebbe conoscere la corretta procedura da seguire.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione
e relazioni sindacali della Direzione generale, si ritiene
utile richiamare la disciplina vigente in materia di
dichiarazione di esubero di personale e attivazione della
procedura di eccedenza e mobilità collettiva, nei termini di
seguito riportati.
Com' è noto, l'art. 33, comma 1, del d.lgs. 165/2001 prevede
che le pubbliche amministrazioni che hanno situazioni di
soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in
relazione alle esigenze funzionali o alla situazione
finanziaria, anche in sede di ricognizione annuale prevista
dall'articolo 6, comma 1, terzo e quarto periodo del
medesimo decreto, sono tenute ad osservare le procedure
previste dallo stesso articolo dandone immediata
comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica.
In tali ipotesi, a mente del citato articolo 33, dette
amministrazioni sono tenute prioritariamente a dare
un'informativa preventiva alle rappresentanze unitarie del
personale e alle organizzazioni sindacali firmatarie del
contratto collettivo di comparto.
In virtù di quanto disposto dal comma 5 dell'art. 33, dopo
la richiamata comunicazione, l'amministrazione verifica la
ricollocazione totale o parziale del personale in situazione
di soprannumero o di eccedenza nell'ambito della stessa
amministrazione, ovvero presso altre amministrazioni, previo
accordo con le stesse, nell'ambito della regione.
Trascorsi novanta giorni dalla comunicazione di cui sopra,
l'amministrazione colloca in disponibilità il personale che
non sia possibile impiegare diversamente nell'ambito della
medesima amministrazione e che non possa essere ricollocato
presso altre amministrazioni nell'ambito regionale, ovvero
che non abbia preso servizio presso la diversa
amministrazione secondo gli accordi di mobilità.
Si osserva comunque che, nella fattispecie prospettata, in
cui l'Ente istante ha manifestato la volontà di svolgere il
servizio tributi-finanziario mediante convenzione con altro
comune, la ricognizione dell'effettivo fabbisogno di
personale non potrà essere riferita alla singola
Amministrazione, ma alle globali necessità del servizio
associato.
Potrebbe infatti apparire illogico che l'ente si privi di
personale nel caso in cui lo stesso potrebbe essere
utilmente collocato nella gestione associata del servizio, o
per diverse esigenze dell'Amministrazione, per soddisfare i
bisogni della collettività.
Si osserva, a tal proposito, come il giudice del lavoro di
Padova [1]
abbia affermato il principio secondo cui i dipendenti e i
dirigenti pubblici da collocare in esubero devono essere
scelti sulla base di criteri oggettivi e predeterminati
delle singole amministrazioni, al fine di scongiurare ogni
forma di arbitrarietà. E' da evitare, infatti, qualsiasi
individuazione di tipo mirato, contraria alla garanzia di
oggettività che deve presiedere alla procedura di
collocamento in disponibilità, considerate le pesanti
conseguenze che ricadono sul lavoratore interessato.
Ad ogni buon conto, evidenziato un tanto, l'individuazione
del personale in eccedenza, in applicazione di criteri
obiettivi e previamente determinati in fonte regolamentare,
è rimessa all'Ente istante, dotato di autonomia
organizzativa che, proprio in relazione alle proprie
concrete esigenze, si esplica mediante l'assunzione di
opportune determinazioni, volte a garantire l'ottimale
raggiungimento degli interessi pubblici perseguiti.
---------------
[1] Cfr. 'Per gli esuberi criteri oggettivi e
predeterminati', Il Sole24Ore, Norme e tributi, del
17.12.2012 (12.09.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Si può ritenere corretta la prassi in base alla quale in
tema di tracciabilità cartacea gli operatori effettuano la
registrazione di carico dopo l'invio a recupero/smaltimento
del rifiuto?
Ai sensi dell’art. 190 1-quater (così come introdotto
dall'art. 11, comma 12-bis, legge n. 125 del 2013) nel
registro di carico e scarico devono essere annotate le
informazioni sulle caratteristiche qualitative e
quantitative dei rifiuti prodotti o soggetti alle diverse
attività di trattamento disciplinate dalla Parte quarta del
TUA.
Tali annotazioni, nello specifico, devono essere effettuate:
a) per gli enti e le imprese produttori iniziali, entro
dieci giorni lavorativi dalla produzione e dallo scarico;
b) per gli enti e le imprese che effettuano operazioni di
preparazione per il riutilizzo, entro dieci giorni
lavorativi dalla presa in carico dei rifiuti e dallo scarico
dei rifiuti originati da detta attività;
c) per gli enti e le imprese che effettuano operazioni di
trattamento, entro due giorni lavorativi dalla presa in
carico e dalla conclusione dell'operazione di trattamento;
d) per gli intermediari e i commercianti, almeno due giorni
lavorativi prima dell'avvio dell'operazione ed entro dieci
giorni lavorativi dalla conclusione dell'operazione.
Ebbene, dalla normativa in analisi, non si evince alcuna
prescrizione ad effettuare il carico sul registro prima
dell’inizio del trasporto, come invece si riscontra per i
rifiuti pericolosi gestiti con il SISTRI, in ordine ai quali
il carico deve essere obbligatoriamente annotato prima
dell’inizio dell’operazione di trasporto del rifiuto .
Ciò ha, quindi, sollecitato l’instaurazione di una prassi in
base alla quale le società si avvalgono dei 10 gg. di tempo
per fare il carico, attendendo l'accettazione del rifiuto a
destinazione e la verifica del peso a destinazione finale,
potendo così riportare lo stesso dato sia nell’operazione di
carico che in quella di scarico, atteso che non vi è alcun
divieto espresso dalla norma che inibisca il produttore dal
tardare volontariamente a caricare i rifiuti prodotti,
posticipando tale annotazione a viaggio avvenuto e nello
specifico al momento in cui conosce il peso a destinazione.
Tale prassi, tuttavia, presenta delle criticità.
Vero è, infatti, che nella delicata (e spesso maggiormente
controllata) fase del trasporto, il produttore risulterebbe
–secondo tale modalità di compilazione- sprovvisto di
qualsivoglia annotazione che attesti la qualità, la quantità
e le altre caratteristiche del proprio rifiuto.
Ciò determina che in caso di manomissione da parte del
trasportatore del FIR o –ancor più grave– manomissione del
carico dei rifiuti avviato al trasporto e di eventuali
controlli, il produttore non avrebbe la documentazione
idonea a comprovare il proprio (buon) operato, con un
evidente svantaggio negli strumenti procedurali e
processuali volti a dimostrare la propria buona fede (08.09.2014
- link a www.ambientelegale.it). |
APPALTI:
Artt. 56 e 57. D.Lgs. n. 163/2006. Procedura negoziata senza
previa pubblicazione di bando di gara.
L'art. 56, comma 1, lett. a), D.Lgs. n .
163/2006, disciplina la procedura negoziata previa
pubblicazione di un bando di gara alla quale è possibile
ricorrere quando, in esito all'esperimento di una procedura
aperta o ristretta o di un dialogo competitivo, tutte le
offerte presentate siano risultate irregolari ovvero
inammissibili, secondo quanto disposto dal D.Lgs. 163 in
relazione ai requisiti degli offerenti e delle offerte.
La disposizione in argomento consente, inoltre, che le
stazioni appaltanti possano omettere la pubblicazione del
bando di gara a condizione che alla procedura negoziata
siano invitati tutti i concorrenti in possesso dei requisiti
di qualificazione di cui agli articoli da 35 a 45 del D.Lgs.
n.163/2006, i quali, nella procedura precedente, hanno
presentato offerte rispondenti ai requisiti formali della
procedura medesima.
L'art. 57, comma 2, lett. a), D.Lgs. 163, prevede che possa
farsi ricorso a procedura negoziata senza previa
pubblicazione del bando qualora non sia stata presentata
'nessuna offerta appropriata', oltre che in caso di
presentazione di nessuna offerta.
Il Comune riferisce di aver indetto una procedura di gara
aperta per l'affidamento di un appalto, assistito da
finanziamento regionale da rendicontare entro il 31.12.2016,
conclusasi con una prima aggiudicazione provvisoria alla
ditta risultata prima in graduatoria e poi esclusa ai sensi
dell'art. 38, comma 2, D.Lgs. n. 163/2006, ed una seconda
aggiudicazione provvisoria alla ditta seconda classificata,
allo stesso modo successivamente esclusa ai sensi dell'art.
38, c. 2, richiamato [1].
L'Ente riferisce inoltre che le altre 6 ditte partecipanti
sono state escluse per non aver raggiunto il punteggio
minimo per accedere alle fasi di apertura dell'offerta
economica.
Nel quadro rappresentato il Comune prospetta tre ipotesi di
ricorso alla procedura negoziata [2]
senza pubblicazione del bando, in relazione alle quali
chiede un parere di percorribilità:
a) applicazione dell'art. 56, comma 1, lett. a), D.Lgs. n.
163/2006, con invito rivolto a tutte le 8 ditte già
partecipanti [3];
b) applicazione dell'art. 57, comma 2, lett. a), sempre
estendendo l'invito agli ex partecipanti;
c) applicazione dell'art. 57, comma 2, lett. c), per 'estrema
urgenza non imputabile alla stazione appaltante'.
L'art. 56 disciplina le ipotesi di procedura negoziata
previa pubblicazione di un bando di gara nei casi ivi
elencati; in particolare la fattispecie di cui al comma 1,
lett. a), si verifica quando in esito all'esperimento di una
procedura aperta o ristretta o di un dialogo competitivo,
tutte le offerte presentate siano risultate irregolari
ovvero inammissibili, secondo quanto disposto dal D.Lgs. n.
163/2006 in relazione ai requisiti degli offerenti e delle
offerte. La disposizione in argomento consente, inoltre, che
le stazioni appaltanti possano omettere la pubblicazione del
bando di gara a condizione che alla procedura negoziata
siano invitati tutti i concorrenti in possesso dei requisiti
di qualificazione di cui agli articoli da 35 a 45 del D.Lgs.
n. 163/2006, i quali, nella procedura precedente, hanno
presentato offerte rispondenti ai requisiti formali della
procedura medesima. In questa procedura negoziata non
possono essere modificate in modo sostanziale le condizioni
iniziali del contratto.
Posto che nel caso di specie l'Ente istante riferisce di
volere estendere l'invito a tutti i partecipanti alla gara
aperta, il ricorso alla procedura negoziata di cui all'art.
56 richiamato da un lato è subordinato alla circostanza che
le offerte presentate in sede di gara aperta siano tutte
irregolari o inammissibili, e dall'altro lato non consente
modifiche sostanziali delle condizioni iniziali del
contratto.
La norma non fornisce alcuna definizione di irregolarità ed
inammissibilità, per cui si può muovere in via
interpretativa, anche dal confronto con l'art. 57, co. 2,
lett. a), il quale prevede che possa farsi ricorso a
procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando
qualora non sia stata presentata 'nessuna offerta
appropriata', oltre che in caso di presentazione di
nessuna offerta. Anche in questo caso non possono essere
modificate in modo sostanziale le condizioni iniziali del
contratto.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che l'offerta
è irregolare quando manchi o risulti incompleto od
irregolare uno dei documenti richiesti [4],
ed ha specificato l'inammissibilità delle offerte carenti
dei requisiti tecnici per la partecipazione alla gara o
inadeguate dal punto di vista tecnico [5].
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture, ha affermato che presupposto
per l'applicabilità dell'art. 56, comma 1, lett. a) è che vi
siano state offerte presentate in gara ma che tutte siano
state irregolari o inammissibili, avuto riguardo,
rispettivamente, ai requisiti prescritti per le offerte
(requisiti di forma e di validità delle stesse, posti a
tutela della par condicio dei concorrenti) e per gli
offerenti; presupposto di applicabilità, invece, dell'art.
57, comma 2, lett. a) (procedura negoziata senza bando), è
che non sia stata presentata alcuna offerta o che tutte le
offerte presentate siano state giudicate inappropriate,
intendendosi per tali le offerte formalmente valide ma
irrilevanti sul piano economico, assimilate dal legislatore
alle offerte non presentate [6].
In questi stessi termini è tracciata la distinzione tra la
fattispecie di cui all'art. 56, comma 1, lett. a), e quella
di cui all'art. 57, comma 2, lett. a), dalla giurisprudenza
[7] e
dalla dottrina [8],
nel senso di ritenere che le offerte inappropriate sono
quelle che, sebbene formalmente valide, non sono state
considerate convenienti dalla stazione appaltante sotto il
profilo tecnico o economico, vale a dire che non sono state
valutate come idonee a soddisfare le esigenze per le quali
l'amministrazione si è determinata a bandire la gara
[9].
Nel caso di specie, le offerte delle ditte risultate prima e
seconda in graduatoria, dunque reputate adeguate sul piano
tecnico ed economico, sono state escluse per omessa
indicazione di una condanna penale che è d'obbligo
dichiarare ai sensi dell'art. 38, comma 2, D.Lgs. n.
163/2006, mentre le altre (sei) offerte presentate sono
state escluse per non aver raggiunto il punteggio minimo
previsto dal disciplinare di gara.
Si tratta di casi di esclusione che paiono riconducibili
alle ipotesi di offerte irregolari ed inammissibili, e che
sembrano dunque poter legittimare il ricorso alla procedura
negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, ai
sensi dell'art. 56, comma 1, lett. a), richiamato. Un tanto,
tenuto conto dell'intenzione manifestata dall'Ente di
invitare alla (eventuale) procedura negoziata tutte le ditte
che nella precedente gara hanno presentato offerte
rispondenti ai requisiti formali richiesti e fermo restando
il divieto di apportare modifiche sostanziali alle
condizione iniziali del contratto.
Mentre non sembrano ravvisarsi, nel caso di specie, le
condizioni legittimanti il ricorso alla procedura negoziata
senza previa pubblicazione del bando di gara ai sensi
dell'art. 57, comma 2, lett. a), che presuppone che la gara
sia andata deserta o che tutte le offerte siano non
appropriate, avuto riguardo all'interpretazione delle
offerte inappropriate, che sembra avere maggior seguito, nel
senso di offerte formalmente valide, ma inadeguate sul piano
tecnico ed economico.
Un tanto osservato, si sottolinea la previsione già
ricordata secondo cui nelle ipotesi di procedura negoziata
di cui agli artt. 56, comma 1, lett. a) e 57, comma 2, lett.
a), non possono essere modificate in modo sostanziale le
condizioni iniziali del contratto [10].
Ciò significa, osserva il Giudice amministrativo
[11], che
l'amministrazione non può stabilire una diversa base d'asta
né può modificare le altre condizioni del contratto che
influiscono sul sinallagma perché la norma mira ad evitare
una elusione delle disposizioni sulla concorrenza, volendo
impedire che un'amministrazione possa avvalersi della
procedura negoziata proponendo condizioni più favorevoli
rispetto alla procedura aperta non andata a buon fine.
Si tratta di una disposizione molto significativa a garanzia
della reale parità di condizioni tra i concorrenti,
finalizzata a garantire parità di trattamento tra gli
operatori economici ammessi alla nuova gara rispetto a
quelli che hanno partecipato alla prima procedura di gara
[12].
Al riguardo, anche la dottrina [13]
osserva che, a fronte di condizioni contrattuali
sostanzialmente diverse e più favorevoli, non è affatto da
escludere, da un lato, che altri imprenditori sarebbero
potuti essere interessati all'aggiudicazione dell'appalto,
dall'altro, che sarebbero state presentate offerte di tenore
diverso da quelle in presenza delle quali si sono verificati
i presupposti della procedura negoziata. Di talché, ove si
intenda modificare in modo sostanziale le condizioni
iniziali del contratto (ad esempio, per quanto attiene al
prezzo [14],
alla durata, alla prestazione da fornire), il presupposto
previsto dalla legge per poter legittimamente ricorrere alla
procedura negoziata non sussiste e la stazione appaltante è
tenuta ad espletare una ordinaria procedura aperta o
ristretta in modo da consentire ad ogni operatore economico
del settore di valutare, in presenza delle mutate
condizioni, la propria convenienza a partecipare alla gara,
nel rispetto dei principi di par condicio tra le imprese, di
libertà di concorrenza, di trasparenza e buon andamento
dell'azione amministrativa [15].
La lett. c) del comma 2 dell'art. 57 prevede la possibilità
di ricorrere alla procedura negoziata senza previa
pubblicazione di un bando, nella misura strettamente
necessaria, quando l'estrema urgenza, risultante da eventi
imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile
con i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette o
negoziate previa pubblicazione di un bando di gara,
sempreché le circostanze invocate a giustificazione della
estrema urgenza non siano imputabili alle stazioni
appaltanti.
La fattispecie giuridica appena descritta, in quanto
eccezione al principio generale della pubblicità e della
massima concorsualità, è subordinata all'accertamento con il
massimo rigore dei suoi presupposti, insuscettibili di
interpretazione estensiva e, in particolare, per quanto
riguarda l'urgenza di provvedere, essa non deve essere
addebitabile in alcun modo all'amministrazione per carenza
di adeguata organizzazione o programmazione ovvero per sua
inerzia o responsabilità [16].
Si tratta, inoltre, di un sistema di scelta del contraente
ammissibile solo in funzione meramente strumentale
all'espletamento di una gara pubblica e nella misura
temporale strettamente necessaria [17].
Dalla casistica giurisprudenziale emerge che l'urgenza deve
essere correlata all'oggetto del contratto di appalto. In
particolare, è stata ritenuta legittima l'applicazione della
norma in argomento per far fronte all'urgenza di assicurare
la continuità di servizi essenziali improrogabili, causata
da eventi imprevedibili e non addebitabili alla stazione
appaltante (gara deserta; contenzioso sviluppatosi sulla
gara) [18].
Nel caso in esame, se da un lato si può affermare che
l'esito infruttuoso della gara aperta non è addebitabile
alla stazione appaltante, compete all'Ente accertare
l'urgenza di esecuzione dei lavori oggetto dell'appalto,
tale da renderne indifferibile l'affidamento e, quindi, da
non consentire assolutamente di attendere i tempi necessari
allo svolgimento di una delle procedure ordinarie o anche di
una procedura negoziata previa pubblicazione di un bando
[19].
---------------
[1] In entrambi i casi, il certificato del casellario
giudiziale ha fatto emergere a carico di un legale
rappresentante della ditta una sentenza di condanna, non
dichiarata in sede di gara, non rientrante tra le
fattispecie di reato depenalizzato ovvero di reato estinto
dopo la condanna ovvero di revoca della condanna medesima.
[2] Ai sensi dell'art. 3, comma 40, D.Lgs. n. 163/2006, le
'procedure negoziate' sono le procedure in cui le stazioni
appaltanti consultano gli operatori economici da loro scelti
e negoziano con uno o più di essi le condizioni
dell'appalto.
[3] Il Comune specifica che i reati non dichiarati
riguardavano casistiche minimali, per le quali la
commissione di gara non avrebbe assunto provvedimenti di
esclusione.
[4] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 02.04.2002, n. 1798,
con riferimento ad un appalto di lavori ai sensi
dell'(abrogata) L. n. 109/1994. Per il Supremo Giudice
amministrativo, in una procedura improntata al rigore
formale il rispetto delle modalità di presentazione delle
domande e delle offerte è garanzia di affidabilità delle
stesse e la correttezza e completezza della documentazione
nonché la carenza di errori od omissioni costituisce un
elemento di confronto tra i partecipanti.
[5] TAR Roma, sez. II, 09.10.2002, n. 8442, che richiama
Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1513/1998.
[6] AVCP, deliberazione n. 7 del 28.01.2009.
[7] Cfr. Consiglio di Stato sez. V, 29 maggio 2006, n. 3245,
con riferimento all'art. 7 del D.Lgs. n. 157/1995 (oggi
trasfuso negli artt. 56 e 57 del D.Lgs. n. 163/2006)
disciplinante -negli appalti di servizi- la procedura
negoziata previa (comma 1) e senza (comma 2) preliminare
pubblicazione di un bando di gara. Ebbene, per il Supremo
Giudice amministrativo la distinzione fra le due fattispecie
si basa sulla differenza sostanziale, che viene evidenziata,
nella procedura aperta che precede la procedura negoziata,
tra la presentazione di offerte irregolari e la
presentazione di offerte inappropriate.
Nel primo caso, infatti, la presentazione di offerte
irregolari lascia supporre che il prezzo massimo indicato
dall'amministrazione sia congruo rispetto ai prezzi di
mercato effettivamente esistenti, per cui è utile
sollecitare la presentazione di nuove offerte e che, quindi,
vi sia spazio per un nuovo confronto concorrenziale. Nel
secondo caso, invece, la mancanza di offerte appropriate
lascia supporre che il prezzo indicato dall'amministrazione
sia troppo basso rispetto alla realtà del mercato e che
quindi sarebbe inutile un ulteriore appello pubblico per la
presentazione di nuove offerte.
Per completezza espositiva, si segnalano, in senso
differente, due pronunce della giurisprudenza amministrativa
riferite all'art. 13, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 158/1995
(oggi abrogato dal D.Lgs. n. 163/2006), in materia di
appalti nei settori esclusi. Per il Consiglio di Stato, sez.
VI, n. 1513/1998, l'espressione 'offerta non appropriata' va
intesa in una accezione lata, comprensiva sia della offerta
irregolare, cioè quella viziata nella forma, sia quella
inammissibile, cioè quella in cui vi sia carenza dei
requisiti sostanziali per la partecipazione alla gara.
Si osserva, però, che il Consiglio di Stato specifica di
ricavare questa interpretazione da una ricostruzione
sistematica interna alla disciplina dei settori esclusi.
Nello stesso senso, sempre con riferimento ai settori
esclusi, il TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.10.2002, n. 8442,
afferma che il requisito della mancanza di offerte
appropriate è da reputarsi integrato sia nella ipotesi di
mancanza assoluta di offerte (cioè di gara andata deserta)
sia in ipotesi di offerte irregolari, viziate cioè nella
forma, sia infine in caso di offerte inammissibili, ossia
carenti dei requisiti tecnici per la partecipazione alla
gara o inadeguate dal punto di vista tecnico.
[8] Cfr. Salvatore Alberto Romano, L'affidamento dei
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Giuffrè,
Milano, 2011, pp. 100-101). L'autore rileva che la
differenza tra la procedura negoziata previa pubblicazione
di un bando, di cui all'art. 56, e quella senza previa
pubblicazione di un bando, di cui all'art. 57, consiste nel
fatto che nella prima (art. 56) sono state presentate
offerte, anche se irregolari o inammissibili, e quindi vi è
la possibilità, almeno potenziale, di un ampliamento della
competizione negoziale attraverso la previa pubblicazione di
un bando, ovvero direttamente invitando alla negoziazione
tutti gli operatori formalmente idonei. Mentre nel secondo
caso (art. 57), la gara si è conclusa senza che siano state
presentate offerte o candidature (cioè richieste di
partecipazione di sorta), ovvero quelle presentate sono
tutte inappropriate in quanto non convenienti o inidonee in
relazione all'oggetto del contratto.
[9] Stefano Baccarini, Codice dell'appalto pubblico, Giuffrè,
Milano, 2011, p. 693.
[10] Cfr. Autorità Nazionale Anticorruzione, determinazione
n. 8 del 14.12.2011.
[11] TAR Aosta, sez. I, 28.04.2009, n. 37.
[12] Consiglio di Stato, n. 1090/2011, cit..
[13] Cfr. Stefano Baccarini, op. cit., p. 688.
[14] Si osserva, peraltro, che con riferimento
all'(abrogato) art. 7 , D.Lgs. n. 157/1995 (appalti di
servizi), e specificamente in ordine alla procedura
negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara
(comma 2), il Consiglio di Stato ha affermato che in questa
ipotesi (che non sembra ricorrere nel caso in esame, ove
risultano essere state presentate due offerte congrue sul
piano tecnico), sarebbe illogico far rientrare il prezzo
massimo indicato nel bando di gara tra le condizioni
iniziali dell'appalto non modificabili, perché proprio la
mancanza di offerte appropriate dimostra come tale prezzo
sia inadeguato rispetto alla realtà effettiva del mercato.
(Cfr. Consiglio di Stato n. 3245/2006, cit.).
[15] La giurisprudenza (TAR Sardegna, sez. I, 23.12.2005, n.
2445) ha ritenuto legittima una modifica riguardante il
maggior peso attribuito, in termini di punteggio, al profilo
tecnico del progetto a scapito del peso originariamente
riconosciuto all'offerta economica, in quanto mera modifica
di dettaglio che non comporta un'alterazione dell'oggetto
dell'appalto e del suo contenuto ed è dunque insuscettibile
di incidere sulla ratio della disposizione, volta ad evitare
l'arbitrario ricorso alla trattativa privata rispetto alla
gara pubblica. (La pronuncia è riferita, invero,
all'(abrogato) art. 7, D.Lgs. n. 157/1995, ma si rivela
utile anche nel caso di specie, poiché postula, allo stesso
modo dei vigenti art. 56 e 57, il mantenimento delle
condizioni sostanziali iniziali del contratto).
[16] TAR Campania Napoli, sez. I, 29.05.2012, n. 2528;
Consiglio di Stato, sez. V, 10.11.2010, n. 8006.
[17] TAR Veneto, sez. I, 06.03.2013, n. 350; TAR Campania,
Napoli, sez. I, 29.05.2012, n. 2528; Consiglio di Stato,
sez. V, 10.11.2010, n. 8006.
[18] Cfr. TAR Campania Napoli, sez. I, 11.07.2007, n. 6654,
che ha riconosciuto l'urgenza di provvedere all'affidamento
del servizio improrogabile di trasporto scolastico per
alunni di scuola materna e dell'obbligo senza che
l'amministrazione ne avesse colpa, non potendosi prevedere
che la gara precedente sarebbe andata deserta; TAR Campania
Napoli, sez. I, 29.05.2012, n. 2528, che, in presenza di un
contenzioso sviluppatosi su una gara per l'affidamento del
servizio triennale di gestione e manutenzione ordinaria e
straordinaria delle apparecchiature elettromedicali di
un'azienda sanitaria, ha riconosciuto i presupposti
dell'urgenza di assicurare la continuità del servizio e
dell'imprevedibilità della complessa vicenda
giurisdizionale; TAR Catania, sez. III, 01.03.2011, n. 524,
che ha riconosciuto l'urgenza di affidare, a mezzo
trattativa privata, il servizio di raccolta dei rifiuti
nelle more dell'espletamento della gara pubblica.
[19] Cfr. TAR Veneto, sez. I, 06.03.2013, n. 350. In
dottrina, v. Stefano Baccarini, op. cit., pp. 695-696.
---------------
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture ha affermato che presupposto per
l'applicabilità dell'art. 56, comma 1, lett. a) è che vi
siano state offerte presentate in gara ma che tutte siano
state irregolari o inammissibili, avuto riguardo,
rispettivamente, ai requisiti prescritti per le offerte
(requisiti di forma e di validità delle stesse, posti a
tutela della par condicio dei concorrenti) e per gli
offerenti; presupposto di applicabilità, invece, dell'art.
57, comma 2, lett. a) (procedura negoziata senza bando), è
che non sia stata presentata alcuna offerta o che tutte le
offerte presentate siano state giudicate inappropriate,
intendendosi per tali le offerte formalmente valide ma
irrilevanti sul piano economico, assimilate dal legislatore
alle offerte non presentate.
In entrambe le ipotesi di procedura negoziata richiamate non
possono essere modificate in modo sostanziale le condizioni
iniziali del contratto (14.08.2014 -
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CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI:
Ammissibilità della corresponsione del gettone di presenza
ai componenti di una commissione comunale.
La normativa regionale non prevede
espressamente un'indennità per i componenti delle
commissioni comunali diverse da quelle consiliari. Rientra,
quindi, nella discrezionalità dell'Amministrazione stabilire
con regolamento se attribuire i gettoni di presenza, ed il
conseguente importo, ai componenti delle commissioni
comunali.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito
all'ammissibilità della corresponsione di un gettone di
presenza ai componenti, sia interni che esterni, della
commissione per le pari opportunità fra uomo e donna per la
partecipazione alle sedute della stessa, sulla scorta di
quanto avviene per la partecipazione, da parte dei
consiglieri comunali, alle sedute delle commissioni
consiliari.
L'Ente precisa, al riguardo, di avere istituito, con propria
delibera consiliare, una Commissione permanente per le pari
opportunità fra uomo e donna composta sia da consiglieri
comunali che da componenti esterni.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
In via preliminare, si ritiene necessario operare una
distinzione tra le commissioni consiliari e le altre
commissioni comunali.
Al riguardo si osserva che l'articolo 38, comma 6, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 stabilisce che,
quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di
commissioni consiliari costituite nel proprio seno con
criterio proporzionale, demandando al regolamento la
determinazione dei poteri delle commissioni e la disciplina
dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori
delle stesse.
Quanto alla composizione delle commissioni consiliari, dal
dettato dell'articolo 38, comma 6, sopra citato, deriva che
le stesse devono essere formate da soli consiglieri, atteso
che la norma espressamente dispone che il consiglio le possa
costituire 'nel proprio seno'. [1]
Fanno, invece, riferimento ad un diverso istituto giuridico
quelle commissioni comunali miste che prevedono la
partecipazione, accanto a soggetti politici, di
rappresentanti degli interessi della collettività, le quali
rientrano tra gli organismi di partecipazione popolare
previsti dall'articolo 12, comma 2, della legge regionale
09.01.2006, n. 1 [2]
e dall'articolo 8 del D.Lgs. 267/2000. In particolare,
l'ultima norma citata precisa le opportunità consentite al
Comune per favorire la partecipazione popolare ai vari
aspetti dell'attività della civica amministrazione. Il comma
3 dell'indicata norma individua nello statuto l'atto
normativo nel quale devono essere previste forme di
consultazione della popolazione: queste possono
concretizzarsi anche attraverso l'istituzione di commissioni
comunali miste che esprimono pareri o proposte su atti e
provvedimenti di competenza dell'amministrazione stessa.
Con riferimento specifico alla Commissione per le pari
opportunità si osserva che, nell'ambito della normativa di
rango legislativo, non sussiste una specifica disciplina in
relazione alla stessa.
L'articolo 12, comma 2, della legge regionale 1/2006, si
limita, infatti, a prevedere che lo statuto stabilisce 'le
condizioni per assicurare pari opportunità tra uomo e donna
anche in ordine alla presenza negli organi collegiali
dell'ente'.
La scelta delle modalità con le quali il comune intende
garantire le pari opportunità è, pertanto, demandata dalla
legge all'autonomia normativa dell'ente, il quale può
liberamente decidere di utilizzare gli strumenti ritenuti
più idonei, tra i quali la istituzione di una commissione
consiliare o di una commissione comunale mista, intesa quale
'organismo di pari opportunità' (assimilabile alle
commissioni comunali intese quali 'organismi di
partecipazione popolare').
Nel caso in esame, attesa la composizione della commissione
in oggetto (formata da quattro consiglieri comunali e sei
membri esterni), segue che il consiglio comunale,
nell'esercizio della propria autonomia, ha manifestato la
volontà di costituire una commissione comunale di carattere
misto.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, e passando a
trattare lo specifico aspetto dell'ammissibilità della
corresponsione dei gettoni di presenza per la partecipazione
alle sedute della Commissione per le pari opportunità tra
uomo e donna come costituita dal Comune, si osserva,
preliminarmente, che la normativa regionale non prevede
espressamente un'indennità per i componenti delle
commissioni comunali diverse da quelle consiliari. Infatti,
la materia relativa alla misura delle indennità di presenza
degli amministratori degli enti locali è regolata dalla
deliberazione di Giunta regionale n. 1193 del 24.06.2011.
[3] Il
punto sette dell'atto deliberativo citato fissa gli importi
dell'indennità giornaliera di presenza da corrispondere ai
consiglieri comunali e provinciali per l'effettiva
partecipazione ad ogni seduta del consiglio o delle
commissioni consiliari previste dalla legge o dallo statuto,
nulla disponendo in ordine alle commissioni comunali diverse
dalle consiliari.
Alla luce di tali considerazioni, si ritiene, quindi, che
rientri nella discrezionalità dell'Amministrazione stabilire
se attribuire i gettoni di presenza, ed il conseguente
importo, ai componenti delle commissioni comunali, quale è
quella in riferimento. Atteso il tenore della norma di cui
all'articolo 8 del vigente regolamento dell'Ente per
l'istituzione della commissione per le pari opportunità fra
uomini e donne, ai sensi del quale 'Non è dovuto alcun
compenso per la partecipazione alla Commissione', pare
non ammissibile la corresponsione di alcun gettone di
presenza ai componenti, sia interni che esterni, della
Commissione in riferimento, ferma rimanendo la possibilità
per il Comune di modificare il proprio regolamento comunale.
---------------
[1] In questo senso si veda il parere dell'ANCI del
10.10.2006, nel quale si precisa come 'il primo requisito
ineludibile, quindi, è la composizione che deve essere
riservata ai consiglieri comunali, in quanto destinatari
delle condizioni contenute nello status proprio degli
amministratori degli enti locali, e che non è estensibile ad
elementi ad essi estranei'.
[2] Tale disposizione, che nella nostra Regione si applica
in luogo dell'articolo 6 TUEL, prevede che lo statuto
stabilisca, tra l'altro, le forme della partecipazione
popolare.
[3] L'indicata delibera reca, più precisamente, la
disciplina relativa alle indennità ed ai gettoni di
presenza, nonché ai rimborsi delle spese di viaggio, vitto
ed alloggio per gli amministratori degli enti locali della
Regione Friuli Venezia Giulia (11.08.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Consigli di quartiere ko.
Non più istituibili. Come le circoscrizioni.
Al consiglio comunale le modifiche statutarie e
regolamentari.
Quesito. Sono compatibili le elezioni dei consigli di
quartiere della città congiuntamente all'elezione degli
organi di governo del Comune, il cui mandato scadrà
prossimamente?
Il legislatore statale, nell'ambito di un più
generale e complesso intervento rivolto alla riduzione della
spesa pubblica, è più volte intervenuto, nel corso degli
ultimi anni, con successive disposizioni volte a
ridimensionare gli organi degli enti locali al fine di
contenerne i costi di funzionamento.
A tale proposito si richiama l'art. 2, comma 186, della
legge 191 del 23.12.2009, che ha modificato la
disciplina delle circoscrizioni comunali, la legge n. 42 del
26.03.2010, e la legge n. 148 del 14.09.2011, di
conversione del dl n. 138 del 13.08.2011, che hanno
previsto, tra l'altro, anche la riduzione dei componenti
degli organi collegiali degli enti locali.
Va considerato, inoltre, quale ulteriore elemento di
valutazione, che la grave congiuntura economica, che perdura
da un ampio arco temporale, imporrebbe ai vari enti
costitutivi della Repubblica un dovere di comportamento,
coerente con le esigenze superiori della Comunità nazionale;
un dovere di concorso al pubblico bene e interesse, che
trova fondamento nei principi della stessa Costituzione.
Ciò posto, in linea generale, gli istituti di partecipazione
popolare disciplinati dall'art. 8 del dlgs n. 267/2000
rientrano, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del citato
decreto, nell'ambito del contenuto obbligatorio dello
statuto dei comuni e delle province.
Generalmente essi vengono declinati dai vari ordinamenti
locali nella forma di proposte di iniziativa popolare,
interrogazioni e petizioni popolari, iniziativa referendaria
ecc. In particolare, il citato articolo 8 del dlgs n.
267/2000, al comma 3 prevede, tra l'altro, forme di
consultazione popolare e referendum che non sembrano
assimilabili alle procedure di elezione dei componenti dei
consigli di quartiere.
Premesso che il comune in questione ha una popolazione
complessiva che si aggira sui 47 mila abitanti, dall'esame
dello Statuto e dal regolamento dell'Ente si evince che i
consigli di quartiere -i cui membri sono eletti a suffragio
universale da parte dei cittadini iscritti nelle liste
elettorali delle sezioni comprese nei confini stabiliti per
i quartieri- risultano configurati, più che come istituti
di partecipazione popolare -nei termini suindicati- quali
ulteriori organi istituzionali alla stregua delle
circoscrizioni di cui all'art. 17 del dlgs n. 267, che in
base alla previsione del citato art. 2, comma 186, lett. b),
della legge n. 191/2009 non sono più istituibili nei comuni
con popolazione inferiore ai 250.000 abitanti.
Ricordando, peraltro, che la Costituzione, all'art. 117,
comma 2, lett. p), prevede la competenza esclusiva dello
Stato in materia di «legislazione elettorale, organi di
governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città
metropolitane», le considerazioni svolte non possono che
costituire elementi di riflessione per l'Ente locale, fermo
restando che spetta al consiglio comunale -nella sua
sovranità ed in quanto titolare della competenza a dettare
le norme cui uniformarsi- procedere, ove ritenuto
necessario, alle conseguenti modifiche statutarie e
regolamentari (articolo
ItaliaOggi del 27.12.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Facoltà del Vicesindaco.
Quesito. Il vicesindaco, assessore esterno, privo dello
status di componente del consiglio comunale, può prendere la
parola in consiglio comunale, anche in assenza di appositi
atti di sindacato ispettivo che richiedano un suo
intervento?
Risposta. La tematica inerente il perimetro dei poteri del
vicesindaco ha costituito oggetto dell'attività consultiva
del Consiglio di stato (pareri n. 94/96 del 21/02/1996 e n.
501, del 14/06/2001), che ha ritenuto di riconoscere il
diritto dovere del vicesindaco e di tutti i componenti della
giunta, pur non facenti parte del consiglio comunale, di
intervenire alle adunanze di quest'ultimo per riferire sulle
questioni messe all'ordine del giorno, sostenere le proposte
della giunta, rispondere alle interrogazioni e alle
richieste di chiarimenti.
Infatti questa facoltà, pur non essendo esplicitata dalla
legge, è da ritenersi insita nel sistema anche in analogia
alle regole che consentono ai membri dell'Esecutivo di
intervenire alle discussioni delle camere, ancorché non ne
facciano parte (articolo
ItaliaOggi del 27.12.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Presidenti per anzianità.
Ma il consiglio può fissare criteri ad hoc.
Le regole da seguire in commissione nel caso di una parità
di voti.
In caso di parità di voti tra due consiglieri, quale
criterio occorre adottare per l'elezione del presidente di
una commissione consiliare permanente?
Nella fattispecie, le commissioni consiliari permanenti,
previste dallo statuto comunale, sono disciplinate dal
regolamento del consiglio comunale. Ogni commissione è
formata da cinque componenti.
Ai sensi della citata fonte regolamentare, è disposto che,
nella prima seduta, la commissione procede, con un'unica
votazione e a scrutinio segreto, all'elezione del presidente
e del vice presidente tra i suoi componenti e che i
candidati che ottengono più voti vengono eletti presidente e
vice presidente.
Il regolamento prevede, inoltre, che «salvo che sia
diversamente previsto dal presente regolamento, per le
discussioni nelle commissioni si osservano le disposizioni
previste per la discussione e la votazione in consiglio.»
Relativamente alle modalità di votazione nell'ambito delle
sedute del consiglio comunale, la citata fonte normativa
comunale dispone che «non si può procedere a elezione di
ballottaggio, salvo che la legge disponga altrimenti».
Dal combinato disposto delle norme regolamentari si deve,
pertanto, evincere che non è consentito, in caso di parità
dei voti, il ricorso alla votazione di ballottaggio per
determinare la elezione del presidente della commissione
consiliare.
In via generale, quindi, ove, come nel caso in esame, non
sia stato previsto, nell'ambito delle fonti normative
locali, il criterio da adottarsi in caso di parità di voti,
appare opportuno accedere al parametro della maggiore età
anagrafica.
Tale criterio, infatti, risulta richiamato in diverse
disposizioni del dlgs n. 267 del 2000 (cfr art. 71, comma 6,
e art. 72, comma 9, art. 74, commi 7 e 11).
Ad abundantiam, si aggiunge che in alcune pronunce
giurisprudenziali si è osservato che, in caso di parità di
voti, deve ritenersi doveroso, in difetto di apposita
previsione normativa di matrice statale e/o comunale, il
ricorso al criterio dell'anzianità, in analogia con le
situazioni che si verificano nelle elezioni dei comuni con
il sistema maggioritario. (cfr. Tar Campania, sez. I, n.
1428 del 2011, il Tar Campania, sez. I, n. 2841 del 2012).
Nella sentenza Tar Campania n. 2841 del 2012 si legge,
inoltre, che il criterio generale di anzianità risulta
«immanente» su tutto il sistema elettorale comunale.
Spetta comunque alle decisioni del consiglio comunale, oltre
che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare
l'opportunità di indicare, con apposita modifica
regolamentare, una disciplina puntuale in materia di
elezione del presidente delle commissioni consiliari al fine
di individuare un criterio da seguire in caso di parità di
voti tra più candidati (articolo
ItaliaOggi del 20.12.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Convocazione del consiglio.
Qual è la corretta applicazione dell'art. 39, comma 2, del
dlgs n. 267/2000 che prevede, tra l'altro, la facoltà di
richiedere la convocazione del consiglio comunale da parte
di un quinto dei consiglieri comunali?
Il legislatore, nello stabilire l'obbligo di convocazione
del consiglio su richiesta del quinto dei consiglieri, non
ha chiarito se, per il calcolo del quinto dei consiglieri,
debba adottarsi il criterio dell'arrotondamento della cifra
decimale per eccesso o per difetto, né si è formato un
orientamento giurisprudenziale in materia. In tale contesto,
si ritiene che sia di competenza dell'ente locale
disciplinare, con apposito regolamento, il criterio da
applicare in caso di cifra decimale.
Ove nel regolamento non vi sia una esplicita previsione, è
opportuno applicare il criterio dell'arrotondamento per
difetto, in quanto maggiormente armonizzato con la ratio
della disposizione volta a tutelare la posizione della
minoranza.
Nel caso di specie, tenuto conto che la consistenza
complessiva del consiglio comunale prevede la presenza di
sette consiglieri, compreso il sindaco, e che, secondo una
pregressa nota interpretativa ministeriale era ammesso il
criterio dell'arrotondamento per difetto, che, per il comune
in questione, implicherebbe la possibilità anche solo per un
singolo consigliere di poter richiedere la convocazione,
considerando che un quinto dei consiglieri del comune
corrisponde al numero 1,4, è sufficiente la sottoscrizione
di un solo consigliere comunale (articolo
ItaliaOggi del 20.12.2013). |
NEWS |
APPALTI:
Gare, varianti super documentate.
Il responsabile del procedimento di un appalto pubblico
dovrà trasmettere all'ANAC (Autorità nazionale
anticorruzione) la perizia di variante di un'opera, nella
sua interezza senza frazionamenti; trasmissione obbligatoria
anche per i settori speciali (acqua, energia e trasporti) e
per gli appalti in deroga; previste sanzioni fino a 51.545
euro in caso di mancato adempimento.
È quanto afferma, con il
comunicato 17.09.2014, il presidente dell'Anac, Raffaele
Cantone, in attuazione dell'articolo 37 del decreto legge
90/2014 (legge 114/2014) che ha previsto l'obbligo per le
stazioni appaltanti di comunicare le varianti in corso
d'opera (per contratti oltre la soglia comunitaria e oltre
il 10% di importo).
Il comunicato richiede al responsabile del procedimento (R.U.P.)
dall'appalto –destinatario dell'obbligo– di «provvedere
alla trasmissione integrale della perizia di variante, del
progetto esecutivo», degli atti di validazione del
progetto e di una relazione del R.U.P. stesso, oltre al
provvedimento di approvazione della variante.
Il comunicato chiarisce che l'obbligo vige anche se il
superamento del 10% del valore del contratto deriva dalla «concorrenza
di più tipologie di variante, purché almeno una sia
riconducibile a quelle individuate dal primo comma
dell'articolo 37 della legge 114» (cause impreviste e
imprevedibili, eventi legati alla specificità dei beni
oggetto di appalto o «rinvenimenti imprevisti o
imprevedibili nella fase progettuale» e «difficoltà
di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e
simili, non previste dalle parti».
Per le altre varianti, il comunicato specifica che rimane
sempre fermo l'obbligo di inviare all'Osservatorio dell'Anac,
le varianti non contemplate dalla legge 114 (modifiche
legislative, errori progettuali e varianti migliorative del
progetto entro il 5%). Previste sanzioni, in caso di
inadempimento o false comunicazioni, a carico del R.U.P. da
25.822 a 51.545 euro
(articolo ItaliaOggi del
23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -VARI:
Sono fuori legge due siti su tre. Assenza di
idonea informativa e mancanza del consenso.
PRIVACY/ Un'indagine di Federprivacy condotta su
2.500 pagine pubbliche e private.
Due terzi dei siti web italiani violano la privacy. Su un
campione di 2.500 siti, il 67% non è in regola con il dlgs
196/2003 (codice della privacy). Tra le violazioni più
frequenti l'assenza di idonea informativa e la mancata
raccolta del consenso.
La denuncia parte da Federprivacy, che ha inviato un
dettagliato dossier al Garante.
Federprivacy ha stimato anche il possibile valore delle
sanzioni per gli illeciti riscontrati: si parla di 24
milioni al mese.
A parte la valutazione della cifra, emerge in maniera
oggettiva la diffusione della disapplicazione della
normativa a protezione dei dati personali.
E le violazioni toccano trasversalmente sia il settore
privato sia il settore pubblico.
Vediamo il dettaglio della ricerca.
Su 2.500 siti web di enti e imprese italiane, in 1.690 casi
non è rispettato l'obbligo di informare l'interessato su
come saranno trattati i suoi dati personali (violazione
dell'articolo 13 del Codice della Privacy) e in molti casi
non è rispettata neppure la richiesta di consenso al
trattamento dei dati (violazione dell'articolo 23 del Codice
della Privacy). Nel 55% dei casi, a non dare idonea
informativa all'interessato, sono piccole e medie imprese,
mentre il 17% dei siti web che omettono di dare
l'informativa svolge attività in settori legati alla salute,
che quindi trattano dati sensibili, come per esempio,
ospedali, cliniche, laboratori di analisi, studi medici,
dentisti, chirurghi ecc.
Nel 7% dei casi a commettere tali violazioni sono anche le
aziende informatiche, come web agency o società di
consulenza nel settori di internet, che spesso sviluppano
esse stesse numerosi altri siti web per i loro clienti.
Risulta inoltre che il 6% dei contravventori sono soggetti
di condizioni economiche e dimensionali notevoli, come
grandi aziende, multinazionali, enti pubblici, e anche
personalità come artisti, politici e altri vip.
Pubbliche amministrazioni ed enti pubblici alimentano la
graduatoria dei siti senza idonea informativa nel 3% dei
casi, mentre raggiunge il 4% di questa classifica negativa
il gruppo dei partiti, associazioni ed enti non profit.
In materia va ricordato che le prescrizioni del codice della
privacy vanno adottate, per esempio, ogni volta che si
chiede all'utente di compilare form di contatto, fornendo le
loro informazioni personali. Il codice della privacy assegna
all'interessato il diritto di ricevere un'idonea informativa
sul trattamento dei dati personali per poter essere in grado
di scegliere se prestare o meno il proprio consenso. Tra
l'altro l'informativa riguarda trasversalmente tutti i
settori, compresi gli enti pubblici e i siti internet
istituzionali.
Sul versante sanzionatorio, l'articolo 161 del dlgs 196/2003
punisce le infrazioni a tale prescrizione con sanzioni
pesantissime che vanno dai 6 mila ai 36 mila euro, cifre che
possono essere anche raddoppiate se tali violazioni
coinvolgono numerosi interessati, come nel caso di siti
internet accessibili al pubblico, o addirittura
quadruplicate se il contravventore è un soggetto facoltoso.
«L'ammontare delle violazioni rilevate nell'arco di un
solo mese è stimata, codice alla mano, intorno ai 24 milioni
di euro -spiega il presidente di Federprivacy, Nicola
Bernardi- ma la portata del fenomeno è molto più estesa
perché i domini registrati presso il Registro.it del Cnr
sono a oggi circa 2,5 milioni, e questo significa che il
campione analizzato equivale ad appena un millesimo dei siti
italiani. L'entità di queste infrazioni, che sono pure alla
bella vista di tutti su internet, è quindi potenzialmente
calcolabile in alcuni miliardi di euro»
(articolo ItaliaOggi del
23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attestati energetici al setaccio. Controlli
condotti da Entrate e Sviluppo economico.
SEMPLIFICAZIONI FISCALI/ Il decreto disciplina le
modalità di collaborazione.
Collaborazione tra Agenzia delle entrate e Ministero dello
sviluppo economico per scoprire le irregolarità negli
attestati di prestazione energetica (Ape). Abolizione della
comunicazione all'Agenzia delle entrate per i lavori di
riqualificazione energetica degli edifici che usufruiscono
del 65% e che proseguono per più periodi di imposta.
Queste alcune delle novità contenute nel decreto legislativo
recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali,
attuativo dell'articolo 7 della delega di cui alla legge n.
23 dell'11.03.2014.
Il provvedimento esaminato venerdì scorso (19 settembre
2014) dal Consiglio dei ministri (in secondo esame
preliminare), torna al vaglio delle commissioni parlamentari
competenti per il prescritto parere, per poi ritornare
all'esame del consiglio dei ministri per l'approvazione
definitiva.
Bonus per riqualificazione.
Attualmente il dl n. 185/2008 convertito nella legge n.
2/2009 prevede che i contribuenti interessati alla
detrazione Irpef delle spese sostenute per la
riqualificazione energetica degli edifici, i cui lavori
proseguono oltre il periodo di imposta, debbano inviare
all'Agenzia delle entrate un'apposita comunicazione in cui
sono elencati i dati delle spese sostenute nei periodi di
imposta precedenti.
La mancata osservanza del termine entro cui inviare la
comunicazione (90 giorni dal termine di ciascun periodo di
imposta in cui sono state sostenute le spese oggetto di
comunicazione), ovvero la sua omissione non comportano la
decadenza dal beneficio fiscale, ma solo la irrogazione di
una sanzione pecuniaria (da 256 euro a 2.065 euro). In
un'ottica di semplificazione l'articolo 12 del decreto
semplificazioni provvede ad abrogare il descritto
adempimento.
Attestato di prestazione energetica.
L'articolo 1, comma 7, del decreto-legge 23.12.2013, n. 145,
convertito dalla legge 21.02.2014, n. 9, ha modificato
l'articolo 6 del dlgs 19.08.2005, n. 192, sostituendo la
nullità degli atti privi dell'Ape con sanzioni
amministrative pecuniarie a carico delle parti. La stessa
disposizione ha stabilito, inoltre, che l'accertamento e la
contestazione delle violazioni sono svolte dalla guardia di
finanza o, alla registrazione dell'atto, dall'agenzia delle
entrate.
Il pagamento della sanzione amministrativa non esenta
comunque dall'obbligo di presentare la dichiarazione o la
copia dell'attestato di prestazione energetica entro 45
giorni. La normativa al momento vigente prevede che gli
accertamenti devono essere condotti dall'Agenzia delle
entrate e dalla guardia di finanza, ma, si legge nella
relazione illustrativa del decreto, non si tengono in
considerazione le modalità telematiche di registrazione dei
contratti, che prevedono la registrazione automatica
dell'atto al momento della ricezione del file telematico,
non consentendo di allegare altri documenti.
L'articolo 34 del decreto semplificazione disciplina il
rapporto di collaborazione tra agenzia entrate e sviluppo
economico in materia di attestato di prestazione energetica
(articolo ItaliaOggi del
23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Da metà ottobre cambia il libretto energetico.
Per gli impianti termici e la
certificazione degli edifici.
Dal 15 ottobre nuovi libretti per gli impianti termici e la
certificazione energetica degli edifici. È impianto termico
quello destinato ai servizi di climatizzazione invernale o
estiva degli ambienti, con o senza produzione di acqua calda
sanitaria, indipendentemente dal vettore energetico
utilizzato, comprendente eventuali sistemi di produzione,
distribuzione e utilizzazione del calore nonché gli organi
di regolarizzazione e controllo.
Sono compresi negli impianti termici gli impianti
individuali di riscaldamento.
Queste alcune delle risposte contenute nelle Faq del
Ministero dello sviluppo economico in merito all'efficienza
energetica degli impianti di climatizzazione invernale e
estiva.
Non sono impianti termici i sistemi dedicati esclusivamente
alla produzione di acqua calda sanitaria al servizio di
singole unità immobiliari ad uso residenziale ed assimilate.
Tra le singole unità immobiliari a uso residenziale e
assimilate sono da intendersi comprese anche gli edifici
residenziali monofamiliari, le singole unità immobiliari
utilizzate come sedi di attività professionali (ad esempio
studio medico o legale) o commerciale (ad esempio agenzia di
assicurazioni) o associativa (ad esempio sindacato,
patronato) che prevedono un uso di acqua calda sanitaria
comparabile a quello tipico di una destinazione puramente
residenziale.
Non sono considerati impianti termici apparecchi quali:
stufe, caminetti, apparecchi di riscaldamento localizzato ad
energia radiante; tali apparecchi, se fissi, sono tuttavia
assimilati agli impianti termici quando la somma delle
potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio
della singola unità immobiliare è maggiore o uguale a 5 kW.
Non sono considerati impianti termici i sistemi dedicati
esclusivamente alla produzione di acqua calda sanitaria al
servizio di singole unità immobiliari ad uso residenziale e
assimilate
(articolo ItaliaOggi del
23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO:
Amministratore con «diploma». Impegno di 72 ore
di lezione e docenti con requisiti seri e documentati.
Formazione. Il decreto della Giustizia con nuove regole
dovrebbe approdare già domani in Gazzetta Ufficiale.
Tra pochi giorni non ci saranno più
scuse: il neo amministratore dovrà possedere un titolo di
formazione specifico, acquisito presso enti o associazioni
che seguano le indicazioni del decreto del ministero della
Giustizia che sarà pubblicato a giorni.
Come anticipato dal Sole 24 Ore sabato scorso,
il testo ha passato l'ultimo esame, quello della Corte
dei conti, e quindi forse già domani uscirà sulla Gazzetta
Ufficiale.
La nuova norma prende le mosse dalla legge 220/2012, come
modificata dal Dl 145/2014, che ha stabilito che la
competenza per definire la formazione spetta alla Giustizia.
Il ministero aveva un testo già cinque mesi fa (si veda Il
Sole 24 Ore dell'8 aprile scorso) ma i vari passaggi al
Consiglio di Stato e alla Corte dei conti, e soprattutto la
riscrittura di alcuni passaggi dopo un confronto con le
associazioni di categoria degli amministratori, che avevano
espresso perplessità anche sulle pagine del nostro giornale,
hanno determinato dei ritardi.
Da quando la norma sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale
passeranno 15 giorni, poi entrerà in vigore, e chi vorrà
iniziare la professione dovrà fare il corso, a meno che non
amministri il condominio in cui abita o non abbia
amministrato condomìni per almeno un anno nel triennio
2010-2013 (si veda l'articolo qui sotto).
L'annuncio ufficiale dell'imminente pubblicazione è stato
dato al convegno di Confedilizia di sabato scorso dal
sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri (si veda anche
l'intervista qui a fianco), che in questi mesi si è
prodigato per portare a casa il risultato e consentire ai
condòmini di avere la garanzia di amministratori
professionalizzati.
Vediamo, in sintesi, come funzioneranno i corsi, che
dureranno almeno 72 ore per formazione iniziale (anche con
e-learning), di cui 24 di pratica, e 15 ore annue per la
formazione periodica.
Responsabili scientifici e formatori avranno sostanzialmente
requisiti analoghi. Anzitutto quelli di "onorabilità":
godimento dei diritti civili; non essere stati condannati
per delitti contro la pubblica amministrazione,
l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il
patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale
la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel
minimo, a due anni, e, nel massimo, a cinque anni; non
essere stati sottoposti a misure di prevenzione divenute
definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione;
non essere interdetti o inabilitati.
Ci sono poi i requisiti "culturali": per i
responsabili scientifici (che dovranno poi verificare i
requisiti dei formatori e organizzare i corsi) dovranno
essere docenti universitari o di scuola superiore di materie
giuridiche, economiche o economiche, avvocati, magistrati o
professionisti dell'area tecnica (anche in pensione). Devono
poi avere una «competenza specifica» in materia
condominiale, che è dimostrabile anche avendo pubblicato due
libri in materia di diritto condominiale o di sicurezza
degli edifici.
Per i formatori sono richieste le stesse qualifiche, ma
possono svolgere la funzione anche dimostrando di possedere
una laurea (quinquennale o triennale) o di essere iscritti a
un albo professionale, sempre fatta salva la «competenza
specifica». Un caso particolare di esenzione dai titoli
di studio (sempre fatta salva la «competenza specifica»)
è quella di chi ha insegnato, per almeno sei anni
precedentemente all'entrata in vigore del decreto stesso, in
corsi di formazione, ciascuno della durata di almeno 40 ore.
Quanto ai contenuti minimi dei corsi di formazione, che
potranno essere organizzati liberamente da qualunque ente e
associazione che sia in grado di rispettare le indicazioni
del decreto, sono previsti: amministrazione condominiale;
sicurezza degli edifici (in particolare staticità, risparmio
energetico, riscaldamento e di condizionamento, impianti
idrici, elettrici e ascensori, manutenzione delle parti
comuni e prevenzione incendi), spazi comuni, regolamenti
condominiali, ripartizione spese e tabelle millesimali;
diritti reali; contratti (con appalto e lavoro subordinato);
tecniche di risoluzione dei conflitti; uso degli strumenti
informatici.
Soddisfatte le prime reazioni: per Giovanni De Pasquale (Anaip)
«L'obbligatorietà della frequentazione di corsi base e di
aggiornamento servirà a mettere fine a quella giungla di
amministratori improvvisati privi di ogni conoscenza
tecnica, giuridica, contabile e fiscale». Luigi
Ciannilli (Confai) avrebbe voluto l'obbligo formativo anche
per chi amministra il proprio condomino: «C'è da
chiedersi perché circa 1/3 dei condomini in Italia può
avvalersi di un amministratore a cui non è fatto obbligo di
tenersi aggiornato sulle evoluzioni normative e
giurisprudenziali» (articolo Il Sole 24 Ore del
23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Semplificazioni e oneri ridotti spingono sulle
ristrutturazioni.
Le principali misure in edilizia previste dal dl 133/2014.
Tempi accelerati per i permessi.
Spinta per manutenzioni e ristrutturazioni, con mano leggera
sugli oneri edilizi. Mentre sul piano delle procedure si
accelerano i tempi del permesso di costruire, la cui
versione convenzionata fa il suo esordio nel Testo unico per
l'edilizia (dpr 380/2001), accanto ai permessi in deroga per
le ristrutturazioni delle aree industriali dismesse; si
manda in soffitta la Dia e la Comunicazione di inizio lavori
è valida anche per gli aggiornamenti catastali.
Spinta anche a fare le opere di urbanizzazioni, che si cerca
di accollare al privato (come per le trasformazioni urbane
complesse).
Le novità per l'edilizia sono tante: accorpamenti e
frazionamenti degradati a interventi di manutenzione
straordinaria, la conservazione elevata a categoria
autonoma, emancipazione della proroga dei permessi dalle
strettoie del Testo unico per l'edilizia.
Il disegno è muovere l'economia e riqualificare il
territorio con meno burocrazie. Con questo spirito il
decreto Sblocca Italia n. 133/2014 (si veda ItaliaOggi del 02.09.2014) dedica l'articolo 17 alle semplificazioni in
edilizia, soffermandosi sulla necessità di sburocratizzare
alcuni passaggi e di creare ancora una volta occasioni per
rivitalizzare il mercato.
Opere interne semplificate. Va nel senso della
sburocratizzazione l'espansione del concetto di manutenzione
straordinaria, che si affranca dalla necessità di rispettare
volumi e superfici, bastando il rispetto della volumetria
complessiva. Fermo l'ingombro dell'edificio, accorpamento o
frazionamenti di unità vengono, dunque, declassati a
manutenzioni straordinarie, con esclusione della necessità
del permesso di costruire e benefici anche sul versante
degli oneri dovuti al comune. La modifica del concetto
trascina il rimodellamento delle disposizioni sui casi in
cui è necessario il permesso di costruire e, a cascata, fa
ampliare lo spazio d'azione dell'attività edilizia libera,
realizzabile previa una semplice comunicazione di inizio
lavori (Cil).
Non decisiva, ma apprezzabile, poi la pratica
di accatastamento d'ufficio, utilizzando la stessa Cil. In
dettaglio rientrano nel concetto di manutenzione
straordinaria anche il frazionamento o l'accorpamento di
unità immobiliari con esecuzione di opere anche se
comportano la variazione delle superfici delle singole unità
immobiliari e la variazione del carico urbanistico, a
condizione che non sia modificata la volumetria complessiva
e si mantenga l'originaria destinazione di uso. Per questi
interventi il contributo di costruzione è commisurato
all'incidenza delle opere di urbanizzazione.
Gli interventi di manutenzione straordinaria, salvo che
riguardino le parti strutturali dell'edificio, potranno
essere eseguiti previa comunicazione dell'inizio lavori,
anche per via telematica, all'amministrazione comunale.
La Cil deve essere asseverata da un tecnico abilitato, che
attesta la conformità al piano regolatore e ai regolamenti
edilizi. La comunicazione contiene i dati identificativi
dell'impresa alla quale si intende affidare la realizzazione
dei lavori. Quindi ci vuole l'asseverazione, ma non ci vuole
la relazione tecnica e gli elaborati progettuali.
Le modalità semplificate di trasmissione della Cil
riguardano anche le modifiche interne dei fabbricati
d'impresa e le modifiche alla destinazione d'uso dei locali
adibiti all'esercizio dell'impresa (salvo parti
strutturali). La Cil diventa valida anche ai fini catastali,
modificando la previgente disposizione che poneva a carico
del privato di provvedere alla presentazione degli atti di
aggiornamento catastale.
Sarà il comune che deve provvede all'inoltro all'Agenzia
delle entrate.
Interventi di conservazione. Un'alternativa all'esproprio.
Il decreto prevede che i comuni possano favorire la
riqualificazione delle aree in cui si trovano gli edifici
esistenti non più compatibili con il piano regolatore. È
un'alternativa all'esproprio perché l'amministrazione potrà
trovare forme di compensazione. Nelle more dell'attuazione
del piano il proprietario può eseguire tutti gli interventi
conservativi, a eccezione della demolizione e successiva
ricostruzione non giustificata da obiettive e improrogabili
ragioni di ordine statico o igienico sanitario.
Permesso. Il procedimento del rilascio del permesso di
costruire viene velocizzato: i termini dei rilasci non sono
più raddoppiati sempre nei centri più grandi (oltre i 100
mila abitanti), ma solo per progetti particolarmente
complessi secondo la motivata risoluzione del responsabile
del procedimento. E il titolo mantiene l'efficacia più a
lungo. Si prevede, infatti, la proroga del permesso di
costruire secondo valutazioni discrezionali: dà maggiore
tempo alle imprese per la realizzazione dei progetti. Non
occorre, poi, chiedere un nuovo permesso se il precedente è
scaduto a causa di provvedimenti giudiziari o iniziative
dell'amministrazione: i ritardi nella fase esecutiva non
imputabili al privato non comportano la scadenza del titolo.
Permessi in deroga. Meno burocrazia, ma anche impulso al
mercato dovrebbe arrivare dal permesso di costruire in
deroga per gli interventi di ristrutturazione edilizia e
urbanistica attuati anche in aree industriali dismesse: la
deroga potrà riguardare anche i mutamenti di destinazione di
uso. L'intervento è finalizzato a incentivare la
riqualificazione e il rinnovo urbano, anche per contenere il
consumo del suolo. Basta che il consiglio comunale dia il
via libera.
La parola d'ordine è fare le urbanizzazioni. Così è vero che
il comune, per esempio, non incassa oneri per gli interventi
compresi in strumenti di pianificazione attuativa comunque
denominati, ma è anche vero che sarà la convenzione con il
privato a prevedere a carico di quest'ultimo le opere di
urbanizzazione e infrastrutturali necessarie. Sulla stessa
lunghezza d'onda l'alleggerimento degli oneri per le
ristrutturazioni e gli interventi sull'esistente e anche il
permesso di costruire convenzionato. Con il ricorso al
permesso convenzionato, poi, si prevede che le esigenze di
urbanizzazione possano essere soddisfatte dal privato, sotto
il controllo del comune, con una modalità semplificata: con
la convenzione si devono regolare utilizzo di cubature,
caratteristiche degli interventi e realizzazione di
interventi di edilizia residenziale sociale.
Identico discorso per le trasformazioni urbane complesse,
per le quali si può prevedere l'assoggettamento al solo
costo di costruzione, mentre le opere di urbanizzazione sono
direttamente messe in carico all'operatore privato che ne
resta proprietario.
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Meno vincoli ai mutamenti di
destinazione.
Il decreto legge Sblocca Italia (n. 133/2014) introduce
l'articolo 23-ter al Testo unico per l'edilizia (dpr
380/2001) e individua quattro categorie di destinazione
urbanistica. Solo il passaggio da una categoria all'altra è
mutamento di destinazione d'uso, mentre i cambi di uso
all'interno della medesima categoria sono dequalificati.
Questo salvo che le regioni stabiliscano diversamente.
L'articolo 23-ter del Testo unico per l'edilizia individua
quattro classi: a) residenziale e turistico-ricettiva; b)
produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
La norma stabilisce che per la legge nazionale costituisce
mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di
utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, anche se non accompagnata
dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare
l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare
considerati a una diversa categoria funzionale. Il mutamento
di destinazione di uso può essere con o senza opere. Nel
secondo caso si parla di mutamento funzionale di
destinazione di uso; nel primo caso si parla di mutamento
strutturale di destinazione di uso.
Questo significa che il passaggio da destinazione
residenziale a direzionale è mutamento di destinazione di
uso (perché si passa da una categoria a una diversa); mentre
il passaggio dalla destinazione direzionale a quella
produttiva o dalla turistica a residenziale non è mutamento
di destinazione di uso rilevante ai fini della legislazione
edilizia. Quanto alla identificazione delle categorie,
comunque, prevale la legge regionale. La norma si spinge a
disposizioni di dettaglio. In particolare la destinazione
d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare va
determinata prendendo quella prevalente in termini di
superficie utile: in caso di unità con uso promiscuo (casa e
ufficio) prevale quella che occupa più superficie ed è
questa categoria quella che deve essere presa in esame per
valutare cambi d'uso.
L'articolo 23-ter si chiude con una norma di carattere
generale e cioè che il mutamento della destinazione d'uso
all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito. Anche qui, però, la legislazione regionale
potrebbe disporre diversamente e in quel caso prevale sulla
legge nazionale. Lo stesso va detto per i piani regolatori e
in generale per gli strumenti urbanistici comunali, che
possono vietare il mutamento di destinazione di uso anche
all'interno della medesima categoria
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, l'aliquota Iva al 10% circoscrive il raggio
d'azione. L'effetto della retrocessione a manutenzioni straordinarie
degli interventi di rimodulazione.
Lo snellimento delle procedure edilizie, disposto dal dl «sblocca-Italia»,
restringe il raggio d'azione dell'aliquota Iva agevolata del
10%. Sembra questo, sul versante fiscale, l'effetto
collaterale della «retrocessione» a manutenzioni
straordinarie degli interventi di rimodulazione delle unità
immobiliari degli edifici mediante frazionamento o
accorpamento, ad opera dell'art. 17 del dl n. 133 del 12.09.2014 (in vigore dal giorno successivo). Ciò perché
sulle opere di semplice manutenzione l'Iva agevolata si
applica in maniera più selettiva che sui lavori di recupero
edilizio più impegnativi.
Facciamo il punto della disciplina Iva degli interventi di
recupero del patrimonio edilizio, che secondo la
classificazione «gradata» fornita dall'art. 3, dpr n. 380/01
(già art. 31, legge n. 457/78), riportata nelle tabelle, si
distinguono in: manutenzioni ordinarie (lett. a);
manutenzioni straordinarie (b); restauro e risanamento
conservativo (c); ristrutturazione edilizia (d);
ristrutturazione urbanistica (f).
Iva agevolata ad ampio raggio. In relazione agli interventi
di recupero edilizio di grado superiore, elencati nelle
lettere c), d) ed f) dell'art. 3 dpr n. 380/01, le
disposizioni della tabella A, parte III, allegata al dpr
633/72, prevedono l'Iva del 10% su:
- prestazioni di servizi dipendenti da contratti d'appalto
relativi alla realizzazione degli interventi (n.
127-quaterdecies della tabella A/III)
- cessioni di beni, escluse le materie prime e semilavorate,
forniti per la realizzazione degli interventi stessi (n.
127-terdecies, tabella A/III).
Sono inoltre soggette all'aliquota del 10% le cessioni di
fabbricati o porzioni di fabbricato sui quali sono stati
eseguiti i predetti interventi di recupero, se effettuate
dalle stesse imprese che hanno eseguito gli interventi (n.
127-quinquiesdecies, tabella A/III).
In merito alle definizioni in tabella, l'amministrazione
finanziaria ha chiarito che:
- gli interventi di restauro e risanamento conservativo,
diretti, rispettivamente a restituire l'immobile alla
configurazione originaria che si intende tutelare e ad
adeguare ad una migliore esigenza d'uso attuale un edificio
esistente, consistono, per esempio in modifiche tipologiche
delle singole unità immobiliari per una più funzionale
distribuzione, innovazione delle strutture verticali e
orizzontali, ripristino dell'aspetto storico-architettonico
di un edificio, anche tramite la demolizione di
superfetazioni, adeguamento delle altezze dei solai, con il
rispetto delle volumetrie esistenti, apertura di finestre
per esigenze di aerazione dei locali;
- gli interventi di ristrutturazione edilizia, che sono
interventi sistematici diretti alla trasformazione
dell'organismo edilizio, con effetti tali da incidere sui
parametri urbanistici, e possono portare ad un aumento della
superficie, ma non del volume preesistente, comprendono la
riorganizzazione distributiva degli edifici e delle unità
immobiliari, del loro numero e delle loro dimensioni, la
costruzione dei servizi igienici in ampliamento delle
superfici e dei volumi esistenti, il mutamento di
destinazione d'uso di edifici, secondo quanto disciplinato
dalle leggi regionali e dalla normativa locale, la
trasformazione dei locali accessori in locali residenziali,
le modifiche agli elementi strutturali, con variazione delle
quote d'imposta dei solai, l'ampliamento delle superfici.
Per quanto riguarda i presupposti per l'applicazione
dell'aliquota Iva agevolata, in passato l'amministrazione
aveva più volte precisato che l'agevolazione non poteva
essere riconosciuta all'intervento che, pur qualificandosi
oggettivamente come ristrutturazione edilizia, non mirasse a
rimediare a una situazione di degrado dell'immobile, ma
fosse realizzato soltanto per modificarne la destinazione
d'uso, ad esempio da abitativa a commerciale (ris. min. n.
430791 del 03/03/1992).
Questo risalente orientamento è stato recentemente
modificato. Nella circolare n. 8 del 13.03.2009, con
riferimento alla disposizione del n. 8-bis) dell'art. 10,
che esclude dal trattamento di esenzione dall'Iva le
cessioni di fabbricati sottoposti a interventi di grado
superiore effettuate entro cinque anni dalla fine dei lavori
dalla stessa impresa di ripristino, l'agenzia delle entrate
ha dichiarato che la norma non richiede che gli interventi
di recupero siano collegati ad una condizione di degrado
dell'immobile, per cui essa può trovare applicazione anche
in ipotesi di cambio di destinazione d'uso non collegato a
degrado del bene. Lo stato di degrado, ha precisato inoltre
la circolare, non è necessario neppure ai fini della
disposizione del n. 127-quinquiesdecies della tabella A/III,
ai fini dell'aliquota agevolata.
Per quanto riguarda la portata oggettiva, l'aliquota del 10%
si applica agli interventi di recupero effettuati su
qualsiasi edificio esistente, quale che sia la destinazione
d'uso (abitativa, commerciale ecc.); sono esclusi solo gli
immobili che non rientrano nella nozione di edificio (es.
monumenti, dighe); in via interpretativa, l'agevolazione è
stata estesa anche agli interventi sulle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria (circ. n. 1/1994).
A proposito della disciplina contrattuale degli interventi
edilizi, anche se la norma parla di prestazioni di servizi
dipendenti da contratti d'appalto, non vi è dubbio che
l'aliquota ridotta sia applicabile anche quando la
prestazione sia resa in base ad un contratto d'opera, stante
la sostanziale identità funzionale di tali contratti, che si
differenziano solo per la qualifica dell'appaltatore. Sono
al di fuori del perimetro dell'agevolazione, invece, le
prestazioni di natura diversa, ad esempio i servizi
professionali, trasporti. Sotto il profilo formale, poi,
sebbene sia consigliabile tanto ai fini civilistici che
fiscali stipulare un contratto scritto, ciò non rappresenta
una condizione di accesso al beneficio, non essendo la forma
scritta imposta dalla legge né a fini costitutivi né a fini
probatori.
La medesima portata oggettiva va attribuita all'agevolazione
delle cessioni di beni, escluse le materie prime e
semilavorate, destinati alla realizzazione degli interventi
stessi. Riguardo alla previsione in esame, va ricordato che
l'agevolazione spetta alle cessioni di «beni finiti», che
secondo la prassi ministeriale sono quelli che conservano la
loro individualità anche quando vengono incorporati nella
costruzione: es. ascensori, sanitari, caldaie, termosifoni,
tubazioni, interruttori, quadri elettrici, porte, finestre
ecc. (circolari n. 25/1979 e n. 14/1981). Non sono tali,
invece, quei beni che, pur rappresentando prodotti finiti
per chi li vende, costituiscono materie prime o semilavorati
per li chi acquista: mattoni, piastrelle, calce, sabbia,
chiodi ecc.
L'aliquota ridotta compete solo se i beni sono destinati
all'esecuzione degli interventi di recupero e non quando
formano oggetto di commercializzazione (per esempio dal
grossista al dettagliante).
---------------
Manutenzioni, sconto ad hoc.
I lavori esclusi dalla disciplina agevolativa fruiscono di
un beneficio più contenuto.
Gli interventi definiti nelle lettere a) e b) dell'art. 3
del dpr n. 380/2001, ossia i lavori di manutenzione, sono
esclusi dalla disciplina agevolativa prevista dalla tabella
A/III (fanno eccezione le manutenzioni straordinarie di
edifici residenziali pubblici).
Tali interventi fruiscono comunque di una più limitata
agevolazione, prevista dall'art. 7 della legge n. 488/1999,
che assoggetta all'aliquota del 10% le prestazioni aventi ad
oggetto gli interventi di recupero del patrimonio edilizio
di cui all'art. 31, primo comma, lettere a), b), c) e d),
della legge n. 457/78, realizzati su fabbricati a prevalente
destinazione abitativa privata. In sostanza, tale
disposizione riguarda gli interventi di manutenzione
ordinaria e straordinaria di cui alle lettere a) e b)
dell'art. 3 del dpr 380/2001.
Come si diceva in apertura, l'art. 17 del dl n. 133/2014
(decreto «sblocca-Italia»), al fine di semplificare il
procedimento edilizio, ha modificato e integrato la lett. b)
dell'art. 3 del dpr 380/2001, riconducendo tra gli
interventi di manutenzione anche:
- quelli comportanti modifiche alle superfici delle singole
unità immobiliari, fermo il rispetto della volumetria
complessiva dell'edificio
- quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle
unità immobiliari, ancorché comportanti variazioni delle
superfici.
Dovrà essere inoltre valutata la portata dell'art. 23-ter
del dpr 380/2001, aggiunto dal dl n. 133/2014, secondo cui è
mutamento urbanisticamente rilevante della destinazione
d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile diversa da quella
originaria, se tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile ad una diversa categoria funzionale fra le
seguenti:
a) residenziale e turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale.
per cui non è invece rilevante, salvo diversa previsione
delle leggi regionali, il mutamento di destinazione
all'interno delle suddette categorie funzionali.
Tornando all'accorpamento e al frazionamento, a tali
interventi, prima classificabili fra le ristrutturazioni ed
ora tra le manutenzioni straordinarie, ai fini dell'Iva non
si applica la disciplina agevolativa prevista per gli
interventi di grado superiore, illustrata nell'altra pagina,
ma quella prevista dall'art. 7 della legge n. 488/1999, la
cui portata è più circoscritta (si veda la tabella di
raffronto).
Infatti, in primo luogo l'agevolazione accordata alle
manutenzioni non si applica ai lavori eseguiti su qualsiasi
fabbricato, ma solo a quelli eseguiti su fabbricati «a
prevalente destinazione abitativa privata»; sono pertanto
escluse dall'agevolazione le manutenzioni eseguite sulle
unità immobiliari non abitative (negozi, uffici ecc.), anche
se situate in edifici a prevalente destinazione abitativa.
In secondo luogo, oggetto dell'agevolazione sono le
«prestazioni» aventi ad oggetto interventi di manutenzione
ordinaria e straordinaria: deve quindi trattarsi di
prestazioni di servizi, come definite dall'art. 3 del dpr
633/1972, sicché sono escluse le operazioni consistenti in
cessioni di beni. Non è pertanto possibile applicare
l'aliquota del 10% alle cessioni dei beni occorrenti per
l'esecuzione delle manutenzioni, mentre qualche margine vi
è, come si dirà oltre, quando alla cessione del bene si
accompagna la posa in opera.
E ancora, nella circolare n. 71/2000 è stato precisato che
l'aliquota agevolata non è applicabile nei rapporti tra
imprese, in quanto ne può beneficiare solo il committente
del contratto principale (il quale, beninteso, non deve
essere necessariamente un consumatore finale: potrebbe anche
trattarsi, infatti, della società immobiliare proprietaria
del fabbricato abitativo); in deroga al principio
interpretativo di carattere generale, negli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, in considerazione
del particolare meccanismo previsto per i «beni
significativi», descritto a parte, l'amministrazione ritiene
che l'aliquota del 10% non sia estensibile alle prestazioni
eseguite in dipendenza di subappalti. Restano comunque
escluse dall'agevolazione le prestazioni di natura
professionale.
La fornitura con posa in opera. Si è detto che la norma
agevola soltanto le prestazioni di servizi, per cui
l'aliquota ridotta non è applicabile alle operazioni che si
qualificano come «cessioni di beni». Questo dovrebbe valere,
a rigore, anche nell'ipotesi in cui alla cessione del bene
si accompagni, in funzione complementare, una prestazione di
servizi accessoria all'operazione principale di vendita, ad
esempio la posa in opera del bene venduto. Nella citata
circolare n. 71/2000, tuttavia, è stato affermato che «in
considerazione della ratio dell'agevolazione deve ritenersi
che l'aliquota Iva ridotta competa anche nell'ipotesi in cui
l'intervento di recupero si realizzi mediante cessione con
posa in opera di un bene, poiché l'apporto della manodopera
assume un particolare rilievo ai fini della qualificazione
dell'operazione.
L'oggetto della norma agevolativa è infatti
costituito dalla realizzazione dell'intervento di recupero,
a prescindere dalle modalità utilizzate per raggiungere tale
risultato. L'applicazione dell'aliquota agevolata non è
preclusa dalla circostanza che la fornitura del bene assuma
un valore prevalente rispetto a quello della prestazione.
Ciò si evince dal fatto che lo stesso legislatore,
disciplinando l'applicazione dell'agevolazione in relazione
ad alcuni beni cosiddetti di valore significativo, ha
contemplato l'ipotesi in cui il valore dei beni forniti
nell'ambito dell'intervento sia prevalente rispetto a quello
della prestazione. La circostanza, inoltre, che soltanto in
relazione ad alcuni di tali beni la legge ponga dei limiti
per l'applicazione dell'agevolazione, comporta che
l'aliquota del 10% si applica agli altri beni forniti dal
prestatore (dovendosi ritenere tale, ai fini della
agevolazione in esame, anche colui che effettua la semplice
posa in opera), a prescindere dal loro valore. Ad esempio,
la sostituzione degli infissi interni ed esterni consiste in
un lavoro edile che, a seconda che venga o meno mutato il
materiale rispetto a quello degli infissi preesistenti,
configura una prestazione di manutenzione straordinaria o
ordinaria e quindi un intervento di recupero agevolato.
Conseguentemente, gli infissi che vengano forniti dal
soggetto che esegue la relativa prestazione di sostituzione
rientrano nell'ambito della previsione agevolativa entro i
limiti previsti per i beni di valore cosiddetto
significativo. L'aliquota del 10%, invece, non si rende
applicabile se i beni, anche se finalizzati ad essere
impiegati in un intervento di manutenzione ordinaria o
straordinaria, vengono forniti da un soggetto diverso da
quello che esegue la prestazione, o vengano acquistati
direttamente dal committente dei lavori».
Questa posizione sembrava essere stata ridimensionata dalla
circolare n. 36 del 31.05.2007, nella quale viene
ricordato che l'aliquota agevolata della legge 488/1999 si
applica soltanto alle prestazioni di servizi, mentre le
cessioni di beni sono sottoposte all'aliquota ridotta «solo
se la relativa fornitura è posta in essere nell'ambito del
contratto d'appalto». La recente nota del 22.05.2014, n.
954-31/2014, ha riaperto la porta, chiarendo che alle
«cessioni con posa in opera» di stufe a pellet, effettuate
nell'ambito di interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria su immobili abitativi, si applica l'aliquota
del 10% (con le limitazioni per i beni significativi, se la
stufa non si limita a riscaldare l'ambiente, ma è
qualificabile come caldaia in quanto genera calore da
utilizzare per riscaldare l'acqua che alimenta il sistema di
riscaldamento, oltre che per produrre acqua sanitaria)
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Terre da scavo, riutilizzo facile.
Nel decreto 133 norme più tolleranti sulle sostanze
inquinanti in aree da bonificare.
Terre e rocce da scavo riutilizzabili nel sito oggetto di
bonifica anche se caratterizzate da alta presenza di
sostanze inquinanti, purché reimmesse nella stessa area di
provenienza e con specifico placet dell'Autorità competente.
Ad alzare il livello di contaminazione tollerata nel
reimpiego dei materiali prodotti da lavori di escavazione è
il decreto legge c.d. «Sblocca Italia» (dl 12.09.2014, n. 133, pubblicato sulla G.U. del 12.09.2014 n.
212).
I nuovi limiti.
Il decreto legge consente dal 13 settembre scorso (data
della sua entrata in vigore) il reimpiego «in situ» dei
materiali prodotti dagli scavi durante interventi di
bonifica o messa in sicurezza anche qualora superino le
«concentrazioni soglia di contaminazione» (c.d. «Csc») fino
ad oggi poste dal dlgs 152/2006 come generale limite al loro
riutilizzo diretto, portando il livello di accettabilità
fino al più elevato grado di potenziale inquinante
individuato dalle «concentrazioni soglia di rischio» (cd.
Csr»).
E dunque, secondo la definizione delle due soglie
recate dal «Codice ambientale», da livelli di inquinamento
(quelli delle «Csc») ritenuti (in base a parametri oggettivi
di misurazione) al di sotto dei rischi sanitari e ambientali
a valori (i «Csr») da individuare caso per caso in base allo
stato dei luoghi e che, se oltrepassati, impongono (ex
articolo 240, dlgs 152/2006, cd. «Codice ambientale») la
classificazione del sito interessato come «contaminato»
(facendo scattare obblighi di bonifica o messa in
sicurezza).
Le nuove regole operative. In base alle nuove disposizioni
dello «Sblocca Italia», destinate ad incidere sull'intera
disciplina relativa alle terre e rocce da scavo dettata dal
«Codice ambientale», potranno essere riutilizzati nello
stesso sito i terreni escavati nel corso degli interventi di
bonifica con valori superiori alle «concentrazioni soglia di
contaminazione» a condizione che: presentino livelli di
inquinanti comunque inferiori alle citate (e più elevate)
«concentrazioni soglie di rischio»; dette «concentrazioni di
rischio» siano state preventivamente approvate dall'Autorità
pubblica competente mediante convocazione di apposita
Conferenza di Servizi; i terreni inquinati siano reimpiegati
nella medesima area assoggettata all'analisi di rischio;
siano altresì presenti nella stessa area, qualora l'analisi
non abbia avuto ad oggetto il «percorso di lisciviazione»
(ossia di migrazione) in falda degli inquinanti, sistemi di
barrieramento fisico o idraulico di comprovata efficienza ed
efficacia.
Le ricadute sul sistema. Le nuove norme rimodulano, come
accennato, l'intero equilibrio della disciplina prevista da
«Codice ambientale» e provvedimenti satellite sui materiali
da scavo. Sia in base all'articolo 184-bis (sui
«sottoprodotti», ossia sui residui fin dalla loro produzione
esclusi dal regime dei rifiuti) che all'articolo 184-ter
(sulla «cessazione della qualifica di rifiuto», ossia sui
residui riabilitati a beni dopo operazioni di recupero) del Dlgs 152/2006 il riutilizzo dei residui (terre da scavo
comprese) è a monte ritenuto lecito solo ove non comporti
impatti negativi sull'ambiente e sulla salute umana. A
declinare i valori massimi di inquinanti tollerabili nei
materiali da riutilizzare sono poi specifiche norme dettate,
per i sottoprodotti, dal dm Ambiente 161/2012 e
dall'articolo 41-bis del dl 69/2013 e, per le «materie prime
secondarie» (nelle more dei nuovi regolamenti sull'«end of
waste»), dal dm 05.02.1998.
In relazione, in
particolare, al riutilizzo dei residui come «sottoprodotti»
(fattispecie nella quale ordinariamente viene inquadrato il
reimpiego in situ delle terre e rocce escavate durante
lavori di cantiere) sia il dm Ambiente 161/2012 (relativo
alle terre provenienti da impianti sottoposti a disciplina
di «valutazione di impatto ambientale o «autorizzazione
integrata ambientale» ex dlgs 152/2006) che l'articolo
41-bis del dl 69/2013 (relativo alle terre provenienti da
altri impianti) stabiliscono che i requisiti di qualità
ambientale previsti dal citato articolo 184-bis del «Codice
ambientale» risultano soddisfatti quando il contenuto di
sostanze inquinanti dei materiali da scavo sia inferiore
alle «concentrazioni soglia di contaminazione (Csc)»,
previste dalle colonne A e B tabella 1 allegato 5, al Titolo
V Parte IV del dlgs 152/2006 (con riferimento alla specifica
destinazione d'uso urbanistica o ai valori di fondo
naturali).
Ma con lo «Sblocca Italia» i binari normativi sul riutilizzo
delle terre e rocce da scavo inquinate si arricchiscono di
scambi: se prodotte nel corso di attività di bonifica o
messa in sicurezza, il loro reimpiego diretto potrà essere
condotto secondo le nuove e descritte regole dettate dal Dl
133/2014; in tutti gli altri casi (ossia, terre escavate
durante bonifica ma destinate ad essere portate fuori sito,
oppure prodotte nell'ambito di attività diverse dalla
bonifica e destinate indifferentemente da restare in sito o
ad essere spostate in altro luogo geografico) si dovrà
continuare ad osservare l'originaria (e più restrittiva)
disciplina del dlgs 152/2006 e provvedimenti connessi.
E il «drafting normativo». Lungi dall'esser inserite
direttamente nei citati e preesistenti atti normativi a
tutela dell'eco-sistema, le nuove disposizioni in materia
sono dallo «Sblocca Italia» introdotte nell'Ordinamento
giuridico tramite una novella al dlgs 163/2006 (il noto
«Codice appalti»).
Se tale scelta può apparire giustificata dalle finalità del
nuovo dl (recante «Misure urgenti», tra le altre, «per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche», tanto che proprio in relazione alle opere di
bonifica prevede delle deroghe alle ordinarie regole di
affidamento ex «Codice appalti») la stessa scelta sembra
meno opportuna dal più generale punto di vista sistematico,
portando ad una ulteriore atomizzazione del già complesso
quadro normativo sulla gestione ambientalmente sostenibile
dei materiali da scavo: oltre alle citate disposizioni del
«Codice ambientale», del dm 05.02.1998, del dm
161/2012, del dl 69/2013, occorrerà ora far riferimento
anche a quelle ora presenti nel dlgs 163/2006, senza
dimenticare le norme recate dal dl 2/2012 (a mente del quale
le regole relative al suolo, dunque anche a quello escavato,
si applicano altresì ai «materiali di riporto», ossia quelli
caratterizzati da presenza di elementi antropici, ivi
contenuti) e le disposizioni di altri due atti essenziali
per la corretta lettura delle stesse norme di settore: la
Nota Minambiente 14.05.2014 n. 1338 (sulle metodiche di
analisi da utilizzare per sondare il potere inquinante dei
materiali da scavo) e la sentenza Tar Lazio 10.06.2014
n. 6187 (sulla non più applicabilità del limite del 20%
massimo di componente antropica imposto dal dm 161/2012 per
il legittimo riutilizzo delle terre escavate che la
contengono)
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
APPALTI: P.a.-imprese, l'Anac mette pace. Priorità alle istanze
congiunte o di importi rilevanti. Gli effetti del regolamento sul precontenzioso dell'Autorità
nazionale anticorruzione.
L'Anac in pista per la risoluzione dei precontenziosi tra
imprese e pubbliche amministrazioni. Priorità alle istanze
congiunte e a quelle innovative che presentano questioni di
particolare impatto per il settore degli appalti pubblici.
Legittimati a presentare l'istanza sono i soggetti portatori
di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di
interessi diffusi costituiti sotto forma di associazioni o
di comitati. La stazione appaltante o una parte interessata
ovvero più parti interessate possono, singolarmente o
congiuntamente, rivolgere all'autorità un'istanza di parere
per la formulazione di una ipotesi di soluzione della
questione insorta durante lo svolgimento delle procedure di
gara degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
La priorità è data alle richieste congiunte o di importo
rilevante o di particolare impatto per il settore. L'Anac
rilascia il parere entro 90 giorni.
È con il nuovo
regolamento approvato lo scorso 2 settembre dall'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac) che è stato istituito un
ufficio ad hoc dedicato al precontenzioso. Il regolamento è
operativo dal 13 settembre e cioè dal giorno successivo alla
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (provvedimento 02.09.2014, pubblicato sulla G.U. ufficiale del 12.09.2014 n. 212).
Le istanze devono essere redatte utilizzando la modulistica
allegata al regolamento, che va trasmessa preferibilmente
tramite posta elettronica certificata. Nella predisposizione
dell'istanza, le parti possono chiedere che, in sede di
pubblicazione del parere, vengano esclusi eventuali dati
sensibili espressamente segnalati. Le richieste dichiarate
inammissibili, se riguardano, comunque, questioni giuridiche
ritenute rilevanti, sono trattate ai fini dell'adozione di
una pronuncia dell'Autorità anche a carattere generale. Le
istanze diventano improcedibili in caso di sopravvenienza di
una pronuncia giurisdizionale di primo grado sulla medesima
questione oggetto del parere, di sopravvenuta carenza di
interesse delle parti, di rinuncia al parere.
Sono trattate in via prioritaria le istanze di parere
presentate congiuntamente dalla stazione appaltante e da
almeno un partecipante alla procedura di gara. In caso di
istanze presentate singolarmente, si dà la precedenza alle
istanze presentate dalla stazione appaltante e alle istanze
concernenti appalti di rilevante importo economico (lavori:
importo superiore a 1.000.000 di euro, servizi e forniture:
importo superiore alla soglia comunitaria) e infine alle
istanze che sottopongono questioni originali di particolare
impatto per il settore dei contratti pubblici.
Le archiviazioni delle istanze per inammissibilità e/o
improcedibilità sono approvate dal consiglio dell'autorità e
comunicate alle parti interessate.
Istruttoria dell'istanza. L'ufficio comunica alle parti
l'avvio dell'istruttoria concedendo il termine di dieci
giorni per la presentazione di memorie e ulteriori
documenti. Valuta, sulla base della documentazione e delle
informazioni acquisite, la necessità di procedere
all'audizione delle parti interessate.
Il parere, redatto dall'ufficio con la collaborazione del
consigliere relatore e che contiene anche l'indicazione dei
principi di diritto ivi espressi, viene sottoposto
all'approvazione del consiglio. L'attività di massimazione
dei pareri è di competenza dell'ufficio.
Il parere può essere reso in forma semplificata nei casi in
cui la questione oggetto dell'istanza risulti di pacifica
risoluzione, tenuto conto del quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento.
Inammissibilità. Non sono ammissibili le istanze: in assenza
di una controversia insorta tra le parti interessate;
incomplete delle informazioni indicate come obbligatorie e
della documentazione di cui al modulo allegato; non
sottoscritte dalla persona fisica legittimata a esprimere
all'esterno la volontà del soggetto richiedente.
Le richieste dichiarate inammissibili, se riguardano,
comunque, questioni giuridiche ritenute rilevanti, sono
trattate ai fini dell'adozione di una pronuncia
dell'Autorità anche a carattere generale. Le istanze
divengono improcedibili in caso di sopravvenienza di una
pronuncia giurisdizionale di primo grado sulla medesima
questione oggetto del parere, di sopravvenuta carenza di
interesse delle parti, di rinuncia al parere. Sono trattate
in via prioritaria le istanze di parere presentate
congiuntamente dalla stazione appaltante e da almeno un
partecipante alla procedura di gara. Non è ammissibile
l'istanza avente a oggetto il riesame di una questione
controversa già definita con parere di precontenzioso o per
la quale sia stata disposta l'archiviazione, fatta salva
l'ipotesi in cui vengano dedotte e documentate sopravvenute
ragioni di fatto e/o di diritto.
Contenuto dell'istanza. L'istanza presentata dalla stazione
appaltante, congiuntamente o singolarmente, deve contenere
l'impegno a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini
della risoluzione della questione, fino al rilascio del
parere. Quando l'istanza è presentata da una parte diversa
dalla stazione appaltante, con la comunicazione di avvio
dell'istruttoria, l'Autorità formula alla stazione
appaltante l'invito a non porre in essere atti
pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione,
fino al rilascio del parere. Con cadenza quindicinale, le
istanze di parere sono assegnate dal presidente ai singoli
consiglieri relatori, previa esclusione di quelle ritenute
manifestamente inammissibili o improcedibili. Individuato il
consigliere relatore, l'istanza è trasmessa all'ufficio per
la relativa attività istruttoria.
Cauzione definitiva e provvisoria. La cauzione definitiva ha
lo scopo di garantire la corretta esecuzione dell'appalto,
imponendo all'esecutore del contratto la costituzione di una
garanzia fideiussoria pari al 10% dell'importo contrattuale
con cui il fideiussore si impegna a risarcire la stazione
appaltante del mancato o inesatto adempimento del
contraente. La cauzione provvisoria, nella misura pari al 2%
dell'importo indicato nel bando di gara o nella lettera
d'invito, ha la finalità di garantire la serietà e
l'affidabilità dell'offerta stessa. Queste alcune delle
indicazioni operative necessarie per chiarire alcune
criticità riscontrate nell'applicazione dell'istituto della
cauzione. È con la determinazione dell'Anac n. 1 del
29/07/2014 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 88/2014)
che vengono affrontate le problematiche sull'uso della
cauzione provvisoria e definitiva (artt. 75 e 113, dlgs n.
163/2006). La cauzione provvisoria può essere costituita, in
contanti ovvero in titoli del debito pubblico garantiti
dallo stato oppure sotto forma di fideiussione. Quest'ultima
può essere bancaria o assicurativa o rilasciata da
intermediari finanziari che svolgono in via esclusiva o
prevalente attività di rilascio di garanzie e che sono
sottoposti a revisione contabile da parte di una società di
revisione .
Svincolo cauzione. Con la determinazione n. 1 del 29/07/2014
(pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 88/2014) l'Anac ha
precisato che la cauzione definitiva viene progressivamente
svincolata in base al combinato disposto di cui agli
articoli 123, comma 1 del regolamento e 113 del codice dei
contratti. La cauzione garantisce l'esecuzione del
contratto, e potrà essere escussa nei limiti del danno
effettivo e delle ulteriori voci previste dal citato
articolo 123 del regolamento, ferma restando la possibilità
di agire per il maggior danno, ove la somma accantonata non
sia sufficiente. Lo svincolo della cauzione è legato allo
stato di avanzamento dei lavori nei limiti dell'80%
dell'importo garantito e alla consegna al garante del
certificato relativo allo stato di avanzamento lavori. È
rimessa, invece, alla stazione appaltante la decisione circa
l'importo da svincolare, nonché con riguardo alla fase
temporale in cui svincolare
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze variabili. Antincendio con doppio criterio.
Concentrazione di persone e numero degli edifici.
La distanza minima di 100 metri dalle condotte di trasporto
dei gas infiammabili deve intendersi in riferimento ai
luoghi di concentrazione di almeno 100 persone. Ma in caso
di più edifici il dato numerico non è determinato dalla
somma degli affollamenti.
Lo ha chiarito il Dipartimento dei vigili del fuoco con la
nota 05.09.2014 n. 10694.
Le disposizioni in materia di prevenzione incendi sono molto
dettagliate e per questo una società specializzata nel
trasporto in rete del gas naturale ha richiesto chiarimenti
in merito alla sua rete di trasporto e agli impianti di
compressione.
Con particolare riferimento al dm 17.04.2008 recante la regola tecnica per gli impianti di trasporto
del pregiato combustibile con densità non superiore a 0,8 mpa, specifica la nota centrale, si chiarisce che per luoghi
di concentrazione delle persone per i quali è prescritta una
distanza minima di 100 metri dalle condotte di 1ª specie
occorre fare riferimento a quei luoghi in cui sia prevista
«la presenza di pubblico con un affollamento presumibile
superiore a 100 persone, con esclusione, pertanto, delle
attività produttive che non presentino tale condizione». Nel
caso di più edifici, fisicamente separati, la distanza dovrà
calcolarsi rispetto al singolo edificio più vicino senza
sommare le persone degli altri stabili.
Si ritiene poi di
escludere dalle distanze di sicurezza i manufatti monopiano
privi di serramenti destinati a un impiego occasionale
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - VARI:
Pubblici o privati Sempre ascensori.
Un decreto elimina le distinzioni.
Eliminazione della distinzione tra gli ascensori in
relazione al servizio (privato o pubblico) svolto.
Competenza della direzione generale del trasporto pubblico
locale a svolgere le verifiche periodiche prescritte al fine
del mantenimento in esercizio degli ascensori di pubblico
trasporto.
Lo prevede lo schema di schema di dpr (regolamento del
ministero delle infrastrutture e dei trasporti) recante
modifiche al dpr n. 162 del 30.04.1999 (Norme di
attuazione della direttiva 95/16/Ce sugli ascensori) su cui
il Consiglio di stato ha dato il proprio responso positivo
(parere
01.09.2014 n. 2821).
Le modifiche proposte con il provvedimento in esame -rese
necessarie dall'esigenza di superare una procedura di
infrazione nei confronti dell' Italia per la distinzione che
viene fatta nei regolamenti interni tra ascensori -in
servizio privato e in servizio pubblico-, perseguono la
finalità di adeguare il più possibile correttamente ed
integralmente il contenuto del testo che si va a modificare,
con riferimento agli artt. 11, 12 e 13, alle disposizioni
della direttiva 95/16, in via preliminare eliminando ogni
distinzione tra ascensori privati e ascensori in servizio
pubblico, non prevista nella direttiva in questione.
Il provvedimento fa rinvio ad un decreto del ministero per
l'individuazione delle procedure inerenti alle verifiche e
prove periodiche per il funzionamento in sicurezza degli
ascensori adibiti al servizio pubblico
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lavori in casa a corto di semplificazioni. I
moduli unici per Scia e permesso di costruire operativi solo
in quattro Regioni.
In teoria i modelli unici per i
lavori in casa sono pronti da giugno in due versioni: la
segnalazione certificata di inizio attività (per gli
interventi minori) e il permesso di costruire per le nuove
costruzioni e gli ampliamenti. Adottati prima con l'intesa
Stato–Città-Regioni e poi «rafforzati» e resi obbligatori
per legge (Dl 90/2014).
Lo scopo è chiaro: abolire gli 8mila formulari, variegati e
personalizzati, per far sì che moduli, documenti e carte da
allegare per spostare un tramezzo o per costruire una
villetta siano uguali da Torino a Palermo.
Peccato che oggi, a più di tre mesi dall'annuncio,
l'unificazione non sia neanche a metà strada: solo quattro
Regioni (Piemonte, Emilia Romagna, Lazio e Marche) hanno
iniziato il percorso per recepire i modelli. Nel resto
d'Italia i tecnici sono più o meno tutti all'opera, ma tra
tavoli di coordinamento, passaggi burocratici e svariati
atti regionali e comunali nessuno può dire con certezza
quando il lavoro sarà completato.
Infatti, anche una volta
raggiunto l'accordo con gli enti locali, difficilmente la
Regione se la sente di imporre scadenze e lascia alla buona
volontà comunale i tempi dell'adeguamento. Complice anche la
scarsa chiarezza della legge. In teoria il Dl 90 prevede una
scadenza unica per l'entrata in vigore dei modelli unici in
tutti i Comuni: «30 giorni» dal termine indicato nell'intesa
Stato–Regioni. Peccato però che lì di termini non c'è
traccia.
«Il processo di adeguamento sul territorio va accelerato -riconosce Silvia Paparo, a capo dell'unità di
semplificazione della Funzione pubblica-, ma la normativa
cambia da Regione a Regione e quello che si può fare da una
parte con un titolo abilitativo non si può fare da
un'altra». E promette: «Noi non molleremo: il nostro
obiettivo è arrivare a un'adozione al 100% e lo
verificheremo con un monitoraggio costante».
Le prime
A far da apripista per il modello unico per i lavori edili è
stato il Piemonte. La prima Scia inviata online risale al
2013 e da allora sono ormai 72.559 le istanze presentate con
i modelli unici e in via telematica. Di queste, quasi la
metà sono quelle legate alla ricostruzione post terremoto in
Emilia Romagna, regione alla quale il Piemonte ha "offerto"
il servizio dopo il sisma. Un'esperienza pilota (114 su
1.206 i Comuni aderenti) che è servita anche al tavolo
tecnico nazionale. Ora la Regione è di fatto allineata in
modo automatico. «Completeremo il lavoro a ottobre con il
nuovo modello di permesso di costruire», spiega Livio
Dezzani, a capo della Direzione edilizia regionale.
In Emilia Romagna c'è anche una data certa (il 5 gennaio
2015) in cui, volenti o nolenti, tutti i Comuni dovranno
accettare i nuovi standard, perché, per legge, i vecchi
decadranno. Qui l'allineamento del Comune è addirittura
premiato con priorità sui finanziamenti regionali. Il Lazio
ha recepito con delibera i modelli ed entro ottobre offrirà
ai Comuni una versione adattata, in un portale dedicato.
Proprio da oggi anche le Marche forniscono i due modelli e
invitano i Comuni ad adottarli.
In arrivo
Farà presto la Puglia, che ha già unificato i modelli nel
2013 e ora deve solo adattarli. A breve potrebbero arrivare
Toscana, Veneto, Liguria, Campania e Calabria. Ma anche
allora sarà tutto da avviare l'adeguamento dei singoli
Comuni. Un aiuto alla diffusione di questa semplificazione
arriva dagli architetti. Il Consiglio nazionale ha lanciato
la campagna «Adotta il modulo», chiedendo agli iscritti di
diffonderne l'utilizzo.
Ma è il punto di partenza a essere diverso: oggi esistono
venti leggi regionali sull'edilizia, più un regolamento
edilizio per ogni Comune. E il primo tentativo di avviare la
semplificazione con un regolamento tipo è fallito: la norma
non c'è più nella versione definitiva dello Sblocca-Italia.
Una delusione per Ance e professionisti: «È la vera riforma
-commenta il presidente degli architetti, Leopoldo Freyrie-,
perché rende uguali definizioni e metodi di calcolo e
speriamo si possa inserire di nuovo nel decreto». Già,
ma se così fosse, anche il regolamento edilizio unico
rischierebbe di restare sulla carta per anni (articolo Il Sole 24 Ore del
22.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Dagli acquisti ai servizi, così le aggregazioni locali.
Centrali uniche, l'obbligo non è limitato alla fase di gara.
Piccoli enti. Entro il 30 settembre vanno associate altre
tre funzioni fondamentali.
Comincia un periodo
ricchissimo di scadenze per i piccoli Comuni, per gli
obblighi di gestione associata che la legge da tempo certa
con difficoltà di imporre agli enti di minore dimensione.
Entro il 30 settembre, secondo il calendario ufficiale, i
Comuni fino a 5mila abitanti (3mila in montagna) dovrebbero
far confluire nelle gestioni associate altre tre funzioni
fondamentali, ma sulle prospettive concrete di questa
evoluzione i dubbi sono molti. Dal 1° gennaio, poi,
scatteranno in due tappe gli obblighi relativi agli acquisti
per tutti i Comuni non capoluogo di Provincia.
L'Unione dei
comuni rappresenta una delle opzioni a disposizione, ma
quali sono esattamente le funzioni da conferire all'Unione?
Quali gli obiettivi da raggiungere?
L'articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti dispone
che gli enti debbano avvalersi della centrale unica di
committenza (Cuc). In base al comma 3, la centrale può
assumere anche le funzioni di stazione unica appaltante
(Sua) e gestire le gare per conto degli enti. Pertanto, non
sembra più accoglibile la tesi che delimita l'applicabilità
dell'obbligo alla sola fase della gara (Corte dei conti sez.
Piemonte, parere 271/2012). In realtà la nuova disciplina è
orientata al tema dell'aggregazione della domanda, come può
evincersi anche dall'inserimento nella nuova formulazione
dell'obbligo di centralizzare le spese di limitato importo
effettuate dai Comuni con popolazione fino a 10mila abitanti
(per le quali non serve alcuna gara). Occorre evidenziare la
duplice ratio delle prescrizioni: obbligo di aggregazione
degli acquisti per contenere la spesa pubblica, e
possibilità di centralizzare le gare per assicurare
trasparenza ai contratti.
In questo quadro, si pone il problema delle spese di
limitato importo, che un ente potrebbe acquisire rapidamente
in base all'articolo 125 Codice dei contratti e che invece
la norma in esame intende accentrare presso l'Unione; per
questa ragione è auspicabile che il legislatore consideri
nuovamente la richiesta di Anci di esentare tutti gli enti
dall'obbligo di accentrare tali spese, per ragioni di
snellimento amministrativo e di razionalità gestionale, e
non solo i Comuni con più di 10mila abitanti.?
Ma il nodo essenziale è un altro. L'obbligo di
centralizzazione è poco compatibile con alcune forniture o
servizi, di competenza di quei specifici settori che non
sono stati unificati e rispetto ai quali l'Unione non
dispone quindi di adeguate competenze. Ad esempio,
l'acquisto di libri per la biblioteca o l'affidamento in
gestione della stessa, con appalto o concessione, non sono
spese utilmente accentrabili se non è stata conferita la
funzione «cultura».
Si potrebbe quindi sostenere che l'obbligo riguardi solo i
principali acquisti di beni e servizi di natura
"trasversale" e che non possa riguardare tutti gli acquisti
dei singoli settori. Gli enti in particolare devono
associare l'ufficio acquisti, grazie al quale è possibile ad
esempio ridurre i costi di fornitura della cancelleria;
un'applicazione letterale della disposizione, con
riferimento a ogni possibile voce di spesa, determinerebbe
una burocratizzazione eccessiva delle procedure e una
fusione strisciante degli enti locali, al di là di quelle
che sono le scelte di tipo associativo.
In attesa di un autorevole chiarimento in materia, occorre
sottolineare come questa ricostruzione sia del tutto
coerente con quelli che sono gli obblighi associativi
vigenti per i piccoli Comuni, nella convinzione che in
un'epoca come questa sia necessario non rimandarne
ulteriormente l'avvio.
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Possibile il ricorso alle Province. Le soluzioni. Sono quattro le scelte previste dalla legge.
Si è determinato in
questi ultimi mesi un intreccio assai complesso di norme e
interpretazioni in materia di acquisti, che rischia di
seminare il caos negli enti locali a partire dal 01.01.2015.
In base all'articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei
contratti, i Comuni non capoluogo di provincia devono
procedere all'acquisizione di lavori, beni e servizi
mediante una delle seguenti opzioni:
- le unioni dei Comuni (articolo 32 del Tuel);
- un apposito accordo consortile tra i comuni (tale
locuzione sembra riconducibile allo schema della convenzione
ex articolo 30 del Tuel);
- un soggetto aggregatore;
- le Province (articolo 1, comma 88, della legge 56/2014).
In alternativa, gli stessi Comuni possono acquisire beni e
servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto
gestiti da Consip o da altro soggetto aggregatore (ad
esempio, regionale). L'Anac non rilascerà il codice
identificativo gara (Cig) ai Comuni non capoluogo di
provincia che procedano all'acquisizione di lavori, beni e
servizi in violazione di questi adempimenti.
In base all'articolo 23-ter della legge 114/2014, la norma
si applica per le gare bandite dal 01.01.2015 per i
servizi e le forniture e dal 01.07.2015 per i lavori. In
forza del comma 3 della stessa norma, i Comuni con
popolazione superiore a 10mila abitanti possono procedere
autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di
valore inferiore a 40mila euro.
Si pone il problema di predisporre soluzioni organizzative
adeguate per gestire le spese superiori a tale soglia, e,
negli enti minori, tutte le spese indipendentemente
dall'importo. Nella consapevolezza che si tratta di un nodo
dirimente per la funzionalità degli enti locali, chiamati a
contemperare esigenze di autonomia e di semplificazione
amministrativa, da un lato, e di drastica riduzione della
spesa, dall'altro (articolo Il Sole 24 Ore del
22.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO: Amministratori dietro i banchi. Formazione di 75 ore per chi
aspira a gestire condomini. In arrivo in Gazzetta Ufficiale il regolamento che
disciplina le competenze dei professionisti.
Anche gli amministratori di condominio dovranno andare a
scuola. Sia prima di iniziare l'attività che per aggiornarsi
mentre la svolgono. D'ora in poi, infatti, chi vorrà
iniziare la professione dovrà fare un corso specifico, a
meno che già non amministri un condominio. In quel caso
sarà, comunque, tenuto a seguire ogni anno un corso di
aggiornamento professionale.
A stabilirlo il decreto sulla formazione degli
amministratori che sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
del 24 settembre.
Il regolamento, snello e composto di soli
5 articoli, dà attuazione a una parte del decreto legge n.
145/2013, il cosiddetto Destinazione Italia, che ha previsto
una specifica normativa di disciplina della formazione
professionale degli amministratori di condominio. Il
decreto-legge e la precedente legge 220/2012, come ha
spiegato il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria
Ferri, «hanno sancito la necessità di garantire che coloro
che svolgono l'attività di amministratori di condominio
abbiano le necessarie competenze tecniche indispensabili per
assolvere a tutti i compiti che la legge impone agli
amministratori di condominio».
La parola chiave quindi è competenza. Attraverso due
strumenti: la selezione di responsabili scientifici e
formatori e le materie che dovranno essere oggetto dei
corsi, di 72 ore quelli per la formazione iniziale degli
aspiranti, di cui almeno un terzo secondo moduli che
prevedono esercitazioni pratiche, di 15 ore quelli di
aggiornamento periodico per chi già è in attività. I corsi
di formazione e di aggiornamento contengono moduli didattici
attinenti le materie di interesse dell'amministratore tra
cui la sicurezza degli edifici, le problematiche in tema di
spazi comuni, regolamenti condominiali, i diritti reali con
particolare riguardo al condominio degli edifici e alla
proprietà edilizia e ancora materie inerenti la normativa
urbanistica, l'utilizzo degli strumenti informatici e la
contabilità. L'inizio di ciascun corso, le modalità di
svolgimento, i nominativi dei formatori e dei responsabili
scientifici sono comunicati al ministero di giustizia non
oltre la data di inizio del corso.
Responsabili scientifici e formatori hanno
requisiti analoghi.
Innanzitutto quelli di onorabilità e professionalità.
Passando ai requisiti culturali, invece, come si legge nel
regolamento, i formatori devono aver conseguito uno di
questi titoli: laurea anche triennale, abilitazione alla
libera professione, oppure docenza in materie giuridiche,
tecniche ed economiche nelle università. Possono svolgere
l'attività di formazione i docenti che abbiano elaborato
almeno due pubblicazioni in tema di diritto condominiale o
di sicurezza degli edifici o chi ha già svolto attività di
formazione su queste materie.
Per quanto riguarda, invece, i responsabili scientifici (che
dovranno poi verificare i requisiti dei formatori e
organizzare i corsi) è previsto che siano docenti
universitari o di scuola superiore di materie giuridiche,
economiche o economiche, ma anche avvocati, magistrati o
professionisti dell'area tecnica (anche in pensione). È il
responsabile scientifico che attesta il superamento, con
profitto, di un esame finale sui contenuti del corso seguito
dai partecipanti
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La marca da bollo con @bollo si acquisterà online.
Le marche da bollo diventano digitali. Nei prossimi mesi i
contribuenti avranno la possibilità di acquistarle online
pagando con carta di credito o bancomat e di «applicarle»
alle richieste telematiche trasmesse alle p.a..
Il progetto
si chiama «@e.bollo» ed è stato lanciato ieri dall'Agenzia
delle entrate.
Un provvedimento, emanato d'intesa con il
capo dipartimento della Funzione pubblica, ha infatti
stabilito le modalità per il pagamento in via telematica
dell'imposta di bollo dovuta per istanze, atti e
provvedimenti inviate a un ente pubblico. Possibilità,
questa, che è stata prevista dall'articolo 1, comma 596
della legge n. 147/2013.
La marca da bollo digitale viene definita come il documento
informatico che costituisce la ricevuta di versamento
dell'imposta. L'obbligo tributario sarà assolto grazie
all'abbinamento dell'identificativo unico di bollo digitale
(Iubd) con l'impronta informatica del documento correlato.
All'inizio «@e.bollo» sarà disponibile esclusivamente sui
siti web delle p.a. che offrono servizi interattivi di
dialogo con gli utenti per la richiesta e il rilascio dei
documenti elettronici. A poco a poco il progetto prevede
l'estensione anche alle richieste e ai relativi atti
scambiati tra cittadini ed enti via posta elettronica.
L'elenco delle amministrazioni che forniscono tale servizio
sarà reso noto prossimamente dalle Entrate e dall'Agenzia
per l'Italia digitale. Sul sito delle Entrate a breve
arriverà pure una guida operativa dedicata ai contribuenti.
Il provvedimento varato ieri definisce i requisiti e gli
adempimenti a carico degli intermediari della riscossione.
Potranno erogare il servizio «@e.bollo» i prestatori di
servizi di pagamento previsti dall'articolo 114-sexies del
testo unico bancario (banche, Poste, istituti di moneta
elettronica), i quali dovranno sottoscrivere un'apposita
convenzione con le Entrate. Sarà quest'ultima a fornire agli
operatori finanziari i codici univoci (Iubd) per la
formazione dei contrassegni digitali. Previsto l'utilizzo
della firma elettronica avanzata per attestare la validità
delle marche.
«La possibilità di associare il pagamento dell'imposta di
bollo agli atti trasmessi in via telematica tra cittadini,
imprese e pubblica amministrazione rappresenta un nuovo
impulso alla digitalizzazione dei procedimenti
amministrativi e alla dematerializzazione dei documenti»,
spiegano le Entrate in una nota, «l'introduzione di @e.bollo
costituisce inoltre un incentivo allo sviluppo di procedure
online per la gestione delle istanze o per il rilascio di
atti e documenti, in un quadro di semplificazione degli
adempimenti a favore dei contribuenti»
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per le istanze imposta di bollo in via digitale.
«Pa» e contribuenti. Il provvedimento.
Con l'emanazione del
provvedimento
19.09.2014 del direttore dell'agenzia delle Entrate sono state fissate le modalità di pagamento in via
telematica dell'imposta di bollo dovuta per le istanze ed
altri atti trasmessi in via telematica da cittadini ed
imprese alla pubblica amministrazione e viceversa.
Il nuovo servizio, denominato "@e.bollo", sarà
effettivamente operativo una volta che gli intermediari
finanziari e le pubbliche amministrazioni, che offriranno
servizi interattivi di dialogo con gli utenti per la
richiesta e lo scambio di documenti elettronici, avranno
implementato le proprie procedure informatiche. Nel caso in
cui una Pubblica amministrazione che intenda offrire servizi
interattivi per lo scambio di documenti non renda
disponibile tale nuova modalità di pagamento attraverso il
proprio sito istituzionale, il cittadino o l'impresa
potranno effettuare il pagamento dell'imposta di bollo in
via telematica attraverso gli intermediari finanziari che
saranno abilitati alla prestazione di tale servizio.
In ogni caso, le amministrazioni saranno responsabili della
verifica del corretto assolvimento dell'imposta di bollo. Il
controllo dovrà avvenire attraverso un software che sarà
reso disponibile sul sito dell'agenzia delle Entrate e su
quello dell'Agenzia per l'Italia Digitale. Qualora tale
verifica abbia esito negativo, l'amministrazione pubblica
sarà tenuta ad inviare un'immediata comunicazione telematica
al contribuente per permettere a quest'ultimo di
regolarizzare la propria posizione entro dieci giorni.
In caso contrario, l'amministrazione dovrà inviare il
documento all'agenzia delle Entrate per la sua
regolarizzazione fiscale e per l'applicazione delle sanzioni
amministrative in materia di imposta bollo. Il punto 2.4 del
Provvedimento direttoriale prevede che in nessun caso è
ammesso il rimborso della Marca da bollo digitale.
Il provvedimento fissa anche i requisiti della Convenzione
che gli intermediari finanziari che intenderanno prestare
tale servizio dovranno stipulare con l'agenzia delle
Entrate. A tal proposito viene previsto, tra le altre cose,
che il compenso spettante agli intermediari a fronte della
prestazione del servizio "@e.bollo" dovrà essere comunque
inferiore a quello previsto per i contrassegni sostitutivi
delle marche da bollo utilizzati sui documenti cartacei.
Infine, il provvedimento diffuso ieri dalle Entrate prevede
che sono fatte salve le specifiche previsioni del Dpr n.
642/1972 che stabiliscono modalità di pagamento particolari,
come ad esempio il cosiddetto "bollo virtuale" previsto
dall'articolo 15 dello stesso Dpr n. 642/1972 (articolo Il Sole 24 Ore del
20.09.2014). |
CONDOMINIO: Condomìni amministrati da professionisti «titolati».
Immobili. Pronto il Dm sui corsi di formazione.
Amministratori
condominiali doc: la formazione diventa obbligatoria con i
criteri del decreto ministeriale che verrà pubblicato la
prossima settimana sulla Gazzetta Ufficiale. L'ultimo step,
l'esame della Corte dei conti, è stato superato senza
intoppi (del resto la norma non ha alcun effetto sulle casse
pubbliche).
Il regolamento è previsto dalla legge 220/2012, in vigore
dal 18.06.2013: il ministero della Giustizia doveva
dettare le regole su criteri e modalità di svolgimento dei
corsi. Un passaggio importante perché, tra i requisiti
indispensabili per poter esercitare la professione, c'è
proprio quello di aver frequentato un corso di formazione
iniziale e di frequentare regolarmente quelli di formazione
periodica.
Sono esentati solo coloro che amministrano il
condomino in cui possiedono un'unità immobiliare e (ma solo
per la formazione iniziale) chi ha svolto la professione per
almeno un anno nell'ultimo triennio precedente all'entrata
in vigore della legge 220/2012 (cioè tra il 18.06.2010 e
il 18.06.2013).
I corsi dovranno avere, i sintesi, questi requisiti:
- 72 ore di lezione per la formazione iniziale (di cui 48 di
teoria e 24 di pratica) e 15 per la periodica;
- i responsabili scientifici e formatori devono avere
anzitutto i requisiti di "onorabilità": godimento dei
diritti civili; non essere stati condannati per delitti
contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della
giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro
delitto non colposo per il quale la legge commina la pena
della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni, e,
nel massimo, a cinque anni; non essere stati sottoposti a
misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia
intervenuta la riabilitazione; non essere interdetti o
inabilitati.
Poi, per quanto riguarda i responsabili
scientifici (che dovranno poi verificare i requisiti dei
formatori e organizzare i corsi) è previsto che siano
docenti universitari o di scuola superiore di materie
giuridiche, o economiche, avvocati, magistrati o
professionisti dell'area tecnica (anche in pensione). Devono
poi avere una «competenza specifica» in materia
condominiale, che va dimostrata. Per i formatori sono
richieste le stesse qualità ma possono svolgere la funzione
anche solo dimostrando di possedere una laurea (anche
triennale) o di essere iscritti a un albo professionale,
sempre fatta salva la «competenza specifica». I formatori
che, prima dell'entrata in vigore del decreto, abbiano
svolto l'attività di formatori per almeno sei anni in corsi
della durata di almeno 40 ore sono esentati dal possesso dei
titoli di studio o professionali.
I contenuti indicati nel Dm della Giustizia non sono
esaustivi, nel senso che ciascun corso potrà svolgersi con
durata anche superiore. Ma i temi prescritti andranno
comunque rispettati come contenuti minimi (articolo
Il Sole 24 Ore del 20.09.2014). |
APPALTI: Gare, meno limiti alle varianti. Semplificati anche i
progetti per le opere di bonifica. DECRETO SBLOCCA ITALIA/Prevista un'accelerazione per i
termini degli appalti.
Meno limiti alle varianti, accelerazione sui termini di gara
e semplificazione sui progetti per le opere di bonifica e di
messa in sicurezza dei siti inquinati. Sono queste le linee
seguite con le diverse modifiche al codice dei contratti
pubblici inserite nel decreto legge 133/2014 (Sblocca
Italia).
Accanto alle modifiche si collocano, però anche diverse
norme derogatorie tese ad accelerare i lavori per gli
interventi per scuole, per la mitigazione del rischio
idrogeologico e per la prevenzione antisismica. In questi
ultimi settori si prevedono infatti meccanismi di
affidamento diretto alle imprese di costruzioni fino a
200.000 euro di lavori e trattative private fino a 1 milione
di euro, senza pubblicità.
Altra deroga, in tema di avvalimento (il «prestito» -da una impresa ad un'altra-
dei requisiti necessari per accedere alle gare), riguarda
l'iscrizione all'albo dei gestori ambientali, che il decreto
133 non prevede possa essere oggetto di avvalimento.
Per quel che invece concerne le modifiche vere e proprie del
decreto 163/2006, il decreto legge interviene in primo luogo
a favore degli interventi di bonifica e/o messa in sicurezza
di siti inquinati. Balza agli occhi la modifica sulla
disciplina delle varianti, che potranno essere sempre
ammesse dal direttore dei lavori (sentito il progettista)
nei casi di bonifica e/o messa in sicurezza di siti
contaminati se superano il valore del 20% (limite più
elevato rispetto agli ordinari interventi, per i quali vige
la soglia del 10%).
Ciò significa che viene raddoppiato il limite entro il quale
eventuali lavori resi necessari in corso d'opera possono
essere direttamente disposti dal direttore dei lavori, senza
la necessità di attivare la procedura di approvazione della
variante. Il decreto prevede inoltre -sempre per le
bonifiche- la possibilità di richiedere di comprovare il
possesso dei requisiti di partecipazione richiesti nel bando
di gara, presentando direttamente in sede di offerta, la
documentazione indicata in detto bando o nella lettera di
invito in originale o copia conforme.
Altra modifica concerne la disciplina della trattativa
privata senza previa pubblicazione del bando di gara: si
ammette che per gli interventi di bonifica, in presenza di
condizioni di urgenza si possa sempre (e non soltanto «nella
misura strettamente necessaria») utilizzare
l'affidamento a trattativa privata senza pubblicità
preventiva. Corsia preferenziale, sempre per gli interventi
di bonifica, si prevede per i termini di ricezione delle
domande e delle offerte: si potranno sempre applicare i
termini di 15 giorni per le domande e di 10 (in caso di
procedura ristretta) per le offerte (che diventano 30 se si
affida anche la progettazione esecutiva).
Si interviene, sempre per le bonifiche, sui livelli
progettuali stabilendo l'applicazione delle stesse regole
che disciplinano i progetti per il settore dei beni
culturali e cioè consentendo al responsabile del
procedimento di graduare -in relazione alla complessità
dell'intervento- i livelli progettuali quando si procede
all'affidamento dell'appalto di lavori e di progettazione
(il cosiddetto appalto integrato). Non necessariamente sarà
quindi sempre effettuata la progettazione su tre livelli
(preliminare, definitivo ed esecutivo).
Infine diverse norme integrano la disciplina del Codice per
la finanza di progetto e le concessioni con la finalità di
rendere maggiormente utilizzabili i project bond e il
credito di imposta per riequilibrare i piani
economico-finanziari e di promuovere investimenti da parte
dei concessionari autostradali
(articolo ItaliaOggi del 19.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO: Paga per l'incidente l'inquilino che crea un passaggio
abusivo. Lastrico solare. Esclusa la responsabilità del proprietario.
L'inquilino che crea un
accesso abusivo sul lastrico solare, non compreso nel
contratto d'affitto benché di proprietà del locatore,
risponde in prima persona dei danni derivanti dall'uso
improprio.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 19657/2014,
esclude la corresponsabilità del proprietario
dell'appartamento per un incidente capitato alla figlia
della domestica dell'affittuaria, precipitata nel locale
sottostante perché una parte del lucernario, che si trovava
sulla terrazza, dove era andata per annaffiare i fiori,
aveva ceduto.
Il Tribunale di primo grado, aveva escluso la responsabilità
del proprietario, affermata invece dalla Corte d'appello in
solido con l'affittuario. La Cassazione è d'accordo con il
giudice di primo grado. In linea generale, chiarisce la
Suprema corte, il proprietario dell'appartamento non si
spoglia dei suoi poteri-doveri di custodia sul lastrico con
il contratto di locazione. A lui incombe, infatti, l'onere
di un generico dovere di conservazione, di controllo e di
intervento sulla manutenzione del terrazzo. Allo stesso modo
conserva il potere di interdire l'accesso al lastrico solare
alle persone non autorizzate per impedire il transito nelle
parti pericolose o non transitabili.
Nel caso esaminato, però, esistevano circostanze particolari
che hanno portato i giudici a escludere la corresponsabilità
del padrone di casa. La collocazione del lastrico era tale
da renderlo accessibile solo attraverso l'appartamento
affittato e questo aveva fatto sì che l'inquilina avesse
conseguito –anche se attraverso la creazione di una porta
finestra realizzata abusivamente– non la custodia di fatto
del lastrico in tutte le sue parti, ma certamente il
controllo sulla possibilità di entrare nel terrazzo,
sottraendo di fatto la possibilità di impedire l'ingresso al
proprietario.
Al locatario era dunque impossibile, dal punto
di vista materiale e giuridico, prevenire ed evitare il
conseguente rischio di danni. La perdita del potere di
controllo rende illegittimo e immotivato il giudizio di
responsabilità formulato dalla Corte d'appello a carico del
proprietario per l'evento che si era verificato e che
quest'ultimo non poteva prevenire.
Il proprietario dal canto suo aveva messo nero su bianco nel
contratto che il lastrico non era compreso nell'affitto e
che ne era precluso l'accesso, disponendo l'appartamento di
una sola veduta sul lastrico. L'affittuaria aveva senza
alcun permesso aperto una porta finestra trasformando il
lastrico in un terrazzo "privato". E non c'era prova
che il proprietario fosse a conoscenza della sua iniziativa (articolo Il Sole 24 Ore del
19.09.2014). |
APPALTI: Elenco Anac delle centrali di committenza aperto a città
metropolitane e unioni.
Elenco Anac delle centrali di committenza aperto a città
metropolitane e unioni o consorzi di comuni che, negli
ultimi tre anni hanno avviato appalti per almeno 260 milioni
di euro, con un minimo di 50.000 euro l'anno.
È questo il
requisito previsto nella bozza di dpcm che detta le regole
per l'iscrizione all'elenco dei «soggetti aggregatori»,
istituito dalla legge 89/2014 presso l'Anagrafe unica delle
stazioni appaltanti, gestita dall'Anac (l'Autorità
anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone).
Il
provvedimento, sul quale sarà necessario acquisire la
delibera preliminare da parte del consiglio dei ministri e
poi l'intesa con la Conferenza unificata, non riguarda la Consip e le centrali costituite da ogni regione, bensì le
città metropolitane (che dal 01.01.2015 subentreranno
alle province, ai sensi della legge 56/2014) e i soggetti
aggregatori costituiti dagli enti locali. Lo schema di
decreto, datato 15.09.2014, stabilisce che potranno
richiedere l'iscrizione all'elenco le città metropolitane,
le province, le associazioni, le unioni e i consorzi di enti
locali comunque denominati ai sensi del Tuel, oltre ai
soggetti da loro costituiti o designati.
Questi soggetti
dovranno svolgere attività di centrale di committenza ai
sensi dell'articolo 33 del codice dei contratti pubblici (dlgs
163/2006), con carattere di stabilità, mediante
un'organizzazione dedicata allo svolgimento di tali
prestazioni. La norma specifica che si deve trattare di
attività di committenza finalizzata al soddisfacimento di
tutti i fabbisogni di beni e servizi dei relativi enti
locali.
Lo schema di decreto precisa inoltre i requisiti che
devono possedere tali soggetti in relazione a quanto già
svolto in passato; in particolare dovranno potere dimostrare
di avere avviato, nei tre anni precedenti la richiesta,
procedure per l'acquisizione di beni e servizi di importo a
base di gara pari o superiore alla soglia comunitaria
(200.000 per servizi e forniture, 5 milioni per lavori), il
cui valore complessivo sia superiore a 260.000.000 euro nel
triennio, con un valore minimo di 50.000.000 euro per
ciascun anno. Per le procedure avviate dalle città
metropolitane, verranno prese in considerazione anche quelle
avviate dalla provincia.
Il provvedimento prevede che l'Anac,
entro 30 giorni dall'entrata in vigore del presente decreto,
con propria determinazione stabilisca le modalità di
presentazione Per quel che attiene alla selezione delle
richieste l'Anac procederà alla verifica del possesso dei
requisiti, attraverso la consultazione della Banca dati
nazionale dei contratti pubblici, e all'iscrizione
all'elenco seguendo un ordine decrescente basato sul più
alto valore complessivo delle procedure avviate dai soggetti
richiedenti.
L'elenco sarà aggiornato entro il 30/09/2017 e
successivamente ogni tre anni
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
cessione di cubatura o asservimento
è un istituto utilizzabile in sede di rilascio di
concessioni edilizie (oggi: permesso di costruire) e la
giurisprudenza amministrativa, nonché quella penale, è
concorde nel ritenere che essa sia utilizzabile, in presenza
di particolari condizioni e limiti, per cui può avvenire
solo tra fondi:
- compresi nella medesima zona urbanistica ed aventi la
stessa destinazione urbanistica, in quanto, se così non
fosse, nella zona in cui viene aggiunta cubatura potrebbe
determinarsi un superamento della densità edilizia massima
consentita dallo strumento urbanistico;
- contigui, nel senso che, anche qualora non si riscontri la
continuità fisica tra tutte le particelle catastali
interessate dalla nuova costruzione, sussista pur sempre,
comunque, una "effettiva e significativa vicinanza tra i
fondi asserviti".
La pratica contrattuale conosce da tempo accordi fra privati
proprietari (cd. "trasferimenti di cubatura") mediante i
quali uno di essi "cede" ad un altro la facoltà di
edificare, esistente sul suo terreno secondo le norme
urbanistiche, affinché il cessionario possa avvalersi di
tale facoltà per ottenere dal Comune, in sede di rilascio
del permesso di costruire, l'autorizzazione a realizzare un
volume edilizio maggiore di quello che gli spetterebbe, sul
terreno di sua proprietà, secondo le previsioni della
pianificazione vigente.
Tale pratica -considerata legittima dalla giurisprudenza
amministrativa- è stata talora recepita e disciplinata in
Leggi Regionali o in strumenti urbanistici, ma è opinione
corrente che ad essa possa farsi ricorso anche a prescindere
da un riconoscimento da parte di norme urbanistiche
regionali e/o comunali.
Il fenomeno in esame invero non lede, di regola, alcun
interesse pubblico in quanto generalmente non si
riconnettono conseguenze negative al solo fatto che la
densità edilizia massima fissata dallo strumento urbanistico
venga sfruttata dal proprietario di un'ampia estensione di
terreno, o da più proprietari associati o da uno dei
proprietari che abbia ottenuto la cessione di facoltà
edificatorie dei suoi vicini, purché comunque sia impedito
il superamento, nella zona complessivamente considerata,
degli standards consentiti dai piano.
Diverso è, però, il caso in cui lo strumento urbanistico
contenga specifiche limitazioni in ordine a tipologie
edilizie o alla densità abitativa, perché in presenza di
limitazioni siffatte il trasferimento di cubatura deve
ritenersi non consentito. Ciò significa che deve ritenersi
inammissibile il trasferimento di cubatura a fronte di una
norma di piano che per le zone agricole, non ammette
costruzioni in lotti di dimensioni inferiori ad un limite
minimo fissato dal piano medesimo, in quanto la ratio di una
disposizione siffatta si connette al prefigurato regime di
edificazione nelle zone agricole ed al nesso di funzionalità
delle costruzioni ammissibili rispetto alla gestione di
aziende agricole.
E’ pacifico in giurisprudenza che la cessione di
cubatura o asservimento è un istituto utilizzabile in sede
di rilascio di concessioni edilizie (oggi: permesso di
costruire) e la giurisprudenza amministrativa, nonché quella
penale, è concorde nel ritenere che essa sia utilizzabile,
in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può
avvenire solo tra fondi:
- compresi nella medesima zona urbanistica ed aventi la
stessa destinazione urbanistica, in quanto, se così non
fosse, nella zona in cui viene aggiunta cubatura potrebbe
determinarsi un superamento della densità edilizia massima
consentita dallo strumento urbanistico (vedi C. Stato, sez.
5^: 03.03.2003, n. 1172);
- contigui, nel senso che, anche qualora non si riscontri la
continuità fisica tra tutte le particelle catastali
interessate dalla nuova costruzione, sussista pur sempre,
comunque, una "effettiva e significativa vicinanza tra i
fondi asserviti" (vedi C. Stato, sez. 5^: 30.10.2003, n.
6734; 01.04.1998, n. 400).
La pratica contrattuale conosce da tempo accordi fra privati
proprietari (cd. "trasferimenti di cubatura") mediante i
quali uno di essi "cede" ad un altro la facoltà di
edificare, esistente sul suo terreno secondo le norme
urbanistiche, affinché il cessionario possa avvalersi di
tale facoltà per ottenere dal Comune, in sede di rilascio
del permesso di costruire, l'autorizzazione a realizzare un
volume edilizio maggiore di quello che gli spetterebbe, sul
terreno di sua proprietà, secondo le previsioni della
pianificazione vigente.
Tale pratica -considerata legittima dalla giurisprudenza
amministrativa- è stata talora recepita e disciplinata in
Leggi Regionali o in strumenti urbanistici, ma è opinione
corrente che ad essa possa farsi ricorso anche a prescindere
da un riconoscimento da parte di norme urbanistiche
regionali e/o comunali. Il fenomeno in esame invero non
lede, di regola, alcun interesse pubblico in quanto
generalmente non si riconnettono conseguenze negative al
solo fatto che la densità edilizia massima fissata dallo
strumento urbanistico venga sfruttata dal proprietario di
un'ampia estensione di terreno, o da più proprietari
associati o da uno dei proprietari che abbia ottenuto la
cessione di facoltà edificatorie dei suoi vicini, purché
comunque sia impedito il superamento, nella zona
complessivamente considerata, degli standards consentiti dai
piano.
Diverso è, però, il caso in cui lo strumento urbanistico
contenga specifiche limitazioni in ordine a tipologie
edilizie o alla densità abitativa, perché in presenza di
limitazioni siffatte il trasferimento di cubatura deve
ritenersi non consentito. Ciò significa che deve ritenersi
inammissibile il trasferimento di cubatura a fronte di una
norma di piano che per le zone agricole, non ammette
costruzioni in lotti di dimensioni inferiori ad un limite
minimo fissato dal piano medesimo, in quanto la ratio
di una disposizione siffatta si connette al prefigurato
regime di edificazione nelle zone agricole ed al nesso di
funzionalità delle costruzioni ammissibili rispetto alla
gestione di aziende agricole
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 19.09.2014 n. 1657 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
noto che “una ristrutturazione edilizia postula
necessariamente la presenza di un fabbricato da
ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura, onde la
ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo
demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova
opera e come tale è soggetta alle comuni regole edilizie
vigenti al momento della riedificazione”.
Sicché “la ricostruzione di ruderi deve essere considerata,
a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione,
che non può essere equiparata al recupero edilizio non
essendoci nulla da recuperare o mantenere come entità
edilizia esistente e quale unità abitativa, per simile
attività, perciò, deve essere richiesta apposita concessione
edilizia”.
Di là da ogni altro rilievo, è noto che “una
ristrutturazione edilizia postula necessariamente la
presenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un
organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture
orizzontali e copertura, onde la ricostruzione su ruderi o
su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in
parte, costituisce una nuova opera e come tale è soggetta
alle comuni regole edilizie vigenti al momento della
riedificazione”, di guisa che “la ricostruzione di ruderi
deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione
di una nuova costruzione, che non può essere equiparata al
recupero edilizio non essendoci nulla da recuperare o
mantenere come entità edilizia esistente e quale unità
abitativa, per simile attività, perciò, deve essere
richiesta apposita concessione edilizia” (così, in
conformità ad orientamento consolidato, TAR Sicilia,
Palermo, 04.01.2012 n. 1; TAR Campania, Salerno, sez. I, n.
608/2012; Cons. Stato, sez. V, 15.04.2004, n. 2142)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 19.09.2014 n. 1617 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Negli appalti no a salari minimi.
Sentenza Corte di giustizia europea.
Vietato imporre salari minimi negli appalti. Il bando che
preveda che la gara possa essere aggiudicata solo alle
imprese che s'impegnano, nella loro offerta, a retribuire il
loro personale con una retribuzione minima, è contrario alle
norme Ue sulla libera prestazione di servizi. Ciò perché la
condizione (salario minimo) non la stessa valenza in tutti
gli stati membri e quello che l'ha imposta può così
determinare a suo favore un vantaggio concorrenziale.
L'ha
stabilito ieri la Corte di giustizia Ue nella
sentenza
18.09.2014
causa C-549/13.
La vicenda riguarda il diritto della Germania che prevede
che taluni appalti pubblici di servizi possano essere
aggiudicati solo a imprese che, al momento della
presentazione dell'offerta, si siano impegnate a versare al
loro personale una retribuzione oraria minima (euro 8,62),
per evitare il fenomeno c.d. di «dumping sociale».
Nell'ambito di un bando di gara di tale genere, la
condizione è stata pretesa nei riguardi di un subappaltatore
stabilito in un altro stato membro (Polonia); nutrendo dubbi
sulla compatibilità della normativa tedesca con il diritto
dell'Ue, la questione è finita alla corte di giustizia Ue.
Nella sentenza, la Corte afferma che, nel caso in cui un
offerente intenda eseguire un appalto pubblico avvalendosi
esclusivamente di lavoratori impiegati da un subappaltatore
stabilito in uno stato membro diverso da quello cui
appartiene l'amministrazione aggiudicatrice, la libera
prestazione dei servizi non ammette che si obblighi il
subappaltatore a erogare ai lavoratori un salario minimo.
Non si ammette perché ciò comporta la restrizione alla
libera prestazione dei servizi sotto forma di «onere
economico supplementare» (una sorte di «dazio»),
capace di impedire, ostacolare o rendere meno attraente
l'esecuzione delle prestazioni in questo stato membro.
Imporre un salario minimo, aggiunge infine la corte,
potrebbe arrecare un vantaggio concorrenziale allo stato
membro per il quale tale retribuzione è congrua con
riferimento al proprio costo della vita, ma che non ha alcun
rapporto con il costo della vita negli altri stati membri
(articolo ItaliaOggi del 19.09.2014). |
APPALTI:
Il salario minimo prescritto fra i requisiti di
un appalto pubblico non può essere esteso ai lavoratori di
un subappaltatore stabilito in un altro Stato membro, nel
caso in cui questi eseguono l'appalto soltanto in tale altro
Stato.
L'imposizione, in virtù di una normativa nazionale, di una
retribuzione minima ai subappaltatori di un offerente
stabiliti in uno Stato membro diverso da quello a cui
appartiene l'amministrazione aggiudicatrice e in cui le
tariffe minime salariali sono inferiori costituisce un onere
economico supplementare, atto ad impedire, ostacolare o
rendere meno attraenti le loro prestazioni nello Stato
ospitante. Pertanto, un provvedimento quale quello in
discussione è tale da costituire una restrizione ai sensi
dell'articolo 56 TFUE.
In una situazione nella quale un offerente intende eseguire
un appalto pubblico avvalendosi esclusivamente di lavoratori
impiegati da un subappaltatore stabilito in uno Stato membro
diverso da quello a cui appartiene l'amministrazione
aggiudicatrice, l'articolo 56 TFUE osta all'applicazione di
una normativa dello Stato membro a cui appartiene tale
amministrazione aggiudicatrice che obblighi detto
subappaltatore a versare ai lavoratori in parola un salario
minimo fissato da tale normativa (Corte di Giustizia
Europea, Sez. IX,
sentenza 18.09.2014 n. C-549/13 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Il vice presidente che risulti titolare, a norma
dello statuto, di poteri di rappresentanza è tenuto a
produrre le dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs. n.
163 del 2006, pena l'esclusione dalla gara.
Il vice
presidente che risulti titolare, a norma dello statuto, di
poteri di rappresentanza è tenuto a produrre le
dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006,
pena l'esclusione dalla gara.
In tal senso depongono, nel caso di specie, anche le
argomentazione dell'Amministrazione e la giurisprudenza
dalla stessa richiamata, la quale ammettendo la possibilità
per terzi di assolvere l'obbligo di rendere le dichiarazioni
prescritte dalla legge e, precipuamente, la possibilità per
il rappresentante legale di produrre le dichiarazioni del
citato art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 anche avuto riguardo "ad
altri soggetti in carica, muniti di rappresentanza"
implicitamente afferma e riconosce l'obbligo di tali
soggetti di rendere le dichiarazioni richieste dall'art. 38,
lett. b), c) e m-ter) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 16.09.2014 n. 9733 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI: I cantieri non si fermano. L'estromissione degli indagati
salva l'appalto. Il Consiglio di stato sconfessa il Tar Lombardia sul caso
Expo-Maltauro.
Il dl semplificazioni basta e avanza per far continuare i
lavori di Expo 2015. Il Consiglio di stato smentisce il Tar
Lombardia: la norma del decreto legge 90/2014 conta eccome,
il commissariamento straordinario dell'impresa che prima ha
vinto l'appalto e poi è finita al centro delle indagini
penali consente di non revocare l'aggiudicazione anche se
l'inchiesta in corso ipotizza la consumazione di gravi
reati.
E ciò perché proprio il meccanismo entrato in gioco grazie
alla novella in oggetto ha in sostanza escluso dalla
gestione dell'impresa, e dunque dalla percezione dei
profitti, i soggetti sospettati di illeciti. Risultato:
l'estromissione degli indagati consente di perseguire
l'interesse pubblico costituito dalla rapida esecuzione
dell'opera.
È quanto emerge dall'ordinanza
16.09.2014 n. 4089, Sez. IV, del Consiglio di Stato.
Il provvedimento annulla la decisione del Tar che stoppava
l'appalto integrato per la progettazione esecutiva e la
realizzazione delle architetture di servizio del sito
individuato per lo svolgimento dell'Esposizione Universale.
E fissa al 18 dicembre l'udienza per l'esame nel merito.
Non è vero che il dl 90/2014 sia irrilevante nella causa in
corso: per palazzo Spada costituisce una conferma ex post
che le indagini penali in corso non hanno incidenza
automatica sulla legittimità degli atti di gara: il
legislatore si è infatti posto il problema del rimedio
esperibile quando sulla procedura pubblica si apre
un'inchiesta della procura della Repubblica. E il rimedio è
il commissariamento straordinario.
Non resta che aspettare dicembre. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Sull'accertamento del pericolo di infiltrazione e
condizionamento mafioso.
L'Autorità prefettizia gode della più ampia sfera di
discrezionalità nel selezionare e valorizzare fatti,
circostanze ed accadimenti cui possa ricondursi, anche in
via indiziaria, sintomatica e presuntiva il collegamento e/o
il pericolo di condizionamento mafioso dell' attività di
impresa.
Fra le circostanze e fatti indizianti si riconducono anche i
contatti e le frequentazioni con pregiudicati o soggetti in
rapporto di contiguità alla criminalità organizzata che
possono essere elevati a presupposto per l'adozione della
misura la vita di relazione dell'imprenditore che, proprio
in quanto ripetutisi nel tempo, di per sé assumono
significativo valore indiziario dell'esposizione al pericolo
di condizionamento mafioso, indipendentemente dal concorso
di altri ed ulteriori elementi.
Il biennio di c.d. decantazione e discontinuità da ogni
rapporto di contiguità con soggetti con pregiudizi di
polizia (unitamente al mutamento del luogo di residenza e di
sede aziendale) non è di per sé idoneo ad inficiare, sul
piano della logicità e della proporzionalità al fine
perseguito, la scelta del Prefetto di anticipare la soglia
di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo
del contrasto della criminalità organizzata.
L'accertamento del pericolo di infiltrazione e
condizionamento mafioso ai sensi degli artt. 4 del d.lgs. n.
490 del 1994 e 10 del d.P.R. (ora artt. 90 e segg. del
d.lgs. 159/2011 cit.) è invece preceduto, di volta in volta,
da apposita istruttoria, che si caratterizza come autonoma
per contesto temporale e geografico, elementi acquisiti e
spessore dell'indagine rispetto ad ogni altro provvedimento
avente il medesimo oggetto (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 15.09.2014 n. 4701 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'onere di immediata impugnazione del bando di
gara. Sulla non necessità d'impugnazione dell'atto finale.
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Sulla valutazioni delle offerte da parte della commissione
di gara espresse mediante attribuzione dei punteggi in forma
soltanto numerica.
L'onere di immediata impugnazione del bando è circoscritto
al caso della contestazione di clausole escludenti,
riguardanti requisiti di partecipazione, che siano ex se
ostative all'ammissione dell'interessato, o, al più,
impositive, ai fini della partecipazione, di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale, dovendo le altre clausole essere ritenute
lesive ed impugnate insieme con l'atto di approvazione della
graduatoria definitiva, che definisce la procedura
concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal
provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva; a fronte di una clausola illegittima
della lex specialis di gara, ma non impeditiva della
partecipazione, il concorrente non è ancora titolare di un
interesse attuale all' impugnazione, poiché non sa ancora se
l'astratta e potenziale illegittimità della predetta
clausola si risolverà in un esito negativo della sua
partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una
effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da
tale esito può derivare.
La non necessità d'impugnazione dell'atto finale, quando sia
stato già contestato quello preparatorio, sussiste solo
quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione/conseguenzialità
immediata, diretta e necessaria, nel senso che l'atto
successivo si pone quale inevitabile conseguenza di quello
precedente, perché non vi sono nuove ed autonome valutazioni
di interessi da parte dei soggetti a ciò preposti;
diversamente, quando l'atto finale, pur partecipando alla
medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto
preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile,
perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, l'immediata impugnazione dell'atto
preparatorio non fa venir meno la necessità d'impugnare
l'atto finale.
--------------
La giurisprudenza è ferma nel richiedere, ai fini della
legittimità delle valutazioni delle offerte da parte della
commissione di gara espresse mediante attribuzione dei
punteggi in forma soltanto numerica, una adeguata
articolazione -per specificità dei parametri e limitatezza
del range dei punteggi a ciascuno di essi
attribuibili- dei criteri di valutazione da parte della
lex specialis, essendo altrimenti necessaria una
puntuale motivazione dei singoli punteggi attribuiti.
Per valutare l'idoneità, allo scopo di ridurre in un ambito
fisiologico la discrezionalità tecnica valutativa
esercitabile dalla Commissione, della griglia prefissata,
non può essere ritenuto adeguato (come sembra ritenere l'A.V.C.P.)
soltanto un sistema binario, basato cioè su punteggi 0/1, o
comunque conseguenti ad accertamenti di
inesistenza/esistenza di elementi oggettivamente definiti.
La stessa discrezionalità tecnica implica un margine di
apprezzamento, sindacabile sotto il profilo della logicità e
rispondenza alle regole tecniche ed ai fatti, ma non
eliminabile.
Quel che deve sussistere è invece una griglia (e delle
eventuali motivazioni) che rendano possibile ricondurre
l'attribuzione dei punteggi alla griglia, con
approssimazione logica accettabile, e quindi sindacabile
attraverso le diverse figure dell'eccesso di potere
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 15.09.2014 n. 4698 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cogenerazione,
conta il risparmio di energia primaria.
I chiarimenti del tribunale amministrativo regionale della
Lombardia.
Ai fini della qualificazione di unità di produzione di
cogenerazione ad alto rendimento, ciò che rileva è il
risparmio di produzione di energia primaria (c.d. Pes), e
non già la quantità di energia prodotta mediante
cogenerazione.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del
TAR Lombardia-Milano, con
sentenza
11.09.2014 n. 2347.
È noto che per cogenerazione si intende la conversione della
c.d. energia primaria di un qualsiasi combustibile nella
produzione congiunta di energia elettrica e di energia
termica (calore): la cogenerazione utilizza sistemi di
generazione tradizionali (ad es. motori a combustione
interna, turbine a vapore, turbine a gas, cicli combinati)
dove l'energia termica prodotta viene recuperata e
riutilizzata per usi diversi dalla generazione elettrica (ad
es. usi industriali, teleriscaldamento ecc.).
Per quanto riguarda il riconoscimento di incentivi economici
alla relativa produzione, i giudici lombardi, hanno
evidenziato come in considerazione della sua particolare
efficienza la cogenerazione rispondente a determinati
parametri di rendimento è stata equiparata alle fonti
energetiche rinnovabili (cfr. L 9/1991 e Provvedimenti Cip
n. 34/1990 e n. 6/1992).
Infatti il Tar ha ricordato che «il dlgs 79/1999 -di
attuazione della direttiva 96/92/Ce recante norme comuni per
il mercato interno dell'energia elettrica- ha disposto, fra
l'altro, all'art. 3, comma 3, che, nel garantire agli utenti
della rete elettrica l'accesso al servizio di trasmissione e dispacciamento, l'Autorità per l'energia elettrica e il gas
preveda “l'obbligo di utilizzazione prioritaria dell'energia
elettrica prodotta a mezzo di fonti energetiche rinnovabili
e di quella prodotta mediante cogenerazione”».
Nel 2004, hanno poi sottolineato i giudici amministrativi, è
stata emanata la Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio 2004/8/Ce circa la promozione della cogenerazione
basata su una domanda di calore utile nel mercato interno
dell'energia. Tale direttiva (cfr. art. 1) ha innanzitutto
l'obiettivo di creare un «quadro per la promozione e lo
sviluppo della cogenerazione ad alto rendimento di calore ed
energia» (c.d. Car).
L'art. 7 della Direttiva stabilisce che «gli Stati membri
assicurano che il sostegno alla cogenerazione -unità
esistenti e future- sia basato sulla domanda di calore
utile e sui risparmi di energia primaria, alla luce delle
opportunità disponibili per ridurre la domanda energetica
tramite altre misure economicamente realizzabili o
vantaggiose dal punto di vista ambientale, come altre misure
relative all'efficienza energetica».
La Direttiva è stata recepita nell'ordinamento interno con
il dlgs 08.02.2007, n. 20, che, all'art. 2, definisce
la cogenerazione ad alto rendimento come la cogenerazione
avente caratteristiche conformi ai criteri indicati
nell'allegato III (di identico contenuto, per quanto qui
rileva, all'allegato III della Direttiva 2004/8).
Tale Allegato stabilisce che la cogenerazione ad alto
rendimento deve rispondere ai seguenti due criteri:
a) la produzione mediante cogenerazione delle unità di
cogenerazione fornisce un risparmio di energia primaria,
calcolato in conformità al punto 3, pari almeno al 10%;
b) la produzione mediante unità di piccola cogenerazione e
di micro-cogenerazione che forniscono un risparmio di
energia primaria è assimilata alla cogenerazione ad alto
rendimento.
Ai sensi dell'art. 2 per unità di piccola cogenerazione si
intende un'unità di cogenerazione con una capacità di
generazione installata inferiore a 1 MWe, mentre l'unità di
micro cogenerazione è definita come un'unità di
cogenerazione con una capacità di generazione massima
inferiore a 50 kWe.
I criteri relativi agli impianti di cogenerazione ad alto
rendimento, sopra indicati, sono stati confermati
dall'allegato III al dm 04.08.2011
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sulle parcelle la parola va al Tar.
Spetta al giudice amministrativo la giurisdizione circa le
controversie aventi ad oggetto i pareri di congruità sulle
parcelle professionali degli avvocati.
Lo hanno sostenuto i giudici della III Sez. del TAR Lombardia-Milano, con
sentenza 11.09.2014 n. 2345.
Appare opportuno precisare che in relazione alle
controversie aventi ad oggetto i pareri di congruità sulle
parcelle professionali si sono registrati orientamenti
contrastanti: un parte della giurisprudenza (si vedano Tar
Venezia sez. I n. 183/2014 e n. 1110/2014; Cons. stato sez. VI n. 4942/2013; Tar Milano sez. III n. 1047/2012; Tar Roma
sez. III-quater n. 196/2012; Cons. Stato sez. IV n.
9352/2010) –che, sottolineano i giudici amministrativi
lombardi, appare maggioritaria– ritiene la sussistenza
della giurisdizione del giudice amministrativo in ordine
alla controversia instaurata da un privato nei confronti del
Consiglio dell'Ordine degli Avvocati in relazione al parere
dal medesimo rilasciato sulla liquidazione degli onorari di
un proprio iscritto, stante la natura di ente pubblico non
economico del medesimo Consiglio e il carattere di tale
parere, da ritenere un atto soggettivamente ed
oggettivamente amministrativo, emesso nell'esercizio di
poteri autoritativi, che non si esaurisce in una mera
certificazione della rispondenza del credito alla tariffa
professionale ma implica la valutazione di congruità del
quantum (si vedano Cass. ss.uu. n. 6534/2008; n. 1874/2009;
n. 14812/2009).
Altra parte della giurisprudenza invece (si vedano Tar
Venezia sez. I n. 113/2013; idem n. 1801/2011; Tar Napoli
sez. VIII n. 3496/2009) risulta essere incline a ritenere la
sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario.
Il Tar ha aderito al primo orientamento.
Appare opportuno in questa sede sottolineare che, ai sensi
di legge, le prestazioni professionali forensi sono distinte
in attività stragiudiziale e attività giudiziale: le
attività giudiziali sono distinte in attività penale e
attività civile, amministrativa e tributaria. L'attività
giudiziale civile, amministrativa e tributaria è distinta
nelle seguenti fasi: fase di studio della controversia; fase
di introduzione del procedimento; fase istruttoria; fase
decisoria; fase esecutiva.
L'attività stragiudiziale,
invece, viene liquidata tenendo conto del valore e della
natura dell'affare, del numero e dell'importanza delle
questioni trattate, del pregio dell'opera prestata, dei
risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti
dal cliente, dell'eventuale urgenza della prestazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Schiamazzi notturni: quando il gestore non è responsabile.
Non risponde del reato di disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone il gestore del locale
che abbia esercitato correttamente i poteri di controllo e,
ciononostante, non sia riuscito ad impedire gli schiamazzi
avvenuti all'esterno dell'esercizio commerciale (nella
specie era stato soltanto accertato che, all'esterno dei
locali, stazionavano numerosi giovani che si trattenevano a
consumare bevande, dando luogo a "schiamazzi, urla e risate"
e il Tribunale evidenziava che i gestori non avevano alcun
potere per impedire siffatti schiamazzi sulla pubblica via o
almeno per persuadere i soggetti "a tenere un tono di voce
più moderato", essendo essi "sforniti di qualsiasi potere
coercitivo in caso di rifiuto".)
Il gestore del locale che esercita correttamente il proprio
potere di controllo non è responsabile degli schiamazzi
notturni.
E' quanto emerge dalla
sentenza 05.09.2014 n. 37196 della III Sez. penale della
Corte di Cassazione.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, affinché sussista
la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori,
come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle
persone, è richiesta l'incidenza sulla tranquillità
pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è
la pubblica quiete, sicché i rumori debbono avere una tale
diffusività che l'evento disturbo sia potenzialmente idoneo
ad essere risentito da un numero indeterminato di persone,
pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare
(Cass. pen., Sez. I, n. 47298 del 29.11.2011).
La medesima giurisprudenza ha, in più occasioni, affermato
che il gestore di un esercizio commerciale è responsabile
del reato di cui all'art. 659, comma 1, c.p., per i continui
schiamazzi e rumori provocati dagli avventori dello stesso,
con disturbo delle persone. Infatti la qualità di titolare
della gestione dell'esercizio pubblico comporta l'assunzione
dell'obbligo giuridico di controllare che la frequentazione
del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte
contrastanti con le norme concernenti la polizia di
sicurezza (Cass. pen., Sez. I, n. 16886 del 28.02.2003;
Cass. pen., Sez. I, n. 17779 del 27.03.2008; Cass. pen.,
Sez. I, n. 40004 del 30.09.2009). Perché l'evento possa
essere addebitato al gestore del locale è però necessario
che esso sia riconducibile al mancato esercizio del potere
di controllo e sia quindi collegato da nesso di causalità
con tale omissione.
Nel caso in cui gli schiamazzi avvengano all'interno
dell'esercizio non c'è dubbio che il gestore abbia la
possibilità di assolvere l'obbligo di controllo degli
avventori, impedendo loro comportamenti che si pongano in
contrasto con le norme di polizia di sicurezza, ricorrendo,
ove necessario, al c.d. ius excludendi. Come rilevato
dagli ermellini, nella fattispecie in esame non è in
discussione che gli schiamazzi, le urla e le risate dei
soggetti che stazionavano all'esterno del locale, fossero
tali da disturbare, in orario notturno, il riposo degli
abitanti nella zona e quindi ad offendere la "quiete
pubblica".
La particolarità della fattispecie è però rappresentata dal
fatto che il reato non é stato ritenuto configurabile nei
confronti dei soggetti autori degli schiamazzi e dei rumori,
ma a carico del gestore il quale ha correttamente esercitato
il potere di controllo e, conseguentemente, deve andare
esente da responsabilità (link a www.altalex.com). |
APPALTI:
a) la valutazione della gravità delle condanne
riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità
professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante
e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare
tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun
filtro, ciò implicando un giudizio meramente soggettivo
inconciliabile con la ratio della norma;
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della
puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della
dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo
strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per
contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei
concorrenti alla semplificazione e all’economicità del
procedimento di gara (a non essere, in particolare,
assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche
sotto il profilo strettamente economico, come la prova
documentale di stati e qualità personali, che potrebbero
risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle
amministrazioni appaltanti, di poter verificare con
immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne
per reati gravi che incidono sulla moralità professionale,
potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello
svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta
del contraente, così realizzando quanto più celermente
possibile l’interesse pubblico perseguito proprio con la
gara di appalto, così che la sola mancata dichiarazione dei
precedenti penali o di anche solo taluno di essi,
indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende
legittima l’esclusione dalla gara;
c) anche in assenza di un’espressa comminatoria nella lex
specialis, stante la eterointegrazione con la norma di
legge, l’inosservanza dell’obbligo di rendere al momento
della presentazione della domanda di partecipazione le
dovute dichiarazioni previste dall’art. 38 del D.lgs. n. 163
del 2006 comporta l’esclusione del concorrente, senza che
sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l’integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale;
d) in caso di mancata dichiarazione di precedenti penali non
può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si
tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e
dal bando di gara a pena di esclusione, con la precisazione
che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli
predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente
incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o
equivoca del bando non può determinarsi l’esclusione dalla
gara per l’incompletezza della dichiarazione resa;
e) quanto all’estinzione del reato (che consente di non
dichiarare l’emanazione del relativo provvedimento di
condanna), essa sotto il profilo giuridico non è automatica
per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata
in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione
penale, che è l’unico soggetto al quale l’ordinamento
attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei
presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria,
con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale
provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente
parlarsi di “reato estinto”.
---------------
L’obbligo in capo ai concorrenti di dichiarare tutte le
condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali
si sia beneficiato della non menzione, discende direttamente
dal secondo comma dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006
(come sostituito prima dall’art. 4 del D.L. 13.05.2011, n.
70, convertito con modificazioni in legge 12.07.2011, n.
106, e poi modificato dall’art. 1 del D.L. 02.03.2012, n. 16
convertito in legge 26.04.2012, n. 44), il quale esclude
dalla dichiarazione sole le condanne per reati depenalizzati
ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, nonché
quelle revocate e quelle per le quali sia stata disposta la
riabilitazione.
La Sezione osserva che in tema di
dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare
d’appalto, ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006, possono
ritenersi consolidati i seguenti principi:
a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai
concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale
spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai
concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le
condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro,
ciò implicando un giudizio meramente soggettivo
inconciliabile con la ratio della norma (ex pluribus, Cons.
St., sez. V, 17.06.2014, n. 3092; 24.03.2014, n.
1428; 27.01.2014, n. 400; 06.03.2013, n. 1378; sez. IV, 22.03.2012, n. 1646; 19.02.2009, n. 740);
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della
puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della
dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo
strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per
contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei
concorrenti alla semplificazione e all’economicità del
procedimento di gara (a non essere, in particolare,
assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche
sotto il profilo strettamente economico, come la prova
documentale di stati e qualità personali, che potrebbero
risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle
amministrazioni appaltanti, di poter verificare con
immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne
per reati gravi che incidono sulla moralità professionale,
potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello
svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta
del contraente, così realizzando quanto più celermente
possibile l’interesse pubblico perseguito proprio con la
gara di appalto (Cons. St., sez. V, 1378 del 06.03.2013;
sez. VI, 10.12.2012, n. 6291; sez. III, 17.08.2011, n. 4792), così che la sola mancata dichiarazione dei
precedenti penali o di anche solo taluno di essi,
indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende
legittima l’esclusione dalla gara (Cons. St., sez. IV, 28.03.2012, n. 1646; sez. VI,
02.05.2012, n. 2597);
c) anche in assenza di un’espressa comminatoria nella lex
specialis, stante la eterointegrazione con la norma di
legge, l’inosservanza dell’obbligo di rendere al momento
della presentazione della domanda di partecipazione le
dovute dichiarazioni previste dall’art. 38 del D.lgs. n.
163 del 2006 comporta l’esclusione del concorrente, senza
che sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l’integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale (Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569);
d) in caso di mancata dichiarazione di precedenti penali non
può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si
tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e
dal bando di gara a pena di esclusione (Cons. St., sez. V,
27.12.2013, n. 6271), con la precisazione che solo se
la dichiarazione sia resa sulla base di modelli predisposti
dalla stazione appaltante ed il concorrente incorra in
errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del
bando non può determinarsi l’esclusione dalla gara per
l’incompletezza della dichiarazione resa (Cons. St., sez, III,
04.02.2014, n. 507);
e) quanto all’estinzione del reato (che consente di non
dichiarare l’emanazione del relativo provvedimento di
condanna), essa sotto il profilo giuridico non è automatica
per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata
in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione
penale, che è l’unico soggetto al quale l’ordinamento
attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei
presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria,
con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale
provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente
parlarsi di “reato estinto” (ex multis, Cons. Stato, sez. V,
17.06.2014, n. 3092; 13.12.2012, n. 6393; 24.03.2011, n. 1800).
Deve ancora aggiungersi che l’obbligo in capo ai concorrenti
di dichiarare tutte le condanne penali riportate, ivi
comprese quelle per le quali si sia beneficiato della non
menzione, discende direttamente dal secondo comma dell’art.
38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (come sostituito prima
dall’art. 4 del D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito con
modificazioni in legge 12.07.2011, n. 106, e poi
modificato dall’art. 1 del D.L. 02.03.2012, n. 16
convertito in legge 26.04.2012, n. 44), il quale esclude
dalla dichiarazione sole le condanne per reati depenalizzati
ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, nonché
quelle revocate e quelle per le quali sia stata disposta la
riabilitazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4528 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi edilizi che alterino, anche sotto
il profilo della distribuzione interna, l’originaria
consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento
di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi
non si configurano come manutenzione straordinaria
(né come restauro o risanamento conservativo), ma
rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia,
che è pertanto ravvisabile nella modificazione della
distribuzione della superficie interna e dei volumi e
dell’ordine in cui sono disposte le diverse porzioni
dell’edificio anche per il solo fine di rendere più agevole
la destinazione d’uso esistente: infatti anche in questi
casi si configura il rinnovo di elementi costitutivi
dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e
consistenza fisica dell’immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e risanamento
conservativo, che invece presuppongono la realizzazione di
opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la
distribuzione interna della sua superficie.
E’ stato anche rilevato che costituisce intervento di
ristrutturazione e non di manutenzione edilizia,
ed è come tale soggetto a contribuzione, quello concretatosi
in un insieme sistematico di opere con la conseguente
realizzazione di un nuovo organismo del tutto diverso dal
precedente; peraltro, sebbene sia stato considerato come
manutenzione straordinaria (e non come
ristrutturazione edilizia) l’intervento volto ad
ampliare un’attività commerciale, già in precedente
esercitata, mediante il semplice spostamento interno di
tramezzi, idoneo a realizzare una differente ripartizione
interna dei locali (con rilascio gratuito del relativo
titolo autorizzatoria), sono stati considerati interventi di
ristrutturazione edilizia quelli non destinati
esclusivamente ad assicurare la funzionalità dell’organismo
edilizio esistente, ma diretti a realizzare un quid novi nel
rapporto tra le parti dell’edificio.
---------------
Per definire come manutenzione straordinaria un
intervento edilizio non è sufficiente che esso miri alla
conservazione della destinazione d’uso dell’edificio,
occorrendo che esso, sotto il profilo funzionale, sia
diretto alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti
dell’edificio, mentre, sotto il profilo strutturale, non
comporti modifiche alla consistenza fisica, interna ed
esterna, delle preesistenze.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per
discostarsi, gli interventi edilizi che alterino, anche
sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria
consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento
di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi
non si configurano come manutenzione straordinaria (né come
restauro o risanamento conservativo), ma rientrano
nell’ambito della ristrutturazione edilizia (Cons. St., sez.
V, 17.12.1996, n. 1551), che è pertanto ravvisabile
nella modificazione della distribuzione della superficie
interna e dei volumi e dell’ordine in cui sono disposte le
diverse porzioni dell’edificio anche per il solo fine di
rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: infatti
anche in questi casi si configura il rinnovo di elementi
costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria
fisionomia e consistenza fisica dell’immobile, incompatibili
con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento
conservativo, che invece presuppongono la realizzazione di
opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la
distribuzione interna della sua superficie (Cons. St., sez.
V, 17.03.2014, n. 1326; 18.10.2002, n. 5775; 23.05.2000, n. 2988).
E’ stato anche rilevato che costituisce intervento di
ristrutturazione e non di manutenzione edilizia, ed è come
tale soggetto a contribuzione, quello concretatosi in un
insieme sistematico di opere con la conseguente
realizzazione di un nuovo organismo del tutto diverso dal
precedente (Cons. St., sez. V, 25.11.1999, n. 1971);
peraltro, sebbene sia stato considerato come manutenzione
straordinaria (e non come ristrutturazione edilizia)
l’intervento volto ad ampliare un’attività commerciale, già
in precedente esercitata, mediante il semplice spostamento
interno di tramezzi, idoneo a realizzare una differente
ripartizione interna dei locali (con rilascio gratuito del
relativo titolo autorizzatoria, Cons. St., sez. V,
19.07.2005, n. 3827), sono stati considerati interventi di
ristrutturazione edilizia quelli non destinati
esclusivamente ad assicurare la funzionalità dell’organismo
edilizio esistente, ma diretti a realizzare un quid novi nel
rapporto tra le parti dell’edificio (Cons. St., sez. V,
02.12.1998, n. 1176).
---------------
Per definire come manutenzione
straordinaria un intervento edilizio non è sufficiente che
esso miri alla conservazione della destinazione d’uso
dell’edificio, occorrendo che esso, sotto il profilo
funzionale, sia diretto alla mera sostituzione o al puro
rinnovo di parti dell’edificio, mentre, sotto il profilo
strutturale, non comporti modifiche alla consistenza fisica,
interna ed esterna, delle preesistenze (Cons. St., sez. V,
18.10.2002, n. 5775), condizioni che non si rinvengono nel
caso di specie
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4523 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il programma costruttivo di edilizia residenziale
inerente alla localizzazione di cui all’art. 51 della legge
n. 865 del 1971, non è equiparabile al piano di zona,
rispetto al quale è alternativo e autonomo, essendo soggetto
ad un procedimento semplificato ed accelerato
d’individuazione ed acquisizione delle aree destinate ad
iniziative di edilizia residenziale pubblica, non
assimilabile alla procedura di formazione del p.e.e.p., con
il quale condivide solo l’efficacia; tale localizzazione,
che può avere luogo proprio qualora non possano essere
adottate tempestivamente le complesse procedure di
urbanizzazione previste dalla legge 18.04.1962, n. 167,
impone che nel relativo provvedimento, o al più tardi in
quello di assegnazione delle aree, siano fissati i termini
di cui all’art. 13 della legge 25.06.1865, n, 2359.
L’inosservanza, poi, dei termini d’inizio della procedura
espropriativa e dei lavori, ai quali è riconosciuta natura
ordinatoria, non comporta di per sé la decadenza della
dichiarazione di pubblica utilità, poiché l’inefficacia di
cui all’art. 13, terzo comma, della legge n. 2359 del 1865
consegue non soltanto all’inutile decorso del termine
fissato per il compimento delle operazioni di esproprio, ma
alla scadenza anche dell’altro termine fissato per il
compimento dell’opera, con la conseguenza che fin quando
questo non è spirato ben può l’amministrazione emanare il
decreto ablativo.
Al riguardo la Sezione osserva che, come
già rilevato nell’esposizione in fatto, con la delibera
consiliare n. 44 del 09.07.1984 il Comune di Amantea ha
disposto la localizzazione, ai sensi dell’art. 51 della
legge 22.10.1971, n. 865, del programma costruttivo per
la realizzazione di n. 24 e di n. 12 alloggi, per i quali
rispettivamente le Cooperative Casa 79 ed Elettra avevano
ottenuto un finanziamento regionale, nell’ambito di un piano
di zona, adottato, ma non ancora approvato dall’ente
regionale, assegnando alle cooperative le aree necessarie in
diritto di superficie, dichiarando inoltre la pubblica
utilità delle opere previste nelle aree assegnate, nonché
l’indifferibilità e l’urgenza dei lavori ai sensi dell’art.
3 della legge 27.06.1974, n. 247, e stabilendo altresì
che le cooperative avrebbero dovuto iniziare le procedure
espropriative entro un anno e completarle entro cinque anni
dalla delibera stessa ed inoltre avrebbero dovuto iniziare i
lavori entro un anno e completarli entro quattro anni,
sempre dalla stessa deliberazione.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal
quale non vi è ragione per discostarsi, il programma
costruttivo di edilizia residenziale inerente alla
localizzazione di cui all’art. 51 della legge n. 865 del
1971, non è equiparabile al piano di zona, rispetto al quale
è alternativo e autonomo, essendo soggetto ad un
procedimento semplificato ed accelerato d’individuazione ed
acquisizione delle aree destinate ad iniziative di edilizia
residenziale pubblica, non assimilabile alla procedura di
formazione del p.e.e.p., con il quale condivide solo
l’efficacia; tale localizzazione, che può avere luogo
proprio qualora non possano essere adottate tempestivamente
le complesse procedure di urbanizzazione previste dalla
legge 18.04.1962, n. 167, impone che nel relativo
provvedimento, o al più tardi in quello di assegnazione
delle aree, siano fissati i termini di cui all’art. 13 della
legge 25.06.1865, n, 2359 (ex pluribus, Cons. Stato,
sez. IV, 31.05.2012, n. 3269; Cass. civ, sez. I, 23.06.2009, n. 14606).
L’inosservanza, poi, dei termini d’inizio della procedura
espropriativa e dei lavori, ai quali è riconosciuta natura
ordinatoria, non comporta di per sé la decadenza della
dichiarazione di pubblica utilità, poiché l’inefficacia di
cui all’art. 13, terzo comma, della legge n. 2359 del 1865
consegue non soltanto all’inutile decorso del termine
fissato per il compimento delle operazioni di esproprio, ma
alla scadenza anche dell’altro termine fissato per il
compimento dell’opera, con la conseguenza che fin quando
questo non è spirato ben può l’amministrazione emanare il
decreto ablativo (Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, n. 5094;
27.04.2012, n. 2481)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4520 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
«chi inquina paga» presuppone un danno.
In materia ambientale il principio chi «inquina paga»
presuppone che sia stato cagionato un danno da riparare i
cui costi devono gravare sul responsabile.
Lo hanno sostenuto i giudici della I Sez. del TAR Liguria, con
sentenza 05.09.2014 n. 1346.
La domanda d'accertamento sottoposta al tribunale
amministrativo muoveva dalla supposta responsabilità del
Comune al fine di affermare l'obbligo di messa in sicurezza:
misura che, per come è congegnata nell'ordinamento di
settore, incombe direttamente ed in primo luogo sullo stesso
soggetto ricorrente, quale attuale proprietario e detentore
del sito.
Secondo i giudici amministrativi liguri, «il principio “chi
inquina paga” persegue una finalità repressivo riparatoria
(o più specificamente ripristinatoria) secondo la logica
della internalizzazione delle esternalità negative. Ed è –va sottolineato– norma di chiusura: entra in gioco laddove
le misure atte a prevenire i danni, che devono trovare
prioritaria applicazione, non siano state efficaci, sì da
non avere impedito alla fonte i fatti dannosi all'ambiente».
Hanno altresì affermato, i giudici genovesi, che, viceversa,
la messa in sicurezza di un sito «è misura di correzione di
(diffusione o propagazione dei) danni».
Rientra, infatti, nel genus delle precauzioni, insieme al
principio di precauzione vero e proprio e al principio
dell'azione preventiva. Pertanto, in ossequio con quanto
affermato dal Tar stesso nella sentenza in commento, la
responsabilità grava sul proprietario o detentore del sito
da cui possano scaturire i danni all'ambiente, e, non avendo
finalità sanzionatoria e/o risarcitoria, non presuppone
affatto l'individuazione del(l'eventuale) responsabile.
Aggiungasi che l'azione proposta non è nemmeno suscettibile
ex art. 32, comma 2, c.p.a., di diversa qualificazione e
conversione in quelle d'accertamento e condanna al
risarcimento di danni in forma specifica ex artt. 30, comma
2, c.p.a. e 2058 c.c. Si osserva, infine, che secondo un
autorevole indirizzo dottrinario il criterio dell'interesse
o vantaggio è irrilevante nei reati ambientali previsti dal
Tua e ricompresi nell'art. 25-undecies, dlgs 231/2001 che
sono contravvenzioni per lo più di condotta e di pericolo
astratto punite indifferentemente a titolo di dolo o di
colpa
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
Stato di malattia.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella
sentenza 05.08.2014 n. 17625, torna ad occuparsi
della compatibilità dello svolgimento di altra attività
durante lo stato di malattia.
Nel caso scrutinato il dipendente in malattia aveva svolto
attività sportiva. Si conferma che lo
svolgimento di attività lavorativa od extralavorativa, in
costanza dell'evento morboso, è comportamento illegittimo ed
in violazione dei doveri contrattuali di correttezza e buona
fede, atto anche a giustificare il recesso del datore di
lavoro, ma solo nel caso in cui si riscontri che l'attività
espletata costituisce un indice di scarsa attenzione del
lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura
e di non ritardata guarigione
(tratto da www.publika.it). |
APPALTI:
La condanna non ferma la gara. Consiglio di
Stato. Precedenti penali dell'amministratore.
In una gara
d'appalto, non è legittima l'esclusione di un'impresa per il
fatto che grava su un ex amministratore una sentenza di
condanna in materia di sicurezza sul lavoro, nella misura in
cui tale condanna sia stata dichiarata e valutata dalla
stazione appaltante. Nemmeno può essere preso in
considerazione per l'esclusione il fatto che
l'amministratore abbia mantenuto la titolarità di una
consistente quota (26,66%) della società, in quanto la
stessa non è determinante e l'amministratore revocato non ha
conservato alcun potere gestionale.
Così i giudici della Sezione V del Consiglio di Stato nella
sentenza
28.07.2014 n. 3992.
La questione riguarda una condanna per reati in materia di
sicurezza e salute sul luogo di lavoro a carico di un
amministratore di una società partecipante ad una gara
d'appalto, che di per sé (per la gravità del fatto) avrebbe
dovuto - secondo l'appellante - comportare l'automatica
esclusione della società.
In realtà anche un reato del genere non sempre determina
l'esclusione, come evidenziato dalla Sezione. Alcune
iniziative, assunte dalla società dopo la condanna del
proprio amministratore, possono essere positivamente
valutate dalla stazione appaltante, ai fini del via libera
alla partecipazione alla gara della società. Tra queste, la
revoca, da parte dell'assemblea, dei poteri
dell'amministratore, peraltro avvenuta oltre un anno prima
dalla pubblicazione del bando. Né può rilevare in senso
negativo il ritardo con cui il registro imprese ha iscritto
la deliberazione. E neppure il fatto che l'amministratore
abbia mantenuto la titolarità di una quota -di minoranza-
della società può risultare pregiudizievole.
Infine, l'appellante ha sostenuto che la serietà della
dissociazione doveva risultare dalla proposizione di un'
azione di risarcimento danni da parte della società nei
confronti dell'amministratore. La sezione ha invece respinto
anche questa affermazione in quanto l'azione di
responsabilità può essere proposta se la Società abbia in
concreto subito un danno dal comportamento sanzionato
dell'amministratore.
Ma nel caso di specie, non sussistendo alcun effettivo
pregiudizio, l'azione di responsabilità avrebbe costituito
un mero adempimento formale, posto in essere al solo scopo
di dimostrare la dissociazione dalle responsabilità del
condannato. Anche perché, in difetto di una ragione
sostanziale per promuovere detta azione giurisdizionale,
viene meno per la società interessata, anche il relativo
onere
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.09.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La Corte dei Conti non può accertare vizi di legittimità di
atti amministrativi.
L’accertamento degli eventuali vizi di
legittimità dei quali possano essere affetti gli atti
amministrativi esula dalla sfera giurisdizionale della Corte
dei conti, giacché non è riconducibile alla previsione di
giurisdizione esclusiva di all’art. 243-quater del Tuel, né
alcuna altra disposizione di legge prevede al riguardo la
giurisdizione contabile, onde quell’accertamento non può che
ricadere di necessità nell’alveo delle attribuzioni del
giudice amministrativo, secondo i principi generali della
materia (Corte
di Cassazione, Sezz. Unite civile,
ordinanza 22.07.2014 n. 16631 - tratto da
www.litis.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Pec, costa caro non controllare. L'avvocato è il
responsabile della gestione dell'utenza.
Per la Cassazione il legale non può farsi schermo della
mancata apertura della posta.
Non verificare il contenuto della propria casella di posta
elettronica certificata può costare caro. Infatti, dal
momento in cui il legale riceve l'abilitazione all'utilizzo
del sistema di posta elettronica certificata, diventa
responsabile della gestione della propria utenza, nel senso
che ha l'onere di procedere alla verifica delle
comunicazioni regolarmente inviategli dagli uffici
giudiziari e non può far valere la circostanza della mancata
apertura della posta per ottenere la concessione di nuovi
termini per compiere attività processuali.
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nel testo della
sentenza
02.07.2014 n. 15070, con cui ha respinto la doglianza di
un legale il quale lamentava che nel giudizio di secondo
grado non aveva potuto conoscere l'emissione di un decreto
di fissazione udienza in quanto trasmesso esclusivamente al
proprio indirizzo di posta elettronica certificata indicato
nel ricorso.
Casella di posta inaccessibile allo stesso avvocato che non
aveva potuto accedervi in quanto sprovvisto, al momento,
della password di accesso. A detta del professionista,
infatti, in questi casi la comunicazione avrebbe dovuto
essere accompagnata da un successivo inoltro a mezzo fax o
per il tramite di un ufficiale giudiziario.
Per la Corte, la motivazione di cui sopra non regge e deve
essere disattesa. Con le novità introdotte in materia di
notificazioni via Pec (valga su tutti il decreto del
ministro della Giustizia 21/02/2011), si stabilisce che i
cancellieri sono tenuti a trasmettere le comunicazioni alle
parti costituite in giudizio a mezzo dello strumento della
posta certificata, all'indirizzo che il professionista deve
obbligatoriamente indicare nel ricorso. In pratica, una
volta ottenuta da parte dell'ufficio giudiziario interessato
l'abilitazione alla Pec, ogni avvocato diventa responsabile
della gestione della propria casella di posta certificata.
Questo comporta che l'eventuale negligenza che consiste
nella mancata apertura della casella e la successiva lettura
delle comunicazioni ivi contenute, non può costituire mezzo
per richiedere una declaratoria di nullità dei documenti
correttamente trasmessi da parte degli uffici giudiziari. Né
può invocarsi il mancato inoltro delle comunicazioni a mezzo
fax o ufficiale giudiziario, in quanto tali modalità di
notifica, in base all'articolo 136, terzo comma del codice
di procedura civile, sono efficaci soltanto quando non è
possibile procedere a mezzo Pec e non quando dipendono da
problemi di gestione della Pec da parte del relativo
titolare
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014). |
URBANISTICA: VINCOLI PAESAGGISTICI.
Artt. 1497 e 1489 cod.civ.
Piano regolatore, vincoli paesaggistici, prescrizione di
ordine
generale a contenuto normativo.
I vincoli paesaggistici inseriti nelle previsioni del piano
regolatore
generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme
previste, hanno valore di prescrizione di ordine generale a
contenuto normativo con efficacia erga omnes e quindi non
sono invocabili dal compratore come fonte di responsabilità
del venditore che non li abbia eventualmente dichiarati nel
contratto.
Veniva sottoscritto un contratto preliminare per l’acquisto
di
un immobile in costruzione, con contestuale versamento di
caparra confirmatoria.
Agiva in giudizio il promissario acquirente deducendo che,
sebbene il promittente venditore aveva dichiarato di avere
sanato l’illiceità dell’immobile, costruito senza licenza
edilizia,
avendo richiesto il condono ex legge n. 47 del 1985,
l’immobile
non era stato condonato e non era condonabile, in quanto
sottoposto a vincolo paesaggistico ai sensi della legge n.
1497 del 1939.
L’attore affermava quindi che l’immobile
risultava
carente delle qualità essenziali per l’uso al quale era
stato destinato, chiedendo dunque la risoluzione del
contratto
per inadempimento del promittente venditore, oltre al
risarcimento
dei danni e, in subordine, la declaratoria di legittimità
del suo recesso con la condanna del convenuto ai sensi
dell’art. 1385 cod. civ. alla restituzione del doppio della
caparra.
Il promittente venditore, di contro, sosteneva che il
vincolo
paesaggistico non avrebbe impedito la concessione del
condono.
La questione giunge innanzi alla Corte di Cassazione la
quale,
innanzitutto, ricorda che le qualità promesse (nella specie
la
sanatoria dell’abuso edilizio) devono sussistere al momento
della conclusione del contratto definitivo, difatti:
– l’obbligazione assunta con il preliminare di vendita
consiste
nell’obbligo di stipulare il successivo contratto di
vendita;
– il trasferimento si realizza solo al momento della
conclusione
del definitivo.
I Giudici di legittimità, poi, confermano che il vincolo
paesaggistico
in questione doveva in ogni caso essere conosciuto
dal promissario acquirente.
Difatti, illustra la pronuncia in commento, «i vincoli
paesaggistici,
inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale,
una volta approvati e pubblicati nelle forme previste hanno
valore di prescrizione di ordine generale a contenuto
normativo
con efficacia erga omnes, come tale assistita da una
presunzione
legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari». Da ciò discende che detti vincoli, a differenza di
quelli
inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a
carattere
particolare, non possono qualificarsi come oneri non
apparenti
gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 cod. civ., e
quindi
(si veda al riguardo anche Cass. n. 2737/2012), non sono
invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del
venditore che non li abbia eventualmente dichiarati nel
contratto.
Ciò considerato, la Cassazione precisa anche che la
clausola
(di stile) inserita nel contratto preliminare in questione,
con
la quale il promittente venditore garantisce la libertà del
suolo
in questione da «iscrizioni, trascrizioni pregiudizievoli,
vincoli
ed oneri in genere», si riferisce agli oneri e vincoli non
apparenti,
«rilevabili dal compratore solo attraverso particolari
indagini»; tale clausola, invece, non poteva certo riferirsi «ai
vincoli imposti da atti aventi forza di legge, assistiti da
una
presunzione legale di conoscenza da parte di tutti i
cittadini».
Da ultimo, la pronuncia in parola osserva anche che, nel
caso
di specie, il contratto preliminare in questione, e la causa
con
la quale i contraenti chiedevano la risoluzione del
medesimo,
erano antecedenti ai decreti-legge sul condono edilizio
(D.L.
24.01.1996, n. 30; D.L. 25.03.1996, n. 154) che
hanno stabilito che, ai fini della commerciabilità del bene
abusivamente costruito, occorre che nell’atto risulti, a
pena
di nullità, «il parere favorevole dell’autorità preposta
alla tutela
dei vincoli per le opere di cui alla legge 28.02.1985, n.
47, art. 32, comma 3» (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza 24.04.2014 n. 9278
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
SUPERAMENTO DELLA SOGLIA DI NORMALE TOLLERABILITA'.
Immissioni, soglia di normale tollerabilità, superamento,
inibitoria
delle immissioni, risarcimento del danno
Quando sia accertato il superamento della soglia di normale
tollerabilità delle immissioni si versa in una situazione
di illiceità
che esclude il ricorso al giudizio di bilanciamento e
quindi all’indennizzo di cui all’art. 844, comma 2, cod.
civ. e che introduce il diverso tema della inibitoria delle
immissioni
e dell’eventuale risarcimento del danno.
La pronuncia in commento assume rilievo in quanto definisce
i limiti di applicazione dell’art. 844 cod. civ. ed, in
particolare,
del secondo comma del medesimo articolo il quale, come
noto, consente di imporre al proprietario che subisce le
immissioni
(eventualmente previa corresponsione di indennizzo)
l’obbligo di sopportare le medesime ove ciò sia funzionale
alle
esigenze della produzione.
Nel caso di specie l’attore domandava la conferma del
provvedimento
d’urgenza che aveva accertato la provenienza di
immissioni intollerabili (di fumo, rumore e odori) dai
locali
del convenuto, nonché l’inibitoria della sua attività ed
il risarcimento
dei danni patiti.
La società convenuta deduceva di avere ottemperato alle
prescrizioni
contenute nel provvedimento d’urgenza, ma di non
aver potuto procedere alla installazione di una canna
fumaria
che convogliasse i fumi -unica soluzione che, secondo
quanto
suggerito dal CTU, avrebbe risolto l’inconveniente- perché
l’attrice non aveva prestato il consenso all’appoggio della
canna
fumaria al muro esterno dell’immobile di sua proprietà.
Il Tribunale, pur avendo accertato l’intollerabilità delle
immissioni
in questione, riteneva prevalenti le esigenze della
produzione su quelle della proprietà e, quindi, riconosceva
all’attore un indennizzo, ma rigettava le sue domande di
inibitoria
di risarcimento dei danni. Tale decisione veniva confermata
in appello.
L’originario attore, pertanto, ricorreva in cassazione
deducendo
la non corretta interpretazione e applicazione della norma
che disciplina le immissioni, alla luce dei principi
affermati
dalla giurisprudenza di legittimità sul tema (si veda al
riguardo,
ex plurimis, Cass. n. 4963/2001 e Cass., sez. un. n. 10186/
1998): in particolare il ricorrente contesta la sentenza
d’appello
nella parte in cui, dopo aver accertato l’intollerabilità
delle
immissioni, ha operato la comparazione tra le opposte
esigenze
della proprietà e della produzione, tenendo peraltro conto,
all’interno di tale giudizio, della soluzione proposta dal
CTU
(consistente, in sostanza, nell’obbligare l’attore a
prestare il
proprio consenso alla installazione della canna fumaria -
dunque
alla costituzione di una servitù - o a subire le
immissioni).
La Cassazione giudica il motivo fondato, illustrando, in
linea
con la giurisprudenza di legittimità (si veda al riguardo,
ex plurimis, Cass. n. 939/2011, Cass. n. 5844/2007 e Cass. n.
25820/2009), che:
– a fronte di accertate immissioni ai limiti della normale
tollerabilità, l’art. 844, comma 2, cod. civ. prevede il
giudizio
di comparazione (in tal caso, precisa la Cassazione, «il
legislatore
consente di imporre al proprietario l’obbligo di sopportare
le immissioni, ove ciò sia funzionale alle esigenze della
produzione,
eventualmente previa corresponsione di indennizzo»);
– viceversa, quando sia accertato il superamento della
soglia
di normale tollerabilità delle immissioni si versa in una
«situazione
di illiceità che, evidentemente, esclude il ricorso al
giudizio di bilanciamento e quindi all’indennizzo, e
introduce
il diverso tema della inibitoria delle immissioni e
dell’eventuale
risarcimento del danno».
Nel caso in esame, la Corte d’appello non si è attenuta a
tali
principi in quanto:
a) ha ritenuto di poter effettuare il giudizio di
bilanciamento,
pur in presenza dell’accertamento di immissioni
intollerabili;
b) ha affermato, sia pure indirettamente, che il
proprietario il
quale lamenti -a ragione- il superamento della normale tollerabilità
delle immissioni provenienti dal fondo del vicino è
tenuto a prestare il consenso alla costituzione di servitù,
ove
necessaria alla eliminazione dell’inconveniente, in caso
contrario
rimanendo assoggettato alle immissioni (ciò in quanto i
giudici d’appello avevano giudicato pretestuosa
l’opposizione
dell’originario attore all’installazione della canna fumaria
-unico rimedio individuato nel corso dell’istruttoria per
evitare
le immissioni- consentendo, al contempo, la prosecuzione
dell’attività commerciale della convenuta).
In conclusione, quindi, è erronea la pronuncia che abbia
proceduto
al contemperamento delle opposte esigenze delle parti
ex art. 844, comma 2, cod. civ. pur avendo accertato l’intollerabilità
delle immissioni, che, invece, concretizza una situazione di
illecito extracontrattuale (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza 07.04.2014 n. 8094 - tratto da
Ambiente & Sviluppo n. 7/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
TERRE E ROCCE DA SCAVO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Gestione irregolare -
Reato -
Natura transitoria
Artt. 186, 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 2, cod. pen.
L’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006, a seguito dell’abrogazione
disposta dall’art. 39, comma 4, D.Lgs. n. 205/2010, ha
assunto
la natura di norma temporanea, destinata ad applicarsi
ai fatti commessi fino all’entrata in vigore del decreto
ministeriale
di attuazione.
Dovendo infatti il sottoprodotto
corrispondere
ai requisiti qualitativi o quantitativi stabiliti da tali
provvedimenti, la natura di norma temporanea comporta, ai
sensi dell’art. 2 cod. pen., l’applicazione della relativa
disciplina
ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia
di terre e rocce da scavo, non essendo possibile attribuire
la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali
sulla base di disposizioni amministrative inesistenti
all’epoca
della loro produzione.
Nel pervenire alla conclusione che i legali rappresentanti
della
società Rossi Marmi s.n.c. di Rossi Bruno & C. fossero
responsabili
del reato di cui all’art. 256, comma 4, D.Lgs. n. 152/
2006, per aver disatteso le prescrizioni nella lavorazione
della
pietra piasentina, il Tribunale aveva, tra l’altro, escluso
che
ricorresse il fenomeno dell’abolitio criminis in ordine all’attività
espletata.
Avverso tale decisione, i ricorrenti avevano dedotto che
erroneamente
si era ritenuto che il mutamento normativo, intervenuto
in materia di qualificazione dei residui di rocce e di
lavorazione della pietra, non avesse nel caso concreto
operato
una abolitio criminis.
Il ricorso e` stato respinto, ma la Corte ha proceduto a una
parziale rettifica in iure della motivazione contenuta nella
sentenza
impugnata.
Ha rilevato, infatti, la Cassazione che l’assunto dei
ricorrenti si
fondava sulla circostanza che, al fine di valutare se il
residuo
della lavorazione della pietra piasentina costituisse
sottoprodotto
e non rifiuto, il Giudice del merito avrebbe dovuto
valutare se fossero stati osservati o meno i requisiti
previsti
dall’art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006 e non invece verificare
il
rispetto dei requisiti necessari per il trattamento dei
rifiuti.
Si sosteneva che, a seguito dello ius superveniens, l’attività
di
estrazione e lavorazione della pietra piasentina, pur nel
rispetto
della normativa ambientale, non dovesse sottostare al regime
autorizzatorio e regolamentare previsto in materia di
rifiuti,
con la conseguenza che, in applicazione del principio
dettato
dall’art. 2, comma 2, cod. pen., la nuova normativa in
materia
di scarti derivanti dalla lavorazione della pietra avrebbe
dovuto
trovare applicazione retroattiva e quindi si sarebbe dovuta
applicare sin dal momento dell’accertamento posto in essere
dai tecnici della Provincia di Udine giacché l’intervento
normativo
aveva comportato una vera e propria parziale abolitio
criminis mediante la sottrazione dal campo di applicazione
dell’art. 256, comma 4, di tutte quelle condotte di
«gestione»
dei materiali di risulta derivanti dalla lavorazione di
marmi e
rocce, aventi le caratteristiche previste dall’art. 184-bis.
Per confutare questa tesi, la sentenza ha precisato quanto
segue.
Ha premesso che l’attività di lavorazione di pietre e marmi
è
stata assoggettata, nel tempo, a una peculiare disciplina,
sino
ad essere equiparata a quella dettata dall’art. 186 D.Lgs.
n.
152/2006 per le terre e le rocce da scavo, e ciò sull’ovvio
rilievo che, trattandosi di materiali di provenienza
naturale,
per entrambe si può presumere un’intrinseca non
pericolosità,
senza giustificare un esonero dal rispetto della normativa
che
disciplina i rifiuti, implicando esse comunque un’attività
dalla
quale consegue o può conseguire un residuo di lavorazione
di
cui disfarsi.
Come ritenuto dal tribunale, al momento dell’accertamento
dei fatti di causa, i residui di rocce derivanti dalla
lavorazione
di estrazione in cave autorizzate erano, ai sensi degli
artt. 214 e
ss. D.Lgs. n. 152/2006 e del D.M. 05.02.1998,
classificati
rifiuti non pericolosi, soggetti a procedura semplificata e
regolati
da tale normativa.
Con il D.L. 30.12.2008, n. 208 conv. in legge 27.02.2009, n. 13 (e non, come invece ritenuto in
sentenza
ex D.L. n. 78/2010 conv. in legge n. 122/2010), la
disciplina
prevista per le terre e le rocce da scavo è stata estesa,
con
l’aggiunta del comma 7-ter all’art. 186, D.Lgs. n. 152/2006,
anche ai residui provenienti dall’estrazione di marmi e
pietre e
a quelli di lavorazione degli stessi.
La disciplina ha subito un ulteriore mutamento con l’entrata
in vigore del D.M. del 10.08.2012, n. 161, avendo
trovato
attuazione il secondo comma dell’art. 184-bis che ha
regolato
la nozione di sottoprodotto, con la conseguenza che le
fattispecie
prima contenute nell’art. 186 (ora abrogato) sono confluite
nella generale categoria del sottoprodotto (estranea al
regime dei rifiuti) qualora gestite nei termini di cui al
D.M. n.
161/2012.
Attraverso una ritenuta continuità normativa tra disciplina
in
vigore al momento del fatto e disciplina sopravvenuta, il
tribunale
era giunto alla conclusione che, in ogni caso, gli imputati,
violando le disposizioni regolanti la materia, avessero
integrato, con la loro condotta, la fattispecie di reato
contestata,
non operando pertanto la disciplina ex art. 2 cod. pen.
invocata in ricorso.
La Corte ha poi precisato che il rilevo per cui la
sostanziale
continuità della normativa non aveva prodotto nella specie
l’invocata abolitio criminis, non era tuttavia completamente
esatto, essendo interdetta l’applicazione della disciplina,
in
ipotesi più favorevole sopravvenuta, non tanto e non solo
dalla continuità del tipo di illecito, che comunque
rileverebbe
nella fase del passaggio tra la data dell’accertamento del
fatto
(epoca in cui l’attività era regolamentata dal D.M. 05.02.1998) alla data in cui la disciplina prevista per le terre e
le
rocce da scavo è stata estesa anche ai residui provenienti
dall’estrazione di marmi e pietre e a quelli di lavorazione
degli
stessi, quanto per il fatto che, sino alla data dell’entrata
in
vigore dei decreti ministeriali previsti dall’art. 184-bis,
comma
2, l’art. 186 ha assunto la natura di norma temporanea e,
come
tale, insuscettibile di innescare, ai sensi dell’art. 2,
comma 5,
cod. pen., il meccanismo di cui ai precedenti commi
dell’art. 2
cod. pen. (e del comma 4 in particolare).
A questo punto la Corte ha riconosciuto il diverso avviso
reiteratamente espresso in dottrina, ma ha ribadito un
principio
già affermato e cioè che l’art. 186, a seguito
dell’abrogazione
disposta dall’art. 39, comma 4, D.Lgs. n. 205/2010, abbia
assunto la natura di norma temporanea, destinata ad
applicarsi
ai fatti commessi fino all’entrata in vigore del prescritto
decreto
ministeriale di attuazione.
Dovendo infatti corrispondere il sottoprodotto ai requisiti
qualitativi o quantitativi stabiliti da tali provvedimenti,
la
natura di norma temporanea, assunta dall’art. 186 comporta,
ai sensi dell’art. 2 cod. pen., l’applicazione della
relativa disciplina
ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia
di terre e rocce da scavo, non essendo possibile attribuire
la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla
base
di disposizioni amministrative inesistenti all’epoca della
loro
produzione.
Tale indirizzo, secondo il supremo Collegio, non era
smentito
neppure dall’art. 15, D.M. 10.08.2012 n. 161 nella parte
in
cui ha previsto (con apposita disposizione transitoria) che,
decorso il termine di centottanta giorni dalla data di
entrata
in vigore del Regolamento, i progetti per i quali era corso
una
procedura ai sensi e per gli effetti dell’art. 186 D.Lgs. n.
152/2006, potevano essere assoggettati alla nuova disciplina,
con
la presentazione di un piano di utilizzo ai sensi e per gli
effetti
dell’art. 5, oppure, in mancanza, potevano essere portati a
termine secondo la procedura prevista dall’art. 186 cit.
L’art. 15 del decreto, lungi dal convalidare la tesi di una
abolitio crimins differita, che implicherebbe l’applicazione
dell’art.
2, comma 4, cod. pen. ai fatti pregressi, ha permesso, al
fine di consentire, mediante conferimento di una facoltà, a
coloro che avessero in corso l’attività alla data di
entrata in
vigore del regolamento, e che nel frattempo si fossero
uniformati
alla normativa vigente regolata dalla disposizione
temporanea,
di proseguire ("portare a termine") l’attività stessa
nell’osservanza
della dismessa procedura, alle cui disposizioni è
stata dunque attribuita una limitata ultrattività.
La sentenza ha colto l’occasione per svolgere un discorso
più
ampio sul tema.
Ha infatti rilevato che il fenomeno dell’abrogazione
differita
delle norme trova frequente applicazione proprio della
materia
di cui all’art. 17, comma 3, legge n. 400/1988 al fine di
consentire
il formale rispetto del principio delle fonti del diritto
(nel senso cioè che l’effetto abrogativo delle norme
primarie
sarebbe già determinato dalla legge attributiva della
competenza
all’esercizio della potestà regolamentare, a partire dal
momento dell’entrata in vigore dei regolamenti dalla legge
autorizzati, i quali costituirebbero solo il fatto dalla cui
esistenza
risulta condizionata l’abrogazione, già potenzialmente
disposta
dalla legge cd. formale).
Ha poi osservato che non sempre vi è totale sovrapposizione
tra abrogazione differita e condizionata delle norme
giuridiche
e disciplina penalistica dell’abrogatio criminis e tanto sul
presupposto
che la natura temporanea di una norma non necessariamente
richiede che la temporaneità sia stabilita in via
genetica potendo essere attribuita (fenomeno ricorrente
proprio
in materia di cd. norme integratrici temporanee ex post)
per determinazione successiva.
Ciò che rileva, secondo la sentenza, ai fini della
successione nel tempo delle norme integratrici temporanee è la precisa determinazione
della natura di esse e non il momento in cui tale
necessaria determinazione intervenga (ex ante o ex post).
Rileva
cioè la riconoscibilità della norma come temporanea e non
il
momento in cui l’ordinamento le attribuisca tale natura.
Tanto chiarito, la Cassazione ha ritenuto che correttamente
il
tribunale avesse ritenuto che il precedente quadro normativo
non consentisse di poter ravvisare una abrogatio criminis
anche
sul presupposto che la disciplina di favore fosse rimasta
subordinata
ad una serie di condizioni che l’esercente l’attività
doveva
preventivamente possedere, incombendo sullo stesso anche
l’onere di provare la perdurante osservanza di esse.
Posto che, per l’originario sistema, l’attività di gestione
di
questi rifiuti era soggetta alle norme tecniche dettate dal
D.M. 05.02.1998 sicché la loro violazione era
sanzionata dall’art. 256, a sua volta, anche l’art. 186
richiedeva, per esonerare
l’attività de qua dalla disciplina propria dei gestori di
rifiuti, che fossero osservate le condizioni elencati alle
lettere
da a) a g), dovendo il possesso dei requisiti risultare da
apposito
progetto approvato dall’autorità titolare del relativo
procedimento
e prevedendosi una autocertificazione del rispetto
dei predetti requisiti e, qualora la gestione non
rispettasse
queste condizioni, si richiedeva che le materie fossero
sottoposte
alla disciplina dei rifiuti.
L’art. 4, comma 1, D.M. n. 161/2012 prevedeva, in
applicazione
dell’articolo 184-bis, comma 1, che fosse considerato
sottoprodotto di cui all’art. 183, comma 1, lett. qq), il
materiale
da scavo che rispondesse ai requisiti indicati dalle lettere
da a) a d) della medesima disposizione (che il materiale da
scavo fosse generato durante la realizzazione di un’opera,
di cui
costituisse parte integrante, e il cui scopo primario non
fosse la
produzione di tale materiale; che il materiale da scavo
fosse
utilizzato, in conformità al Piano di Utilizzo; che il
materiale
da scavo fosse idoneo ad essere utilizzato direttamente,
ossia
senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale
pratica
industriale secondo i criteri di cui all’Allegato 3; che il
materiale
da scavo, per le modalità di utilizzo specifico
soddisfacesse
i requisiti di qualità ambientale di cui all’Allegato 4).
Al comma 2, poi, l’art. 4 D.M. cit. stabiliva che la
sussistenza
delle condizioni di cui al comma 1 dovesse essere comprovata
dal proponente tramite il Piano di Utilizzo (che prendeva il
posto del progetto di cui all’art. 186).
Infine, ai sensi dell’art. 5, comma 8, D.M. 161 «in caso di
violazione degli obblighi assunti nel Piano di Utilizzo,
viene
meno la qualifica di sottoprodotto del materiale da scavo
con
conseguente obbligo di gestire il predetto materiale come
rifiuto
ai sensi e per gli effetti dell’articolo 183, comma 1,
lettera
a), del D.Lgs. n. 152/2006 e successive modificazioni».
Ne consegue che lo ius superveniens non ha comportato alcuna
abolitio crimins perché le fattispecie che costituivano
reato
hanno continuato, sebbene in un quadro amministrativo
mutato,
ad essere penalmente sanzionate, sussistendo una sostanziale
continuità normativa tra vecchia e nuova disciplina e
permanendo il medesimo disvalore delle condotte, in quanto
i requisiti richiesti a tutela dell’ambiente e della salute
sono
rimasti, nel tempo e per quanto qui interessa, analoghi.
Al definitivo, il ricorso è stato rigettato perché il
tribunale
aveva accertato come non fosse risultato certo l’utilizzo
del
materiale trattato in considerazione che la stessa R. m.
s.n.c.
aveva indicato utilizzi alternativi di esso (quali la
vendita a
terzi del cocciame per fare fondi stradali); come, in
mancanza
dei test di cessione completi, non fosse stata provata la
natura
non inquinante dei residui derivanti dalla lavorazione della
pietra piasentina; come, in presenza delle riscontrate
irregolarità,
non vi fosse neppure la certezza circa la non contaminazione
della sostanza per effetto del ciclo produttivo (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.03.2014 n. 12229
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
NORMALE TOLLERABILITA' DELLE IMMISSIONI RUMOROSE.
Art. 844 cod. civ.; D.P.C.M. 14.11.1997.
Immissioni rumorose,
limite di tollerabilità, condizioni del luogo
in cui vengano percepite le immissioni.
Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non
è
mai
assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile
da
luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona;
pertanto
ben può il giudice discostarsi dalle conclusioni del CTU in
merito al rispetto dei limiti fissati dal D.P.C.M. 14.11.1997, facendo riferimento alla condizioni del luogo in cui
vengano percepite le immissioni.
Domanda relativa all’accertamento della non normale
tollerabilità
delle immissioni provenienti da un parcheggio.
In particolare, il proprietario di una casa posta davanti
all’arenile
demaniale, ed in particolare di fronte allo stabilimento
balneare gestito dal convenuto che aveva abusivamente
realizzato
un parcheggio nello spazio compreso tra il predetto
stabilimento ed il giardino dell’abitazione dell’attore,
otteneva
un provvedimento ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. per
l’immediata
chiusura del parcheggio.
Domandava quindi al Giudice che venisse ordinato al
convenuto
di astenersi dal parcheggiare o far parcheggiare le auto in
tale area, con contestuale condanna a risarcire i danni
cagionati.
Il Giudice adito respingeva la domanda attrice, revocando
l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. ma
il
giudice dell’appello, riformava la pronuncia di primo grado
e,
quindi, ordinava al gestore dello stabilimento balneare
l’immediata
chiusura dello spazio utilizzato per il parcheggio delle
autovetture, inibendo l’accesso in detta area a qualsiasi
veicolo
a motore.
La Cassazione conferma la pronuncia impugnata osservando
innanzitutto che «i parametri minimali fissati dalle norme
speciali a tutela dell’ambiente non sono necessariamente
vincolanti
per il giudice civile che, nello stabilire la tollerabilità
o
meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può
anche
discostarsene ai fini del giudizio di tollerabilità ex art.
844
cod.civ.».
Con riferimento al caso di specie, poi, i Giudici osservano
che
la CTU:
a. aveva evidenziato un innalzamento dei livelli di
inquinamento,
seppure assai modesto, determinato dall’ingresso e
dall’uscita
dei veicoli dal parcheggio;
b. con riferimento alle immissioni acustiche, aveva
determinato
presuntivamente una rumorosità pari a 51,5 Decibel,
ovvero un livello inferiore ai minimi fissati dal D.P.C.M.
14.11.1997.
Sul punto la Cassazione conferma l’argomentazione del
giudice
d’appello (in quanto accertamento di fatto sorretto da
logica
e congrua motivazione) secondo cui tale valore, anche se
inferiore ai minimi fissati dal D.P.C.M. 14.11.1997,
non poteva essere qualificato come modesto, soprattutto in
considerazione:
– del luogo in cui veniva percepito (area pertinenziale
destinata
al riposo di una famiglia ed in particolare dei propri
figli);
– del fatto che tale livello di rumorosità parrebbe venir
raggiunto
per tutta la giornata ed in tutti i giorni di apertura
dello stabilimento balneare.
Difatti, in merito all’applicazione del criterio comparativo
previsto dall’art. 844 cod. civ. per accertare il limite di
tollerabilità
delle immissioni rumorose va confermato che:
– detto limite non è mai assoluto, ma relativo alla
situazione
ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le
caratteristiche
della zona;
– non può quindi prescindersi dalla rumorosità di fondo,
ossia dalla fascia rumorosa costante sulla quale vengono
ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi.
Va pertanto confermato che «la valutazione ex art. 844 c.c.,
diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei
limiti della norma, deve essere riferita da un lato alla
sensibilità
dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale» (in
senso conforme si veda Cass. n. 17051/2011).
Ciò posto, la Suprema Corte conclude illustrando come il
giudice d’appello abbia sufficientemente espresso le ragioni
per le quali si è discostato dalle conclusioni del CTU,
facendo
in particolare riferimento alla condizioni del luogo in cui
venivano
percepite le immissioni in oggetto. Ciò alla luce del
principio secondo cui l’eventuale rispetto dei limiti
massimi di
tollerabilità «non può far considerare senz’altro lecite
le immissioni,
dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi
alla stregua dei principi di cui all’art. 844 cod. civ.,
tenendo
presente, fra l’altro, la vicinanza dei luoghi ed i
possibili effetti
dannosi per la salute delle immissioni» (in tal senso si
veda
Cass. n. 1418/2006 e Cass. n. 939/2011)
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.02.2014 n. 3714
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 6/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: DEPOSITO TEMPORANEO.
Rifiuti - Deposito temporaneo - Collocazione «alla rinfusa»
-
Illiceità - Discarica - Sussistenza.
Artt. 183, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L’abbandono di rifiuti «alla rinfusa» e non per categorie
omogenee,
come previsto dall’art. 183, D.Lgs. n. 152/2006,
esclude la configurabilità del cosiddetto deposito
temporaneo
o regolare ed integra il reato di gestione di discarica
abusiva.
L’amministratore di una società che si occupa di impianti
di
frantumazione e di inerti destinati alla produzione di
materiali
per l’edilizia veniva condannato per aver realizzato una
discarica
non autorizzata di rifiuti speciali in quanto il NOE aveva
rinvenuto un’area, adiacente a quella di frantumazione, in
cui
giacevano rifiuti ammassati alla rinfusa su un terreno non
impermeabilizzato.
Nel proposto ricorso, il prevenuto sosteneva che il fatto
era da
ricondurre nell’alveo dei commi primo e quarto dell’art.
256,
D.Lgs. n. 152/2006 e non nel comma 3 (come contestato).
Non si era, infatti, al cospetto di una gestione di
discarica,
bensì, di inosservanza delle prescrizioni.
Il ricorrente, tenendo conto dei requisiti richiesti dalla
norma
perché si abbia esercizio di una discarica abusiva,
obiettava
che la tesi dei giudici circa la «definitività»
dell’abbandono
era smentita dall’esistenza stessa dei formulari e dalla
presentazione
di una richiesta di autorizzazione per riciclare i rifiuti.
Inoltre, il fatto che i materiali fossero posti in prossimità di
una delle piste di accesso era dimostrazione che fossero
destinati
a una lavorazione e non al loro abbandono.
La Corte ha respinto il ricorso perché motivatamente era
stata
confutata la tesi dello stoccaggio provvisorio: il fatto che
i
rifiuti fossero ammassati tutti entro un’area ben definita
di
800 m., accanto a quella utilizzata dalla società per il
deposito
dei materiali finiti, «non serve affatto a dimostrare, come
vorrebbe
la difesa, la temporaneità del deposito (che potrebbe
riguardare esclusivamente il deposito di rifiuti alle
condizioni
previste dalla legge e nel luogo della loro produzione) né
la
possibilità di un’agevole individuazione dei rifiuti e del
successivo
recupero per la lavorazione nel ciclo produttivo di
sabbia e ghiaia».
Significativamente, poi, i giudici di merito avevano
evidenziato
che era prevista la realizzazione di un piazzale pavimentato
e impermeabilizzato per impedire rischi di inquinamento
delle falde profonde, ma «all’atto dell’ispezione, i rifiuti
erano
a contatto con la nuda terra».
Queste circostanze legittimavano ampiamente la conclusione
dei giudici di merito secondo cui la tesi difensiva andava
disattesa perché, per poter definire controllato un
deposito
di rifiuti, non basta che rimanga sotto gli occhi del
gestore,
ma esso deve essere anche temporaneo, vale a dire, vi deve
essere un rigoroso controllo dei tempi di giacenza e, anche
in
caso di regime semplificato, le prescrizioni e le cautele
devono
coincidere con quelle previste per l’iscrizione nel registro
delle
imprese che effettuano il recupero di rifiuti non
pericolosi.
In ogni caso, a dispetto di quanto sosteneva il ricorrente,
nel
caso in esame i rifiuti erano «di eterogenea natura e
provenienza»: in base a principi ormai acquisiti nella giurisprudenza,
l’abbandono di rifiuti «alla rinfusa» e non per categorie
omogenee,
come previsto dall’art. 183, «esclude la configurabilità
del cosiddetto deposito temporaneo o regolare e integra il
fatto
criminoso di gestione di discarica abusiva» (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.02.2014 n. 6985
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
DEPOSITO INCONTROLLATO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Deposito incontrollato di rifiuti - Consumazione -
Durata
- Conseguenze in caso di subentro di amministratori
societari.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti, dando luogo a
una
forma di gestione preventiva rispetto al recupero o allo
smaltimento,
ha una consumazione che perdura sino allo smaltimento
o al recupero dei rifiuti perciò dell’illecito risponde
anche l’amministratore in carica al momento
dell’accertamento
del fatto, pur se diverso da quelli precedenti che avevano
effettuato lo stoccaggio irregolare.
Il procuratore speciale Acea Ato 2 S.p.a. (gestore
dell’impianto
dal 18 luglio al 31.12.2007), condannato per aver
effettuato lo stoccaggio dei fanghi di depurazione
dell’impianto,
si rivolgeva alla Cassazione eccependo che il giudice,
rimproverando
all’imputata di non avere smaltito i fanghi, avesse
finito per configurare a carico dell’imputata una condotta
omissiva (quella di non avere rimosso gli accumuli di fanghi
creati dai predecessori) sicché l’accusa iniziale di avere
«effettuato
lo stoccaggio dei rifiuti senza la prescritta
autorizzazione»
doveva ritenersi essere venuta meno per il solo fatto di
essere
stato dimostrato che gli accumuli erano stati creati dai
gestori
precedenti.
Oltretutto, la norma non prevede alcun obbligo di
smaltimento
la cui omissione era stata addebitata alla ricorrente.
Infine,
il reato ascritto era sicuramente di tipo commissivo, mentre
dalla sentenza impugnata, emergeva che alla prevenuta veniva
rimproverata una omissione. La Corte, pur dando atto che il
reato era ormai prescritto, ha ritenuto che non ricorrevano
i
presupposti per un proscioglimento ex art. 129 cod. proc.
pen.
perché la contravvenzione di abbandono o deposito
incontrollato
di rifiuti è reato commissivo eventualmente permanente,
la cui antigiuridicità cessa o con il sequestro del bene o
con
l’ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con la sentenza
di
primo grado.
La Corte ha poi sostenuto che il reato di deposito
incontrollato
di rifiuti, dando luogo a una forma di gestione del rifiuto
preventiva rispetto al recupero o allo smaltimento, ha una
consumazione che perdura sino allo smaltimento o al recupero
(che sicuramente non erano avvenuti al subentro della
ricorrente)
perciò , non si poteva distinguere la responsabilità
dell’amministratore
in carica al momento dell’accertamento del
reato, rispetto a quella degli amministratori precedenti che
avevano effettuato lo stoccaggio irregolare dei rifiuti
presenti
nell’impianto al sopraggiungere dell’ing. Vasta.
E'
stato anche affermato che, se è vero che il reato di
deposito
incontrollato di rifiuti (così come quello di realizzazione
e
gestione di una discarica abusiva) ha indubbia natura
commissiva, è altrettanto vero che l’affermazione di colpevolezza
dell’imputata
-contrariamente a quanto sostenuto dalla stessa-
non era fondata sull’accertamento dell’"omesso intervento"
per impedire la realizzazione di una discarica ovvero la
prosecuzione
della sua attività, bensì sul fatto che, essendo
responsabile
e legale rappresentante della società, aveva i doveri di
controllo ad essa inerenti, riferiti all’operato della
società medesima,
e non a quello di terzi (cui, peraltro, per parte loro, il
reato era già stato ascritto, salvo dichiararne
l’estinzione per
prescrizione) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.02.2014 n. 6984
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul permesso di costruire decisioni in contraddittorio
Non può dichiararsi la decadenza di un permesso di costruire
per mancato inizio dei lavori nel termine annuale di legge
dal rilascio del titolo edilizio se a monte è mancata la
comunicazione di avvio del relativo procedimento.
L'importante chiarimento arriva dal TAR Toscana (III
Sezione), che nella
sentenza 12.12.2013 n. 1714 ha
accolto il ricorso presentato da una società di costruzioni
nei confronti di un comune.
Quest'ultimo, con ordinanza dirigenziale, aveva dichiarato
decaduto il permesso di costruire ai sensi dell'art. 15,
comma 2, del dpr 380/2001 (Testo unico dell'edilizia).
Il Tar, tuttavia, non è neppure entrato nel merito di tale
questione, ma ha fondato la pronuncia di annullamento sul
fatto che il provvedimento dichiarativo della decadenza non
era stato preceduto da una regolare comunicazione dell'avvio
del procedimento ex art. 7 della legge 241/1990.
Secondo i giudici amministrativi, infatti, in simili
contesti, è obbligatorio il contraddittorio procedimentale
tra le parti. È stata, quindi, respinta la tesi
dell'amministrazione resistente, secondo cui il
contraddittorio non risulta utile poiché tale provvedimento
(cioè la decadenza) non fa altro che dare atto di un effetto
già determinatosi per legge.
Al contrario, afferma la sentenza, «il contraddittorio
procedimentale risulta utile, e necessario per legge, in
ipotesi come la presente in cui ci sia contestazione e
diversa valutazione dei presupposti fattuali e giuridici
idonei a integrare i presupposti per l'esercizio del potere» (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.12.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Legittimo negare l'accesso a un parere legale.
È legittimo il diniego di accesso ad un parere legale da
parte della p.a. -nel caso specifico fornito da un avvocato
del libero foro- qualora tale parere sia stato richiesto
dall'amministrazione al fine di definire la propria
strategia difensiva.
Lo ha sancito il TAR Veneto, Sez. II
con la
sentenza 28.11.2013 n. 1330.
Nel caso in esame una società, al fine di conoscere la
propria posizione giuridica in ordine a una convenzione
urbanistica che la vedeva interessata, specie per quanto
riguarda l'attuazione delle opere di urbanizzazione e il
pagamento dei relativi oneri, aveva formulato al Comune di
Trezze sul Brenta richiesta di accesso ex art. 22 e ss.
della legge n. 241/1990, avente ad oggetto il parere pro
veritate reso da un avvocato in merito alla convenzione
relativa alla variante per l'attuazione delle opere di
urbanizzazione di un piano attuativo.
Dal momento che l'amministrazione comunale non aveva
provveduto nel termine di legge sull'istanza di accesso, la
società aveva presentato ricorso.
Il Tar lo rigetta.
Infatti, secondo il Collegio, è evidente che il ricorso da
parte del Comune alla consulenza legale esterna, non si va
ad inserire nell'ambito di un'apposita istruttoria
procedimentale, ipotesi nella quale il parere sarebbe
soggetto all'accesso perché oggettivamente correlato ad un
procedimento amministrativo; la consulenza, invece, è stata
richiesta dall'amministrazione dopo l'inizio di una fase
precontenziosa, al fine di definire la propria strategia
difensiva.
Pertanto, è evidente che nel caso di specie il parere legale
in questione non è affatto destinato a sfociare in una
determinazione amministrativa finale, ma mira a fornire
all'Ente pubblico tutti gli elementi tecnico-giuridici utili
per tutelare i propri interessi. In questo caso, per
pacifica giurisprudenza, le consulenze legali restano
caratterizzate dalla riservatezza, che mira a tutelare non
solo l'opera intellettuale del legale, ma anche la stessa
posizione dell'amministrazione, la quale, esercitando il
proprio diritto di difesa, protetto costituzionalmente, deve
poter fruire di una tutela non inferiore a quella di
qualsiasi altro soggetto dell'ordinamento (articolo
ItaliaOggi Sette del 23.12.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Servitù. Se si deve costruire sul terreno.
Via l'elettrodotto a spese del gestore.
Il gestore
dell'energia elettrica deve spostare a sue spese
l'elettrodotto quando il proprietario del fondo servente
deve costruire sul proprio terreno.
Lo ricorda il TRIBUNALE
di Catania (giudice Arena) con
sentenza 11.11.2013.
Nei fatti, una cooperativa edilizia aveva ottenuto
l'approvazione di un programma per la realizzazione di 24
alloggi su un terreno in cui insisteva una linea di
elettrodotto. E poiché non aveva avuto esecuzione un accordo
concluso tra le parti per la ripartizione degli oneri
connessi allo spostamento della linea, la cooperativa aveva
chiesto al giudice la condanna della società alla rimozione
della servitù e al risarcimento dei danni causati dal blocco
dei lavori.
Il tribunale si sofferma sull'articolo 122 del Rd 1775/1933,
che, per il caso in cui il proprietario intenda «eseguire
sul suo fondo qualunque innovazione, costruzione o
impianto», attribuisce al titolare del fondo servente un
diritto soggettivo allo spostamento della servitù di
elettrodotto, con la giurisdizione del giudice ordinario per
la decisione delle controversie (Consiglio di Stato,
sentenza 190/94).
La sentenza del tribunale di Catania richiama inoltre la
giurisprudenza della Cassazione, per la quale sono
inamovibili le linee «installate con modalità tali da
renderne impossibile la modificazione o lo spostamento»
(sentenza 7883/1994): in questo caso il proprietario del fondo
ha diritto solo al risarcimento del danno per l'asservimento
del suo immobile all'elettrodotto.
Il giudice osserva poi
che l'articolo 122 dispone, al comma 5, che il proprietario
dell'immobile che chiede di rimuovere la linea deve «offrire
all'esercente, in quanto sia possibile, altro luogo adatto
all'esercizio della servitù»; ciò a differenza della più
rigorosa previsione dell'articolo 1068 del Codice civile,
che ammette, in generale, il trasferimento della servitù in
luogo diverso solo se «l'esercizio di essa riesca egualmente
agevole al proprietario del fondo dominante».
In ogni caso –si legge ancora nella sentenza– l'articolo 122 consente lo
spostamento della servitù anche se il titolare del fondo
servente non sia in grado di indicare un altro sito idoneo,
e, in questa ipotesi, la servitù originaria si estingue e il
gestore del servizio potrà chiedere che ne sia costituita
un'altra anche su un fondo diverso.
Il tribunale rileva quindi che dalla consulenza tecnica
d'ufficio risultava che il lotto di proprietà della
cooperativa era stato interamente edificato, tranne il pezzo
di terreno su cui insisteva l'elettrodotto, sicché la
cooperativa era nell'impossibilità oggettiva di proporre un
sito alternativo. In applicazione dell'articolo 122 del Rd
1775/1933, il tribunale condanna allora il gestore a rimuovere
i cavi elettrici a sue cure e spese, mentre esonera la
cooperativa dall'obbligo di offrire un altro luogo adatto
all'esercizio della servitù.
La sentenza accoglie anche la
domanda di risarcimento dei danni, quantificati in 92mila
euro, subiti dalla cooperativa per il ritardo
nell'esecuzione dei lavori e conseguenti all'aumento dei
costi per ultimare gli immobili.
È invece escluso
l'indennizzo per il mancato utile d'impresa, trattandosi di
voce che grava non sulla cooperativa committente, ma
sull'impresa appaltatrice, tenuta «a proprio rischio»
(articolo 1655 del Codice civile) a gestire il cantiere e a
sopportare gli oneri economici per realizzare l'opera (articolo Il Sole 24 Ore del
16.12.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 18.09.2014 |
ã |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
luglio-agosto
2014). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Riduzione delle prerogative sindacali nelle
Pubbliche Amministrazioni. Circolare n. 5 del 20.08.2014
(nota
12.09.2014 n. 50793 di prot.) |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – congedo per
assistenza disabili in situazione di gravità – fruizione del
congedo da parte dei genitori del disabile in presenza di
convivente del disabile – art. 42, D.Lgs. n. 151/2001
(Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali,
interpello 15.09.2014 n. 23/2014). |
INCARICHI PROGETTUALI:
OGGETTO: Primi chiarimenti sull'applicazione del DM n.
143/2013
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 04.09.2014 n. 417). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI
- SICUREZZA LAVORO: G.U.
12.09.2014 n. 212 "Individuazione dei modelli
semplificati per la redazione del piano operativo di
sicurezza, del piano di sicurezza e di coordinamento e del
fascicolo dell’opera nonché del piano di sicurezza
sostitutivo" (Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali,
decreto 09.09.2014). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Turn over, «ratei» nel piano assunzioni.
Corte dei conti. I calcoli sui risparmi.
La Corte dei Conti,
sezione controllo della Lombardia (parere
15.07.2014 n. 214) chiarisce le regole procedimentali
e di calcolo a proposito del cumulo dei "ratei" in materia
di assunzioni: in particolare in merito alla possibilità di
utilizzo dei ratei delle facoltà assunzionali non utilizzati
anno per anno.
Il parere si sofferma sulla necessità di «impegnare
contabilmente la quota delle risorse inerenti alle facoltà assunzionali che di anno in anno si liberano» oppure se sia
a tal fine sufficiente una qualche forma di "prenotazione".
Preliminarmente la sezione lombarda, ricorda «il
contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, con
azioni varie dalla parziale reintegrazione dei cessati e
contenimento della spesa per il lavoro flessibile alla
razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative, al contenimento delle dinamiche
di crescita della contrattazione integrativa, tenuto anche
conto delle corrispondenti disposizioni dettate per le
amministrazioni statali».
Ritiene, poi, che «a tali fini non sia necessario che l'ente
locale proceda, anno per anno, ad uno specifico impegno
delle somme liberate dal mancato impiego delle facoltà assunzionali residue determinate dalla disciplina
vincolistica del turn-over (cfr. deliberazione n. 2/2012/Par
della Sezione regionale di controllo per la Basilicata)».
La Corte ritiene che l'impegno costituisca la prima fase del
procedimento di spesa, mentre in virtù del blocco del
turn-over l'assunzione potrebbe intervenire anche a distanza
di tempo rispetto al momento in cui le risorse si liberano
o, al limite, potrebbe anche non intervenire del tutto.
Per la Corte, la minore spesa per il personale verificatasi
nell'anno è un'economia che va a migliorare i saldi di
finanza pubblica, e secondo i giudici contabili, una volta
verificatasi la vacanza d'organico non rimpiazzata secondo
il coefficiente di turn over dell'anno, «l'ente locale dovrà
programmare in termini amministrativi la futura assunzione,
che potrà però realizzarsi, nel rispetto della disciplina
vincolistica delle assunzioni a quel momento vigente,
laddove nell'anno dell'assunzione sia possibile iscrivere
nel relativo bilancio la spesa»; sarà sufficiente, quindi,
che l'ente locale "preveda" la spesa nel bilancio riferito
all'anno in cui avverrà l'assunzione.
Programmare in termini amministrativi non può che
significare inserire la valutazione sui "ratei" nel piano
annuale e triennale delle assunzioni.
Per quel che riguarda la possibilità di cumulare i ratei
delle facoltà assunzionali non utilizzate anno per anno, la
sezione lombarda ricorda che «a decorrere dall'anno 2014 è
consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni
per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto
della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria
e contabile» (legge 114/2014. )
Spetta al Comune interessato, sulla base dei principi
espressi dalla giurisprudenza contabile, oltre che del
parere in esame, «valutare la fattispecie concreta al fine
di addivenire, nel caso di specie, al migliore esercizio
possibile del proprio potere di autodeterminazione in
riferimento alle spese per il personale nell'anno 2015,
sempre nel rispetto dei vincoli di legge a quel momento
vigenti» (articolo Il Sole 24 Ore del
15.09.2014). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI: Le
regole di invio della fattura elettronica.
Domanda
Quali sono le regole procedurali che devono essere osservate
per inviare la fattura elettronica? È proprio un obbligo
l'accordo preventivo tra l'emittente e il destinatario?
Risposta
La circolare 24.06.2014, n. 18/E, dell'Agenzia delle entrate
ha fornito opportuni chiarimenti.
L'emittente (o il suo delegato) mette a disposizione del
destinatario la fattura elettronica «tramite accesso a un
sito internet, server o altro supporto informatico, ove la
stessa è reperibile, nonché tramite messaggio (e-mail)
contenente un protocollo di comunicazione e un link di
collegamento che permetta, previo accordo delle parti di
effettuare in qualsiasi momento il download della fattura. È
possibile individuare ulteriori strumenti idonei alla
trasmissione».
La norma non richiede l'obbligatoria presenza di un «previo
accordo» con il destinatario per cui per avvalersi della
trasmissione elettronica «è sufficiente l'accettazione da
parte del destinatario del mezzo di trasmissione
utilizzato», cioè l'utilizzazione di procedure
informatizzate (ad esempio, sistema di trasmissione Edi,
posta elettronica, posta elettronica certificata, telefax o
via modem).
L'accordo preventivo tra le parti non è un requisito
indispensabile.
Se il cedente i beni (o il prestatore del servizio)
conferisce ad un soggetto terzo (outsourcer) l'incarico di
trasmissione della fattura elettronica, è necessaria la
presenza del preventivo accordo «in tale senso, che potrà
essere desunto, indirettamente, anche dal tipo di incarico
conferito da ciascuna di esse al terzo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
APPALTI: Il
lotto di fatture elettroniche.
Domanda
Vorrei sapere se è possibile effettuare l'invio di più
fatture elettroniche in un unico lotto o se, invece, è
necessario inviare distintamente ciascuna fattura.
Risposta
La circolare
24.06.2014, n. 18/E, ha precisato che è possibile eseguire
la trasmissione di più fatture elettroniche raccolte in un
unico lotto, avendo cura affinché i requisiti richiesti e le
procedure siano riferiti non ad ogni singola fattura ma al
lotto.
In altri termini, la norma permette «di inserire una sola
vota le informazioni comuni (come, ad esempio, le generalità
dell'emittente e del ricevente, la partita Iva, la residenza
o il domicilio, la data di emissione, l'annotazione che la
fattura è completata dal cliente o da un terzo per conto del
cedente), purché per ogni fattura sia possibile accedere
alla generalità delle informazioni»
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
APPALTI: Fattura
elettronica.
Domanda
Quali sono le regole procedurali che devono essere seguite
per procedere alla conservazione della fattura elettronica?
Risposta
Le fatture elettroniche devono essere conservate in modalità
elettronica attenendosi a quanto è indicato nel Dm 17.06.2014
(e, in precedenza, dal Dm 23.01.2004).
Le fatture create in formato elettronico e le fatture
cartacee possono essere conservate elettronicamente (art.
39, ultimo comma, del Dpr 26.10.1972, n. 633).
In pratica, l'operatore che emette una fattura elettronica
ha l'obbligo di garantire l'origine informatica e
l'integrità del contenuto del documento e deve procedere
alla sua conservazione elettronica.
La posizione del destinatario, invece, è differente poiché
egli può scegliere tra le seguenti alternative:
a) «non accettare» la procedura, procedendo alla
conservazione della fattura su supporto cartaceo, quindi
procedendo alla materializzazione del documento;
b) «accettare» la procedura mediante la stampa e la
conservazione analogica del documento ricevuto
elettronicamente; in pratica, il suo comportamento
concludente concretizza l'avvenuta accettazione della
fattura con il requisito di «fattura elettronica» (pur
effettuandone la registrazione e il pagamento).
Il destinatario che non accetta il documento elettronico,
non preclude all'emittente di integrare la procedura di
fatturazione elettronica con quella di conservazione
elettronica.
«Anche al fine di non creare vincoli alla diffusione della
fatturazione elettronica, si ritiene che tale processo non
debba mantenere un obbligo di simmetria tra emittente e
destinatario della fattura» (circolare 24.06.2014, n. 18/E).
Va osservato che l'emittente ha l'obbligo di conservare
elettronicamente le fatture emesse nei confronti della
Pubblica amministrazione. Questa regola deve essere
osservata anche dall'ufficio che riceve la fattura
elettronica (art. 1, comma 209, della L. 24.12.2007, n. 244)
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
TRIBUTI: Riclassamento
con motivazione.
Domanda
Come deve essere corredato l'atto di rilassamento catastale
di un immobile affinché possa ritenersi legittimo?
Risposta
La giurisprudenza della Corte di cassazione in questi ultimi
anni ha chiarito in molte pronunce che anche gli atti
relativi al riclassamento catastale devono essere
compiutamente motivati al fine di delimitare l'ambito della
dialettica processuale e di porre il contribuente nella
condizione di potersi difendere. L'Amministrazione
finanziaria (in ciò sbagliando gravemente) molto spesso,
invece, non ottempera a tale basilare precetto.
Merita di
essere citata, tra le più recenti, la sentenza n. 16476 del
18.07.2014 nella quale la Suprema corte, confermando le
decisioni della Ctp di Napoli e della Ctr della Campania, ha
negato che l'onere della motivazione dell'atto di variazione
di classamento possa esaurirsi nell'enunciare i soli dati
della consistenza, categoria e classe acclarati
dall'Ufficio.
Questo il principio di diritto enunciato: «In tema di
revisione del classamento catastale di immobili urbani, la
motivazione non può, in conformità alla legge n. 662/1996
(art. 3, c. 58), limitarsi a contenere l'indicazione della
consistenza, categoria e classe attribuite dall'Agenzia, ma
deve specificare, ai sensi dello Statuto del contribuente
(legge 212/2000, art. 7, c. 1), a pena di nullità, a quale
presupposto (il non aggiornamento del classamento o la
palese incongruità rispetto a fabbricati similari) la
modifica debba essere associata e laddove si tratti della
constatata manifesta incongruenza tra il precedente
classamento dell'unità immobiliare e il classamento di
fabbricati similari aventi caratteristiche analoghe, l'atto
impositivo dovrà recare la specifica individuazione di tali
fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche
analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare
oggetto di riclassamento, così rispondendo alla funzione di
delimitare l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio
nella successiva fase contenziosa, nella quale il
contribuente, nell'esercizio del proprio diritto di difesa,
può chiedere la verifica dell'effettiva correttezza della
riclassificazione».
La sentenza ha anche precisato che «il
divieto dei motivi aggiunti, fuori dei ristretti casi
stabiliti dall'art. 24 del Dlgs n. 546/1992, è ragionevole
solo nel presupposto che all'Ufficio sia in corrispondenza
proibito di allegare i ridetti fatti in corso di processo.
Pertanto, l'avviso di classamento è nullo per difetto di
motivazione non solo quando manchi d'indicare gli immobili
serviti da comparazione, ma altresì quando non siano
indicate quali siano le caratteristiche analoghe degli
immobili comparati, ciò che è all'evidenza indispensabile a
mettere il contribuente in grado di contraddire il fatto
allegato a mezzo di specifico motivo (Cass. sez. trib. n.
21532 del 2013; Cass. sez. 6 n. 10489 del 2013)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
NEWS |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: No alla malattia fai-da-te.
Per tornare prima al lavoro serve il certificato.
L'Inps sottolinea l'obbligo dei datori in tema di sicurezza
e salute.
No alla malattia fai-da-te. La prognosi del medico curante è
vincolante sia per il lavoratore che per il datore di
lavoro. Quest'ultimo, pertanto, non può riammettere al
lavoro il dipendente assente per malattia che,
considerandosi guarito, voglia rientrare anticipatamente
rispetto al giorno indicato nel certificato medico.
Il rientro anticipato è possibile soltanto in presenza di un
certificato medico di rettifica dell'originaria prognosi.
A
spiegarlo è l'Inps nel
messaggio
12.09.2014 n. 6973. La regola,
sebbene sia illustrata solo per i dipendenti dell'istituto,
vale in generale per tutti i lavoratori.
Certificati medici online. I chiarimenti, spiega l'Inps, si
sono resi necessari per i numerosi quesiti formulati in
materia di assenza per malattia e casistica del rientro
anticipato nel luogo di lavoro. Come prima cosa, l'istituto
ricorda che l'assenza per malattia dei dipendenti pubblici e
privati è oggi attestata da certificati medici inviati
telematicamente. I medici in particolare effettuano la
predisposizione dei certificati entro le successive 24 ore
alle visite dei propri assistiti, lavoratori dipendenti, e
li inviano al datore di lavoro tramite il «sistema di
accoglienza centrale» (Sac), disponibile sul sito del
ministero dell'economia.
Gli stessi medici, poi, durante
tutto il periodo di prognosi, possono inviare certificati
che annullano i precedenti o li rettificano (per esempio in
caso di evidenti errori o refusi). La rettifica è
l'eventualità nel caso in cui abbiano modo di riscontrare
nel paziente un decorso più favorevole della malattia, tale
da poter ridurre la prognosi.
Dovere di sicurezza e salute. In secondo luogo l'Inps,
richiamando l'art. 2087 del codice civile, spiega che il
datore di lavoro è obbligato ad adottare tutte le misure
necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di
lavoro; e aggiunge che l'art. 20 del dlgs n. 81/2008 (T.u.
sulla sicurezza) obbliga il lavoratore a prendersi cura
della propria salute e di quella delle altre persone
presenti sul luogo di lavoro.
No alla malattia fai-da-te.
Come terza cosa l'Inps ricorda che il datore di lavoro
dispone solo dell'attestato di malattia, in quanto non è
legittimato a ricevere i certificati completi, cioè recanti
anche l'indicazione della diagnosi oltre a quella dei giorni
di assenza accordati dal medico. Pertanto, si chiede l'Inps,
non sapendo né diagnosi né malattia, potrebbe il datore di
lavoro valutare adeguatamente se e in che misura il
dipendente che intenda rientrare prima in servizio abbia
effettivamente recuperato le proprie energie psicofisiche?
Se la risposta è negativa, ne deriva l'impossibilità per il
datore di lavoro di assolvere agli obblighi in materia di
salute e sicurezza sul lavoro. Ed è quanto ritiene l'Inps
che, in conclusione, precisa: ogni dipendente assente per
malattia che, considerandosi guarito, voglia riprendere
anticipatamente il lavoro rispetto alla prognosi del proprio
medico curante, potrà essere riammesso in servizio solo in
presenza di un altro certificato medico di rettifica
dell'originaria prognosi
(articolo ItaliaOggi del 17.09.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità.
Trasferimenti senza vincoli fino a 50 chilometri.
Serve il consenso del dipendente solo per chi ha figli sotto
i tre anni o disabili.
L'introduzione della
mobilità obbligatoria, cioè della possibilità per gli enti
di assegnare i dipendenti ad altre sedi, la limitazione
della mobilità volontaria al solo personale contrattualizzato, la conferma che il passaggio dei
dipendenti ad altra Pa è subordinato al consenso dell'ente
da cui dipendono e la formalizzazione del vincolo della
pubblicità preventiva all'avvio delle procedure di mobilità
volontaria sono le principali novità introdotte in questa
materia dal Dl 90/2014, per come convertito dalla legge
114/2014.
Esse vanno nella direzione di ampliare gli spazi di
flessibilità offerti alle amministrazioni, impegnando le
stesse ad utilizzarli con criteri predeterminati e
pubblicizzati.
La novità di maggiore rilievo è senza dubbio l'istituzione
della mobilità obbligatoria.
I criteri
Con mobilità obbligatoria si intende la possibilità di
trasferire di sede i dipendenti pubblici, senza che sia
necessario il loro consenso. Essi possono essere trasferiti
nello stesso Comune o in un altro centro che non deve però
essere più lontano di 50 km dalla sede in cui sono
utilizzati. Da sottolineare che questo trasferimento può
essere disposto nell'ambito della stessa amministrazione,
nonché tra diverse Pa se le stesse hanno raggiunto uno
specifico accordo o nell'ambito dei criteri dettati dal
ministro della Semplificazione e della Pa. L'intesa non è
necessaria solo se il trasferimento garantisce lo
svolgimento dei compiti istituzionali in amministrazioni con
gravi carenze di organico.
Il consenso
Non è necessario il consenso del dipendente e non occorre
dimostrare la presenza di «comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive», cioè dei requisiti previsti in
via ordinaria dal codice civile per il trasferimento. La
norma prevede che il consenso sia comunque necessario per i
dipendenti di tutti i sessi che hanno figli di età inferiore
a 3 anni e/o che assistono dei congiunti gravemente disabili
e che non sono ricoverati a tempo pieno in istituti
specializzati.
Il decreto
I criteri del ministro della semplificazione e della Pa
devono essere contenuti in un suo specifico decreto per la
cui adozione è richiesta l'intesa della Conferenza
unificata, cosicché diventerà applicabile anche a Regioni ed
enti locali, mentre è sufficiente la semplice consultazione
con i soggetti sindacali.
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Spostamenti volontari con bando.
Le riorganizzazioni. Devono essere indicati requisiti e
competenze professionali richieste.
La mobilità volontaria è
stata oggetto di un attento restyling. Essa può essere
svolta tra Pa che appartengono a comparti diversi, ma non
può più interessare il personale non contrattualizzato, cioè
le categorie a cui non si applica la privatizzazione del
rapporto di lavoro. Ricordiamo che i principali ambiti in
cui non opera la contrattualizzazione sono: forze armate e
dell'ordine, ruoli diplomatici e prefettizi, magistrati,
docenti universitari. Per cui tale personale non potrà più
essere trasferito in mobilità presso Pa in cui si applicano
i contratti privatistici, quali ministeri, enti locali,
sanità, eccetera.
Il via libera dell'amministrazione
Chiarendo le incertezze presenti nella precedente
disciplina, è stato precisato che per la realizzazione della
mobilità volontaria occorre il consenso dell'amministrazione
da cui si dipende. Tale consenso non è necessario per i
passaggi tra sedi centrali di ministeri ed enti pubblici
nazionali se l'amministrazione ricevente ha una percentuale
di posti vacanti superiore a quella cedente. Il consenso
deve essere dato dall'amministrazione: nella nuova
disposizione non è più previsto il parere dei dirigenti.
Il che pone il dubbio se questa scelta sia di competenza
dell'organo di governo o dei dirigenti. Si può ritenere che
il primo debba dare dei criteri di carattere generale,
mentre la competenza gestionale appartiene ai dirigenti, per
cui spetta ad essi l'adozione degli atti.
L'esame delle domande
Sulla scorta delle indicazioni espresse dalla
giurisprudenza, è stato formalizzato che tutte le Pa devono
preventivamente fissare i criteri per l'esame delle domande
e devono garantire una adeguata pubblicità alla volontà di
assumere in mobilità. Viene stabilito che lo specifico bando
debba essere pubblicato per almeno 30 giorni: fino ad oggi,
in assenza di un vincolo legislativo, la pubblicità veniva
effettuata generalmente per non più di 15 giorni. In tale
bando l'ente deve rendere noti i «requisiti e le competenze
professionali» che devono essere possedute dal personale che
si intende assumere in mobilità; si deve ritenere che essi
non possano essere comunque radicalmente diversi rispetto a
quelli previsti per l'accesso dall'esterno. La disposizione
lascia un'ampia autonomia alle singole amministrazioni sulle
procedure selettive da adottare: esse possono spaziare dalla
presentazione dei curricula, allo svolgimento di un
colloquio motivazionale o di una prova selettiva.
Il provvedimento ha infine impegnato il Governo ad adottare
rapidamente un decreto con cui sono fissate le equiparazioni
tra le categorie ed i profili dei vari comparti, così da
rendere più facile la mobilità volontaria tra i vari
comparti.
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mobilità obbligatoria
APPLICAZIONE
I dipendenti pubblici possono essere assegnati ad una sede
diversa della stessa amministrazione o ad un'altra, con cui
sia stata raggiunta una specifica intesa. Al fine di
garantire lo svolgimento dei compiti istituzionali in
amministrazioni con gravi carenze di organico, anche senza
l'intesa
ESCLUSIONI
La mobilità obbligatoria non si applica ai dipendenti non
contrattualizzati
SEDE
La nuova sede deve trovarsi nello stesso Comune o a non più
di 50 km rispetto a quello di partenza
MOTIVAZIONE
Non è richiesta la motivazione delle gravi esigenze di
servizio
CONSENSO
Non serve. Fa eccezione chi ha figli sotto ai 3 anni e/o
assiste un congiunto gravemente disabile, non ricoverato a
tempo pieno
DECRETO
Un decreto del ministro della Pa definirà i criteri
applicativi. La norma è comunque già operativa
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mobilità volontaria
SOGGETTI COINVOLTI
Può riguardare solo il personale pubblico contrattualizzato.
Ambasciatori, prefetti, magistrati, docenti universitari,
forze dell'ordine e militari non possono essere trasferiti
alle dipendenze di Regioni, enti locali, enti del servizio
sanitario, altri ministeri, enti pubblici
BANDI
Le amministrazioni devono pubblicare sul sito per almeno 30
giorni i bandi di mobilità con i requisiti e le competenze
del personale che intendono assumere ed i criteri per
l'esame delle domande
CONSENSO DELL'ENTE
Occorre, salvo sperimentalmente che per i passaggi tra
alcune amministrazioni statali, il consenso dell'ente da cui
si dipende
PARERI DEI DIRIGENTI
Non vengono più richiesti i pareri dei dirigenti da cui si
dipende ed alla cui dipendenza si va
RIQUALIFICAZIONE
L'ente che riceve il dipendente in mobilità deve provvedere,
con oneri a proprio carico, alla sua eventuale
riqualificazione (articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2014). |
APPALTI: Anac rivede la banca dati sulle gare.
L'Authority aumenterà gli interventi di indirizzo e di
vigilanza.
Contratti pubblici. Per Corradino il sistema non funziona,
da semplificare gli obblighi per le imprese.
È sopravvissuta allo
Sblocca Italia, ma il destino della banca dati dei requisiti
messa in piedi dall'Autorità contratti pubblici, soppressa e
sostituita dall'Anac guidata da Raffaele Cantone, sembra
comunque segnato. Nella prima versione del decreto 133/2014
era previsto un nuovo slittamento (il quarto) dell'obbligo
di verificare i requisiti dei partecipanti alle gare
attraverso il sistema Avcpass, entrato in vigore il primo
luglio.
Una misura eliminata dal testo andato in Gazzetta il
12 settembre che però potrebbe riemergere durante l'esame
parlamentare del decreto. A riconoscere che il sistema non è
esente dalla criticità segnalate a più riprese dalle
stazioni appaltanti e dalle imprese sono infatti ormai anche
i nuovi vertici dell'Anac. «Bisogna assolutamente rimetterci
mano -dice Michele Corradino, consigliere Anac con delega
sugli appalti-. Dobbiamo capire perché non sta funzionando
e andare verso un obiettivo chiaro. L'Avcpass è buono nella
sua filosofia, cioè la semplificazione delle procedure. Ma
la sua realizzazione concreta non va. Se dobbiamo
costringere le imprese a chiamare un consulente per capire
come partecipare alla gare, facciamo un danno al mercato».
Per Corradino, che ha preso in mano anche la
riorganizzazione della vecchia Autorità, la revisione dell'Avcpass,
mai decollato tanto che l'obbligo è spesso disatteso, è uno
dei passaggi necessari a costruire il ruolo dell'Anac nel
campo degli appalti. Con due direttrici.
Primo, appunto, la
semplificazione. «Vessiamo ancora gli imprenditori e le Pa
con una serie di vincoli e richieste inutili. Non possiamo
più chiedere dati e autorizzazioni per questioni non
produttive». Secondo, la lotta alla corruzione. «Vogliamo
fare da guida al mercato, ma senza dimenticare che ci
chiamiamo Autorità nazionale anticorruzione.». L'idea è di
valorizzare l'enorme patrimonio di dati sul sistema degli
appalti, mai sfruttato a fondo dall'organo di vigilanza.
«Bisogna creare dei modelli, anche statistici, capaci di far
emergere i punti in cui si annidano le anomalie del mercato,
anche sfruttando la nuova norma che impone di comunicare le
varianti».
E agendo anche sulla Pa. «Nella lotta alla
corruzione -segnala Corradino- non possiamo fermarci agli
appalti. La discrezionalità è la base del sistema
corruttivo. Anche qui si possono creare strumenti per
evidenziare le anomalie, segnalando ad esempio gli uffici
che a un esame statistico risultano in cronico ritardo sul
rilascio dei provvedimenti, pur senza soffrire di problemi
di organico».
L'Anac punta a recuperare un ruolo anche nel processo di
riforma del codice, quantomeno sugli aspetti che la
riguardano più da vicino come la vigilanza. Sul punto è
stata istituita una commissione ad hoc, insediata proprio in
questi giorni.
E si riapre il tema della qualificazione al
mercato dei lavori pubblici, ora gestito tramite società
private. «È una scelta che spetta al legislatore -chiude Corradino- Sappiamo però qual è l'opinione del presidente
Cantone, espressa in sedi ufficiali. Io posso dire da
magistrato che i controlli privati non hanno mai funzionato.
La terzietà è essenziale e può darla solo lo Stato» (articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Centrali di appalto, pronto il decreto per il «club dei 35».
Spending review. I requisiti degli aggregatori.
Il Governo ha definito i
criteri operativi per attuare una delle più rivoluzionarie
iniziative di riforma sistemica degli appalti pubblici: la
sostituzione delle decine di migliaia di stazioni appaltanti
esistenti con solo 35 grandi centrali di committenza.
In
questi giorni è stato trasmesso a Regioni e Comuni la bozza
di Dpcm (di concerto con l'Economia) con i criteri per
selezionare le stazioni appaltanti, in attuazione del Dl
n. 66/2914 (cosiddetto Irpef). Solo chi ha mandato in gara
beni e servizi soprasoglia per almeno 260 milioni
nell'ultimo triennio, e per almeno 50 milioni per ciascun
anno del triennio, potrà concorrere per entrare nella lista
dei 35 «soggetti aggregatori».
L'iscrizione andrà fatta in base a una procedura a cura
dell'Anac, l'assegnazione sarà in base ai valori di appalto.
Tra i soggetti ammessi a fare ingresso in questo "club" il Dpcm ammette le due seguenti categorie di enti: le «città
metropolitane istituite ai sensi del legge 07.04.2014, n.
56 e del decreto legislativo 17.09.2010, n. 156 e le
province» e le «associazioni, unioni e consorzi di enti
locali comunque denominati» (ai sensi del Dlgs 267/2000).
Più esattamente, ai fini del calcolo dell'ammontare, i
predetti soggetti «devono avere avviato, nei tre anni solari
precedenti la richiesta procedure per l'acquisizione di beni
e servizi di importo a base di gara pari o superiore alla
soglia comunitaria, il cui valore complessivo sia superiore
a 260.000.000 euro nel triennio e comunque con un valore
minimo di 50.000.000 euro per ciascun anno».
Il bacino di
riferimento per le città metropolitane include tutti gli
enti locali entro il perimetro della provincia. Per quanto
riguarda gli enti locali in forma aggregata pesa il valore
di ciascun ente che fa parte dell'associazione (o unione o
consorzio).
La valutazione ricorda una vera e propria gara, preceduta da
una fase istruttoria di due mesi, che si contano
dall'entrata in vigore del Dpcm: entro i primi 30 giorni l'Anac
dovrà deliberare le procedure per l'iscrizione; entro i
successivi 30 giorni i soggetti interessati chiedono
l'iscrizione applicando in base alle indicazioni dell'Anac.
Nel caso delle città metropolitane non formalmente
costituite la richiesta di iscrizione viene trasmessa dalla
Provincia.
Segue la “gara”. L'Anac verifica i requisiti
interrogando la banca dati nazionale dei contratti pubblici.
Poi stila una graduatoria in base al valore degli importi
mandati in gara: la lista avrà un «ordine decrescente
basato sul più alto valore complessivo delle procedure
avviate (...) fino al raggiungimento del numero massimo
complessivo dei soggetti aggregatori». La "graduatoria"
si riapre ogni tre anni, con la verifica dei soggetti
inclusi nell'elenco e di quelli esclusi (articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, cambio d'uso semplice. Un albergo può trasformarsi
con facilità in una residenza. Più semplice il cambio di
destinazione d'uso in edilizia. DL SBLOCCA ITALIA/ Il dl 133 prevede solo quattro categorie
di destinazione urbanistica.
Il decreto legge sblocca Italia (n. 133/2014) introduce
l'articolo 23-ter al Testo Unico per l'edilizia (dpr
380/2001) e individua quattro categorie di destinazione
urbanistica. Solo il passaggio da una categoria all'altra è
mutamento di destinazione d'uso, mentre i cambi di uso
all'interno della medesima categoria sono dequalificati.
Così se un albergo diventa residenza non sarà un mutamento
di destinazione di uso. Questo salvo che le regioni stabiliscano diversamente.
Ma vediamo il dettaglio della nuova disposizione.
L'articolo 23-ter del Testo Unico per l'edilizia individua
quattro classi: a) residenziale e turistico-ricettiva; b)
produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
La norma stabilisce che per la legge nazionale costituisce
mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di
utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, anche se non accompagnata
dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare
l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare
considerati a una diversa categoria funzionale.
Il mutamento di destinazione di uso può essere con o senza
opere. Nel secondo caso si parla di mutamento funzionale di
destinazione di uso; nel primo caso si parla di mutamento
strutturale di destinazione di uso.
Questo significa che il passaggio da destinazione
residenziale a direzionale è mutamento di destinazione di
uso (perché si passa da una categoria a una diversa); mentre
il passaggio dalla destinazione direzionale a quella
produttiva o dalla turistica a residenziale non è mutamento
di destinazione di uso rilevante ai fini della legislazione
edilizia.
Quanto alla identificazione delle categorie, comunque,
prevale la legge regionale.
Alcune regioni hanno già una regolamentazione normativa dei
cambi d'uso, con categorie diverse da quelle del decreto
Sblocca Italia. Per esempio vi sono regioni in cui la
destinazione turistico-ricettiva è considerata a sé stante e
non associata alla destinazione residenziale oppure in cui
la destinazione direzionale è autonoma rispetto alla
destinazione produttiva.
La rilevanza di un cambio di utilizzo come formale
variazione della destinazione d'uso implica dover ottenere
permessi e pagare oneri. La non rilevanza significa, di
regola, meno casi in cui bisogna conseguire un titolo
edilizio e meno spese per contributi di costruzione.
Ad esempio in alcune leggi regionali si prevede che solo
sono onerosi i mutamenti delle destinazioni d'uso, anche in
assenza di opere edilizie, solo nei casi in cui si verifichi
il passaggio dall'una all'altra delle categorie censite.
L'onerosità, di regola, è commisurata alla differenza tra
gli oneri dovuti per la classe della nuova destinazione
d'uso e quelli dovuti per la destinazione in atto, con
obbligo di versamento del conguaglio.
La norma si spinge a disposizioni di dettaglio. In
particolare la destinazione d'uso di un fabbricato o di una
unità immobiliare va determinata prendendo quella prevalente
in termini di superficie utile: in caso di unità con uso
promiscuo (casa e ufficio, ad esempio) prevale quella che
occupa più superficie ed è questa categoria quella che deve
essere presa in esame per valutare cambi d'uso.
L'articolo 23-ter si chiude con una norma di carattere
generale e cioè che il mutamento della destinazione d'uso
all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito. Anche qui, però, la legislazione regionale
potrebbe disporre diversamente e in quel caso prevale sulla
legge nazionale.
Lo stesso va detto per i piani regolatori e in generale per
gli strumenti urbanistici comunali, che possono vietare il
mutamento di destinazione di uso anche all'interno della
medesima categoria
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Niente congedo al convivente.
Il permesso al genitore del disabile.
Il convivente non ha diritto al congedo per l'assistenza del
proprio partner disabile; pertanto, ne può fruire il
genitore (del disabile), anche se non convivente.
Lo precisa
il Ministero del lavoro nell'interpello
15.09.2014 n. 23/2014,
rispondendo all'Anci che ha chiesto di sapere proprio se sia
possibile concedere la fruizione del congedo al genitore del
disabile, pur in presenza di convivente non coniugato di
quest'ultimo.
Il congedo, previsto dall'art. 42, comma 5,
del T.u. maternità (dlgs n. 151/2001), è riconosciuto al
coniuge convivente di soggetto con handicap in situazione di
gravità, per un periodo non superiore a due anni. In
mancanza, per decesso o patologie del coniuge convivente, il
congedo spetta ai seguenti soggetti (con ordine di
priorità): padre o madre anche adottivi; uno dei figli
conviventi; uno dei fratelli o sorelle conviventi.
L'Inps (circolare n. 41/2009) ha precisato che i genitori
naturali o adottivi e affidatari hanno diritto al congedo
solo nella misura in cui si verifichi una delle seguenti
condizioni: il figlio (disabile) non sia coniugato o non
conviva con il coniuge; il coniuge (del figlio disabile) non
lavori o sia lavoratore autonomo o abbia espressamente
rinunciato al congedo. La corte costituzionale, inoltre, ha
dichiarato l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, nella
parte in cui non include tra i soggetti beneficiari il
parente o affine entro il terzo grado convivente, in caso di
mancanza, decesso o patologie invalidanti degli altri
soggetti (sentenza n. 203/2013).
Da tanto, spiega il ministero, ne deriva che
l'individuazione dei soggetti con diritto al congedo non è
suscettibile d'interpretazione analogica, ma risulta
tassativa anche in ragione del fatto che durante la
fruizione del congedo il richiedente ha diritto a
un'indennità.
Pertanto, ritiene in conclusione che, nell'ipotesi in cui il
disabile non risulti coniugato o non conviva con il coniuge,
ovvero quest'ultimo abbia effettuato espressa rinuncia al
congedo, l'art. 42, comma 5, del T.u. maternità «consenta
al genitore non convivente di beneficiare del periodo di
congedo, anche laddove possa essere garantita idonea
assistenza da parte di un convivente more uxorio, non
essendo tale soggetto legittimato a fruire del diritto»
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: DL
SBLOCCA ITALIA/
Per l'edilizia meno vincoli e disciplina più semplice.
Riqualificazione aree industriali dismesse in deroga ai
piani urbanistici.
Con il Dl 133/2014,
entrato in vigore il 12 settembre, si allarga il novero
degli interventi di manutenzione straordinaria: ne fanno da
ora ugualmente parte il frazionamento e l'accorpamento delle
unità immobiliari, anche mediante la variazione delle
relative superfici e del carico urbanistico purché non muti
la volumetria complessiva e l'originaria destinazione.
Si
noti che il carattere gratuito delle opere di manutenzione
viene posto in dubbio dal nuovo articolo 17, comma 4, del
Testo unico edilizia dove, al pari delle opere sul
patrimonio statale, anche la manutenzione straordinaria
sconterebbe il contribuito commisurato agli oneri di
urbanizzazione restando esentata dalla quota relativa al
costo di costruzione. In sede di conversione il punto merita
di essere chiarito.
Riqualificazione urbana
I regolamenti locali potranno individuare gli edifici da
espropriare, mediante il riconoscimento di forme
compensative, per procedere alla riqualificazione urbana.
Deroga alle regole urbanistiche
Nuova fattispecie per i permessi di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici territoriali: finora ammessi in caso
di edifici pubblici, oggi possibili anche per gli interventi
di ristrutturazione edilizia e urbanistica anche in aree
industriali dismesse. In tali casi, l'interesse pubblico
dovrà essere attestato con delibera del consiglio comunale.
Il permesso di costruire convenzionato, strumento finora
noto solo alle esperienze regionali e locali, potrà far
luogo degli strumenti di pianificazione attuativa, che hanno
procedimenti di approvazione notevolmente più lunghi. Il
permesso convenzionato varrà quando le esigenze di
urbanizzazione di una determinata area potranno essere
soddisfatte mediante modalità semplificate.
Quanto ai termini per il rilascio, ora tutti i comuni devono
rispettare i termini «ordinari» (60 giorni per
l'istruttoria, l'acquisizione dei pareri e la formulazione
del provvedimento con possibilità di interruzione nei primi
30 giorni per richiesta di integrazioni). La possibilità di
raddoppio sussiste solo per i progetti particolarmente
complessi.
Proroga dei termini edilizi
Quando l'inizio o la fine dei lavori sono impediti da
iniziative della Pa o dell'autorità giudiziaria che si
rivelano poi infondate, la relativa proroga è un atto
dovuto.
Contributo di costruzione
Gli strumenti di trasformazione urbana complessi scontano un
regime agevolato del costo di costruzione: i relativi atti
di pianificazione attuativa (piani di recupero, piani
particolareggiati) potranno infatti prevedere che il
contributo di costruzione sia commisurato unicamente al
costo di costruzione e non anche all'incidenza degli oneri
di urbanizzazione. Dovrà in ogni caso essere garantita la
corretta urbanizzazione, l'infrastrutturazione e l'insediabilità
degli interventi.
Inoltre, i Comuni possono deliberare i contributi di
costruzione per gli interventi di ristrutturazione in misura
inferiore ai valori determinati per le nuove costruzioni.
Per gli immobili dismessi o in via di dismissione, il
contributo di costruzione per gli interventi di
ristrutturazione, recupero e riuso potrà essere ridotto in
misura superiore al 20 per cento.
Addio Dia
Dopo più di quattro anni dalla sua introduzione
nell'ordinamento giuridico, la Scia sostituisce a tutti gli
effetti la Dia edilizia, che sopravvive solo ove prevista in
sostituzione del permesso di costruire (ex Super Dia). Scia
anche per le varianti minori a permessi di costruire, a
condizione che gli interventi siano conformi alle
prescrizioni urbanistico-edilizie e siano attuati dopo
l'acquisizione degli eventuali atti di assenso prescritti
dalla normativa sui vincoli.
Cambio d'uso
Si amplia la maglia del mutamento di destinazione d'uso: è
rilevante solo la modifica che comporta l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità a una differente categoria
funzionale tra (a) residenziale e turistico-recettiva (b)
produttiva e direzionale, (c) commerciale, (d) rurale. È
fatta salva la possibilità per le Regioni di disciplinare
differentemente la materia.
Lottizzazione per stralci funzionali
Modifiche anche alla legge Urbanistica (1150/1942) il cui
articolo 28 oggi concede la possibilità di procedere per
stralci funzionali, per fasi e tempi distinti. Per ogni
stralcio funzionale dovranno essere quantificati gli oneri
di urbanizzazione o le opere di urbanizzazione da realizzare
e le relative garanzie; l'attuazione parziale dovrà
risultare coerente con l'intera area oggetto d'intervento.
Permessi in conferenza di servizi
Si allinea la validità dei termini dei permessi
endoprocedimentali che si formano in seno ad una conferenza
di servizi: tutti decorreranno a far data dall'adozione del
provvedimento finale.
Autorizzazione paesaggista
Scompare di nuovo il ricorso alla conferenza di servizi
nell'ambito del procedimento di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica: prima abolita dal Dl 84/2014, poi
reintrodotta con la legge di conversione, oggi scompare di
nuovo con il Dl 133. Di conseguenza, decorsi 60 giorni dalla
ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che
questi abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione
competente provvede comunque sulla domanda di
autorizzazione (articolo Il Sole 24 Ore del
16.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: In edilizia «sicurezza» standard.
I modelli semplificati possono essere adottati dai
committenti e dalle imprese.
Prevenzione. In «Gazzetta Ufficiale» il decreto
interministeriale che rende operativa la normativa
introdotta con il Dl del fare.
È finalmente operativa la
semplificazione dei modelli obbligatori previsti in materia
di sicurezza sul lavoro nel settore dell'edilizia.
L'operazione è stata regolamentata dal
decreto
09.09.2014 (pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» 212
del 12 settembre) dei ministri del Lavoro, delle
Infrastrutture e della Sanità, in attuazione dell'articolo
104-bis del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla sicurezza sui
luoghi di lavoro), introdotto dall'articolo 32 del Dl 69/2013,
convertito dalla legge 98/2013 (cosiddetto Decreto del fare).
Il decreto ministeriale contiene quattro allegati i quali
riguardano, rispettivamente, il modello semplificato del
piano operativo di sicurezza (Pos) di cui agli articoli 89,
comma 1, lettera h) e 96, comma 1, lettera g); del Tu (all.
I), del piano di sicurezza e coordinamento (Psc), di cui
agli articoli 91 e 100 del Testo unico (all. II); del piano
di sicurezza sostitutivo (Pss), di cui all'articolo 131,
comma 2, lettera b), del Dlgs 163/2006 (Codice dei contratti
pubblici) (all. III) e del fascicolo dell'opera di cui
all'articolo 91, comma 1, lettera b), del Testo unico (all. IV).
I modelli semplificati, il cui utilizzo non è obbligatorio,
fornisce ai committenti e ai datori di lavoro delle imprese
esecutrici di opere pubbliche e private un valido indirizzo
standardizzato ai fini della redazione dei documenti.
L'alternativa, per gli interessati, è di seguire un proprio
criterio che affronta il rischio, nel qual caso il modello
potrebbe essere considerato incompleto o non rispondente
alle previsioni della legge da parte dell'organo di
vigilanza, con l'applicazione dei conseguenti provvedimenti
sanzionatori.
Nel merito dei singoli modelli si evidenzia che non sempre,
obiettivamente, questi possono ritenersi semplificati. In
particolare questa osservazione vale per il Pos e il Pss,
dove vengono richieste notizie sulle mansioni di alcuni
soggetti con posizioni di responsabilità, già previste dalla
legge, e sui nominativi di lavoratori impegnati in
determinate funzioni o circostanze, non previsto dalla
legge.
Questi modelli prevedono, tra l'altro, una tabella
riepilogativa dei livelli di esposizione al rumore e, per
ciascun lavoratore, l'indicazione della erogata
informazione, dell'avvenuta formazione riguardante i rischi
specifici e di mansioni, nonché l'eventuale addestramento
previsto per particolari dispositivi di protezione
individuale.
È evidente che con tali registrazioni ed altre similari
viene a costituirsi un documento il quale deve essere di
volta in volta completato con le variazioni che intervengono
nel tempo. Poiché dovranno essere conservate le precedenti
registrazioni, si avranno, pertanto, più documenti per lo
stesso cantiere.
L'annotazione vale ovviamente anche per il Pss, che va
redatto quando –per la natura dell'opera pubblica e per la
sua durata– non sia previsto il Psc. Il Pos, come il Pss,
vanno redatti dal datore di lavoro dell'impresa esecutrice.
Il modello relativo al Psc, redatto dalla coordinatore per
la progettazione, prevede, tra l'altro, l'elaborazione
dell'organigramma per l'appalto dell'opera che, partendo dal
committente, individua i vari soggetti i quali sono chiamati
alla sua realizzazione, dall'impresa affidataria, a quella
esecutrice, fino ai lavoratori autonomi. Il modello del Psc
si interessa della valutazione dei rischi non solo
dell'istituendo cantiere, ma anche dell'area esterna alla
quale è interessato il cantiere stesso, nonché dei rischi da
interferenza tra le lavorazioni.
Il modello riguardante il fascicolo dell'opera (redatto dal
coordinatore per la progettazione), il quale accompagna nel
tempo la vita dell'opera stessa, sintetizza quanto già
prescritto dall'allegato XVI del Testo unico e pone in
particolare rilievo le misure preventive e protettive che
andranno in dotazione all'opera e ausiliarie, prevedendo,
nel tempo, sia il tipo di probabile intervento manutentivo,
sia l'individuazione degli eventuali rischi (articolo Il Sole 24 Ore del
16.09.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo al genitore al posto del convivente.
Disabili. L'interpretazione del ministero.
Il genitore non
convivente può beneficiare del periodo di congedo previsto
dall'articolo 42, comma 5, del Testo unico in materia di
tutela e sostegno della maternità e della paternità (Dlgs
151/2001) anche quando al disabile in situazione di gravità
può essere garantita idonea assistenza da parte di un
convivente, non essendo questi legittimato a fruire del
diritto.
Lo ha affermato il ministero
del Lavoro in risposta all'interpello
15.09.2014 n. 23/2014 dell'Anci, che si era
avvalsa della possibilità offerta dall'articolo 9 del Dlgs
124/2004 per chiedere un parere sulla possibilità di concedere
la fruizione del congedo al genitore del disabile, pur in
presenza di convivente non coniugato di quest'ultimo.
Prendendo spunto dalla tassatività dei soggetti che possono
avere titolo al periodo di congedo accompagnato dalla
relativa indennità a carico dell'Inps, i tecnici si sono
espressi positivamente. Ciò anche in relazione alla
impossibilità di un'estensione per via analogica degli
aventi diritto al congedo.
Con altra risposta a interpello (22/2014) il ministero ha
affrontato, poi, una problematica connessa alla
computabilità delle altre categorie diverse dai disabili,
tutelate dalla legge 68/1999, in caso di cambio d'appalto. È
stato chiesto, se, nelle ipotesi di cambio d'appalto e di
conseguente obbligo contrattuale di assunzione del personale
già in forza ai sensi dell'articolo 4 del Ccnl per i
dipendenti di imprese di pulizia/multiservizi, l'azienda
subentrante debba procedere ad una assunzione ex novo di un
altro soggetto orfano o possa ritenersi riconosciuto ai fini
degli obblighi di legge il soggetto orfano già in forza ma
non riconosciuto come tale ex lege 68/1999.
Per i tecnici l
datore di lavoro subentrante potrà computare nella quota di
riserva ex articolo 18, comma 2, il personale orfano assunto
in applicazione dell'obbligo contrattuale di cui
all'articolo 4 del Ccnl citato (articolo Il Sole 24 Ore del
16.09.2014). |
APPALTI: Appalti, poteri forti per l'Anac. L'Autorità può proporre di
commissariare l'appaltatore. Le novità sull'anticorruzione introdotte dalla l. 114/2014
di conversione del dl p.a..
Più poteri all'Anac contro la corruzione negli appalti
pubblici con il commissariamento dell'appaltatore, del
concessionario e del contraente generale. I pagamenti
all'impresa potranno essere sospesi e l'utile di impresa
accantonato in un fondo. Infine, l'unità operativa per Expo
2015 resterà in carica fino a tutto il 2016.
Sono alcuni dei
punti principali contenuti nell'articolo 32 del
decreto-legge 90/2014 convertito dalla legge 11.08.2014,
n. 114.
La disposizione, nell'ambito dell'attività di
prevenzione della corruzione scatta quando in relazione al
singolo appalto emergano rilevanti anomalie o comunque
situazioni sintomatiche di condotte illecite, ovvero vi
siano fatti gravi e accertati, anche in seguito a denunce di
illeciti da parte di dipendenti della pubblica
amministrazione. In tali ipotesi, il presidente dell'Anac
(Autorità nazionale anti corruzione) può proporre al
prefetto competente di assumere direttamente il controllo
dell'impresa attraverso un'amministrazione straordinaria
temporanea (fino all'esecuzione del contratto), oppure di
imporre all'impresa di rinnovare gli organi sociali.
In
commissione due le principali novità rispetto al testo
governativo: è stato introdotto l'obbligo per il presidente
dell'Anac di informare il procuratore della repubblica e
soprattutto è stata estesa la disciplina
dell'amministrazione straordinaria temporanea anche ai
concessionari di lavori pubblici e ai contraenti generali.
La modifica potrà consentire all'Anac di applicare i poteri
conferiti dalla norma anche a casi come il Mose, oggetto di
una concessione affidata nel 1984 o ad affidamenti a
contraenti generali (grandi infrastrutture) per i quali
dovessero emergere elementi di condotte illecite. Viene
anche chiarito che la competenza del prefetto è in relazione
al luogo in cui ha sede la stazione appaltante e quindi non
rileva la sede legale dell'impresa oggetto di accertamenti.
Il prefetto, fatte le proprie valutazioni, provvede con
decreto alla rinnovazione degli organi sociali se l'impresa
non si adegua spontaneamente entro trenta giorni; nei casi
più gravi, entro dieci giorni nomina fino a un massimo di
tre amministratori in possesso dei requisiti di
professionalità e onorabilità previsti dalla legge. In fase
di esame parlamentare, rispetto al testo iniziale del
decreto legge, è stato introdotto, come novità, un limite di
durata al provvedimento di amministrazione straordinaria
temporanea che è stato individuato nella emissione del
certificato di collaudo dell'opera.
L'amministrazione straordinaria temporanea viene qualificata
dalla norma come attività di pubblica utilità con la
conseguenza che gli amministratori rispondono per eventuali
diseconomie soltanto in caso di dolo o colpa grave. Ipotesi
di revoca del decreto di nomina degli amministratori sono
l'adozione di provvedimento di sequestro, confisca o
amministrazione giudiziaria dell'impresa aggiudicatrice
dell'appalto, ipotesi alle quali si aggiunge anche
l'archiviazione del procedimento e che l'autorità
giudiziaria conferma, ove possibile, gli amministratori
nominati dal prefetto.
Durante l'amministrazione straordinaria, i pagamenti
all'impresa non sono sospesi, ma l'utile d'impresa derivante
dal contratto di appalto pubblico (determinato dagli
amministratori in via presuntiva) deve essere accantonato in
un apposito fondo; quindi non può essere distribuito, oltre
che fino all'esito del giudizio penale, fino all'esito dei
giudizi sull'informazione antimafia interdittiva. Possibile
nominare tre esperti da parte del prefetto per svolgere
funzioni di sostegno e monitoraggio dell'impresa, se le
indagini penali riguardano membri di organi societari
diversi da quelli dell'impresa aggiudicataria dell'appalto.
Le misure di amministrazione, sostegno e monitoraggio si
applicano anche se l'impresa è oggetto di informazione
antimafia interdittiva da parte del prefetto; quest'ultimo
informa dell'adozione delle misure il presidente dell'Anac.
Le misure sono comunque revocate o cessano di produrre
effetti all'esito di procedimenti penali e di prevenzione.
Per quel che riguarda l'unità operativa con compiti di
vigilanza e di alta sorveglianza su Expo 2015, la norma,
modificata in commissione, prevede che la sua operatività
duri fino «alla completa esecuzione dei contratti di appalto
di lavori, servizi e forniture per la realizzazione delle
opere e delle attività connesse allo svolgimento del grande
evento» e comunque, non «oltre il 31.12.2016»
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Tetto massimo agli incentivi acquisibili dai
tecnici p.a.
Con il nuovo Fondo per la progettazione e l'innovazione
previsto un tetto massimo agli incentivi acquisibili da ogni
tecnico della p.a. Ed è eliminato il premio per gli atti di
pianificazione.
Sono gli effetti della riscrittura della disciplina premiale
che riguarda i professionisti degli uffici tecnici delle
amministrazioni, dopo che l'articolo 13-bis del decreto
legge 90, convertito nella legge 114/2014, ha sostituito i
commi 5 e 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti
pubblici.
Non cambia l'entità complessiva dell'incentivo,
fissata al 2% degli importi posti a base di gara di un'opera
pubblica; si crea però un fondo ad hoc, presso ogni
amministrazione («Fondo per la progettazione e
l'innovazione») che servirà a incentivare le attività di
progettazione, di direzione dei lavori, di verifica dei
progetti, di collaudo e altre attività tecniche.
Per un 20%,
invece, le risorse del Fondo dovranno essere destinate
all'acquisto, da parte dell'ente, di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali alla realizzazione di progetti di
innovazione, di banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa e di ammodernamento o efficientamento
dell'ente e dei servizi ai cittadini.
Le risorse inutilizzate potranno essere usate nei tre anni
successivi. Si potrà graduare l'incentivo in base
all'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera,
dei tempi e dei costi previsti nel progetto esecutivo; sulla
stessa linea la norma prevede che si possano ridurre le
risorse destinate al Fondo in caso di mancato rispetto dei
costi e dei tempi previsti nel quadro economico del progetto
esecutivo, depurato del ribasso d'asta.
Un'altra novità significativa è rappresentata dal fatto che
il tetto all'incentivo non è più individuato singolarmente:
si passa infatti da un tetto, applicabile a ogni incentivo,
pari al trattamento economico complessivo annuo lordo (per
il personale non dirigenziale), a un tetto, che non solo
scende dal 100% al 50% del trattamento (25% per i
dirigenti), ma viene applicato alla somma di tutti gli
incentivi corrisposti al dipendente nel corso dell'anno
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
APPALTI:
Aggregazione domanda, meno vincoli ai piccoli comuni.
Meno vincoli per i piccoli comuni alla centralizzazione
degli appalti: slitta a fine anno (a metà 2015 per i lavori)
l'obbligo di aggregazione della domanda; possibili
affidamenti fino a 40 mila euro.
È quanto si desume
dall'articolo 23-bis del testo del decreto-legge 90
convertito in legge 11.08.2014, n. 114 che prevede un
intervento di proroga del termine dell'entrata in vigore, in
origine fissato al 1° luglio, della nuova disciplina sulla
centralizzazione delle procedure di acquisizione di lavori,
servizi e forniture, da parte di tutti i comuni non
capoluogo di provincia, attraverso modalità di aggregazione.
L'articolo 33-bis del codice dei contratti pubblici (dlgs
163/2006) prevede che i piccoli comuni procedano
all'acquisizione di lavori, beni e servizi: nell'ambito
delle unioni dei comuni, ove esistenti; mediante un apposito
accordo consortile tra comuni, avvalendosi dei competenti
uffici; ricorrendo a un soggetto aggregatore; ricorrendo
alla province o alla Consip o ancora alle centrali di
committenza regionali.
L'articolo modificativo dispone che,
per i comuni istituiti a seguito di fusione, l'obbligo
decorre dal terzo anno successivo a quello di istituzione.
Con l'articolo 23-ter si fissano poi nuovi termini per
l'entrata in vigore della disciplina per tutti i comuni non
capoluogo di provincia che non abbiano adottato procedure di
fusione. Il termine del 1° luglio viene così differito al 01.01.2015, quanto all'acquisizione di beni e servizi; al
01.07.2015 quanto all'acquisizione di lavori.
Viene poi disposta la non applicazione della disciplina
medesima agli enti pubblici impegnati nella ricostruzione
delle località dell'Abruzzo danneggiate dal sisma
dell'aprile 2009 (dl 39/2009); delle località
dell'Emilia-Romagna danneggiate dal sisma del maggio 2012
(dl 74/2012); ai comuni con popolazione superiore a 10 mila
abitanti, limitatamente agli acquisti di beni, servizi e
lavori di valore inferiore ai 40 mila euro, possibilità che
con la legge 89/2014 era stata esclusa espressamente e
adesso viene ripristinata
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
ENTI LOCALI - VARI:
CIRCOLAZIONE/1 Sosta in città. Una tolleranza di
15 minuti
L'automobilista che tarda a recuperare il veicolo
parcheggiato sulle strisce blu non incorrerà in nessuna
multa entro 15 minuti dalla scadenza del ticket purché abbia
regolarmente pagato almeno un'ora di sosta continuativa. Ma
se non espone nulla sono 41 euro di sanzione.
Lo ha chiarito la polizia municipale di Torino con la
circolare/informativa 04.08.2014.
La questione della sosta dei veicoli nelle zone a pagamento
oltre al termine consentito è salita alla ribalta nei mesi
scorsi dopo le dichiarazioni del ministro Lupi
immediatamente contraddette, di fatto, dall'Anci.
A parere del ministro dei trasporti per chi sfora l'orario
concordato non devono scattare sanzioni ma solo recuperi
tariffari. Per l'Associazione dei comuni, invece, il codice
stradale prevede una sanzione ad hoc oltre al possibile
recupero. Con la delibera torinese l'interpretazione dell'Anci
viene tradotta in regole operative introducendo però un
nuovo margine di tolleranza per i ritardatari.
Per agevolare l'utente che non riesce a rispettare il
termine fissato con il pagamento viene introdotta una
franchigia fissa di 15 minuti. Purché l'interessato abbia
pagato regolarmente almeno un ora di sosta continuativa.
Solo dal 16° minuto scatterà la multa che sarà più salata
per chi non paga nulla oppure, se ha pagato il ticket,
omette di esporlo sul cruscotto del proprio veicolo (41
euro).
Si conferma infatti, conclude la nota, l'equiparazione della
mancata esposizione alla mancata titolarità del biglietto (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità volontaria in cerca del «consenso».
Non è chiaro chi deve dare il via libera al trasferimento.
Decreto Pa. Molti i dubbi applicativi sollevati dalle nuove
regole sul personale.
Inclusione o meno degli
oneri dei dipendenti delle società nella base di calcolo
dell'incidenza della spesa del personale sulle spese
correnti, compiti dei dirigenti nella mobilità, diritti di
rogito dei segretari, ambiti di applicazione delle
limitazioni ai compensi accessori per gli avvocati ed il
personale degli uffici tecnici: sono questi i principali
dubbi applicativi sollevati dal Dl 90/2014.
Nelle procedure di mobilità volontaria è scomparso il
vincolo dei pareri espressi dai dirigenti del settore in cui
il dipendente è impegnato e di quello in cui sarà impegnato,
e ha formalizzato la necessità del consenso
dell'amministrazione cedente. Da qui la domanda: la
competenza ad esprimere il consenso è dei dirigenti? E quale
è il ruolo dell'organo di governo? Solamente di indirizzo,
come sembrano suggerire i principi generali?
Prima delle assunzioni a tempo determinato di durata
superiore le amministrazioni devono verificare
l'«impossibilità di ricollocare il personale in
disponibilità iscritto nell'apposito elenco». Come si
accerta questa impossibilità? Con le procedure previste per
le assunzioni a tempo indeterminato dall'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001, che non è richiamato? E vi sono sanzioni in
caso di inosservanza? Questo vincolo si applica anche alle
assunzioni di dirigenti e responsabili ex articolo 110 Tuel
e a quelle degli uffici di staff degli organi politici?
Possono essere conferiti ai pensionati incarichi
professionali o di componenti di organismi obbligatori,
quali i revisori dei conti? E costoro possono essere
nominati commissari negli enti locali sciolti?
La
disposizione vieta il conferimento di incarichi
dirigenziali, di consulenza e di componenti gli organi di
governo, con esclusione degli assessori. La risposta
dovrebbe essere negativa in base al divieto di
interpretazioni estensive o analogiche delle disposizioni
che limitano le prerogative individuali.
E chi sono i segretari non dirigenti che possono continuare
a percepire i diritti di rogito (la cui base di calcolo è
stata peraltro ampliata, mentre è stato abbassato il tetto
massimo individuale, per cui la misura del compenso
percepito in molti piccoli Comuni crescerà), visto che né il
contratto né la legislazione lo stabiliscono? Solo quelli di
prima nomina? E i segretari che sono in convenzione tra
comuni con e senza dirigenti?
Le nuove limitazioni alla incentivazione dei dipendenti
degli uffici tecnici si applicano anche nelle Regioni a
statuto speciale? In questi compensi devono essere compresi
anche gli oneri per l'Irap? E il divieto di percezione si
estende, ma non sembra, ai titolari di posizione
organizzativa che svolgono compiti dirigenziali?
E come conciliare la nuova volontà legislativa di collegare
la erogazione dei compensi accessori per il personale degli
uffici tecnici e gli avvocati alla valutazione delle loro
attività?
Finora solo uno dei molti dubbi ha trovato una risposta
"istituzionale", peraltro prevedibile: la sezione regionale
di controllo della Corte dei Conti dell'Emilia, con il
parere n. 172/2014, ha chiarito che l'abrogazione del
divieto di effettuare assunzioni negli enti in cui il
rapporto tra spesa del personale e corrente supera il 50%
trascina la eliminazione della inclusione degli oneri del
personale delle società nella determinazione di tale
rapporto (articolo Il Sole 24 Ore del
15.09.2014). |
ENTI LOCALI: Ambiti ottimali obbligatori anche per il servizio idrico.
Sblocca-Italia. Rilancio sulle gestioni «associate».
I Comuni devono
partecipare obbligatoriamente agli enti di governo dei
rispettivi ambiti territoriali per il servizio idrico, che
non possono comunque essere inferiori al dimensionamento su
base provinciale e devono essere gestiti in forma unitaria.
Il decreto «Sblocca-Italia» prevede una revisione
complessiva degli elementi di riferimento per
l'ottimizzazione della gestione del ciclo dell'acqua,
modificando le disposizioni del Dlgs 152/2006 sull'assetto a
rete dei servizi e sui possibili modelli gestionali.
Correlandosi all'impostazione generale definita
dall'articolo 3-bis della legge 148/2011, sviluppata in
questi anni da alcune Regioni, la nuova prefigurazione
normativa conferma la competenza del legislatore regionale
in ordine alla definizione degli ambiti territoriali
ottimali, chiarendo che se questi corrispondono con il
territorio regionale (gli "ambiti unici"), qualora sia
necessario per ragioni di efficienza, possono essere
ripartiti un sub-ambiti, ma con dimensioni non inferiori a
quelle delle province o delle città metropolitane.
Il nuovo quadro normativo ribadisce il ruolo fondamentale
dell'ente di governo dell'Ato, al quale hanno l'obbligo di
aderire i Comuni che fanno parte dello stesso ambito: in
caso di mancata adesione la Regione esercita il potere
sostitutivo.
L'ente di governo è chiamato a esercitare tutte le
competenze sul servizio idrico, comprese la programmazione
delle infrastrutture strategiche e, soprattutto, la scelta
della forma di gestione, tra quelle previste
dall'ordinamento comunitario: le nuove disposizioni non
prefigurano peraltro alcun modello vincolante, consentendo
all'ente affidante la scelta più adatta al contesto tra
affidamento in house, società mista con socio privato
operativo o gara. Il percorso di affidamento deve comunque
avvenire nel rispetto delle regole sui servizi pubblici
locali a rete, e in questa linea di sviluppo è esplicitato
il principio di unicità della gestione per ciascun ambito,
per cui al fine di assicurare l'efficienza, l'efficacia e la
continuità del servizio idrico integrato, l'ente di governo
dell'ambito dispone l'affidamento a un gestore unico di
ambito, e questo deve gestire il servizio idrico integrato
su tutto il territorio degli enti locali ricadenti
nell'ambito territoriale ottimale.
La regolazione del rapporto tra l'ente di governo e il
gestore è ricondotta a una convenzione predisposta sulla
base dei disciplinari-tipo elaborati dall'Autorità per
l'energia: questi modelli devono essere assunti a
riferimento anche per i contratti di servizio eventualmente
ricondotti a procedure di gara e per la revisione delle
convenzioni relative alle gestioni in essere.
Il pacchetto di revisione della disciplina del servizio
idrico focalizza l'attenzione anche sulle infrastrutture,
definendo una migliore regolamentazione dell'affidamento in
concessione d'uso gratuita previsto dall'articolo 153 del
Dlgs 152/2006, peraltro correlando questo aspetto al piano
d'ambito.
L'approvazione da parte dell'ente di governo dei progetti
definitivi delle opere per la realizzazione degli
investimenti sulle infrastrutture del servizio idrico viene
configurata inoltre come dichiarazione di pubblica utilità,
e costituisce titolo abilitativo e, ove occorra, variante
agli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale,
esclusi i piani paesaggistici (articolo Il Sole 24 Ore del
15.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edifici, più facile cambiare l'uso. Categorie ridotte a
quattro - I bed and breakfast trattati come le abitazioni.
«Gazzetta Ufficiale». Le novità introdotte dal decreto legge
133/2014 per il rilancio dei cantieri - La Scia al posto
della Dia.
Da ieri sono in vigore le
modifiche alla normativa edilizia, sintetizzabili in
accelerazioni e rettifiche. La norma che contiene il mosaico
di novità è l'articolo 17 del decreto legge 133/2014
(«Sblocca–Italia), pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 212
del 13 settembre, con l'intenzione di voler attuare uno
sviluppo sostenibile, da un lato recuperando il patrimonio
edilizio e dall'altro riducendo il consumo di suolo.
Questa
premessa è utile per sovrapporre la nuova norma statale a
quelle regionali, dando cioè caratteristiche di generalità e
di semplificazione alle innovazioni introdotte, tali da
potersi applicare immediatamente anche a livello locale, pur
in presenza di norme di dettaglio difformi.
Recupero agevolato
Il recupero del patrimonio edilizio è agevolato con
disposizione tecniche di dettaglio e con nuove previsioni.
Nuovi sono ad esempio gli «interventi di conservazione», che
gli strumenti urbanistici locali possono prevedere
individuando edifici «non più compatibili» e che possono
essere qualificati con meccanismi misti (compensazioni) e
accordi. Accanto al meccanismo di esproprio, strumento
troppo rigido e che esige liquidità dell'ente locale, il
legislatore prevede la riqualificazione attraverso forme di
compensazione, quindi con premi di volumetria e un generale
sistema di accordi.
Ciò si legge nell'articolo 3-bis del Dpr
380/2001 inserito dall'articolo 17, comma 1, del decreto
133/2014. I rapporti con i privati sono rimessi alla
contrattazione, nel rispetto del pubblico interesse e al
fine di garantire imparzialità e buon andamento
dell'amministrazione: ciò significa che saranno necessarie
pubblicità, consultazione e contraddittorio con le parti
interessate (compresi gli imprenditori con progetti in
concorrenza). Nell'attesa che parta la riqualificazione, gli
edifici non compatibili e incongrui possono solo essere
conservati con opere di manutenzione e ristrutturazione,
evitandone le demolizioni non giustificate da ragioni di
ordine statico o igienico sanitario. In altri termini, non
saranno possibili interventi singoli e limitati, ma
occorrerà confrontarsi con l'ente locale per riqualificare
più ampie aree.
La stessa logica si legge nell'articolo 17, comma 1, lettera
e, che amplia le possibilità di interventi in deroga anche
in aree industriali dismesse, interventi ora possibili con
una delibera del consiglio comunale che attesti l'interesse
pubblico a singole, localizzate modifiche di pianificazione.
L'innovazione consiste nell'estendere la deroga anche a
ristrutturazioni edilizie e urbanistiche, cioè anche a
interventi di particolare consistenza come appunto quelli
che possono interessare le aree industriali dismesse.
Inoltre, le deroghe possono riguardare non solo volume,
altezze e distanze, ma anche le destinazioni d'uso, con
un'ampia capacità di modificare la pianificazione sulla
quale si interverrà con delibera del consiglio comunale.
Ancora nell'ottica del recupero e della riduzione del
consumo del territorio, vi sono incentivi attraverso
riduzioni degli oneri di urbanizzazione e dei costi di
costruzione (articolo 17, comma 1, lettera g, numero 3 del
Dl 133/2014), con benefici per le ristrutturazioni.
Infine, è coniato un nuovo tipo di titolo edilizio, a metà
strada tra il permesso di costruire e il piano di dettaglio:
si tratta del «permesso di costruire convenzionato»
(articolo 17, comma 1, lettera q, che inserisce l'articolo
28 bis nel Dpr 380/2001). Questo titolo edilizio avrà i tempi
di istruttoria dell'usuale permesso di costruire, ma con uno
spettro più ampio di attuazione, potendo soddisfare non solo
esigenze di ampio raggio con cessione di aree e opere di
urbanizzazione, ma includere anche interventi di edilizia
residenziale sociale (piano casa). Come per i piani di
lottizzazione, anche il permesso di costruire convenzionato
potrà essere eseguito a stralci.
Le altre modifiche
Vi è poi una serie di modifiche di dettaglio al Dpr 380/2001
che possono collaborare ad agevolare il riuso e il recupero
del patrimonio edilizio: in particolare vengono codificate
quattro categorie funzionali di destinazione urbanistica
(residenziale e turistico-ricettiva; produttiva e
direzionale; commerciale; rurale) al cui interno si può
intervenire con procedure semplificate, soprattutto se non
vi sono opere edilizie, e con oneri ridotti.
In dettaglio,
l'articolo 17, comma 1, lettera n), unifica la categoria
residenziale e quella turistico ricettiva, agevolando
implicitamente i bad and breakfast, nonché le categorie
produttive e direzionali, lasciando prevedere che singoli
uffici privati possano considerarsi assimilati alle
residenze. La destinazione d'uso sarà poi quella
"prevalente" in termini di superficie utile, introducendo
quindi una possibilità di destinazione mista purché la
maggior superficie utile sia coerente a quella consentita (articolo Il Sole 24 Ore del
14.09.2014). |
APPALTI:
Negli appalti. Dall'Anac la cauzione di garanzia.
La cauzione definitiva ha lo scopo di garantire la corretta
esecuzione dell'appalto, imponendo all'esecutore del
contratto la costituzione di una garanzia fideiussoria pari
al 10% dell'importo contrattuale con cui il fideiussore si
impegna a risarcire la stazione appaltante del mancato o
inesatto adempimento del contraente. La cauzione
provvisoria, nella misura pari al 2% dell'importo indicato
nel bando di gara o nella lettera d'invito, ha la finalità
di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta
stessa. Queste alcune delle indicazioni operative necessarie
per chiarire alcune criticità riscontrate nell'applicazione
dell'istituto della cauzione.
È con la determinazione dell'Anac
n. 1 del 29/07/2014 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.
88/2014 ) che vengono affrontate le problematiche sull'uso
della cauzione provvisoria e definitiva (articoli 75 e 113,
dlgs. n. 163/2006).
La cauzione provvisoria può essere
costituita, in contanti ovvero in titoli del debito pubblico
garantiti dallo Stato oppure sotto forma di fideiussione.
Quest'ultima può essere bancaria o assicurativa o rilasciata
da intermediari finanziari che svolgono in via esclusiva o
prevalente attività di rilascio di garanzie e che sono
sottoposti a revisione contabile da parte di una società di
revisione. Per lo svincolo della cauzione l'Anac ha
precisato che la cauzione definitiva viene progressivamente
svincolata in base al combinato disposto di cui agli
articoli 123, comma 1 del regolamento e 113 del codice dei
contratti.
La cauzione garantisce l'esecuzione del
contratto, e potrà essere escussa nei limiti del danno
effettivo e delle ulteriori voci previste dal citato
articolo 123 del regolamento, ferma restando la possibilità
di agire per il maggior danno, ove la somma accantonata non
sia sufficiente.
Lo svincolo della cauzione è legato allo
stato di avanzamento dei lavori nei limiti dell'80%
dell'importo garantito e alla consegna al garante del
certificato relativo allo stato di avanzamento lavori. È
rimessa, invece, alla stazione appaltante la decisione circa
l'importo da svincolare, nonché con riguardo alla fase
temporale in cui svincolare (articolo ItaliaOggi del 13.09.2014). |
LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: Sicurezza con meno burocrazia. Modelli semplificati per la
valutazione rischi nei cantieri. In G.U. il decreto previsto dal decreto Fare per la
riduzione degli adempimenti formali.
Più facili le pratiche sulla sicurezza del lavoro negli
appalti. In attuazione del decreto Fare (dl n. 69/2013),
infatti, hanno ricevuto il via libera i modelli semplificati
per la predisposizione del Pos (Piano operativo di
sicurezza) da parte delle imprese, del Psc (Piano di
sicurezza e di coordinamento) e del Fo (Fascicolo
dell'opera) da parte dei coordinatori per la progettazione
e, infine, del Pss (Piano di sicurezza sostitutivo del Psc)
da parte dei committenti.
I nuovi modelli sono stati
approvati dal
decreto interministeriale 09.09.2014 (lavoro,
trasporto e salute), pubblicato ieri sulla G.U. n. 212.
Cantieri temporanei o mobili. La semplificazione tocca gli
adempimenti previsti dal T.u. sulla sicurezza (Titolo IV del
dlgs n. 81/2008) con riferimento ai cantieri temporanei o
mobili.
Per tali il T.u. intende «qualunque luogo in cui si
effettuano lavori edili o d'ingegneria civile», vale a dire
i lavori di costruzione, di manutenzione, riparazione,
demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o
di equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo
smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in
muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri
materiali, comprese le parti strutturali delle linee
elettriche e le parti strutturali degli impianti elettrici,
le opere stradali, ferroviarie, idrauliche, marittime,
idroelettriche e, solo per la parte che comporta lavori
edili o di ingegneria civile, le opere di bonifica, di
sistemazione forestale e di sterro; nonché i lavori di
costruzione edile o di ingegneria civile gli scavi, e il
montaggio e lo smontaggio di elementi prefabbricati
utilizzati per la realizzazione di lavori edili o ingegneria
civile.
Meno carte. La semplificazione è stata prevista dal decreto
Fare (dl n. 69/2013 convertito dalla legge n. 98/2013) che,
inserendo l'art. 104-bis al T.u. sicurezza, aveva demandato
a specifico decreto interministeriale l'adozione di modelli
semplificati relativi a:
a) Piano operativo di sicurezza (Pos);
b) Piano di sicurezza e coordinamento (Psc);
c) Fascicolo dell'opera.
Lo stesso decreto Fare, inoltre, con l'inserimento del comma
2-bis nell'art. 131 del Codice dei contratti pubblici (dlgs
n. 163/2006) aveva demandato a specifico decreto
interministeriale anche l'adozione di un modello
semplificato relativo al piano di sicurezza sostitutivo del
piano di sicurezza e coordinamento (Pss).
I modelli semplificati. Il primo modello semplificato è
dunque il Pos, ossia il documento di valutazione dei rischi
la cui redazione è obbligatoria da parte del datore di
lavoro dell'impresa esecutrici dei lavori in un cantiere e
con riferimento ad ogni singolo cantiere presso il quale
presti l'opera. Il secondo modello semplificato è il Psc,
che è parte integrante del contratto di appalto.
Tale piano
è costituito da una relazione tecnica e da prescrizioni
correlate alla complessità dell'opera da realizzare e alle
eventuali fasi critiche del processo di costruzione, atte a
prevenire o ridurre i rischi per la sicurezza e la salute
dei lavoratori, nonché la stima dei costi. Il terzo modello
è il Fo alla cui redazione è tenuto il coordinatore per la
progettazione. Il fascicolo (la redazione è non obbligatoria
per le opere di manutenzione ordinaria) deve contenere, tra
l'altro, le informazioni utili ai fini della prevenzione e
della protezione dai rischi cui sono esposti i lavoratori.
Ultimo modello semplificato è il Pss, cioè il piano di
sicurezza sostitutivo del Psc, la cui redazione è
obbligatoria da parte dell'appaltatore quando il Psc non sia
previsto ai sensi del T.u. sicurezza
(articolo ItaliaOggi del 13.09.2014). |
GIURISPRUDENZA |
VARI:
Il notaio verificatore non solo in atti pubblici.
La Suprema corte responsabilizza i notai sulla procedura di
autenticazione delle scritture private. Il professionista,
così come indicato in una circolare del Consiglio nazionale
sulla mediazione civile, è sempre tenuto a verificare il
controllo di legalità e la volontà delle parti. Non può
circoscrivere queste attività agli atti pubblici.
È quanto
affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
12.09.2014 n. 19350.
La causa riguarda una richiesta di annullamento di un
atto di compravendita, concluso per procura, da parte di una
coppia che la cui figlia lamentava l'incapacità di intendere
e volere. Il Tribunale aveva accolto l'istanza con decisione
poi confermata dalla Corte d'appello e ora resa definitiva
dalla Cassazione. In particolare per la seconda sezione
civile l'attività di autentica del notaio non costituisce di
per sé prova legale della capacità naturale del
sottoscrittore.
Tuttavia, rimane comunque fermo che l'opera
del notaio, sia esso rogante in senso proprio o certificante
l'autenticità di una sottoscrizione, è comunque diretta ad
assicurare che il contenuto dell'atto sia il prodotto di
un'attività cosciente e volontaria del sottoscrittore. Fra
l'altro, aggiunge ancora la Corte, anche nel caso della
autenticazione della scrittura privata, il notaio non può
considerarsi esentato dall'obbligo di effettuare le
opportune visure e di, quantomeno, segnalare alle parti
eventuali anomalie riscontrate.
Questa conclusione, spiega
ancora Piazza Cavour, appare avallata da un recente
contributo dottrinario che ha messo in rilievo, da un lato,
come il Consiglio Nazionale, nell'aggiornare nel 2008 i
principi di deontologia professionale, abbia esteso anche
alla autenticazione delle firme nella scrittura privata la
norma che impone al notaio di svolgere quelle numerose
attività nelle quali si sostanzia l'indagine della volontà,
originariamente riferita ai soli atti pubblici e,
dall'altro, che con la circolare dell'11.10.2011 il
Consiglio, nell'indicare le linee guida per dare attuazione
all'art. 11 del dlgs 28/2010 in materia di mediazione
civile, abbia richiamato il notaio non solo a svolgere il
controllo di legalità sulla scrittura privata che si
appresta ad autenticare, ma anche l'indagine della volontà
delle parti
(articolo ItaliaOggi del 13.09.2014). |
URBANISTICA: L’art.
18, comma 1, l. n. 47 del 1985, ratione temporis vigente ed
ora riprodotto dall’art. 30, comma 1, d.P.R. n. 380 del
2001, detta una duplice nozione di lottizzazione
abusiva.
Si ha una lottizzazione abusiva sostanziale o materiale
di terreni a scopo edificatorio “quando vengono iniziate
opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia
dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione”.
E’ configurabile una lottizzazione abusiva giuridica o
negoziale “quando tale trasformazione venga predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita, o atti
equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro
caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura
del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale
previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad
elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
La condotta sottesa alla integrazione della fattispecie
illecita –che integra un grave attentato alle potestà di
Governo del territorio previste ed espressamente normate
dall’art. 117 della Costituzione, incidendo sulla potestà
programmatoria urbanistica e, insieme, sull’assetto del
territorio– riposa, quindi, nella erezione di opere (c.d.
lottizzazione materiale) ovvero nella intrapresa di
iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione negoziale)
che comportano una trasformazione urbanistica o edilizia dei
terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
A differenza della lottizzazione abusiva materiale –la quale
rileva ex se in relazione al tipo di opere realizzate– la
lottizzazione cd. “negoziale" o "cartolare" si
fonda sulla presenza di "elementi indiziari", da cui
risulti, in modo non equivoco, la destinazione a scopo
edificatorio del terreno. Tali elementi indiziari (descritti
con elencazione normativa non tassativa) non devono però
essere presenti tutti in concorso fra di loro, in quanto è
sufficiente anche la presenza di uno solo di essi, rilevante
e idoneo a far configurare, con margine di plausibile
veridicità, la volontà di procedere a lottizzazione.
Le due tipologie di attività illecite volte alla
lottizzazione (lottizzazione materiale e negoziale) possono
essere espletate anche congiuntamente (cosiddetta
lottizzazione abusiva mista), in un "intreccio" di atti
materiali e giuridici comunque finalizzati a realizzare una
trasformazione urbanistica e/o edilizia dei terreni non
autorizzata, oppure in violazione della pianificazione
vigente.
Lo scopo edificatorio, peraltro, non è quello riposto in
animo da ciascun proprietario che confidi nell’evoluzione
della pianificazione urbanistica in senso a se favorevole,
quanto piuttosto quello di colui che intende immediatamente
ed in contrasto con la pianificazione vigente, trasformare o
favorire la trasformazione urbanistica dell’area creando una
nuova maglia urbana.
L’esistenza dello scopo può essere dedotto da una serie di
indizi, secondo un’indicazione normativa non tassativa, e
solo quando lo stesso è provato, sia pur indiziariamente,
può ritenersi integrata la fattispecie che determina la
sanzione penale, e quella amministrativa nella specie
irrogata (acquisizione al patrimonio disponibile
dell’amministrazione).
L’art. 18, comma 1, l. n. 47 del 1985, ratione temporis
vigente ed ora riprodotto dall’art. 30, comma 1, d.P.R. n.
380 del 2001, detta una duplice nozione di
lottizzazione abusiva.
Si ha una lottizzazione abusiva sostanziale o materiale
di terreni a scopo edificatorio “quando vengono iniziate
opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia
dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione”.
E’ configurabile una lottizzazione abusiva giuridica o
negoziale “quando tale trasformazione venga
predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti
equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro
caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura
del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale
previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad
elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
La condotta sottesa alla integrazione della fattispecie
illecita –che integra un grave attentato alle potestà di
Governo del territorio previste ed espressamente normate
dall’art. 117 della Costituzione, incidendo sulla potestà
programmatoria urbanistica e, insieme, sull’assetto del
territorio– riposa, quindi, nella erezione di opere (c.d.
lottizzazione materiale) ovvero nella intrapresa di
iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione negoziale)
che comportano una trasformazione urbanistica o edilizia dei
terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche (cfr.
Cons. Stato, V, 19.06.2014, n. 3115).
A differenza della lottizzazione abusiva materiale –la quale
rileva ex se in relazione al tipo di opere
realizzate– la lottizzazione cd. “negoziale" o
"cartolare" si fonda sulla presenza di "elementi
indiziari", da cui risulti, in modo non equivoco, la
destinazione a scopo edificatorio del terreno. Tali elementi
indiziari (descritti con elencazione normativa non
tassativa) non devono però essere presenti tutti in concorso
fra di loro, in quanto è sufficiente anche la presenza di
uno solo di essi, rilevante e idoneo a far configurare, con
margine di plausibile veridicità, la volontà di procedere a
lottizzazione.
Le due tipologie di attività illecite volte alla
lottizzazione (lottizzazione materiale e negoziale) possono
essere espletate anche congiuntamente (cosiddetta
lottizzazione abusiva mista), in un "intreccio" di
atti materiali e giuridici comunque finalizzati a realizzare
una trasformazione urbanistica e/o edilizia dei terreni non
autorizzata, oppure in violazione della pianificazione
vigente.
Lo scopo edificatorio, peraltro, non è quello riposto in
animo da ciascun proprietario che confidi nell’evoluzione
della pianificazione urbanistica in senso a se favorevole,
quanto piuttosto quello di colui che intende immediatamente
ed in contrasto con la pianificazione vigente, trasformare o
favorire la trasformazione urbanistica dell’area creando una
nuova maglia urbana (cfr. Cons. Stato, IV, 16.04.2014, n.
1904).
L’esistenza dello scopo può essere dedotto da una serie di
indizi, secondo un’indicazione normativa non tassativa, e
solo quando lo stesso è provato, sia pur indiziariamente,
può ritenersi integrata la fattispecie che determina la
sanzione penale, e quella amministrativa nella specie
irrogata (acquisizione al patrimonio disponibile
dell’amministrazione) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 12.09.2014 n. 9650 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’art.
38 prevede che, in presenza di società per azioni, la
dichiarazione di assenza di pregiudizi debba essere resa
dagli «amministratori muniti di potere di rappresentanza».
L’inosservanza di questo obbligo, avente natura cogente,
comporta, ai sensi dell’art. 46 dello stesso decreto,
l’esclusione dalla procedura.
Il Consiglio di Stato, Ad. plen., con sentenza 30.07.2014,
n. 16, ha affermato che la dichiarazione resa da uno dei
componenti del consiglio di amministrazione, ai sensi del
dPR 445/2000, di insussistenza delle condizioni ostative
previste dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 «non deve
contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti
di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi
possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a
banche dati ufficiali o a registri pubblici». La presenza di
una dichiarazione sostitutiva così resa, ha puntualizzato
l’Adunanza plenaria, «non necessita di integrazioni o
regolarizzazioni mediante l’uso dei poteri di soccorso
istruttorio».
Tale interpretazione, basata su criteri non formalistici, si
pone in linea –ha sottolineato l’Adunanza plenaria– con
quanto previsto dall’art. 39 del decreto legge 24.06.2014,
n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la
trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici
giudiziari) per le gare indette successivamente alla sua
entrata in vigore. La nuova disposizione prevede che persino
la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale delle dichiarazioni sostitutive, pur
comportamento l’obbligo di pagare una sanzione pecuniaria,
impone alla stazione appaltante l’esercizio dei poteri di
soccorso istruttorio mediante l’assegnazione di un termine
perentorio per la integrazione o regolarizzazione.
L’esclusione è prevista soltanto nel caso in cui il
concorrente non adempia nel termine assegnato.
---------------
Nel caso in cui la dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n.
163 del 2006 sia stata resa dal legale rappresentate della
società nella sua qualità e i singoli componenti del
consiglio di amministrazione, identificabili mediante la
visione del registro delle imprese, abbiano nel corso della
procedura attestato individualmente l’assenza di pregiudizi
penali, non è consentito alla stazione appaltante procedere
alla loro esclusione.
Il motivo è fondato.
L’art. 38 prevede che, in presenza di società per azioni, la
dichiarazione di assenza di pregiudizi debba essere resa
dagli «amministratori muniti di potere di rappresentanza».
L’inosservanza di questo obbligo, avente natura cogente,
comporta, ai sensi dell’art. 46 dello stesso decreto,
l’esclusione dalla procedura.
Il Consiglio di Stato, Ad. plen., con sentenza 30.07.2014,
n. 16, ha affermato che la dichiarazione resa da uno dei
componenti del consiglio di amministrazione, ai sensi del
decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445
(Disposizioni legislative in materia di documentazione
amministrativa), di insussistenza delle condizioni ostative
previste dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 «non deve
contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti
di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi
possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a
banche dati ufficiali o a registri pubblici». La
presenza di una dichiarazione sostitutiva così resa, ha
puntualizzato l’Adunanza plenaria, «non necessita di
integrazioni o regolarizzazioni mediante l’uso dei poteri di
soccorso istruttorio».
Tale interpretazione, basata su criteri non formalistici, si
pone in linea –ha sottolineato l’Adunanza plenaria– con
quanto previsto dall’art. 39 del decreto legge 24.06.2014,
n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la
trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici
giudiziari) per le gare indette successivamente alla sua
entrata in vigore. La nuova disposizione prevede che persino
la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale delle dichiarazioni sostitutive, pur
comportamento l’obbligo di pagare una sanzione pecuniaria,
impone alla stazione appaltante l’esercizio dei poteri di
soccorso istruttorio mediante l’assegnazione di un termine
perentorio per la integrazione o regolarizzazione.
L’esclusione è prevista soltanto nel caso in cui il
concorrente non adempia nel termine assegnato.
Nella fattispecie in esame il Presidente del Consiglio di
amministrazione della società ha reso, in qualità di legale
rappresentante, una dichiarazione, ai sensi del d.P.R. n.
445 del 2000, attestante la sussistenza dei requisiti
generali previsti dall’art. 38 mediante la loro specifica
elencazione.
La particolarità della fattispecie in esame, rispetto a
quella oggetto della decisione dell’Adunanza Plenaria, sta
nel fatto che in questo caso il rappresentante legale non ha
espressamente affermato che gli altri componenti del
consiglio di amministrazione non abbiano pregiudizi penali.
Nondimeno la dichiarazione deve ritenersi conforme alle
prescrizioni legali per le seguenti ragioni.
In primo luogo, perché la dichiarazione –resa dal Presidente
del Consiglio di amministrazione, con funzioni di
rappresentante legale– presenta un contenuto complessivo
riferito all’ente: si afferma, infatti, che la società si
trova in una situazione di conformità alla legge.
In secondo luogo, perché i dati identificativi degli
amministratori risultano facilmente desumibili dal registro
delle imprese.
Infine, perché, a seguito di accertamenti disposti dalla
stazione appaltante (verbale 02.07.2010), i due componenti
del consiglio di amministrazione hanno comunque reso nel
corso della procedura la dichiarazione personale di mancanza
di pregiudizi penali.
In definitiva, la Sezione ritiene che nel caso in cui la
dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 sia
stata resa dal legale rappresentate della società nella sua
qualità e i singoli componenti del consiglio di
amministrazione, identificabili mediante la visione del
registro delle imprese, abbiano nel corso della procedura
attestato individualmente l’assenza di pregiudizi penali,
non è consentito alla stazione appaltante procedere alla
loro esclusione.
Né per pervenire ad una diversa conclusione si possono
richiamare, come fatto dalla società resistente, le
circostanze, da un lato, che il bando di gara prevedesse che
la mancanza dei documenti comprovanti le condizioni di
partecipazione fosse causa di esclusione dalla gara,
dall’altro, che lo schema di dichiarazione sostitutiva,
allegato al bando, prevedesse che le dichiarazioni ex art.
38 dovessero essere rese da tutti i soggetti indicati
dall’articolo stesso.
Tali prescrizioni amministrative devono, infatti, essere
interpretate in modo conforme a quanto stabilito dalla
legge, con la conseguenza che deve ritenersi giuridicamente
equipollente, ricorrendo gli specifici presupposti sopra
indicati, al requisito prescritto dalla lex specialis
della dichiarazione resa “da tutti” la dichiarazione
resa “per tutti” dal legale rappresentante
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.09.2014 n. 4666 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel contesto dell’art. 125 del codice dei
contratti pubblici il principio della “rotazione”, imposto
con riferimento alla procedura di “cottimo fiduciario”,
appare concepito dal legislatore come una contropartita, o
un bilanciamento, del carattere sommario e “fiduciario”
della scelta del contraente. Ed invero, il “cottimo
fiduciario” è definito dallo stesso art. 125 come «una
procedura negoziata... previa consultazione di almeno cinque
operatori economici».
Nel pensiero del legislatore, dunque, il cottimo fiduciario
non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata (si
veda anche l’art. 3, comma 40, dello stesso codice, che
contiene la definizione del termine “procedura negoziata”),
quindi una scelta ampiamente discrezionale. Tale
discrezionalità si esercita in (almeno) due momenti:
primo, l’individuazione delle cinque ditte da
“consultare”; secondo, la scelta del contraente fra
le ditte consultate.
La discrezionalità è temperata, ma non eliminata, da alcuni
princìpi, quali la “trasparenza” (che implica il dovere di
una previa formulazione e comunicazione dei criteri della
scelta, etc.) e, appunto, la “rotazione” (per evitare che il
carattere discrezionale della scelta si traduca in uno
strumento di favoritismo).
Nel caso di specie, l'ente appaltante, pur avendo fatto
richiamo al citato art. 125 del codice dei contratti, ha
impostato la procedura come una gara vera e propria, da
aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, ai sensi
dell'art. 82, c. 2, lett. (b), dello stesso codice,
invitando ben 1771 ditte - vale a dire senza alcuna
discrezionalità né alcuna negoziazione.
Conviene osservare che nel contesto dell’art. 125 del codice
dei contratti pubblici il principio della “rotazione”,
imposto con riferimento alla procedura di “cottimo
fiduciario”, appare concepito dal legislatore come una
contropartita, o un bilanciamento, del carattere sommario e
“fiduciario” della scelta del contraente. Ed invero,
il “cottimo fiduciario” è definito dallo stesso art.
125 come «una procedura negoziata... previa consultazione
di almeno cinque operatori economici».
Nel pensiero del legislatore, dunque, il cottimo fiduciario
non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata (si
veda anche l’art. 3, comma 40, dello stesso codice, che
contiene la definizione del termine “procedura negoziata”),
quindi una scelta ampiamente discrezionale. Tale
discrezionalità si esercita in (almeno) due momenti:
primo, l’individuazione delle cinque ditte da “consultare”;
secondo, la scelta del contraente fra le ditte
consultate.
La discrezionalità è temperata, ma non eliminata, da alcuni
princìpi, quali la “trasparenza” (che implica il
dovere di una previa formulazione e comunicazione dei
criteri della scelta, etc.) e, appunto, la “rotazione”
(per evitare che il carattere discrezionale della scelta si
traduca in uno strumento di favoritismo).
Nel caso in esame, l’ente appaltante, pur avendo fatto
richiamo all’art. 125 del codice dei contratti, ha impostato
la procedura come una gara vera e propria, da aggiudicare
con il criterio del prezzo più basso, ai sensi dell’art. 82,
comma 2, lettera (b), dello stesso codice, invitando ben
1771 ditte – vale a dire senza alcuna discrezionalità né
alcuna negoziazione.
Ma se questo è vero, il principio della “rotazione”
–inteso come esclusione dall’invito di un operatore già
interessato ad un rapporto contrattuale con la stessa
Azienda- appare non pertinente e privo di ogni ragion
d’essere.
Ed invero, in una gara siffatta –caratterizzata da
un’amplissima apertura e dall’assenza di ogni
discrezionalità ovvero fiduciarietà– non vi sono margini per
supposti favoritismi (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 12.09.2014 n. 4661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la realizzazione di una tettoia aperta su tre
lati non è, in linea di principio, richiesto il permesso di
costruire, essendo sufficiente la presentazione di una
denunzia di inizio attività (ora segnalazione certificata di
inizio attività a seguito della novella introdotta con
l’art. 49, comma 4-bis, del D.L. 31.05.2010, n. 78,
convertito dalla L. 30.07.2010, n. 122).
Quindi le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un
edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche
costruttive non particolarmente impattanti –come quella in
esame- costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono.
Tali opere possono ritenersi liberamente edificabili qualora
la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano
evidente la loro natura pertinenziale per una riconoscibile
ed evidente finalità di arredo, riparo o protezione, anche
da agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza,
possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione
della loro accessorietà, nell'edificio principale o nella
parte dello stesso cui accedono.
---------------
Per le stesse ragioni, si è ritenuto che una simile
struttura rientri tra gli interventi minori per i quali
l’art. 167, quarto comma, del D.Lgs. 42/2004 ammette la
valutazione della compatibilità paesaggistica postuma, in
quanto essi non determinano creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Secondo consolidata giurisprudenza dalla quale il Collegio
non ha ragione di discostarsi, per la realizzazione di una
tettoia aperta su tre lati non è, in linea di principio,
richiesto il permesso di costruire, essendo sufficiente la
presentazione di una denunzia di inizio attività (ora
segnalazione certificata di inizio attività a seguito della
novella introdotta con l’art. 49, comma 4-bis, del D.L.
31.05.2010, n. 78, convertito dalla L. 30.07.2010, n. 122).
Quindi le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un
edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche
costruttive non particolarmente impattanti –come quella in
esame- costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono
(TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 20.03.2012 n. 1371; TAR
Umbria, 29.01.2014 n. 82; TAR Lazio, Latina, 03.03.2010 n.
205; TAR Puglia, Bari, 08.10.2009 n. 2375).
Tali opere possono ritenersi liberamente edificabili qualora
la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano
evidente la loro natura pertinenziale per una riconoscibile
ed evidente finalità di arredo, riparo o protezione, anche
da agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza,
possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione
della loro accessorietà, nell'edificio principale o nella
parte dello stesso cui accedono (TAR Campania, Napoli,
Sezione III, 25.07.2011 n. 3947): per le stesse ragioni, si
è ritenuto che una simile struttura rientri tra gli
interventi minori per i quali l’art. 167, quarto comma, del
D.Lgs. 42/2004 ammette la valutazione della compatibilità
paesaggistica postuma, in quanto essi non determinano
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente realizzati.
Tali caratteristiche sussistono nel caso in esame,
controvertendosi per l’appunto di una tettoia di modeste
dimensioni aperta su tre lati e aderente sul quarto lato a
parte del fabbricato, onde la medesima non può ritenersi
soggetta a preventivo titolo autorizzatorio edilizio, con
conseguente illegittimità della impugnata sanzione
demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.09.2014 n. 4869 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Stante la pacifica natura discrezionale degli
atti di autotutela decisoria, in tali casi occorre dar corso
alla comunicazione d'avvio del procedimento di ritiro, ai
sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi pur
sempre di attività di secondo grado incidente su situazioni
giuridiche "medio tempore" consolidatesi ed astretta
pertanto a stringenti limiti applicativi.
Di conseguenza, a meno che non sussistano ragioni di urgenza
da esplicitare adeguatamente nella motivazione del
provvedimento, è necessario che l'Amministrazione dia
preventivamente notizia all'interessato di voler emanare un
atto di secondo grado (quali l'annullamento, la revoca, la
decadenza), incidente su posizioni giuridiche originate da
un precedente atto, oggetto della nuova determinazione
amministrativa di rimozione, in quanto l'art. 7 L.
07.08.1990 n. 241 consente all'interessato, già nel corso
del procedimento, di formulare osservazioni e di proporre
documenti, per rappresentare all'Amministrazione
l'insussistenza dell'elemento di fatto e, dunque, per
evitare l'emanazione di un atto affetto da eccesso di potere
per erroneità nei presupposti.
---------------
L’esercizio dell’autotutela investe potestà discrezionali di
tal che non può ritenersi che il contraddittorio
endoprocedimentale attivato non avrebbe variato il contenuto
del provvedimento conclusivo.
... per l'annullamento del provvedimento del comune di
Caserta n. 37239/2014 avente oggetto la revoca del nulla
osta concesso alla ricorrente per l'abbattimento di un muro.
...
- Ritenuto che, non avendo l’amministrazione inviato alla
società ricorrente la comunicazione di avvio del
procedimento, nella fattispecie è stata omessa la garanzia
procedimentale prevista dall’art. 7 L. 241/1990;
- Considerato, infatti, che, stante la pacifica natura
discrezionale degli atti di autotutela decisoria, in tali
casi occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del
procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990
n. 241, trattandosi pur sempre di attività di secondo grado
incidente su situazioni giuridiche "medio tempore"
consolidatesi ed astretta pertanto a stringenti limiti
applicativi (Consiglio di Stato sez. VI 20.09.2012 n. 4997);
- Che di conseguenza, a meno che non sussistano ragioni di
urgenza da esplicitare adeguatamente nella motivazione del
provvedimento, è necessario che l'Amministrazione dia
preventivamente notizia all'interessato di voler emanare un
atto di secondo grado (quali l'annullamento, la revoca, la
decadenza), incidente su posizioni giuridiche originate da
un precedente atto, oggetto della nuova determinazione
amministrativa di rimozione, in quanto l'art. 7 L.
07.08.1990 n. 241 consente all'interessato, già nel corso
del procedimento, di formulare osservazioni e di proporre
documenti, per rappresentare all'Amministrazione
l'insussistenza dell'elemento di fatto e, dunque, per
evitare l'emanazione di un atto affetto da eccesso di potere
per erroneità nei presupposti;
- Ritenuto che nella specie l’amministrazione comunale non
ha consentito al ricorrente l’instaurazione del
contraddittorio sulle ragioni poste a fondamento della
revoca e, in particolare, sulla sussistenza di un
presupposto provvedimento di sospensione dei lavori, mai
notificato alla ricorrente;
- Ritenuto altresì che, nella presente fattispecie, non osta
all’accoglimento del ricorso la previsione dell'articolo
21-octies della legge n. 241 del 1990, in quanto l’esercizio
dell’autotutela investe potestà discrezionali e, nella
fattispecie, il provvedimento presupposto concerneva una
sospensione temporanea dei lavori, di tal che non può
ritenersi che -alla stregua della documentazione agli atti-
il contraddittorio endoprocedimentale attivato non avrebbe
variato il contenuto del provvedimento conclusivo, stante la
necessità di chiarire, in ogni caso con la partecipazione
dell’interessato, la durata della sospensione e di porre in
luce l’eventuale sproporzione, in tal caso, della revoca
definitiva del nulla osta all’abbattimento del muro (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.09.2014 n. 4867 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Riposi al padre se la madre è a casa.
Tutela della meternità. Il Consiglio di Stato parifica la
posizione della casalinga alla dipendente.
Spettano i riposi
giornalieri al pubblico dipendente la cui moglie è
casalinga: lo sottolinea il Consiglio di Stato,
Sez. III, nella
sentenza 10.09.2014 n. 4618, che decide una lite
tra il ministero dell'Interno ed un assistente di polizia.
La norma applicata è l'articolo 40 del Dlgs 151/2001, il quale
prevede riposi giornalieri con decorrenza dal giorno
successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio.
La novità che emerge dalla sentenza consiste nella lettura
di questo articolo 40, che regola i predetti riposi del
padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice ma fino
ad oggi era interpretato distinguendo tra una casalinga e
una lavoratrice dipendente.
Secondo il Consiglio di Stato, occorre dare sostegno alla
famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità
generali di tipo promozionale posta dall'articolo 31 della
Costituzione, e quindi occorre garantire al padre il
beneficio dei permessi per la cura del figlio anche quando
la madre non abbia diritto ai permessi stessi perché
casalinga, situazione che impegna la madre in attività che
distolgono dalla cura del neonato.
In questo modo avanza l'assimilazione della lavoratrice
casalinga alla lavoratrice dipendente (Consiglio di Stato,
4293/2008), in continuità con la risarcibilità del danno da
perdita della capacità di lavoro (Cassazione 20324/2005).
Il Dlgs 151/2001 precisa, infatti, che il beneficio dei
permessi spetta al padre «nel caso in cui la madre non sia
lavoratrice dipendente», prevedendo tutte le ipotesi
d'inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente della
madre, comprese quindi la situazione della donna che svolga
attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna
che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga
un'attività non retribuita da terzi (se a quest'ultimo caso
si vuol ricondurre la figura della casalinga).
L'orientamento del Consiglio di Stato rispetta il principio
della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla
cura e all'educazione della prole, che ha radici nei
precetti costituzionali contenuti negli articoli 3, 29, 30 e
31. Inoltre, il fondamento dell'istituto dei permessi
giornalieri consiste nell'estrema difficoltà di cura della
prole da parte anche della madre casalinga, specie se si
tengono presenti le complesse esigenze di accudimento dei
figli nel primo anno di vita, nel corso del quale spettano i
predetti permessi.
Del resto, proprio perché i compiti esercitati dalla
casalinga risultano di maggiore ampiezza, intensità e
responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore
d'opera dipendente (Cassazione 22909/2012), sarebbe incongruo
dedurne, come ha fatto il ministero dell'Interno,
l'oggettiva possibilità per la lavoratrice casalinga di
conciliare la delicate e impegnative attività di cura del
figlio con le mansioni del lavoro domestico.
È, invece, di comune esperienza che l'attività esercitata in
ambito familiare spesso necessita, alla nascita di un
figlio, di aiuti esterni, utilmente surrogabili, nel caso
delle famiglie mono-reddito proprio mediante ricorso al
godimento dei permessi di cui all'articolo 40 citato da
parte dell'altro genitore lavoratore dipendente.
Inoltre, i riposi giornalieri, una volta venuto meno il
collegamento con le esigenze del neonato, hanno la funzione
di soddisfare i bisogni affettivi e relazionali per un
armonico e sereno sviluppo della sua personalità (Corte
costituzionale 104/03), sviluppo al quale devono partecipare
ambo i genitori e non solo quello che operi in lavoro
casalingo (articolo Il Sole 24 Ore del
13.09.2014). |
APPALTI: Il
principio di concentrazione e continuità delle operazioni di
gara è un principio solo tendenziale, derogabile in presenza
di ragioni oggettive quali la complessità delle operazioni
di valutazione delle offerte, il numero delle offerte in
gara, l’eventuale indisponibilità dei membri della
commissione, la correlata necessità di nominare sostituti
ecc. che giustifichino il ritardo anche in relazione al
preminente interesse alla effettuazione di scelte ponderate.
Ed ancora, «…il prolungamento delle operazioni di gara, per
un notevole lasso di tempo, o anche il cospicuo ritardo
nella loro conclusione non è, in sé considerato, prova di un
illegittimo svolgimento della gara e, quindi, non
costituisce violazione in re ipsa delle regole che ne
disciplinano il procedimento. La concentrazione delle sedute
di gara è… corollario del più generale principio di
imparzialità e di trasparenza. L’elemento temporale viene in
rilievo, quindi, solo quale indice di un regolare e, se così
può dirsi, “fluido” svolgersi delle operazioni di gara, ma
non è un valore in sé, che debba essere tutelato sempre e
comunque, indipendentemente dalla tipologia, dalle modalità
e, soprattutto, dalle finalità che connotato in concreto la
gara…».
Inoltre, la Sezione reputa sì che il fattore tempo concorra
a qualificare l’azione amministrativa nei profili del buon
andamento e della pronta soddisfazione degli interessi di
rilievo pubblico cui è preordinata, ma assume valenza
viziante dei provvedimenti adottati solo se siano violate
specifiche norme che, al decorso del tempo, colleghino la
decadenza della funzione o se il ritardo sia espressione,
sul piano sintomatico, di evidenti vizi di eccesso di potere
e, in tema procedure concorsuali, induca al sospetto di
manomissioni dei plichi contenti le offerte delle ditte
ammesse al concorso.
Su quest’ultimo aspetto, d’altronde e da ultimo, la Sezione,
ribadisce che, nel caso d’una procedura di gara svoltasi in
varie sedute e per un notevole lasso di tempo, si ha un
vizio invalidante solo se sia positivamente provato, o
quanto meno vi siano seri indizi, che i documenti di gara
siano state manipolati negli intervalli fra un’operazione di
verbalizzazione e l’altra.
Già la Sezione ha al riguardo affermato (Cons. St., III,
25.02.2013 n. 1169) che il principio di concentrazione e
continuità delle operazioni di gara è un principio solo
tendenziale, derogabile in presenza di ragioni oggettive
quali la complessità delle operazioni di valutazione delle
offerte, il numero delle offerte in gara, l’eventuale
indisponibilità dei membri della commissione, la correlata
necessità di nominare sostituti ecc. che giustifichino il
ritardo anche in relazione al preminente interesse alla
effettuazione di scelte ponderate.
Ribadisce poi la Sezione (cfr. Cons. St., III, 12.04.2013 n.
1985) che «…il prolungamento delle operazioni di gara,
per un notevole lasso di tempo, o anche il cospicuo ritardo
nella loro conclusione non è, in sé considerato, prova di un
illegittimo svolgimento della gara e, quindi, non
costituisce violazione in re ipsa delle regole che ne
disciplinano il procedimento. La concentrazione delle sedute
di gara è… corollario del più generale principio di
imparzialità e di trasparenza. L’elemento temporale viene in
rilievo, quindi, solo quale indice di un regolare e, se così
può dirsi, “fluido” svolgersi delle operazioni di gara, ma
non è un valore in sé, che debba essere tutelato sempre e
comunque, indipendentemente dalla tipologia, dalle modalità
e, soprattutto, dalle finalità che connotato in concreto la
gara…».
Ancora la Sezione (cfr. Cons. St., III, 03.10.2013 n. 4884)
reputa sì che il fattore tempo concorra a qualificare
l’azione amministrativa nei profili del buon andamento e
della pronta soddisfazione degli interessi di rilievo
pubblico cui è preordinata, ma assume valenza viziante dei
provvedimenti adottati solo se siano violate specifiche
norme che, al decorso del tempo, colleghino la decadenza
della funzione o se il ritardo sia espressione, sul piano
sintomatico, di evidenti vizi di eccesso di potere e, in
tema procedure concorsuali, induca al sospetto di
manomissioni dei plichi contenti le offerte delle ditte
ammesse al concorso.
Su quest’ultimo aspetto, d’altronde e da ultimo, la Sezione
(cfr. Cons. St., III, 01.09.2014 n. 4449), ribadisce che,
nel caso d’una procedura di gara svoltasi in varie sedute e
per un notevole lasso di tempo, si ha un vizio invalidante
solo se sia positivamente provato, o quanto meno vi siano
seri indizi, che i documenti di gara siano state manipolati
negli intervalli fra un’operazione di verbalizzazione e
l’altra
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 10.09.2014 n. 4605 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non v’è una regola che definisce a priori chi
debba pronunciarsi sull’istanza di autotutela di cui
all'art. 243-bis codice dei contratti, ma giova notare che
quest’ultima presuppone la definizione della procedura di
gara e dell’aggiudicazione definitiva. In tal caso, la
funzione decisoria si deve intendere posta in capo non più
al seggio di gara, bensì alla stazione appaltante e per essa
al responsabile del relativo procedimento.
Ciò ben s’evince dall’art. 11, c. 5, dall’art. 12 e
dall’art. 84, commi 1 e 12 del Dlgs 163/2006, in virtù dei
quali l’attività del seggio di gara è limitata al solo
svolgimento delle operazioni di gara, tra cui quelle,
eventuali, di riconvocazione a seguito dell’annullamento
dell’aggiudicazione o dell’esclusione di un concorrente.
Viceversa, spetta alla stazione appaltante il controllo
finale degli atti di gara, la loro approvazione,
l’aggiudicazione definitiva e le altre statuizioni
successive alla conclusione della procedura, tra cui,
appunto, la definizione dei procedimenti di secondo grado
inerenti al riesame (spontaneo o su istanza) di quanto
statuito con l’aggiudicazione stessa.
Non importa che, in tal procedimento di secondo grado, siano
implicate questioni tecniche proprie della valutazione nel
merito delle offerte, giacché ciò non sposta la competenza
dal RUP all’ormai dissolto seggio di gara, ma al più ne
comporta, come in tutti i casi in cui occorra acquisire un
parere di natura tecnica, un mero apporto consultivo.
In primo luogo, non v’è una
regola che definisce a priori chi debba pronunciarsi
sull’istanza di autotutela di cui al citato art. 243-bis, ma
giova notare che quest’ultima presuppone la definizione
della procedura di gara e dell’aggiudicazione definitiva. In
tal caso, la funzione decisoria si deve intendere posta in
capo non più al seggio di gara, bensì alla stazione
appaltante e per essa al responsabile del relativo
procedimento.
Ciò ben s’evince dall’art. 11, c. 5, dall’art. 12 e
dall’art. 84, commi 1 e 12 del Dlgs 163/2006, in virtù dei
quali l’attività del seggio di gara è limitata al solo
svolgimento delle operazioni di gara, tra cui quelle,
eventuali, di riconvocazione a seguito dell’annullamento
dell’aggiudicazione o dell’esclusione di un concorrente.
Viceversa, spetta alla stazione appaltante il controllo
finale degli atti di gara, la loro approvazione,
l’aggiudicazione definitiva e le altre statuizioni
successive alla conclusione della procedura, tra cui,
appunto, la definizione dei procedimenti di secondo grado
inerenti al riesame (spontaneo o su istanza) di quanto
statuito con l’aggiudicazione stessa.
Non importa che, in tal procedimento di secondo grado, siano
implicate questioni tecniche proprie della valutazione nel
merito delle offerte, giacché ciò non sposta la competenza
dal RUP all’ormai dissolto seggio di gara, ma al più ne
comporta, come in tutti i casi in cui occorra acquisire un
parere di natura tecnica, un mero apporto consultivo
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 10.09.2014 n. 4605 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
1. Servizi pubblici locali di rilevanza economica. Modalità
di gestione. Affidamento in house. Discrezionalità.
Sindacato del G.A.. Limiti.
1.1. I servizi pubblici locali di
rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente
mediante il mercato (ossia individuando all’esito di una
gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero
attraverso il c.d. partenariato pubblico–privato (ossia per
mezzo di una società mista e quindi con una ‘gara a doppio
oggetto’ per la scelta del socio o poi per la gestione del
servizio), ovvero attraverso l’affidamento diretto, in
house, senza previa gara, ad un soggetto che solo
formalmente è diverso dall’ente, ma ne che sostituisce
sostanzialmente un diretto strumento operativo, ricorrendo
in capo a quest’ultimo i requisiti della totale
partecipazione pubblica, del controllo (sulla società
affidataria) ‘analogo’ (a quello che l’ente affidante
esercita sui propri servizi) e della realizzazione, da parte
della società affidataria, della parte più importante della
sua attività con l’ente o gli enti che la controllano.
1.2. L’affidamento diretto, in house, costituisce una delle
tre normali forme di gestione dei servizi pubblici locali,
con la conseguenza che la decisione di un ente in ordine
alla concreta gestione degli stessi, ivi compresa quella di
avvalersi dell’affidamento diretto, in house -sempre che ne
ricorrano tutti i requisiti delineatisi per effetto della
normativa comunitaria e della relativa giurisprudenza (si
veda sul punto la sentenza della Corte Costituzionale n. 199
del 20.07.2012)- costituisce frutto di una scelta ampiamente
discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata circa
le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e
che, come tale, sfugge al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente
inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed
arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto
macroscopico travisamento dei fatti.
2. (segue): requisiti dell'affidamento in house cd.
controllo analogo. Pluralità di enti pubblici associati.
Gestione collegiale. Controllo effettivo sull'affidatario.
Posizione del singolo ente. Irrilevante.
2.1. In tema di affidamento in house, il
requisito del ‘controllo analogo’ (il controllo esercitato
dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto
analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri
uffici) deve intendersi sussistente anche se svolto non
individualmente, ma congiuntamente dagli enti associati,
deliberando se del caso anche a maggioranza, ma a condizione
che il controllo sia effettivo, dovendo tale requisito
essere verificato secondo un criterio sintetico e non
atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano
pubblica sull'ente affidatario, purché effettivo e reale,
sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità,
senza che necessiti una verifica della posizione di ogni
singolo ente.
Occorre, in particolare, verificare che il consiglio di
amministrazione del soggetto affidatario in house non abbia
rilevanti poteri gestionali e che l'ente pubblico affidante
(rispettivamente la totalità dei soci pubblici)
eserciti(no), pur se con moduli su base statutaria, concreti
ed effettivi poteri di ingerenza e di condizionamento,
sicché risulta indispensabile che le decisioni più
importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell'ente
affidante o, in caso di in house frazionato, della totalità
degli enti pubblici soci.
2.2. Nel caso di un consorzio formato solo da enti locali e
da enti pubblici è irrilevante che uno dei Comuni aderenti
non abbia un proprio rappresentante nel Consiglio di
Amministrazione, qualora i compiti statutari del Consorzio
concernono l’attuazione degli indirizzi espressi
dall’Assemblea, la proposta di atti di competenza di
quest’ultima ed in via residuale il compimento di tutti gli
atti che non siano espressamente riservati all’Assemblea
stessa, che costituisce, per espressa definizione, “l’organo
di indirizzo e di controllo politico amministrativo”
(massima tratta da
www.ricerca-amministrativa.it
- Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.09.2014 n. 4599 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
1. Dichiarazioni ex art. 38 cod. appalti. Amministratori
cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di
pubblicazione del bando. Necessità. Prescrizione della lex
specialis che estenda l'obbligo di dichiarazione a tutti gli
amministratori cessati nel triennio antecedente. Nullità.
1.1. A seguito delle modifiche
introdotte con il D.L. n. 70/2011, l'art. 38 cod. appalti
prevede che la sussistenza di cause preclusive alla
partecipazione alle procedure concorsuali possa operare
esclusivamente con riferimento ai soggetti cessati dalla
carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del
bando di gara e non più nel triennio antecedente detta data,
come disposto in precedenza.
1.2. È nulla, ai sensi dell'art. 46, comma 1-bis, cod.
appalti, la prescrizione della lex specialis di gara,
bandita nella vigenza dell'art. 38 cod. appalti come
novellato dal D.L. n. 70/2011, che preveda l'obbligo delle
imprese concorrenti di allegare alle offerte le
dichiarazioni circa i soggetti cessati dalla carica nel
triennio antecedente la pubblicazione del bando. Trattasi
infatti di una clausola che impone una causa di esclusione
ulteriore rispetto a quelle normativamente prefissate.
2. Offerte. Sottoscrizione. Soltanto sul frontespizio.
Sufficienza.
2.1. Laddove la normativa di gara non
preveda in alcuna sua parte uno specifico onere di
sottoscrizione degli elaborati compresi nelle offerte e non
disponga l'esclusione dalla gara nel caso di inosservanza
dello stesso, non va esclusa l'impresa che abbia firmato e
timbrato l'offerta esclusivamente sui frontespizi e non
anche in calce. Trattasi di un onere siffatto che non è
previsto da alcuna specifica disposizione normativa vigente
in materia di appalti pubblici.
Di talché va ritenuto che la mancata sottoscrizione “in
calce” agli elaborati allegati all'offerta non sia
automaticamente riconducibile ad alcuna specifica e testuale
causa di esclusione, né ad una delle cause di esclusione
previste in via generale dall'art. 46, comma 1-bis, del cod.
appalti, il quale prevede l'esclusione dei concorrenti, per
quanto qui interessa, nei seguenti casi tassativi:
a) “incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza
dell'offerta” a causa del “difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali”;
b) “non integrità del plico contenente l'offerta…… o altre
irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far
ritenere…….. che sia stato violato il principio di
segretezza delle offerte”.
2.2. Nelle gare pubbliche di affidamento di appalti, il
difetto di sottoscrizione dell'offerta comporta la
necessaria ed automatica esclusione del concorrente,
soltanto ove determini l'incertezza assoluta sulla
provenienza dell'offerta, risolvendosi altrimenti in una
mancanza di natura formale inidonea a produrre l'effetto
sanzionatorio disposto dalla norma.
2.3. Legittimamente la stazione appaltante non esclude il
concorrente che abbia sottoscritto gli elaborati componenti
l'offerta tecnica sul loro frontespizio, laddove l'offerta
nel suo complesso sia pervenuta all'Amministrazione
contenuta in un plico regolarmente sigillato ed
incontrovertibilmente riconducibile al medesimo concorrente.
In tale ipotesi non può ragionevolmente ritenersi che la
sola mancata sottoscrizione in calce di una parte
dell'offerta, possa oggettivamente determinare la incertezza
assoluta sulla provenienza dell'offerta stessa, riguardata
nel suo complesso.
2.4. La carenza di sottoscrizione in calce all'offerta non
integra una ipotesi di difetto di altri elementi essenziali
ex art. 46-bis cod. appalti, il quale distingue chiaramente
le due diverse tipologie di “difetto” ("difetto di
sottoscrizione o di altri elementi essenziali"), sia sul
piano letterale che su quello logico:
i) sul piano letterale, l'incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta è ricondotta partitamente al
difetto di sottoscrizione in modo specifico “o” al difetto
di “altri” (e quindi diversi) elementi essenziali, in modo
generico.
ii) sul piano logico, poi, è di tutta evidenza come il primo
costituisca parimenti una ipotesi di carenza di un elemento
essenziale che il legislatore, però, ha ritenuto di
richiamare in via autonoma e distinta rispetto alle altre
ipotesi evocate, come già detto, in via generica. Infatti,
ove la sottoscrizione cui si riferisce la norma non dovesse
essere intesa come elemento essenziale per determinare la
provenienza dell'offerta, non vi sarebbe ragione alcuna per
comminare l'esclusione dell'offerta stessa in caso di suo
difetto.
2.5. Dall'interpretazione letterale e logica dell'art.
46-bis cod. appalti si ricava che il difetto di
“sottoscrizione in calce” di una parte dell'offerta
complessivamente riguardata, non può di per sé essere
ricondotto alla diversa ipotesi contemplata dalla normativa
codicistica del difetto di altri elementi essenziali
dell'offerta stessa.
3. Avvalimento. Contratto tra impresa ausiliaria e quella
ausiliata. Specificità. Necessità a pena di esclusione.
3.1. Dall'art. 88 del d.p.r. 207 del
2010 sriespressamente disponga che “l'oggetto” del contratto
di avvalimento di cui all'articolo 49 del Codice dei
contratti debba, per quanto qui interessa, necessariamente
“riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente……. le
risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico”.
3.2. In tema di avvalimento dei requisiti di partecipazione
ex art. 49 cod. appalti e art. 88 d.P.R. n. 207/2010,
l'esigenza di una puntuale individuazione dell'oggetto del
contratto di avvalimento, oltre ad avere un sicuro
ancoraggio sul terreno civilistico nella generale previsione
codicistica che configura quale causa di nullità di ogni
contratto l'indeterminatezza (ed indeterminabilità) giust’appunto
del relativo oggetto, trova la propria essenziale
giustificazione funzionale, inscindibilmente connessa alle
procedure contrattuali del settore pubblico, nella necessità
di non permettere -fin troppo- agevoli aggiramenti del
sistema dei requisiti d'ingresso alle gare pubbliche
(requisiti pur solennemente prescritti e, di solito,
attentamente verificati nei confronti dei concorrenti che se
ne dichiarino titolari in proprio).
3.3. La pratica della mera riproduzione nel testo dei
contratti di avvalimento della formula legislativa della
messa a disposizione delle risorse necessarie di cui è
carente il concorrente (o espressioni similari) si appalesa,
oltre che tautologica (e, come tale, indeterminata per
definizione), inidonea a permettere qualsivoglia sindacato
da parte della Stazione appaltante sull'effettività della
messa a disposizione dei requisiti.
3.4. Illegittimamente la stazione appaltante ho omesso di
escludere dalla gara l'impresa concorrente che, nel
ricorrere all'istituto dell'avvalimento, abbia allegato un
contratto di avvalimento non rispettoso dei requisiti
essenziali di determinatezza e specificità, prescritti dalla
richiamata normativa e richiamati dagli anzidetti principi
giurisprudenziali, laddove risulti che il contratto non
riporti in modo compiuto ed esplicito le risorse ed i mezzi
in concreto prestati e che l'ausiliaria assuma l'impegno
assolutamente generico di mettere a disposizione in caso di
aggiudicazione le risorse di cui l'ausiliato è carente.
In altri termini, il contratto in questione si sostanzia
oggettivamente nella mera e pedissequa riproduzione dei
requisiti indicati in maniera necessariamente generale ed
astratta nella lex specialis di gara. Nessuna analitica e
specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei
mezzi in concreto prestati, è rinvenibile nel contratto il
quale, di conseguenza, si appalesa generico e come tale non
conforme allo schema normativo.
4. Cauzione. Importo. Deposito di cauzione di importo
inferiore a quello prescritto dalla lex specialis.
Esclusione. Necessità. Soccorso istruttorio. Esclusione.
4.1. Nelle gare pubbliche di affidamento
di appalti, ove il disciplinare di gara, a pena espressa di
esclusione, imponga ai concorrenti la costituzione di
specifico deposito cauzionale nell'importo espressamente
predefinito, nonché l'autenticazione notarile della firma
del sottoscrittore di tutte le fideiussioni,
illegittimamente la Stazione appaltante ha omesso di
escludere l'impresa concorrente che abbia erroneamente
costituito il richiesto deposito cauzionale in misura
inferiore all'importo prescritto, ed abbia successivamente
corretto detto errore con una polizza fideiussoria
integrativa.
4.2. Ove risulti che un'impresa concorrente a gara pubblica
di appalto abbia prestato una cauzione non conforme alle
tassative prescrizioni del disciplinare di gara, questa deve
con ciò essere esclusa dalla gara stessa. Infatti, in
presenza della richiamata clausola del disciplinare
assolutamente chiara e non ambigua per i partecipanti, non
può esservi ragionevolmente spazio per riconoscere alcun
dovere di soccorso istruttorio a carico della stazione
appaltante.
Di talché, la successiva integrazione operata dalla
concorrente del deposito cauzionale non è ammissibile
attesa, da un lato, la natura essenziale dell'adempimento in
questione richiesto, a pena di esclusione direttamente dalla
lex specialis di gara e, dall'altro, la necessità per tale
ragione di far prevalere il diritto dei concorrenti alla
parità di trattamento e la tutela del loro interesse alla
correttezza dell'intero procedimento.
5. (segue): autentica notarile della firma del
sottoscrittore. Necessità.
Non è in ogni caso idonea a sanare
l'errore, commesso dalla impresa concorrente a gara pubblica
di appalto, che abbia allegato all'offerta un deposito
cauzionale inferiore a quello prescritto dalla lex specialis
di gara, una fideiussione postuma priva di autentica
notarile della firma del sottoscrittore. L'autentica
notarile, infatti, è richiesta sul piano formale dal
disciplinare di gara a pena di esclusione, ma è altresì
preordinata sul piano sostanziale ad evitare, nel caso di
mancata conclusione del contratto per fatto
dell'affidatario, il rischio di un disconoscimento della
sottoscrizione, vanificando così il beneficio di cui al
comma 4 dell'art. 75 cod. appalti, secondo cui
l'operatività, entro 15 giorni della garanzia, è subordinata
alla sola richiesta scritta della stazione appaltante.
6. Risarcimento del danno. In forma specifica. Appalto in
corso di esecuzione. Esclusione.
Non può essere accolta la domanda di
risarcimento in forma specifica, non ricorrendo i
presupposti di cui all'art. 122 c.p.a. per dichiarare
inefficace il contratto in essere e disporre il subentro del
ricorrente vittorioso in sede giurisdizionale nel contratto
di appalto di progettazione e esecuzione di lavori, laddove
risulti che, oltre ad essere già stato sottoscritto il
contratto, il progetto sia stato approvato e i relativi
lavori siano in fase di esecuzione.
7. (segue): per equivalente monetario. Presupposti.
Nel caso in cui l'aggiudicazione di
appalto venga annullata perché l'aggiudicatario non è stato
escluso dalla gara per aver dichiarato di ricorrere
all'istituto dell'avvalimento allegando un contratto
generico e indeterminato, va accordata la tutela
risarcitoria per equivalente a favore del ricorrente
vittorioso in sede giurisdizionale sussistendone tutte le
condizioni in quanto:
i) la colpa è da rinvenirsi in re ipsa, alla stregua dell'univoco e
consolidato insegnamento della giurisprudenza amministrativa
in subiecta materia;
ii) l'illegittimità dell'agire della Stazione appaltante è stata
accertata in sede giurisdizionale;
iii) il nesso di causalità emerge in tutta evidenza, avuto riguardo
al fatto che l'appalto avrebbe dovuto aggiudicarsi a favore
dell'impresa ricorrente in sede giurisdizionale;
iv) il danno è direttamente riconducibile alla mancata
esecuzione del contratto.
8. (segue): criteri di liquidazione. Utile di impresa. Onere
della prova.
8.1. Ove all'esito del giudizio dinanzi
al GA venga annullata l'aggiudicazione della gara di appalto
pubblica, va esclusa la pretesa del ricorrente vittorioso in
sede giurisdizionale di ottenere direttamente l'equivalente
del 10% dell'importo a base d'asta, non essendo oggetto di
applicazione automatica e indifferenziata.
8.2. È necessaria la prova, a carico dell'impresa, della
percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se
fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, prova
desumibile in primis dall'esibizione dell'offerta economica
presentata al seggio di gara. Tale principio di prova,
infatti, trova conferma nell'articolo 124 del codice del
processo amministrativo che, nel rito degli appalti, prevede
il risarcimento del danno per equivalente subito e provato.
Occorre, quindi, verificare se parte ricorrente ha
rispettato il principio basilare sancito dall'articolo 2697
del codice civile, secondo cui chi agisce in giudizio deve
fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda: com'è
noto, il diritto entra nel processo attraverso le prove, che
devono avere ad oggetto circostanze di fatto precise, e si
debbono disattendere le domande risarcitoria formulate in
maniera del tutto generica, senza alcuna allegazione degli
elementi presupposti.
8.3. Laddove gli elementi prodotti in giudizio siano
sufficienti ad emettere una pronuncia che statuisca sul
quantum spettante a titolo di riparazione pecuniaria a
favore del concorrente vittorioso in sede giurisdizionale,
ai fini della formulazione della proposta risarcitoria da
parte del Comune e l'eventuale raggiungimento di un accordo
con la ricorrente ex articolo 34, comma 4, del codice del
processo amministrativo, la stazione appaltante deve:
i) attenersi all'offerta economica presentata dall'appellante in
sede di gara;
ii) valorizzare sul punto l’elaborato contenente le giustificazioni
delle voci di prezzo che concorrono a formare l'importo
complessivo esibito;
iii) determinare il margine di guadagno che residua dopo
l'applicazione del ribasso indicato in sede di gara;
iv) tenere conto del danno curriculare, da liquidare in via
equitativa in un importo non superiore ad un terzo di quanto
riconosciuto a titolo di lucro cessante.
8.4. Nel caso di annullamento dell'aggiudicazione
dell'appalto pubblico e di certezza dell'aggiudicazione in
favore del ricorrente, il mancato utile spetta nella misura
integrale solo se si dimostra di non aver potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a
disposizione in vista dell'aggiudicazione.
In difetto di tale dimostrazione, che compete comunque al
concorrente fornire, è da ritenere che l'impresa possa aver
ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri
lavori o servizi e da qui la decurtazione del risarcimento
di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum,
considerato anche che, ai sensi dell'articolo 1227 del
codice civile, il danneggiato ha un puntuale dovere di non
concorrere ad aggravare il danno.
Pertanto, è pienamente ragionevole stabilire una detrazione
dal risarcimento del mancato utile nella misura del 30%,
laddove l'appellante non fornisca la dimostrazione anzidetta
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 10.09.2014 n. 4595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Governo del territorio. Trasparenza. Pubblicità degli
atti. Loro efficacia.
1.1. In forza dell’art. 39 (rubricato
“Trasparenza dell’attività di pianificazione e governo del
territorio”) del D.Lgs. 33/2013 (Decreto recante: “Riordino
della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusioni di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni”), la P.A. deve pubblicare tutti
gli atti di governo del territorio e le loro varianti (così
la lettera “a” del primo comma), oltre che gli schemi di
provvedimento degli atti stessi prima della loro
approvazione (così la lettera “b” del primo comma). La
pubblicità degli atti di cui alla lettera a) del primo comma
è condizione per l’acquisto dell’efficacia degli atti
medesimi (così il comma terzo dell’art. 39).
1.2. L’interpretazione corretta dell’art. 39 D.Lgs. 33/2013,
fondata sul significato letterale dello stesso (ai sensi
dell’art. 12 delle preleggi), è nel senso che costituisce
condizione di efficacia degli atti di governo del
territorio, la sola pubblicità di cui alla lettera a) del
comma 1° del medesimo art. 39 (in questo senso, il comma
terzo è molto chiaro), per cui l’omessa pubblicità degli
schemi di provvedimento di cui alla lettera b) del primo
comma non priva di efficacia gli atti di governo del
territorio di cui alla più volte menzionata lettera a).
2. (segue): Regione Lombardia. Piano territoriale di
coordinamento provinciale. Innovazioni al piano adottato in
caso di recepimento di osservazioni. Nuova pubblicazione
dello strumento urbanistico. Non occorre. Applicazione in
via analogica dell'art. 13, comma 9°, L.R. Lombardia n.
12/2005.
2.1. Laddove risulti che le innovazioni
apportate in sede di approvazione di Piano territoriale di
coordinamento (PTCP) di cui alla L.R. Lombardia n. 12/2005
siano frutto delle controdeduzioni alle osservazioni svolte
dagli Enti territoriali ricadenti nell'ambito applicativo
del medesimo PTCP e del parere espresso dalla Giunta
Regionale ai sensi dell'art. 17 L.R. Lombardia n. 12/2005,
può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9°,
della LR 12/2005 che, seppure dettata per il procedimento di
approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT), vale
a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può
essere analogicamente applicata anche al PTCP, quale atto di
pianificazione generale in ambito però sovra comunale.
2.2. Il comma 9° dell’art. 13 L.R. Lombardia n. 12/2005,
nell'escludere la necessità di nuova pubblicazione in caso
di approvazione di controdeduzioni alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali,
risulta coerente con il prevalente indirizzo
giurisprudenziale, formatosi in relazione agli articoli 9 e
10 della legge urbanistica generale n. 1150/1942, secondo
cui la pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da
parte dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di
enti sovra ordinati non impone una nuova pubblicazione,
salvo lo stravolgimento dei criteri di piano adottati o una
sostanziale alterazione della pianificazione.
3. (segue): Rapporto tra livelli di pianificazione. Piano
territoriale di coordinamento provinciale. Finalità e
contenuto. Previsioni prescrittive. In particolare, tutela
beni ambientali.
3.1. In tema di disciplina legislativa
regionale lombarda sui PTCP e sul loro rapporto con la
pianificazione comunale, in particolare con il Piano di
Governo del Territorio (PGT), atto di pianificazione
generale del Comune, ai sensi dell’art. 7 della LR Lombardia
n. 12/2005, va osservato che il PTCP ha il contenuto di cui
all’art. 15 della LR 12/2005 ed è approvato con le modalità
procedimentali del successivo art. 17, il quale prevede
–l’intervento della Giunta Regionale ai fini della
valutazione della conformità alla legge e della
compatibilità con gli atti di programmazione regionale (così
il comma settimo dell’art. 17).
3.2. Quanto al contenuto, il PTCP ha in parte funzione di
programmazione e indirizzo (art. 15, comma 2°, L.R.
Lombardia n. 12/2005), e in parte efficacia vincolante e
prevalente per i Comuni, che possono in tal caso apportare
solo precisazioni e miglioramenti, dovendosi altrimenti
conformarsi alla scelta provinciale (art. 15, comma 5°, L.R.
Lombardia n. 12/2005).
3.3. Ai sensi dell'art. 18, comma 2°, della LR Lombardia n.
12/2005 hanno efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti
del PGT le previsioni del PTCP sulla tutela dei beni
ambientali e paesaggistici in attuazione dell’art. 77 della
medesima LR Lombardia 12/2005 (così il comma 2°, lettera a
dell’art. 18) e di quelle sulla individuazione degli ambiti
di cui all’art. 15, comma 4°, vale a dire gli ambiti
destinati all’attività agricola di interesse strategico
(così il comma 2°, lettera c, dell’art. 18 LR Lombardia n.
12/2005).
3.4. In tema di individuazione delle aree e delle zone
sottoposte a tutela ambientale, per le quali le previsioni
provinciali sono prevalenti su quelle dei Comuni, va
riconosciuta agli enti locali ampia discrezionalità in sede
di pianificazione urbanistica, salvo i casi di manifesta
illogicità o irrazionalità.
4. (segue): Piano territoriale regionale. Finalità e
contenuto.
4.1. L’art. 77 LR Lombardia n. 12/2005
attiene al coordinamento della pianificazione paesaggistica
–di spettanza regionale– con gli altri strumenti di
pianificazione, imponendo agli enti locali di adeguare i
loro atti di piano agli obiettivi e alle misure generali di
tutela dettati dal Piano Territoriale Regionale (PTR), quale
piano paesaggistico ai sensi del precedente art. 76 e
dell’art. 19 della medesima LR Lombardia n. 12/2005.
4.2. Quanto agli effetti del PTR ed ai rapporti del medesimo
con gli altri atti di pianificazione; l’art. 20, comma 5°,
della LR Lombardia n. 12/2005, stabilisce che le previsioni
di piano regionale di cui al precedente quarto comma
(riguardanti, fra l’altro, l’individuazione delle zone di
preservazione e salvaguardia ambientale), hanno immediata
prevalenza su ogni altra difforme previsione contenuta nel
PTCP ovvero nel PGT.
5. Standard urbanistici. Finalità. Compensazione dello
sviluppo urbano di zone di completamento. Prescrizioni del
Piano Territoriale di coordinamento provinciale che
impongano standard superiori a quelli previsti da fonti di
rango primario. Illegittimità.
5.1. Al di là del nomen iuris non vi è
distinzione tra standard urbanistici e misure di mitigazione
ambientale e compensazione territoriale, contemplate dal
PTCP, per i progetti di nuova edificazione e consistenti
nell’assoggettamento a servitù di uso pubblico ovvero nella
cessione gratuita al Comune di aree – non monetizzabili.
Tale distinzione è meramente nominalistica, in quanto in
concreto entrambe le nozioni si risolvono nel medesimo
fenomeno, visto che si tratta di stabilire il rapporto fra
spazi destinati all’abitazione o alla produzione e spazi
destinati invece a servizi pubblici o a verde, finalizzati
appunto a “compensare” lo sviluppo edilizio e urbanistico di
altre zone.
5.2. L’attività edilizia e urbanistica impone sempre il
reperimento di spazi destinati o a servizi pubblici e
collettivi (si pensi alle scuole, ad esempio) oppure
destinati al verde, allo svago e al tempo libero e tali
spazi rientrano nella nozione comunemente intesa di
“standard”.
5.3. Illegittimamente la Provincia, tramite il PTCP, impone
ai Comuni il reperimento di standard. Tali standard
provinciali si aggiungono a quelli previsti dal PGT e –in
assenza di una diversa previsione di rango primario–
potrebbero anche superare quelli minimi inderogabili
previsti dal DM n. 1444/1968 (a tale proposito sussiste un
onere di motivazione specifica in caso di superamento degli
standard minimi). La previsione di piano provinciale
sull’obbligo di reperimento di standard comunali appare
lesiva del principio di legalità dell’azione amministrativa,
non esistendo alcuna norma di legge che attribuisca alla
Provincia una simile prerogativa.
5.4. La legge regolatrice del contenuto del PTCP (cfr.
ancora gli articoli 15 e seguenti della LR Lombardia n.
12/2005), se consente senza dubbio alla Provincia di fissare
limiti all’attività edilizia, mediante l’individuazione di
aree e zone non edificabili (ponendo quindi a carico dei
Comuni un obbligo di non fare, vale a dire un divieto di
consentire un’attività di edificazione lesiva di superiori
valori di tutela ambientale); non ammette però che la
Provincia possa addossare ai Comuni specifici obblighi
positivi di fare, vale a dire di reperire standard anche in
misura eventualmente superiore a quella risultante dagli
strumenti urbanistici comunali, con la conseguenza che le
aree a standard, così come reperite, implicherebbero un
incremento del patrimonio immobiliare del Comune, con
inevitabile aumento dei costi di gestione e manutenzione,
che resterebbero in capo al Comune stesso.
5.5. Le norme della LR Lombardia n. 12/2005, che
disciplinano il contenuto del PGT e gli oneri di
urbanizzazione, non consentono di riconoscere alle
Amministrazioni provinciali la prerogative di introdurre
standard urbanistici di livello provinciale. L’unico
esplicito obbligo positivo da osservarsi in caso di
costruzione su suolo libero è quello dell’art. 43, comma
2-bis, L.R. Lombardia n. 12/2005, sulla maggiorazione del
contributo di costruzione in caso di interventi che
sottraggono superfici agricole allo stato di fatto (norma,
quest’ultima, che manifesta l’evidente volontà del
legislatore regionale di contenere il consumo di suolo; tale
finalità non può però –in mancanza di una superiore
previsione di legge– giustificare l’imposizione ai Comuni da
parte della Provincia di reperimento di maggiori standard
per scopi di mitigazione ambientale e riforestazione).
5.6. La pretesa provinciale di introdurre standard
urbanistici provinciali viola l’art. 23 della Costituzione
che impone la riserva di legge per gli obblighi di
prestazione personale o patrimoniale, oltre il già ricordato
principio di legalità dell’azione amministrativa e quello
della tipicità degli atti amministrativi.
6. Strumenti urbanistici. Partecipazione. Osservazioni. Loro
confutazione. Motivazione specifica. Non occorre.
Le osservazioni presentate dai soggetti
interessati ai piani urbanistici –anche quelli sovra
comunali, come il PTCP– costituiscono apporti collaborativi,
la cui confutazione non richiede una peculiare e specifica
motivazione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.09.2014 n. 2341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Risarcimento del danno per attività amministrativa
illegittima. Onere della prova. Ctu. Inammissibilità se di
carattere esplorativo.
Va rigetta la domanda di risarcimento
del danno per attività amministrativa illegittima, laddove
la parte che assume di essere stata danneggiata non abbia
offerto in giudizio concreta ed idonea prova, in violazione
del principio dell’onere probatorio di cui all’art. 64,
comma 1°, del c.p.a. e dell’art. 2697 del codice civile.
In assenza della minima prova del danno, non può essere
disposta consulenza tecnica d’ufficio (CTU), in quanto la
stessa si risolverebbe in una inammissibile consulenza
“esplorativa”.
La consulenza tecnica d'ufficio non costituisce un mezzo
istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di
coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi
acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di
specifiche conoscenze; in conseguenza suddetto mezzo di
indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la
parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi
legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a
supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte
di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla
ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati
(massima tratta da
www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.09.2014 n. 2341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Atto amministrativo. Motivazione. Funzione. Per
relationem. Sindacabilità in sede giurisdizionale della
motivazione dell'atto richiamato.
1.1. La funzione della motivazione del
provvedimento amministrativo è diretta a consentire al
destinatario di ricostruire l’iter logico-giuridico in base
al quale l’amministrazione è pervenuta all’adozione di tale
atto, nonché le ragioni ad esso sottese. Lo scopo perseguito
è quello di consentire la verifica della correttezza del
potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da
valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia
dell’atto considerato.
1.2. L’onere motivazionale, di cui l’art. 3 della L.
241/1990 costituisce norma di principio generale, può
ritenersi assolto anche “per relationem”attraverso il
richiamo ad elementi contenuti in un diverso atto, che
diviene parte integrante del medesimo provvedimento
amministrativo. Affinché la motivazione “per relationem”
risulti legittima occorre, però, che essa sia completa e
logica, proprio in virtù degli elementi contenuti nell’altro
atto a cui si rinvia.
1.3. Nel caso di diniego di permesso di costruire è
necessario che l'Amministrazione Comunale espliciti le
ragioni di fatto poste alla base dell’atto di diniego, anche
per rendere edotto il titolare dell’interesse legittimo di
carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti.
1.4. Ove l'A.C. fondi il diniego di permesso di costruire
sul parere di un organo consultivo integralmente richiamato,
senza fornire alcuna ulteriore motivazione aggiuntiva,
neanche al solo fine di rafforzare le risultanze
istruttorie, ciò determina la necessità del sindacato da
parte del Giudice Amministrativo del parere, non essendo
stati forniti ulteriori elementi a sostegno dell’iter
motivazionale della determinazione assunta dall'A.C..
2. Giusto procedimento. Soccorso istruttorio. Necessità.
Laddove le N.T.A. dello strumento
urbanistico generale stabiliscano che gli interventi edilizi
siano subordinati al preventivo rilascio di parere
favorevole da parte della competente Soprintendenza,
l'omessa allegazione all'istanza di p.d.c. di tale parere
non è sufficiente a giustificare il diniego di p.d.c.,
essendo onere dell'Amministrazione Comunale di indicare gli
atti istruttori idonei a consentire il reperimento del
parere da ritenersi prodromico alla determinazione finale.
In altri termini, l'A.C., anziché rigettare l'istanza di
p.d.c., avrebbe dovuto avviare l’istruttoria funzionale al
rispetto delle prescrizioni delle N.T.A. e non considerarlo
di per sé idoneo ad integrare le ragioni del diniego, senza
peraltro evidenziare eventuali inadempienze dell'istante,
tali da impedire o di fatto ostacolare, la necessaria
integrazione in fase istruttoria. È, infatti, onere
dell’Amministrazione indicare le specifiche ragioni in
relazione alle quali le opere edilizie non si ritengono
adeguate.
3. Permesso di costruire. Diniego per mancanza di strumenti
urbanistici attuativi. Comparto già urbanizzato.
Illegittimità del diniego.
3.1. Illegittimamente l'A.C. rigetta
istanza di permesso di costruire sul presupposto che
l'attività edificatoria nell'area interessata
dall'intervento edilizio sia subordinata a piani-quadro di
iniziativa comunale. In tale ipotesi viene semmai in rilievo
un inadempimento dell’amministrazione, che non può
riversarsi sul privato cittadino.
3.2. Laddove risulti che l'istanza di permesso di costruire
riguardi un'area ricompresa in un comparto avente vocazione
edificatoria residenziale e già ampiamente edificato,
illegittimamente l'Amministrazione Comunale nega il
richiesto p.d.c. sostenendo che un indiscriminato e
disordinato rilascio di permessi di costruire porterebbe ad
un risultato certamente negativo sotto l’aspetto della
pianificazione urbanistica.
In tale contesto è impossibile per l’interessato comprendere
le specifiche ragioni che giustificano la determinazione
contraria al rilascio del p.d.c., non potendo la motivazione
espressa in essa esaurirsi in richiami generici o mere
locuzioni di stile.
Deve pertanto ritenersi che il diniego espresso in ordine
alla domanda di permesso di costruire contenga una
valutazione apodittica che non soddisfa i requisiti minimali
della motivazione, non essendo di certo sufficiente il
richiamo a degli atti prodromici da adottare, evidenziando
essi piuttosto carenze istruttorie dell’amministrazione, che
per di più si pongono in contrasto con il dato dell’avvenuta
edificazione del comparto in questione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 10.09.2014 n. 1101 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’amministrazione ha il potere–dovere di valutare
tutti gli elementi richiesti dalla legge ai fini del
legittimo rilascio della concessione edilizia, ma del tutto
evidentemente essa non è posta in condizione di farlo se
taluno di questi viene occultato in forza del comportamento
mendace del richiedente.
La “ratio” di questa interpretazione costituisce in realtà
un principio generale dell’ordinamento edilizio, se si
osserva ad esempio che in materia di condono edilizio,
l’art. 31 della legge n. 47/1985 preclude la formazione del
silenzio-assenso (per inutile decorso di 24 mesi
dall’istanza) in caso di dichiarazione mendace.
Il principio testé delineato vale sia in sede di valutazione
dei presupposti per il rilascio del titolo edilizio
(legittimando un provvedimento negativo sulla domanda
edificatoria) che di quelli necessari per l’annullamento
d’ufficio della concessione già rilasciata e che non poteva
esserlo ove l’elemento ostativo non fosse stato occultato
dal richiedente.
Il punto centrale della controversia verte sulla ragione per
la quale il Comune ha emesso i provvedimenti gravati,
risiedente nella mendacità, da parte della domanda edilizia
dell’interessato, sulla esistenza nell’azienda agricola di
fabbricato abitativo già prima dell’originaria domanda di
concessione.
Tale situazione, ai sensi dell’art. 3, comma 1, punti 1,
della l.r. veneto n. 24/1985, integrando una preclusione del
rilascio di ulteriore concessione edilizia, è stata valutata
dal Comune come motivo di annullamento della concessione già
rilasciata. Contro tale determinazione il TAR ha ritenuto di
accogliere il motivo che lamentava la omessa valutazione, da
compiersi (ai sensi dell’art. 3, I comma, punto 1 della
legge citata) prima dell’annullamento del titolo abilitativo
rilasciato, dell’effettiva corrispondenza della costruzione
esistente alle esigenze abitative e lavorative
dell’imprenditore agricolo.
Contro questa motivazione, l’appellante, nell’ultima parte
delle censure svolte, argomenta che illegittimamente il
primo giudice avrebbe contestato al Comune la mancata
valutazione di detto elemento, non considerando che questa
non poteva essere effettuata proprio in ragione della
carenza di ogni riferimento all’edificio preesistente. Il
motivo è condivisibile, ed ha valenza assorbente.
L’amministrazione ha il potere–dovere di valutare tutti gli
elementi richiesti dalla legge ai fini del legittimo
rilascio della concessione edilizia, ma del tutto
evidentemente essa non è posta in condizione di farlo se
taluno di questi viene occultato in forza del comportamento
mendace del richiedente. La “ratio” di questa
interpretazione costituisce in realtà un principio generale
dell’ordinamento edilizio, se si osserva ad esempio che in
materia di condono edilizio, l’art. 31 della legge n.
47/1985 preclude la formazione del silenzio-assenso (per
inutile decorso di 24 mesi dall’istanza) in caso di
dichiarazione mendace.
Il principio testé delineato vale sia in sede di valutazione
dei presupposti per il rilascio del titolo edilizio
(legittimando un provvedimento negativo sulla domanda
edificatoria) che di quelli necessari per l’annullamento
d’ufficio della concessione già rilasciata e che non poteva
esserlo ove l’elemento ostativo non fosse stato occultato
dal richiedente.
Nella fattispecie, in altri termini, il ricorrente ha
precluso all’amministrazione proprio l’adempimento del quale
il TAR ha osservato la carenza, vale a dire la verifica
dell’esistenza di se gli immobili adeguati alle esigenze
dell’imprenditore agricolo istante, come indicato dalla
citata norma di legge (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.09.2014 n.
4549 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
1. Dichiarazioni ex art. 38 cod. contratti. Omissione ab
initio. Esclusione. Necessità. Soccorso istruttorio.
Impossibilità. Ratio. Valutazione del reato. È attività
riservata alla Stazione appaltante.
1.1. Nelle gare di appalto, l’omissione
delle dichiarazioni, prescritte in sede di partecipazione
dall’art. 38 d.P.R. n. 163/2006, obbliga la Stazione
Appaltante ad escludere il concorrente che non abbia
prodotto, ai sensi degli artt. 46 e 38 d.P.R. n. 163/2006,
le dichiarazioni attestanti l’assenza delle relative
condizioni ostative, anche se inesistenti.
1.2. In caso di dichiarazioni incomplete in sede di
partecipazione alla gara, la Stazione Appaltante non può
ricorrere al cd. soccorso istruttorio, che è volto a
chiarire e completare dichiarazioni, certificati o documenti
comunque già esistenti, a rettificare errori materiali o
refusi, ma non certo a consentire integrazioni o modifiche
della domanda.
Il c.d. “soccorso istruttorio” sovviene quando la P.A. ha la
disponibilità di intervenire su elementi e dati comunque
forniti anche parzialmente e non invece quando non c’è
alcunché su cui intervenire ab initio e quindi in presenza
di dati per nulla conosciuti dalla Stazione Appaltante
perché omessi (nella specie, la dichiarazione sulle
precedenti condanne penali del rappresentante legale
dell’impresa concorrente era stata del tutto omessa e non
poteva quindi essere sanata o regolarizzata o integrata in
concreto con la produzione ex novo di dichiarazione o
certificazione dall’inizio mancante, rientrando fra i cd.
adempimenti doverosi imposti comunque dalla norma e dal
disciplinare, e anche a prescindere dalla previsione della
disciplina di gara e da ogni visione “sostanzialistica” di
tali adempimenti).
1.3. Le procedure concorsuali perseguono il rispetto
rigoroso delle regole poste ad assicurare l’imparzialità e
la parità di trattamento in tutte le loro fasi, per cui
spetta al concorrente il dovere della diligenza nella
osservanza delle disposizioni di legge e concorsuali proprio
ai fini della tutela dell’interesse al concorso; né tale
onere può essere posto a carico dell’Amministrazione, che
altrimenti verrebbe a violare proprio quella parità di
trattamento, che invece nella fattispecie prevale sul
diverso principio del favor partecipationis, dovendosi
assicurare certezza agli elementi dell’offerta.
1.4. Nelle gare pubbliche, in tema di dichiarazioni sulla
c.d. moralità professionale, in merito alla rilevanza o meno
del reato ai fini dell’obbligo dichiarativo, è compito
dell’Amministrazione valutare la gravità o meno del reato,
che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova, e
quindi l’incidenza sulla moralità professionale, e non di
certo al concorrente, che non può quindi operare alcun
proprio “filtro” in sede di domanda di partecipazione e
quindi di dichiarazione in proposito.
2. (segue): compatibilità con il diritto comunitario
dell'art. 38 cod. contratti. Sussiste.
2.1. Non sussistono i presupposti per
rimettere alla Corte di Giustizia UE la questione
pregiudiziale di interpretazione dell’art. 38, c. 1, lett. b
e c) del D.Lgs. n. 163/2006 in rapporto all'art. 45
direttiva 2004/18/CE, dal momento che l’obbligo del rinvio
alla Corte di Giustizia richiede una valutazione di
compatibilità che spetta anche al Consiglio di Stato, quale
giudice nazionale di ultima istanza, laddove il medesimo GA
ritenga necessario adottare una decisione tempestiva in
linea con i precetti comunitari e che non dia adito con
evidenza a ragionevoli dubbi interpretativi sulla corretta
soluzione da dare e data alla questione sollevata.
2.2. In tema di dichiarazioni sulla c.d. moralità
professionale, va evidenziata la chiarezza delle
disposizioni del Codice (segnatamente dell'art. 38 cod.
contratti), che attiene ai requisiti indispensabili per la
partecipazione agli appalti pubblici, alla tutela della
lealtà ed affidabilità delle imprese concorrenti e quindi al
rispetto della par condicio e della corretta e leale
concorrenza, così come dianzi argomentato estesamente.
Le disposizioni del Codice sono espressive di principi
generali anche di derivazione europea e possono trovare, ai
fini della ampiezza applicativa, la ratio nella tutela di
valori immanenti al sistema della contrattualistica
pubblica.
Anche alla direttiva europea sugli appalti pubblici n. 24
del 26.02.2014, non ancora recepita in Italia, impedisce la
produzione di dichiarazioni che omettano tutte le
informazioni indispensabili ad eseguire le verifiche di
ufficio sulla loro veridicità e preclude l’esercizio del
potere istruttorio (cfr. A.P. n. 7/2014).
In effetti le norme comunitarie tendono sì a semplificare e
ad accelerare i procedimenti, ma non ad eliminare il sistema
di attestazione dell’insussistenza delle situazioni ostative
quale prova preliminare sostitutiva di certificazioni, che
nella direttiva n. 24/2014 vengono ridotte ad un’unica
autodichiarazione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 08.09.2014 n. 4543 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’ipotesi di esecuzione di un intervento
edilizio in assenza di permesso di costruire non ricorrono
gli estremi della buona fede con efficacia esimente ex art.
5 c.p., nell’interpretazione datane dalla Corte Cost. con la
sentenza n. 364/1988, allorquando l’imputato abbia male
interpretato una pur chiara disposizione di legge e non si
sia premurato di consultare il competente ufficio per
conoscere quali adempimenti egli avrebbe dovuto compiere,
erroneamente formandosi il convincimento soggettivo, sulla
base di un provvedimento della pubblica amministrazione
riguardante opera edilizia diversa da quella abusivamente
realizzata, che non fosse necessario alcun titolo
abilitativo per la realizzazione di quest’ultima.
Quanto, poi, alla presunta configurabilità, nel
caso in esame, di un errore sul fatto che costituisce reato
ex articolo 42 c.p., comma 4 (rectius, articolo 47
c.p.), detto errore non può essere utilmente invocato nel
caso in esame, in quanto il convincimento soggettivo del
ricorrente secondo cui, per la pavimentazione non occorresse
il permesso di costruire, non seguiva ad una erronea
comunicazione del Comune (che, invece, aveva rilasciato
l’autorizzazione ad eseguire la sola recinzione), con
conseguente esclusione dell’invocata buona fede del
contravventore.
Sul punto, infatti, è stato già in precedenza affermato da
questa Corte che, per trovare applicazione il principio
enunciato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364
del 24.03.1988 (con la quale detta Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5 cod. pen.
nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità
dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile)
e’ necessario che dagli atti del processo risulti che
l’agente abbia fatto tutto il possibile per uniformarsi alla
legge, sicché nessun rimprovero, neppure di semplice
leggerezza, gli possa essere mosso, e che, pertanto, la
violazione della norma sia avvenuta per cause del tutto
indipendenti dalla sua volontà (v., sul punto: Sez. 3, n.
2698 del 18/01/1991 – dep. 01/03/1991, Sina, Rv. 186513).
Ne consegue che nell’ipotesi di esecuzione di un intervento
edilizio in assenza di permesso di costruire non ricorrono
gli estremi dell’esimente suddetta allorquando l’imputato
abbia male interpretato una pur chiara disposizione di legge
e non si sia premurato di consultare il competente ufficio
per conoscere quali adempimenti egli avrebbe dovuto
compiere, erroneamente formandosi il convincimento
soggettivo, sulla base di un provvedimento della pubblica
amministrazione riguardante opera edilizia diversa da quella
abusivamente realizzata, che non fosse necessario alcun
titolo abilitativo per la realizzazione di quest’ultima.
Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di
diritto: Nell’ipotesi di esecuzione di un intervento
edilizio in assenza di permesso di costruire non ricorrono
gli estremi della buona fede con efficacia esimente ex
articolo 5 c.p., nell’interpretazione datane dalla Corte
cost. con la sentenza n. 364/1988, allorquando l’imputato
abbia male interpretato una pur chiara disposizione di legge
e non si sia premurato di consultare il competente ufficio
per conoscere quali adempimenti egli avrebbe dovuto
compiere, erroneamente formandosi il convincimento
soggettivo, sulla base di un provvedimento della pubblica
amministrazione riguardante opera edilizia diversa da quella
abusivamente realizzata, che non fosse necessario alcun
titolo abilitativo per la realizzazione di quest’ultima
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.09.2014 n. 36852 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' pacifico che per la
realizzazione di una pavimentazione in cemento armato è
necessario il massimo titolo abilitativo (permesso di
costruire), a nulla rilevando la pretesa esiguità
dell’intervento rispetto all’estensione complessiva del
terreno.
E’ stato già affermato da questa Corte, infatti, che le
opere di pavimentazione di un suolo con impiego di
conglomerato cementizio importano una modificazione dello
stato dei luoghi ottenuta con attività costruttiva che
richiede la concessione edilizia.
Osserva il Collegio, quanto
all’intervento edilizio in sé, che è pacifico che per la
realizzazione di una pavimentazione in cemento armato è
necessario il massimo titolo abilitativo (permesso di
costruire), a nulla rilevando la pretesa esiguità
dell’intervento rispetto all’estensione complessiva del
terreno.
E’ stato già affermato da questa Corte, infatti, che le
opere di pavimentazione di un suolo con impiego di
conglomerato cementizio importano una modificazione dello
stato dei luoghi ottenuta con attività costruttiva che
richiede la concessione edilizia (Sez. 3, n. 10127 del
06/03/1978 – dep. 25/07/1978, Galletto, Rv. 139840) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.09.2014 n. 36852 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
A causa della sua ratio e in virtù della stessa
genericità della sua formulazione, l'autorizzazione ex artt.
7, 8 e 9 del R.D. 30.12.1923 n. 3267 riguarda ogni attività
sottoposta a vincolo idrogeologico e immutazione totale o
parziale dei luoghi della zona sottoposta a vincolo
idrogeologico, ivi compresa in particolare l'attività
edificatoria, con la precisazione che detta normativa non
esclude che i terreni interessati da vincoli idrogeologici
siano interessati dall'attività edificatoria, essendo invece
consentito ai proprietari dei terreni vincolati di
richiedere la rimozione del vincolo (o anche solo
l'autorizzazione al taglio di alcuni alberi) nella misura
necessaria a consentire la realizzazione della costruzione.
Il regime autorizzatorio de quo implica in sostanza un
controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e
dell'equilibrio geologico o idraulico per evitare che
eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano
suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione
dell'ambiente, pregiudicandone l'equilibrio idrogeologico
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Il R.D. 30.12.1923, n. 3267 ("Riordinamento e riforma
della legislazione in materia di boschi e di terreni montani"),
dopo aver previsto all'art. 1 che "Sono sottoposti a
vincolo per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi
natura e destinazione che, per effetto di forme di
utilizzazione contrastanti con le norme di cui agli artt. 7,
8 e 9 possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere
la stabilità o turbare il regime delle acque", dispone
all'art. 7 che "Per i terreni vincolati la trasformazione
dei boschi in altre qualità di coltura e la trasformazione
di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione
sono subordinate ad autorizzazione del Comitato forestale e
alle modalità da esso prescritte, caso per caso, allo scopo
di prevenire i danni di cui all'art. 1".
La giurisprudenza ha già avuto modo di sottolineare che, a
causa della sua ratio e in virtù della stessa
genericità della sua formulazione, la autorizzazione in
questione riguarda ogni attività sottoposta a vincolo
idrogeologico e immutazione totale o parziale dei luoghi
della zona sottoposta a vincolo idrogeologico, ivi compresa
in particolare l'attività edificatoria (C.d.S., sez. VI,
31.12.1988, n. 1347; 29.03.1983, n. 161; 25.05.1979, n.
395), con la precisazione che detta normativa non esclude
che i terreni interessati da vincoli idrogeologici siano
interessati dall'attività edificatoria, essendo invece
consentito ai proprietari dei terreni vincolati di
richiedere la rimozione del vincolo (o anche solo
l'autorizzazione al taglio di alcuni alberi) nella misura
necessaria a consentire la realizzazione della costruzione
(C.d.S., sez. V, 14.04.1993, n. 480).
Il regime autorizzatorio de quo implica in sostanza
un controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e
dell'equilibrio geologico o idraulico per evitare che
eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano
suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione
dell'ambiente, pregiudicandone l'equilibrio idrogeologico
(C.d.S., sez. V, 03.01.1992, n. 4; sez. VI, 02.03.1987, n.
94).
Nella specie, facendo applicazione dei cennati principi
giurisprudenziali merita accoglimento, con assorbimento
degli altri motivi di ricorso, la censura con la quale si
deduce il deficit istruttorio e motivazionale cui è incorsa
l’A.R. nel negare il citato nulla–osta.
In particolare, la P.A. regionale ha espresso le seguenti
considerazioni: “nota e riconosciuta ai boschi (dalla
comunità scientifica), nella specie alle pinete di pino d’aleppo,
la funzione di protezione del suolo e di regimentazione
delle acque degli eventi idrometeorici critici. Funzioni
svolte sia grazie all’apparato fogliare, ed epigeo, che
tutela il terreno, ne migliorano la condizione strutturale e
quindi sostanzialmente incrementano la capacità di
immagazzinamento e di circolazione idrica, riducendo così
notevolmente i fenomeni di ruscellamento e ristagno. Tali
azioni hanno importantissimi effetti sugli eventi
idrometeorici critici, che vanno da una consistente
riduzione fino all’annullamento vero e proprio delle
conseguenze dei ruscellamenti e dei ristagni superficiali di
acque. Ritenuto che la realizzazione del fabbricato con le
pertinenze d’uso ha comportato una riduzione della
funzionalità del bosco per almeno tali superfici”.
Appare quindi evidente come le valutazioni della Regione
siano del tutto scevre da una concreta e compiuta verifica
dell’incidenza delle opere sul vincolo in questione; tale
verifica non andava effettuata richiamando la notoria e
generale funzione degli alberi di protezione del terreno e
di regimentazione delle acque, quanto piuttosto analizzando
i concreti ed effettivi rischi per la stabilità del suolo e
dell'equilibrio geologico o idraulico nella situazione
concreta, mediante un corretto bilanciato esame della
compatibilità e sostenibilità delle opere edilizie in
questione con i valori che il vincolo de quo intende
tutelare (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 04.09.2014 n. 2291 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO - SINDACATI: Accesso sindacale ai referti medici.
Tar Milano. L'interesse a valutare eventuali limitazioni
alle mansioni del pubblico dipendente prevale sulla
riservatezza.
Il sindacato ha diritto
di accesso alla documentazione trasmessa al medico
competente dal datore di lavoro pubblica amministrazione.
Lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con
sentenza
01.09.2014 n. 2288 emessa
nei confronti dell'agenzia delle Dogane e dei Monopoli.
Non
c'è quindi riservatezza (verso il sindacato) per ciò che
riguarda i documenti predisposti in occasione delle visite
mediche periodiche dei lavoratori dipendenti, già effettuate
e ancora da svolgersi, nell'ambito del Piano di sorveglianza
sanitaria: sulla base di tali documenti, infatti, si
verifica la permanenza in capo ai lavoratori stessi di
limitazioni alle mansioni.
E, proprio per tale motivo, il
sindacato può avere accesso, così come avviene per i
documenti riguardanti l'organizzazione del lavoro e la
materia della sicurezza dei lavoratori. Anche i documenti
redatti dal medico competente appartengono, infatti, ad
ambiti in cui l'interesse del sindacato è correlato alla
finalità dell'organizzazione sindacale, che ha un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti
richiesti con istanza di accesso.
Nel caso specifico, l'istanza d'accesso riguardava la
permanenza delle limitazioni alle mansioni di 49 dipendenti
nell'ambito del piano di sorveglianza sanitaria relativo ad
un anno. Il sindacato, in particolare, chiedeva l'accesso
alla descrizione delle mansioni svolte dai dipendenti, sulla
cui base il medico competente avrebbe poi verificato la
sussistenza dei presupposti per l'esclusione da determinate
attività.
Si evidenzia che i principi generali in tema di accesso
(legge 241/1990) spesso contrappongono sindacati a datore di
lavoro pubblico: i risultati più significativi riguardano
l'accesso (ottenuto) alla pianta organica della Consob di un
determinato un anno e a documenti che esaminavano questioni
in relazione alle quali il sindacato stesso aveva formulato
osservazioni e rilievi (Cons. Stato 5511/2013); o anche
l'accesso agli atti dell'Autorità garante della concorrenza
e del mercato per verificare il rispetto della normativa
vigente e degli accordi in materia di assunzione del
personale con contratto a tempo determinato in assegnazione
temporanea proveniente da altre pubbliche amministrazioni
(Cons. Stato 1034/2012).
Anche i sindacati dei medici ospedalieri possono accedere
agli atti di un ente ospedaliero relativi alla
organizzazione dei servizi di guardia dei propri iscritti,
agli orari ordinari e non ordinari di servizio, al piano
annuale per assicurare le emergenze, e agli atti relativi
alla concertazione per la predisposizione dei turni di
guardia del Ccnl (Tar Napoli 4690/2012), mentre si è negato
l'accesso sindacale (Cons. Stato 4321/2013) agli atti di una
Regione (il Lazio) qualora si chiedano documenti per
concertare la valorizzazione dei dirigenti interni in
termini obiettivi e di retribuzione, con una domanda che non
riguardi provvedimenti già individuati e singolarmente
idonei a ledere la posizione soggettiva dell'organizzazione
sindacale o degli iscritti, bensì riguardi la generalità
della attività, le dotazioni organiche, la programmazione
triennale ed annuale delle risorse umane e l'affidamento
delle strutture dirigenziali (articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati. Parcelle solo con la procura.
Circa le prestazioni svolte in giudizio dall'avvocato, al
fine del riconoscimento dell'eventuale compenso spettante, è
necessario accertare, anche d'ufficio, la validità della
procura conferita.
Ad affermarlo sono stati i giudici della
II Sez. civile della Corte di Cassazione, con
sentenza
29.08.2014 n. 18450.
Ne consegue che
non può una eventuale invalidità della procura alle liti, da
conferirsi nelle forme di legge, essere superata, ai fini
del riconoscimento di detto compenso professionale, dal
contratto di patrocinio che può riferirsi solo a un'attività
extragiudiziaria, svolta dal professionista legale in favore
del proprio cliente, sulla base di un rapporto interno, di
natura extraprocessuale, con il cliente stesso, rapporto ben
distinto, quindi, dal mandato «ad litem».
Inoltre sembra
opportuno rammentare che, mentre la procura «ad litem»
costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore
viene investito del potere di rappresentare la parte in
giudizio con le forme previste dall'art. 83 c.p.c., il
mandato sostanziale costituisce un negozio bilaterale
(contratto di patrocinio) con cui il professionista viene
incaricato di svolgere la sua opera professionale in favore
della parte, secondo la schema proprio del mandato (Cass. n.
13963/2006; n. 10454/2002).
Va, innanzitutto, rammentato in
via del tutto preliminare e in ossequio anche con la
giurisprudenza della Cassazione stessa, che la procura alle
liti costituisce il presupposto della valida instaurazione
del rapporto processuale e può essere conferita, con effetti
retroattivi, solo nei limiti stabiliti dall'art. 125 c.p.c.
il quale prevede che la procura al difensore può essere
rilasciata in data posteriore alla notificazione dell'atto,
purché anteriormente alla costituzione della parte
rappresentata (Cass. s.u. n. 10706/2006; Cass. n.
9464/2012).
Infine, in difetto di un conferimento di una procura alle
liti per la rappresentanza e difesa in giudizio, non
insorgendo un rapporto professionale tra patrono e cliente,
non è neppure consentito determinare il contento economico
del compenso professionale, secondo le norme inderogabili di
cui alla legge n. 794/1942 in materia di prestazioni
giudiziali degli avvocati in sede civile (Cass. n.
28718/2008)
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.20. |
VARI: Visure, il notaio può respirare. Responsabilità nei limiti
dei danni realmente prodotti. CASSAZIONE/ Una sentenza interviene sull'omessa
effettuazione dell'adempimento.
Responsabilità del pubblico ufficiale per omessa
effettuazione delle visure ipotecarie e catastali: ferma
restando la negligenza professionale, il notaio risponde nei
limiti del danno effettivamente prodotto.
È quanto stabilito
nella
sentenza
26.08.2014 n. 18244 della III Sez. civile della
Corte di Cassazione, nella quale i giudici hanno chiarito i
confini del quantum debeatur.
Il caso sul quale sono stati chiamati a intervenire aveva a
oggetto la richiesta di condanna al risarcimento danni che
un cliente aveva rivolto al professionista, responsabile per
il fatto che «lo stesso non aveva effettuato con la
necessaria diligenza le visure ipotecarie e catastali».
«Costituisce approdo esegetico pacifico nella giurisprudenza
di questa Corte», spiega all'uopo il collegio giudicante,
«che, per il notaio richiesto della preparazione e della
stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la
preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene
e, più in generale, delle risultanze dei pubblici registri,
attraverso la loro misura, rappresenta, salvo espressa
dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante
dall'incarico conferitogli dal cliente, di talché
l'inosservanza dello stesso dà luogo a responsabilità ex contractu
del notaio medesimo per inadempimento della prestazione
d'opera intellettuale demandatagli».
Da ciò scatterebbe l'azione di responsabilità contrattuale «se
e nei limiti in cui il danno si sia effettivamente
verificato» e il cui accertamento dipende dalla
valutazione della situazione economica nella quale si
sarebbe venuto a trovare il cliente «qualora il notaio
avesse diligentemente adempiuto la propria prestazione».
Ora, dal momento che nel caso di specie il cliente aveva già
versato buona parte del corrispettivo per l'acquisto
dell'immobile gravato da iscrizioni pregiudizievoli agli
alienanti (i quali, in sede di stipula, avevano garantito «la
libertà dei cespiti da iscrizioni e trascrizioni
pregiudizievoli»), i giudici hanno ritenuto che
dall'ammontare dei danni che il professionista era stato
condannato a pagare venissero «detratte le somme
corrisposte dall'acquirente prima della sottoscrizione
dell'atto»
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI: CIRCOLAZIONE/2 Poteri prefettizi.
Autovelox fisso, tratti ritagliati.
Il prefetto ha facoltà di eliminare un tratto di strada
dall'elenco di quelli ammessi alla rilevazione automatica
della velocità. E il comune ha le mani legate sulla scelta
discrezionale del rappresentante governativo.
Lo ha
evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 26.08.2014 n. 4321.
Un comune molisano ha proposto con successo ricorso al Tar
contro la decisione del prefetto che ha eliminato
dall'elenco autorizzato per i controlli autovelox automatici
un tratto stradale di interesse municipale. Contro questa
determinazione la prefettura ha avanzato censure ai giudici
di palazzo Spada che hanno accolto le doglianze.
L'elenco delle strade sulle quali è possibile installare
misuratori automatici di velocità ai sensi del dl 121/2002
può essere modificato dal prefetto senza problemi. Il
decreto del rappresentante governativo, prosegue la
sentenza, è infatti un atto ampiamente discrezionale
ispirato a complessive valutazioni di opportunità.
L'installazione dei controllori automatici della velocità
sulle strade inoltre non è una regola ma una eccezione.
In buona sostanza la prefettura decide dove posizionare i
vigili elettronici e all'occorrenza revocare
l'autorizzazione all'uso dell'autovelox fisso per
intervenute modifiche delle condizioni oggettive del tratto
stradale interessato dal controllo. Oppure semplicemente per
motivi di opportunità derivanti da un cattivo utilizzo del
misuratore da parte della polizia locale
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: L'occhio del comune sulle pizzerie.
Possibile imporre le manutenzioni periodiche.
Niente pizza con la fuliggine. Il sindaco può ben bloccare
il forno a legna del ristorante: il gestore non può tornare
a usarlo se non fa pulire una buona volta la canna fumaria
del locale, programmando poi la manutenzione periodica.
L'ordinanza è legittima perché resta nel perimetro dei
provvedimenti «contingibili e urgenti»: non impone infatti
«interventi definitivi», invadendo il campo dell'azienda
sanitaria locale e dei vigili del fuoco, ma si limita a
prescrivere misure di buon senso di fronte agli
inconvenienti di natura igienica e sanitaria rilevati dai
tecnici Asl.
È quanto emerge dalla
sentenza
17.06.2014 n. 3081,
pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Confinante scomodo
Riescono a stoppare lo scomodo vicino i residenti che si
ritrovano la fuliggine in casa per colpa del locale sul
corso che sforna pizze a ciclo continuo: il sopralluogo
dell'Asl, avvenuto dopo l'esposto di un gruppo di vicini
guidato da un architetto, rileva ben più di mere emissioni
fastidiose ex articolo 844, primo comma c.c.: più del
disagio c'è un vero e proprio rischio per la collettività.
Il blocco al forno a legna è imposto al gestore
dell'esercizio e al proprietario dei locali.
E il sindaco del comune ligure ha il potere-dovere di
intervenire in base al testo unico degli enti locali: in
effetti, osservano i giudici di palazzo Spada,
l'amministrazione locale si limita a prescrivere misure
anche a tutela della stessa clientela dell'esercizio
pubblico: senza un'«accurata pulizia della canna fumaria»
e una «periodica manutenzione» disposte dal primo
cittadino aumentano i rischi di incendio nell'esercizio
oltre che i problemi per i vicini. È vero: bloccando il
forno a legna la pizzeria non può lavorare perché il
prodotto non è lo stesso se cotto in un altro modo, ma chi
intende proseguire la tradizione nella preparazione della
pietanza non può ritenersi esonerato da interventi, anche
onerosi, che ne garantiscano il risultato.
Né si può ritenere che il sindaco sia andato oltre i suoi
poteri con il provvedimento laddove prescrive una «eventuale
installazione di dispositivi atti a trattenere le particelle
di fuliggine»: si tratta di un'imposizione soltanto
ipotetica, vale a dire necessaria soltanto se la pulizia e
la manutenzione della canna fumaria si rivelassero
insufficienti per evitare gli inconvenienti. Il ristoratore
paga le spese al comune
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
ESPROPRIAZIONE:
OPPOSIZIONE ALLA STIMA ESPROPRIATIVA, SUOI CRITERI
DI COMPUTO, IMPOSSIBILITÀ DI CONFIGURARE LA
FORMAZIONE DI GIUDICATO O ACQUIESCENZA SULLA
STESSA.
Per effetto della declaratoria d’incostituzionalità
dell’art.
5, commi 1 e 2, D.L. n. 333/1992 (Corte cost. n.
348/2007) i criteri previsti, in via suppletiva, dall’art.
2,
comma 89, L. n. 244/2007 si applicano -perché introdotti
come modifica dell’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. n.
327/2001- alle sole procedure espropriative soggette a
tale DPR, ossia a quelle in cui la dichiarazione di p.i. sia
intervenuta dopo la sua entrata in vigore (30.06.2003) mentre per le procedure soggette al regime pregresso
rivive l’art. 39 della L. n. 2359/1865.
Circa l’individuazione del criterio legale di stima, non è
concepibile né la formazione d’un giudicato autonomo
né acquiescenza allo stesso, poiché il bene della vita alla
cui attribuzione tende colui che si oppone alla stima
è l’indennità, liquidata nella misura di legge, non già
l’indicato criterio legale.
La Corte di appello di Firenze condannò un Comune a
corrispondere
ad alcuni privati le somme dovute per indennità
di espropriazione (comprensiva dell’indennità aggiuntiva
per conduzione diretta) e indennità d’occupazione per un
terreno di proprietà degli stessi, oltre a quanto già
corrisposto
in sede di cessione volontaria del medesimo terreno.
Questo, in ragione del fatto che l’area era di riconosciuta
natura edificabile e il suo valore di mercato era stato
determinato
in conformità dell’art. 5-bis, commi 1 e 2, del D.L.
n. 333/1992. In rapporto a ciò, l’indennità di occupazione
era da corrispondersi in misura del 5% annuo dalla data
d’immissione in possesso a quella dell’atto di cessione.
Ancora,
la Corte territoriale riconobbe agli attori l’indennità
per la diretta conduzione del fondo. Rispetto a quanto
corrisposto
in sede cessione volontaria era quindi integrata la
somma a credito degli attori, oltre a interessi in misura
legale.
Avverso tale statuizione gli espropriati propongono ricorso
per Cassazione, dolendosi che l’indennità di espropriazione
-alla quale commisurare il conguaglio dovuto- sia stato
determinato ai sensi dell’art. 5-bis, commi 1 e 2, D.L. n.
333/1992, costituzionalmente illegittimo giusta sentenza
Corte cost. n. 348/2007. Si sarebbe dovuto, così, computare
sulla base del valore venale del terreno, maggiorato del
10% come previsto dall’art. 2, commi 89 e 90, della L. n.
244/2007.
Il Comune ha eccepito l’inammissibilità del ricorso,
deducendo
che, dopo la declaratoria d’incostituzionalità, tra le
parti era intervenuta una transazione sul pagamento
d’indennità
e interessi riconosciuti dalla sentenza d’appello e
che, in ogni caso, i ricorrenti avevano prestato
acquiescenza
alla sentenza qui gravata.
La Corte rigetta l’eccezione d’inammissibilità del ricorso,
evidenziando che non vi fu acquiescenza ma la mera
esecuzione
della sentenza della Corte territoriale, sicché i ricorrenti
si sono limitati a consentire il pagamento rateizzato di
quanto statuito dal giudice di merito, senza che sia
sopraggiunto
alcun accordo transattivo tra le parti sull’ammontare
dell’indennità d’esproprio. In ragione di che, tal condotta
neppure può assumere rilevanza in termini di acquiescenza
rispetto alla sentenza impugnata (sin da Cass. n.
1770/1971, n. 1770; n. 3460/1980).
Nel merito, la Corte ritiene fondato il motivo di gravame,
nei limiti di seguito precisati.
La declaratoria d’incostituzionalità ha efficacia (art. 30,
comma 3, L. n. 87/1953) con riguardo a tutti i giudizi
pendenti
alla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
restandone esclusi -salva la materia penale, in ossequio
del favor rei- i soli rapporti esauriti in modo definitivo,
per sopravvenienza di giudicato, preclusione, decadenza,
prescrizione o per ogni altro istituto al cui verificarsi
l’ordinamento
faccia dipendere il consolidamento del rapporto.
Circostanze, nello specifico, mai verificatesi. Infatti, per
l’individuazione
del criterio legale di stima non è concepibile
né la formazione d’un giudicato autonomo né acquiescenza
allo stesso, poiché il bene della vita alla cui attribuzione
tende chi si oppone alla stima è l’indennità, liquidata
nella
misura di legge, non già l’indicato criterio legale (Cass.
civ.
n. 10379/2012; n. 19345/2011; n. 18963/2011; n.
22409/2008; n. 21143/2007).
Nella determinazione dell’indennità di esproprio, per
effetto
della dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 5, commi
1
e 2, del D.L. n. 333/92 (sentenza Corte cost. n. 348/2007) i
criteri previsti in via suppletiva dall’art. 2, comma 89, L.
n.
244/2007, in quanto introdotti come modifica dell’art. 37,
commi 1 e 2 del D.P.R. n. 327/2001, si applicano alle sole
procedure espropriative soggette a tale DPR, ossia a quelle
in cui la dichiarazione di p.i. sia intervenuta dopo la sua
entrata
in vigore, ossia il 30 giugno 2003, secondo le previsioni
dell’art. 57 (come modificato dal D.Lgs. 27.12.2002, n. 302), mentre nelle procedure soggette al regime
pregresso rivive l’art. 39 della cd “legge fondamentale
sulle
espropriazioni” ossia la L. n. 2359/1865.
Sicché va fatto
riferimento
al valore di mercato, in ragione del fatto che la
norma intertemporale (art. 2, comma 90, L. n. 244/2007)
prevede la retroattività della nuova disciplina di
determinazione
dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti
espropriativi in corso, e non anche per i giudizi (cfr.
Cass.
civ. n. 6798/2013; n. 11480/2008; n. 28431/2008).
Per
l’effetto,
il conguaglio da liquidare ai ricorrenti va determinato
in misura pari alla differenza tra valore venale del bene e
quanto già corrisposto (Corte
di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 16.05.2014 n.
10788 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
ESPROPRIAZIONE:
INCIDENZA DI UN VINCOLO CONFORMATIVO
SULL’INDENNITÀ DI ESPROPRIO.
L’ammontare dell’indennità va determinato con riferimento
alla data del provvedimento ablatorio e avuto
conto del regime urbanistico vigente al momento del
decreto di espropriazione: è quindi necessario, ai fini
della valutazione indennitaria del bene, tener conto di
tutti gli elementi a carattere conformativo e, tra questi,
dell’esistenza d’un vincolo archeologico, che si sovrappone
alla stessa disciplina urbanistica che a esso deve
conformarsi, posto che la natura conformativa dei vincoli
paesaggistici e storico-artistici non può considerarsi
azzerata dai recenti interventi della Corte costituzionale
che, nell’intento di assicurare il ristoro
costituzionalmente
garantito per la privazione autoritaria dei beni
in proprietà, ha ristabilito il fondamentale criterio indennitario
del valore venale.
La controversia origina da un’opposizione all’indennità di
occupazione e alla stima espropriativa, proposta da alcuni
privati contro un Comune, per un terreno di loro proprietà,
assoggettato a procedura ablativa per opere di
valorizzazione
di un parco archeologico.
La Corte territoriale, ritenuto di qualificare il suolo, in
larga
parte, come edificabile secondo azzonamento evincibile
dal PRGC, determinava le indennità per l’esproprio e per
l’occupazione. Nel primo caso applicava il criterio del
valore
venale dimezzato del 50% (per la presenza di vincolo
archeologico,
che pur non determinando l’inedificabilità assoluta,
incide sul valore) nel secondo caso il criterio del valore
agricolo medio.
Il Comune ricorre per Cassazione, che accoglie il ricorso.
La Corte parte da una premessa, inerente alla natura e agli
effetti del vincolo archeologico, rispetto alla quale la
Corte
territoriale, nella determinazione del valore dei beni, fa
prevalere
il regime urbanistico delle aree, considerate in larga
parte e così commisurando le indennità da corrispondere.
Sussiste, invero, un indissolubile nesso fra indennità di
espropriazione e momento del trasferimento della proprietà
del bene: l’ammontare dell’indennità va determinato con
riferimento
alla data del provvedimento ablatorio, in relazione
al regime urbanistico al momento del decreto di
espropriazione.
È necessario, ai fini della valutazione indennitaria
del bene, tener conto di tutti gli elementi a carattere
conformativo
e, tra questi, del vincolo archeologico, che si sovrappone
alla stessa disciplina urbanistica che a esso deve
conformarsi (Cass. civ. n. 18681/2005; n. 10102/2008).
L’esistenza
di un vincolo archeologico fa classificare il medesimo
come non edificabile, rientrando tra le limitazioni legali
della proprietà fissate in via generale, con conseguente
incidenza negativa sul valore di mercato dei beni coinvolti,
divenuti legalmente inedificabili, e quindi sul calcolo
dell’indennità
di espropriazione (Cass. civ. n. 25721/2011).
Né, ad avviso della Corte, la natura conformativa dei
vincoli
paesaggistici e storico-artistici è da considerare azzerata
dai recenti interventi della Corte costituzionale, che
nell’intento
di assicurare il ristoro costituzionalmente garantito
per la privazione autoritaria dei beni in proprietà, ha
ristabilito
il fondamentale criterio indennitario del valore venale.
Del resto, occorre soffermarsi sulla prevalenza del regime
ostativo all’esplicazione dello ius aedificandi al cospetto
di
esigenze che vanno oltre l’interesse all’ordinato sviluppo
del territorio, cui sovrintendono gli strumenti urbanistici,
che finiscono per prevalere sull’ordinaria esplicazione
delle
facoltà connesse all’esercizio del diritto dominicale.
La stessa CEDU fa salvo il diritto degli Stati di
disciplinare
l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale.
Dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si coglie il
principio
di una necessaria proporzionalità tra interesse pubblico
perseguito e proprietà privata ma, di sicuro, non si
esclude che alla proprietà possa venire imposto un
particolare
sacrificio per salvaguardare interessi culturali. La
limitazione
alla proprietà per superiori ragioni d’indole culturale
è stata ricondotta dalla Corte di Strasburgo a ragioni
d’interesse
generale che, per l’art. 1, prot. 1, II parte, CEDU,
giustificano
l’apposizione del vincolo senza indennizzo.
La situazione non muta neppure con riguardo all’assetto
costituzionale, ove il sistema di tutela del paesaggio,
dell’ambiente,
del patrimonio storico e artistico, giustificano
l’affermazione di limitazioni all’uso della proprietà dei
beni
vincolati, senza ostacolarne peraltro la commerciabilità o
una redditività diversa da quella dello sfruttamento
edilizio,
alla luce dell’equilibrio costituzionale tra interessi in
gioco,
che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale
recessive
di fronte all’esigenza di salvaguardia dei valori culturali
ed ambientali (art. 9 Cost.), in attuazione della funzione
sociale
della proprietà (art. 42 Cost., comma 2), come ritenuto
anche in sede di incidenza del vincolo archeologico
sull’attività di impresa (Cass. civ. n. 2962/2014; n.
3670/2014) (Corte
di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 16.05.2014 n.
10785 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
ESPROPRIAZIONE: CONSEGUENZE DELL’OCCUPAZIONE DI UN FONDO
DIVENUTA ILLEGITTIMA PER L’ANNULLAMENTO DEL
DECRETO D’ESPROPRIO DA PARTE DEL G.A..
L’occupazione di un fondo privato, divenuta illegittima
per effetto dell’annullamento da parte del g.a. del decreto
di espropriazione, comporta per l’espropriante
l’obbligo alla restituzione dell’immobile in capo al
proprietario,
non essendo configurabile una “occupazione
espropriativa” il cui fondamento è nella conservazione
alla mano pubblica di un’opera destinata a soddisfare
un interesse della p.a. e, quindi, un’opera intrinsecamente
pubblica.
Alcuni privati, espropriati, convennero in giudizio, avanti
il
Tribunale ordinario, un ente pubblico per ottenere - con
risarcimento
danni - la restituzione di un’area a loro espropriata,
previa occupazione d’urgenza, in forza di un provvedimento
amministrativo annullato dal g.a. con sentenza
passata in giudicato. Le convenute amministrazioni
resistevano
alla domanda, sostenendo sussistere un’accessione
invertita della quale chiedevano, in via riconvenzionale,
declaratoria.
Il Tribunale accolse la domanda, compresa quella
risarcitoria.
Sul proposto appello, la Corte territoriale dichiarava
compiuta
in favore dell’Ente l’accessione invertita del suolo,
rigettando
l’originaria domanda.
I privati ricorrono per Cassazione, che accoglie il ricorso,
annullando con rinvio la sentenza gravata.
Pur a fronte delle censure mosse contro la declaratoria di
accessione invertita -sostenendo esserci un’occupazione
usurpativa- la Cassazione richiama la propria costante
giurisprudenza
per cui l’illegittima occupazione d’un fondo privato
in seguito all’annullamento, da parte del g.a., del decreto
di espropriazione comporta l’obbligo dell’espropriante
alla restituzione dell’immobile al proprietario, non essendo
configurabile una vicenda di “occupazione espropriativa”
il cui fondamento è nella conservazione alla mano pubblica
di un’opera destinata a soddisfare un interesse della
p.a. e, quindi, un’opera intrinsecamente pubblica (cfr. sin
da Cass. n. 7514/2011).
Infatti, osserva la Corte, la realizzazione senza titolo di
opere
e manufatti di natura privata su terreno altrui, pur se
conformi agli strumenti urbanistici e autorizzati
dall’autorità
comunale, è disciplinata non dalla regola dell’occupazione
appropriativa, ma dall’art. 934 c.c..
Esso, ponendo il
principio
dell’accessione, stabilisce che la costruzione si incorpora
al suolo ed appartiene immediatamente al proprietario di
questo, senza attribuire rilevanza alcuna alla sua
consistenza
o alla sua destinazione né alla coincidenza (o meno) degli
interessi dell’esecutore con quelli della collettività, pur
rivelati da una dichiarazione di pubblica utilità,
conseguendo
da ciò che la costruzione su fondo altrui di opere e
manufatti
appartenenti a privato, ma in assenza di provvedimenti
di esproprio o asservimento, configura un fatto illecito
di natura permanente, che obbliga al risarcimento del
danno non già il Comune che ha dato luogo all’occupazione
(tenuto all’indennizzo relativo), bensì l’autore
dell’illegittima
detenzione del bene dopo la scadenza del periodo di
occupazione, per non aver consentito al proprietario il
pieno
ed esclusivo godimento del fondo (Cass. n. 23798/2006) (Corte
di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 15.05.2014 n.
10680 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
ESPROPRIAZIONE: INSERIMENTO DI UN TERRENO IN AREA PEEP E
INDENNITÀ D’ESPROPRIO.
Un piano di edilizia economica e popolare conferisce,
per effetto della sua stessa approvazione, il requisito
dell’edificabilità legale a tutte le aree in esso inserite
restando
irrilevante che -secondo le specifiche previsioni
del piano- alcune di tali aree siano destinate alla
costruzione
di strade o riservate a parchi o giardini a servizio
della zona.
Questo, perché tali specifiche previsioni
non assumono carattere conformativo del territorio
ma costituiscono veri e propri vincoli preordinati
all’esproprio,
perché limitati e funzionali all’interno di una
zona urbanistica omogenea a diversa destinazione generale
ed incidenti su beni determinati, sui quali si localizza
la realizzazione dell’opera pubblica, e non possono
pertanto comportare mutamento della classificazione
legale dei terreni che ne sono oggetto.
Il Tribunale ordinario, accogliendo la domanda proposta da
un’Opera Pia nei confronti di un Comune, condannò l’Ente
convenuto a risarcire il danno subito dall’attrice per la
perdita
di un terreno di sua proprietà, occupato e irreversibilmente
trasformato in difetto di emissione del decreto d’esproprio.
Ancora, in ragione della ritenuta natura edificabile
del bene, ricadente interamente in area PEEP, liquidò a
titolo
risarcitorio, in applicazione dell’art. 5-bis, comma 7-bis,
della L. n. 359/1992 una somma, attualizzata alla data della
decisione, oltre a interessi.
La decisione, oggetto di reciproci appelli, fu riformata
dalla
Corte territoriale che ritenne il terreno - pur interamente
inserito
in area PEEP - privo di vocazione edificatoria perché
destinato, nell’ambito di tale area, in parte a viabilità e
in
parte a verde pubblico, per l’effetto liquidando il danno in
un minore importo calcolato con applicazione del valore
agricolo medio (artt. 15 e 16 L. n. 865/1971), con
rivalutazione
monetaria e interessi.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, che
accoglie
il gravame con rinvio.
La Corte condivide la doglianza secondo la quale
erroneamente
la Corte d’appello avrebbe ritenuto che il terreno
(oggetto di occupazione illegittima) benché interamente
inserito
in zona PEEP, fosse privo di vocazione edificatoria
perché specificamente destinato, all’interno di tale zona,
in
parte a viabilità ed in parte a verde pubblico. A tale
proposito,
i Supremi Giudici richiamano il principio, consolidato, per
cui il piano di edilizia economica e popolare conferisce,
per la sua stessa approvazione, il requisito
dell’edificabilità
legale a tutte le aree in esso inserite (Cass. nn. 19501/2005,
4925/2003, 12705/2001), non essendo rilevante che, secondo le
specifiche previsioni del piano, alcune di tali aree siano
destinate
alla costruzione di strade o riservate a parchi o giardini
a servizio della zona (Cass. nn. 19501/05, 12966/04,
10555/2004).
Del resto, le stesse Sezioni Unite (sentenza n. 173/2001)
affermano
che tali specifiche previsioni non assumono carattere
conformativo del territorio ma costituiscono veri e propri
vincoli preordinati all’esproprio, perché limitati e
funzionali
all’interno di una zona urbanistica omogenea a diversa
destinazione
generale ed incidenti su beni determinati, sui
quali si localizza la realizzazione dell’opera pubblica, e
non
possono pertanto comportare mutamento della classificazione
legale dei terreni che ne sono oggetto.
La cassazione della sentenza concerne anche la necessaria
conformazione, da parte del giudice di rinvio, alla
sopravvenuta
dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 5-bis,
comma 7-bis, della L. n. 359/1992 (Corte
di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 12.05.2014 n.
10280 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
URBANISTICA: MOMENTO CONSUMATIVO DELLA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA
“MISTA” E DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE.
Il momento consumativo del reato di lottizzazione abusiva
"mista" si individua, per tutti coloro che concorrono
o cooperano nel reato, nel compimento dell'ultimo
atto integrante la condotta illecita, che può consistere
nella stipulazione di atti di trasferimento, nell'esecuzione
di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione dei manufatti
che compongono l'insediamento.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sul tema, già più volte oggetto di attenzione nella
giurisprudenza
di legittimità, relativo all’individuazione del dies a
quo del reato di lottizzazione abusiva, stavolta
relativamente
alla ipotesi di lottizzazione abusiva mista.
La vicenda
processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale
del riesame rigettava l'appello cautelare reale
relativamente
al provvedimento di rigetto del GIP della richiesta di
dissequestro;
in particolare, il GIP aveva disposto il sequestro
preventivo di un immobile, ritenendo sussistere i reati di
abuso d'ufficio e di lottizzazione. Nello specifico,
l'ipotesi di
incolpazione prevedeva che, con più azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, numerosi indagati, ciascuno
consapevole delle altrui condotte, abbiano realizzato ville
residenziali, in violazione delle prescrizioni degli
strumenti
urbanistici vigenti (e comunque non disponendo la redazione
di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione
lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento
di
nuova realizzazione), così attuando una trasformazione
urbanistica
ed edilizia del territorio comunale ed un aggravio
del carico urbanistico in zona agricola non urbanizzata o
non sufficientemente urbanizzata.
Con riguardo ad alcuni
interventi edilizi, la condotta contestata riguarda
un'ipotesi
di lottizzazione abusiva mista, negoziale e materiale,
nell'ambito
della quale la trasformazione del territorio è stata
compiuta attraverso il frazionamento e la vendita dei lotti
così ricavati e la realizzazione su di essi dei manufatti,
eseguiti
in base a permessi di costruire illegittimi in quanto
rilasciati
a soggetti privi dei requisiti soggettivi previsti.
Ricorrendo
in Cassazione, l’interessato si doleva del fatto che
il tribunale del riesame non avesse rilevato l'intervenuta
prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, unico per
il
quale sia stata chiesta la misura del sequestro preventivo,
prescrizione che era stata affermata con la produzione di
una serie di documenti che attesterebbe la fine dei lavori a
far data dal 2007.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’interessato e,
nell’affermare
il principio di cui in massima, ha ritenuto che la
motivazione del tribunale circa l'ultimazione dei lavori,
pur
dando conto della ritenuta irrilevanza della documentazione
prodotta dalla difesa (fatture attestanti l'avvenuta
attivazione
delle utenze, l'intonacatura, l'acquisto degli infissi,
dichiarazione
di conformità dell'impianto termoidraulico e
certificato di collaudo, etc.), non fornisce alcuna
spiegazione
circa quanto emergerebbe ex actis, ossia che l'immobile
risulterebbe ultimato nell’epoca indicata dalla difesa (in
precedenza, sull’individuazione del dies a quo del reato di
lottizzazione abusiva, v. Cass. pen., sez. III, 01.07.1998, n. 7640, in CED Cass., n. 210850, secondo cui, pur
essendovi
distinzione fra il reato di lottizzazione abusiva a scopo
edificatorio e quello di costruzione abusiva nell'area
oggetto
di detta lottizzazione, la permanenza del primo di detti
reati (da qualificare come progressivo nell'evento), viene a
cessare, qualora si sia dato luogo ad effettiva attività
edificatoria,
anche ad opera di soggetti diversi dal lottizzatore, solo con l'esaurimento della suindicata attività, per cui
solo
da tale momento inizia a decorrere il relativo termine
prescrizionale) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2014 n. 18920
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE PER GLI
INTERVENTI EDILIZI “PUBBLICI” ESEGUITI DAI PRIVATI
CONCESSIONARI.
Solo per le opere eseguite dai Comuni non è richiesto il
permesso di costruire, bensì -quale atto equipollente-
la delibera del consiglio o della giunta comunale
accompagnate
da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni
urbanistiche ed edilizie; diversamente, per le
opere realizzate da privati concessionari, il predetto
titolo
abilitativo è invece necessario.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene all’applicabilità o meno della speciale
disciplina
della cd. validazione del progetto (ai sensi del
D.P.R. 21.12.1999, n. 554, art. 47 prevista dal
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7) alle opere edilizie di
pubblico
interesse ma eseguiti da concessionari privati.
La vicenda
processuale trae origine dal provvedimento con cui il
tribunale
del riesame ha confermato il decreto di sequestro preventivo
di 65 cappelle gentilizie, 44 edicole funerarie e 180
tumuli realizzati da una società privata, ipotizzando il fumus
del reato di costruzione abusiva perché trattavasi di opere
eseguite in assenza del permesso di costruire.
In
particolare,
il Tribunale ha ritenuto che tali opere erano soggette a
permesso di costruire, trattandosi di nuove costruzioni
modificative
dell'assetto del territorio non rientranti nella previsione
del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7, lett. c), non trattandosi
di "attività edilizia delle pubbliche amministrazioni" ma
di opere realizzate da un privato concessionario.
L’ordinanza
veniva impugnata dall’amministratore della società privata
concessionaria, sostenendo l’errata applicazione del
D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 31 e 44; in particolare, il
tribunale
avrebbe omesso di applicare il D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 7, lett. c).
La Cassazione ha, sul punto, respinto il motivo di ricorso,
e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha
ritenuto
corretto il ragionamento del tribunale che aveva ritenuto
necessario il permesso di costruire, perché non ricorreva il
presupposto soggettivo richiesto dalla norma del D.P.R. n.
380 del 2001, art. 7 trattandosi appunto non di attività
edilizia
realizzata dalle pubbliche amministrazioni, ma di opere
realizzate da un privato concessionario sia pure nell'ambito
della finanza di progetto, cioè di una metodologia attuativa
del cd. partenariato pubblico-privato (in precedenza, nel
senso che anche le opere eseguite dai Comuni sono soggette
all'obbligo di conformarsi alle disposizioni urbanistiche
vigenti e ai relativi controlli salvo restando che, per
effetto
dell'art. 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e della contestuale
abrogazione del D.L. n. 398 del 1993 e successive modifiche,
per dette opere non è richiesto il previo rilascio del
permesso di costruire, cui deve ritenersi equipollente,
infatti,
la delibera del consiglio o della giunta comunale
accompagnata
da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni
urbanistiche ed edilizie; fattispecie, analoga alla
presente,
di sequestro preventivo per il reato di cui all'art. 44,
lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001 relativamente a lavori di
ampliamento
di cimitero comunale in violazione della distanza
minima rispetto al centro abitato: Cass. pen., sez. III, 09.05.2008, n. 18900 V. e altri, in CED Cass., n. 239918)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2014 n. 18907
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
URBANISTICA: LA TRASFORMAZIONE IN “ZONA BIANCA” NON CONSEGUE
AUTOMATICAMENTE ALLA DECADENZA DEL VINCOLO
PREORDINATO ALL’ESPROPRIO.
La decadenza del vincolo preordinato all'esproprio non
comporta automaticamente la trasformazione dell'area
in "zona bianca" ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 9, comma
2, occorrendo una preliminare verifica della mancanza
dello strumento attuativo di urbanizzazione dell'area,
ossia della insufficienza del regime dell'area stabilito
nel PRG.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione, invero non molto approfondita nella
giurisprudenza
di legittimità, dei vincoli territoriali destinati
all’espropriazione
dell’area.
La vicenda processuale segue all’ordinanza
con cui il tribunale ha rigettato la richiesta di
riesame avverso decreto di sequestro preventivo di due
fabbricati emesso dal GIP, nei confronti del legale
rappresentante
dell'impresa esecutrice dei lavori per lottizzazione
abusiva a scopo edificatorio in un'area comunale.
Contro
l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato,
sostenendo, per quanto qui di interesse, l’omessa
motivazione
sulla consulenza tecnica di parte del perito, asserendo
che il tribunale non l’avrebbe neppure menzionata, pur
avendo affermato che la difesa "nulla ha apportato per
sconfessare il giudizio di insufficiente urbanizzazione",
che
invece era proprio lo scopo della suddetta consulenza.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’interessato e,
nell’affermare
il principio di cui in massima, ha osservato come
l'apparato motivazionale dell'impugnata ordinanza
effettivamente
venisse meno a proposito dell'urbanizzazione dell'area
interessata, e ciò sotto due profili.
In primo luogo,
perché il tribunale ha ritenuto che sull'area interessata
dall'intervento
assentito con permesso di costruire esisteva un
vincolo preordinato all'esproprio decaduto per non avere il
Comune adottato il piano attuativo entro il termine
quinquennale
di efficacia: in altri termini, secondo il tribunale,
la decadenza del vincolo avrebbe comportato
l'assoggettamento
dell'area nel regime delle c.d. zone bianche di cui alla
L. n. 1977 del 2010, art. 4.
Affermazione, questa, come
visto, disattesa dalla Cassazione con l’importante principio
affermato (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen.,
sez. III, 23.06.2011, n. 25235, in CED Cass., n. 250980) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2014 n. 18727
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
PERMESSO DI COSTRUIRE NECESSARIO ANCHE IN CASO DI
OPERA “STAGIONALE”.
Il
permesso di costruire è richiesto anche nel caso in cui
l'opera abbia un carattere stagionale, ben potendo
quest’ultima
essere destinata a soddisfare bisogni non
provvisori attraverso la permanenza nel tempo della
sua funzione.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione relativa alla necessità o meno del permesso
di costruire ove l’intervento edilizio sia finalizzato a
soddisfare
esigenze di carattere stagionale.
La vicenda processuale
vede coinvolti C., quale progettista dei lavori e, G.,
committente, per violazione edilizia conseguente al fatto di
avere realizzato un gazebo in assenza di permesso di
costruire,
senza la previa autorizzazione del servizio tecnico di
bacino, e di averlo utilizzato prima del rilascio del
certificato
di collaudo, nonché di falsità ideologica per avere
presentato
-in allegato alla DIA effettuata ex D.P.R. n. 380 del
2001, art. 6- asseverazioni false (relativamente alla
riconducibilità
dell'opera al cd. IPRIPI - interventi privi di rilevanza
per la pubblica incolumità ai fini sismici). Per tale
ragione,
il PM ha chiesto ed ottenuto dal GIP la convalida del
decreto di sequestro preventivo disposto sul gazebo e la
sottoposizione dell'opera a sequestro preventivo.
Il
tribunale
del riesame, ritenendo trattarsi di opera di carattere
stagionale,
e, dunque, sottratta al permesso di costruire, ha
annullato il sequestro. Contro l’ordinanza ha ricorso per
cassazione il PM in particolare, per quanto qui di
interesse,
soffermandosi sulla interpretazione dell'art. 6 D.P.R. n.
380/2001 e sui concetti di "temporaneità" e "contingenza"
che -all'evidenza- non possono essere riferiti alle opere
bensì alle esigenze. Inoltre, lo stesso P.M. fa notare che
tali
aggettivi non hanno significati sovrapponibili e che, in
particolare,
"contingente" significa accidentale e non attiene
ad una esigenza propria dell'attività di chi installa
l'opera.
Ciò vuol dire, esemplificando, che chi svolge l'attività di
ristoratore
può considerare contingente l'allestimento per
consentire, allo scoperto, una mostra fotografica non certo
l'esigenza in generale di svolgere il servizio esterno di
ristorazione
al riparo da pioggia vento e sole perché quest'ultima
è esigenza "propria" dell'attività commerciale svolta,
come nel caso di specie, - dal G.
La Cassazione ha accolto il ricorso del PM e, nell’affermare
il principio di cui in massima, ha evidenziato come
sicuramente
incisivi e convincenti sono i rilievi del PM circa il fatto
che un insediamento come quello realizzato consenta la
soddisfazione di esigenze valide per tutto l'anno
(riparando,
cioè, dal freddo, in inverno, e dal caldo, d'estate) sicché,
anche il carattere di esigenza "temporanea" merita maggiore
approfondimento da parte del Tribunale (in precedenza,
nel senso che necessità di permesso di costruire anche
l’opera
stagionale: Cass. pen., sez. III, 26.09.2011, n. 34763, in
CED Cass., n. 251243) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2014 n. 18718
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
CONDIZIONI PER LA SUSSISTENZA DELLA RESPONSABILITÀ
PENALE DEL PROPRIETARIO DELL’AREA.
In materia edilizia, può essere attribuita al proprietario
non formalmente committente dell'opera la responsabilità
per la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44,
sulla base di valutazioni fattuali, quali l'accertamento
che questi abiti nello stesso territorio comunale ove è
stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato
individuato
sul luogo, che sia destinatario finale dell'opera,
che abbia presentato richieste di provvedimenti abilitativi
anche in sanatoria.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella
pratica giudiziaria, dell’individuazione delle condizioni in
presenza delle quali il proprietario, non committente, di un
terreno possa essere ritenuto responsabile degli abusi
edilizi
sullo stesso eseguiti.
La vicenda processuale trae origine
dalla sentenza con cui la Corte di appello di Palermo
confermava
la sentenza del tribunale con cui il proprietario di
un terreno era stato condannato per la realizzazione, senza
permesso di costruire e senza le necessarie autorizzazioni,
di un manufatto allo stato grezzo di circa mq. 80 su di un
basamento in cemento armato, in zona sismica e sottoposta
a vincolo paesaggistico e cimiteriale.
In ordine alla sua
posizione, rilevava la Corte di appello che l'affermazione
di
responsabilità non era fondata certo sulla sola circostanza
di essere egli proprietario del suolo su cui insisteva una
vecchia costruzione poi sostituita da quella di cui
all'imputazione,
ma anche sul fatto che, pur svolgendo attività lavorativa
in luogo distante, risiedeva proprio all'indirizzo in
cui era stata realizzata la costruzione e non era
sostenibile
che egli non vi avesse mai fatto ritorno e non fosse quindi
a conoscenza dei lavori abusivi; l'imputato, in quanto
destinatario
dell'opera, aveva interesse alla sua esecuzione.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’interessato,
in particolare sostenendo che l'affermazione di colpevolezza
fosse fondata sostanzialmente sulla mera titolarità
del bene.
La Cassazione ha, però, respinto detto motivo di ricorso. In
particolare, nell’affermare il principio di cui in massima,
ha
rilevato la correttezza delle argomentazioni dei giudici di
merito i quali avevano evidenziato che l’imputato, oltre ad
essere proprietario dell'immobile demolito e poi
ricostruito,
aveva la residenza anagrafica proprio nel luogo dove
venivano
eseguiti i lavori, che il soggetto trovato sul posto, al
momento del sopralluogo, era il padre dell'imputato, che
infine il proprietario aveva interesse all'esecuzione
dell'opera
in quanto destinatario finale della stessa (da ultimo, sulle
condizioni per attribuire la responsabilità al proprietario
non committente: Cass. pen., sez. III, 29 ottobre 2013, n.
44202, in CED Cass., n. 257625) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.05.2014 n. 18305
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
EDILIZIA PRIVATA: VIETATO DISPORRE LA DEMOLIZIONE DELL’ABUSO EDILIZIO
SE LA CONDANNA RIGUARDA LA VIOLAZIONE DELLA LETT.
A) DELL’ART. 44 T.U. EDILIZIA.
Il giudice, ove pronunci condanna per il reato di cui al
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), non
può ordinare la demolizione delle opere abusive.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, delle condizioni in presenza delle quali può
essere applicata la sanzione amministrativa accessoria della
demolizione del manufatto abusivo.
La vicenda processuale
che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi
della questione segue alla sentenza con cui il Tribunale ha
condannato alcuni soggetti, ordinando la demolizione delle
opere abusive, per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del
2001,
art. 44, comma 1, lett. a), perché, C., quale proprietario
committente, B. quale esecutore dei lavori, M.M. quale
direttore
dei lavori, eseguivano la costruzione di un fabbricato
in difformità dal regolamento edilizio vigente e dal
permesso
di costruire; in particolare, realizzavano il fabbricato
a distanza di circa 13,3 m anziché 20 m dalla strada
comunale,
come prescritto sia dal titolo autorizzatorio, sia dagli
strumenti urbanistici vigenti, nonché realizzavano
un'altezza
di circa 2 m in corrispondenza dell'intradosso del solaio,
laddove era stata autorizzata un'altezza di 0,80 m e, su
tutti
i lati, un balcone con uno sbalzo di circa 1,5 m, non
previsto,
con significativa alterazione del rapporto planivolumetrico.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso
per cassazione gli interessati sostenendo, per quanto qui
di
interesse, che il giudice, pur avendo pronunciato condanna
per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44,
comma
1, lett. a), avrebbe ordinato la demolizione delle opere, la
quale può essere invece ordinata solo in relazione alla
violazione
dell'art. 44, comma 1, lett. b), dello stesso D.P.R..
La Cassazione ha accolto il ricorso degli interessanti e,
affermando
il principio di cui in massima, ha altresì escluso
la possibilità di procedere d'ufficio ad una
riqualificazione
della fattispecie contestata riconducendola all'ambito di
applicazione della richiamata lett. b), per di più in
presenza
di una motivazione della sentenza impugnata che
sostanzialmente
escludeva una tale riqualificazione (in precedenza,
in senso conforme all’inapplicabilità dell’ordine di
demolizione
con riferimento alla lett. a): Cass. pen., sez. III,
29.09.2011, n. 41423, in CED Cass., n. 251326) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.04.2014 n. 17991
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
EDILIZIA PRIVATA: OMESSA DENUNCIA LAVORI IN CEMENTO ARMATO: È
REATO PROPRIO DEL COSTRUTTORE?
Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato
cementizio armato (artt. 65 e 72, D.P.R. 6 giugno
2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è
configurabile
in capo al costruttore, essendo imposto dalla
legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo
di denuncia.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla esistenza di un contrasto
giurisprudenziale in ordine alla individuazione del
soggetto responsabile del reato di omessa denuncia dei
lavori
in cemento armato.
La vicenda processuale trae origine
dalla sentenza con cui il Tribunale ha ritenuto responsabile
di violazioni continuate della normativa sulle opere in
conglomerato cementizio (art. 81 c.p., D.P.R. n. 380 del
2001, artt. 64 e 71, 65 e 72) e della normativa antisismica
(art. 81 c.p., D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95) il
proprietario
e committente, cui è stato addebitato di aver realizzato
su un capannone prefabbricato, una scala in cemento
armato, un vano ascensore, un solaio in lamiera grecata,
un manufatto in profilati di alluminio e vetri a copertura
di
una scala, in assenza di un progetto esecutivo e della
direzione
di un tecnico abilitato e senza la prescritta denunzia
di inizio lavori all'Ufficio del Genio Civile, e senza
l'attestazione
di avvenuto deposito, trattandosi di opere in zona sismica.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’interessato, sostenendo che, quanto alle opere in cemento
armato, il reato di omessa denuncia non possa essere
attribuito al committente.
La Cassazione, nel prendere atto dell’esistenza del
contrasto
giurisprudenziale, ha dichiarato estinti i reati contestati
(nel senso che il reato in esame sarebbe reato proprio del
costruttore: Cass. pen., sez. III, 07.05.2010, n. 17539,
in CED Cass., n. 247168; diversamente, nel senso che il
committente di lavori edilizi concorre, in qualità di "extraneus",
nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere
in conglomerato cementizio armato, pur trattandosi di
reato omissivo proprio del costruttore, v. Cass. pen., sez.
III, 31.05.2011, n. 21775, in CED Cass., n. 250377,
peraltro
precisando che il concorso è ipotizzabile, ad esempio,
quando la denuncia sia omessa proprio su istigazione di chi
ha ordinato i lavori) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2014 n. 17281
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE OPERE DI SBANCAMENTO E LIVELLAMENTO DI TERRENO
SONO SOGGETTE A PERMESSO DI COSTRUIRE.
Pure le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento
del terreno, se finalizzate ad usi diversi da quelli
agricoli,
in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio,
sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione relativa alla necessità o meno del permesso
di costruire ove l’intervento edilizio sia finalizzato alla
realizzazione
di attività apparentemente non riconducibili alla
nozione di costruzione edilizia.
La vicenda processuale
segue
alla sentenza con cui la Corte d'appello ha ribadito la
condanna inflitta ad alcuni soggetti per avere realizzato, a
fini edilizi, uno scavo di 270 mc. adiacente ad un edificio
esistente, ed avere ivi effettuato uno scarico di terreno
vegetale,
prelevato altrove, in quantità pari a circa 100 mc.
Avverso tale decisione, i condannati hanno proposto ricorso,
tramite difensore deducendo, per quanto qui di interesse,
che non sarebbe esatto ricondurre la loro condotta alla
fattispecie di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, visto
che, in zona, non è stata realizzata alcuna opera edilizia.
In
realtà -si sostiene- si è trattato solo di uno spostamento
del terreno che è stato rimosso più a valle, in una zona in
pendio, per finalità di spianatura, come si evince
agevolmente
dalla documentazione fotografica.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, sul punto,
hanno infatti dichiarato il ricorso inammissibile. In
particolare,
nell’enunciare il principio di cui in massima, hanno
precisato che "opera edilizia" non è solo quella che implica
una "costruzione" o "edificazione"; ed invero, a mente del
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, necessitano di permesso di
costruire: gli interventi di nuova costruzione, gli
interventi
di ristrutturazione urbanistica e gli interventi di
ristrutturazione
edilizia.
In altri termini, sono subordinati al preventivo
rilascio del permesso di costruire, non soltanto, gli
interventi
edilizi in senso stretto, ma anche, quelli che comportano
la trasformazione in via permanente del suolo in edificato,
tra cui, appunto, le opere di sbancamento e livellamento
di terreno a fini non agricoli (in precedenza, in senso
conforme: Cass. pen., sez. III, 24.02.2009, n. 8064,
in CED Cass., n. 242741) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2014 n. 17278
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
ABUSO EDILIZIO PER OPERE “AGGIUNTIVE” E
CONSEGUENZE SUL CONTRATTO DI APPALTO.
Deve ritenersi nullo, per illiceità dell’oggetto, l’accordo
per l’esecuzione di una variante della costruzione quando
essa non è assentita dall’Autorità amministrativa in
relazione ad un progetto approvato e costituente oggetto
di un contratto d’appalto: peraltro tale nullità non
si estende all’intero contratto ma alle sole parti difformi
dall’assentito ed esclude la possibilità di far valere i
diritti
nascenti dall’accordo per l’esecuzione della variante
che non era stata assentita.
Con originaria citazione, una società immobiliare conveniva
in giudizio una propria impresa appaltatrice chiedendo la
risoluzione
del contratto d’appalto, tra esse intercorrente,
per inadempimento della convenuta, con condanna al
risarcimento
dei danni. L’appaltatore si costituiva in giudizio
chiedendo, in riconvenzionale, la condanna della committente
al pagamento del prezzo per l’esecuzione dei lavori
non previsti nel contratto originario. L’adito Tribunale
rigettava
la domanda attrice e, in accoglimento della riconvenzionale,
condannava la committenza al pagamento delle
somme residuali.
La sentenza era appellata dall’originario attore, sul
presupposto
che le opere realizzate dall’impresa, per cui era stata
pronunciata condanna al pagamento, erano al momento
della loro realizzazione illegittime sotto il profilo
edilizio e
urbanistico perché, in parte prive di titolo abilitativo
(concessione
edilizia) e, in altra parte, da esso difformi: sicché
dovevano ritenersi nulle le pattuizioni successive al
contratto
d’appalto che tali opere avevano previste. A comprova
di ciò, gli appellanti a corredo della domanda di nullità
depositavano
le ordinanze comunali di sospensione dei lavori
e remissione in pristino nonché una sentenza penale passata
in giudicato e una relazione tecnica riassuntiva.
L’adita Corte territoriale rigettava il gravame. Per quanto
qui interessi, era reietto il motivo riguardante la dedotta
nullità del contratto d’appalto in ragione dell’avvenuta
realizzazione
di opere abusive, perché questione non posta in
primo grado. In ogni caso, osservava la Corte di merito, le
asserite irregolarità (dedotte, in modo non ammissibile,
solo
in d’appello) non riguardavano l’intera e complessa
costruzione
ma solo elementi a essa marginali, sicché non incidevano
sulla validità dell’opera (rectius: del contratto
d’appalto). Del pari, non potendo essere rilevata d’ufficio
la
nullità del contratto o il difetto di titolo edilizio, non
potevano
ad avviso della Corte essere esaminati, a riprova della
dedotta nullità, i documenti prodotti ex novo in violazione
dell’art. 345 c.p.c..
Avverso la pronuncia reiettiva dell’appello il committente
dell’opera, originario attore, ricorre per Cassazione
deducendo
otto motivi di doglianza.
La sentenza è annullata con rinvio, in accoglimento del
primo
motivo, con assorbimento degli altri ad eccezione
dell’ultimo,
respinto.
Con il primo motivo, accolto, era stata dedotto che
contrariamente
a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la nullità
può colpire anche singole opere estranee al contratto di
appalto e per le quali manchi il titolo abilitativo edilizio
o
che siano state eseguite in sua difformità.
La Corte condivide la censura, ricordando che secondo i
principi generali dell’ordinamento (art. 1418 c.c.), deve
ritenersi
nullo, per illiceità dell’oggetto, l’accordo per
l’esecuzione
di una variante dell’opera quando la stessa non è assentita
dall’autorità amministrativa in relazione ad un progetto
approvato costituente oggetto di un contratto d’appalto.
Peraltro tale nullità non si estende all’intero contratto
d’appalto ma esclude la possibilità di far valere i diritti
nascenti
dall’accordo per l’esecuzione della variante che non
era stata assentita. In proposito la Corte rileva che il
contratto
d’appalto avente a oggetto una costruzione abusiva -cioè non assentita da concessione edilizia o da altro
provvedimento
della p.a.- è nullo perché è illecito l’oggetto,
contrario alle norme urbanistiche e edilizie da cui è
vietato,
potendo altresì costituire illecito penale.
Tale circostanza
impedisce, sin dall’origine, al contratto di produrre gli
effetti
che gli sono propri, con la rilevante conseguenza che
l’appaltatore non può pretendere, in forza di siffatto
contratto
nullo, il corrispettivo pattuito o dovuto ovvero
dell’indennizzo
ex art. 1671 c.c. Il principio conforma precedenti
della stessa Corte, secondo i quali il contratto d’appalto
per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia
è nullo (per gli artt. 1346 e 1418 c.c.), avendo oggetto
illecito
per violazione di norme imperative in materia urbanistica.
Siffatta nullità impedisce sin dall’origine al contratto
di produrre i propri effetti tipici e ne impedisce anche la
convalida ai sensi dell’art. 1423 del codice civile. Sicché
l’appaltatore non può pretendere, in forza del contratto
nullo,
il corrispettivo dovuto, a nulla rilevando, in contrario,
l’ignoranza
del mancato rilascio della concessione edilizia,
che non può ritenersi scusabile per la grave colpa del
contraente,
il quale, con l’ordinaria diligenza, ben avrebbe potuto
avere conoscenza della reale situazione, incombendo
anche sul costruttore (ex art. 6, L. n. 47/1985, allora in
vigore)
l’obbligo giuridico del rispetto della normativa sulle
concessioni (Cass. civ., n. 4015/2007; n. 13969/2011; n.
21475/2013).
In dipendenza di questo canone, va ritenuta illecita ogni
opera costruita non compresa nel contratto d’appalto e
non assentita dall’atto amministrativo e per la quale
l’appaltatore
non può pretendere compenso o indennità alcuna.
Per effetto di questo principio, la Corte di legittimità
ritiene
assorbito il secondo mezzo di impugnazione, con cui era
denunciata l’affermazione della Corte di merito per cui la
nullità del contratto di appalto si riferirebbe alle sole
ipotesi
in cui l’opera realizzata sia completamente priva di licenza
edilizia o quando l’edificio realizzato sia completamente
diverso
da quello per cui fu rilasciata la concessione edilizia.
La Corte conclude osservando che il giudice di merito,
investito
della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare -dai fatti allegati e provati, o
comunque
emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio
sulla questione- ogni forma di nullità del contratto stesso
(Cass., Sez. Un., 04.09.2012, n. 14828) (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.04.2014 n. 8890
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 7/2014). |
AGGIORNAMENTO AL 13.09.2014 |
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GURI - GUUE - BURL
( e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI -
PATRIMONIO:
G.U. 12.09.2014 n. 212 "Misure urgenti per
l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive" (D.L.
12.09.2014 n. 133).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
►
Art. 2 (Semplificazioni procedurali per le
infrastrutture strategiche affidate in concessione)
►
Art. 4 (Misure di semplificazione per le opere
incompiute segnalate dagli Enti Locali)
►
Art. 6 (Agevolazioni per la realizzazione di reti di
comunicazione elettronica a banda ultralarga e norme di
semplificazione per le procedure di scavo e di posa aerea
dei cavi, nonché per la realizzazione delle reti di
telecomunicazioni mobili)
►
Art. 7 (Norme in materia di gestione di risorse
idriche. Modifiche urgenti al decreto legislativo
03.04.2006, n. 152, per il superamento delle procedure di
infrazione 2014/2059, 2004/2034 e 2009/2034, sentenze
C-565-0 del 19.07.2012 e C-85-13 del 10.04.2014; norme di
accelerazione degli interventi per la mitigazione del
rischio idrogeologico e per l’adeguamento dei sistemi di
collettamento, fognatura e depurazione degli agglomerati
urbani; finanziamento di opere urgenti di sistemazione
idraulica dei corsi d’acqua nelle aree metropolitane
interessate da fenomeni di esondazione e alluvione)
►
Art. 8 (Disciplina semplificata del deposito
preliminare alla raccolta e della cessazione della qualifica
di rifiuto delle terre e rocce da scavo che non soddisfano i
requisiti per la qualifica di sottoprodotto. Disciplina
della gestione delle terre e rocce da scavo con presenza di
materiali di riporto e delle procedure di bonifica di aree
con presenza di materiali di riporto)
►
Art. 9 (Interventi di estrema urgenza in materia di
vincolo idrogeologico, di normativa antisismica e di messa
in sicurezza degli edifici scolastici e dell’Alta formazione
artistica, musicale e coreutica - AFAM)
►
Art. 13 (Misure a favore dei project bond)
►
Art. 14 (Norma overdesign)
►
Art. 17 (Semplificazioni ed altre misure in materia
edilizia)
►
Art. 24 (Misure di agevolazione della partecipazione
delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione
del territorio)
►
Art. 25 (Misure urgenti di semplificazione
amministrativa e di accelerazione delle procedure in materia
di patrimonio culturale)
►
Art. 26 (Misure urgenti per la valorizzazione degli
immobili demaniali inutilizzati)
►
Art. 32 (Misure per la riqualificazione degli
esercizi alberghieri)
►
Art. 35 (Modifiche al decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163, per la semplificazione delle procedure in materia di
bonifica e messa in sicurezza di siti contaminati. Misure
urgenti per la realizzazione di opere lineari realizzate nel
corso di attività di messa in sicurezza e di bonifica)
►
Art. 36 (Misure urgenti per l’individuazione e la
realizzazione di impianti di recupero di energia, dai
rifiuti urbani e speciali, costituenti infrastrutture
strategiche di preminente interesse nazionale) |
APPALTI: G.U.
12.09.2014 n. 212 "Regolamento sull’esercizio della
funzione di componimento delle controversie di cui
all’articolo 6, comma 7, lettera n) del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163" (A.N.AC.,
provvedimento 02.09.2014). |
ENTI LOCALI: G.U.
10.09.2014 n. 210 "Elenco
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato, individuate ai sensi
dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 e
ss.mm. (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI:
I proventi delle multe fifty-fifty tra
enti e gestori
I proventi derivanti dall'accertamento delle violazioni dei
limiti di velocità, di cui all'articolo 142, comma 12-bis
del codice della strada, vanno ripartiti a metà tra ente
accertatore ed ente proprietario della strada, al netto
degli oneri che il primo sostiene per le spese di
riscossione e quelle connesse a un eventuale recupero
coattivo della sanzione.
È quanto ha precisato la Sez. regionale di controllo della
Corte dei conti per la Regione Umbria che, nel testo del
parere 08.08.2014 n. 66, fa chiarezza sulle
disposizioni in materia di riparto delle sanzioni derivanti
da accertamenti con autovelox, nel silenzio del ministero
delle infrastrutture e trasporti che, secondo l'art. 25, c.
2, della legge 120/2010, avrebbe dovuto emanare un apposito
decreto su modalità e criteri di una corretta ripartizione
tra i soggetti coinvolti.
Il comune di Ferentillo ha invocato l'intervento della
magistratura contabile per conoscere se sia possibile, allo
stato attuale, calcolare i proventi delle sanzioni in base
agli introiti incassati e al netto delle spese sostenute per
l'accertamento e la relativa riscossione. A maggior ragione,
il quesito viene posto con riferimento all'indeterminatezza
delle poste finali, tenuto conto che chi viola il codice
della strada, oggi può pagare il 30% della sanzione entro
cinque giorni, ovvero il minimo edittale entro due mesi
dalla notifica del verbale di violazione.
La Corte ha rilevato che la norma sotto osservazione prevede
una specifica destinazione dei proventi, tra cui il
potenziamento delle attività di controllo e la manutenzione
della segnaletica. Per cui, appare chiaro che l'intervento
del legislatore, ancorché non espressamente indicato, sia da
intendere al netto delle spese connesse ai procedimenti di
accertamento ed esazione.
Sul versante della quantificazione, invece, la Corte umbra
ha rilevato che le predette somme, in base ai principi di
veridicità ed attendibilità delle entrate, siano accertate
per una successiva ripartizione, «solo al momento
dell'effettivo incasso».
Conforta questa tesi la conclusione del ministero delle
infrastrutture che, nello schema di decreto ex art.25, comma
2, legge n. 120/2010 (ad oggi fermo presso la Conferenza
Stato-città), rileva che per i proventi oggetto di
ripartizione ci si dovrà riferire alle somme incassate e che
le stesse siano devolute ai soggetti proprietari della
strada «al netto delle spese sostenute per tutti i
procedimenti amministrativi connessi» (articolo
ItaliaOggi del 12.09.2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Legge n. 114 dell’11.08.2014: integrate le
disposizioni del Codice dei contratti pubblici relativamente
alle modalità di presentazione delle dichiarazioni
sostitutive in fase di partecipazione alle procedure di
gara. Problematiche (ANCE Bergamo,
circolare 10.09.2014 n. 169). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Appalti, si gioca d'anticipo. Pareri di precontenzioso
richiedibili all'Anac. Nuovo regolamento dell'Autorità anticorruzione sui rapporti
imprese-p.a..
Al via le nuove regole per la risoluzione delle controversie
tra pubblica amministrazione e imprese. La stazione
appaltante o una parte interessata ovvero più parti
interessate potranno, singolarmente o congiuntamente,
rivolgere all'autorità un'istanza di parere per la
formulazione di un'ipotesi di soluzione della questione
insorta durante lo svolgimento delle procedure di gara degli
appalti pubblici di lavori, servizi e forniture. La priorità
sarà data alle richieste congiunte o di importo rilevante o
di particolare impatto per il settore. L'Anac rilascerà il
parere entro 90 giorni.
È con il nuovo regolamento approvato con il
provvedimento 02.09.2014 dall'Autorità nazionale anticorruzione
(Anac) (e in attesa di essere pubblicato in Gazzetta
Ufficiale) che è stato istituito un ufficio ad hoc dedicato
al precontenzioso.
Il regolamento sarà operativo a partire
dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta. Il
compito di seguire l'istruttoria e di darne conto al
consiglio sarà assegnato dal presidente dell'Anac, Raffaele
Cantone, ogni 15 giorni ai consiglieri. Le istanze dovranno
essere redatte secondo il modulo allegato al regolamento del
02.09.2014 e saranno trasmesse preferibilmente
tramite posta elettronica certificata.
Nella predisposizione
dell'istanza, le parti potranno chiedere che, in sede di
pubblicazione del parere, vengano esclusi eventuali dati
sensibili espressamente segnalati. Le richieste dichiarate
inammissibili, se riguardano, comunque, questioni giuridiche
ritenute rilevanti, saranno trattate ai fini dell'adozione
di una pronuncia dell'Autorità anche a carattere generale.
Le istanze diverranno improcedibili in caso di
sopravvenienza di una pronuncia giurisdizionale di primo
grado sulla medesima questione oggetto del parere, di
sopravvenuta carenza di interesse delle parti, di rinuncia
al parere. Saranno trattate in via prioritaria le istanze di
parere presentate congiuntamente dalla stazione appaltante e
da almeno un partecipante alla procedura di gara.
In caso di
istanze presentate singolarmente, si darà la precedenza alle
istanze presentate dalla stazione appaltante e alle istanze
concernenti appalti di rilevante importo economico (lavori:
importo superiore a 1.000.000 di euro, servizi e forniture:
importo superiore alla soglia comunitaria) e infine alle
istanze che sottopongono questioni originali di particolare
impatto per il settore dei contratti pubblici. Le
archiviazioni delle istanze per inammissibilità e/o
improcedibilità saranno approvate dal consiglio
dell'autorità e comunicate alle parti interessate. L'istanza
presentata dalla stazione appaltante, congiuntamente o
singolarmente, dovrà contenere l'impegno a non porre in
essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della
questione, fino al rilascio del parere.
Quando l'istanza sarà presentata da una parte diversa dalla
stazione appaltante, con la comunicazione di avvio
dell'istruttoria, l'autorità formulerà alla stazione
appaltante l'invito a non porre in essere atti
pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione,
fino al rilascio del parere
(articolo ItaliaOggi del 12.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Polizia locale. Comandanti con le mani legate.
Il comandante dei vigili non può essere anche dirigente
delle attività produttive e quindi rilasciare titoli su
questioni potenzialmente oggetto del suo stesso potere di
controllo.
Lo ha evidenziato l'Autorità nazionale anticorruzione con
l'orientamento n. 57/2014.
Spesso al responsabile della
polizia locale, specie nei piccoli enti, viene assegnata
l'area attività produttive e di conseguenza al dirigente è
richiesto di istruire pratiche complesse anche in materia di
commercio e di pubblici esercizi. L'Authority ha però
specificato che «colui che riveste il ruolo di comandante
della polizia locale non può svolgere funzioni di
responsabilità nell'esercizio di servizi di un comune per i
quali è necessario emettere provvedimenti autorizzatori o
concessori oggetto di attività di controllo in virtù della
sua principale qualifica, sussistendo un'ipotesi di
conflitto di interesse, anche potenziale».
Con questo parere
sembra chiarito che la funzione di vigilanza non è
compatibile con quella amministrativa in senso stretto.
Ovvero con il rilascio di concessioni e licenze e tanti
altri titoli che normalmente vengono rilasciati dagli
sportelli comunali agli esercenti interessati. Al comandante
della polizia locale anche il codice stradale assegna però
delle competenze specifiche in materia di viabilità e
circolazione.
È il caso del rilascio dei contrassegni
invalidi, delle ordinanze di variazione della viabilità o
delle occupazione del piano stradale per cantieri e per
lavori. Anche queste abilitazioni aderendo a una lettura
rigorosa del parere e dello spirito della legge dovrebbero
essere firmate da un altro dirigente ma di fatto questa
soluzione risulta complessa e difficilmente sostenibile.
In
pratica dal tenore del parere sembra ragionevole ritenere
presente un conflitto potenziale di interesse nel caso in
cui il comandante dei vigili assuma la qualifica di
responsabile dello sportello unico delle attività
produttive. Ma nulla osta che lo stesso continui a
rilasciare certificati come i contrassegni invalidi che non
sottendono ad alcun interesse economico e sono carenti di
discrezionalità procedurale
(articolo ItaliaOggi del 12.09.2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
S. Chirico,
I COMPENSI INCENTIVANTI AI PUBBLICI DIPENDENTI (Gazzetta
Amministrativa n. 1/2014).
---------------
I compensi incentivanti ai dipendenti pubblici per la
pianificazione urbana: una soluzione per ottimizzare i
bilanci, coerente con la spending review. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Montanari,
ACCESSO AI VERBALI ISPETTIVI: ETERNO CONTRASTO TRA DIRITTO
ALLA DIFESA E DIRITTO ALLA RISERVATEZZA (Gazzetta
Amministrativa n. 1/2014).
---------------
Il diritto di accesso nasce come diritto
costituzionalmente garantito ma non incomprimibile a fronte
di altri diritti di pari dignità quale quello alla
riservatezza: il giudizio di bilanciamento deve operare caso
per caso e non sulla base di aprioristici assunti. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Grappelli,
L’INQUINAMENTO ACUSTICO FERROVIARIO: INTERVENTI PER MITIGARE
IL RUMORE ALLA LUCE DELLA DIRETTIVA 2014/38/UE, DELLA LEGGE
QUADRO N. 447/95 E DELLA DECISIONE DEL CONSIGLIO DI STATO N.
35/2014 (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
---------------
Con il presente commento si affronta, nei suoi aspetti
generali, il tema dell’inquinamento acustico derivante dal
utilizzo di reti ferroviarie. La normativa comunitaria di
settore e quella nazionale intervengo al fine di garantire
interoperatività del sistema ferroviario comunitario e
nazionale.
Nel rispetto delle disposizioni contenute dalla legge quadro
447/1995 non è possibile per un sindaco di un Comune imporre
o compiere atti inibitori, parziali o totali, seppur nella
tutela della salute dei cittadini ed in urgenza,nei
confronti dell’ente gestore, trattandosi di materia
sottoposta alla competenza statale a norma dell’art. 9, co.
1, della legge quadro sull’inquinamento acustico.
Altro aspetto rilevante attiene alla necessità di
intervenire con mezzi di mitigazione del rumore non soltanto
in modo isolato, e quindi sull’immobile, ma anche sulla
sorgente del rumore e ciò al fine di ampliare il raggio di
azione della tutela dal rumore, estendendola anche alle aree
pertinenziali del manufatto edilizio ed aree attigue
esterne. |
EDILIZIA
PRIVATA:
C. Zaccheo,
RIFLESSIONI IN MERITO ALLA NATURA DEL SILENZIO DELLA P.A.
SULLE ISTANZE DI ACCERTAMENTO DI CONFORMITÀ EX ART. 22 DELLA
L.R. LAZIO N. 15/2008 (IL DECORSO DEL TERMINE PRESCRITTO
DALLA LEGGE PER LA DEFINIZIONE DELL’ISTANZA DI SANATORIA
INTEGRA UN’IPOTESI DI SILENZIO C.D. SIGNIFICATIVO O DI
SILENZIO INADEMPIMENTO?) (Gazzetta Amministrativa n.
1/2014).
---------------
E’ attuale il dibattito giurisprudenziale sulla natura
del silenzio serbato dalla p.a. sulle istanze di
accertamento di conformità ex art. 22 della L.R. Lazio n.
15/2008. Tuttavia, un recente orientamento del giudice
amministrativo ha conferito natura significativa, in termini
di rigetto, al contegno inerte della p.a. sulle istanze in
parola. Tanto ovviamente non incide il potere
dell’amministrazione di determinarsi espressamente. |
APPALTI:
T. Molinaro,
DICHIARAZIONE DEL PROCURATORE SPECIALE CIRCA IL REQUISITO DI
MORALITÀ PROFESSIONALE: L’ADUNANZA PLENARIA DEFINISCE LE
CONDIZIONI (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
---------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato definisce le
condizioni per la dichiarazione del procuratore speciale
circa il requisito di moralità professionale. |
APPALTI:
D. Tomassetti e I. De Col,
L’ORDINE DI ESAME DEL RICORSO INCIDENTALE E DI QUELLO
PRINCIPALE IN MATERIA DI APPALTI: LA SOLUZIONE DELL’ADUNANZA
PLENARIA (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
---------------
La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9/2014 consente
l’esame del ricorso principale anche in presenza di un
ricorso incidentale interdittivo ma solo in casi limitati. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
S. Napolitano,
LA QUALIFICAZIONE DEGLI OPERATORI ECONOMICI PARTECIPANTI AD
UN RAGGRUPPAMENTO TEMPORANEO TRA IMPRESE IN CASO DI APPALTI
DI SERVIZI E FORNITURE? (Gazzetta Amministrativa n.
1/2014).
---------------
Ancora contrasti interpretativi in ordine alla novella
apportata all’art. 37, co. 13, del codice dei contratti
pubblici che ha differenziato la disciplina della
corrispondenza tra quote di partecipazione ad un
Raggruppamento Temporaneo di Imprese e quote di esecuzione
delle prestazioni, differenziando gli appalti aventi ad
oggetto lavori dagli appalti aventi ad oggetto servizi e
forniture. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso agli atti illimitato. Sempre meno i casi
in cui la p.a. può rifiutarsi. Con
il dlgs 33/2013 il legislatore ha rafforzato i poteri dei
consiglieri.
Le richieste di accesso dei consiglieri
comunali finalizzate a ottenere la documentazione di tutti i
settori dell'amministrazione, apparentemente tendenti a
compiere un sindacato generalizzato dell'attività degli
organi decidenti, deliberanti e amministrativi dell'ente,
sono compatibili con il principio di funzionalità del
mandato, finalizzato ad un organico progetto conoscitivo in
relazione a singole problematiche che di volta in volta
interessino l'elettorato?
Nel caso di specie, l'ente ritiene legittimo il diniego
opposto alla richiesta rivolta dai consiglieri comunali,
diretta all'estrazione di atti, in assenza di motivazione in
ordine all'esistenza dei presupposti del diritto di accesso.
Ciò, in quanto tale diritto sarebbe limitabile anche alla
luce della sentenza n. 846/2013, con la quale il Consiglio
di stato ha specificato che la disposizione contenuta
nell'art. 43 del Tuel, va coordinata con la modifica
introdotta all'art. 22 della legge n. 241/1990, dalla legge
n. 15/2005, secondo la quale anche il consigliere comunale
deve essere portatore di un interesse diretto, concreto e
attuale corrispondente a una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento per il quale si richiede
l'accesso.
Le considerazioni contenute nella citata sentenza del
Consiglio di Stato, devono però essere lette con riferimento
alla specifica fattispecie esaminata in quell'occasione dal
giudice, il quale deducendo conclusivamente che «il
comune ha soddisfatto le richieste di accesso dei
consiglieri comunali», ha respinto la richiesta «sulla
base del principio secondo cui l'amministrazione non può
essere condannata a costruire documenti allo stato non
disponibili».
In merito al caso di specie, vale quanto affermato dal Tar
Campania–Salerno con la recente sentenza n. 680 del
04.04.2014, secondo cui l'art. 43, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000 ha sicuro carattere derogatorio
rispetto alla disciplina generale dell'accesso contenuta
negli artt. 22 e seguenti della legge n. 241/1990, che
comporta una dipendenza funzionale tra la conoscenza del
documento e la coltivazione dell'interesse dedotto, da fare
valere eventualmente in sede processuale.
L'accesso di cui all'art. 43 del Tuel ha l'obiettivo di
mettere in condizione il consigliere comunale di esercitare
il proprio mandato e di verificare il comportamento degli
organi istituzionali decisionali del comune e del resto, lo
stesso art. 22, al comma 2, rafforzando in particolare
l'esigenza di trasparenza della p.a., stabilisce che «l'accesso
ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti
finalità di pubblico interesse, costituisce principio
generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la
trasparenza».
Secondo tale giudice amministrativo le recenti scelte del
legislatore sembrano anzi rafforzare il carattere di
autonomia dell'accesso dei consiglieri comunali rispetto
alla macro-categoria dell'accesso alla documentazione
amministrativa. In particolare, il dlgs n. 33/2013 ha
introdotto una disciplina organica relativa agli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni, che intercetta un
piano diverso rispetto a quello disciplinato dall'istituto
dell'accesso, di cui alla legge n. 241/1990 e al decreto
legislativo n. 267/2000.
L'accesso è di norma richiesto qualora non sia possibile
reperire in altro modo i documenti amministrativi la cui
conoscenza risponda a un interesse diretto, concreto e
attuale. Può tuttavia accadere che l'interessato possa
comunque risalire a quella stessa documentazione, grazie a
forme di pubblicità delle informazioni, operate dalla
pubblica amministrazione, con conseguente realizzazione, in
via indiretta, dell'interesse posto a presupposto
dell'accesso.
Il principio è, infatti, nel senso della trasparenza
generalizzata, intesa come accessibilità totale delle
informazioni, salvo i limiti imposti dall'art. 4 del decreto
legislativo n. 33/2013. Quindi gli indirizzi di fondo del
legislatore, in una visione sistematica dei principi di
pubblicità e di trasparenza, peraltro espressamente
declinati dall'art. 1, comma 1, della legge n. 241/1990, non
possono che assottigliare ulteriormente le ragioni
legittimanti un diniego all'accesso dei consiglieri
comunali.
Pertanto, ai sensi del comma 3 del citato art. 43 del Tuel,
i consiglieri hanno facoltà di presentare interrogazioni e
ogni altra istanza di sindacato ispettivo e
l'amministrazione comunale dovrà consentire l'accesso agli
atti richiesti, non altrimenti reperibili, che siano in
possesso dello stesso ente e che abbiano il requisito della
determinatezza (articolo
ItaliaOggi del 12.09.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
NEWS |
LAVORI PUBBLICI: Spazio
agli affidamenti diretti. Fino a 200 mila euro. Per scuole,
alluvioni, terremoti. APPALTI/ Le disposizioni contenute nel
decreto Sblocca Italia, ormai in dirittura.
Affidamenti diretti di lavori fino a 200 mila euro per
scuole, rischio idrogeologico e anti-sismica; ricorso a
società in house dello Stato per progettazione ed esecuzione
di lavori; conferenze di servizi «sprint» per portare a
termine le incompiute degli enti locali; concessioni
autostradali prorogabili per effettuare nuovi investimenti;
esclusione dal patto di stabilità per i pagamenti relativi a
opere segnalate dagli enti locali entro giugno 2014.
Sono queste alcune delle novità contenute nella bozza del
decreto-legge «Sblocca Italia» inviata alla Ragioneria
generale dello Stato e ormai in procinto di pubblicazione in
G.U.
Affidamenti diretti. L'articolo 9 considera come situazione
di «estrema urgenza» ogni «fattispecie riconosciuta tale
(previa ricognizione) da parte dell'Ente interessato, che
quindi certifichi come indifferibile l'intervento». Tale
qualifica di estrema urgenza consentirà all'ente competente
di accedere ad una serie di semplificazioni ma limitatamente
agli interventi di messa in sicurezza di edifici scolastici,
a quelli di mitigazione dei rischi idraulici e
geomorfologici e a quelli di adeguamento alla normativa
antisismica.
La semplificazione e l'accelerazione procedurale (sempre nel
rispetto dei principi Ue di tutela della concorrenza)
consentirà, ad esempio, l'affidamento diretto, senza alcun
confronto concorrenziale, da parte del responsabile del
procedimento, di lavori fino a 200 mila euro (la stragrande
maggioranza di interventi si colloca in questa fascia) e
l'utilizzazione della gara informale con invito rivolto ad
almeno cinque operatori per interventi da 200 mila a 5
milioni di euro.
Incompiute enti locali ed esclusione Patto stabilità
interno. Per quel che riguarda le cosiddette «opere
incompiute» segnalate dagli enti locali nel mese di giugno,
il provvedimento -per risolvere problemi di mancato concerto
fra le amministrazioni competenti- consente di riconvocare
la Conferenza di servizi con una la riduzione del 50% dei
termini ordinari.
Il decreto stabilisce anche che i pagamenti effettuati entro
fine dicembre 2014, relativi alle opere (realizzate, in
corso di esecuzione o «per le quali è possibile l'immediato
avvio dei lavori») segnalate entro il 15.06.2014, saranno
esclusi dal Patto di stabilità interno (con il limite di 250
milioni), previa istruttoria della stessa Presidenza. Una
seconda norma opera l'esclusione per i pagamenti relativi a
debiti certi, liquidi ed esigibili in conto capitale a
carico degli enti territoriali per gli anni 2014/2015 (dopo
l'entrata in vigore del decreto), per i quali è stata emessa
fattura entro dicembre 2013. sarà necessario un ulteriore
Dpcm per sapere quali enti territoriali saranno ammessi.
Concessioni autostradali. Viene confermato anche nell'ultima
versione del testo la norma «proroga-concessioni». Dettata
con la finalità di assicurare gli investimenti sulla rete,
anche di miglioramento della sicurezza, e di arrivare a
tariffe e condizioni di accesso più favorevoli per gli
utenti, la norma consentirà ai concessionari di tratte
autostradali nazionali di proporre modifiche del rapporto
concessorio. Ciò dovrebbe portare alla gestione unitaria di
tratte «interconnesse, contigue, ovvero tra loro
complementari». Il nuovo piano economico porterà
necessariamente a prorogare concessioni con scadenza
ravvicinata. Per i lavori, le forniture e i servizi di
importo superiore alla soglia comunitaria «ulteriori
rispetto a quelli previsti dalle vigenti convenzioni», si
richiama il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica
previste dal codice dei contratti pubblici.
Interventi di mitigazione del rischio idrogeologico. Si
definiscono le linee da seguire per utilizzare le risorse
disponibili per gli interventi in tema di mitigazione del
rischio idrogeologico: con la programmazione 2015
l'utilizzazione dei fondi avverrà soltanto a seguito di
accordi di programma fra regione e Ministero dell'ambiente,
che dovrà definire la quota di cofinanziamento regionale.
I presidenti della Regione, che opereranno con poteri
derogatori e speciali, potranno utilizzare –attraverso i
ministeri controllanti– le società in house delle
amministrazioni centrali dello Stato, dotate di «specifica
competenza», per le attività di progettazione ed esecuzione
degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico di
cui agli accordi di programma; pertanto molta parte delle
attività che verranno realizzate per questi interventi
potrebbero non essere poste sul mercato. Previsti anche
commissari ad acta per l'adeguamento di sistemi di
fognatura e depurazione attraverso poteri sostituivi del
Governo da esercitare entro il 30.09.2014 (articolo
ItaliaOggi del 10.09.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Albo
gestori ambientali, iscrizioni semplificate.
Quattro delibere attuano il
regolamento pubblicato in gazzetta ufficiale.
A disposizione delle imprese la nuova modulistica da
utilizzare per le iscrizioni «ordinarie», le comunicazioni
«semplificate» e le variazioni della dotazione dei veicoli
nell'albo gestori ambientali.
Con quattro delibere attuative del nuovo regolamento
(decreto ministeriale 03.06.2014 n. 120, pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 23.08.2014 n. 195), datate
03.09.2014, il comitato nazionale dell'albo ha redatto i
nuovi moduli per l'iscrizione.
Dal 7 settembre è entrato in vigore il nuovo regolamento che
disciplina le modalità di organizzazione dell'albo nazionale
dei gestori ambientali, i requisiti tecnici e finanziari
delle imprese e dei responsabili tecnici, nonché i termini e
le modalità di iscrizione i relativi diritti annuali.
La
deliberazione 03.09.2014 n. 2 contiene la modulistica da
utilizzare per l'iscrizione nelle categorie numero 1
(trasporto rifiuti urbani), 4 (trasporto rifiuti speciali
non pericolosi), 5 (trasporto rifiuti speciali pericolosi),
8 (intermediazione e commercio senza detenzione), 9
(bonifica siti) e 10 (bonifica beni contenenti amianto).
La
deliberazione 03.09.2014 n. 4 contiene il modulo
per l'autocertificazione per il rinnovo delle iscrizioni con
procedura ordinaria per le categorie numero 1 (trasporto
rifiuti urbani), 4 (trasporto rifiuti speciali non
pericolosi), 5 (trasporto rifiuti speciali pericolosi), 8
(intermediazione e commercio senza detenzione), 9 (bonifica
siti) e 10 (bonifica beni contenenti amianto). Per il
rinnovo dell'iscrizione, salvo contraria comunicazione della
sezione regionale, il richiedente presenta la garanzia
finanziaria 45 giorni prima della scadenza dell'iscrizione
in corso di validità. Con il rinnovo delle iscrizioni, le
sezioni regionali e provinciali, deliberano sulle
comunicazioni di variazione dell'iscrizione e presentata
successivamente alla domanda di rinnovo.
La
deliberazione 03.09.2014 n. 3 contiene i moduli per
l'iscrizione (e il rinnovo) in procedura semplificata,
riservata solo alle aziende speciali, ai consorzi di comuni
e alle società di gestione che gestiscono rifiuti urbani, ai
produttori di rifiuti che trasportano i propri rifiuti (se
pericolosi, nei limiti dei 30 kg/lt al giorno) e alle
imprese che trasportano rifiuti elettrici ed elettronici (Raee
- dm n. 65/2010).
La
deliberazione 03.09.2014 n. 5, infine, contiene
la dichiarazione (redatta nella forma della dichiarazione
sostitutiva di atto notorio) relativa alla domanda di
variazioni dell'iscrizione all'albo gestori ambientali della
dotazione dei veicoli. Con allegato il modulo per
l'accettazione della dichiarazione sostitutiva di atto
notorio. Il decreto del ministero dell'ambiente e della
tutela del territorio e del mare 03.06.2014, n. 120 abroga
lo storico regolamento del 1998 (dm ambiente 28.04.1998, n.
406).
L'albo nazionale gestori ambientali è costituito dal
comitato nazionale, dalle sezioni regionali e le due sezioni
provinciali di Trento e di Bolzano. Le imprese e gli enti
sono iscritti all'albo nella persona del titolare, nel caso
di impresa individuale e nella persona del legale
rappresentante nel caso di società (articolo
ItaliaOggi del 10.09.2014). |
APPALTI: Sarà
l'Authority a risolvere le liti tra le imprese e la Pa.
Priorità alle istanze «congiunte», di valore rilevante o
innovative. Appalti. L'Anac approva il nuovo regolamento per
le istanze di precontenzioso.
Meno poltrone, più attenzione
al ruolo di guida del mercato. In attesa del piano di
riorganizzazione da presentare a Matteo Renzi entro fine
anno, il cambio di rotta impresso da Raffaele Cantone agli
uffici della vecchia Autorità di Vigilanza dei contratti
pubblici è già visibile. L'obiettivo dichiarato è rafforzare
le attività considerate come il "core business" della
vecchia Avcp riuscendo allo stesso tempo a contenere i costi
di funzionamento dell'ex Authority che, una volta messo a
punto il piano di fusione e integrazione con l'Anac, dovrà
garantire un taglio del 20% delle spese insieme a una
sforbiciata della stessa entità del trattamento accessorio
riservato al personale, dirigenti inclusi.
Una strategia che traspare dai primi provvedimenti approvati
sotto la guida di Cantone. Tra questi quello di maggior
impatto per il mercato è sicuramente il
nuovo regolamento per la soluzione delle controversie tra
stazioni appaltanti e imprese, prima che il
conflitto giunga nell'aula già affollata di un tribunale
amministrativo.
Nel disegno di Cantone anche la scelta di cancellare la
direzione generale sul contenzioso non dovrebbe comportare
contraccolpi sull'attività di interpretazione normativa a
favore di imprese e Pa. Anzi. Con il provvedimento varato la
scorsa settimana prende corpo l'intenzione di rilanciare
l'attività di risoluzione dei conflitti sorti in gara (o in
cantiere). Un'intenzione resa evidente dal fatto che il
nuovo regolamento viene emanato a distanza di pochi mesi
dall'ultima revisione effettuata solo a inizio anno dal
vertice della vecchia Avcp.
La novità più rilevante è che l'ufficio che segue l'attività
di risoluzione delle controversie entra a fare parte dello
staff del presidente. Sarà dunque lo stesso Cantone ad
assegnare (ogni 15 giorni) le richieste di parere ai
consiglieri dell'Autorità, incaricati di seguire
l'istruttoria e relazionare al consiglio sugli esiti. «L'obiettivo
–si legge nella relazione che accompagna il nuovo
regolamento– è garantire una piena assunzione di
responsabilità del Consiglio dell'Anac verso il mercato
nell'esprimere gli orientamenti interpretativi di
riferimento». Per «cristallizzare» le decisioni i
pareri rilasciati dal consiglio verranno trattati come
sentenze: quindi sintetizzati con una «massima» e
pubblicati sul sito.
Altra novità riguarda la decisione di esplicitare da subito
i criteri di priorità con cui verranno trattate le istanze
di parere. In primo luogo verranno vagliate quelle
presentate insieme dalla stazione appaltante e da almeno un
partecipante alla gara. Nel caso di richiesta "singola"
verranno trattate prima quelle avanzate da una stazione
appaltante, quelle di importo rilevante (un milione per i
lavori, oltre la soglia comunitaria per servizi e
forniture), oppure quelle che sottopongono all'Anac «questioni
originali e di particolare impatto per il settore dei
contratti pubblici».
Il provvedimento limita in 90 giorni il tempo massimo per il
rilascio del parere, mantenendo la possibilità di
contraddittorio tra le parti che potranno depositare memorie
e documenti entro 10 giorni dall'avvio del procedimento,
mentre sarà valutata caso per caso la necessita di procedere
ad audizioni. Le comunicazioni tra Anac, imprese e Pa
avverranno sempre tramite posta elettronica certificata.
L'istanza deve contenere l'impegno «a non porre atti
pregiudizievoli ai fini del rilascio del parere fino alla
risoluzione della questione». Ovviamente, tutto si ferma
se a istruttoria aperta arriva la sentenza di un giudice
amministrativo.
Il nuovo regolamento introduce la possibilità di esprimere
un parere in forma semplificata nei casi di più semplice
trattazione e conferma la scelta di permettere l'intervento
dell'Autorità anche in fase di esecuzione del contratto,
dunque dopo la conclusione della gara «su iniziativa
congiunta della stazione appaltante e dell'esecutore».
Anche in questo caso la linea interpretativa offerta
dall'Autorità non sarà vincolante per le parti, che potranno
anche decidere di disattendere il giudizio offerto
dall'organo di vigilanza sul mercato. L'esperienza insegna
però che nell'80% dei casi la scelta è quella di adeguarsi.
Una percentuale forse destinata a salire con la svolta
impressa da Cantone. Con il regolamento, che entrerà in
vigore il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale, viene approvato anche un nuovo modello di
presentazione delle istanze
(articolo
Il Sole 24 Ore del 10.09.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI: La
responsabilità solidale abbandona l'ambito tributario.
Appalti. Niente più sanzioni al committente.
Al tramonto la responsabilità solidale tributaria sugli
appalti. Dopo la semplificazione introdotta con il «decreto
del fare» (articolo 50 del Dl 69/2013) riguardante
l'eliminazione della responsabilità solidale tra appaltatore
e subappaltatore, nonché della sanzione per il committente,
con riferimento all'Iva relativa alle prestazioni effettuate
nel rapporto di appalto/subappalto, il decreto
semplificazioni prevede la definitiva abrogazione dei commi
da 28 a 28-ter dell'articolo 35 del Dl 223/2006.
Quindi, risulterà definitivamente superata la responsabilità
solidale in ambito fiscale tra appaltatore e subappaltatore,
con riferimento al versamento delle ritenute fiscali sui
redditi di lavoro dipendente inerenti al rapporto di
subappalto. Allo stesso tempo, il committente non sarà più
soggetto alla sanzione amministrava pecuniaria da 5mila a
200mila euro, in caso di pagamento del corrispettivo senza
previamente verificare il regolare versamento delle ritenute
fiscali sui redditi da lavoro dipendente riguardanti
l'intera filiera dell'appalto.
Pertanto, a seguito di questa semplificazione, committenti e
appaltatori non dovranno più preoccuparsi di richiedere la
prevista certificazione di regolarità dei versamenti delle
ritenute, evitando così di "bloccare" i pagamenti alle
imprese in attesa di ricevere l'attestazione prevista dalla
norma.
Il legislatore, con l'eliminazione totale della solidarietà
fiscale negli appalti, ha esaudito il desiderio di molte
imprese italiane, le quali, negli ultimi anni, oltre
all'appesantimento burocratico legato alla documentazione
occorrente, hanno talvolta subito un peggioramento della
propria situazione finanziaria. Infatti, le imprese
subappaltatrici, in caso di omesso o ritardato versamento
delle ritenute per carenza di liquidità, non incassavano i
corrispettivi dai committenti/appaltatori ed erano sempre
più in difficoltà ad adempiere ai successivi obblighi
tributari.
Sul punto, si attendono i chiarimenti delle Entrate per
comprendere gli effetti che l'eliminazione degli obblighi
previsti dai commi da 28 a 28-ter dell'articolo 35 del Dl
223/2006 produrrà nei confronti delle violazioni già
compiute e non ancora definitivamente accertate al momento
dell'entrata in vigore del decreto semplificazioni.
Occorre, inoltre, tenere ben presente che, nei rapporti di
appalto e subappalto, è ancora in vigore la solidarietà
retributiva e contributiva tra committente, appaltatore e
subappaltatori. In particolare, l'articolo 29, comma 2, del
Dlgs 276/2003 prevede che il committente, nei limiti di due
anni dalla cessazione del contratto di appalto, sia
obbligato in solido con l'appaltatore e gli eventuali
subappaltatori, in relazione ai trattamenti retributivi
(comprese le quote di Tfr), ai contributi previdenziali e ai
premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di
esecuzione del contratto.
È dunque importante che i committenti e gli appaltatori
continuino a richiedere agli appaltatori/subappaltatori il
rilascio del Durc, al fine di verificare la regolarità
contributiva e retributiva ed evitare di rispondere in
solido dei mancati versamenti. In ogni caso, nell'ambito di
questa responsabilità, il committente può avvalersi del
beneficio della preventiva escussione; in tal caso, l'azione
esecutiva verrà esperita nei suoi confronti solo qualora sia
risultata infruttuosa nei confronti di appaltatori e
subappaltatori inadempienti.
L'eliminazione della responsabilità fiscale negli appalti,
tuttavia, ha indirettamente comportato l'estensione della
responsabilità di soci e amministratori per i cinque anni
successivi alla cancellazione della società dal Registro
imprese, nelle ipotesi in cui la medesima venga messa in
liquidazione e sia destinataria di provvedimenti di
accertamento e riscossione dei tributi da parte dell'agenzia
delle Entrate (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.09.2014). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: Trattativa
privata forzata, l'appalto non perde valore
Un contratto di appalto affidato a trattativa privata, senza
che ve ne fossero le condizioni di legge, non è
automaticamente privo di effetti giuridici.
È quanto afferma la Corte di Giustizia nella
sentenza 11.09.2014 causa C-19/13,
rispetto alla compatibilità comunitaria di un affidamento,
disposto con procedura negoziata senza previa pubblicazione
del bando (a favore di Telecom) motivato dall'esigenza di
diritti di esclusiva a favore dell'aggiudicatario e dal
fatto che il contratto poteva essere affidato unicamente a
un operatore economico determinato.
Dopo avere individuato
l'affidatario la stazione appaltante pubblicava un avviso di preinformazione e poi di aggiudicazione. L'aggiudicazione
veniva impugnata al Tar (da Fastweb) che accoglieva il
ricorso. Il Consiglio di stato ha confermato l'annullamento
dell'aggiudicazione perché non erano state dimostrate le
condizioni richieste per la procedura negoziata, ma ha
comunque rimesso alla Corte la questione inerente la sorte
del contratto stipulato.
La sentenza richiama la direttiva
89/665 nella parte in cui prevede che il giudice dichiari il
contratto privo di effetti se è stato aggiudicato un appalto
senza previa pubblicazione di un bando in assenza delle
condizioni previste dalle norme in materia di appalti. La
direttiva «ricorsi» ammette però come eccezione che, a
seguito di annullamento, il giudice possa mantenere gli
effetti del contratto (se è stata fatta la pre-informazione
e la post-informazione e se il contratto è stato stipulato
dopo dieci giorni dalla pubblicazione dell'aggiudicazione,
come avvenuto nel caso esaminato).
La Corte precisa che la finalità della eccezione è di
conciliare gli interessi dell'impresa lesa (che ha la
possibilità di avviare un procedimento sommario
precontrattuale e l'annullamento del contratto
illegittimamente concluso), con quelli dell'amministrazione
e dell'impresa selezionata (evitare l'incertezza giuridica
che potrebbe derivare dalla privazione di effetti del
contratto). Spetta al giudice effettuare tale temperamento
di interessi.
Pertanto, un contratto affidato a procedura negoziata senza
bando, quando ciò non fosse consentito, non è
automaticamente dichiarabile privo di effetti, in presenza
delle tre condizioni previste dalla direttiva
(articolo ItaliaOggi del 12.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: Appalti senza pubblicità: va provata la buona fede.
Corte Ue. Il caso della gara sul ministero dell'Interno.
La Corte di giustizia Ue
precisa i limiti entro i quali il ministero dell'Interno può
dare in appalto i suoi servizi di telefonia fissa, mobile,
videosorveglianza e altri servizi di comunicazioni
elettroniche con «procedura negoziata» (cioè senza gara
pubblica), richiamando concetti di buona fede e diligenza:
questo è il contenuto della
sentenza 11.09.2014 causa C-19/13, in una lite che
contrappone Telecom a Fastweb.
Oggetto del contendere è un contratto di sette anni, del
valore di oltre cinquecento milioni di euro, assegnato a
Telecom con una cronologia (che l'Avvocato generale
definisce «sorprendente»), tra il 15 e il 31.12.2011.
L'appalto è stato annullato dai giudici nazionali per
carenza di pubblicità (Consiglio di Stato 26/2013), ma una
volta annullata la procedura, è sorto il dubbio su come
potesse riequilibrarsi la situazione tra i contendenti, se
cioè si dovesse riattivare una gara oppure l'appalto potesse
restare alla Telecom, avendo il ministero seguito il
protocollo che può far evitare la pubblica competizione.
Per la Direttiva 89/665 (articolo 2-quinquies) e per il Dlgs
163/2006 (articolo 57), si può infatti adottare una
procedura negoziata con singole imprese, se
l'amministrazione: a) "ritiene" l'opportunità di una
procedura con mera consultazione diretta; b) pubblica un
avviso generico sulla Gazzetta dell'Unione; c) rispetta un
intervallo minimo di 10 giorni tra detta pubblicazione e la
stipula del contratto. I giudici del Tar Lazio e del
Consiglio di Stato hanno già escluso l'esistenza di validi
motivi per evitare la gara pubblica, annullando
l'aggiudicazione a Telecom, ma gli stessi giudici nazionali
non hanno ritenuto di azzerare il contrato in corso.
Di qui l'attuale ulteriore contenzioso, che ha coinvolto la
Corte di giustizia, per accertare se (secondo un primo
orientamento) all'indomani della sentenza il contratto
stipulato senza gara potesse comunque essere dichiarato
privo di effetti, oppure se (adottando un secondo
indirizzo), il servizio affidato alla Telecom possa
continuare, dando peso ai tre elementi predetti. Era in
gioco, inoltre, la stessa credibilità del meccanismo
giudiziario, cioè l'utilità e l'efficacia dei rimedi
giudiziari offerti alle imprese in caso di violazione delle
norme di procedura. Se infatti basta una procedura-lampo (10
giorni) e una generica dichiarazione di opportunità
(l'amministrazione "ritiene" di fare a meno della
pubblicazione del bando) per aggirare il meccanismo di
pubblicità, verrebbe meno la fiducia verso i rimedi di
giustizia statale e comunitaria.
La sentenza della Corte di giustizia si esprime, quindi, per
la possibilità che il giudice statale possa dichiarare privo
di effetti il contratto non preceduto da sufficiente
pubblicità, valutando la diligenza e la buona fede
dell'amministrazione che sia incorsa in errore
nell'escludere la pubblicità. In concreto, quindi, i giudici
comunitari hanno riconosciuto la possibilità che esigenze di
sicurezza e difesa, i servizi di intelligence e di
controspionaggio possano rendere opportuna una
contrattazione diretta con fornitori di servizi telefonici,
ma hanno sottolineato che il giudice nazionale deve sempre
valutare lo spessore delle motivazioni che rendono
eccezionalmente superabile la pubblica gara.
La valutazione del comportamento dell'amministrazione deve
poi avvenire con parametri di buona fede e diligenza, perché
solo un contratto stipulato in buona fede può superare
l'annullamento disposto dal giudice e continuare a produrre
propri effetti. I concetti di buona fede e diligenza, del
resto, sono gli stessi che possono poi essere adottati dal
giudice nazionale per riconoscere un eventuale risarcimento
al concorrente che non abbia potuto partecipare alla gara.
La vicenda quindi torna ai giudici nazionali (Consiglio di
Stato), cui spetterà la verifica sul comportamento
dell'amministrazione dell'Interno e sulla buona fede che può
aver ispirato, nel dicembre del 2011, la scelta senza gara
di un fornitore dei servizi di fonia (articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
In materia di gare
pubbliche da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggioso, le soluzioni migliorative si differenziano
dalle varianti: infatti le prime possono liberamente
esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a
diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di
gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico,
salva la immodificabilità delle caratteristiche progettuali
già stabilite dall'Amministrazione, mentre le seconde si
sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista
tipologico, strutturale e funzionale, per la cui
ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di
volontà della stazione appaltante, mediante preventiva
autorizzazione contenuta nel bando di gara e
l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i
limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente
costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla
Pubblica amministrazione.
E’ stato anche puntualizzato che le varianti progettuali
migliorative riguardanti le modalità esecutive
dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si
traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del
contratto.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, in materia di gare pubbliche da
aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggioso, le soluzioni migliorative si differenziano
dalle varianti: infatti le prime possono liberamente
esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a
diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di
gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico,
salva la immodificabilità delle caratteristiche progettuali
già stabilite dall'Amministrazione, mentre le seconde si
sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista
tipologico, strutturale e funzionale, per la cui
ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di
volontà della stazione appaltante, mediante preventiva
autorizzazione contenuta nel bando di gara e
l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i
limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente
costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla
Pubblica amministrazione (Cons. St., sez. V, 20.02.2014, n. 814; 24.10.2013, n. 5160).
E’ stato anche puntualizzato che le varianti progettuali
migliorative riguardanti le modalità esecutive
dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si
traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del
contratto (Cons. St., sez. V, 17.09.2012, n. 4916)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.09.2014 n. 4578 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In applicazione del criterio letterale
(privilegiato dall’art. 12 delle preleggi),
si osserva che locuzione “edifici circostanti” indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area
oggetto del permesso; per contro, se il pianificatore avesse
voluto riferirsi non solo agli edifici contornanti ma ad
ulteriori e più distanti edifici, avrebbe associato il
termine circostante ad ulteriori concetti come zona o fasce
territoriale o comparto ecc…, indicando peraltro anche
l’estensione del limite da prendere in considerazione, in
assenza del quale, da un punto di vista geometrico, tutto
può definirsi ad esso contornante rispetto al punto di
riferimento.
Ma anche la “ratio” che la giurisprudenza ha individuato in
norme del tipo in esame induce a privilegiare la
tesi sostenuta dall’appello. Ed invero la Sezione, in
analoga fattispecie, ha già affermato che “laddove lo
strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa
zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova
costruzione non possa superare la media dell'altezza di
quelli preesistenti circostanti, tale media non può che
limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a
rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di
qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad
evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze
marcatamente differenti, considerato, peraltro, che
l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti
costruttivi rientranti in zone di limitata estensione”.
L’appello è fondato.
Come riferisce lo stesso giudice di prime cure, in tema di
osservanza delle altezze il ricorso aveva sostenuto la
violazione dell’art. 62 delle N.T.A. del P.R.G., in quanto
tale norma prevedrebbe un’altezza massima degli edifici siti
in zona B2, che deve essere “pari all’altezza media degli
edifici esistenti al contorno e comunque non superiore a
13,50 ml.”. Poiché detta tale misura media è di ml. 8,44, il
permesso di costruire impugnato avrebbe dovuto essere
ritenuto illegittimo per aver assentito un fabbricato di
altezza pari a ml. 11,88.
In altri termini, secondo questa
tesi, il computo dell’altezza, deve prendere in
considerazione gli edifici limitrofi. Sul punto il TAR ha
invece ritenuto che detta disposizione “debba essere
interpretata conformemente alla fonte normativa statale di
riferimento: il D.M. n. 1444 del 1968, che, a sua volta,
proprio in relazione al concetto di “altezza media degli
edifici circostanti”, ha incluso, tra essi, non solo quelli
effettivamente confinanti con quello la cui altezza è da
misurare, ma anche quelli ubicati in prossimità dello
stesso”.
Ad avviso del Collegio, l’orientamento qui riproposto
dell’appellante, per cui nel conteggio in questione si debba
invece tenere conto delle altezze unicamente degli edifici
circostanti nel senso di limitrofi, è da ritenersi
preferibile. In questo senso, anzitutto in applicazione del
criterio letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi),
si osserva che locuzione “edifici circostanti” indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area
oggetto del permesso; per contro, se il pianificatore avesse
voluto riferirsi non solo agli edifici contornanti ma ad
ulteriori e più distanti edifici, avrebbe associato il
termine circostante ad ulteriori concetti come zona o fasce
territoriale o comparto ecc…, indicando peraltro anche
l’estensione del limite da prendere in considerazione, in
assenza del quale, da un punto di vista geometrico, tutto
può definirsi ad esso contornante rispetto al punto di
riferimento.
Ma anche la “ratio” che la giurisprudenza ha individuato in
norme del tipo in esame (e dalla quale il Collegio non
ravvisa ragioni per discostarsi) induce a privilegiare la
tesi sostenuta dall’appello. Ed invero la Sezione, in
analoga fattispecie, ha già affermato che “laddove lo
strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa
zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova
costruzione non possa superare la media dell'altezza di
quelli preesistenti circostanti, tale media non può che
limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a
rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di
qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad
evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze
marcatamente differenti, considerato, peraltro, che
l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti
costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (così
Consiglio Stato sez. V, 21.10.1995, n. 1448)” (Cons.
di Stato, sez. IV, n. 3184/2013).
Né il Collegio reperisce nella sentenza impugnata, come
negli scritti, delle parti appellati tracce apprezzabili di
consistente giurisprudenza in senso contrario
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.09.2014 n. 4553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La vicinitas,
intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con
il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato,
è sufficiente a radicare la legittimazione ad causam del
confinante; né è necessario accertare in concreto se i lavori
comportano o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto
che propone l’impugnazione, atteso che la realizzazione di
consistenti interventi che comportano una rilevante e
notevole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio deve ritenersi pregiudizievole in re ipsa, in
quanto il nocumento consegue alla minore qualità panoramica,
ambientale, paesaggistica.
Ed invero, premesso che non è contestato
in fatto che gli istanti risiedano in immobili limitrofi
all’area interessata dal progetto di riqualificazione de
quo, non si ravvisa ragione per discostarsi dalla più
recente giurisprudenza in materia, secondo cui la vicinitas,
intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con
il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato,
è sufficiente a radicare la legittimazione ad causam del
confinante; né è necessario accertare in concreto se i lavori
comportano o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto
che propone l’impugnazione, atteso che la realizzazione di
consistenti interventi che comportano una rilevante e
notevole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio deve ritenersi pregiudizievole in re ipsa, in
quanto il nocumento consegue alla minore qualità panoramica,
ambientale, paesaggistica (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.04.2014, nr. 1995; id.,
06.05.2013, nr. 2447)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.09.2014 n. 4547 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima la revoca d'ufficio
dell’autorizzazione per l'esposizione di mezzi pubblicitari,
in precedenza rilasciata, laddove le insegne pubblicitarie
luminose precedentemente autorizzate dal Comune indicavano
l’esercizio della ricorrente quale “Medicina Estetica
Solarium”, mentre il provvedimento di revoca riguarda
unicamente la parola “Medicina”, in quanto l’attività medica
indicata nelle suddette insegne non risulta autorizzata dal
Comune in riferimento all’esercizio della ricorrente.
Invero, solo il rilascio di una specifica autorizzazione a
tale delicata attività ai sensi della L.R. Emilia Romagna n.
34/1998 consente all’impresa interessata di pubblicizzarne
l’esercizio.
Ciò premesso, è evidente che la fattispecie in esame rientri
a pieno titolo tra i casi in cui il provvedimento adottato
dalla P.A. è legittimo ex art. 21-octies L. n. 241 del 1990,
poiché esso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso,
anche se l’interessato avesse potuto partecipare al relativo
procedimento perché destinatario dell’avviso ex art. 7 della
L. n. 241 del 1990.
Con il presente ricorso, la legale rappresentante di una
società operante nel settore dei servizi estetici per la
persona chiede l’annullamento del provvedimento in data
12/03/2007, con il quale il Comune di Modena ha parzialmente
revocato d'ufficio l’autorizzazione per l'esposizione di
mezzi pubblicitari in precedenza rilasciata alla società. Le
insegne pubblicitarie luminose precedentemente autorizzate
dal Comune indicavano l’esercizio della ricorrente quale “Medicina
Estetica Solarium”, mentre il provvedimento di revoca
riguarda unicamente la parola “Medicina”, in quanto
l’attività medica indicata nelle suddette insegne non
risulta autorizzata dal Comune in riferimento all’esercizio
della ricorrente.
La società ritiene illegittimo detto provvedimento per un
unico articolato motivo rilevante violazione dell’art. 7
della L. n. 241 del 1990.
Il comune di Modena, costituitosi in giudizio, ritiene
infondato il ricorso e ne chiede, conseguentemente, la
reiezione.
Alla pubblica udienza del 29.05.2014 la causa è stata
chiamata ed è stata quindi trattenuta per la decisione come
da verbale.
Il Collegio osserva che il ricorso non è meritevole di
accoglimento, stante che, nella specie, la parziale revoca
dell’autorizzazione pubblicitaria (nella parte in cui
indicava un’attività: quella medica -mai autorizzata
dall’amministrazione comunale v. provv. impugnato doc. n. 1
della ricorrente), assume i connotati del provvedimento
dovuto, stante che, appunto, solo il rilascio di una
specifica autorizzazione a tale delicata attività ai sensi
della L.R. Emilia Romagna n. 34 del 1998 consente
all’impresa interessata di pubblicizzarne l’esercizio. Ciò
premesso, è evidente che la fattispecie in esame rientri a
pieno titolo tra i casi in cui il provvedimento adottato
dalla P.A. è legittimo ex art. 21-octies L. n. 241 del 1990,
poiché esso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso,
anche se l’interessato avesse potuto partecipare al relativo
procedimento perché destinatario dell’avviso ex art. 7 della
L. n. 241 del 1990 (v. ex multis: TAR Campania –Na-
sez. VI, 06/02/2014 n. 791; TAR Sardegna, sez. II,
27/11/2013 n. 758).
Per le suesposte ragioni, il ricorso è respinto
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 08.09.2014 n. 838 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il legame sentimentale boccia il commissario.
Tar Milano. Concorsi: chi ha avuto una storia, anche chiusa,
con un candidato non lo giudica.
Le relazioni sentimentali
non devono interferire con le procedure di concorso, nemmeno
quando interrotte da lungo tempo:
lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, nella
sentenza
04.09.2014 n. 2307.
Il lungo
intervallo (oltre 13 anni) che separava l'esame dalla
interruzione della relazione, ha reso necessario un
approfondimento sul dovere di imparzialità che incombe agli
esaminatori. Nel caso specifico, si discuteva di un posto di
ricercatore universitario e del provvedimento del rettore
che aveva accolto una domanda di ricusazione del
commissario, proveniente da un altro candidato che riteneva
di poter subire una lesione. La revoca è stata impugnata dal
docente-commissario, che faceva presente che la liason era
risalente nel tempo. Il principio adottato dal Tribunale nel
condividere l'operato del rettore, si basa sull'articolo 97
della Costituzione (che garantisce buon andamento e
imparzialità) e, più di recente, sulla legge anticorruzione
190/2012.
Episodi analoghi sono quelli in cui l'obbligo di astensione
deriva da una documentata ostilità tra candidato e il
commissario (per denunce ed esposti penali), situazioni che
rendono opportuna l'astensione del commissario a norma
dell'articolo 149 del Tu 3/1957 (pubblico impiego), come
sottolineano Consiglio di Stato 5041/2004 e Tar Milano
190/2005. Viceversa, una situazione più diluita e astratta,
quale esempio l'appartenenza a una stessa scuola di pensiero
(nei concorsi universitari) e il rapporto allieva/maestro
non comporta di per sé l'obbligo di astensione (Tar Pescara
190/2005).
Il nodo delle relazioni sentimentali complica anche
l'amministrazione della giustizia, facendo scattare
l'obbligo di astensione (articoli 36, lettera h, Cpp e 51
Cpc) per rapporti del giudice con le parti o con alcuni
legali che assistono le parti stesse. Ciò perché
risulterebbero infatti intaccate la serenità e la capacità
del giudice di essere imparziale o per ingenerare, sia pure
ingiustificatamente, il sospetto che possa rendere una
decisione ispirata a fini diversi da quelli istituzionali e
intesa, per ragioni private e personali, a favorire o
danneggiare gli eventuali destinatari (Cassazione
21947/2004).
In tutt'altro campo, uno stabile rapporto sentimentale può
aver peso nel ritenere possibile un'infiltrazione mafiosa
per i rapporti tra amministratori di società e soggetti
penalmente compromessi (Tar Catanzaro 863/2012). Tutto ciò
fino a oggi era affidato alla sensibilità della
giurisprudenza, ma la legge anticorruzione 192/2012 potrebbe
spingersi nell'individuare parametri specifici, in funzione
di prevenzione e controllo (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: I
volumi destinati a parcheggi obbligatori ad uso privato di
cui all’art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150, legati
all’immobile principale da un nesso di inscindibilità in
forza del quale di essi non possa disporsi separatamente,
non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo
di costruzione.
Sicché, il rapporto tra superficie delle aree destinate a
parcheggio e volumetria del fabbricato, così come richiesto
dal citato art. 41-sexies, è verificato dalla P.A. e
costituisce condizione essenziale per il rilascio del titolo
edilizio, di modo che la rimozione del vincolo pertinenziale
non può avvenire a piacimento del proprietario, ma soltanto
attraverso una concessione in variante che lo trasferisca su
altre zone riconosciute idonee.
Tuttavia, il vincolo così costituito dev’essere poi
effettivamente trascritto nelle forme dovute.
Pertanto, alla stregua di quanto sopra, le aree gravate da
vincolo di destinazione a parcheggio ai sensi dell’art.
41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150 sulla base del titolo
edificatorio non sono assoggettabili al contributo
commisurato al costo di costruzione e, comunque, la P.A. ha
titolo per pretendere, in relazione ad esse, la trascrizione
del vincolo nelle forme di legge, anche in danno del privato
resosi inadempiente.
- Premesso che la società ricorrente contesta la
determinazione assunta dal comune di Vibo Valentia, di
liquidare gli oneri concessori afferenti ad un intervento
edilizio da realizzarsi, computando pure i volumi destinati
a parcheggi obbligatori;
- Ritenuto che i volumi destinati a parcheggi obbligatori ad
uso privato di cui all’art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150,
legati all’immobile principale da un nesso di inscindibilità
in forza del quale di essi non possa disporsi separatamente,
non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo
di costruzione (cfr. Cons. Stato, 28.11.2012 n. 6033);
- Considerato che il rapporto tra superficie delle aree
destinate a parcheggio e volumetria del fabbricato, così
come richiesto dal citato art. 41-sexies, è verificato dalla
P.A. e costituisce condizione essenziale per il rilascio del
titolo edilizio, di modo che la rimozione del vincolo
pertinenziale non può avvenire a piacimento del
proprietario, ma soltanto attraverso una concessione in
variante che lo trasferisca su altre zone riconosciute
idonee (cfr. Cass. civ., Sez. II, 14.11.2000 n. 14731);
- Precisato, tuttavia, che il vincolo così costituito dev’essere
poi effettivamente trascritto nelle forme dovute (cfr. TAR
Lazio, Roma, Sez. II, 02.12.2002 n. 11019);
- Ritenuto, pertanto, alla stregua di quanto sopra, che le
aree gravate da vincolo di destinazione a parcheggio ai
sensi dell’art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150 sulla base
del titolo edificatorio non sono assoggettabili al
contributo commisurato al costo di costruzione e che,
comunque, la P.A. ha titolo per pretendere, in relazione ad
esse, la trascrizione del vincolo nelle forme di legge,
anche in danno del privato resosi inadempiente
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 04.09.2014 n. 1399 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Legittimità restrizioni alla facoltà di apportare
modifiche agli impianti esistenti per il trattamento dei
rifiuti.
L’introduzione di restrizioni alla facoltà di apportare
modifiche agli impianti esistenti, limitandole agli
interventi necessari a mantenerne la funzione in atto appare
conforme al principio giurisprudenziale secondo cui deve
ritenersi ammissibile una disciplina che produce effetti
conformativi per il futuro.
In tal modo non vengono infatti
messi in discussione né l’intangibilità delle attività e
delle opere poste in essere in conformità della disciplina
previgente che mantengono la loro precedente e legittima
destinazione, né il correlato principio che la cessazione di
attività in essere può essere disposta solo sulla base di
atti a contenuto espropriativo, e si incentiva al contempo
la delocalizzazione di un impianto, la cui presenza è
giudicata incompatibile con la tutela di interessi pubblici
ritenuti prevalenti.
Per quanto concerne gli impianti di trattamento dei rifiuti
l’art. 49 del piano d’area, mediante apposite direttive,
fissa degli obiettivi che devono essere raggiunti in sede di
pianificazione provinciale e comunale, demandando agli enti
locali di indicare i criteri o gli ambiti per la loro
localizzazione e rilocalizzazione.
Con prescrizioni e vincoli immediatamente precettivi dispone
inoltre che “nuovi impianti di trattamento e smaltimento
dei rifiuti non possono essere ubicati in fregio e
all’interno: a) degli ambiti di interesse naturalistico -
ambientale; b) delle zone archeologiche; c) delle aree di
risorgiva e dei punti di presa dell’acqua potabile; d)
dell’ambito prioritario della protezione del suolo”
facendo salvo “in ogni caso quanto già autorizzato alla
data di adozione del presente piano” e con l’ulteriore
specificazione che “eventuali ampliamenti delle
discariche esistenti devono essere motivati e realizzati in
modo tale che la sistemazione finale comporti un
miglioramento significativo dell’ambiente circostante”.
Nel caso all’esame l’impianto ricade all’interno dell’ambito
di protezione del suolo.
Si tratta di un ambito territoriale per il quale l’art. 51
del piano d’area pone forme particolari di tutela
finalizzate ad evitare modificazioni della giacitura dei
terreni e delle caratteristiche fisiche dei suoli e la loro
impermeabilizzazione, a facilitare l’infiltrazione delle
acque superficiali garantendone la massima permeabilità, e
per le quali sono vietati l’impermeabilizzazione di estese
superfici e l’uso, in linea di massima, di fitofarmaci e
diserbanti nella manutenzione del verde, mentre sono
consentiti lavori di miglioria fondiaria a condizione del
rispetto delle suddette finalità.
Poste tali premesse, ed in mancanza di una definizione
normativa di “nuovo impianto”, il Collegio ritiene
condivisibili le conclusioni cui è giunta la Provincia circa
la necessità di utilizzare un criterio di carattere
sostanzialistico nel definire la tipologia di interventi che
ricadono nel divieto.
Infatti tale criterio è quello che risulta coerente con le
finalità di tutela dell’ambito di protezione del suolo dato
che le modifiche agli impianti esistenti possono essere
talmente importanti da costituire un nuovo progetto, e per
la loro natura, dimensione o ubicazione, possono risultare
idonei a produrre un impatto sull' ambiente del tutto
equivalente ad un nuovo impianto, e sarebbe contrario agli
obiettivi del piano sottrarre dal suo campo di applicazione
queste modifiche.
Peraltro nella materia ambientale, per non frustrare il
raggiungimento degli obiettivi di tutela, di norma le
modifiche sostanziali ad un impianto sono equiparate ad un
nuovo impianto.
Rispetto all’ordinamento comunitario, ad esempio, si è
ritenuto in via interpretativa che la procedura di
valutazione di impatto ambientale dovesse essere svolta
anche rispetto a modifiche di opere esistenti, nonostante
l’allegato II della direttiva 85/337 CEE nel testo
originario non si riferisse esplicitamente anche alle
modifiche dei progetti ivi elencati (cfr. CGCE sentenza resa
nella causa C – 72/95 del 24.10.1996).
La normativa nazionale all’art. 208 del Dlgs. 03.04.2006, n.
152, assoggetta alle procedure per nuovi impianti le
varianti sostanziali in corso d'opera o di esercizio che
comportino modifiche a seguito delle quali gli impianti non
sono più conformi all'autorizzazione rilasciata, e all’art.
5 definisce come modifica sostanziale di un progetto, di
un’opera o di un impianto “la variazione delle
caratteristiche o del funzionamento ovvero un potenziamento
dell'impianto, dell'opera o dell'infrastruttura o del
progetto che, secondo l'autorità competente, producano
effetti negativi e significativi sull'ambiente”.
Allo stesso modo anche la legislazione regionale ricorre ad
un criterio di carattere sostanzialistico quando, all’art.
23, comma 6, della legge regionale 21.01.2000, n. 3,
assoggetta alla procedura prevista per nuovi impianti le
varianti sostanziali in corso di esercizio che comportino
modifiche per cui gli impianti non siano più conformi
all’autorizzazione rilasciata, con la sola esclusione delle
varianti che non riguardino il processo tecnologico e non
comportino modifiche ai quantitativi di rifiuti recuperati o
smaltiti.
Pertanto, poiché manca una definizione normativa di “nuovo
impianto” o di “modifica di un impianto esistente”
nel piano d’area, appare corretta l’interpretazione che
ricorre al criterio sistematico e teleologico, secondo la
quale restano assoggettate alla disciplina prevista per
nuovi impianti, anche le modifiche di impianti esistenti che
per la loro natura, dimensione o ubicazione producano
effetti sull'ambiente equivalenti a quelli di un nuovo
impianto, dato che altrimenti un qualsiasi impianto
potrebbe, di modifica in modifica, espandersi senza limiti,
vanificando la portata precettiva e le finalità di
salvaguardia della norma del piano d’area.
In senso contrario non possono essere valorizzate le
considerazioni svolte dalla parte ricorrente circa
l’erroneità di un esito interpretativo il cui effetto le
impedirebbe di realizzare interventi di sviluppo ed
ampliamento della propria attività, da ritenersi connaturati
ad ogni attività di impresa.
Infatti l’introduzione di restrizioni alla facoltà di
apportare modifiche agli impianti esistenti, limitandole
agli interventi necessari a mantenerne la funzione in atto
(ed in effetti la Provincia ha autorizzato, non ritenendole
incompatibili con l’art. 49 del piano, l’accorpamento delle
tre diverse autorizzazioni, la realizzazione della raccolta
e della gestione delle acque interne, e la realizzazione
delle tettoie relative alla copertura dei rifiuti già
autorizzati, contenuti in container), appare conforme al
principio giurisprudenziale secondo cui deve ritenersi
ammissibile una disciplina che produce effetti conformativi
per il futuro.
In tal modo non vengono infatti messi in discussione né
l’intangibilità delle attività e delle opere poste in essere
in conformità della disciplina previgente che mantengono la
loro precedente e legittima destinazione, né il correlato
principio che la cessazione di attività in essere può essere
disposta solo sulla base di atti a contenuto espropriativo
(con riferimento alla disciplina urbanistica, ex pluribus,
cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 21.06.2013, n. 3429), e si
incentiva al contempo la delocalizzazione di un impianto, la
cui presenza è giudicata incompatibile con la tutela di
interessi pubblici ritenuti prevalenti (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 18.06.2014 n. 863 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. SRB non possono essere localizzate
indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale
Occorre sottolineare che nonostante il riconoscimento del
carattere di opere di pubblica utilità e malgrado
l’assimilazione ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione
primaria, le stazioni radio base di un impianto di telefonia
mobile non possono essere localizzate indiscriminatamente in
ogni sito del territorio comunale perché, al cospetto di
rilevanti interessi di natura pubblica, come nel caso della
tutela dei beni ambientali e culturali, la realizzazione
dell’opera di pubblica utilità può risultare cedevole.
Non a
caso, il successivo comma 4 dello stesso art. 86 prescrive
che "Restano ferme le disposizioni a tutela dei beni
ambientali e culturali contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, nonché le disposizioni a tutela delle
servitù militari di cui al titolo VI, del libro II, del
codice dell’ordinamento militare".
Nel merito, il ricorso è fondato.
Al riguardo il Collegio osserva quanto segue.
Il provvedimento di diniego per l'installazione
dell'impianto si fonda sulla considerazione che “nell’immobile
ad uso residenziale posto in Via Picardi, n. 124 individuato
in progetto non è preventivata la possibilità di installare
alcun impianto”.
Orbene, in linea con quanto già rilevato dalla Sezione in
sede cautelare, è dirimente, ai fini dell'accoglimento della
domanda di annullamento, constatare come la legislazione
regionale, per gli impianti radio base per la telefonia
mobile di potenza totale ai connettori di antenna non
superiore a 300 W, stabilisce che essi non richiedono una
specifica regolamentazione urbanistica (art. 4, comma 7,
della L.r. Lombardia n. 11 del 2001).
Più in generale, va rilevato che la disciplina urbanistica
impressa al territorio non si oppone affatto alla
installazione della stazione radio base sul sito individuato
dalla ricorrente (cfr. TAR Lombardia–Milano, sent. n.
398/2013).
Al riguardo sono necessari alcuni spunti ricostruttivi.
Il codice delle comunicazioni elettroniche, approvato con
D.lgs. 01.08.2003, n. 259, con riferimento alle
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, prevede
la confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche
rilevanti, con finale rilascio (in forma espressa o tacita)
di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione.
La fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica
è considerata dal legislatore di preminente interesse
generale, oltre che libera (artt. 3 e 86 del D.lgs. n.
259/2003). L'articolo 86, al comma 3 stabilisce che “Le
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui
agli articoli 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle
opere di urbanizzazione primaria di cui all’articolo 16,
comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, pur restando di proprietà dei rispettivi
operatori, e ad esse si applica la normativa vigente in
materia”.
L'art. 90 dispone che gli impianti in questione e le opere
accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno “carattere
di pubblica utilità”, con possibilità, quindi, di essere
ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo
compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche
(residenziale, verde, agricola). Occorre, tuttavia,
sottolineare che, nonostante il riconoscimento del carattere
di opere di pubblica utilità e malgrado l’assimilazione ad
ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria, le
stazioni radio base di un impianto di telefonia mobile non
possono essere localizzate indiscriminatamente in ogni sito
del territorio comunale perché, al cospetto di rilevanti
interessi di natura pubblica, come nel caso della tutela dei
beni ambientali e culturali, la realizzazione dell’opera di
pubblica utilità può risultare cedevole.
Non a caso, il successivo comma 4 dello stesso art. 86
prescrive che "Restano ferme le disposizioni a tutela dei
beni ambientali e culturali contenute nel decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, nonché le disposizioni a
tutela delle servitù militari di cui al titolo VI, del libro
II, del codice dell’ordinamento militare".
Sotto altro profilo, sempre ai sensi dell’art. 86 del D.lgs.
n. 259/2003, l’installazione di infrastrutture viene
autorizzata dagli enti locali, previo accertamento, da parte
dell’organismo competente ad effettuare i controlli, di cui
all’art. 14 della legge 22.02.2001, n. 36, della
compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i
valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti
uniformemente a livello nazionale in relazione al disposto
della legge 22.02.2001 n. 36 e dei relativi provvedimenti di
attuazione.
Sul punto, occorre porre in evidenza che l’art. 8 della
legge n. 36/2001 (il quale nel disciplinare il riparto di
competenze tra Regioni, Province e Comuni in materia
stabilisce che “i Comuni possono adottare un regolamento
per assicurare il corretto insediamento urbanistico e
territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione
della popolazione ai campi elettromagnetici”), è stato
interpretato nel senso che l’ente locale può senz’altro
disciplinare, con proprio regolamento, l’individuazione di
siti del territorio comunale interdetti all’installazione di
impianti del genere di cui si discute, ma ciò può avvenire
senza che la facoltà di regolamentazione si traduca in un
divieto generalizzato di installazione in identificate zone
urbanistiche (la stessa Corte Costituzionale, con la
sentenza n. 331/2003 ha, infatti, chiarito che
nell’esercizio dei suoi poteri, il Comune non può rendere di
fatto impossibile la realizzazione di una rete completa di
infrastrutture per le telecomunicazioni, trasformando i
criteri di individuazione, che pure il comune può fissare,
in limitazioni alla localizzazione con prescrizioni aventi
natura diversa da quella consentita dalla legge quadro n. 36
del 2001).
Del pari, i comuni non possono introdurre limitazioni alla
localizzazione che, in quanto funzionali non al governo del
territorio, ma alla tutela della salute dai rischi
dell’elettromagnetismo, invaderebbero la competenza che
l’art. 4 della legge n. 36/2001 riserva allo Stato.
Nel quadro così delineato, risulta del tutto coerente la
disposizione, sopra richiamata, di cui all’art. 4, comma 7,
della L.r. Lombardia n. 11 del 2001, in relazione alla quale
il Collegio, quindi, non ritiene di poter ravvisare profili
di incostituzionalità siccome prospettati dal Comune
resistente (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 08.05.2014 n. 1213 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo di asservimento e attività edilizia.
Il vincolo di asservimento si costituisce in virtù di un
provvedimento formale (permesso di costruire, dichiarazione
di assenso all’asservimento) nella specie va rilevato come
non sia comunque aliunde evincibile una cessione di cubatura
da parte dell’area in contestazione in favore dei fabbricati
e neppure opere di urbanizzazione connesse al Piano di
lottizzazione attuato nelle aree contermini la cui
realizzazione avrebbe fatto esaurire la capacità dell’area
prete semente servente.
Invero, il vincolo edilizio connesso
al rapporto area-volume costituito dall’asservimento
presuppone una già avvenuta totale o parziale utilizzazione
a scopo edificatorio di un’area in relazione allo sviluppo
volumetrico di aree solitamente contigue, di guisa che
l’area stessa non può dirsi libera ancorché si presenti
fisicamente libera da immobili.
Passando alla disamina concreta del caso, fermo restando che
secondo un preciso orientamento giurisprudenziale (Cons.
Stato Sez. V 21.03.2000 n. 3637) per lo più il vincolo di
asservimento si costituisce in virtù di un provvedimento
formale (permesso di costruire, dichiarazione di assenso
all’asservimento) nella specie va rilevato come non sia
comunque aliunde evincibile una cessione di cubatura
da parte dell’area in contestazione in favore dei fabbricati
e neppure opere di urbanizzazione connesse al Piano di
lottizzazione attuato nelle aree contermini la cui
realizzazione avrebbe fatto esaurire la capacità dell’area
prete semente servente.
Invero, il vincolo edilizio connesso al rapporto area-volume
costituito dall’asservimento presuppone una già avvenuta
totale o parziale utilizzazione a scopo edificatorio di
un’area in relazione allo sviluppo volumetrico di aree
solitamente contigue, di guisa che l’area stessa non può
dirsi libera ancorché si presenti fisicamente libera da
immobili (cfr Cons. Stato Sez. IV 09/07/2011 n. 4143; Cons.
Stato Sez. V 07/11/2002 n. 6128), ma non è questa la
situazione che qui ricorre (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
05.06.2013 n. 3106 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Insanabilità permanente degli edifici inseriti
in una lottizzazione abusiva.
La connotazione dell’insanabilità permanente degli edifici
facenti parte di una lottizzazione abusiva, è posta dalla
legge a tutela della potestà programmatoria del Comune, e
serve ad assicurare l'effettivo controllo del territorio da
parte della predetta l'Amministrazione titolare della
funzione di pianificazione al fine di garantire nel tempo
un’ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del
territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e
dei correlativi standard compatibili con le esigenze di
finanza pubblica e con il vivere civile.
L’assunto va respinto .
L’ordinanza del Giudice dell’esecuzione del tribunale di
Bari nelle ordinanze di restituzione dei beni confiscati e
di cancellazione della trascrizione della confisca nei
confronti del Comune di Palo del Colle, non aveva un
carattere propriamente decisorio, ma era stata emanata
solamente in conseguenza del rilascio della concessione in
sanatoria, per cui il venir meno in autotutela della stessa
faceva venir meno il relativo loro presupposto.
In ogni caso non potevano formare “giudicato penale” idoneo
a far stato tra le parti ed a precludere i provvedimenti di
autotutela.
La motivazione degli atti impugnati in primo grado è congrua
ed logica, anche solo con riferimento all’indubbia
sussistenza di una lottizzazione abusiva, la quale nel caso
di specie è stata ampiamente documentata nelle relazioni
della Polizia Municipale del 24.06.2002 e del 06.07.2004, che
ricostruivano la realizzazione progressiva tra il 1985 ed il
2002 di ben 15 fabbricati artigianali oltre ad un piazzale
di 8000 mt., recinzioni, muri di cinta, strada ecc., la cui
valutazione complessiva era tale da rendere evidente l’insuscettibilità
delle opere di essere oggetto della sanatoria.
La connotazione dell’insanabilità permanente della
lottizzazione è posta dalla legge a tutela della potestà
programmatoria del Comune e serve ad assicurare l'effettivo
controllo del territorio da parte della predetta
l'Amministrazione titolare della funzione di pianificazione
al fine di garantire nel tempo un’ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard
compatibili con le esigenze di finanza pubblica e con il
vivere civile (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 07.06.2012 n. 3381).
In relazione alla totale abusività della loro realizzazione
non è poi vero che i capannoni sarebbero stati
sostanzialmente legittimi, perché avrebbero rispettato gli
indici ed i parametri di riferimento della Zona di
interventi introdotti, successivamente agli abusi, con le
varianti al Regolamento edilizio di cui alla delibera del
consiglio comunale n. 132/1975 e n. 15/1989 con cui la stessa
amministrazione aveva elevato l’indice di fabbricabilità per
realizzare “capannoni e manufatti connessi con
l’agricoltura” .
A parte che non è stata fornita (nemmeno in questa sede)
alcuna prova dell’assunto per cui i capannoni avrebbero
realmente rispettato i nuovi indici di fabbricabilità, la
notevole entità lottizzatoria degli abusi precedentemente
realizzati faceva sì che la successiva modifica dell’indice
fondiario risultasse essere una sopravvenienza
giuridicamente irrilevante.
Gli appellanti peraltro non forniscono neanche riscontri
della destinazione ad attività connessi con l’agricoltura
delle costruzioni: al contrario, salvo forse per un frantoio
e una vendita trattori, per tutti gli altri casi si tratta
di utilizzi a fini artigianali e/o commerciali del tutto
differenti (es. ditta di trasporti, officina di un fabbro,
una tipografia, gabinetto fotografico, ditta di produzione
di sacchi in PVC, negozio di divani, e di strumenti
musicali, ecc.: cfr. allegato alla nota della Polizia
Municipale del 06.07.2004).
Per questo, è infondata sia l’affermazione per cui nel caso
non vi sarebbe stato alcuno stravolgimento del territorio in
quanto i manufatti occuperebbero superficie minima dei
relativi lotti e sia che il complesso degli interventi
abusivi sarebbe stato compatibile con la regolamentazione
prevista in zona agricola.
L’esame “ictu oculi” della cartina allegata al
provvedimento, ed il riscontro con le mappe satellitari
statunitensi, generalmente accessibili a tutti via web,
dimostrano invece che vi è stata una pesante “trasformazione
urbanistico edilizia dei terreni in totale spregio alle
prescrizioni urbanistiche” (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
04.06.2013 n. 3086 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'obbligo di comunicazione dell'avvio
del procedimento amministrativo ex art. 7, l. 07.08.1990 n.
241 è strumentale alle esigenze di conoscenza effettiva e,
conseguentemente, di partecipazione all'azione
amministrativa da parte del soggetto nella cui sfera
giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere, in modo
che egli sia in grado di influire sul contenuto del
provvedimento.
Invero, le norme sulla partecipazione del privato al
procedimento amministrativo non vanno applicate
meccanicamente e formalmente. Pertanto quando l'interessato
sia venuto a conoscenza dell'apertura di un procedimento con
effetti lesivi nei suoi confronti, si deve dare prevalenza
ai principi di economicità e speditezza dell'azione
amministrativa. Quello che rileva procedimentalmente è che
la comunicazione di avvio di cui all’art. 7, L. 07.08.1990
n. 241 vi sia stata concretamente effettuata al
destinatario.
L'obbligo di
comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex
art. 7, l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale alle esigenze
di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di
partecipazione all'azione amministrativa da parte del
soggetto nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è
destinato ad incidere, in modo che egli sia in grado di
influire sul contenuto del provvedimento.
Come la Sezione ha più volte avuto modi di sottolineare, le
norme sulla partecipazione del privato al procedimento
amministrativo non vanno applicate meccanicamente e
formalmente. Pertanto quando l'interessato sia venuto a
conoscenza dell'apertura di un procedimento con effetti
lesivi nei suoi confronti, si deve dare prevalenza ai
principi di economicità e speditezza dell'azione
amministrativa. Quello che rileva procedimentalmente è che
la comunicazione di avvio di cui all’art. 7, L. 07.08.1990 n. 241 vi sia stata concretamente effettuata al
destinatario (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 16.03.2012 n.
1497; Consiglio di Stato sez. IV 18.04.2012 n. 2286;
Consiglio di Stato sez. IV 17.09.2012 n. 4925,
Consiglio di Stato sez. IV 15.12.2011 n. 6618; ecc.)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
04.06.2013 n. 3086 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità diniego di autorizzazione all’installazione di
una insegna pubblicitaria e ordine di rimozione della
stessa. Limitazione perseguimento imprenditoriale.
E’ legittimo il diniego di
autorizzazione e l’ordinanza di rimozione di una insegna nel
caso in cui la motivazione è basata, oltre che su ragioni di
estetica, anche sulle caratteristiche dell’insegna a
cassonetto e sulle sue eccessive dimensioni.
Infatti, quando il contrasto di una struttura con l’estetica
urbana è evidente, per le sue dimensioni e caratteristiche,
in base a dati di comune esperienza, non sono necessarie
particolari motivazioni circa le ragioni che inducono a
ritenerlo sussistente. Quanto al contrasto con i principi di
iniziativa privata e libertà di impresa, essi sono recessivi
rispetto agli interessi pubblici che l’ordinamento tutela
subordinando inderogabilmente la possibilità di erigere una
insegna luminosa alla previa autorizzazione amministrativa
dei competenti organi comunali.
Il perseguimento imprenditoriale dello scopo pubblicitario
in relazione al quale è rilasciabile l'autorizzazione può
essere infatti limitato dal perseguimento di preminenti
interessi pubblici salvaguardati “ex lege”, in sintonia con
l'art. 41, comma 2, della Costituzione, secondo il quale,
anche se l'iniziativa economica privata è libera, essa non
può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo
da recare danno alla sicurezza.
La Sezione ritiene che provvedimenti come quello di specie,
per essere correttamente motivati, debbano contenere una
esplicazione concreta della realtà dei fatti e delle ragioni
ambientali ed estetiche che sconsigliano alla pubblica
amministrazione di ammettere l’intervento, tale da non
risultare vaga e apodittica, ma riferita a specifici e
concreti valori, in modo da permettere, sebbene sintetica,
la ricostruzione dell'iter logico seguito
dall'Amministrazione nell'effettuazione delle sue
valutazioni.
Ovviamente essendo il provvedimento espresso nell'esercizio
di valutazioni tecniche, è censurabile dal g.a. non in forma
sostitutiva, ma soltanto per evidenti vizi di illogicità,
irragionevolezza, travisamento dei fatti o per evidente
difetto di motivazione.
Nel caso che occupa con il provvedimento impugnato è stato
respinto dall’Amministrazione il ricorso contro il diniego
di installazione di una insegna luminosa della “Cassa di
Risparmio di Firenze” su un immobile sito in Piazza
della Repubblica, perché, sentito nuovamente il parere
espresso dalla Commissione edilizia, era stato deciso di non
accogliere la richiesta “per motivi di estetica date le
caratteristiche dell’insegna <<a cassonetto>> e le sue
eccessive dimensioni”.
Ritiene la Sezione che le indicazioni contenute in detto
provvedimento consentissero una adeguata ricostruzione
dell’iter logico giuridico seguito dal Comune nel denegare
la richiesta autorizzazione, non essendo stato fatto
richiamo a mere ragioni estetiche, ma a circostanze di fatto
concrete; era stato infatti specificato che la estetica era
stata violata a causa delle caratteristiche della insegna,
che era prevista “a cassonetto”, cioè composta da una
“scatola” contenente all’interno lampade (solitamente
tubi al neon), che per sua natura è di forte impatto visivo,
nonché per le sue dimensioni (la parte appellante afferma,
senza essere stata sul punto smentita, che essa occupava lo
spazio di metri 16.05 per metri 4,50) perché eccessive,
evidentemente in riferimento e in proporzione sia
all’edificio su cui essa era stata apposta, oltre che al
contesto urbano circostante.
Non può quindi condividere la Sezione la affermazione del
Giudice di prime cure che l’affermazione contenuta
nell’impugnato provvedimento fosse “del tutto apodittica”
ed in contrasto con i princìpi della iniziativa privata e
della libertà di impresa.
Invero quando il contrasto di una struttura con l’estetica
urbana sia evidente, per le sue dimensioni e
caratteristiche, in base a dati di comune esperienza, non
sono necessarie particolari motivazioni circa le ragioni che
inducono a ritenerlo sussistente.
Quanto al contrasto con i principi di iniziativa privata e
libertà di impresa, essi sono recessivi rispetto agli
interessi pubblici che l’ordinamento tutela subordinando
inderogabilmente la possibilità di erigere una insegna
luminosa alla previa autorizzazione amministrativa dei
competenti organi comunali.
Il perseguimento imprenditoriale dello scopo pubblicitario
in relazione al quale è rilasciabile l'autorizzazione può
essere infatti limitato dal perseguimento di preminenti
interessi pubblici salvaguardati “ex lege”, in
sintonia con l'art. 41, comma 2, della Costituzione (secondo
il quale, anche se l'iniziativa economica privata è libera,
essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o
in modo da recare danno alla sicurezza) (massima tratta da
www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.06.2013 n. 3028 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi obbligatori e oneri concessori.
Allo stato attuale, si deve ritenere
che, ai sensi del coordinato disposto dell’art. 11, comma 1,
L. n. 122 del 1989 e dell’art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R.
n. 380 del 2001, la realizzazione dei parcheggi obbligatori,
nella misura richiesta dalla legge, è esonerata dall'onere
di pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione.
Il ricorso è fondato, non essendovi motivi per discostarsi
dal consolidato indirizzo in materia di questa Sezione,
peraltro formatosi nei confronti del medesimo ente locale
(cfr. sentenze n. 4632 del 19.11.2012, n. 2491 e n. 2404 del
28.05.2012).
Invero, ai sensi dell’art. 11, co. 1, della legge n. 122 del
1989 (c.d. legge Tognoli), «le opere e gli interventi
previsti dalla presente legge costituiscono opere di
urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma,
lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10».
Tale ultima norma, che prevedeva l’esonero dal pagamento del
contributo di concessione «per gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché
per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati,
in attuazione di strumenti urbanistici», è stata
abrogata dall’art. 136, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, ma è
stata riprodotta integralmente dall’art. 17, comma 3, dello
stesso D.P.R..
Allo stato attuale, pertanto, si deve ritenere che, ai sensi
del coordinato disposto dell’art. 11, comma 1, L. n. 122 del
1989 e dell’art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. n. 380 del
2001, la realizzazione dei parcheggi obbligatori, nella
misura richiesta dalla legge, è esonerata dall'onere di
pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione (cfr., in termini, Consiglio di Stato, Sezione
IV, 22.11.2011, n. 6154; TAR Lombardia, Milano, Sezione II,
17.04.2007, n. 1779; TAR Campania, Napoli, Sezione IV,
16.07.2004, n. 10364).
Alla luce di quanto precede, quindi, dalla volumetria
complessiva computabile (pari a mc 1.694,95) occorre
escludere le superfici destinate a parcheggi obbligatori
(pari a 169,49 mq, ossia 1 mq per ogni 10 mc di
costruzione).
Per queste ragioni la domanda va conclusivamente accolta (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.05.2013 n. 2745 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il muro di contenimento non è pertinenza.
Secondo giurisprudenza consolidata il
muro di contenimento non può essere considerato pertinenza,
mentre il muro di recinzione necessita del permesso di
costruire quando la recinzione costituisca opera di
carattere permanente, incidendo in modo permanente e non
precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad
esempio se è costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica, o da opera
muraria.
La realizzazione ex novo di un muro di recinzione in
cemento armato di rilevanti dimensioni, con sovrastante
ringhiera in ferro e un muro di contenimento, in quanto
strutture autonome e indipendenti e, comunque, di rilevanti
dimensioni non possono configurarsi come opere pertinenziali,
né quale interventi di restauro e risanamento conservativo.
In particolare, secondo giurisprudenza, il muro di
contenimento non può essere considerato pertinenza (TAR
Lombardia Brescia Sez. II, 02.07.2012, n. 1265; TAR Liguria
Genova Sez. I, 31.12.2009, n. 4131) mentre il muro di
recinzione necessita del permesso di costruire quando la
recinzione costituisca opera di carattere permanente,
incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto
edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da
un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete
metallica (TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897) o da
opera muraria (Cassazione penale, sez. III, 13.12.2007, n.
4755) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.05.2013 n. 2677 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ragione del contenuto rigidamente
vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in
materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di
costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla
comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
---------------
L'ordine di sospensione dei lavori non costituisce un
necessario presupposto di legittimità dell'ingiunzione a
demolire l'immobile abusivo, ben ponendo quest'ultima essere
emanata immediatamente all'esito dell'accertamento della
realizzazione di opere abusive.
Il potere di sospensione dei lavori in corso è, difatti,
meramente cautelare, essendo finalizzato a evitare che la
prosecuzione dei lavori stessi determini un aggravarsi del
danno urbanistico, per cui non rappresenta un presupposto
necessario all'ordinanza di demolizione.
--------------
L'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé
sola presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria e, per costante giurisprudenza, la
diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e non
necessita di alcuna puntuale valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né un bilanciamento di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione.
1) Il ricorso si
rivela infondato
Nel primo motivo di ricorso le parti ricorrenti hanno
lamentato la violazione dell’art.7 della legge n. 241/1990
per aver l’Amministrazione omesso la comunicazione di avvio
del procedimento che ha portato al provvedimento gravato.
La censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto
rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo
procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n.
7129).
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse
ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe
applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies
della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in
ambito provvedimentale vincolato e risultando che il
contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
1.1) Nel primo motivo di ricorso le parti ricorrenti hanno,
inoltre, dedotto l’illegittimità del provvedimento gravato
perché non preceduto dall’ordine di sospensione lavori di
cui al comma 3, dell’art. 27 D.P.R. n. 380 del 2001.
La censura è infondata.
L'ordine di sospensione dei lavori non costituisce un
necessario presupposto di legittimità dell'ingiunzione a
demolire l'immobile abusivo, ben ponendo quest'ultima essere
emanata immediatamente all'esito dell'accertamento della
realizzazione di opere abusive (TAR Puglia Lecce, Sez. III,
11.03.2010, n. 709; TAR Campania Salerno, Sez. II,
13.10.2006, n. 1742).
Il potere di sospensione dei lavori in corso è, difatti,
meramente cautelare, essendo finalizzato a evitare che la
prosecuzione dei lavori stessi determini un aggravarsi del
danno urbanistico, per cui non rappresenta un presupposto
necessario all'ordinanza di demolizione.
2) Con il secondo motivo di ricorso le parti
ricorrenti hanno lamentato la carenza di istruttoria e la
mancata motivazione in ordine al profilo della sussistenza
dell’interesse pubblico alla demolizione o della possibilità
si adozione di una misura sanzionatoria di minore gravità,
anche tenuto conto che le opere ricadono in area altamente
urbanizzata.
Il motivo è infondato.
L’istruttoria del provvedimento sanzionatoria appare
completa essendo stati acquisiti gli elementi che attestano
la realizzazione delle opere e la loro abusività per assenza
di titolo.
L'abusività di un'opera edilizia, inoltre, costituisce già
di per sé sola presupposto per l'applicazione della
prescritta sanzione demolitoria (Consiglio Stato, sez. V,
30.11.2000, n. 6357) e, per costante giurisprudenza, la
diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex
multis, C.d.S., VI, 28.06.2004, n. 4743; C.d.S., sez. V,
10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV,
04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e non necessita di
alcuna puntuale valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né un bilanciamento di questo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496;
Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.05.2013 n. 2677 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo cimiteriale.
La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338
t.u. leggi sanitarie, che deve essere misurata a partire dal
muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto
di inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti
previsioni di PRG, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienicosanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale.
Priva di pregio, innanzitutto, è la censura per la quale il
vincolo cimiteriale non sarebbe applicabile per le opere
realizzate al di fuori dei centri abitati, poiché il
riferimento ai “centri abitati”, di cui all'art. 338
r.d. n. 1265/1934 rileva unicamente per la realizzazione e
l’ampliamento dei cimiteri da parte del Comune e non invece
per l’attività costruttiva del privato, che deve, comunque,
rispettare le prescritte distanze dal cimitero anche se la
costruzione dovesse essere edificata fuori dai centri
abitati (cfr. C.d.S., sez. V, 29.03.2006, n. 1593; C.d.S.,
sez. IV, 20.07.2011, n. 4403, che ha anche escluso che la
presenza, come nel caso ora in esame, di una strada possa “interrompere”
la continuità del vincolo).
In secondo luogo, il vincolo in questione è di
inedificabilità assoluta e, perciò, le opere realizzate in
contrasto con lo stesso non sono suscettibili di sanatoria,
ai sensi dell'art. 33 della legge 28.02.1985, n. 47, neppure
per silentium.
Al riguardo, è sufficiente richiamare l'indirizzo del
Giudice di appello, dal quale non si rinvengono ragioni per
discostarsi, secondo cui «la fascia di rispetto
cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie (e
che deve essere misurata a partire dal muro di cinta del
cimitero), costituisce un vincolo assoluto di
inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti
previsioni di PRG, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienicosanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. IV,
16.03.2011 n. 1645 e 27.10.2009 n. 6547; sez. V, 14.09.2010
n. 6671)» (cfr. C.d.S., sez. sez. IV, 20.07.2011, n.
4403 cit.).
Sono, perciò, infondati anche il secondo ed il terzo motivo
di ricorso, mentre, con riguardo al quarto ed ultimo motivo,
basta osservare, per la sua reiezione, che sia il diniego di
condono rispetto ad opere per legge non suscettibili di
sanatoria, sia gli interventi repressivi degli abusi
edilizi, sono espressione di un potere dell'amministrazione
di natura vincolata e non discrezionale, che in quanto tale
non è soggetto ad eccesso di potere, ma soltanto ad
eventuali vizi di violazione di legge o di incompetenza (in
materia di ordini di demolizione, cfr. TAR Campania Salerno,
sez. I, 06.12.2011, n. 1926; TAR Sicilia Catania, sez. I,
20.09.2010, n. 3763) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.05.2013 n. 2496 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Obbligo di adeguata motivazione permesso in
sanatoria.
L’obbligo di adeguata motivazione non può che riguardare,
nella formulazione dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001,
l’ipotesi in cui l’Amministrazione ritenga di accogliere la
richiesta di accertamento di conformità, come si desume in
modo chiaro dalla formulazione letterale del suo comma 3,
secondo cui sulla richiesta di permesso in sanatoria il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni
decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata, in
coerenza con la ragione dell’istituto tenuto conto che
trattandosi di sanare ex post un abuso edilizio
l’Amministrazione non può sottrarsi, nell’interesse
dell’intera collettività e degli eventuali proprietari
confinanti, all’onere di specifica e puntuale esposizione
delle ragioni, in fatto e in diritto, che consentono di
legittimare l’opera realizzata sine titulo.
Il motivo è infondato.
La tesi della ricorrente è priva di pregio alla luce
dell’orientamento giurisprudenziale di questa stessa Sezione
(tra le molte, TAR Napoli, Campania sez. VI, 05.06.2012 n.
2644), secondo cui, in primo luogo, il silenzio serbato
dall'Amministrazione sulla domanda di sanatoria ex art. 13
della legge n. 47/1985 (poi trasfuso nell’art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001) è qualificabile come silenzio provvedimentale
con contenuto di rigetto e non come silenzio inadempimento
all'obbligo di provvedere, per cui nessuna violazione del
termine posto dall’art. 2 della legge 241/1990 si è
verificata nel caso di specie.
In secondo luogo, l’obbligo di adeguata motivazione non può
che riguardare, nella formulazione dell’art. 36 d.P.R. n.
380 del 2001, l’ipotesi in cui l’Amministrazione ritenga di
accogliere la richiesta di accertamento di conformità, come
si desume in modo chiaro dalla formulazione letterale del
suo comma 3, secondo cui “sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata” (tra le molte, Cons. Stato, sezione
quarta, 03.04.2006, n. 1710), in coerenza con la ragione
dell’istituto tenuto conto che “trattandosi di sanare ex
post un abuso edilizio l’Amministrazione non può sottrarsi,
nell’interesse dell’intera collettività e degli eventuali
proprietari confinanti, all’onere di specifica e puntuale
esposizione delle ragioni, in fatto e in diritto, che
consentono di legittimare l’opera realizzata sine titulo”
(così, in particolare, fra le altre, TAR Campania, Napoli,
sezione ottava, 15.04.2010, n. 1981 cit.).
Nel caso di specie, trattandosi di un silenzio-diniego, non
può predicarsi il difetto di motivazione dedotto dalla
ricorrente né il privato, in queste condizioni, vede
diminuito il proprio diritto di difesa per il fatto di non
poterlo dedurre, in quanto ben avrebbe potuto allegare che
l’istanza di sanatoria sia meritevole di accoglimento, per
la sussistenza della prescritta doppia conformità delle
opere abusive realizzate, adducendo un valido principio di
prova, tutti elementi che però non sono stati portati
all’attenzione del collegio nel caso in esame (tra le molte
di questo Tribunale, sez. VI, 07.12.2011, n. 5716) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza
10.05.2013 n. 2440 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istanza di accertamento di conformità non
rende invalida l’ordinanza di demolizione.
L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma
la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la
conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di
sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla
successiva contraria e positiva determinazione
dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto, anche
silenzioso dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di
demolizione riacquista efficacia, decorrendo, peraltro, il
termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla
comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di
conservazione.
A norma dell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, ove il
Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di
accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa
si intende respinta.
La censura è infondata in diritto poiché la giurisprudenza
del Tribunale, espressa più volte anche dalla Sezione,
predica che “L’avvenuta presentazione di un’istanza di
accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di
demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea
quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento
dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene
travolta dalla successiva contraria e positiva
determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di
rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa
ordinanza di demolizione riacquista efficacia (in tal senso,
da ultimo TAR Campania–Napoli, Sez. III, 28.01.2013 n. 651;
ID, 05.12.2012, n. 4941), decorrendo, peraltro, il termine
di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla
comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di
conservazione".
Si è espressa in tal senso da ultimo la Sezione (TAR
Campania–Napoli, III, 22.02.2013 n. 1069).
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3,
del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci
espressamente sull’istanza di accertamento di conformità
entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di
silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione
di motivi aggiunti o ricorso autonomo (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.05.2013 n. 2421 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La decadenza di una concessione edilizia (ed oggi
di un permesso di costruire) per la mancata osservanza del
termine di inizio o di completamento dei lavori (ovvero per
sopravvenuta incompatibilità con lo strumento urbanistico
sopravvenuto) opera "di diritto", con la conseguenza che il
provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi "ex se" con
l'inutile decorso del termine.
Da ciò consegue che l'eventuale provvedimento di decadenza è
sufficientemente motivato col richiamo alla norma applicata,
senza che sia necessaria una comparazione tra l'interesse
del privato e quello pubblico, essendo quest'ultimo "ope
legis" prevalente sul primo, e che non è necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento, essendo la
decadenza un effetto che si verifica "ipso iure", senza che
residui all'amministrazione alcun margine per valutazioni di
ordine discrezionale.
Si è anche precisato che la pronunzia di decadenza del
permesso di costruire per omesso rispetto dei termini
fissati per l'inizio dei lavori o per il completamento degli
stessi -in mancanza di apposita istanza di proroga entro la
scadenza di tali termini- si qualifica come atto vincolato,
a carattere meramente dichiarativo, che deve intervenire per
il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge,
costituito dal mancato inizio o completamento dei lavori nel
termine assegnato, con la conseguenza che la decadenza del
titolo si verifica in modo automatico e non è subordinata
alla sua previa dichiarazione con atto amministrativo, e che
l’istituto della decadenza ha carattere oggettivo trovando
fondamento nel mero decorso del termine previsto, fatta
eccezione per i casi di sospensione o proroga connessi a
factum principis, forza maggiore o altre cause espressamente
contemplate dalle legge non riferibili alla condotta del
titolare del permesso e assolutamente ostative
all’esecuzione dei lavori.
---------------
Per quanto riguarda poi la tipologia delle opere che possono
far ritenere iniziati i lavori la giurisprudenza ha chiarito
che le opere realizzate devono essere finalizzate alla
realizzazione del manufatto oltreché avere una certa
consistenza, dovendosi così escludere che possano costituire
inizio dei lavori quelle opere solo fittiziamente eseguite e
che, perciò stesso, non evidenziano l'esistenza di una
concreta "voluntas aedificandi" da parte del titolare del
titolo edilizio.
In particolare si è affermato che, al fine di contestare la
dichiarata decadenza della concessione edilizia (ed oggi di
un permesso di costruire) per mancato inizio dei lavori nei
termini non è sufficiente addurre l'avvenuta recinzione del
cantiere, il posizionamento della baracca degli attrezzi, la
pulizia dell'area, la realizzazione dell'impianto elettrico
e di terra del cantiere, l'installazione della
cartellonistica di cantiere, etc., trattandosi di
circostanze che oltre ad esaurirsi in un brevissimo arco
temporale non possono essere considerate significative di un
effettivo inizio dei lavori di costruzione dell'edificio
progettato e assentito.
Anche questa Sezione ha di recente affermato sul punto che
l'esecuzione di mere attività preparatorie, quali il taglio
degli alberi, l'apertura di un varco di accesso al terreno,
la demolizione di parte di un muro di confine e la
realizzazione di una nuova recinzione, non accompagnate
dalla compiuta organizzazione del cantiere di lavoro, non
costituiscono valido inizio dei lavori tale da impedire la
decadenza del permesso di costruire per mancato rispetto del
termine iniziale.
Al riguardo si deve preliminarmente ricordare che, come
anche questa Sezione ha avuto modo di recente di affermare,
la decadenza di una concessione edilizia (ed oggi di un
permesso di costruire) per la mancata osservanza del termine
di inizio o di completamento dei lavori (ovvero per
sopravvenuta incompatibilità con lo strumento urbanistico
sopravvenuto) opera "di diritto", con la conseguenza
che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi "ex se" con
l'inutile decorso del termine.
Da ciò consegue che l'eventuale provvedimento di decadenza è
sufficientemente motivato col richiamo alla norma applicata,
senza che sia necessaria una comparazione tra l'interesse
del privato e quello pubblico, essendo quest'ultimo "ope
legis" prevalente sul primo, e che non è necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento, essendo la
decadenza un effetto che si verifica "ipso iure",
senza che residui all'amministrazione alcun margine per
valutazioni di ordine discrezionale (TAR Campania Napoli,
sez. II, 30.01.2009, n. 542; TAR Sicilia Catania, sez. I,
15.09.2009, n. 1507).
Si è anche precisato che la pronunzia di decadenza del
permesso di costruire per omesso rispetto dei termini
fissati per l'inizio dei lavori o per il completamento degli
stessi -in mancanza di apposita istanza di proroga entro la
scadenza di tali termini- si qualifica come atto vincolato,
a carattere meramente dichiarativo, che deve intervenire per
il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge,
costituito dal mancato inizio o completamento dei lavori nel
termine assegnato, con la conseguenza che la decadenza del
titolo si verifica in modo automatico e non è subordinata
alla sua previa dichiarazione con atto amministrativo (TAR
Valle d'Aosta Aosta, sez. I, 19.03.2009, n. 19), e che
l’istituto della decadenza ha carattere oggettivo trovando
fondamento nel mero decorso del termine previsto, fatta
eccezione per i casi di sospensione o proroga connessi a
factum principis, forza maggiore o altre cause
espressamente contemplate dalle legge non riferibili alla
condotta del titolare del permesso e assolutamente ostative
all’esecuzione dei lavori (TAR Piemonte, Sez. I, n. 2113 del
28.07.2009).
Per quanto riguarda poi la tipologia delle opere che possono
far ritenere iniziati i lavori la giurisprudenza ha chiarito
che le opere realizzate devono essere finalizzate alla
realizzazione del manufatto oltreché avere una certa
consistenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 29.11.2004, n.
7748; TAR Toscana, sez. III, 17.11.2008, n. 2533), dovendosi
così escludere che possano costituire inizio dei lavori
quelle opere solo fittiziamente eseguite e che, perciò
stesso, non evidenziano l'esistenza di una concreta "voluntas
aedificandi" da parte del titolare del titolo edilizio.
In particolare si è affermato che, al fine di contestare la
dichiarata decadenza della concessione edilizia (ed oggi di
un permesso di costruire) per mancato inizio dei lavori nei
termini non è sufficiente addurre l'avvenuta recinzione del
cantiere, il posizionamento della baracca degli attrezzi, la
pulizia dell'area, la realizzazione dell'impianto elettrico
e di terra del cantiere, l'installazione della
cartellonistica di cantiere, etc., trattandosi di
circostanze che oltre ad esaurirsi in un brevissimo arco
temporale non possono essere considerate significative di un
effettivo inizio dei lavori di costruzione dell'edificio
progettato e assentito (Consiglio Stato, sez. IV,
18.06.2008, n. 3030).
Anche questa Sezione ha di recente affermato sul punto che
l'esecuzione di mere attività preparatorie, quali il taglio
degli alberi, l'apertura di un varco di accesso al terreno,
la demolizione di parte di un muro di confine e la
realizzazione di una nuova recinzione, non accompagnate
dalla compiuta organizzazione del cantiere di lavoro, non
costituiscono valido inizio dei lavori tale da impedire la
decadenza del permesso di costruire per mancato rispetto del
termine iniziale (TAR Campania Napoli, sez. II, 25.09.2008,
n. 10890) (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 27.01.2010 n. 335 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 10.09.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Denuncia inizio attività addio. In edilizia basterà la
segnalazione certificata (Scia). DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Il testo è pronto per la
pubblicazione in Gazzetta.
Addio alla Dia (denuncia di inizio attività) in edilizia. È
messa definitivamente in soffitta dalla Scia (segnalazione
certificata di inizio attività). Mentre si spinge su
manutenzioni e ristrutturazioni, con mano leggera sugli
oneri edilizi e si accelerano i tempi del permesso di
costruire, la cui versione convenzionata fa il suo esordio
nel Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), accanto ai
permessi in deroga per le ristrutturazioni delle aree
industriali dismesse. E per le urbanizzazioni si cerca di
farle realizzare al privato (come per le trasformazioni
urbane complesse).
Il decreto sblocca Italia (si veda ItaliaOggi del 02.09.2014), nella sua
versione ormai pronta per la
pubblicazione in G.U., dedica un lungo articolo alle
semplificazioni in edilizia, soffermandosi sulla necessità
di sburocratizzare alcuni passaggi e di creare occasioni per
rivitalizzare il mercato.
Vediamo le singole scelte del provvedimento.
Va nel senso della sburocratizzazione l'espansione del
concetto di manutenzione straordinaria, che si affranca
dalla necessità di rispettare volumi e superfici, bastando
il rispetto della volumetria complessiva.
Fermo l'ingombro dell'edificio, accorpamento o frazionamenti
di unità vengono, dunque, declassati a manutenzioni
straordinarie, con esclusione della necessità del permesso
di costruire e benefici anche sul versante degli oneri
dovuti al comune.
La modifica del concetto trascina il rimodellamento delle
disposizioni sui casi in cui è necessario il permesso di
costruire e, a cascata, fa ampliare lo spazio d'azione
dell'attività edilizia libera, realizzabile previa una
semplice comunicazione di inizio lavori (Cil).
Non decisiva, ma apprezzabile, poi la pratica di
accatastamento d'ufficio, utilizzando la stessa Cil.
L'ottica è, invece, la semplificazione per la
classificazione dei mutamenti di destinazioni d'uso
rilevanti: la norma prevede quattro categorie e solo il
passaggio da una all'altra è significativo; mentre i
passaggi interni alla singola voce non costituiscono
mutamenti di destinazioni d'uso. Le categorie sono:
residenziale e turistico-ricettiva; produttiva e
direzionale; commerciale; rurale. Salva diversa previsione
da parte delle leggi regionali e dei piani regolatori, dice
il decreto, il mutamento della destinazione d'uso
all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito.
Segue l'onda della semplificazione la scomparsa della Dia
(salvo che nella versione super Dia, cioè sostitutiva del
permesso di costruire), sostituita dalla Scia (in sostanza
scompare l'alternatività, rimanendo la Scia come modalità
unica).
Anche il procedimento del rilascio del permesso di costruire
viene velocizzato: i termini dei rilascio non sono più
raddoppiati sempre nei centri più grandi (oltre i 100.000
abitanti), ma solo per progetti particolarmente complessi
secondo la motivata risoluzione del responsabile del
procedimento.
Meno burocrazia, ma anche impulso al mercato dovrebbe
arrivare dal permesso di costruire in deroga per gli
interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica
attuati anche in aree industriali dismesse: la deroga potrà
riguardare anche i mutamenti di destinazione di uso. Stesso
discorso per le trasformazioni urbane complesse, per le
quali si può prevedere l'assoggettamento al solo costo di
costruzione, mentre le opere di urbanizzazione sono
direttamente messe in carico all'operatore privato che ne
resta proprietario.
Sulla stessa lunghezza d'onda l'alleggerimento degli oneri
per le ristrutturazioni e gli interventi sull'esistente e
anche il permesso di costruire convenzionato. A quest'ultimo
si potrà ricorrere affinché le esigenze di urbanizzazione
possano essere soddisfatte dal privato, sotto il controllo
del comune, con una modalità semplificata: con la
convenzione si devono regolare utilizzo di cubature,
caratteristiche degli interventi e realizzazione di
interventi di edilizia residenziale sociale.
La proroga del permesso di costruire secondo
valutazioni discrezionali, infine, dà maggiore tempo
alle imprese per la realizzazione dei progetti
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
La mobilità obbligatoria nel D.L. 90/2014 - Un
nuovo istituto non certo privo di problemi
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 25.08.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La mobilità volontaria nel D.L. 90/2014 - Ancora
necessario il nulla-osta della propria amministrazione
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 11.08.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La mobilità esterna nel D.L. 90/2014 - I problemi
del "passaggio diretto" senza "cessione del contratto"
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 08.08.2014). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO
IMPIEGO: Se il dipendente è assenteista paga anche il dirigente.
«Pa». Decisione della Corte dei conti.
Se il dipendente viene
condannato per assenteismo matura una responsabilità
contabile per il danno apportato all'ente tanto nei suoi
confronti quanto per il suo dirigente, a cui deve essere
imputato l'omesso controllo. E tale responsabilità deve
essere imputata per due terzi a carico del dipendente e per
il restante terzo a carico del dirigente.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella
sentenza 06.08.2014 n. 139 della
Sez. giurisdizionale della Corte dei conti
della Toscana con cui sono stati condannati tanto
il dipendente resosi responsabile di assenteismo, con
sentenza penale di patteggiamento, quanto il dirigente, a
cui è stata imputata la scarsa vigilanza.
È quest'ultimo, in
particolare, un elemento innovativo che deve essere
sottolineato e che costituisce un pesante monito di cui i
dirigenti –ai quali, si rammenta, il legislatore ha
conferito i poteri e le capacità del privato datore di
lavoro– devono tenere adeguatamente conto.
Il caso oggetto della pronuncia della magistratura contabile
fiorentina si basa sulla sentenza penale con cui è stato
accertato che il dipendente si assentava arbitrariamente
dall'ufficio per svolgere l'attività di maestro di tennis.
Al riguardo una ulteriore fonte di responsabilità per il
dipendente è data dallo svolgimento di questa seconda
attività senza la autorizzazione dell'ente.
Con riguardo a questo soggetto la sentenza ha ricordato che
costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza
contabile affermare «l'efficacia nel processo contabile
della sentenza di patteggiamento resa in sede penale».
Quanto al dirigente, che ovviamente non è stato destinatario
di alcuna condanna penale, alla base della sua condanna in
sede contabile è posta la seguente motivazione: «non ha
impedito, omettendo i dovuti controlli interni, il
comportamento delittuoso».
In particolare, ciò risulta dalla considerazione che il
dipendente prestava la sua attività nella stessa sede del
dirigente, il quale, quindi, avrebbe dovuto esercitare il
controllo della sua attività. È stata inoltre riscontrata la
«totale assenza di diligenza e la rilevante superficialità e
trascuratezza». Ed ancora occorre considerare altri elementi
che quanto meno qualificano la sua condotta come
caratterizzata da una colpa grave e dal non esercizio dei
normali doveri di un dirigente. In particolare, il modo di
vestire con cui spesso il dipendente si presentava in
ufficio, cioè la tenuta da tennis. Da qui la seguente
conclusione: «il grado di esigibilità della condotta
canonizzata dalla normativa nella concreta gestione integra,
nella specie, l'elemento soggettivo minimo (colpa grave)
previsto dalla struttura della responsabilità
amministrativa».
Sono molto importanti anche le regole adottate dalla Corte
dei conti della Toscana per la quantificazione del danno.
Secondo i giudici contabili occorre considerare in primo
luogo i compensi illegittimamente percepiti per i periodi in
cui il dipendente si è arbitrariamente assentato. A tale
voce si devono sommare, poi, i compensi illegittimamente
percepiti per avere svolto una seconda attività senza
l'autorizzazione dell'ente e i danni apportati all'immagine
dell'ente.
Nella quantificazione dei danni apportati all'ente per il
mancato svolgimento della normale attività lavorativa a
causa delle assenze arbitrarie, infine, i due terzi vanno
posti a carico del dipendente e la restante parte a carico
del dirigente per l'omesso controllo. Fatto, quest'ultimo,
che costituisce un'altra indicazione innovativa
(articolo Il Sole 24 Ore
del 09.09.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuove assunzioni con margini di spesa.
Gli enti locali possono continuare ad utilizzare per nuove
assunzioni nell'anno corrente eventuali margini di spesa
originati da cessazione di personale non utilizzati negli
anni precedenti.
Lo ha affermato la Corte dei conti -
Veneto, col
parere
24.07.2014 n. 401, confermando il costante
indirizzo interpretativo della giurisprudenza contabile
volto a consentire il cumulo dei «resti» relativi alla
percentuale assunzionale annuale non utilizzata dall'ente
sottoposto al Patto di stabilità, al fine di raggiungere la
quota necessaria ad espletare la procedura finalizzata
all'assunzione di unità di personale a tempo indeterminato,
rispettando, comunque, i vincoli di spesa ed assunzionali
vigenti.
La pronuncia assume rilievo soprattutto alla luce
di quanto prevede l'art. 3, comma 5, del recente dl 90/2014,
ai sensi del quale «A decorrere dall'anno 2014, è consentito
il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un
arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della
programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e
contabile».
Secondo la Corte veneta, l'interpretazione
offerta dal mero dato testuale conduce a esiti non
soddisfacenti, non sembrando consentire più infatti
l'utilizzo dei resti, dal momento che la norma sembrerebbe
espressamente volta, abrogando l'art. 76, c. 7, del dl
112/2008, a regolare in modo assolutamente innovativo i
vincoli assunzionali.
Tuttavia in tal modo si perverrebbe a
una inaccettabile e non consentita divaricazione della
disciplina vincolistica tra gli enti sottoposti al Patto e
quelli non sottoposti al Patto. Di conseguenza, va preferito
un approccio ermeneutico di tipo logico-sostanziale che
tenga conto dell'identità di ratio che permea le
rispettive normative vincolistiche
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2014). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 10.09.2014, "Rettifica
del decreto 4 settembre 2014, n. 8049 «Quinto aggiornamento
dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)»" (decreto
D.G. 08.09.2014 n. 8137). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 09.09.2014, "Quinto
aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 04.09.2014 n. 8049). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 37 dell'08.09.2014, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.08.2014, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 01.09.2014 n. 111). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
08.09.2014 n. 208 "Proroga dell’ordinanza contingibile e
urgente 06.08.2013, concernente la tutela dell’incolumità
pubblica dall’aggressione dei cani"
(Ministero della Salute,
ordinanza 28.08.2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuovo regolamento dell’Albo nazionale dei
gestori ambientali
(ANCE Bergamo,
circolare 05.09.2014 n. 168). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Efficienza energetica: pubblicato il decreto di
attuazione della direttiva 2012/27/UE
(ANCE Bergamo,
circolare 05.09.2014 n. 167). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Obblighi del datore di lavoro dell’impresa
affidataria – art. 97 del decreto legislativo 09.04.2008, n.
81 e s.m.i.
(ANCE Bergamo,
circolare 05.09.2014 n. 162). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Prevenzione incendi: pubblicate le regole
tecniche per asili nido, aerostazioni e interporti (ANCE
Bergamo,
circolare 05.09.2014 n. 161). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: DPR 09.07.2010, n. 159 - "Regolamento recante
i requisiti e le modalità di accreditamento delle agenzie
per le imprese, a norma dell'articolo 38, comma 4, del
decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 133" -
Modalità di trasmissione delle dichiarazioni di conformità
al SUAP (Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 03.09.2014 n. 151561 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comunicazioni relative a casi di presunta
violazione urbanistico-edilizia (Regione Lombardia,
nota 03.09.2014 n. 11333 di prot.). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Documento unico di regolarità contributiva: •
Verifica autodichiarazione e invito a regolarizzare • Durc
rilasciato ai sensi dell’art. 13-bis, comma 5, del decreto
legge 07.05.2012, n. 52. Precisazioni (INPS,
messaggio 02.09.2014 n. 6756 - link a www.inps.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
F. Gavioli,
Contratti di concessione e appalti pubblici: verso un nuovo
Testo Unico (08.09.2014 - tratto da
www.ispoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Parisi e P. Mazza,
Sblocca Italia, in arrivo una nuova detrazione per ridurre
il rischio sismico (06.09.2014 - tratto da
www.ispoa.it). |
APPALTI:
F. Gavioli,
Certificazione di qualità negli appalti: un traguardo per
l’impresa (31.07.2014 - tratto da www.ipsoa.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Gare
aperte a raggruppamenti sovrabbondanti.
Il chiarimento del presidente dell'Anac Raffaele
Cantone.
È illegittimo escludere dalle gare di appalto pubblico i
raggruppamenti temporanei di imprese che documentino
requisiti di partecipazione molto superiori a quelli
richiesto dal bando di gara; per escludere il raggruppamento
«sovrabbondante» la stazione appaltante deve avere accertato
se vi sia stato un reale intento anticoncorrenziale.
È quanto afferma il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone,
con il
comunicato 03.09.2014, diffuso ieri, che ritorna
su considerazioni già espresse nella determinazione 4/2012,
al fine di chiarire in quale misura sia legittima
l'esclusione del raggruppamento cosiddetto sovrabbondante
per violazione delle norme in materia di concorrenza.
In particolare il comunicato afferma che la costituzione di
un raggruppamento che presenti connotazioni «macroscopicamente»
anticoncorrenziali potrebbe configurare una intesa
finalizzata a falsare e/o restringere la concorrenza e
perciò illegittima.
Ciò detto, però, la possibilità di escludere i concorrenti
deve fondarsi sulla verifica delle concrete possibilità di
frapporre ostacoli alla corretta dinamica concorrenziale da
parte del raggruppamento «sovrabbondante». Va quindi
escluso a priori che sia vietata la costituzione di
raggruppamenti «sovrabbondanti» i quali, pertanto, sono
legittimi: «è sempre consentita la possibilità di
costituire raggruppamenti temporanei, anche di tipo
sovrabbondante», dice il comunicato e «l'esclusione
non potrà mai essere automatica».
Dovrà invece essere la stazione appaltante, qualora ravvisi
possibili profili anticoncorrenziali, a «valutare in
concreto la situazione di fatto, richiedendo ai concorrenti
le relative giustificazioni». Fra queste ragioni
(legittime) il comunicato cita gli «elementi legati ad
eventuali stati di necessità, in termini di attuale capacità
produttiva», così come «ogni altro fattore rientrante
nelle libere scelte imprenditoriali degli operatori
economici, come l'opportunità ovvero la convenienza di
partecipare in raggruppamento alla luce del valore, della
dimensione o della tipologia del contratto».
In sostanza le imprese sono libere di organizzarsi e non
esiste una legittima esclusione automatica, ma dovrà essere
il committente ad accertare l'intento e l'effetto
anticoncorrenziale
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2014). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: OSSERVATORIO VIMINALE/
Dipendente ineleggibile.
Prestare servizio nell'ente è causa ostativa.
Non rileva che vi sia una convenzione con un comune
limitrofo.
Sussiste la causa di ineleggibilità, ai sensi dell'art. 60,
comma 1, n. 7 del dlgs 267/2000, nei confronti di un
dipendente che presta servizio a tempo parziale presso
l'ente, in virtù di una convenzione con un comune limitrofo,
e che si è candidato alla carica di consigliere comunale in
una lista già ammessa dalla commissione elettorale
circondariale? Nel caso in cui il dipendente fosse
considerato ineleggibile, l'amministrazione comunale quale
strada dovrebbe intraprendere?
La giurisprudenza ha chiarito che le cause di ineleggibilità
sono previste allo scopo di garantire l'uguale e libera
espressione del voto, tutelata dall'art. 48, comma 1, della
Costituzione, rispetto a qualsiasi possibilità di captatio
benevolentiae esercitata dal candidato o di metus potestatis
nei confronti dello stesso e la loro violazione determina
l'invalidità dell'elezione del soggetto ineleggibile, che
non abbia tempestivamente rimosso la causa ostativa alla
candidatura.
Il fondamento costituzionale della previsione
delle ipotesi di ineleggibilità alla carica di
amministratore locale va anche ravvisato nell'art. 51, comma
1, della Costituzione, dal quale si desume che il diritto di
accesso alle cariche elettive non è incondizionato, ma può
essere esercitato solo in presenza dei «requisiti stabiliti
dalla legge».
In tale contesto la ratio della ineleggibilità
alla carica di consigliere comunale dei dipendenti di un
comune risiede nella generale discrezionale valutazione del
legislatore, secondo cui la particolare posizione pubblica
di tali soggetti nei confronti del cittadino-elettore è, di
per sé sola, se non tempestivamente abbandonata,
astrattamente idonea a condizionare la libera espressione
del voto, in ragione della possibilità che si ingenerino,
tra candidato-dipendente ed elettore, rapporti tali da poter
inquinare in radice la libertà di scegliere i propri
rappresentanti senza condizionamenti specifici (cfr. Corte
di cassazione, sezione I civile, sentenza 11/03/2005, n.
5449).
Tanto premesso, in linea generale, ai fini
dell'esatta individuazione della nozione di «dipendente
ineleggibile», la giurisprudenza di legittimità, muovendo
dal presupposto che la norma in questione parla
genericamente di «dipendenti», senza altra specificazione,
si è orientata nel senso di valorizzare gli elementi del
rapporti implicanti la subordinazione del prestatore di
lavoro rispetto all'ente pubblico e di ritenere irrilevante
che il rapporto medesimo sia di pubblico impiego o di
diritto privato. Sotto tale profilo, è stato altresì
precisato che la natura dell'atto costitutivo del rapporto
di lavoro o la durata di quest'ultimo non valgono a
escludere l'esistenza della causa di ineleggibilità (cfr.
Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 15/09/1995,
n. 9762: Id, sentenza 03.12.1987, n. 8975).
Alla luce
di tali considerazioni, nella fattispecie è ravvisabile la
prospettata situazione di ineleggibilità, atteso che il
dipendente in parola, sia pure a tempo parziale, presta
servizio presso l'amministrazione comunale dell'ente e deve
ritenersi nella stessa inserito, sia sotto il profilo
organizzativo e funzionale sia sotto quello gerarchico e
disciplinare.
In merito alle iniziative praticabili da parte
dell'amministrazione comunale, l'art. 41, comma 1, del dlgs
n. 267 del 2000, dispone che «Nella prima seduta il
consiglio comunale e provinciale, prima di deliberare su
qualsiasi altro oggetto, ancorché non sia stato prodotto
alcun reclamo, deve esaminare la condizione degli eletti a
norma del capo II titolo III e dichiarare la ineleggibilità
di essi quando sussista alcuna delle cause ivi previste,
provvedendo secondo la procedura indicata dall'articolo 69».
Pertanto, in conformità al generale principio per cui ogni
organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità
dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la
valutazione in ordine alla eventuale sussistenza di
un'ipotesi ostativa all'esercizio del mandato elettorale è
rimessa al consiglio comunale del quale l'interessato la
parte
(articolo ItaliaOggi del 05.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Come è classificato il reato di deposito incontrollato di
rifiuti?
Quando il deposito dei rifiuti manca dei requisiti per
essere qualificato come temporaneo, e non è configurabile né
un deposito preliminare, realizzato in vista di successive
operazioni di smaltimento, né una messa in riserva,
realizzato in vista di successive operazioni di recupero, si
ha un deposito incontrollato o abbandono di rifiuti che non
prelude ad alcuna operazione di smaltimento o recupero.
Per “deposito incontrollato” si intende, infatti, un
accumulo di rifiuti sul sito. Si differenzia dall’abbandono
per l’inesistenza dell’elemento dell’occasionalità.
L’abbandono viene ripetuto sistematicamente e in modo
permanente.
A tal proposito, la Cassazione [1]
ha ritenuto che il reato di deposito incontrollato di
rifiuti sia un reato di pericolo. L'offesa al bene giuridico
protetto, quindi, consiste in un nocumento potenziale dello
stesso, che viene soltanto minacciato, e può parlarsi di
“pericolo” quando, secondo un giudizio ex ante e
secondo la migliore scienza ed esperienza, appare probabile
che dalla condotta consegua l'evento lesivo.
Già precedentemente si era affermato che in tema di deposito
incontrollato di rifiuti la fattispecie penale costituiva
reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre il
concreto accertamento della effettiva esistenza di un
nocumento, sia pure potenziale, per l’ambiente
[2].
I reati di pericolo, infatti, configurano una estensione e
rafforzamento della tutela penale. La minaccia della pena è
connessa all’esposizione a pericolo di un bene al fine di
creare un deterrente maggiore (28.07.2014 - link a www.ambientelegale.it).
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[1] Cass. Sez. III, 23.05.2012, n. 19435. Ma già
Cassazione, 23.04.2010, n. 15680
[2] Cassazione, 23.04.2010, n. 15680 |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E' legittimo estendere la nozione di 'acque superficiali'?
Ai sensi dell’art. 54, c. 1, lett. c), del D.Lgs n. 152/2006,
si intendono per “acque superficiali” le acque interne, ad
eccezione delle sole acque sotterranee, le acque di
transizione e le acque costiere.
Alla lettera l) del medesimo comma si specifica poi che
“corpo idrico superficiale” è un elemento distinto e
significativo di acque superficiali, quale un lago, un
bacino artificiale, un torrente, un fiume o canale o una
parte di un torrente, fiume o canale, nonché di acque di
transizione o un tratto di acque costiere.
“Corpo idrico fortemente modificato”, invece (lett. n), è un
corpo idrico superficiale la cui natura, a seguito di
alterazioni fisiche dovute ad una attività umana, è
sostanzialmente modificata.
La Corte Costituzionale (sentenza del 27.06.2012, n.
159) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per
contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost,
l’art. 11 della l.r. Toscana n. 41 del 2011 nella parte in
cui prevede che ricada nella nozione di “acque
superficiali”, oltre la intera area occupata dal “corpo
idrico”, secondo la definizione che di esso è data dall’art.
54, comma 1, lettere l) ed n), del D.Lgs. n. 152 del 2006,
anche la fascia territoriale di pertinenza, limitrofa ad
esso, sino ad un massimo di dieci metri dal ciglio di sponda
o dal piede esterno dell’argine, ove esistente.
Nell’estendere la nozione di acque superficiali, infatti, il
legislatore regionale ha esteso, al di là dell’ambito
oggettivo fissato dal legislatore statale, il regime
esonerativo previsto dal comma 4 del d.lgs. n. 152 del 2006
per le sole acque superficiali, così come definite dall’art.
54, comma 1, lettera c). E, in tal modo, si è modificata la
disciplina relativa alla gestione dei rifiuti, che la
costante giurisprudenza ha ascritto alla materia “tutela
dell’ambiente e dell’ecosistema”, riservata alla
legislazione esclusiva dello Stato.
Così operando si esulerebbe dagli ambiti di competenza
affidati alla potestà legislativa delle Regioni
(28.07.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Se
un'azienda effettua un trasporto di rifiuti e il
destinatario respinge il carico, cosa dovrà scrivere
l'azienda nel formulario per giustificare il trasporto della
quantità respinta?
Una lettura combinata dell’art. 193 del D.Lgs. 152/2006 e
della Circolare n. Gab/Dec/812/98 lascia intendere che,
qualora parte del carico sia stato respinto, il motivo del
parziale respingimento vada specificato nel formulario. Il
destinatario dei rifiuti deve, infatti, indicare se il
carico è stato accettato o respinto e, salvo il caso in cui
sia stato respinto per intero, precisare la quantità di
rifiuti ricevuta, corredata da data, ora e firma.
Il trasportatore dovrà registrare, nei tempi stabiliti per
legge (almeno entro dieci giorni lavorativi dalla
effettuazione del trasporto, ai sensi dell’ art. 190, comma
1, lett. b), del D.Lgs. 152/2006), il movimento effettuato,
riportando il peso realmente riscontrato all’arrivo dal
destinatario. In virtù della necessità di attuare una
reciproca integrazione tra registro di carico e scarico e
formulario, si dovrà riportare nella voce “annotazioni” del
registro, la notizia della parziale accettazione del carico
e delle relative motivazioni addotte dal destinatario.
Nel caso in cui il carico fosse respinto per intero (ipotesi
contemplata nella quinta sezione, casella 11, del
formulario, in cui figura la voce “respinto per le seguenti
motivazioni”), nonostante l’intero carico (e non solo una
parte di esso) sia restituito al mittente, il trasportatore
dovrebbe comunque effettuare la registrazione con le stesse
modalità, ri-portando nello spazio relativo alla quantità
dei rifiuti un peso pari a “0” Kg e specificando nelle
annotazioni che il carico è stato interamente respinto a
causa delle motivazioni addotte dal destinatario
(21.07.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
caso di scarichi di sostanze pericolose l'AUA può avere
durata inferiore a 15 anni?
Il Decreto del Presidente della Repubblica 13.03.2013, n.
59 all’art. 3, c. 5, dispone che l'autorizzazione unica
ambientale contiene tutti gli elementi previsti dalle
normative di settore per le autorizzazioni e gli altri atti
che sostituisce e definisce le modalità per lo svolgimento
delle attività di autocontrollo, ove previste, individuate
dall'autorità competente tenendo conto della dimensione
dell'impresa e del settore di attività.
In caso di scarichi contenenti sostanze pericolose, di cui
all'articolo 108 del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152, i gestori degli impianti autorizzati devono presentare,
almeno ogni quattro anni, una comunicazione contenente gli
esiti delle attività di autocontrollo all'autorità
competente, la quale può procedere all'aggiornamento delle
condizioni autorizzativo qualora dalla comunicazione emerga
che l'inquinamento provocato dall'attività e dall'impianto è
tale da renderlo necessario. Tale aggiornamento non modifica
la durata dell'autorizzazione
(07.07.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali
sono le differenze tra la procedura semplificata e la
procedura ordinaria? E quali i criteri da seguire nella
scelta dell'una o dell'altra?
La procedura semplificata si distingue da quella ordinaria
sotto vari aspetti. Innanzitutto, l’Ente al quale presentare
l’istanza è sempre la Provincia per la procedura
semplificata, mentre la Regione (o la Provincia, se delegata
dalla Regione) per la procedura ordinaria. La Conferenza di
servizi non è prevista per la procedura semplificata, mentre
è sempre convocata, entro 30 giorni dal ricevimento della
domanda, per la procedura ordinaria.
L’istruttoria ha una
durata di 90 giorni nella procedura semplificata, mentre di
150 giorni per la ordinaria (salvo in entrambi i casi
interruzione dei termini per integrazioni). Il meccanismo
del silenzio assenso opera solo nell’ambito della procedura
semplificata, ove l’attività può essere intrapresa decorsi
90 giorni, mentre nell’ambito della procedura ordinaria è
necessario il provvedimento autorizzativo, emanato
dall’autorità competente. L’efficacia dell’autorizzazione
ordinaria è legata all’accettazione da parte dell’Ente
competente delle garanzie finanziarie.
L’autorizzazione ordinaria ha durata di 10 anni, mentre la
semplificata 5 anni. Il rinnovo dell’autorizzazione deve
essere chiesto 90 gg. prima della scadenza per la procedura
semplificata, mentre 180 gg. prima della scadenza per la
procedura ordinaria.
Si apre la possibilità di scegliere l’una o l’altra solo per
le operazioni di recupero.
Ai fini di una scelta responsabile si ritiene doversi
presentare attenzione ai rifiuti che si intende gestire (Cer,
provenienza, tipologia, eventuali concentrazioni di sostanze
pericolose), alle operazioni di recupero che si intendono
effettuare, al prodotto/mps che si intende ottenere dalle
operazioni di recupero, ai quantitativi massimi annuali di
rifiuti che si intende gestire in funzione delle operazioni
di recupero, alle caratteristiche dell’impianto
(07.07.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel
formulario di identificazione del rifiuto, il percorso va
sempre definito?
L’art. 193 del D.Lgs 152/2006 detta il contenuto minimo del
formulario, che deve indicare anche il percorso
dell’instradamento. In caso di compilazione incompleta o
inesatta del formulario, infatti, ai sensi dell’art. 258 del D.Lgs. 152/2006, sono previste apposite sanzioni, diversamente
graduate, a seconda che si tratti di rifiuti pericolosi o
non pericolosi.
Il modello del formulario di identificazione è contenuto in
allegato al D.M. n. 145/1998.
Nel modello nella sezione terza alla voce “percorso” si
accompagna la dicitura “se diverso dal più breve”, da
intendersi come quello effettuato nel minor tempo possibile,
avendo riguardo al mezzo prescelto, alla distanza
chilometrica fra il luogo di partenza e la destinazione del
rifiuto, alla viabilità e senza soste intermedie e/o
operazioni di trasbordo non autorizzate.
Se ne deduce che deve essere indicato l’itinerario seguito,
solo se, per questioni non dipendenti dalla volontà del
conducente, sia diverso da quello più breve prestabilito
alla partenza
(07.07.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Cosa
si intende per intermediazione di rifiuti?
Ai sensi e per gli effetti dell’art. 183, lett. l), TUA, a
seguito del recepimento della direttiva 98/2008/CE,
intervenuta con il d.lgs. 205 del 03.12.2010, che ha
(finalmente) introdotto le nuove definizioni, deve
intendersi per “intermediario” “qualsiasi impresa che
dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto
di terzi, compresi gli intermediari che non acquisiscono la
materiale disponibilità dei rifiuti”.
Il ruolo principale di un intermediario, pertanto, risulta
essere quello di anello di congiunzione tra gli attori
principali di un ciclo di gestione del rifiuto, ovvero il
produttore/detentore da una parte e il destinatario finale
(smaltitore o recuperatore e non anche il trasporto)
dall’altra: l’intermediario, più precisamente, si adopera
per assicurare al produttore la collocazione migliore, anche
sotto il profilo economico, del carico di rifiuti attraverso
una propria scelta dello stesso intermediario il quale
seleziona e collega i suddetti protagonisti sulla scorta
delle sue personali conoscenze.
Ciò che quindi caratterizza la figura in questione,
pertanto, è:
- la terzietà rispetto agli altri soggetti della filiera del
rifiuto (produttore –smaltitore);
- l’utilità economica derivante da tale operazioni.
- La detenzione, o meno, dei rifiuti.
A tal proposito –onde meglio definire tale figura- giova
prendere spunto dalla normativa civilistica relativa a tali
tipi di contratti, sulla base della quale la mediazione è
connaturata a dei presupposti ben definiti che pongono il
“mediatore” come colui che mette in relazione due o più
parti per la conclusione di un affare senza essere legato ad
alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza
o di rappresentanza (art. 1754 c.c.).
Presupposto peculiare per tale mediazione (o
intermediazione) è la previsione di una provvigione
necessariamente collegata alla conclusione della transazione
economica.
Le attività di intermediazione e di commercio vengono
considerate dal TUA quali attività di gestione dei rifiuti.
Infatti all’art. 183, lett. n) viene definita gestione: “la
raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei
rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli
interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento,
nonché le operazioni effettuate in qualità di commerciante o
intermediario”.
Ciò comporta che le stesse:
● devono essere autorizzate ai sensi dell’art. 212, comma 5,
del TUA (mediante iscrizione all’Albo Nazionale Gestori
Ambientali) per gli intermediari e i commercianti senza
detenzione dei rifiuti;
●
in caso di violazione di norme nella gestione dei rifiuti
sono assoggettabili alle sanzioni previste dal TUA agli
artt. 256 e ss.
(23.06.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Possono trasportarsi rottami metallici con i mezzi d'opera?
Ai sensi del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285,
art. 54, comma 1, lettera n), si classificano “mezzi
d’opera”: “i veicoli o complessi di veicoli dotati di
particolare attrezzatura per il carico e il trasporto di
materiali di impiego o di risulta dell'attività edilizia,
stradale, di escavazione mineraria e materiali assimilati
ovvero che completano, durante la marcia, il ciclo
produttivo di specifici materiali per la costruzione
edilizia. […] Tali veicoli o complessi di veicoli possono
essere adibiti a trasporti in eccedenza ai limiti di massa
stabiliti nell'art. 62 e non superiori a quelli di cui
all'art. 10, comma 8, e comunque nel rispetto dei limiti
dimensionali fissati nell'art. 61. I mezzi d'opera devono
essere, altresì, idonei allo specifico impiego nei cantieri
o utilizzabili a uso misto su strada e fuori strada”.
Con successiva Legge -23.12.1997 n. 454– viene
ampliata la categoria dei materiali indicati all’articolo
54, comma 1, lettera n).
All’articolo 11, viene, infatti, previsto che si possono
trasportare i materiali:
● impiegati nel ciclo produttivo delle imprese forestali e
quelli derivanti dalla raccolta e compattazione di rifiuti
solidi urbani e dallo spurgo di pozzi neri effettuati
mediante idonee apparecchiature installate sui mezzi
d’opera;
● dell’industria siderurgica compresi i coils e i laminati
grezzi, trasportati mediante idonee selle di contenimento
installate sui mezzi d’opera.
Tale elenco di materiali viene poi ulteriormente esteso
grazie all’art. 10, comma 21, del D.Lgs n. 285/1992 - Veicoli
eccezionali e trasporti in condizioni di eccezionalità -
così modificato dalla legge 29.07.2010, n. 120 il quale
stabilisce che “chiunque adibisce mezzi d'opera al trasporto
di cose diverse da quelle previste nell'art. 54, comma 1,
lettera n), salvo che ciò sia espressamente consentito,
comunque entro i limiti di cui all'articolo 62, nelle
rispettive licenze ed autorizzazioni al trasporto di cose, è
soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una
somma da euro 398 a euro 1.596 e alla sanzione
amministrativa accessoria della sospensione della carta di
circolazione da uno a sei mesi. […]”.
All’indomani della modifica apportata al comma 21 del D.Lgs.
n. 285/1992 dalla legge n. 120 del 2010, quindi, si è aperta
la possibilità di trasportare con i mezzi d’opera qualsiasi
tipologia di materiale, diverso da quello espressamente
previsto ai sensi dell’art. 54, comma 1, lett. n), del decreto
stesso.
A tal fine si rende, tuttavia, necessaria espressa menzione
nelle autorizzazioni e licenze al trasporto.
Per di più occorre il rispetto dei limiti di portata
massima, che, nello specifico non sono quelli indicati ai
fini della ordinarietà della circolazione ai sensi dell’art.
10, comma 8, bensì quelli indicati all’art. 62 cds .
Alla luce di quanto esposto si conclude pertanto che, a
condizione che si possegga autorizzazione specifica e che si
rispettino i limiti di massa previsti ai sensi dell’art. 62
cds è possibile trasportare sui mezzi d’opera qualsiasi
tipologia di materiale diverso da quello previsto all’ art.
54, comma 1, lettera n), e pertanto anche rottami
(09.06.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto:
Comune di Art. 79 del decreto legislativo n. 267/2000
- PERMESSI PER CONSIGLIERE COMUNALE E
CAPOGRUPPO CONSILIARE IN ENTE CON POPOLAZIONE SUPERIORE AI
34.000 ABITANTI.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta, che ad ogni buon
fine si allega in copia, con la quale sono stati richiesti
chiarimenti in merito ai permessi di cui all’art. 79 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, da attribuire ad un
consigliere del comune di ………nonché capogruppo consiliare,
specificando che l’ente in argomento ha una popolazione
superiore ai 34.000 abitanti.
Al riguardo, si rappresenta che l’art. 79 del citato decreto
legislativo n. 267/2000 dispone, al comma 1, che i
consiglieri comunali hanno diritto di assentarsi per la
partecipazione alle riunioni consiliari per l’effettiva
durata delle stesse e, tale diritto, comprende il tempo
necessario per raggiungere il luogo della riunione e
rientrare al posto di lavoro.
Il successivo comma 4 del medesimo articolo prevede,
inoltre, che il Presidente del consiglio e il Presidente dei
gruppi consiliari comunali con popolazione superiore a
15.000 abitanti, oltre ai permessi di cui al precedente
comma, hanno diritto di assentarsi dal posto di lavoro per
un massimo di 24 ore lavorative mensili, configurando nelle
stesso il tempo necessario per raggiungere il luogo della
riunione e il rientro al posto di lavoro.
Si soggiunge poi, che ai sensi del comma 5 del citato
articolo, i lavoratori dipendenti hanno diritto ad ulteriori
permessi “non retribuiti”, sino ad un massimo di 24
ore lavorative mensili, qualora risultino necessari per
l’espletamento del mandato.
Il successivo art. 80 dispone che i permessi di cui all’art.
79 sono retribuiti, dal datore di lavoro, per le ore o
giornate di effettiva assenza del lavoratore dal posto di
lavoro.
Risulta fondamentale che le attività svolte
dall’amministratore in questione siano correlate
esclusivamente alle funzioni amministrative ricoperte,
desunte da incarichi demandati all’amministratore dall’ente,
proprio in forza della carica rivestita presso lo stesso.
Per quanto attiene alle modalità di attestazione dei
permessi, si richiama il preciso obbligo per il lavoratore
dipendente di documentare, con apposita certificazione,
l’attività ed i tempi di espletamento del mandato (art. 79,
comma 6, T.U.O.E.L.).
In assenza di specifica norma regolamentare, l’attestazione
dell’utilizzo dei permessi può essere rilasciata dal
sindaco, dal segretario comunale, o dal segretario del
collegio cui partecipano gli amministratori interessati, se
prestabilito, o da un consigliere facente le veci di
segretario, ovvero dal presidente dell’adunanza.
Per quanto concerne, infine, la possibilità di sostituire
l’attestazione per i permessi con una autocertificazione, si
rappresenta che la dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà di cui all’art. 47 del DPR 28.12.2000, n. 445,
fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge,
ha la stessa validità legale dell’atto che sostituisce,
tanto più che, nella fattispecie, tale dichiarazione viene
effettuata da un amministratore locale investito di
pubbliche funzioni
(Ministero dell'Interno,
parere 10.06.2014
- link a http://incomune.interno.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
registro di carico/scarico rifiuti va conservato unitamente
al FIR?
Ai sensi dell’art. 190, comma 3 del D.Lgs n. 152/2006, “I
registri sono tenuti presso ogni impianto di produzione, di
stoccaggio, di recupero e di smaltimento di rifiuti, nonché
presso la sede delle imprese che effettuano attività di
raccolta e trasporto, nonché presso la sede dei commercianti
e degli intermediari. I registri integrati con i formulari
di cui all'articolo 193 relativi al trasporto dei rifiuti
sono conservati per cinque anni dalla data dell'ultima
registrazione, […]”.
Ai sensi del Decreto Ministeriale 01.04.1998 n. 145 “Regolamento
recante la definizione del modello e dei contenuti del
formulario di accompagnamento dei rifiuti”, art. 4, c. 3
“i formulari di identificazione costituiscono parte
integrante dei registri di carico e scarico dei rifiuti
prodotti o gestiti. A tal fine gli estremi identificativi
del formulario dovranno essere riportati sul registro di
carico e scarico in corrispondenza all'annotazione relativa
ai rifiuti oggetto del trasporto, ed il numero progressivo
del registro di carico e scarico relativo alla predetta
annotazione deve essere riportato sul formulario che
accompagna il trasporto dei rifiuti stessi”.
La circolare 04.08.1998, n. GAB/DEC/812/98 “Esplicativa
sulla compilazione dei registri di carico scarico dei
rifiuti e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti
trasportati individuati, rispettivamente, dal decreto
ministeriale 01.04.1998, n. 145, e dal decreto ministeriale
01.04.1998, n. 148”, al punto 1 lett. i), chiarisce che
“al fine di garantire un efficace controllo sulla
gestione e movimentazione dei rifiuti il legislatore ha
stabilito un rapporto di reciproca integrazione dei dati
riportati sul registro con quelli riportati sul formulario”.
Tale rapporto è previsto in modo espresso dall'art. 12,
comma 3, del decreto legislativo n. 22/1997 [all’epoca
vigente], e dall'art. 4, comma 3, del decreto ministeriale
n. 145/1998, e presuppone che il formulario sia conservato
nel medesimo luogo dove deve essere conservato il registro
di carico e scarico.
Si evince dalla normativa suesposta che i registri di carico
e scarico dei rifiuti, per la loro corretta tenuta, vadano
conservati unitamente al formulario, nel medesimo luogo
(03.06.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel
caso di variazione di denominazione sociale e autorizzazione
al trasporto, e' necessario cambiare registri c/s e FIR?
I modelli di registri di carico e scarico e dei formulari di
identificazione dei rifiuti sono stabiliti rispettivamente
dal:
- dm 148 del 1998,
- dm 145 del 1998.
Entrambe i provvedimenti prevedono che i frontespizi della
documentazione ambientale debbano contenere –inter alia–
la denominazione sociale e il codice fiscale dell’attività.
Tali dati peraltro sono necessari ai fini della vidimazione
di entrambe i documenti, non potendosi procedere alla
vidimazione dei frontespizi in bianco .
Ciò in quanto sia i registri che i FIR devono essere
immediatamente ricondotti alla specifica responsabilità del
soggetto predeterminato ed individuato che procede alla
produzione/gestione/trasporto dei rifiuti.
Alla luce di tale circostanza –seppur in assenza di una
precipua norma in merito– si ritiene che possa costituire
un’irregolarità nella tracciabilità l’utilizzo di registri e
di formulari aventi l’indicazione della società precedente
alla variazione della stessa, punibile ai sensi e per gli
effetti dell’art. 258 del TUA.
Per tale motivo si ritiene consigliabile recarsi presso la
Camera di Commercio competente al fine di richiedere o la
vidimazione della modifica del frontespizio da apportarsi
dinanzi all’addetto preposto, ovvero la vidimazione di nuovi
formulari e di nuovi registri, onde non incorrere in
denegate ipotesi di contestazioni
(03.06.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
L’Amministrazione che intende coprire un nuovo posto di cat.
D3, ha chiesto se sia possibile, ai sensi dell’art. 91, 4°
comma, del D.Lgs. n. 267/2000 e s.m.i., utilizzare una
graduatoria tuttora efficace per effetto delle successive
proroghe legislative, alla luce del fatto che la stessa
approvata in data 12.06.2008, si riferisce ad una procedura
concorsuale indetta in data 02.05.2007 quando i posti in
dotazione organica erano 2, successivamente variati in 3 in
data 09.04.2008 e riportati a 2 in data 24.04.2013, posti
attualmente coperti.
Una Amministrazione nel richiamare la pronuncia del Tar ha
formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta
interpretazione della norma recata dall’art. 91, 4° comma,
del D.Lgs. n. 267/2000 e s.m.i., ovvero alla possibilità di
utilizzare una graduatoria, tuttora efficace per effetto
delle successive proroghe legislative, la quale è stata
approvata in data 12.06.2008 e relativa ad una procedura
concorsuale indetta in data 02.05.2007 per il conferimento
di n. 1 posto (cat. D3). A tal fine, fa presente che in data
09.04.2008 è stata variata la dotazione organica portando da
n. 2 a n. 3 i posti previsti in dotazione organica per il
citato profilo per poi riportarli a n. 2 in data 24.04.2013,
posti attualmente coperti. Poiché l’attuale Amministrazione,
insediatasi nel giugno 2013, avrebbe intenzione di riportare
a n. 3 i posti in questione, si pone la questione relativa
alla possibilità di utilizzare la precitata graduatoria.
Al riguardo, com’è noto l’art. 91, comma 4 del D.Lgs. n.
267/2000 e s.m.i., stabilisce la durata delle graduatorie
concorsuali degli enti locali in tre anni e prevede la
possibilità della loro utilizzazione, per l’eventuale
copertura dei posti che si venissero a rendere
successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione per i
posti istituiti o trasformati successivamente all’indizione
del concorso. Come rilevato dal Tar con la richiamata
pronuncia n. 552/2013, “la ratio della previsione è
quella di evitare che le amministrazioni possano essere
indotte a modificare la pianta organica al fine di assumere
uno dei candidati inseriti in graduatoria”.
Relativamente, quindi, al caso rappresentato, per quanto è
dato desumere dalle notizie fornite, pare che al momento
dell’indizione del concorso, avvenuta in data 02.05.2007, i
posti in dotazione organica per il predetto profilo fossero
2, considerato che solo in data 09.04.2008 è intervenuta la
modifica della dotazione organica che li ha portati a tre.
Quindi, sembra di poter sostenere che già al momento
dell’assunzione del primo e secondo classificato della
graduatoria in esame, avvenute rispettivamente nell’agosto e
nell’ottobre 2008, si è contravvenuto al limite stabilito
dalla norma in commento, a nulla rilevando poi che, in
quell’occasione, si sia effettivamente proceduto alla
copertura di un solo posto, a causa della rinuncia
all’assunzione comunicata dal primo classificato.
Alla luce di quanto sopra, nell’ipotesi di una nuova
variazione della dotazione organica per i posti in discorso,
eventualmente deliberata dall’attuale Amministrazione, si è
dell’avviso che la predetta graduatoria, seppure efficace,
non possa essere utilizzata. Si deve ritenere, infatti, che
il vincolo stabilito dall’art. 91, comma 4, del D.Lgs. n.
267/2000 sia ancora pienamente valido e preponderante
rispetto all’estensione della validità delle graduatorie
(Ministero dell'Interno,
parere 29.05.2014
- link a http://incomune.interno.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Terre
e rocce da scavo: proponente ed esecutore del Piano di
Utilizzo sono figure distinte?
Ai sensi dell’art. 1. c. 1 del D.M. n. 161/2012 si
definisce:
● alla lett. q), “proponente: il soggetto che presenta il
Piano di Utilizzo”;
●
alla lett. r), “esecutore: il soggetto che attua il Piano di
Utilizzo”.
Alla luce delle definizioni suesposte, sembrerebbe,
pertanto, che le due figure coinvolte –quella del
proponente e quella dell’esecutore– debbano astrattamente
ritenersi distinte.
Ai sensi dell’art. 7, c. 1, del medesimo decreto, tuttavia,
viene affermato che “il Piano di Utilizzo […] nonché le
dichiarazioni rese conformemente all'articolo 6, devono
essere conservati presso il sito di produzione del materiale escavato o presso la sede legale del proponente e, se
diverso, anche dell'esecutore”.
Ciò determina che il Decreto Ministeriale ammette -seppur
in via implicita– che il proponente possa coincidere con
l’esecutore.
Ai sensi dell’art. 6 del DM 161 del 2012, si prevede
peraltro che, per le procedure di emergenza, la sussistenza
dei requisiti di cui all’art. 4 possano essere dimostrati
mediante una dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà nelle forme dell’allegato 7.
Il predetto allegato 7, si riferisce alla Dichiarazione di
Avvenuto Utilizzo, la quale, per espressa previsione di
legge, deve essere presentata a cura esclusiva
dell’esecutore.
Ad una prima lettura della norma sembrerebbe, pertanto, che
in caso delle procedure di emergenza l’esecutore debba anche
essere proponente.
A parere di chi scrive, tuttavia, il riferimento
all’allegato 7 è volto solo alla forma della modulistica e
non tanto agli oneri connessi alla procedura di emergenza,
di talché, la dichiarazione di emergenza e il successivo
piano di utilizzo potranno essere presentati anche dal
proponente, laddove diverso dall’esecutore.
A conforto di tale argomentazione valga anche il dettato
normativo.
Ed invero, l’art. 6 stabilisce che la dichiarazione debba
essere resa “nella forma dell’allegato 7”, mentre l’art. 12
relativo alla dichiarazione di avvenuto utilizzo prevede che
la stessa debba avvenire “in conformità dell’allegato 7”.
Ciò a conferma che il richiamo alla predetta documentazione
rileva solo per la forma che la stessa dovrà avere e non
tanto per l’obbligatorietà in capo all’esecutore di
presentarla .
Il che determina che, anche in relazione alle procedure di
emergenza, il proponente e l’esecutore possano -ma non
debbano– coincidere
(26.05.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Cosa
accade quando il peso verificato nell'impianto a
destinazione è inferiore a quello di partenza?
Il DM 01.04.1998 n. 145 consente alle aziende
di trascrivere il peso “a destino”. Nell’allegato B del
predetto decreto, peraltro, al punto 6) è prevista
l’indicazione in “kg o litri” e il “il peso da verificarsi a
destino”.
Apparentemente queste indicazioni potrebbero sembrare
alternative.
Tuttavia, la circolare 04.08.1998, n. GAB/DEC/812/98,
esplicativa sulla compilazione dei registri di
carico/scarico dei rifiuti e dei formulari di
accompagnamento dei rifiuti trasportati, al punto 1), lett.
t), stabilisce: “alla voce “quantità”, casella 6, terza
sezione, dell’allegato B, al decreto ministeriale n.
145/1998, deve sempre essere indicata la quantità di rifiuti
trasportati. Inoltre, dovrà essere contrassegnata la casella
relativa alla voce “Peso da verificarsi a destino” nel caso
in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di
un sistema di pesatura si possano, rispettivamente,
verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non
precisa corrispondenza tra le quantità di rifiuti in
partenza e quelle a destinazione”.
Da questa formulazione si comprende come queste indicazioni
non siano alternative, ma che occorre sempre indicare il
peso inevitabilmente approssimativo ma indicato con
competenza e prossimità in kg o litri ed eventualmente
prescegliere anche l’opzione di verifica a destinazione,
qualora ricorrano le condizioni prescritte dalla norma
(assenza di sistema di pesatura in partenza).
Il fatto di avvalersi della possibilità di verificare il
peso dei rifiuti trasportati presso il sito finale di
destinazione non esime affatto dall’indicare comunque un
peso indicativo all’atto di partenza dei rifiuti medesimi;
peraltro, verosimilmente, il peso di partenza e quello di
arrivo saranno differenti, o quantomeno le probabilità che
lo siano sono estremamente elevate.
Tale possibilità sussiste nelle cause richiamate dalla norma
e di seguito enunciate:
● non devono essere presenti sistemi di pesatura, rendendo
quindi impossibile provvedervi;
● a natura dei rifiuti deve essere tale da consentire
possibili variazioni nel peso stesso (circostanza che può
verificarsi con riferimento ai rifiuti liquidi).
Quindi in conclusione, la presenza di una di queste due
condizioni, giustifica la possibilità di procedere alla
verifica del peso effettivo presso il luogo di destinazione
dei rifiuti ed in quel modo potrà certamente riscontrarsi
una difformità tra il peso dichiarato e quello
successivamente accertato.
L’impianto di destinazione verificherà il peso, il quale,
considerato quanto sopra, sarà quello facente fede
(19.05.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
stampa dei registri tenuti in maniera informatica va
effettuata in coincidenza con gli adempimenti temporali
previsti per le annotazioni?
L’art. 190, comma 6, del D.Lgs 152/2006 sancisce che i
registri di carico e scarico siano gestiti secondo le
modalità dei registri IVA.
Da ciò consegue che, nonostante il previgente sistema
prevedesse la stampa, da effettuare sul modulo continuo, in
coincidenza con il termine previsto per l’annotazione, il
sistema attuale garantisce la possibilità, nei casi di
tenuta informatica dei registri, di effettuare la stampa
anche una sola volta all’anno e, tra l’altro, non
necessariamente su modulo continuo, potendosi altresì
utilizzare anche fogli formato A4.
Si chiarisce che, secondo
la disciplina IVA la tenuta dei registri contabili (il
registro di carico e scarico è assimilato ai registri
contabili) con sistemi meccanografici è considerata regolare
anche in mancanza della trasposizione su supporto cartaceo
dei dati, a patto che al momento del controllo i dati
risultino aggiornati su supporti magnetici e stampati
contestualmente alla richiesta degli organi di controllo e
in loro presenza.
La forma (o supporto) con il quale si tengono i registri
riguarda le modalità di gestione che segue le regole IVA e,
pertanto, ciò che conta non è la carta, ma il supporto
magnetico e la stampa all’atto del controllo e su richiesta
del controllore
(12.05.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Se
un'azienda effettua un trasporto di rifiuti e il
destinatario respinge il carico, cosa dovrà scrivere
l'azienda nel formulario per giustificare il trasporto della
quantità respinta?
Una lettura combinata dell’art. 193 del D.Lgs.
152/2006 e della Circolare n. Gab/Dec/812/98 lascia intendere
che, qualora parte del carico sia stato respinto, il motivo
del parziale rifiuto vada specificato nel formulario. Il
destinatario dei rifiuti deve, infatti, indicare se il
carico è stato accettato o respinto e, salvo il caso in cui
sia stato respinto per intero, precisare la quantità di
rifiuti ricevuta, corredata da data, ora e firma.
Il
trasportatore dovrà registrare, nei tempi stabiliti per
legge (almeno entro dieci giorni lavorativi dalla
effettuazione del trasporto, ai sensi dell’ art. 190, comma
1, lett. b), del D.Lgs.152/2006), il movimento effettuato,
riportando il peso realmente riscontrato all’arrivo dal
destinatario. In virtù della necessità di attuare una
reciproca integrazione tra registro di carico e scarico e
formulario, si dovrà riportare nella voce “annotazioni” del
registro, la notizia della parziale accettazione del carico
e delle relative motivazioni addotte dal destinatario.
Nel caso in cui il carico fosse respinto per intero (ipotesi
contemplata nella quinta sezione, casella 11, del
formulario, in cui figura la voce “respinto per le seguenti
motivazioni”), nonostante l’intero carico (e non solo
una parte di esso) sia restituito al mittente, il
trasportatore dovrebbe comunque effettuare la registrazione
con le stesse modalità, riportando nello spazio relativo
alla quantità dei rifiuti un peso pari a “0” Kg e
specificando nelle annotazioni che il carico è stato
interamente respinto a causa delle motivazioni addotte dal
destinatario
(12.05.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: Richiesta avanzata da un comune
concernente la disciplina dell’orario di lavoro dei
dipendenti degli enti locali in relazione al cumulo di
incarichi presso altre amministrazioni.
E’ stato chiesto se sia possibile svolgere l’attività
lavorativa relativa ai predetti incarichi oltre le 48 ore
settimanali previste dall’art. 4 del D.Lgs. 66/2003 come
modificato dal D.Lgs 213/2004 e se sia legittima
l’autorizzazione allo svolgimento di detti incarichi
rilasciata al dipendente da parte del Sindaco senza che il
segretario comunale, capo del personale, ne abbia
conoscenza.
Con una nota una Prefettura ha trasmesso la richiesta di
parere avanzata da un comune concernente la disciplina
dell’orario di lavoro dei dipendenti degli enti locali in
relazione al cumulo di incarichi presso altre
amministrazioni.
In particolare, è stato chiesto se sia possibile svolgere
l’attività lavorativa relativa ai predetti incarichi oltre
le 48 ore settimanali previste dall’art. 4 del Dlgs 66/2003,
come modificato dal D.Lgs. 213/2004, e se sia legittima
l’autorizzazione allo svolgimento di detti incarichi
rilasciata al dipendente da parte del Sindaco senza che il
segretario comunale, capo del personale, ne abbia
conoscenza.
Al riguardo, si fa presente che il predetto art. 4 nel
disporre, al comma 1, che i contratti collettivi
stabiliscono la durata massima settimanale dell’orario di
lavoro (36 ore per i dipendenti degli enti locali) dispone,
al successivo comma 2, che la durata media dell’orario non
può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni,
le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario.
Ai fini di detta disposizione il comma 3 prevede che la
durata media dell’orario di lavoro deve essere calcolata con
riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi.
Inoltre, il comma 4 dispone che i contratti collettivi
possono elevare il periodo di calcolo a sei mesi o anche a
dodici a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti
all’organizzazione. Per tale ultimo aspetto si evidenzia che
sino ad ora i contratti non hanno introdotto alcuna
specifica previsione. In caso di superamento, attraverso
prestazioni di lavoro straordinario delle 48 ore di lavoro
settimanale il comma 5 stabilisce che per le unità
produttive con più di 10 dipendenti il datore di lavoro è
tenuto ad informare, entro 30 giorni dalla scadenza del
periodo di riferimento, la Direzione provinciale del
lavoro-settore ispezione del lavoro competente per
territorio.
Per la verifica della media quadrimestrale di 48 ore, il
successivo art. 6, comma 1, esclude i periodi di ferie e i
periodi assenza per malattia. L’esclusione nel calcolo del
periodo di riferimento di tali periodi comporta, a parere
dello scrivente, lo scorrimento del medesimo periodo
relativo al solo lavoratore interessato di un numero di
giorni pari alle assenze per detti periodi. Analoga
esclusione viene disposta per le ore di lavoro straordinario
tramutate in riposi compensativi nell’ambito del
quadrimestre.
Inoltre, giova evidenziare che, come rilevato dal Ministero
del lavoro e delle politiche sociali con circolare n.
8/2005, le richiamate disposizioni legislative non vietano
prestazioni che superino, nell’arco di sette giorni, le 48
ore in quanto il periodo di riferimento sia un periodo più
ampio della settimana e comunque non superiore a quattro
mesi. Conseguentemente, nella settimana lavorativa si potrà
superare il limite delle 48 ore settimanali purché vi siano
settimane lavorative di meno di 48 ore in modo da effettuare
una compensazione e non superare il limite delle 48 ore
medie nel periodo di riferimento.
Stante quanto sopra si ritiene che il dipendente potrà
chiedere l’autorizzazione allo svolgimento di incarichi
presso altre amministrazioni rispettando il limite temporale
secondo le condizioni sopra evidenziate. Tale richiesta
dovrà essere rivolta al dirigente preposto all’Ufficio del
personale, che curerà i successivi adempimenti
(Ministero dell'Interno,
parere 27.03.2014
- link a http://incomune.interno.it). |
NEWS |
CONDOMINIO:
Il consumo non va «corretto».
Con i contabilizzatori non vengono più usati i coefficienti
in aumento.
Riscaldamento. La nuova tecnologia impone l'adozione di un
diverso calcolo di ripartizione delle spese.
Niente coefficienti
correttivi per la ripartizione della spesa, a seguito
dell'introduzione della contabilizzazione con il decreto
legislativo del 04.07.2014 n. 102.
Infatti, per favorire il contenimento dei consumi energetici
attraverso la contabilizzazione dei consumi individuali e la
suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi di
ciascun centro di consumo individuale, per la corretta
suddivisione delle spese connesse al consumo di calore per
il riscaldamento, l'importo complessivo deve essere
suddiviso in relazione agli effettivi prelievi volontari di
energia termica utile e ai costi generali per la
manutenzione dell'impianto, secondo quanto previsto dalla
norma tecnica Uni 10200 e successivi aggiornamenti.
La prima osservazione è che la norma Uni Cti 10200 (l'ultima
revisione è del febbraio 2013), nata con carattere
volontario, è divenuta obbligatoria. Il legislatore non
rimette però totalmente la definizione dei criteri della
spesa all'Uni. Sono considerati «effettivi» i «prelievi
volontari di energia termica utile», ovvero il calore che
viene prelevato dai singoli termosifoni mediante azione
sulla valvola termostatica. Sono inoltre considerati
connessi alla contabilizzazione anche «i costi generali per
la manutenzione dell'impianto».
Resta all'Uni (il quale ha delegato al Cti - Comitato
Termotecnico Italiano) il compito tecnico di individuare
come calcolare i prelievi volontari. Pertanto, nessuna
funzione legislativa viene assegnata a un organismo diverso
dalle Camere.
Deve quindi considerarsi non conforme alla legge il ricorso
ai cosiddetti "coefficienti correttivi". Questi, ai fini del
calcolo della quota per consumo volontario, tengono in
considerazione le dispersioni di calore degli appartamenti
in (presunta) posizione svantaggiata (come per gli
appartamenti posti all'ultimo piano). È un parametro non
previsto dalla legge che, invece, fa riferimento al solo
prelievo di calore dai corpi scaldanti.
Si consideri che, quando i cittadini-condòmini si saranno
abituati all'utilizzo delle valvole termostatiche,
probabilmente l'impianto di riscaldamento svolgerà il
proprio servizio in maniera totalmente difforme rispetto a
quanto siamo abituati. Oggi, infatti, pensiamo all'utilizzo
dell'impianto in condizioni standard, in cui, cioè, tutti
gli appartamenti sono scaldati. In questa circostanza,
risultano penalizzate le unità immobiliari in posizioni di
maggior dispersione.
Domani, però, molti appartamenti (anche
intermedi) potrebbero essere freddi in quanto poco o per
niente utilizzati. Ne consegue che un appartamento in un
piano intermedio oggi è scaldato da tutti i lati, mentre in
futuro così potrebbe non essere. In una situazione di questo
tipo appare insufficiente conteggiare le dispersioni del
solo ultimo piano in quanto anche altri si possono trovare
nella medesima situazione.
Del resto il concetto dei "consumi effettivi" è voluto dalla
Direttiva Ue alla quale si dovranno adeguare tutti gli Stati
Membri.
Va poi ricordato che la ripartizione della spesa effettuata
in maniera difforme dai principi evidenziati e dalla norma
Uni Cti 10200 prevede l'irrogazione di una sanzione
amministrativa da 500 a 2500 euro, oltre alla nullità della
delibera.
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Per l'impianto contatori o ripartitori.
I sistemi adottabili. Due tecnologie per le diverse
situazioni.
La «contabilizzazione»
dei consumi individuali e la suddivisione delle spese in
base ai «consumi effettivi» di ciascun centro di consumo
individuale è diventata obbligatoria, entro il 31.12.2016, nei condomini e negli edifici polifunzionali. Questa
importante novità può essere realizzata con due sistemi :
contatori di calore oppure ripartitori.
Contatore di calore
Il contatore è un apparecchio che conta, ovvero misura
tramite operazioni successive una determinata grandezza.
Come tutte le grandezze fisiche, ed in particolare come
tutte altre grandezze e gli altri servizi (energia
elettrica, gas, acqua, telefonia, eccetera) utilizzati negli
edifici, il calore è suscettibile di essere misurato.
L'unità di misura del calore è il kWh (kilowattora) o la
kCaloria (ora meno usata).
Nel caso degli impianti di riscaldamento, il vettore che
trasferisce l'energia in un'unità immobiliare è l'acqua
calda che arriva dalla caldaia ad una certa temperatura,
cede calore all'ambiente e torna in caldaia a temperatura
minore: per misurare il contenuto energetico che il fluido
vettore lascia in un appartamento, bisogna misurare la
portata Q (litri al secondo o al minuto) d'acqua circolante
ed il salto di temperatura Dt °C , che questa subisce tra
mandata e ritorno.
Lo schema di installazione del contatore di calore prevede
che l'impianto di una singola unità immobiliare abbia una
tubazione di ingresso (mandata) ed una tubazione di uscita
(ritorno). Il contatore viene quindi collegato tra le due
tubazioni e può così rilevare la portata circolante
(componente volumetrica del contatore come se fosse un
semplice contatore d'acqua) e la differenza di temperatura
tra mandata e ritorno. Così si riesce ad ottenere la misura
dell'energia che dipende sia dalla portata che dalla
differenza di temperatura.
Ripartitore
I ripartitori dei costi di riscaldamento sono invece
strumenti per «conteggiare» il calore emesso dai radiatori
all'interno degli appartamenti (unità di consumo).
I ripartitori consentono solo la determinazione del consumo
del calore di ogni radiatore come percentuale del consumo
totale di un condominio o di un gruppo di utilizzatori.
Per la determinazione del calore totale è quindi necessario,
misurare la quantità di combustibile consumato oppure la
quantità di calore emesso (per esempio mediante un contatore
centrale di calore). Il valore del consumo è un valore
approssimato del calore emesso dalla superficie di un
radiatore e consumato dall'utente nel periodo di conteggio.
Il valore di consumo è quindi un risultato che implica la
conoscenza di alcune caratteristiche dei dispositivi di
misura (ripartitori), della superficie dei radiatori e di
altre condizioni, comprese le incertezze circa i fattori di
valutazione e di montaggio (articolo Il Sole 24 Ore
del 09.09.2014). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensori con meno limiti.
Disabilità. Tra leggi e giurisprudenza.
Nella disciplina
condominiale l'installazione degli ascensori negli edifici
privati che ne sono ancora sprovvisti è stata oggetto di
interventi contraddittori, ma l'applicazione più recente
delle norme si mostra sempre favorevole anche per gli
impianti realizzati all'esterno dei fabbricati.
Le sentenze, nei periodi più risalenti, rivelavano posizioni
assai restrittive che però negli ultimi anni si sono
capovolte. Adesso le decisioni sono quasi sempre a favore
dei condomini che intendono realizzare l'opera.
La normativa, invece, ha subìto un processo inverso: dopo
una fase iniziale di mancanza di disposizioni specifiche in
cui si applicavano le norme codicistiche, è stato emanato un
complesso di previsioni (contenute nella legge 13/1989)
dirette a favorire, mediante varie misure, la realizzazione
delle opere necessarie per eliminare le barriere
architettoniche, fra cui si pongono innanzitutto gli
ascensori.
Ma l'articolo 27 della legge di riforma 220/2012,
dal 18.06.2013, ha aumentato la maggioranza prevista dal
testo originario dell'articolo 2, comma 1, della legge
13/1989, secondo cui era possibile approvare le delibere
relative ad innovazioni dirette ad eliminare le barriere
architettoniche, adottate in assemblea di seconda
convocazione, anche con un numero di voti che rappresentasse
un terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo
del valore dell'edificio; invece, dopo la riforma,
l'assemblea condominiale delibera con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la
metà del valore dell'edificio, rendendo così più difficile,
rispetto a prima, l'approvazione di queste delibere.
Va ricordato, però, che il diritto va applicato non solo
sulla base delle specifiche disposizioni di ciascun settore,
ma anche del coordinamento con le altre disposizioni
legislative e coi principi dall'ordinamento. La disciplina
giuridica sugli ascensori si dimostra allora meno
penalizzante di quella che risulterebbe dalla applicazione
della sola legge speciale (che pure era stata emanata
proprio per ampliare le tutele). Infatti, le stesse norme
del Codice civile consentono l'installazione di un ascensore
anche da parte di un solo gruppo di condomini o di un unico
condomino senza passare attraverso l'assemblea, grazie
all'articolo 1102 del Codice civile, che consente a ciascun
condomino di utilizzare e modificare le parti comuni per
installare –però a sue esclusive spese– ascensori, servoscala e altri apparecchi simili nella tromba delle
scale (Cassazione, sentenza 1781/1993).
E riguardo ai limiti all'installazione dell'ascensore, il
pregiudizio lamentato da alcuni condomini della originaria
possibilità di utilizzare le scale e l'andito occupati
dall'impianto non viola il divieto posto dall'articolo 1120,
comma 2, del Codice civile, quando risulta un godimento
migliore della cosa comune, seppure diverso da quello
originario (Cassazione, sentenza 4152/1994), anche perché è
legittima ogni innovazione che, nel comportare utilità per
tutti i condomini tranne qualcuno, determini per
quest'ultimo un pregiudizio solo limitato e non
intollerabile (Cassazione sentenza 20902/2010).
D'altra parte, in generale, i rapporti fra i condomini sono
regolati dal principio di solidarietà condominiale, secondo
cui la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio
implica il contemperamento dei vari interessi (Cassazione,
sentenza 18334/2012) e, nella valutazione comparativa delle
opposte esigenze (quella dei portatori di handicap a
installare l'ascensore e quella degli altri condomini a
continuare a fruire nella sua interezza della scala, che
viene ristretta senza tuttavia diventare inservibile),
prevale la prima in conformità ai principi costituzionali
della tutela della salute (articolo 32) e della funzione
sociale della proprietà (articolo 42) (Cassazione sentenza
2156/2012).
Neppure la disciplina sulle distanze determina limiti
all'installazione dell'ascensore, dato che non opera per gli
impianti indispensabili per una reale abitabilità
dell'appartamento, salvi gli accorgimenti idonei ad evitare
danni alle unità immobiliari altrui (Cassazione, sentenza
14096/2012), mentre gli ascensori esterni non ricadono sotto
l'applicazione dell'articolo 3, comma 2, della legge
13/1989, che dispone sì l'obbligo di rispettare le distanze
imposte dagli articoli 873 e 907 del Codice civile, ma solo
fra edifici distinti, restando così escluso l'ambito
condominiale (Cassazione, sentenza 10852/2014) (articolo Il Sole 24 Ore
del 09.09.2014). |
APPALTI:
Appalti, solidarietà in soffitta. Appaltatore salvo se il
subappaltatore non paga le tasse. Il
decreto sulle semplificazioni fiscali fissa cinque anni di
controlli per le società zombie.
Addio alla responsabilità fiscale negli appalti. Le società
in liquidazione, poi, saranno nel mirino del fisco per
cinque anni dalla cancellazione dal registro delle imprese.
La soglia per le comunicazioni black list è innalzata a 10
mila euro annuali dai 500 attuali e si allunga il tempo
critico in cui una società è considerata in perdita
sistemica da tre a cinque anni. Resta, infine, l'obbligo di
indicare in dichiarazione i crediti vantati nei confronti
della pubblica amministrazione.
Sono queste le modifiche
suggerite da Camera e Senato che hanno trovato spazio nel
decreto legislativo sulle semplificazioni fiscali pronto per
essere approvato nel prossimo consiglio dei ministri, i cui
contenuti ItaliaOggi è in grado di anticipare.
Società zombie. Nessun obbligo di dichiarazione nuovo ma per
le società cancellate dal registro delle imprese ci saranno
cinque anni di limbo fiscale. Cinque anni in cui il fisco
potrà accertare, riscuotere e liquidare i tributi e
contributi, sanzioni e interessi. La disposizione del dlgs
sulle semplificazioni prevede infatti che per le ragioni di
accertamento e controllo l'estinzione delle società ha
effetto, non dal momento della cancellazione della società
dal registro delle imprese, bensì trascorsi cinque anni
dalla richiesta della cancellazione.
Non solo. È introdotta
una responsabilità personale dei liquidatori che non
adempiono all'obbligo di pagare con le attività della
liquidazione alle imposte dovute. Questi soggetti, si legge
nella norma, «rispondono in proprio del pagamento delle
imposte» se non provano di aver soddisfatto i crediti
tributari con precedenza.
Responsabilità solidale addio. L'abrogazione della
responsabilità fiscale negli appalti trova casa nel decreto
legislativo sulle semplificazioni fiscali. Due righe per
cancellare i commi da 28 a 28-ter dell'articolo 35. La norma
stabiliva che in caso di appalto di opere o di servizi,
l'appaltatore avrebbe risposto in solido con il
subappaltatore, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo
dovuto, del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui
redditi di lavoro dipendente dovute dal subappaltatore
all'erario in relazione alle prestazioni effettuate
nell'ambito del rapporto di subappalto.
Resta però in capo
al committente, all'interno delle norme della legge
276/2003, la responsabilità come sostituto di imposta in
caso emergano situazioni di lavoro nero.
Scambio di informazioni Inps-Agenzia delle entrate. Per
rafforzare le attività di controllo sul corretto adempimento
degli obblighi fiscali sulle ritenute, l'Inps invierà
all'Agenzia delle entrate mensilmente i dati relativi alle
aziende e alle posizioni contributive dei dipendenti che la
stessa Inps gestisce.
Società in perdita sistemica. Nuove regole sulle società in
perdita sistematica subito in vigore. In deroga allo Statuto
del contribuente, le disposizioni che riscrivono le regole
sulle società apri e chiudi si applicano a decorrere dal
periodo d'imposta in corso alla data di entrata in vigore
dello stesso decreto. La norma amplia il periodo di
criticità delle società in perdita fiscale. Cinque anni di
perdite fiscali consecutivi invece dei tre attuali
renderanno la società non operativa a decorrere dal
successivo sesto periodo di imposta e non come attualmente
previsto dal quarto.
Comunicazioni delle operazioni con i paesi black list. La
comunicazione delle operazioni chiuse con paesi black list
(paesi non collaborativi dal punto di vista fiscale) diventa
annuale e cambiano gli importi. Gli operatori non dovranno
più comunicare telematicamente all'Agenzia delle entrate
tutte le operazioni intercorse di valore superiore ai 500
euro bensì quelle il cui importo complessivo annuale è
superiore a 10 mila euro.
La disposizione con il nuovo adempimento e la nuova soglia
si applica alle operazioni poste in essere nell'anno solare
in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Imballaggi sorvegliati speciali. Ora il Conai
diventa incaricato di servizio pubblico.
COLLEGATO AMBIENTE/La Camera sottopone il consorzio
a vigilanza Minambiente.
Ancora una volta il legislatore riscrive le regole di
funzionamento del Conai, il consorzio nazionale imballaggi.
Succede col ddl collegato ambientale (Atto Camera 2093) nel
testo per come modificato e approvato in Conmissione
Ambiente di Montecitorio, la scorsa settimana (si veda
ItaliaOggi di sabato).
Con un primo emendamento si rimette la vigilanza e il
controllo sui consorzi al ministero dell'ambiente. Ciò
lascia presumere che sia stata definitivamente accantonata
la previsione inizialmente contenuta in una delle bozze del
decreto Sblocca Italia (non ancora pubblicato in Gazzetta
Ufficiale), circolate prima del Cdm, che attribuiva le
medesime competenze all'Authority sul gas e l'energia. Con
un altro emendamento varato alla camera si afferma
espressamente che il sistema Conai ha «un incarico di
pubblico servizio».
Il Conai dovrà quindi sostituire i
comuni inadempienti nella raccolta differenziata su
richiesta del Minambiente. Cade quindi uno degli architravi
del sistema Conai-consorzi che risale al 1997 (auspici
allora i ministri Ronchi e Bersani) e cioè il legislatore
fissa gli obiettivi e sta poi al sistema delle imprese
organizzarsi su come raggiungerli. Ovviamente, fermo il
potere dell'amministrazione di sanzionare i comportamenti
scorretti: insomma un sistema evoluto di «commando and control».
Ma la stessa modifica contiene qualche elemento di
contraddizione. Infatti, viene inoltre affermato che
«L'attività dei Consorzi è sussidiaria e non può in alcun
modo limitare le attività di soggetti che operano secondo le
regole del mercato nel rispetto delle norme in materia di
gestione dei rifiuti, e deve garantire il riciclaggio e il
recupero dei rifiuti di imballaggio, con priorità per quelli
provenienti dalla raccolta differenziata, indipendentemente
dalle contingenti condizioni di mercato.»
Insomma, da una
parte il sistema Conai diventa incaricato di pubblico
servizio mentre dall'altra non deve limitare la concorrenza.
Nulla viene fatto invece sulla privativa comunale sui
rifiuti, questa si limitativa delle concorrenza dei soggetti
provati. Viene, inoltre, previsto il sistema del vuoto a
rendere su cauzione per gli imballaggi in vetro di birra e
acqua minerale servite al pubblico da alberghi e residenze
di villeggiatura, ristoranti, bar e altri locali pubblici;
con il divieto di utilizzo di imballaggi non in vetro per la
vendita di acque minerali e birra. Va ricordato che il
sistema del vuoto a rendere è previsto dalla normativa
vigente in materia di imballaggi, ma non è obbligatorio come
prevederebbe questa modifica.
Insomma, in attesa degli
sviluppi della discussione in aula e del parere delle
commissioni, le modifiche approvate sembrano volte a
caratterizzare l'attività consortile come pubblica,
estendendone i compiti e la responsabilità dal ritiro,
recupero e riciclaggio alla effettuazione della raccolta
differenziata, sia pure in sostituzione dei comuni
inadempienti. A questa si aggiunge l'ulteriore affermazione
sulla libertà di concorrenza volta a favorire l'operatività
dei sistemi autonomi
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione rifiuti più qualificata.
Al via verifiche periodiche sull'idoneità professionale.
Dal 7 settembre operativa la riforma dell'Albo nazionale dei
gestori ambientali.
Semplificazione delle procedure amministrative e spinta
sulla qualificazione professionale degli operatori.
Queste,
insieme alla razionalizzazione delle categorie d'attività e
alla rivisitazione dei requisiti necessari per l'iscrizione,
le parole d'ordine che informano la nuova organizzazione
dell'Albo nazionale dei gestori ambientali, sancita dal dm Minambiente
03.06.2014, n. 120 (pubblicato sulla Gazzetta
ufficiale del 23.08.2014 n. 195).
Il nuovo regolamento dell'Albo cui devono iscriversi (ai
sensi del dlgs 152/2006, cd. «Codice ambientale») i soggetti
coinvolti nella raccolta e trasporto di rifiuti, esplica la
sua efficacia dal 07.09.2014, data a partire dalla
quale sostituisce la storica e omonima disciplina introdotta
dal dm 28.04.1998 n. 406.
Nuove categorie d'attività. Fanno il loro esordio nell'Albo
gestori tre nuove categorie d'iscrizione: la «3-bis»,
dedicata a distributori, installatori e centri di assistenza
di apparecchiature elettriche ed elettroniche che ritirano i
relativi rifiuti (cd. «Raee») e li gestiscono in via
semplificata ex dm 65/2010; la «6», riservata alle imprese
che effettuano il solo esercizio di trasporto
transfrontaliero di rifiuti; la «7», destinata agli
operatori logistici del trasporto intermodale di rifiuti.
In
relazione ai gestori di Raee, è utile ricordare come la
nuova disciplina di riferimento sia dal 12.04.2014
rappresentata dal dlgs 49/2014, provvedimento che ha (quasi
integralmente) sostituito il precedente dlgs 151/2005
lasciando però in vita il dm 65/2010 che (già) prevedeva
particolari regole da osservare per la gestione in modo
semplificato dei rifiuti (ossia in deroga all'ordinario
regime autorizzatorio) da parte dei citati operatori che
provvedono a ritirarli dalla propria utenza.
Ciò che ne
risulta è un'articolata disciplina semplificata per
raccolta, deposito e trasporto dei Raee costituita dal
combinato disposto delle norme previste dal nuovo dlgs
49/2014 e dal dm 65/2010. Disciplina che, seppur
declinandosi in modo diverso sui singoli operatori
coinvolti, sancisce per tutti l'obbligo di iscriversi
(sempre in modo «semplificato», ossia tramite mera
comunicazione) a un'apposita categoria dell'Albo gestori
ambientali per il ritiro e la movimentazione dei
tecno-rifiuti.
Ma con la rilevante eccezione (articolo 11, dlgs 49/2014) per cui il raggruppamento di grandi
quantitativi di Raee è permesso ai distributori di Aee solo
ove alla relativa movimentazione provvederà poi un operatore
professionale iscritto all'Albo in via ordinaria. La nuova
categoria di attività dedicata agli operatori del trasporto
intermodale accoglierà invece i soggetti (ora obbligati
anche alla parallela iscrizione al Sistri per il
tracciamento telematico dei rifiuti) presenti presso
stazioni ferroviarie, interporti e altri scali merci e ai
qual sono affidati rifiuti in attesa della presa in carico
da parte dei successivi trasportatori.
Requisiti soggettivi per iscrizione. A differenza della
pregressa disciplina, le eventuali condanne per reati non
impediranno l'iscrizione qualora siano decorsi almeno 10
anni dal passaggio in giudicato della sentenza, sia stata
concessa la sospensione condizionale della pena e sia
intervenuta l'estinzione del reato o sia stata ottenuta la
riabilitazione. Ancora, la soggezione a stato di
liquidazione o di procedura concorsuale (d'insolvenza)
osterà solo in fase di prima iscrizione dell'azienda, ma non
potrà costituire causa di cancellazione dall'Albo se
intervenuta successivamente.
Procedure iscrizione e rinnovi. Dal punto di vista formale,
domande e comunicazioni relative all'iscrizione dovranno
essere inoltrate alle Sezioni competenti dell'Albo (quelle
regionali o delle Province autonome nel cui territorio ha
sede legale l'impresa) esclusivamente per via telematica
mediante l'accesso all'apposito portale delle Camere di
commercio.
E questo secondo un regime transitorio che
permetterà alle sezioni locali ancora non «dematerializzate»
di adeguarsi alla procedura telematica entro il settembre
2017. Dal punto di vista sostanziale, requisiti e condizioni
generali per iscrizione (e rinnovi) potranno essere
autodichiarati, fatta salva la necessità di produrre
(invece) la prima e necessaria documentazione per idoneità
tecnica e finanziaria, nonché per lo svolgimento di
particolari attività di raccolta e trasporto rifiuti.
Variazioni. Modifiche di ragione sociale, sede legale,
organi, trasformazioni societarie o cancellazioni effettuate
presso il Registro delle imprese saranno da questo
automaticamente trasmesse per via telematica alle competenti
Sezioni dell'Albo senza dunque necessità di ulteriori
comunicazioni da parte delle aziende. Così come i nuovi
veicoli eventualmente acquisiti dalle imprese potranno
essere immediatamente utilizzati previa semplice
comunicazione della variazione all'Albo, e dunque senza
dover attendere relative deliberazioni delle Sezioni locali.
Ancora, in caso di trasferimento della sede legale, sarà
unico onere dell'azienda presentare domanda di variazione
alla Sezione dell'Albo del territorio di destinazione, che
provvederà in autonomia a tutte le modifiche amministrative
del caso, compresa la cancellazione dalla Sezione di
provenienza.
Responsabile tecnico. L'idoneità professionale dei soggetti
nominati dalle imprese quali responsabili della corretta
gestione dei rifiuti dovrà essere dimostrata all'Albo con il
superamento di puntuali prove di verifica, e ciò sia in fase
iniziale che con successiva cadenza quinquennale.
Per i
soggetti che già svolgono il ruolo di responsabile tecnico
alla data del 07.09.2014 l'appuntamento con la prima
verifica coinciderà tuttavia solo con il primo rinnovo
utile, secondo la tempistica che lo stesso Albo deciderà.
Saranno però dispensati da tali esami i responsabili tecnici
coincidenti con i legali rappresentanti legali delle imprese
aventi provata esperienza nel settore (secondo i futuri
criteri stabiliti dal Comitato nazionale dell'Albo).
Regime transitorio. In base al nuovo dm 120/2014 manterranno
la loro validità iscrizioni e domande d'iscrizione all'Albo
già in essere alla data del 07.09.2014, così come le
garanzie finanziarie già prestate dai soggetti iscritti.
Manterranno altresì efficacia le vigenti disposizioni
adottate dal Comitato nazionale dell'Albo sulla base della
pregressa disciplina (dunque: delibere e circolari
compatibili con le nuove norme ministeriali), e ciò fino a
quando non saranno superate da nuove regole adottate dallo
stesso Organo
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.09.2014). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il conteggio calore ai primi passi.
Obbligo dal 2017 in tutta Italia - La Lombardia anticipa (ma
senza sanzioni).
Impianti di riscaldamento. Il decreto legislativo 102/2014
impone termoregolazione e contabilizzazione.
In Lombardia dal 1°
agosto scorso sono obbligatorie le valvole termostatiche e i contabilizzatori di calore per gli impianti di riscaldamento
centralizzato, anche se per ora i ritardatari non vengono
sanzionati. Lo stesso obbligo scatterà nel resto di Italia,
e dal 01.01.2017 gli impianti di riscaldamento
centralizzati dovranno essere dotati di termoregolazione e
contabilizzazione.
Anche se le scadenze non sono immediate,
insomma, l'obbligo del "calore ripartito" è ormai inserito
nella legislazione nazionale, anche per allinearsi agli
obblighi europei.
Ma come ogni regola che si rispetti, anche quella appena
posta dal Dlgs 102/2014 non vale per tutti. Restano esclusi
dall'obbligo gli impianti autonomi (per i quali è
sufficiente il rinnovo periodico del bollino blu) e quei
sistemi dove «impedimenti di natura tecnica» renderebbero
l'intervento complicato e oneroso.
Inoltre, nelle case nuove, in cui sono in funzione impianti
a zone, la misurazione può avvenire anche attraverso
l'installazione di contatori individuali, più performanti
rispetto ai ripartitori montati sui singoli caloriferi. In
tal caso, l'onere di installare il contatore spetta a chi
eroga la fornitura del servizio di energia, che opera però
sempre in seguito a una specifica richiesta in tal senso da
parte del cliente finale.
L'obbligo e le eccezioni
Le novità discendono dal Dlgs 04.07.2014, n. 102, che
recepisce in Italia la direttiva 2012/27/Ue. La norma è
scritta in maniera controversa. L'articolo 9 (comma 5,
lettera b) parte, infatti, dall'assunto che l'obbligo
primario consiste nell'installazione di contatori
individuali e solo dove «non sia tecnicamente possibile o
efficiente in termini di costi» si debba ricorrere a
«sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore»
(comma c). Letta in maniera testuale, cioè, parrebbe quasi
che le termovalvole siano associate ai soli sistemi di
contabilizzazione su radiatore e non ai contatori
individuali.
Non è così. «Perché gli impianti più moderni –spiega Ettore Piantoni, coordinatore del gruppo di lavoro
sui sistemi di gestione dell'energia del Cti–, che
supportano l'installazione di contatori individuali, sono in
genere inseriti in edifici dove ogni calorifero ha già la
sua valvola in dotazione».
Aggiunge Fabio Bonalumi, presidente dell'Apim, Associazione
periti industriali Milano: «La termoregolazione è ormai una
prassi consolidata ai fini del risparmio energetico, capace
di sfruttare gli apporti termici dovuti ai carichi interni e
all'irraggiamento solare e di "equilibrare" situazioni in
cui gli impianti termici non sono, per vari motivi,
bilanciati dal punto di vista idraulico». Infine, è bene
tenere presente che le valvole termostatiche sono il sistema
di termoregolazione più diffuso, ma non l'unico esistente.
La scadenza del 2017 non scatta qualora vi siano
«impedimenti di natura tecnica». È il caso, ad esempio, di
case riscaldate da pannelli radianti obsoleti, dove
ricostruire la pianta dei circuiti nei diversi ambienti e
garantire la termoregolazione e contabilizzazione
risulterebbe un'operazione complicata e onerosa.
Restano inoltre esclusi dall'obbligo anche gli impianti
autonomi, per i quali è sufficiente eseguire i normali
controlli di efficienza. Ma è bene ricordare che anche in
caso di una singola villetta la termoregolazione è utile per
"ottimizzare" il funzionamento dell'impianto, riducendo
l'erogazione di calore per sfruttare i cosiddetti apporti
gratuiti (sui lati più esposti al sole o nelle giornate più
miti), aumentando così il risparmio energetico.
Lombardia e Piemonte
La Lombardia ha da tempo recepito la direttiva europea del
2012. Il risultato è che, solo su questo territorio, valvole
termostatiche e ripartitori sono già obbligatori, appunto,
dal 01.08.2014. Tuttavia, la Regione ha già ha chiarito
che le eventuali sanzioni dovute alla mancata installazione
potranno essere comminate solo dal 01.01.2017 per
inadempimenti riscontrati a decorrere dalla stessa data.
In Piemonte, invece, altra Regione che si era portata avanti
rispetto al Governo, il termine ultimo per le valvole –fissato al
01.09.2014– è stato prorogato al 31.12.2016.
L'installazione
La messa in opera dei dispositivi di termoregolazione e
contabilizzazione individuale del calore è regolamentata, a
livello nazionale, dalla legge sull'efficienza energetica n.
10/1991, secondo cui qualsiasi intervento sugli impianti di
riscaldamento deve essere progettato a firma di un tecnico
abilitato e iscritto ad albo professionale. Il progetto va
inoltre depositato in copia presso il Comune competente.
Le sanzioni
Le sanzioni sono previste ma solo dal gennaio 2017. Chi non
installerà le valvole termostatiche e i contabilizzatori di
calore o le imprese di erogazione del servizio che non
forniranno, laddove richiesti e possibili da applicare,
contatori individuali, rischieranno da allora multe da 500 a
2.500 euro.
In Lombardia la sanzione potrà arrivare fino a 3 mila euro
per ciascuna unità immobiliare (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Pareti isolanti: bonus legati a limiti più severi.
Come cambiano gli extraspessori.
Extra-spessori a scomputo
e deroghe sulle distanze minime per chi realizza edifici
nuovi o interviene su immobili esistenti, investendo in
soluzioni che consentono un reale abbattimento dei consumi.
Non si tratta di una novità dell'estate. Tutte queste
previsioni esistevano già ed erano inserite nel Dlgs
115/2008, che opera a livello nazionale (fatte salve le
norme particolari che le Regioni e le Province autonome
hanno varato negli anni sui singoli territori). Ora però il
Dlgs 102/2014, sempre a livello statale e senza intaccare
legislazioni particolari, è ritornato sul tema e ha
riformulato le possibilità concesse. Chiedendo e imponendo
un po' di più, in termini di prestazioni energetiche da
raggiungere e da garantire.
La rivisitazione è racchiusa all'interno dei commi 6 e 7
dell'articolo 14 del Dlgs 102, che sostituiscono i commi 1 e
2 dell'articolo 11 del Dlgs 115/2008. Nel caso di fabbricati
di nuova costruzione, non è considerato nei computi per la
determinazione dei volumi, delle altezze, delle superfici e
nei rapporti di copertura, lo spessore delle murature
esterne, delle tamponature o dei muri portanti, dei solai
intermedi e di chiusura superiori ed inferiori, eccedente i
30 centimetri, fino ad un massimo di ulteriori 30 centimetri
(contro i 25 della precedente norma), per tutte le strutture
che racchiudono il volume riscaldato e fino ad un massimo di
15 centimetri per i solai intermedi (in questo caso resta
invariato). Il tutto a patto che si ottenga con il progetto
una riduzione minima del 20% dell'indice di prestazione
energetica previsto dal Dlgs n. 192/2005 (in precedenza, il
tetto da raggiungere era il 10%).
Nel rispetto di questi limiti è, inoltre, permesso derogare
a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai
regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime
tra edifici, a quelle dai confini di proprietà, a quelle
minime di protezione del nastro stradale e ferroviario e
alle altezze massime degli edifici, ma sempre nel rispetto
delle distanze minime riportate dal codice civile.
Per chi, invece, affronta lavori di riqualificazione
energetica di edifici esistenti, che comportano
l'inserimento di maggiori spessori delle murature esterne
(ad esempio quando si introduce un cappotto termico) e di
elementi di chiusura superiori ed inferiori, scattano una
serie di deroghe se si ottiene, come già era in passato, una
riduzione minima del 10% dei limiti di trasmittanza previsti
del Dlgs n.192/2005.
In particolare, è consentito derogare alle distanze minime
tra edifici, a quelle dai confini di proprietà e a quelle di
protezione del nastro stradale, nella misura massima di 25
centimetri (prima erano 20) per il maggiore spessore delle
pareti verticali esterne. Così anche alle altezze massime
degli immobili, nella misura massima di 30 centimetri, per
il maggiore spessore degli elementi di copertura. La deroga
può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli
edifici confinanti (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il taglia-contratti esclude tutto il ciclo dei rifiuti.
Spending review. Il decreto Irpef.
La facoltà, data agli
enti locali dal Dl 66/2014 di ridurre del 5% gli importi dei
contratti in essere riguarda anche quelli relativi ai
servizi di igiene urbana? Per rispondere al quesito occorre
leggere l'articolo 8, comma 8, insieme ai commi 7, 8 e 9
dell'articolo 47. Si tratta, infatti, di norme di finanza
pubblica, che vogliono avere effetti di consolidato
nazionale e non di generico risparmio. Se non fosse così,
non sarebbe giustificata una revisione (quasi) unilaterale
degli obblighi contrattuali.
Intanto va notato che in sede di conversione, degli
ambiziosi tagli previsti dal comma 8, è rimasto solo questo
intervento spot, cioè la possibilità di rinegoziare i
contratti di fornitura di beni e servizi. E non si tratta
tanto di uno sconto, quanto della possibilità di ridurre il
contenuto di servizio, rimodulando la prestazione, e facendo
salva la possibilità della controparte di recedere.
L'articolo 47 affianca l'articolo 8 e ne completa il quadro,
evidenziando sia l'entità della riduzione di spesa che
riguarda gli enti locali, sia la loro qualità, cioè
puntualizzando cosa deve riguardare: l'articolo 47, comma 9,
precisa che i risparmi devono rientrare in una lista di voci
di spesa, di cui elenca i codici Siope. Tra questi non vi è
il codice 1303 (Contratti di servizio per smaltimento
rifiuti) e non certo per una svista: nella prima versione
dell'Allegato A al decreto, infatti, il codice era previsto.
È solo il caso di rilevare che la voce di descrizione del
codice 1303 può suscitare degli equivoci, visto che fa,
letteralmente, riferimento a una fase del ciclo integrato
dei rifiuti e non al suo complesso. Ci soccorre, in
proposito, il glossario della Fondazione Ifel, secondo il
quale in questa voce rientra tutto il servizio pubblico
locale relativo al ciclo dei rifiuti, mentre ne restano
esclusi solo i servizi strumentali di "pulizia". Anche la
prassi degli enti locali conferma questa interpretazione.
C'è un altro elemento, importante, che depone a favore della
non applicabilità di questi tagli, pur solo eventuali, al
settore dei rifiuti, e che trova conferma nella struttura e
nella logica stessa della Tari. La ragione è che, essendovi
l'obbligo di finanziare la spesa con il tributo
corrispondente, una sua riduzione non comporta un risparmio
di spesa per la pubblica amministrazione: il Comune, in
sostanza, non può appropriarsi del "risparmio" ma deve
restituire l'importo ai cittadini.
Ancora, è bene ricordare che la norma di finanza pubblica
non supera la disciplina speciale di settore e, pertanto,
che un'eventuale modifica del contratto di servizio non
potrebbe che conseguire da una procedura di revisione del
piano economico finanziario, necessario per la
determinazione della tariffa. E la riduzione di spesa non
potrà essere applicata «per tutta la durata residua dei
contratti medesimi», come prevede l'articolo 8, ma dovrà
essere ridiscussa in sede di Pef, quando questo venga
ripresentato.
Infine, dove le previsioni del testo unico ambientale sono
state applicate, ed esistono quindi le Autorità di ambito, è
chiaro che l'importo del contratto relativo al ciclo
integrato dei rifiuti non è materia di competenza del
singolo Comune (se non per le eventuali parti del servizio
lasciate alla discrezionalità degli enti locali), ma
dell'Autorità stessa. E sarebbe irragionevole pensare che il
legislatore abbia immaginato una disposizione applicabile
solo da alcuni enti locali.
Tutto ciò, ovviamente, non significa che dal settore
dell'igiene ambientale non si possano pretendere risparmi ed
una maggiore efficienza ma che questi debbano andare a
vantaggio dei cittadini e non costituire forme surrettizie
di finanziamento degli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.09.2014 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a tempo solo con «gara».
Decreto Pa. Regioni obbligate alla selezione pubblica fra i
candidati.
La legge 114/2014, di
conversione del Dl 90 sulla Pa, interviene superando le
normative regionali contrastanti o comunque non in linea con
i suoi principi in tema di nomina a dirigente degli esterni
nelle Regioni.
La norma accoglie l'interpretazione già
sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria e introduce
l'obbligo di una selezione pubblica volta ad accertare il
possesso di una comprovata esperienza pluriennale e una
specifica professionalità nelle materie oggetto
dell'incarico, con l'evidente necessità di predisporre
avvisi per singole posizioni dirigenziali, anche di livello
generale.
Già per la giurisprudenza, in applicazione dei canoni
fissati dall'articolo 97 Costituzione, erano necessarie
regole procedimentali atte a garantire le condizioni di un
trasparente e imparziale esercizio dell'attività
amministrativa, e finalizzate alla scelta del soggetto più
adatto all'incarico da individuarsi previa esplicita
motivazione riguardo ai citati requisiti, seppur in assenza
di un obbligo comparativo fra i diversi aspiranti.
Viene meno la possibilità di predisporre elenchi dai quali
attingere per le nomine dirigenziali, fattispecie in verità
già dubbia alla luce della formulazione dell'articolo 19 del
Dlgs 165/2001 che trova piena applicazione alle Regioni,
come anche confermato dallo stesso legislatore che
espressamente lo richiama nell'articolo 10, comma 3, della
legge 114/2014, per come già fissato dalla Corte
Costituzionale con la decisione 340/2010.
Con la nuova norma è infine possibile dare una lettura
diversa del principio affermato dalla giurisprudenza,
secondo la quale il solo esame dei curricula del personale
dirigenziale interno in possesso dei titoli di base si
rivela insufficiente a concretizzate le garanzie che
l'ordinamento impone al fine di consentire una scelta dei
soggetti esterni.
È trasfuso in norme, infatti, il principio giurisprudenziale
secondo il quale solo nella fase di valutazione delle
competenze e professionalità in capo ai soggetti
interessati, quindi a valle della selezione pubblica,
l'amministrazione è posta nella possibilità di valutare e
individuare un esterno in luogo di un dirigente di ruolo,
motivandone adeguatamente la scelta non solo in ordine agli
obiettivi ma anche in relazione alle caratteristiche dei
soggetti richiedenti.
La disposizione, infine, stabilisce nel massimo del 10% la
percentuale di esterni puri acquisibili in base all'articolo
19, comma 6, del Dlgs 165/2001, confermando due importanti
aspetti: la percentuale è al netto di quella inerente i
dirigenti di altre Pa (comma 5-bis dell'articolo 19) per
l'attivazione della quale, inoltre, non necessita alcuna
dimostrazione di carenza interna: il comma in questione da
nessuna parte impone la "preferenza" agli interni, stante la
considerazione che lo spirito della norma in questione non è
l'acquisizione di risorse e conoscenze esterne alla Pa (si
tratta di dirigenti comunque di ruolo, assunti con concorso
pubblico) ma quello di consentire un adeguato scambio di
esperienze tra amministrazioni diverse, principio peraltro
fatto proprio dal recente disegno di legge sulla Pa.
Va segnalato, infine, come per espressa disposizione del
legislatore la norma si riferisce agli incarichi della
medesima natura e soprattutto ad ogni disposizione
normativa, anche di settore, assorbendo, quindi, le nomine
dei dirigenti e delle funzioni dirigenziali di ogni livello,
ivi comprese le nomine di coloro i quali svolgano funzioni
di direzione degli enti strumentali, sollevando il dubbio
che la stessa possa trovare applicazione anche agli
incarichi di dirigente generale delle Asl, espressamente
richiamate dal legislatore nazionale (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.09.2014 -
tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Requisiti da definire nel regolamento.
Nei Comuni. I margini di autonomia.
L'articolo 11, comma 1,
della legge 114/2014 cambia le regole sui posti di
responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifica
dirigenziale o di alta specializzazione. È sempre consentita
la copertura con contratto a tempo determinato, purché
previsto dallo Statuto dell'ente, e scompare la distinzione
tra contratto di diritto pubblico e di diritto privato.
Nel demandare all'ordinamento degli uffici e dei servizi la
quota dei posti di qualifica dirigenziale con contratto a
tempo determinato, è fissato il tetto del 30% rispetto ai
posti della stessa qualifica previsti nella dotazione
organica. Per i posti di alta specializzazione previsti
dallo Statuto, dalla norma non sembrano emergere limiti per
i tempi determinati. In entrambi i casi bisogna provvedere
con una selezione pubblica per accertare il possesso della
comprovata esperienza «pluriennale» e della «specifica»
professionalità nelle materie dell'incarico.
Per la selezione occorre definire nel regolamento i
requisiti soggettivi (titoli di studio ed eventuali
specializzazioni) e oggettivi (la durata dell'esperienza
pluriennale) necessari, i criteri di valutazione eccetera.
Occorre chiedersi se il termine «procedura selettiva
pubblica» integri la necessità di arrivare a una graduatoria
finale vincolante, o se si possa fare una selezione senza i
caratteri del concorso.
Diversamente, il termine
indicherebbe un confronto comparativo ispirato a
imparzialità, ragionevolezza e all'osservanza dei principi
costituzionale del buon andamento (Consiglio di Stato nr.
2947/2013). Sembra questa la tesi preferibile, per cui non
dovrebbe operare la riserva (articolo 63, comma 4, Dlgs
165/2001) in favore del giudice amministrativo (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.09.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Polizia
locale in mezzo al mar. L'attività di indagine si estende
alle acque territoriali. Per il
ministero dei trasporti il comune può occuparsi anche di
abusi sulla battigia.
Un comune marittimo può autorizzare la dispersione delle
ceneri dei defunti in acqua oppure incaricare la polizia
locale ad effettuare attività di indagine anche in mare
aperto. Ma anche occuparsi di attività amministrative
diverse sino al limite del mare territoriale come per
esempio abusi edilizi o irregolarità urbanistiche.
Lo ha chiarito implicitamente la Direzione generale per la
vigilanza sulle attività portuali del Ministero dei
Trasporti con il
parere 02.09.2014 n.
8800 di prot..
Il comune di Jesolo ha richiesto chiarimenti sulla
competenza municipale nello specchio di mare antistante alla
nota località turistica. In particolare alla burocrazia
municipale interessava approfondire alcuni aspetti correlati
alle buone pratiche amministrative come per esempio la
correttezza di una determinazione finalizzata alla
dispersione delle ceneri dei defunti in mare oppure inerenti
alla competenza stessa dei vigili urbani durante i
pattugliamenti salmastri sul bagnasciuga.
Ma problematiche potrebbero sorgere anche in riferimento
alla regolarità di installazioni in mare aperto per il
divertimento dei bagnanti oppure per attività comunque
connesse alla competenza comunale in senso lato anche se
esercitate in acqua. Basti pensare ai capanni da pesca e a
qualsiasi manufatto realizzato al largo con caratteristiche
di stabilità. Per quanto riguarda i limiti territoriali
geografici a parere del ministero non sussiste alcun
riferimento normativo positivo. Tuttavia è innegabile,
prosegue la nota centrale, che il comune abbia e debba poter
esercitare competenze e funzioni amministrative anche sul
mare territoriale.
Come confermato dalla sentenza della Corte di cassazione
sez. V civ. n. 13974 del 27.06.2005, prosegue il parere
centrale, sull'intero territorio nazionale compreso il mare
convivono e si esercitano i poteri dello stato
contestualmente a quelli delle regioni e degli enti locali.
In buona sostanza si deve necessariamente riconoscere
dignità di territorio comunale al mare prospiciente la costa
del comune sino al limite delle acque territoriali ovvero
entro le 12 miglia dalla costa. Con tutte le conseguenze
amministrative espresse e potenziali connesse
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Sull'ambiente pagano i comuni. Responsabilità
contabile su abusi edilizi e differenziata.
Ok in commissione alla camera il collegato alla
legge di stabilità. Mozziconi, multe da 400.
Le pubbliche amministrazioni dovranno pretendere il
pagamento delle sanzioni in caso di abusi edilizi. In caso
di inadempienza saranno i dirigenti e funzionari locali
inadempienti ad assumersene le responsabilità disciplinare e
contabile, anche con decurtazioni dello stipendio.
Scatta poi la responsabilità contabile dei comuni per il
mancato conseguimento degli obiettivi di raccolta
differenziata. Chiunque butti mozziconi di sigaretta e di
altri prodotti da fumo o gomme da masticare per terra, nelle
acque, all'interno di edifici pubblici o aperti al pubblico
e su veicoli di trasporto pubblico sarà punito con una
multa, tra 50 a 400 euro.
E arriva un fondo italiano investimenti «green communities»,
finanziato per un miliardo di euro. Di cui almeno il 51%
garantito dalla Cdp e almeno il 20% dal ministero
dell'economia e delle finanze, sulla base delle risorse
della programmazione Ue 2014/2020, e il resto allocato sul
mercato. Il fondo è istituito dal Mef attraverso la Cdp.
Queste alcune delle novità contenute nel
collegato alla
legge di stabilità 2014, recante «disposizioni in materia
ambientale per promuovere misure di green economy e per il
contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali»,
approvato in prima lettura (il 4 settembre scorso) dalla
VIII commissione ambiente, territorio e lavori pubblici
della camera.
Il testo votato dalla commissione in sede referente deve
essere ora approvato dalla camera e poi andrà al senato. Il
tutto a distanza di circa sei mesi dal deposito in
parlamento del collegato ambientale.
Qualifica ambientale.
Tra le novità introdotte in commissione, abbiamo
l'introduzione di un piano per la qualificazione ambientale
dei prodotti dei sistemi produttivi locali, i distretti
industriali e le filiere che caratterizzano il sistema
produttivo nazionale, con l'obiettivo di definire le azioni
e le indicazioni tecniche e operative volte a migliorare le
capacità competitive delle imprese per rispondere alla
crescente domanda di prodotti sostenibili da parte dei
consumatori finali e dei clienti intermedi di molti settori
produttivi.
Il piano sarà adottato con decreto del ministro
dell'ambiente di concerto con il ministro dello sviluppo
economico, sentiti i ministri dell'economia e delle finanze
e delle politiche agricole e forestali, entro 180 giorni
dall'entrata in vigore della presente legge.
Green communities.
Il ministero dell'economia e delle finanze, per il tramite
della cassa depositi e prestiti, è autorizzato alla
costituzione del «fondo Italiano investimenti green
communities». Il fondo ha l'obiettivo di garantire una
redditività adeguata del capitale investito, attraverso
operazioni ed interventi di sostegno finanziario, diretto e
indiretto, a favore delle imprese di piccole e medie
dimensioni, nonché degli enti locali, ivi comprese le
società da essi controllate c/o partecipate, per
investimenti nel campo della green economy.
Con particolare riferimento a quelli interessanti i
territori montani e rurali italiani, e con peculiare
riguardo per il sostegno agli investimenti nel campo
dell'innovazione, della ricerca e dello sviluppo nei
territori a cosiddetto «fallimento di mercato» al fine di
ammortizzare e annullare i deficit strutturali permanenti di
tali territori.
Oil free zone.
Al fine di promuovere su base sperimentale e sussidiaria la
progressiva fuoriuscita dall'economia basata sul ciclo del
carbonio, e di raggiungere gli standard europei in materia
di sostenibilità ambientale, vengono istituite e promosse le
«oil free zone».
Si intende per «oil free zone» un'area territoriale nella
quale, entro un determinato arco temporale e sulla base di
specifico atto di indirizzo adottato dai comuni del
territorio di riferimento, si prevede la progressiva
sostituzione del petrolio e dei suoi derivati con energie da
fonti rinnovabili. La costituzione di tali aree viene
promossa dai comuni interessati, per il tramite delle unioni
di comuni
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2014). |
CONDOMINIO:
Sospesa l'utenza al condomino moroso. I giudici
hanno stabilito che non c'è l'obbligo di riattivare la
fornitura. Tribunale di Roma. Sotto esame il problema di
servizi comuni con godimento separato in caso di mancati
pagamenti.
La possibilità, per l'amministratore, di sospendere il
condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni
suscettibili di godimento separato in caso di mora nel
pagamento dei contributi che si sia protratta per un
semestre (articolo 63, comma 3, delle Disposizioni di
attuazione del Codice civile), non è di facile attuazione,
soprattutto quando si tratta della fornitura dell'acqua,
della luce e del gas.
A Roma il Tribunale ha confermato, però, la sospensione
decisa dall'azienda erogatrice.
Il contratto di erogazione dell'acqua, della luce e del gas,
a favore del condominio o di persone, verso il corrispettivo
di un prezzo, è un contratto di somministrazione (articolo
1559 del Codice civile) mediante il quale «se la parte
che ha diritto alla somministrazione è inadempiente, e
l'inadempimento è di lieve entità, il somministrante non può
sospendere l'esecuzione del contratto senza dare congruo
preavviso» (articolo 1565).
Pertanto l'ente erogante, in caso di morosità dell'utente,
non dovrebbe sospendere la fornitura in assenza di una
comunicazione scritta di preavviso e sarà invece legittima
la sospensione se non venisse sanata subito dopo.
Sul problema è intervenuto il Tribunale di Roma (si veda
anche il Tribunale di Brescia, ordinanza del 21.05.2014) il
quale, con ordinanza del 27.06.2014, riformava l'ordinanza
impugnata (e rigettava l'istanza avanzata dal condominio),
con la quale era stato precedentemente ordinato all'ente
somministrante di riallacciare e ripristinare in favore di
un condominio l'erogazione del gas per l'intero stabile
(servizio sospeso per morosità nel pagamento di alcune
fatture e che aveva già subito una precedente sospensione),
stante la natura del servizio e la mancata evasione della
richiesta di voltura nominativa dell'utenza (originariamente
intestata per errore a un singolo condòmino).
Il giudice di merito ha precisato che, in considerazione
della permanente morosità «non sussiste un obbligo di
riattivazione dell'utenza, né sussiste un obbligo a
contrarre, stante la liberalizzazione del mercato» e che
«il danno lamentato dal condominio corrispondente alle
conseguenze derivanti dalla mancata voltura o attivazione di
fornitura del gas per il riscaldamento» (l'utenza era
infatti intestata per errore ad un condòmino) «si risolve
in un mero pregiudizio economico, potendo dette
problematiche essere agevolmente risolte mediante il
pagamento della somma dovuta, di non rilevante entità, e in
relazione alla quale non si è provata l'impossibilità o la
grave difficoltà di pagamento».
Non sono mancate, però, in passato, opinioni contrarie, per
le quali il diritto che con la sospensione del servizio si
intende tutelare, in favore del Condominio, è puramente
economico e, dunque, sempre riparabile, mentre per i
fruitori del servizio la sospensione dell'erogazione
dell'acqua, del riscaldamento, considerati servizi
essenziali, contrasterebbe con l'articolo 32 della
Costituzione che garantisce il diritto alla salute.
Occorre comunque ricordare che la nuova formulazione
dell'articolo 63, comma 2, delle Disposizioni di attuazione
afferma che, in caso di morosità, i creditori non possono
agire nei confronti degli obbligati in regola con i
pagamenti se non dopo l'escussione degli altri condòmini i
cui dati devono essere forniti dall'amministratore se
richiesti (articolo 63, comma 1)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 06.09.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Ferie regalabili ai colleghi.
Ddl delega.
Giorni di ferie «in dono» ai colleghi che devono accudire un
figlio malato.
È l'opportunità scaturita da un emendamento
accolto ieri in commissione lavoro, a palazzo Madama, alla
ripresa dell'esame del testo che completa il «Jobs act»
(1428), dopo l'approvazione a maggio del decreto 34/2014
(convertito nella legge 78/2014).
A siglare l'iniziativa
Emanuela Munerato della Lega nord che, in base a un
principio di solidarietà fra il personale della medesima
azienda, permette ai dipendenti, del pubblico e del privato,
di regalare giorni di ferie a un altro addetto, affinché
possa occuparsi «del figlio minore che», si legge nella
correzione riformulata dal governo, «necessita di presenza
fisica e cure costanti per le particolari condizioni di
salute»; la cessione deve, comunque, avvenire
«compatibilmente con il diritto ai riposi settimanali e alle
ferie annuali retribuite». Una norma che, accettata dall'XI
commissione, dovrà essere valutata dalla bilancio, descritta
dalla parlamentare del Carroccio come simbolo di «grande
civiltà, già stata adottata in Francia», e adesso pronta a
vedere la luce anche nel nostro paese.
Quanto al resto del provvedimento, le questioni spinose,
contenute nell'articolo 4, saranno sciolte nelle prossime
sedute: in particolare, bisognerà prima risolvere le
divergenze politiche nella maggioranza in merito alle
modifiche allo Statuto dei lavoratori e all'articolo 18 che,
com'è noto, prevede che i licenziamenti nelle aziende con
almeno 15 dipendenti siano validi soltanto se avvenuti per
«giusta causa, o giustificato motivo»; a chiederne a gran
voce l'eliminazione il Ncd, di cui è esponente il presidente
della commissione ed ex ministro Maurizio Sacconi, che
invoca una delega ampia al governo per procedere al riordino
dello Statuto.
Altro capitolo importante è, infine,
l'introduzione del contratto a tempo determinato a tutele
crescenti, «cavallo di battaglia» di Pietro Ichino (Sc) per
stimolare le assunzioni soprattutto dei giovani, sostituendo
le «rigidità» dell'attuale formula d'inquadramento «sine die»
(articolo ItaliaOggi del 05.09.2014). |
APPALTI: Sulle cauzioni si fa chiarezza.
Svincolo applicato anche ai servizi e alle forniture.
APPALTI/ Indirizzi operativi nella determinazione
dell'Authority n. 1 del 2014.
Norme in materia di cauzione provvisoria e definitiva
all'esame dell'Autorità nazionale anticorruzione – Vigilanza
contratti.
Con la
determina 29.07.2014 n. 1
l'Authority ha fornito indicazioni operative volte al
superamento di alcune problematicità riscontrate in ordine
all'uso delle cauzioni di cui agli articoli 75 e 113 del
Codice degli appalti.
L'Autorità nazionale anticorruzione,
organismo che, con il dl 24/06/2014 n. 90, ha raccolto le
competenze della soppressa Autorità per la vigilanza dei
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp),
prima di affrontare le singole criticità fornisce un
inquadramento generale della normativa inerente alle
cauzioni. L'art. 75 del Codice degli appalti disciplina la
fattispecie della cauzione provvisoria prevedendo che i
concorrenti, come garanzia a corredo dell'offerta
presentata, debbano rilasciare una cauzione pari al 2%
dell'importo previsto a base di gara, da costituire in
contanti o in titoli di debito pubblico o nella forma di
fideiussione rilasciata da istituti bancari, assicurazioni o
intermediari finanziari, iscritti nell'elenco speciale degli
intermediari finanziari di cui all'art. 106 del dlgs
385/1993, che svolgono in via esclusiva o prevalente
l'attività di rilascio di garanzie e che sono sottoposti a
revisione contabile da parte di una società di revisione
iscritta nell'albo previsto dall'art. 161 del dlgs 58/1998.
L'art. 113 del Codice degli appalti è relativo, invece,
all'istituto della cauzione definitiva, che prevede
l'obbligo dell'aggiudicatario, esecutore del contratto, di
rilasciare una garanzia fideiussoria pari al 10%
dell'importo contrattuale, percentuale di riferimento da
maggiorare, secondo quanto previsto dall'art. 113, in caso
di ribassi in sede di gara superiori alla soglia del 10%.
Tale garanzia fideiussoria potrà essere rilasciata dai
medesimi soggetti garanti sopra richiamati per la
costituzione della cauzione provvisoria.
La cauzione definitiva è svincolabile con il progressivo
avanzamento dell'esecuzione nel limite massimo dell'80%
mentre il saldo secondo la normativa vigente. Le
fideiussioni da rilasciare per la cauzione provvisoria e per
la cauzione definitiva, dovranno prevedere espressamente la
rinuncia al beneficio della preventiva escussione del
debitore principale, la rinuncia all'eccezione di cui
all'art. 1957, comma 2, del codice civile e l'operatività
delle stesse entro 15 giorni a semplice richiesta scritta
della stazione appaltante.
Le principali problematiche affrontate nella determinazione
concernono l'uso dell'istituto della cauzione nei cosiddetti
«settori speciali» (gas, energia termica, elettricità,
acqua, trasporti, servizi postali, sfruttamento di area
geografica) in quanto nell'art. 206 del Codice degli
appalti, nell'elenco delle norme generali applicabili anche
nei settori speciali, non sono espressamente menzionati i
predetti articoli 75 e 113, lasciando così alle stazioni
appaltanti, in sede di procedura di gara, una maggiore
discrezionalità nell'eventuale richiamo alla normativa
generale in materia di cauzioni.
Nell'utilizzo di tali norme sono emerse, infatti, alcune
problematiche legate alla limitazione alle sole banche e
assicurazioni come soggetti designati per il rilascio delle
garanzie, alla richiesta di rating elevati per gli emittenti
garanzie e alla richiesta di garanzie nella forma di
«contratto autonomo di garanzia».
Riguardo alla tendenza, riscontrata in alcuni bandi di gara,
di limitare i soggetti garanti alle sole banche e
assicurazioni, motivata dalla maggiore affidabilità
riconosciuta a tali operatori, e alla conseguente esclusione
degli altri intermediari finanziari, l'Autorità pone
l'accento su come tale affidabilità possa essere
riconosciuta, come previsto per i settori ordinari, anche
agli intermediari finanziari i quali sono ugualmente
sottoposti al controllo della Banca d'Italia poiché iscritti
nell'apposito elenco di cui all'art. 106 del dlgs 385/1993 e
specificatamente autorizzati all'attività di rilascio delle
garanzie da parte del Ministero dell'economia e delle
finanze. Su tale punto, a fronte delle difficoltà rilevate
dalle stazioni appaltanti nell'escussione della fideiussione
rilasciate da alcuni intermediari finanziari, è consigliato,
tuttavia, alle stazioni appaltanti di richiedere, nel caso
di ricorso a intermediari finanziari, l'indicazione espressa
nel modello di fideiussione degli estremi
dell'autorizzazione ministeriale.
Riguardo al tema del rating, l'organo di vigilanza rileva
come talune amministrazioni richiedano per la costituzione
delle cauzioni provvisorie e definitive il rilascio della
fideiussione da parte di operatori che abbiano un rating di
lungo periodo uguale o superiore a determinati livelli
stabiliti dalle note agenzie di certificazione
internazionali. Tale orientamento, a giudizio
dell'Authority, potrebbe avere effetti sulla concorrenza in
quanto i soggetti abilitati al rilascio di garanzie che non
hanno titoli negoziati nei mercati regolamentati potrebbero
non disporre del rating assegnato sulla base degli standard
di certificazione internazionale; in aggiunta, tale
richiesta potrebbe limitare la partecipazione stessa alle
gare per le difficoltà delle imprese nel reperire garanzie
da parte di operatori in possesso di tale requisito.
La
richiesta della forma del «contratto autonomo di garanzia»,
vale a dire un contratto di garanzia immediatamente
escutibile e senza possibilità di opporre eccezioni al
creditore, non condivisa dalle imprese di assicurazioni,
appare, invece, del tutto ammissibile alla luce delle stesse
norme del Codice degli appalti che nel definire
espressamente le caratteristiche, in precedenza illustrate,
della fideiussione di cui agli articoli 75 e 113, hanno
proprio inteso configurare una garanzia autonoma per la
tutela dell'interesse pubblico e delle stazioni appaltanti.
Un ultimo punto sviluppato nella determinazione riguarda lo
svincolo progressivo, nel limite massimo dell'80%, della
cauzione definitiva nel caso di appalti di servizi e
forniture. L'Autorità, richiamandosi alla precedente
deliberazione n. 85/2012 dell'Avcp, ritiene come il
meccanismo di svincolo, previsto dell'art. 123 del
Regolamento di attuazione ed esecuzione del Codice degli
appalti unitamente all'art. 113, per gli appalti dei lavori
sulla base della documentazione riguardante l'avanzamento
degli stessi, possa essere operativamente applicato anche
nei contratti di servizi e forniture. La stazione appaltante
per i servizi e forniture potrebbe emettere, su richiesta
dell'operatore, un'attestazione sullo stato di esecuzione
del contratto analoga allo stato di avanzamento lavori, da
presentare poi al soggetto emittente per lo svincolo
parziale della garanzia fideiussoria
(articolo ItaliaOggi del 05.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti senza responsabilità solidale.
Giro di vite sulle società liquidate: ex soci in campo per
cinque anni per i mancati versamenti.
Delega fiscale. In arrivo il decreto del Governo sulle
semplificazioni che cancella l'addebito automatico al
committente delle ritenute non pagate.
Esclusione della
responsabilità solidale negli appalti, "copertura"
quinquennale con il capitale ripartito tra i soci a seguito
di liquidazione della società per il mancato pagamento delle
ritenute.
Potrebbe essere questo l'esito della "mediazione"
in atto a livello governativo per dare il via libera a breve
al decreto sulle semplificazioni che attuerà una parte
importante della delega fiscale (legge 23/2014).
Sarebbe, invece, ancora in bilico la questione della
responsabilità dei Caf e dei professionisti che ora si
estende sino al punto di porre sulle spalle di questi ultimi
l'onere del versamento delle imposte dovute dal contribuente
assistito che ha (volontariamente o meno non importa)
"barato" sugli importi da versare, magari sfruttando le
detrazioni in maniera non corretta: il Governo sarebbe
orientato a mantenere la responsabilità sulle spalle di Caf
e professionisti (proprio per rendere il 730 precompilato
una sorta di "pietra tombale" per il contribuente che non
dovrà più preoccuparsi di nulla) ma i tecnici fanno
osservare che la responsabilità fiscale, per dettato
costituzionale, è «personale» e non può "migrare" sulle
spalle di un soggetto che, peraltro, non ha prodotto il
reddito poi tassato.
Un passaggio meno delicato potrebbe invece essere quello che
riguarda il trattamento fiscale delle società tra
professionisti, per le quali è pressoché certo che il
Governo accetterà la via dello stralcio proposto dalla
commissione Finanze del Senato; e questo in ragione del
fatto che la norma contenuta nell'articolo 11 della legge
23, prevedendo che alle società tra professionisti
costituite ex articolo 10 legge 183/2011 si applichi il
regime fiscale delle associazioni senza personalità
giuridica, ostacola di fatto la costituzione di Stp nella
forma di Spa e cooperative creando, in particolare, una
contraddizione fra regole fiscali (principio di cassa) e
regole contabili (principio di competenza), duplicando gli
adempimenti e rendendo più difficili i controlli. Il
risultato sarebbe quello, come si legge nel parere della
commissione, di rendere «non conveniente la partecipazione
al socio non professionista», prefigurando di fatto «una
disciplina innovativa e diversa rispetto a quella, pur
controversa, in essere». Spazio, in materia societaria, alla
previsione che la società si considera non operativa se in
perdita per cinque anni e non per tre.
Così come, in materia di reti di impresa, l'obbligo di
redigere e depositare il bilancio relativo all'attività di
rete di impresa, fermo per le reti-soggetto, non si
applicherà, diversamente da quel ora accade, alle reti prive
di personalità giuridica (le cosiddette "reti contratto"),
per le quali ai fini sia fiscali che civilistici, le singole
imprese rimangono soggetti giuridici autonomi.
E proprio la difficoltà a trovare la quadra sulle questioni
controverse sta dettando i tempi del percorso attuativo
della delega per quel che riguarda l'impianto delle
semplificazioni, che, a ogni modo, dovrebbe vedere la luce
entro settembre. Specie se, come pare, sta prendendo piede,
in fatto di responsabilità solidale negli appalti, l'ipotesi
di modificare la normativa vigente escludendo la
responsabilità solidale del committente per le ritenute
fiscali. In compenso, si starebbe facendo strada l'ipotesi
di responsabilità quinquennale dei soci di società liquidata
sempre in fatto di versamento all'Erario di trattenute
effettuate al dipendente (articolo Il Sole 24 Ore del
05.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nuove domande per l'Aia entro lunedì 8 settembre.
Ambiente. La scadenza per l'Autorizzazione integrata.
Scade domenica 7
settembre il termine entro il quale i gestori di
installazioni per la prima volta soggette ad Aia devono
presentare alla Regione (o alla Provincia) la richiesta di
Autorizzazione integrata ambientale. La cadenza domenicale
del termine si ritiene consenta il soddisfacimento
dell'obbligo entro lunedì 8 settembre.
Così le autorità
competenti potranno concedere l'Aia entro il previsto
termine del 07.07.2015 che è anche la data finale entro
la quale i nuovi obbligati possono continuare le attività
con le vecchie autorizzazioni. L'esercizio di attività
compresa nel citato allegato VIII condotto in assenza di Aia
è punito con arresto fino a un anno o con ammenda da 2.500 a
26mila euro. Le pene si raddoppiano in caso di scarico
idrico di sostanze pericolose o di gestione di rifiuti
pericolosi.
L'obbligo scaturisce dall'articolo 29, comma 2, Dlgs 46/2014
che ha ampliato notevolmente la platea degli obbligati ad
Aia ed ha anche corretto profondamente la parte seconda del
"Codice ambientale" (Dlgs 152/2006). I gestori interessati a
questa prima importante scadenza sono quelli delle
installazioni esistenti dove si svolgono attività che il
Dlgs 46/2014, per la prima volta, ha inserito nell'allegato
VIII alla parte seconda, titolo III-bis, del "Codice
ambientale".
Per la nuova disciplina è «esistente» l'installazione che
«al 06.01.2013, ha ottenuto tutte le autorizzazioni
ambientali necessarie all'esercizio» (o sono state
presentate richieste complete) o il provvedimento positivo
di compatibilità ambientale, purché essa sia entrata «in
funzione entro il 06.01.2014».
Tra i nuovi chiamati figurano nuove attività del comparto
industriale (ad esempio gassificazione o liquefazione
combustibili diversi dal carbone in installazioni con
potenza termica nominale totale pari o superiore a 20 mw;
produzione ossido di magnesio in forni con capacità di
produzione oltre 50 mg al giorno; fabbricazione mangimi) e
di gestione rifiuti (recupero, anche in combinazione con lo
smaltimento, di rifiuti non pericolosi con una capacità
superiore a 75 mg al giorno mediante trattamento in
frantumatori di rifiuti metallici, compresi i Raee e i
veicoli fuori uso).
Per le installazioni già soggette ad Aia, invece, si ricorda
che il concetto di procedura amministrativa di rinnovo è
stato superato da quello dell'aggiornamento delle
autorizzazioni; infatti, il nuovo articolo 29-octies, Dlgs
152/2006 stabilisce che l'autorità competente riesamina
periodicamente l'Aia, «confermando o aggiornando le relative
condizioni» e individua modi termini del riesame. Fino alla
nuova pronuncia, il gestore continua l'attività in base
all'Aia in suo possesso (comma 11).
Molte le criticità e, in attesa dell'atto di indirizzo del
Minambiente, frutto del Coordinamento ministero, Regioni e
Province, alcune Regioni si sono portate avanti con atti
interpretativi a sostegno delle amministrazioni locali e
delle imprese che sono in affanno, soprattutto in caso di
prima richiesta entro il 7 settembre. E' il caso, ad
esempio, della Lombardia (circolare n. 6 del 04.08.2014)
e delle Marche (Dgr n. 983 del 07.08.2014). Gli aspetti
trattati sono molti; si ricordano: riesame, relazione di
riferimento, transcodifica dei rifiuti e chiarimenti sulla
nozione di frantumatori di rifiuti metallici e sulla
definizione di "scorie e ceneri".
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In sintesi
01 | L'APPUNTAMENTO PER L'OBBLIGO
Scade domenica 7 settembre il termine entro il quale i
gestori di installazioni per la prima volta soggette ad
Autorizzazione integrata ambientale devono presentare a
Regione, o alla Provincia, la richiesta. Il 7 cadrà di
domenica, quindi si può considerare che l'obbligo slitta
lunedì 8 settembre
02 | LE SANZIONI E LE PENE PREVISTE
L'esercizio di attività condotto in assenza di Aia è punito
con arresto fino a un anno o con ammenda da 2.500 a 26mila
euro. Le pene raddoppiano in caso di scarico idrico di
sostanze pericolose o di gestione di rifiuti pericolosi
03 | CERTIFICAZIONE E NUOVI DESTINATARI
I gestori interessati a questa prima importante scadenza
sono quelli delle installazioni esistenti dove si svolgono
attività che il Dlgs 46/2014, per la prima volta, ha
inserito nell'allegato VIII alla parte seconda, Titolo
III-bis, del "Codice ambientale". Tra i nuovi chiamati
figurano attività del comparto industriale e di gestione
rifiuti
04 | INSTALLAZIONI GIA' SOGGETTE ALL'AIA
Per le installazioni già soggette ad Aia, invece, il
concetto di procedura amministrativa di rinnovo è stato
superato da quello dell'aggiornamento delle autorizzazioni.
Fino alla nuova pronuncia, il gestore continua l'attività in
base all'Aia in suo possesso (articolo Il Sole 24 Ore del
04.09.2014). |
APPALTI: Regolarità, conta la data dell'autocertificazione.
Nota sulle verifiche per chi partecipa a gare di appalto.
La regolarità contributiva autocertificata da un'impresa
partecipante a una gara di appalto va verificata nel momento
in cui è stata resa l'autocertificazione.
Lo precisa l'Inps
nel
messaggio 02.09.2014 n. 6756, spiegando che il ministero del
lavoro non intende recepire la sentenza del Tar Veneto n.
486/2014, la quale ha invece ha ritenuto che anche a tale
verifica possa applicarsi il termine di 15 giorni assegnato
per la regolarizzazione in ogni altro tipo di Durc.
No alla sentenza del Tar Veneto. La questione riguarda,
dunque, il momento in cui l'amministrazione è tenuta a
verificare se la regolarità autocertificata da un'impresa,
nell'ambito della partecipazione a bandi pubblici, sia
realmente sussistente o meno. Il Tar Veneto, in particolare,
ha ritenuto che la disciplina del preavviso di accertamento
negativo sia generalizzato per tutti gli enti preposti al
rilascio del Durc, con l'attivazione del procedimento di
regolarizzazione (tramite appunto il preavviso) prima
dell'emissione di qualsiasi tipologia di Durc. Con la
conseguenza che la condizione di regolarità, anche per la
verifica di autodichiarazione, deve sussistere alla scadenza
del termine di 15 giorni assegnato per la regolarizzazione.
Il ministero del lavoro resta invece di diverso avviso.
Spiega infatti l'Inps che, con nota prot. n. 14591/2014, ha
precisato che «in assenza di un più uniforme orientamento
giurisprudenziale, gli Istituti possono continuare ad
operare come di consueto effettuando una verifica della
regolarità contributiva alla data di presentazione della
autodichiarazione». Ed ha aggiunto che «nuove modalità
procedurali potranno essere adottate a seguito
dell'emanazione del decreto previsto dall'art. 4 del decreto
legge 20.03.2014 convertito dalla legge 16.05.2014,
n. 78, in fase di definizione».
«Debiti» da precisare sempre. Relativamente al Durc emesso
con «scoperture contributive» (ai sensi dell'art. 13-bis,
comma 5, del dl n. 52/2012), inoltre, l'Inps precisa che il
certificato di regolarità contributiva (Durc) deve riportare
«sempre la quantificazione del debito e la data in cui lo
stesso è stato accertato per consentire all'amministrazione
pubblica di ottemperare all'obbligo di attivazione
dell'intervento sostitutivo».
La questione riguarda la
possibilità per gli istituti previdenziali e le casse edili
di emettere il Durc anche in presenza di certificazione di
uno o più crediti resa dalle amministrazioni statali
attestanti la sussistenza e l'importo di crediti certi,
liquidi ed esigibili almeno pari agli oneri contributivi
accertati e non ancora versati. In questi casi il Durc deve
sempre riportare nel campo note: l'indicazione che il
rilascio avviene in attuazione della norma del dl n.
52/2012; i dati identificativi della «Richiesta Durc»
prodotta tramite la Piattaforma per la Certificazione dei
Crediti; l'importo disponibile evidenziato nel certificato
dopo l'attivazione della funzione «Verifica la capienza per
l'emissione del Durc»; l'importo del debito contributivo
accertato nei confronti del contribuente.
La precisazione della scopertura debitoria facilita alla
pubblicazione amministrazione l'attivazione dell'intervento
sostitutivo (atto obbligatorio), fissando la liquidazione
all'impresa di un importo al netto della scopertura medesima
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Salta il regolamento edilizio unico.
Esce dal decreto sblocca-Italia anche la limitazione
all'autotutela della Pa su Scia e Dia.
Il pacchetto
semplificazioni per l'edilizia esce ridimensionato di alcuni
pezzi pregiati nella riscrittura e messa a punto del testo
definitivo del decreto legge sblocca-Italia. Sono uscite dal
provvedimento, in particolare, due delle norme di
sburocratizzazione più importanti e innovative: il
regolamento edilizio unico standard per tutti gli 8mila
comuni che avrebbe dovuto prevedere norme e definizioni
tecniche omogenee sul territorio nazionale dando un punto di
riferimento unico agli enti locali e la limitazione a un
termine temporale di sei mesi o un anno del potere di
autotutela della pubblica amministrazione nel caso di
progetti presentati con Dia (Denuncia di inizio attività) o
Scia (Segnalazione certificata di inizio attività).
Il testo rimpalla in queste ore fra il Dagl (Dipartimento
affari giuridici e legislativi) di Palazzo Chigi, la
Ragioneria generale a Via XX settembre e gli uffici
legislativi dei ministeri interessati, a partire da quello
delle Infrastrutture. La previsione è che il testo abbia
bisogno almeno di un paio di giorni di lavoro ancora prima
di salire al Quirinale.
Colpisce il via-vai di norme che ancora riguarda parecchi
punti del testo. Ne fanno le spese così anche norme della
prima ora, largamente condivise. La norma sul regolamento
edilizio unico avrebbe superato di fatto lo spezzatino
comunale attuale e avrebbe anche accorpato le norme tecniche
edilizie con quelle igienico-sanitarie. La proposta arrivava
originariamente dal Consiglio nazionale degli architetti ed
era stata fatta propria subito dalle prime bozze di Palazzo
Chigi. L'obiezione riguarderebbe i poteri delle Regioni, ma
chi ha seguito i lavori da vicino garantisce che una
soluzione giuridicamente soddisfacente era stata trovata.
La norma sulla limitazione temporale del potere di
autotutela della Pa avrebbe dato maggiore certezza
soprattutto ai progetti dei lavori in casa, eliminando la
spada di Damocle con cui la pubblica amministrazione può
sempre intervenire in autotutela annullando il progetto di
un privato cittadino, anche ben oltre i sessanta giorni che
devono intercorrere per Scia e Dia dal momento della
presentazione della dichiarazione all'inizio dei lavori.
Anche queste norme vanno ad accrescere le fila delle
disposizioni via via eliminate dalle bozze del decreto legge
sblocca-Italia: dalle norme sulle società partecipate dagli
enti locali alla riconferma nel 2015 dell'ecobonus 65% per
risparmio energetico e prevenzione antisismica che slitta
alla legge di stabilità.
Resta, invece, nel decreto legge la norma-simbolo della
semplificazione proposta dal ministro delle Infrastrutture,
Maurizio Lupi: prevede che basti la sola comunicazione al
comune - senza più bisogno di Dia, Scia o permesso per
costruire - per tutte le opere di manutenzione
straordinaria, comprese quelle sulle parti strutturali
dell'edificio che oggi sono escluse. La semplificazione è
allargata anche ai lavori che modificano il carico
urbanistico e al frazionamento o accorpamento di unità
immobiliari, purché non si modifichi la destinazione d'uso.
Resta, sempre proposto da Lupi, anche il bonus fiscale per
chi acquista da un costruttore un'abitazione nuova o
ristrutturata, a condizione che venga destinata per otto
anni all'affitto a canone concordato.
Nel decreto legge è prevista una deduzione Irpef del 20% sul
valore dell'immobile acquistato, ma la spesa agevolabile è
stata ridotta a 300mila euro rispetto alle prime bozze. In
compenso, alla somma può concorrere anche l'acquisto di più
di una abitazione. Non è ancora stata trovata la copertura
ma anche il premier Matteo Renzi ha fatto pressing sul
ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, perché
effettivamente venga trovata.
Resta nel testo anche il permesso di costruire convenzionato
rilasciato con modalità semplificata proposto da Lupi. Sono
soggetti alla stipula della convenzione la cessione di aree
anche al fine di utilizzo di diritti edificatori, la
realizzazione di opere di urbanizzazione, le caratteristiche
morfologiche degli interventi, la realizzazione di
interventi di edilizia residenziale (articolo Il Sole 24 Ore del
03.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, salta il débat public.
Niente consultazione popolare nel Ddl delega approvato dal
Governo. Lavori pubblici. Tra i criteri resta quello della riforma
del sistema di qualificazione delle imprese e delle Soa.
Semplificazione e
sburocratizzazione. Accesso delle Pmi al mercato. Maggiore
coinvolgimento dei privati nel finanziamento delle opere.
Istituzionalizzazione delle lobby. Revisione del sistema di
qualificazione delle imprese per la partecipazione alle
gare.
Sono questi i cardini del Ddl sul recepimento delle
direttive europee in materia di appalti pubblici,
concessioni e settori esclusi che il Governo ha approvato
venerdì scorso. Scorrendo i criteri della delega si
individua chiaramente la direzione nella quale andrà il
nuovo Codice. E la novità più interessante è che il testo
uscito dal Cdm ha fatto una vittima illustre: il débat
public, la partecipazione attiva dei territori nei processi
decisionali legati alle opere strategiche, è stato cassato.
Nelle bozze delle scorse settimane, infatti, compariva la
«promozione di un adeguato livello di partecipazione delle
popolazioni dei territori interessati nel processo
decisionale finalizzato alla realizzazione delle opere
strategiche e, comunque, delle opere di notevole impatto e
rilevanza, anche antecedentemente rispetto alla
partecipazione istituzionale da parte dell'ente pubblico».
In altre parole, si tratta di un sistema di regole, mutuato
dall'esperienza avviata dalla Francia a metà degli anni
Novanta, per coinvolgere le comunità locali nella
realizzazione delle infrastrutture sin dalle prime battute.
Ed evitare così che si replichino casi come quello dell'Alta
velocità Torino-Lione. Il riferimento al débat public, però,
nella versione finale del testo è stato cancellato, a
sorpresa. Il Governo, insomma, avrebbe cambiato orientamento
sull'idea di introdurlo.
Per il resto, il testo ribadisce la necessità di ridurre le
stazioni appaltanti e razionalizzare la loro attività. E
apre alla «revisione del sistema di qualificazione degli
operatori economici in base a criteri di omogeneità e
trasparenza». L'epoca delle società di attestazione private
(Soa) pare destinata a chiudersi, dopo gli scandali degli
ultimi mesi. Mentre si dovrebbe aprire un periodo nel quale
i privati saranno più coinvolti nel finanziamento delle
opere: la delega parla di «razionalizzazione ed estensione
delle forme di partenariato pubblico privato».
Altro tema evocato in diversi punti è quello della
semplificazione. Si parla di «riduzione degli oneri
documentali a carico dei soggetti partecipanti e
semplificazione delle procedure di verifica da parte delle
stazioni appaltanti». Oltre alla «razionalizzazione dei
metodi di risoluzione delle controversie alternativi al
rimedio giurisdizionale». Tutto questo si lega, ovviamente,
alla maggiore «trasparenza e pubblicità delle procedure di
gara» e al «miglioramento delle condizioni di accesso al
mercato per le piccole e medie imprese e per le imprese di
nuova costituzione». Tra l'altro, il maggiore coinvolgimento
delle Pmi è uno degli obiettivi strategici delle direttive
europee.
Infine, per la prima volta in Italia il disegno di legge
avvia un processo che dovrebbe portare a regolare la
presenza delle lobby nei processi decisionali di
realizzazione delle opere. Si parla infatti della
«definizione di un quadro regolatorio volto a rendere
trasparente la partecipazione dei portatori qualificati di
interessi». Il ruolo dei gruppi di pressione potrebbe essere
finalmente formalizzato (articolo Il Sole 24 Ore del
03.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti pubblici: istruzioni confermate.
Il chiarimento dell'Istituto. Dopo la pronuncia del Tar
Veneto.
I Durc per la verifica di
autodichiarazione (articolo 38, comma 1, lettera i, del
Codice dei contratti pubblici) continueranno ad essere
definiti sulla base della situazione contributiva riferita
alla data in cui l'interessato ha reso la dichiarazione con
cui attesta l'assenza di violazioni gravi in materia di
contributi, accertate in via definitiva. Resta ferma la
valutazione di uno scostamento non grave (regolamentato
dall'articolo 8, comma 3 del Dm 24.10.2007).
Lo afferma
l'Inps nel
messaggio 02.09.2014 n. 6756, in cui l'istituto
di previdenza precisa, altresì, che se in corrispondenza
della data di rilascio dell'autodichiarazione, viene
accertata la condizione di irregolarità, l'invito a
regolarizzare nei 15 giorni successivi (valido per tutti gli
altri tipi di Durc) non può valere per la verifica della
stessa autodichiarazione.
La puntualizzazione dell'Inps arriva dopo l'emanazione della
sentenza 486/2014 con cui il Tribunale amministrativo
regionale per il Veneto si è espresso a favore della
generalizzazione dell'obbligo –per gli enti che rilasciano
il Durc– di attivare il procedimento di regolarizzazione
mediante l'emanazione del preavviso di accertamento
negativo.
L'Inps, tuttavia, si discosta dal contenuto della sentenza,
supportato in tal senso anche da un parere del ministero del
Lavoro che, sul punto, ha chiarito che, in assenza di un più
uniforme orientamento giurisprudenziale, gli istituti
possono continuare (come hanno fatto finora) ad effettuare
una verifica della regolarità contributiva alla data di
presentazione della autodichiarazione.
L'unica eccezione riguarda il rilascio del Durc alle aziende
che hanno dei debiti nei confronti degli istituti
previdenziali e assicurativi nonché verso le Casse edili ma
che, contemporaneamente, vantano crediti nei riguardi delle
pubbliche amministrazioni.
In questo caso la richiesta del Durc eseguita avvalendosi
della «Piattaforma per la certificazione dei crediti» deve
essere sempre antecedente o almeno contestuale alla data
dell'autodichiarazione di cui sopra (articolo Il Sole 24 Ore del
03.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazioni senza più lacci. Più appartamenti con meno
costi e meno autorizzazioni. DECRETO SBLOCCA ITALIA/Sforbiciata agli oneri urbanistici e
alla burocrazia.
Liberalizzazione in campo edilizio. Anche i lavori che
comportano la variazione del carico urbanistico di un
immobile potranno essere considerati normali opere di
manutenzione straordinaria, purché l'originaria destinazione
d'uso venga mantenuta. Ciò significa che non ci vorrà alcun
permesso a costruire da parte dell'ufficio tecnico del
comune o dello sportello unico dell'edilizia. E, in seconda
battuta, che non si pagherà il contributo di costruzione, né
alcun altro relativo onere di urbanizzazione salvo che la
regione non preveda specifica norma in proposito. Inoltre,
non sarà più necessario acquisire il permesso a costruire
per gli interventi di ristrutturazione edilizia che
comportino aumento di unità immobiliari.
Il decreto sblocca Italia cambia la definizione di opera di
manutenzione straordinaria. Oltre ai lavori oggi previsti
dal Testo unico dell'edilizia (art. 3, comma 1, lettera b,
del dpr 380/2001), che non danno alcuna possibilità di
alterare i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari, si legge nella bozza di dl, saranno considerati
attività di manutenzione straordinaria anche «gli interventi
consistenti in frazionamento o accorpamento delle unità
immobiliari, con esecuzione delle opere anche se comportano
la variazione del carico urbanistico».
Non solo. Sarà considerata attività di edilizia libera anche
l'opera di manutenzione straordinaria che non comporti né
aumento di unità immobiliari, né modifica del carico
urbanistico derivante da un cambio di destinazione d'uso.
Dunque per questo genere di lavori in costruzione non
occorrerà più alcun titolo abilitativo.
Arriva, inoltre, un nuovo strumento nel panorama edilizio,
che il decreto sblocca Italia chiama «Interventi di
conservazione». Si tratta di una sorta di nuovo regolamento
urbanistico che consente ai comuni di individuare tutti
quegli immobili privati non più in regola con il piano
regolatore e favorire la loro ristrutturazione, bypassando
gli oneri burocratici ed economici dell'esproprio. Come? Una
volta individuati gli immobili, per ipotesi quelli di un
centro storico, il comune potrà proporre ai legittimi
proprietari di investire nella loro riqualificazione. In
cambio ne otterranno benefici, attraverso forme di
compensazione. Quali, per esempio, l'esenzione dai tributi
locali. Ma, nelle more dell'attuazione del nuovo piano
conservativo, il comune potrà vietare ai proprietari degli
immobili interventi di tipo redditizio, quali la demolizione
e la successiva ricostruzione degli stessi edifici. Il
proprietario potrà al massimo eseguire interventi di tipo
conservativo e la demolizione sarà consentita solo quando
ricorrano ragioni di tipo statico o igienico-sanitario.
Non è finita. Il decreto sblocca Italia interviene anche in
fatto di costruzioni in deroga agli strumenti urbanistici
esistenti. Includendo in questo alveo anche le
ristrutturazioni edilizie e urbanistiche in aree industriali
dismesse, purché gli interventi siano considerati di
interesse pubblico. Per questo genere di interventi il dl
ammette esplicitamente la richiesta di permesso a costruire
in deroga alle destinazioni d'uso.
Altra novità riguarda i termini di validità del permesso a
costruire. Per esso, il Testo unico dell'edilizia prevede la
possibilità di una proroga della scadenza entro cui devono
partire i lavori. In particolare, il termine di inizio
lavori può slittare se l'opera è particolarmente complessa o
quando si tratti di un'opera pubblica il cui finanziamento è
spalmato a cavallo di più esercizi. Bene, il decreto sblocca
Italia introduce anche una sorta di proroga «automatica» dei
termini di inizio e ultimazione lavori, che la p.a. dovrà
comunque accordare «qualora i lavori non possano essere
iniziati o conclusi per fatto dell'amministrazione o
dell'autorità giudiziaria». Cioè, per esempio, quando i
lavori vengano bloccati dal mancato arrivo del finanziamento
o del permesso pubblico, o per pronuncia o sospensiva di un
Tar.
Corsia di favore anche per il contributo per il rilascio a
costruire, previsto dal testo unico per l'edilizia. Nei casi
di interventi complessi di trasformazione urbana, il decreto
sblocca Italia prevede uno sconto. Esso sarà dovuto solo in
relazione al costo di costruzione. Le opere di
urbanizzazione, invece, saranno a totale carico
dell'operatore privato, che ne resterà proprietario.
Ogni comune sarà chiamato ad aggiornare i parametri che
concorrono alla definizione degli oneri di urbanizzazione.
Accanto agli indicatori già previsti (tra cui le
caratteristiche geografiche del comune e la destinazione
d'uso della zona) il comune dovrà affiancarne un altro: la
realizzazione di un sistema di incentivi differenziati, che
favorisca le costruzioni nelle aree a maggiore densità di
costruito e le ristrutturazioni, disincentivando le nuove
costruzioni.
Altro sconto sui costi di costruzione viene quindi previsto
per gli interventi di ristrutturazione edilizia, per come
attualmente disciplinati dal Testo unico. Tra questi, va
ricordato, sono compresi i lavori di ripristino o
sostituzione di elementi costitutivi dell'edificio. Ma anche
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi e impianti. Bene, in base al dl per questo genere
di lavori, i comuni possono deliberare che i costi di
costruzione relativi siano più bassi rispetto a quelli
applicati per le nuove costruzioni.
E uno sconto al contributo di costruzione arriva anche per
gli interventi di ristrutturazione, recupero e riuso degli
immobili dismessi o in via di dismissione. Il decreto
sblocca Italia prevede che quest'onere sia tagliato di
almeno il 20% rispetto a quanto previsto per le nuove
costruzioni; ma i comuni (entro tre mesi dall'entrata in
vigore del decreto) dovranno definire i criteri e le
modalità per rendere effettivo lo sconto.
Il decreto sblocca Italia interviene, quindi, sulla
tempistica relativa al procedimento di rilascio dei permessi
a costruire, consentendo il raddoppio dei tempi previsti per
i progetti più complessi.
Sono, inoltre, facilitate (come anticipato da ItaliaOggi di
sabato scorso) le varianti ai permessi di costruire. Ma solo
se conformi alle prescrizioni urbanistiche e capaci di non
configurare variazioni essenziali; per queste basteranno una
denuncia di inizio attività e la comunicazione della
variante a fine lavori.
Infine, il decreto sblocca Italia inserisce nell'ordinamento
edilizio due nuovi istituti: il mutamento d'uso
urbanisticamente rilevante e il permesso di costruire
convenzionato:
1) in particolare, sarà considerata «urbanisticamente
rilevante» in termini di destinazione d'uso ogni forma di
utilizzo dell'immobile o di un'unità immobiliare che
comporti un cambio di categoria funzionale tra le quattro
elencate:
- residenziale e turistico-ricettiva;
- produttiva e direzionale;
- commerciale;
- rurale.
In merito, il dl aggiunge però che, salvo diverse
disposizioni regionali, «il mutamento di destinazione d'uso
all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito». E avverte che, per destinazione d'uso, bisogna
considerare «quella prevalente in termini di superficie
utile».
2) Il comune potrà rilasciare un permesso a costruire
convenzionato, in modalità semplificata, quando le esigenze
di urbanizzazione vengano soddisfatte nell'ambito di una
convenzione che preveda l'assunzione da parte del privato (o
del soggetto attuatore della convenzione) di specifici
obblighi di interesse pubblico, al fine di conseguire il
rilascio del titolo edilizio (articolo ItaliaOggi del
02.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus fiscali per la casa. Sgravi per antisismica e fonti
rinnovabili. DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Riproposti pure gli ecoincentivi
auto.
Un pacchetto di bonus fiscali sulla casa. Ai fini Irpef
arrivano detrazioni ad hoc del 50% per interventi
antisismici e per l'installazione di impianti basati
sull'impiego di fonti rinnovabili che migliorino la
prestazione energetica dell'edificio. Sconti tributari pure
per chi acquista o ristruttura un immobile per poi
concederlo in locazione a canone concordato. Ed è sempre
quella fiscale la leva scelta per stimolare la
riqualificazione dei fabbricati che consumano più energia:
le società che li comprano da privati per trasformarli in
edifici di classe energetica A o B e poi rivenderli potranno
risparmiare sulle imposte d'atto.
È quanto prevede la
bozza
del decreto Sblocca Italia varata venerdì scorso dal
consiglio dei ministri (ancora suscettibile di modifiche).
Detrazioni Irpef. Nessuna proroga per il momento al bonus
ristrutturazioni potenziato, che dall'attuale 50% dovrebbe
scendere al 40% nel 2015. Dalla disciplina ordinaria,
definita dall'articolo 16-bis del Tuir, vengono sfilate tre
tipologie di lavori: realizzazione di autorimesse e posti
auto pertinenziali, interventi antisismici e installazione
di impianti a fonti rinnovabili. Mentre la prima viene
eliminata, le altre sono destinatarie di due nuove
agevolazioni dedicate, in vigore dal prossimo anno.
Miglioramento sismico. A essere beneficiati saranno gli
interventi realizzati sulle parti strutturali degli edifici.
Lo sgravio Irpef varierà tra il 50 e il 65% dei costi
sostenuti, in relazione al livello di rischio sismico del
fabbricato che sarà fissato con decreto dal ministero delle
infrastrutture. Il tetto di spesa su cui calcolare l'aiuto
potrà arrivare a 60 mila euro per unità immobiliare.
Miglioramento energetico. In caso di installazione di
impianti «green» (per esempio pannelli solari o mini-eolico)
la detrazione del 50% potrà essere calcolata su un massimo
di 96 mila euro. Tale beneficio, al pari di quello sul
rischio sismico, seguirà le stesse regole già vigenti per il
bonus ristrutturazione, a cominciare dalla fruizione in 10
quote annuali da far valere in dichiarazione dei redditi.
Resta da definire la cumulabilità delle due nuove forme agevolative con quelle già previste dall'articolo 16-bis del
Tuir (possibile l'utilizzo di un tetto di spesa unico di 96
mila euro).
Compra e affitta. Arriva un aiuto fiscale per i cittadini
che acquistano immobili residenziali per poi concederli in
locazione a prezzo concordato per almeno otto anni.
L'agevolazione resterà in vigore fino al 31 dicembre 2017.
Potranno accedervi, oltre alle persone fisiche non esercenti
attività commerciale, le coop edilizie e i soggetti del
terzo settore. Il beneficio consisterà in una deduzione
dall'Irpef del 20% di quanto pagato per comprare o
realizzare l'immobile.
Quest'ultimo dovrà essere accatastato
come abitazione non di lusso (escluse quindi le categorie
A/1, A/8 e A/9) e appartenere alla classe energetica A o B.
Il tetto di spesa non potrà superare i 300 mila euro: il
recupero fiscale massimo sarà quindi pari a 60 mila euro in
otto anni, ossia 7.500 euro annui. Locatore e locatario non
potranno essere legati da rapporti di parentela di primo
grado. Previsto un decreto interministeriale
Infrastrutture-Economia per l'attuazione.
Rottamazione immobili «energivori». Agevolazioni fiscali in
vista per quanto riguarda le cessioni di unità abitative a
bassa prestazione energetica. Nelle vendite effettuate da
privati a favore di società immobiliari si applicheranno le
imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa.
Ciò avverrà a una condizione: l'impresa deve dichiarare nel
rogito che intende ritrasferire l'immobile entro cinque anni
dalla data di acquisto e solo dopo aver effettuato
interventi di recupero tali da fare ottenere al cespite una
classe energetica A o B. Se la ristrutturazione riguarda un
singolo appartamento, il requisito si intenderà soddisfatto
in caso di riduzione del fabbisogno energetico pari almeno
al 50%.
Il mancato rispetto di tale vincolo comporterà il
recupero delle imposte proporzionali da parte dell'Agenzia
delle entrate, maggiorate degli interessi e delle sanzioni
(pari al 30%). Il meccanismo opera anche in caso di permuta
nei confronti di imprese di costruzione per l'acquisto di
fabbricati nuovi o ristrutturati: in tale ipotesi al privato
acquirente spetta un ulteriore sgravio Irpef.
Ecoincentivi. Rimodulati gli ecoincentivi sulle auto per il
biennio 2014-2015. L'aiuto dello stato a chi rottama un
veicolo inquinante e lo sostituisce con un altro nuovo a
basse emissioni potrà essere inferiore a quanto
originariamente previsto dal dl n. 83/2012. L'impianto
normativo delle agevolazioni resta invece confermato (articolo ItaliaOggi del 02.09.2014). |
APPALTI:
Niente gare negli appalti urgenti. Scuole, post-sisma e
alluvioni: affidamento diretto. DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Le misure del provvedimento in
materia di contratti.
Possibile l'affidamento dei lavori in via diretta, senza
gara, fino a 200.000 euro e con gara informale fino a 5
milioni per interventi di messa in sicurezza degli edifici
scolastici, di mitigazione dei rischi idrogeologici e di
adeguamento antisismico dichiarati urgenti dalla stazione
appaltante; previsti affidamenti in house per progettazione
ed esecuzione di interventi di mitigazione del rischio
idrogeologico, senza apertura alla concorrenza; modifiche
per le concessionarie autostradali nazionali che intendono
unificare tratte contigue, con possibile allungamento della
durata della concessione.
Sono queste alcune delle novità contenute nella
bozza del
decreto legge «Sblocca Italia» approvato il 29 agosto,
successivamente rimaneggiata e ridotta a 51 articoli (dai
100 iniziali) e ancora alla presidenza del Consiglio per le
ultime modifiche.
Dalla complessiva e complessa operazione di restyling del
testo sono uscite penalizzate diverse disposizioni di
interesse per il settore degli appalti quali per esempio il
rinvio a gennaio 2015 del sistema di verifica dei requisiti
dei concorrenti alle gare di appalto pubblico (AVCpass), che
quindi rimane operativo ed efficace (ormai dallo scorso
primo luglio). Stessa sorte è toccata alle norme di
semplificazione dei piccoli lavori (per la fascia di importo
200.000/1.000.000 di euro) e per le disposizioni che
introducevano l'elenco dei progettisti gestito dalla
presidenza del Consiglio per le progettazioni delle piccole
opere. Di interesse è la norma che semplifica e snellisce
gli interventi per gli edifici scolastici, il rischio
idrogeologico e l'adeguamento antisimico: in queste ipotesi
si considererà di «estrema urgenza» ogni «situazione
conseguente ad apposita ricognizione da parte dell'Ente
interessato che certifica come indifferibile l'intervento» e
si potrà accedere a una serie di semplificazioni.
Il tutto sarà possibile per la messa in sicurezza di edifici
scolastici (ma anche per nuovi edifici sostitutivi di quelli
non più idonei sotto il profilo ambientale, di sicurezza),
per interventi di mitigazione dei rischi idraulici e
geomorfologici e per l'adeguamento alla normativa
antisismica. La semplificazione e l'accelerazione
procedurale (sempre nel rispetto dei principi Ue di tutela
della concorrenza) si articola in numerose modifiche al
codice dei contratti pubblici.
In primo luogo non sarà obbligatorio sospendere la stipula
del contratto in caso di ricorso al Tar; se poi i lavori
sono di importo inferiore alla soglia comunitaria, le
stazioni appaltanti potranno prescindere dalla richiesta
della garanzia a corredo dell'offerta (la cauzione
provvisoria del 2%).
Semplificate anche le norme sulla pubblicità dei bandi di
gara: per questi lavori di estrema urgenza gli avvisi e i
bandi non dovranno essere pubblicati anche sui quotidiani,
ma basterà la pubblicazione sul sito informatico della
stazione appaltante.
Previsto anche il dimezzamento dei termini ordinari per la
ricezione delle domande di partecipazione e delle offerte e
invito a presentare offerte rivolto ad almeno tre operatori
economici. Per i lavori di estrema urgenza di messa in
sicurezza degli edifici scolastici di ogni ordine e grado è
consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile
del procedimento fino a 200.000 euro. Da 200.000 a 5 milioni
di euro le stazioni appaltanti potranno utilizzare la gara
informale con invito rivolto ad almeno cinque operatori
economici.
Forte spinta sugli affidamenti a società in house
per le attività di progettazione ed esecuzione degli
interventi di mitigazione del rischio idrogeologico: se per
tali interventi sono stati siglati accordi di programma con
le regioni, i presidenti delle regioni potranno avvalersi,
sulla base di apposite convenzioni per la disciplina dei
relativi rapporti, di società in house delle amministrazioni
centrali dello stato dotate di specifica competenza tecnica.
Sarà poi tutto da vedere l'impatto economico di questa norma
che consente affidamenti al di fuori di logiche di
concorrenza e di mercato per lavori e progettazioni, senza
alcun limite di importo. Per le concessioni autostradali,
con la finalità di assicurare gli investimenti sulla rete e
di arrivare a tariffe e condizioni di accesso più favorevoli
per gli utenti, si consentirà ai concessionari di tratte
autostradali nazionali di proporre modifiche del rapporto concessorio che portino alla gestione unitaria di tratte
«interconnesse, contigue, ovvero tra loro complementari».
I lavori, le forniture e i servizi di importo superiore alla
soglia comunitaria dovranno comunque essere affidati nel
rispetto della procedure ad evidenza pubblica previste dal
codice dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del
02.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO:
L'amministratore paga i danni. La Cassazione ha definito gli
obblighi di custodia e di attenzione.
Responsabilità civili e penali. Chi gestisce un condominio
può essere chiamato a rispondere di persona.
Alla carica di
amministratore di condominio sono legate tutta una serie di
possibili conseguenze, sia in ambito di responsabilità
civile (verso terzi o verso gli stessi condomini) che in
ambito di responsabilità penale.
Tali possibili conseguenze sono via via cresciute nel tempo,
di pari passo con il costante evolversi della figura
dell'amministratore così come chiarito dalla Corte di
cassazione con due successive decisioni: la prima
(22840/2006) che nell'ammettere in via definitiva la
possibilità di affidare l'amministrazione condominiale a
persone giuridiche si è basata sulla constatazione che «da
qualche tempo l'incarico viene conferito a professionisti
esperti in materia di condominio e in grado di assolvere
alle numerose e gravi responsabilità ascritte
all'amministratore dalle leggi speciali», e la seconda
(25251/2008) che ha fissato i canoni della responsabilità
personale dell'amministratore nel modo che segue: «A tale
figura il codice civile e le leggi speciali imputano doveri
ed obblighi finalizzati ad impedire che il modo di essere
dei beni condominiali provochi danni a terzi. In relazione a
tali beni l'amministratore, in quanto ha poteri e doveri di
controllo e poteri di influire sul loro modo di essere, si
trova nella posizione di custode (...). Questi allora deve
curare che i beni comuni non arrechino danni agli stessi
condomini o a terzi, come del resto riconosciuto dalla
giurisprudenza allorché ha considerato l'amministratore del
condominio responsabile dei danni cagionati dalla sua
negligenza, dal cattivo uso dei suoi poteri e, in genere, di
qualsiasi inadempimento dei suoi obblighi legali o
regolamentari».
Da tale nuovo inquadramento corrisponde ora un quadro in cui
la fonte di responsabilità dell'amministratore nei confronti
dei condòmini è il contratto di mandato conferito al momento
dell'accettazione dell'incarico: qualora anche senza colpa
grave (essendo l'incarico non gratuito) l'amministratore,
nel venir meno ai propri obblighi contrattuali, causi un
danno ai condòmini, ne dovrà rispondere personalmente. Per
esempio, quando non abbia eseguito una delibera assembleare
(Cassazione, sentenza 7103/2013), se da tale omissione sia
derivato un danno ai condòmini, oppure per aver eseguito una
delibera che non andava eseguita in quanto contraria alla
legge.
Per "salvarsi" da azioni personali di responsabilità che i condòmini gli possono rivolgere, in sostanza,
l'amministratore deve esercitare il proprio mandato nel
pieno rispetto delle norme di legge. Ponendo particolare
attenzione nel rimuovere prontamente le situazioni
pericolose, relative alle parti comuni dell'edificio, dalle
quali potrebbe derivare un danno a terzi (o agli stessi
condòmini).
Si pensi alla domanda proposta dai genitori di
un minore direttamente nei confronti dell'amministratore per
la presenza nel cortile condominiale «all'altezza di un
metro dal piano di calpestio, di vetri con la superficie
tagliente che costituivano una pericolosissima insidia»
(Cassazione, sentenza 24804/2008). Così, un amministratore
condominiale è stato ritenuto personalmente responsabile,
nei confronti del terzo danneggiato (Cassazione, sentenza
25251/2008) dai danni derivati «dalla negligente omissione
delle necessarie riparazioni al lastrico solare decise in
delibera assembleare e non attuate dall'amministratore».
Da ultimo, il nostro Codice penale non prevede una figura di
reato propria dell'amministratore di condominio: a lui
tuttavia possono riferirsi una serie di fattispecie penali
relative alla attività svolta. È il caso, per esempio del
reato di ingiurie o di diffamazione, del quale è stato
ritenuto colpevole l'amministratore che aveva inviato a
tutti i condòmini una lettera ove veniva evidenziata la
morosità di uno di loro.
Altro reato nel quale può imbattersi l'amministratore, in
quanto custode del bene condominiale, è quello previsto
dall'articolo 677 del Codice penale, che sanziona il
proprietario di un edifico o di una costruzione «ovvero chi
per lui è obbligato alla conservazione o alla vigilanza» che
«ometta di provvedere ai lavori necessari per rimuovere il
pericolo». Come è accaduto (Cassazione, sentenza 34147/2012)
per una condanna per lesioni colpose gravi causate a un
cliente della farmacia posta nello stabile condominiale
dall'omesso livellamento della pavimentazione.
Da ultimo, si segnala la recente sentenza della Cassazione
31192/2014 (si veda il Sole 24 Ore del 26 agosto scorso),
che ha ritenuto penalmente responsabile l'amministratore di
condominio che a incarico finito, nonostante l'ordine in tal
senso del Tribunale, non aveva consegnato al nuovo
amministratore i conti e le carte condominiali (articolo Il Sole 24 Ore del
02.09.2014). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Assenze «tattiche», sì al licenziamento.
Cassazione. Scarso rendimento.
Confermato il
licenziamento di un lavoratore assenteista "tattico" anche
se non ha superato i giorni massimi previsti dalla legge.
Ieri la Corte di Cassazione ha depositato la
sentenza
04.09.2014 n. 18678 che affronta un argomento di costante
attualità nel mondo del lavoro: quello della conciliazione
tra esigenze produttive e organizzative dell'impresa con le
assenze per malattia dei lavoratori, soprattutto quando
queste ultime si caratterizzano per la brevissima durata
(pochi giorni per ciascuna assenza) e siano «a macchia di
leopardo».
Nel caso affrontato dalla Corte il lavoratore è stato
licenziato poiché –come risultato dalle deposizioni dei
colleghi di lavoro all'esito dell'istruttoria svolta nei
precedenti gradi di giudizio– era solito comunicare le
assenze per malattia «all'ultimo momento»; peraltro, di
norma, gli eventi morbosi si manifestavano «quando doveva
affrontare il turno di fine settimana o il turno notturno»
con conseguente «difficoltà, proprio per i tempi
particolarmente ristretti, di trovare un sostituto».
Una
condotta che si commenta da sé e che, con tutta evidenza, ha
causato gravissime disfunzioni per l'organizzazione
produttiva dell'impresa datrice di lavoro.
Confermando la correttezza della sentenza resa in appello, i
giudici di legittimità escludono, innanzitutto, la
fondatezza della tesi del lavoratore, secondo cui il recesso
doveva essere censurato poiché egli non aveva superato il
periodo di comporto, previsto dall'articolo 2110 del Codice
civile ovvero dalla contrattazione collettiva applicabile.
Evidenzia, infatti, la sentenza che «le assenze del
lavoratore, dovute a malattia, vengono in rilievo sotto un
diverso profilo», poiché «per le modalità con cui (...) si
verificavano (...) le stesse davano luogo a una prestazione
lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile
dalla società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il
profilo produttivo e pregiudizievole per l'organizzazione
aziendale così da giustificare il provvedimento
risolutorio».
Sì che la Corte si concentra sul concetto di «scarso
rendimento», vale a dire sulla conseguenza della condotta
del dipendente, il quale, violando le regole della diligenza
nell'esecuzione della prestazione, non adempia esattamente
l'obbligazione lavorativa.
Si tratta, forse, di un riferimento atecnico, poiché nel
caso esaminato la prestazione del dipendente sarebbe
divenuta scarsa proprio in conseguenza delle ripetute
assenze, peraltro susseguitesi a brevi intervalli di tempo
l'una dall'altra; potremmo parlare, però, di ampliamento del
principio dello "scarso rendimento": sì che, sotto tale
profilo, la sentenza risulta di particolare interesse (articolo Il Sole 24 Ore del
05.09.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
Licenziabile il malato tattico.
Cassazione su malattia dopo i riposi.
Nuvole nere in vista per i professionisti del weekend
«lungo». Scatta il licenziamento per l'assenteista
«tattico», che guarda caso si ammala sempre prima o dopo i
giorni di riposo: è legittimo il recesso del datore
nonostante il mancato superamento del periodo di comporto. E
ciò perché il provvedimento è adottato per giustificato
motivo soggettivo di fronte alla complessiva inadeguatezza
della prestazione assicurata dal dipendente, a causa della
mancata presenza in servizio per un paio di giorni al mese,
che crea malcontento fra i colleghi costretti alle
sostituzioni.
È quanto emerge dalla
sentenza 04.09.2014 n. 18678 della
Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Non resta che pagare le spese di giudizio al licenziato per
«eccessiva morbilità». Quei periodi di assenza a
colpo di due o tre giorni, anche più volte nello stesso
mese, penalizzano l'organizzazione aziendale: il vizietto
del forfait «a macchia di leopardo», strategicamente
agganciato alle feste comandate rende il dipendente non più
proficuamente utilizzabile da parte del datore.
Senza dimenticare che l'assenteista è abituato a comunicare
la malattia soltanto all'ultimo momento e spesso in vista di
turni notturni o festivi, il che crea ancora più tensioni in
azienda per la necessità di coprire i buchi: la sua
condotta, dunque, integra i presupposti richiesti dal
recesso ex articolo 3 della legge 604/1966, secondo cui «il
licenziamento per giustificato motivo con preavviso è
determinato da un notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni
inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del
lavoro e al regolare funzionamento di essa».
Il licenziamento è deciso dall'azienda per ragioni tecniche:
non viene in rilievo la malattia, ma la quantità di assenze
che, pure incolpevoli, danno luogo a uno scarso rendimento
del dipendente e finiscono col danneggiare la produzione
aziendale per via degli scompensi organizzativi. Lo stratega
delle assenze stavolta ha sbagliato tattica
(articolo ItaliaOggi del 05.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione conseguente all’accertamento della natura
abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti
sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento
dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, all’esito un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal
legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad
un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui
peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza,
rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.
A tal riguardo, il Consiglio di Stato ha pure affermato che
nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edili abusive non trova applicazione
l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale, in
ragione della natura vincolata del potere repressivo
esercitato, che rende di per sé inconfigurabile l’apporto
partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi
legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n.
241/1990.
---------------
In primo luogo ai fini della
legittimità delle operazioni di accertamento
dell’inottemperanza, non è previsto che la relativa
verbalizzazione avvenga in loco ed in contraddittorio con
gli interessati, nei cui confronti l’art. 31, n. 4, d.P.R.
n. 380/2001 dispone solo la notificazione del provvedimento
di accertamento.
In secondo luogo, il ricorrente si è limitato a
riferire, in sede di motivi aggiunti, che i manufatti
indicati nell'ordinanza di demolizione sarebbero stati
effettivamente rimossi e demoliti. Tuttavia, non è stata
prodotta documentazione tecnica, fotografica o peritale
idonea a supportare tale dichiarazione, sicché la pretesa
confutazione degli accertamenti svolti dall’Amministrazione
comunale assume valenza meramente assertiva, non avendo il
ricorrente assolto l’onere di fornire elementi di prova di
cui abbia la disponibilità, ai sensi dell’art. 64, n. 1,
cod. proc. amm..
---------------
L’impugnata ordinanza di demolizione
trova giustificazione del tutto adeguata nell’indicazione
puntuale degli interventi realizzati in assenza di titoli
abilitativi e del vincolo gravante sul territorio, atteso
che presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la
contestata esecuzione dell’opera in difformità o assenza del
permesso di costruire.
Con la conseguenza che tale ordinanza, ove ricorrano i
predetti requisiti, è sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo
in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.
---------------
L’onere della prova grava sull’interessato che intende
dimostrare la legittimità del proprio operato, e non sul
Comune che, in presenza di un’opera edilizia non assistita
da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla a norma di legge.
---------------
Il decorso di un ampio lasso di tempo, di per sé, non
implica alcun aggravamento dell’onere di motivazione.
Invero, l’ordine di demolizione è atto vincolato e non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione.
Non è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, né
quest’ultima può essere sanata dal mero decorso del tempo,
per cui l’interessato non può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi.
---------------
Va rammentato come costituisca ius receptum che
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive è atto dovuto, senza alcun contenuto discrezionale,
avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente
all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del
termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino
dello stato dei luoghi, che opera automaticamente con
riguardo non solo all’opera abusiva ed all’area di sedime,
ma anche alle pertinenze.
Ne consegue che esso è sufficientemente motivato con
l’affermazione dell’abusività e dell’accertata
inottemperanza, essendo in re ipsa l’interesse pubblico
all’adozione della misura, senza l’obbligo di alcuna
specifica argomentazione in ordine all’acquisizione
dell’area necessaria. Come pure, detto provvedimento non
richiede alcuna preliminare determinazione inerente
l’esercizio di una scelta da parte del Comune
sull’applicabilità della stessa più grave misura
acquisitiva, rispetto alla semplice demolizione del
manufatto abusivo.
---------------
Sia l’ordinanza di ingiunzione alla demolizione, sia quella
di acquisizione al patrimonio comunale, possono essere
adottate senza la specifica indicazione delle aree oggetto
di acquisizione, giacché a tale individuazione può
procedersi, ai sensi dell’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, con
successivo e separato atto.
1. Il ricorso è infondato, alla stregua della motivazione
che segue.
2.1 In primo luogo, il ricorrente si duole dell’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento e della
conseguente preclusione di ogni possibilità di
partecipazione procedimentale, in relazione sia agli atti
impugnati col ricorso principale, sia a quelli contestati
con motivi aggiunti.
2.2. La doglianza è priva di pregio. Secondo un ormai
consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di
demolizione conseguente all’accertamento della natura
abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti
sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento
dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, all’esito un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal
legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad
un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui
peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza,
rientrando direttamente nella sua sfera di controllo (cfr.
C.d.S., sez. IV, 28.04.2014, n. 2194; id. 26.08.2008, n.
4659).
A tal riguardo, il Consiglio di Stato ha pure affermato che
nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edili abusive non trova applicazione
l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale, in
ragione della natura vincolata del potere repressivo
esercitato, che rende di per sé inconfigurabile l’apporto
partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi
legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n.
241/1990 (cfr. C.d.S., sez. IV, 04.02.2013, n. 666).
2.3. Inoltre, nel caso di specie emerge dagli atti (nota
Polizia Municipale n. 180/PM del 12.02.2008) che al
sopralluogo effettuato dai vigili urbani in data 08.02.2008
ha presenziato il sig. Di Benedetto, assistito dal proprio
legale di fiducia. Tale circostanza non è stata
specificamente contestata dal ricorrente, derivandone gli
effetti di cui all’art. 64, n. 2, cod. proc. amm.. Può
quindi ritenersi sostanzialmente raggiunto lo scopo cui è
preordinato l'articolo 7 della legge n. 241/1990, alla
stregua dell'indirizzo giurisprudenziale che tanto ravvisa
in presenza di un atto che a tale comunicazione possa
considerarsi equipollente, consentendo all'interessato di
conoscere l'imminente avvio del procedimento e di
parteciparvi. Peraltro, né nel corso del predetto
sopralluogo, né successivamente, il ricorrente ha inteso
rendere dichiarazioni, presentare memorie o fornire
contributi partecipativi di sorta, nonostante l’ordinanza di
demolizione sia stata emessa a distanza di oltre un anno dal
sopralluogo stesso.
2.4. Speculari conclusioni vanno raggiunte anche con
riguardo alla lamentata impossibilità di presenziare ai
sopralluoghi nel corso dei quali è stata accertata
l’inadempimento all'ordine di demolizione, non essendogli
previamente stata notificata la data di svolgimento dei
medesimi. Infatti, in primo luogo ai fini della
legittimità delle operazioni di accertamento
dell’inottemperanza, non è previsto che la relativa
verbalizzazione avvenga in loco ed in contraddittorio con
gli interessati, nei cui confronti l’art. 31, n. 4, d.P.R.
n. 380/2001 dispone solo la notificazione del provvedimento
di accertamento (cfr. TAR Campania, sez. II, 08.06.2011, n.
2992). In secondo luogo, il ricorrente si è limitato
a riferire, in sede di motivi aggiunti, che i manufatti
indicati nell'ordinanza di demolizione sarebbero stati
effettivamente rimossi e demoliti. Tuttavia, non è stata
prodotta documentazione tecnica, fotografica o peritale
idonea a supportare tale dichiarazione, sicché la pretesa
confutazione degli accertamenti svolti dall’Amministrazione
comunale assume valenza meramente assertiva, non avendo il
ricorrente assolto l’onere di fornire elementi di prova di
cui abbia la disponibilità, ai sensi dell’art. 64, n. 1,
cod. proc. amm..
3.1. Il ricorrente ha poi dedotto violazione di legge per
difetto di motivazione e di istruttoria, sia con riguardo
all’ordinanza di demolizione, sia in relazione al successivo
provvedimento di accertamento di inottemperanza.
3.2. In particolare, si è sostenuto che l’ordinanza di
demolizione sarebbe stata emanata senza tener conto degli
essenziali aspetti costituiti “dell’accertamento della
preesistenza delle opere sul fondo in questione”, nonché
dalla valutazione della tipologia degli interventi
realizzati, delle loro dimensioni e delle modalità adottate.
Da ciò sarebbe derivato il travisamento della situazione di
fatto e l’erronea qualificazione della fattispecie sul piano
giuridico, ritenendosi applicabile l’art. 31 d.P.R. n.
380/2001, anziché, in ragione della preesistenza e della
conseguente mera ristrutturazione dei manufatti, l’art. 33,
il quale consente, in taluni casi, l’applicazione di una
sanzione pecuniaria in luogo della demolizione. Inoltre, non
sarebbe stato dato conto alcuno delle ragioni poste a
fondamento della decisione di procedere all’irrogazione
della sanzione ripristinatoria che “costituisce
indubitabilmente la più decisa reazione che l’ordinamento
predispone per le violazioni del genere di cui si discute”.
Ancora, il decorso di un considerevole lasso di tempo dalla
realizzazione degli interventi e la prolungata inerzia
dell’Amministrazione avrebbero consolidato la posizione
soggettiva del ricorrente, ingenerando in capo allo stesso
una forma di affidamento, legittimo e meritevole di tutela,
da contemperarsi con l'interesse pubblico protetto, la cui
persistente esigenza di tutela andrebbe compiutamente
dimostrata tramite un’idonea motivazione.
3.3. Detti argomenti sono destituiti di fondamento.
Dagli atti di causa, si rileva che l’Amministrazione
resistente ha puntualmente verificato l’intervenuta
modificazione dello stato dei luoghi rispetto a quello
originario, in assenza dei prescritti titoli abilitativi,
così inverandosi nei rilievi mossi a carico del sig. Di
Benedetto i presupposti di fatto e di diritto per
l’intervento volto a ripristinare una situazione dei luoghi
sostanzialmente alterata. In tal senso, va condiviso quanto
sostenuto sul punto dal Comune resistente nei propri scritti
difensivi, nel senso che l’ordinanza impugnata da un lato
qualifica espressamente come nuove edificazioni i manufatti
abusi contestati, e dall’altro richiama ob relationem
i contenuti del rapporto della Polizia Municipale di
Pisticci prot. n. 180/PM del 12.02.2008, ove risultano
analiticamente descritte le opere eseguite dal ricorrente in
assenza di titolo abilitativo, raffigurate anche nella
documentazione fotografica ad esso allegata, e si dà atto
della presenza nel fondo interessato dalla verifica, oltre
ai manufatti abusivi di cui innanzi, tutti adibiti a
ricovero di animali, di una casetta di circa 15 mq., di
epoca remota e “fatiscente per vetustà", non oggetto
di ordine di demolizione. Va soggiunto che il suddetto
rapporto precisa, altresì, che il precedente proprietario
dell'immobile e dante causa del ricorrente, sig. Leonardo
D’Alessandro, sentito proprio in relazione alla consistenza
edilizia del fondo di cui è questione, ha affermato che: "La
casetta era esistente, vi era una piccola recinzione vicino
alla casetta esistente, dove erano ricoverati gli animali da
cortile. Inoltre originariamente vi erano 17 alberi di ulivo
nel luogo dove è sorta la vasca in calcestruzzo. Inoltre
dichiaro che non vi erano altre opere o baracche oltre alla
casetta. Il terreno è stato venduto da oltre 10 anni”.
Dunque, l’impugnata ordinanza di demolizione trova
giustificazione del tutto adeguata nell’indicazione puntuale
degli interventi realizzati in assenza di titoli abilitativi
e del vincolo gravante sul territorio, atteso che
presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la
contestata esecuzione dell’opera in difformità o assenza del
permesso di costruire. Con la conseguenza che tale
ordinanza, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata
abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse
pubblico alla sua rimozione.
Vanno disattese le deduzioni di parte secondo cui i
manufatti risalirebbero ad epoca anteriore a quella
dell’accertamento, e sarebbero solo stati interessati da
interventi di ristrutturazione. In disparte l’esito degli
accertamenti svolti dalla Polizia Municipale e le
dichiarazioni del precedente proprietario del fondo, di
segno diametralmente opposto, l’onere della prova grava
sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del
proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di
un’opera edilizia non assistita da un titolo che la
legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma
di legge (cfr. TAR Basilicata, 13.05.2010, n. 599). Ebbene,
ancora una volta difettano, con evidenza, riscontri di sorta
in ordine all’epoca di realizzazione dei manufatti, alla
preesistenza delle opere rispetto al momento dell’acquisto
da parte del ricorrente, alla natura e all’entità degli
interventi asseritamente posti in essere.
Deve ancora osservarsi, sul punto, che il decorso di un
ampio lasso di tempo, di per sé, non implica alcun
aggravamento dell’onere di motivazione. Invero, l’ordine di
demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non
è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, né
quest’ultima può essere sanata dal mero decorso del tempo,
per cui l’interessato non può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi (cfr. C.d.S., sez. VI, 11.05.2011, n.
2781; id., 05.04.2012, n. 2038).
3.5. Per quanto innanzi, non coglie nel segno neppure la
censura volta a sostenere il difetto di motivazione del
provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine
di demolizione.
Va infatti rammentato come costituisca ius receptum
(cfr. TAR Lazio, sez. I-quater 29.07.2014, n. 8304) che
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive è atto dovuto, senza alcun contenuto discrezionale,
avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente
all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del
termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino
dello stato dei luoghi, che opera automaticamente con
riguardo non solo all’opera abusiva ed all’area di sedime,
ma anche alle pertinenze. Ne consegue che esso è
sufficientemente motivato con l’affermazione dell’abusività
e dell’accertata inottemperanza, essendo in re ipsa
l’interesse pubblico all’adozione della misura, senza
l’obbligo di alcuna specifica argomentazione in ordine
all’acquisizione dell’area necessaria. Come pure, detto
provvedimento non richiede alcuna preliminare determinazione
inerente l’esercizio di una scelta da parte del Comune
sull’applicabilità della stessa più grave misura
acquisitiva, rispetto alla semplice demolizione del
manufatto abusivo (cfr. TAR Lazio, sez. II, 12.04.2002, n.
3160).
...
5.1. Infine, è infondata la censura concernente la pretesa
indeterminatezza e genericità, sul versante dell’esatta
individuazione dell’area da acquisire al patrimonio
comunale, tanto dell’ordinanza di demolizione quanto del
provvedimento di accertamento di inottemperanza. In tal
senso, si richiama il condivisibile orientamento
giurisprudenziale secondo cui, sia l’ordinanza di
ingiunzione alla demolizione, sia quella di acquisizione al
patrimonio comunale, possono essere adottate senza la
specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione,
giacché a tale individuazione può procedersi, ai sensi
dell’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, con successivo e separato
atto (cfr. C.d.S., sez. VI, 08.04.2004, n. 1998; TAR
Sicilia, sez. III, 23.07.2014, n. 2012; TAR Calabria,
Catanzaro, sez. II, 08.03.2007, n. 161; TAR Sardegna, sez.
II, 27.09.2006, n. 2013).
5.2. Del pari, è errata in punto di fatto la tesi per cui il
Comune resistente, mediante gli atti impugnati, avrebbe
inteso acquisire l’intera particella di proprietà del
ricorrente, di consistenza ben oltre superiore al decuplo
della superficie delle opere abusive. Infatti, nel
provvedimento di accertamento di inottemperanza n. 223/2009
si legge che esso costituisce titolo per l’acquisizione al
patrimonio comunale dei soli beni abusivamente realizzati,
dell’area di sedime e di quella pertinenziale, necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive
(TAR Basilicata,
sentenza 04.09.2014 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere di recinzione del terreno non si
configurano come nuova costruzione, per la quale è
necessario il previo rilascio di permesso di costruire,
quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius
excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto
delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere
murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta
da paletti in ferro, come è nel caso di specie.
L'intervento in questione, per costante giurisprudenza, non
rientra tra gli interventi di edilizia libera specificamente
elencati dall’art. 6 del d.P.R. 380/2001, come sembra
sostenere il ricorrente, bensì nella portata residuale degli
interventi realizzabili con il regime semplificato di cui
all’art. 22 del D.P.R. 380/2001. Ciò nondimeno, l’art. 37,
ultimo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 fa salva
l’applicazione dell’art. 31 dello stesso D.P.R. (relativo
all’ordine di demolizione) anche nel caso di mancata
denuncia d’inizio attività, in relazione all’intervento
edilizio realizzato, ove ne ricorrano i presupposti.
Ora, l’ordine di demolizione della rete di recinzione
costituisce atto dovuto, trattandosi di manufatto
suscettibile, per le sue dimensioni e caratteristiche, di
recare pregiudizio ai beni paesaggistici oggetto di
protezione, realizzato in zona sottoposta a vincolo senza
previa autorizzazione paesaggistica.
Il ricorrente si duole ancora del fatto che l’ordinanza
impugnata ha ingiunto la demolizione di una rete metallica,
sostenuta da paletti in ferro, per la quale non sarebbe
prescritto il permesso di costruire.
Osserva il Collegio al riguardo che le opere di recinzione
del terreno non si configurano come nuova costruzione, per
la quale è necessario il previo rilascio di permesso di
costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo
ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e
l'assetto delle singole proprietà. Tale è il caso della
recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una
semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, come è
nel caso di specie.
L'intervento in questione, per costante giurisprudenza, non
rientra tra gli interventi di edilizia libera specificamente
elencati dall’art. 6 del d.P.R. 380/2001, come sembra
sostenere il ricorrente, bensì nella portata residuale degli
interventi realizzabili con il regime semplificato di cui
all’art. 22 del D.P.R. 380/2001. Ciò nondimeno, l’art. 37,
ultimo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 fa salva
l’applicazione dell’art. 31 dello stesso D.P.R. (relativo
all’ordine di demolizione) anche nel caso di mancata
denuncia d’inizio attività, in relazione all’intervento
edilizio realizzato, ove ne ricorrano i presupposti.
Ora, l’ordine di demolizione della rete di recinzione
costituisce atto dovuto, trattandosi di manufatto
suscettibile, per le sue dimensioni e caratteristiche, di
recare pregiudizio ai beni paesaggistici oggetto di
protezione, realizzato in zona sottoposta a vincolo senza
previa autorizzazione paesaggistica (Cfr. TAR Basilicata,
02.08.2012, n. 366; TAR Veneto, sez. II, 06.08.2012, n.
1102)
(TAR Basilicata,
sentenza 04.09.2014 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - VARI: Nel casellario con motivazione.
La condanna per reati tributari non basta a negare la «non
menzione». Cassazione. I limiti per il riconoscimento del beneficio a
seguito della sentenza pronunciata dai giudici.
Il giudice deve
specificare nella sentenza le circostanze che lo inducono a
negare al contribuente, condannato per dichiarazione
infedele dei redditi, la non menzione della pena nel
certificato del casellario giudiziale. Tale beneficio
infatti non può essere negato rilevando soltanto la natura
del reato.
A fornire questa interessante interpretazione è
la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza
03.09.2014 n. 36703.
Al legale rappresentante di una
srl, esercente l'attività immobiliare, la competente Corte
di appello confermava la condanna a otto mesi di reclusione
per dichiarazione infedele dei redditi dell'anno 2005 avendo
evaso Irpeg, secondo la tesi accusatoria, per oltre 329mila
euro. Tale importo evaso superava entrambe le soglie di
punibilità previste dall'articolo 4 del Dlgs 74/2000. Era
concessa all'imputato la sospensione condizionale della pena
ma non il beneficio della non menzione della condanna nel
certificato del casellario giudiziale. In particolare,
secondo la Corte di appello, la non menzione in questione
doveva essere esclusa sulla base della natura del reato,
ostativa al proficuo inserimento del reo nella società.
L'imputato proponeva allora ricorso per cassazione
lamentando, fra l'altro, la manifesta illogicità in merito
alla negata concessione del beneficio avendo riguardo alla
tenuità della pena in concreto irrogata.
Si ricorda che a norma dell'articolo 175 del codice penale
se, con una prima condanna, è inflitta una pena detentiva
non superiore a due anni, il giudice, avuto riguardo ad una
serie di circostanze, può ordinare in sentenza che non sia
fatta menzione della condanna nel certificato del casellario
giudiziale, spedito a richiesta di privati, non per ragione
di diritto elettorale.
Se il condannato commette successivamente un delitto,
l'ordine di non fare menzione della condanna precedente
viene revocato. Le circostanze che il giudice deve valutare
a tal fine, in base all'articolo 133 del codice penale,
concernono la gravità del reato (natura, specie, mezzi,
oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell'azione;
gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona
offesa dal reato; intensità del dolo o dal grado della
colpa) e la capacità a delinquere del colpevole (motivi a
delinquere, carattere del reo; precedenti penali e
giudiziari, condotta e vita del reo antecedenti al reato;
condotta contemporanea o susseguente al reato; condizioni di
vita individuale, familiare e sociale del reo).
Secondo la Corte di cassazione il beneficio della non
menzione ha lo scopo di sottrarre alla punizione il
colpevole che presenti possibilità di ravvedimento e nel
contempo di costituire attraverso la revoca, un'efficace
remora ad ulteriori violazioni penali. Per negare il
beneficio, però, il giudice non può fare esclusivo
riferimento alla natura del reato: è necessaria infatti
un'indagine specifica da condurre in relazione ai parametri
previsti dal predetto articolo 133 del codice penale.
Poiché nella specie la Corte di appello si era limitata a
escludere la non menzione soltanto sulla base della natura
del reato, ritenuta ostativa al proficuo inserimento del reo
nella società, il ricorso è stato accolto. Peraltro la
decisione di irrogare in concreto una pena nei limiti dei
minimi edittali risultava, secondo i giudici di legittimità,
contraddittoria rispetto al diniego della non menzione, in
quanto anche i criteri per la determinazione della pena
devono ispirarsi alle medesime previsioni del ripetuto
articolo 133 del codice penale (articolo Il Sole 24 Ore del
04.09.2014). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato ha chiarito che
“l’aggiudicatario provvisorio assume la veste di
controinteressato nel ricorso proposto dal concorrente
escluso, solo quando l’esclusione e l’aggiudicazione siano
avvenute contestualmente, ossia senza soluzione di
continuità, potendo il soggetto escluso solo in tal caso
rendersi perfettamente conto che l’impugnativa incide sulla
posizione, differenziata e giuridicamente protetta, di altro
soggetto privato” avendo cura di precisare che “non sussiste
alcun onere per l'impresa esclusa di seguire gli sviluppi
del procedimento al quale è ormai estranea ed impugnare gli
atti conseguenti, ricercando i controinteressati successivi,
salva la facoltà per questi ultimi di proporre l'opposizione
di terzo”.
Può aggiungersi che non a caso l’art. 79, comma 5, del
Codice dei contratti pubblici prevede l’obbligo di
comunicazione d’ufficio, “anche a coloro la cui candidatura
o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione
avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette
impugnazioni”, della solo l'aggiudicazione definitiva. Solo
quest’ultima fa scattare l’obbligo di notificazione del
ricorso originario o, se del caso, dei motivi aggiunti.
La posizione di aggiudicatario provvisorio, essendo precaria
e non definitiva, non è cioè tale da integrare un
“controinteresse” rilevante ai fini dell’ammissibilità del
ricorso introduttivo. Altro è, l’innegabile interesse
dell’aggiudicatario provvisorio ad intervenire nel giudizio
per difendere le relative possibilità di aggiudicazione
definitiva. In relazione a questa posizione differenziata e
qualificata, quest’ultimo, ove non sia intervenuto, né sia
stato chiamato iussu iudicis, può proporre –come del resto è
avvenuto nel caso di specie– opposizione di terzo.
A mente dell’art. 108 del codice del processo
amministrativo, infatti, “un terzo può fare opposizione
contro una sentenza del Tribunale amministrativo regionale o
del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti,
ancorché passata in giudicato, quando pregiudica i suoi
diritti o interessi legittimi”. E non v’è dubbio che la
sentenza che riammette un soggetto escluso, tra l’altro
autore dell’offerta maggiormente conveniente per
l’amministrazione, pregiudichi l’interesse legittimo
dell’aggiudicatario provvisorio che aspiri alle definitiva
aggiudicazione.
La pronuncia, oggetto di gravame, merita
riforma.
Il Consiglio di Stato ha chiarito che “l’aggiudicatario
provvisorio assume la veste di controinteressato nel ricorso
proposto dal concorrente escluso, solo quando l’esclusione e
l’aggiudicazione siano avvenute contestualmente, ossia senza
soluzione di continuità, potendo il soggetto escluso solo in
tal caso rendersi perfettamente conto che l’impugnativa
incide sulla posizione, differenziata e giuridicamente
protetta, di altro soggetto privato” avendo cura di
precisare che “non sussiste alcun onere per l'impresa
esclusa di seguire gli sviluppi del procedimento al quale è
ormai estranea ed impugnare gli atti conseguenti, ricercando
i controinteressati successivi, salva la facoltà per questi
ultimi di proporre l'opposizione di terzo” (cfr., fra le più
recenti, Sez. V 27/05/2011, n. 3193).
Può aggiungersi che non a caso l’art. 79, comma 5, del Codice
dei contratti pubblici prevede l’obbligo di comunicazione
d’ufficio, “anche a coloro la cui candidatura o offerta
siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso
l'esclusione, o sono in termini per presentare dette
impugnazioni”, della solo l'aggiudicazione definitiva. Solo
quest’ultima fa scattare l’obbligo di notificazione del
ricorso originario o, se del caso, dei motivi aggiunti.
La posizione di aggiudicatario provvisorio, essendo precaria
e non definitiva, non è cioè tale da integrare un
“controinteresse” rilevante ai fini dell’ammissibilità del
ricorso introduttivo. Altro è, l’innegabile interesse
dell’aggiudicatario provvisorio ad intervenire nel giudizio
per difendere le relative possibilità di aggiudicazione
definitiva. In relazione a questa posizione differenziata e
qualificata, quest’ultimo, ove non sia intervenuto, né sia
stato chiamato iussu iudicis, può proporre –come del resto
è avvenuto nel caso di specie– opposizione di terzo. A
mente dell’art. 108 del codice del processo amministrativo,
infatti, “un terzo può fare opposizione contro una sentenza
del Tribunale amministrativo regionale o del Consiglio di
Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in
giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi
legittimi”. E non v’è dubbio che la sentenza che riammette
un soggetto escluso, tra l’altro autore dell’offerta
maggiormente conveniente per l’amministrazione, pregiudichi
l’interesse legittimo dell’aggiudicatario provvisorio che
aspiri alle definitiva aggiudicazione.
Da quanto chiarito discende che l’opposizione di terzo, per
quanto ammissibile, non poteva sortire l’effetto di
trasformare la sentenza opposta, in una declaratoria di
inammissibilità dell’originario ricorso di Telecom per
mancata notifica all’aggiudicatario provvisorio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.09.2014 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle procedure di gara disciplinate dal codice
dei contratti pubblici, il “potere di soccorso” sancito
dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice (d.lgs. 12.04.2006,
n. 163) si sostanzia nel dovere (e non nella mera facoltà)
della stazione appaltante di regolarizzare certificati,
documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di
completarli, sia pur solo in relazione ai requisiti
soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti,
rettificare errori materiali o refusi, fornire
interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par
condicio dei concorrenti.
Esso non può e non deve operare, invece, quando manca il
documento o la dichiarazione, o la forma prevista a pena di
esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal
regolamento di esecuzione e dalle leggi statali.
L’Adunanza Plenaria ha
chiarito che nelle procedure di gara disciplinate dal codice
dei contratti pubblici, il “potere di soccorso” sancito
dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice (d.lgs. 12.04.2006, n. 163) si sostanzia nel dovere (e non nella mera
facoltà) della stazione appaltante di regolarizzare
certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero
di completarli, sia pur solo in relazione ai requisiti
soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti,
rettificare errori materiali o refusi, fornire
interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par
condicio dei concorrenti. Esso non può e non deve operare,
invece, quando manca il documento o la dichiarazione, o la
forma prevista a pena di esclusione dal codice dei contratti
pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi
statali (cfr. Ad. Plen. 9/2014).
Nel caso di specie, la dichiarazione era stata prodotta, e
nessuna prescrizione imponeva l’allegazione dell’originale:
si imponeva quindi l’obbligo di consentire la
regolarizzazione per il tramite della successiva produzione
degli originali ( produzione che l’offerente si era già reso
disponibile ad effettuare ove richiestone), salvo,
ovviamente, il necessario e successivo controllo circa la
conformità delle copie fotostatiche agli originali.
Né può accedersi alla tesi secondo la quale la dichiarazione
prodotta in copia sarebbe giuridicamente “inesistente”: è
pacifico che il documento è stato allegato e che quindi lo
stesso fosse esistente. La circostanza che si trattasse di
copie fotostatiche pone piuttosto un problema di regolarità,
emendabile, giusto quanto sopra chiarito, ove le copie si
confermino effettivamente riproduttive di dichiarazioni
originali integranti tutti i requisiti di forma richiesti
dall’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.09.2014 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il principio tempus regit actum è applicabile
solo ai titoli autorizzatori preventivi e non a quelli in
sanatoria, ex artt. 31 e ss. legge 47/1995, i quali devono
invece tener conto della circostanza che la costruzione è
già eseguita, nonché dell’esigenza che la misura
dell’oblazione non venga a dipendere dai tempi e dalla
discrezionalità delle singole amministrazioni.
L’appello non è fondato.
Può in proposito richiamarsi l’orientamento di questo
Consiglio secondo il quale il principio tempus regit actum è
applicabile solo ai titoli autorizzatori preventivi e non a
quelli in sanatoria, ex artt. 31 e ss. legge 47/1995, i quali
devono invece tener conto della circostanza che la
costruzione è già eseguita, nonché dell’esigenza che la
misura dell’oblazione non venga a dipendere dai tempi e
dalla discrezionalità delle singole amministrazioni (Cfr.
Sez. V, 06.09.2002, n. 4562).
Nel caso di specie, poi, come correttamente rilevato dal
TAR, non ricorre l’ipotesi prefigurata dall’art. 39, comma 10,
della l. 729/1994, il quale ha riferimento alle domande di
concessione in sanatoria “non definite per il mancato
pagamento dell’oblazione”, mentre qui, la somma autoliquidata è stata interamente corrisposta dall’originario
istante, salvo il conguaglio chiesto dal Comune in sede di
rilascio del titolo in sanatoria.
Quanto agli interessi, l’aporia, segnalata dal Comune
appellante, secondo la quale all’applicazione della
“vecchia” tariffa, favorevole per l’istante, si sarebbe
aggiunta la “beffa” del computo degli interessi solo a far
data dal rilascio del titolo in sanatoria, essa dipende
dalla tardiva definizione del procedimento di condono, il
quale, costituendo esercizio di potere autoritativo, è nel
dominio dell’amministrazione (ben avrebbe potuto,
l’amministrazione, anche in caso di inerzia dell’istante,
imporre termini perentori per l’integrazione istruttoria, al
fine dell’adozione di una celere decisione).
Gli interessi quindi decorrono dal momento in cui
l’amministrazione ha provveduto a liquidare e richiedere il
contributo, come correttamente già statuito dal TAR
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.09.2014 n. 4486 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ove l'atto impugnato (provvedimento o sentenza)
sia legittimamente fondato su una ragione di per sé
sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per
difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal
ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall'autorità
emanante a rigetto della sua istanza.
Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo
si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali
di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è
sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure
mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel
suo complesso resti esente dall'annullamento.
---------------
Il Collegio condivide e fa proprio il principio generale
costantemente predicato dalla pacifica giurisprudenza
amministrativa quello per cui “la legittimità di un
provvedimento amministrativo si deve accertare con
riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al
momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus
regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti
successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post
precedenti atti amministrativi”.
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta,
ritiene il detto canone valutativo principio di
imprescindibile applicazione.
Esso riguarda il dato giuridico e normativo ma, anche, i
dati e le circostanze di fatto rientranti nel patrimonio
cognitivo dell’amministrazione al momento in cui venne reso
il provvedimento: ne discende che lo scrutinio del giudice
deve tenere conto di tali elementi e (con più stringente
aderenza alla fattispecie per cui è causa) non potrebbe
dichiarare la illegittimità di un provvedimento emesso sulla
basa di dati in possesso dell’Amministrazione e poi
risultati fallaci, incompleti, etc., sulla scorta di altri
elementi, prodotti in giudizio dagli originari ricorrenti,
ma non precedentemente ostesi all’Amministrazione, che ne
aveva fatto rituale richiesta.
Ciò salvo che risulti che la richiesta era inutile,
defatigatoria, ultronea, o vertesse su elementi già in
possesso dell’Amministrazione.
Ciò che si vuol dire, cioè, è che, se il processo non è la
“naturale continuazione dell’istruttoria”, esso è pur sempre
il luogo deputato alla verifica della legittimità
dell’azione amministrativa: se il privato è rimasto inerte
ad una richiesta istruttoria dell’amministrazione, non può
poi fondatamente dolersene attraverso la attività giudiziale
che (solo in detta sede) abbia colmato la lacuna
effettivamente sussistente e supportante, tra l’altro, il
diniego.
Sotto il profilo generale dell’ordine di
esame delle questioni, nel rilevare che l’azione
amministrativa gravata si fondava su una pluralità di
profili reiettivi, e che anche la sentenza impugnata ricalca
tale schema, si precisa immediatamente la convinta adesione
del Collegio al risalente principio, che costituisce jus
receptum nella giurisprudenza amministrativa, secondo il
quale “Ove l'atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia
legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente
a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di
interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente
avverso le altre ragioni opposte dall'autorità emanante a
rigetto della sua istanza.” (Consiglio Stato , sez. VI, 31.03.2011, n. 1981); ”Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo
si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali
di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è
sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure
mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel
suo complesso resti esente dall'annullamento.” (Consiglio
Stato, sez. VI, 29.03.2011, n. 1897).
Il principio è pacificamente predicabile anche alle
impugnazioni delle sentenze che si fondino su più capi
reiettivi.
---------------
Il Collegio condivide e
fa proprio il principio generale costantemente predicato
dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui
“la legittimità di un provvedimento amministrativo si deve
accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto
esistente al momento della sua emanazione, secondo il
principio del "tempus regit actum", con conseguente
irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in
alcun caso legittimare ex post precedenti atti
amministrativi” (Cons. Stato Sez. IV, 21.08.2012, n. 4583).
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta,
ritiene il detto canone valutativo principio di
imprescindibile applicazione (ex multis: Cass. civ. Sez. VI,
22.02.2012, n. 2672).
Esso riguarda il dato giuridico e normativo ma, anche, i
dati e le circostanze di fatto rientranti nel patrimonio
cognitivo dell’amministrazione al momento in cui venne reso
il
provvedimento: ne discende che lo scrutinio del giudice deve
tenere conto di tali elementi e (con più stringente aderenza
alla fattispecie per cui è causa) non potrebbe dichiarare la
illegittimità di un provvedimento emesso sulla basa di dati
in possesso dell’Amministrazione e poi risultati fallaci,
incompleti, etc., sulla scorta di altri elementi, prodotti in
giudizio dagli originari ricorrenti, ma non precedentemente
ostesi all’Amministrazione, che ne aveva fatto rituale
richiesta.
Ciò salvo che risulti che la richiesta era inutile,
defatigatoria, ultronea, o vertesse su elementi già in
possesso dell’Amministrazione.
Ciò che si vuol dire, cioè, è che, se il processo non è la “naturale
continuazione dell’istruttoria”, esso è pur sempre il
luogo deputato alla verifica della legittimità dell’azione
amministrativa: se il privato è rimasto inerte ad una
richiesta istruttoria dell’amministrazione, non può poi
fondatamente dolersene attraverso la attività giudiziale che
(solo in detta sede) abbia colmato la lacuna effettivamente
sussistente e supportante, tra l’altro, il diniego
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.09.2014 n. 4485 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 19, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
dispone, in modo affatto chiaro, che "Qualora la
destinazione d'uso delle opere indicate nei commi
precedenti...venga comunque modificata nei dieci anni
successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo di
costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente
alla nuova destinazione, determinata con riferimento al
momento dell'intervenuta variazione".
La disposizione si riferisce in modo omnicomprensivo al
contributo di costruzione, come definito dal precedente art.
16, senza distinzione tra le sue componenti, e quindi tanto
alla quota parte riferibile agli oneri di urbanizzazione,
quanto a quella relativa al costo di costruzione, e trova
giustificazione nel diverso regime, più favorevole per gli
immobili a destinazione industriale o artigianale (per i
quali ai sensi del precedente comma 1 è dovuto contributo
limitato ai soli oneri urbanizzativi) e più gravoso per gli
immobili a destinazione turistica, commerciale, direzionale
e a servizi (per cui invece ai sensi del comma secondo,
oltre agli oneri urbanizzativi è dovuto un contributo
commisurato anche al costo di costruzione, sebbene nella più
ridotta misura ivi specificata, pari al 10% del costo di
costruzione documentato).
Ne consegue che, come chiarito da questa Sezione, la quota
parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta
"...anche in presenza di una trasformazione edilizia che,
indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela
produttiva di vantaggi economici ad essa connessi,
situazione che si verifica per il mutamento di destinazione
o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che
comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato, Sez.
IV, 20.12.2013, n. 6160; vedi anche 14.10.2011, n. 5539,
quest'ultima peraltro nel senso che anche la sola variazione
di destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria,
da commercio all'ingrosso a commercio al dettaglio,
giustifica il pagamento del contributo, anche per la quota
afferente al costo di costruzione).
D'altro canto, è indiscutibile che il mutamento di
destinazione d'uso, ancorché senza opere edilizie, da una
tipologia utilizzativa artigianale ad altra commerciale
implica un mutamento del carico urbanistico, connesso ai ben
diversi flussi di traffico e clientela, nonché della
redditività, e quindi dei vantaggi economici connessi alla
destinazione e all'attività.
In relazione all'incontestato mutamento della destinazione
d'uso comportante passaggio da una ad altra tipologia e/o
categoria edilizia, d'altra parte, il Comune non era tenuto
a supportare la propria richiesta con alcuna motivazione
specifica, essendo sufficiente il richiamo al presupposto
giuridico-fattuale, ciò che implica il superamento anche dei
rilievi introdotti con la memoria di replica a prescindere
dalla loro ritualità, contestata dal difensore
dell'Amministrazione in sede di discussione.
Binario S.p.A., con sede in Padova, in forza di contratto di
locazione finanziaria con Italease Network S.p.A., ha
acquisito un capannone, ubicato in Padova, al corso Stati
Uniti (distinto in catasto a foglio n. 9 particella n. 461),
realizzato in base al permesso di costruire n. 348 del 28.09.2005, e successive varianti, con specifica
destinazione artigianale, comunicando quindi il mutamento di
destinazione d'uso da artigianale a commerciale (parte
all'ingrosso e parte al dettaglio).
Con note del 174808 del 25.07.2012 e n. 192751 del 20.08.2012 (quest'ultima rettificativa delle somme
richieste) il Comune di Padova, rilevato che anche in
assenza di opere edilizie il mutamento di destinazione d'uso
implicava trasformazione della categoria edilizia e aumento
del carico urbanistico, ha richiesto il pagamento, a titolo
di differenza sul contributo di costruzione dovuto, della
complessiva somma di € 372.239,81 (di cui € 304.843,56 per
costo di costruzione e € 67,396,26 per oneri urbanizzativi).
Con il ricorso in primo grado la società ha proposto
cumulative domande di annullamento e accertamento,
sostenendo che il costo di costruzione non sia dovuto in
assenza di opere edilizie.
...
Nel merito l'appello è destituito di fondamento giuridico e
deve essere rigettato.
L'art. 19, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone,
in modo affatto chiaro, che "Qualora la destinazione d'uso
delle opere indicate nei commi precedenti...venga comunque
modificata nei dieci anni successivi all'ultimazione dei
lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura
massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata
con riferimento al momento dell'intervenuta variazione".
La disposizione si riferisce in modo omnicomprensivo al
contributo di costruzione, come definito dal precedente art.
16, senza distinzione tra le sue componenti, e quindi tanto
alla quota parte riferibile agli oneri di urbanizzazione,
quanto a quella relativa al costo di costruzione, e trova
giustificazione nel diverso regime, più favorevole per gli
immobili a destinazione industriale o artigianale (per i
quali ai sensi del precedente comma 1 è dovuto contributo
limitato ai soli oneri urbanizzativi) e più gravoso per gli
immobili a destinazione turistica, commerciale, direzionale
e a servizi (per cui invece ai sensi del comma secondo,
oltre agli oneri urbanizzativi è dovuto un contributo
commisurato anche al costo di costruzione, sebbene nella più
ridotta misura ivi specificata, pari al 10% del costo di
costruzione documentato).
Ne consegue che, come chiarito da questa Sezione, la quota
parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta
"...anche in presenza di una trasformazione edilizia che,
indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela
produttiva di vantaggi economici ad essa connessi,
situazione che si verifica per il mutamento di destinazione
o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che
comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; vedi anche 14.10.2011,
n. 5539, quest'ultima peraltro nel senso che anche la sola
variazione di destinazione d'uso all'interno di una stessa
categoria, da commercio all'ingrosso a commercio al
dettaglio, giustifica il pagamento del contributo, anche per
la quota afferente al costo di costruzione).
D'altro canto, è indiscutibile che il mutamento di
destinazione d'uso, ancorché senza opere edilizie, da una
tipologia utilizzativa artigianale ad altra commerciale
implica un mutamento del carico urbanistico, connesso ai ben
diversi flussi di traffico e clientela, nonché della
redditività, e quindi dei vantaggi economici connessi alla
destinazione e all'attività.
In relazione all'incontestato mutamento della destinazione
d'uso comportante passaggio da una ad altra tipologia e/o
categoria edilizia, d'altra parte, il Comune non era tenuto
a supportare la propria richiesta con alcuna motivazione
specifica, essendo sufficiente il richiamo al presupposto
giuridico-fattuale, ciò che implica il superamento anche dei
rilievi introdotti con la memoria di replica a prescindere
dalla loro ritualità, contestata dal difensore
dell'Amministrazione in sede di discussione.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o
eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha
ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque
inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.09.2014 n. 4483 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’ingiunzione di demolizione non è necessaria
la specifica indicazione delle aree da acquisire al
patrimonio comunale; tale dato, infatti, deve essere
contenuto nel successivo atto di acquisizione, a pena di
illegittimità di quest’ultimo, che costituisce il titolo per
l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari.
Da tale orientamento, peraltro già condiviso da questo TAR,
il Collegio non ha motivo di discostarsi.
---------------
L’attività di repressione degli abusi edilizi, essendo
collegata alla tutela dell’interesse pubblico per un
ordinato sviluppo del territorio, così come delineato nello
strumento urbanistico e nella regolamentazione urbanistica
vigente, non è soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione e può essere esercitata anche a notevole
distanza di tempo dalla commissione dell’abuso.
Né può essere ravvisata, nella fattispecie, una carenza
motivazionale per essere l’ordine di demolizione
esclusivamente sorretto dal richiamo al carattere abusivo
dell’opera realizzata.
La giurisprudenza infatti è pressoché concorde nel ritenere
che “presupposto per l’adozione dell’ordinanza di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione dell’opera in totale difformità della concessione
o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale
ordinanza –ove ricorrano i predetti requisiti– è atto dovuto
ed è sufficientemente motivata con l’affermazione
dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa
l’interesse pubblico alla sua rimozione".
Con il primo motivo d’impugnazione lamenta la
violazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 per essersi
l’Ufficio Tecnico limitato ad un generico rinvio alla
previsione normativa, senza fornire una puntuale indicazione
dell’area da acquisirsi, nel caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione.
Tale censura è priva di fondamento.
Nell’ingiunzione di demolizione non è necessaria la
specifica indicazione delle aree da acquisire al patrimonio
comunale; tale dato, infatti, deve essere contenuto nel
successivo atto di acquisizione, a pena di illegittimità di
quest’ultimo, che costituisce il titolo per l’immissione in
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari
(Cons. St. V sez. 26/01/2000 n. 341; Cons. St. VI sez.
08/04/2004 n. 1997; TAR Lombardia–Brescia 02/07/2002 n. 1011).
Da tale orientamento, peraltro già condiviso da questo TAR
(sent. n. 4309/2003), il Collegio non ha motivo di
discostarsi.
Del pari infondato si rivela il secondo motivo
d’impugnazione con il quale il ricorrente, muovendo dal
tempo dell’abuso, sostiene che l’Amministrazione, “avrebbe
dovuto valutare la situazione di consolidato affidamento del
privato e …. dar conto delle ragioni di pubblico interesse
che depongono per la demolizione del fabbricato”.
Al riguardo va ribadito che l’attività di repressione degli
abusi edilizi, essendo collegata alla tutela dell’interesse
pubblico per un ordinato sviluppo del territorio, così come
delineato nello strumento urbanistico e nella
regolamentazione urbanistica vigente, non è soggetta a
termini di decadenza o di prescrizione e può essere
esercitata anche a notevole distanza di tempo dalla
commissione dell’abuso (Cons. St. IV sez. 27/04/2004 n. 2529;
TAR Campania–Napoli VII sez. 20/07/2010 n. 17168).
Né può essere ravvisata, nella fattispecie, una carenza
motivazionale per essere l’ordine di demolizione
esclusivamente sorretto dal richiamo al carattere abusivo
dell’opera realizzata.
La giurisprudenza infatti è pressoché concorde nel ritenere
che “presupposto per l’adozione dell’ordinanza di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione dell’opera in totale difformità della concessione
o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale
ordinanza –ove ricorrano i predetti requisiti– è atto
dovuto ed è sufficientemente motivata con l’affermazione
dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa
l’interesse pubblico alla sua rimozione" (Cons. St. IV sez.
03/02/1996 n. 95: TARBasilicata 20/02/2004 n. 103)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 03.09.2014 n. 2256 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
riesame dell'abusività dell'opera edilizia, provocato
dall'istanza di sanatoria dell'autore dell'abuso, determina
la necessaria formazione di un nuovo provvedimento che vale
comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio
in precedenza emanato con la conseguenza che, comunque,
anche in caso di rigetto dell'istanza, l'Amministrazione
deve emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio,
disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia
ritenuta abusiva, con l'assegnazione di un nuovo termine per
adempiere.
---------------
Costituisce ius
receptum che il provvedimento di diniego del rilascio della
concessione di costruzione in sanatoria deve compiutamente
motivare l'effettivo contrasto tra l'opera realizzata e gli
strumenti urbanistici e tale contrasto deve essere
evidenziato in maniera intelligibile, così da consentire al
soggetto interessato di impugnare l'atto davanti al G.A.,
denunziando non solo i vizi propri della motivazione, ma
anche le errate interpretazioni delle norme urbanistiche
valutate col giudizio di non conformità.
---------------
Quando nell’ambito di una procedura di…..accertamento di
conformità, l’Amministrazione svolge una valutazione
negativa, essa deve motivare sulla base della specifica
istruttoria espletata, con puntualità di riferimenti le
ragioni tecnico-valutative che impediscono nella fattispecie
il rilascio della concessione in sanatoria.
Viceversa, come esattamente rilevato in ricorso, il
provvedimento di diniego impugnato deve ritenersi
illegittimo perché non esterna in maniera compiuta e
puntuale le ragioni per cui l’Amministrazione abbia ritenuto
di opporre il contestato diniego; in particolare il relativo
provvedimento finale non esplicita alcun concreto
riferimento alla normativa urbanistica violata.
---------------
Il
diniego di sanatoria di opere edilizie deve precisare quali
siano gli ostacoli di fatto ed in diritto che impediscano il
rilascio del provvedimento richiesto, e ciò al fine di porre
l’istante nelle condizioni di adeguare, ove possibile,
l’intervento alla normativa vigente ovvero di proporre
impugnativa in sede giurisdizionale, denunziando non solo il
difetto della motivazione, ma l’eventuale errata
interpretazione della disciplina urbanistica, edilizia ed
ambientale.
La signora L.A. impugna la nota prot. n. 8425/2014 del
12.03.2014 (con la quale il Dirigente dell’Ufficio
Urbanistica del Comune di Francavilla Fontana ha comunicato
il diniego definitivo al rilascio del permesso di costruire
in sanatoria richiesto ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n.
380/2001) e la consequenziale ordinanza di demolizione n.
115 del 09.04.2014, inerenti un box auto realizzato
antecedentemente al 1967 in assenza di titolo abilitativo.
...
Il ricorso deve essere accolto per le ragioni di diritto di
seguito esplicitate.
Il Collegio rileva preliminarmente che, secondo l’indirizzo
giurisprudenziale dominante, “il riesame dell'abusività
dell'opera edilizia, provocato dall'istanza di sanatoria
dell'autore dell'abuso, determina la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento che vale comunque a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio in precedenza
emanato con la conseguenza che, comunque, anche in caso di
rigetto dell'istanza, l'Amministrazione deve emanare un
nuovo provvedimento sanzionatorio, disponendo nuovamente la
demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva, con
l'assegnazione di un nuovo termine per adempiere” (in
tal senso, ex multis, TAR Lecce, Sez. III, n.
635/2011); pertanto, l’ordinanza di demolizione n. 34 del
28.01.2013 ha perso la propria efficacia lesiva a seguito
della presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità.
Con riferimento, poi, ai vizi denunciati in ordine
all’impugnato diniego (e alla illegittimità derivata della
successiva ordinanza di demolizione), fondato ed assorbente
si appalesa il motivo di gravame inerente il difetto di
motivazione, con il quale parte ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990, in
correlazione con l’art. 36 del D.P.R. 380/01 (mancando nel
provvedimento gravato qualsivoglia motivazione in ordine al
contrasto dell’opera con le prescrizioni urbanistiche, unica
valutazione che doveva esser compiuta dall’Amministrazione
in sede di procedimento per l’accertamento di conformità).
La censura è fondata.
Il Collegio, innanzitutto, rileva che il provvedimento in
parola fa discendere la difformità del manufatto all’epoca
dell’abuso dalla originaria mancanza di titolo abilitativo
(“non è mai stata prevista la costruzione di alcun
manufatto in quel sito”- lettera C - e “come ribadito
precedentemente, non vi sono autorizzazioni per la
costruzione di quel manufatto, pertanto la costruzione non
era conforme al progetto approvato e alle norme urbanistiche
vigenti al momento dell’abuso”- lettera D). Viceversa,
l'istanza di sanatoria trova la sua ragion d'essere proprio
nella suddetta, riconosciuta mancanza del titolo
autorizzatorio.
In secondo luogo, si osserva che il diniego di sanatoria, in
quanto atto a contenuto vincolato, è sufficientemente
motivato con il compiuto riferimento alla mancanza del
requisito della doppia conformità, mediante il puntuale
riferimento alle norme urbanistiche ed edilizie di cui si
assume il mancato rispetto.
In tal senso, l’orientamento giurisprudenziale assolutamente
prevalente, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per
discostarsi, è fermo nell’assunto che “costituisce ius
receptum che il provvedimento di diniego del rilascio della
concessione di costruzione in sanatoria deve compiutamente
motivare l'effettivo contrasto tra l'opera realizzata e gli
strumenti urbanistici e tale contrasto deve essere
evidenziato in maniera intelligibile, così da consentire al
soggetto interessato di impugnare l'atto davanti al G.A.,
denunziando non solo i vizi propri della motivazione, ma
anche le errate interpretazioni delle norme urbanistiche
valutate col giudizio di non conformità (cfr. ex multis TAR
Lazio Roma, sez. II, 19.07.2005, n. 5736)” (così TAR
Campania, Napoli, Sezione Quarta, 23/03/2010, n. 1578).
Ed ancora, “quando nell’ambito di una procedura
di…..accertamento di conformità, l’Amministrazione svolge
una valutazione negativa, essa deve motivare sulla base
della specifica istruttoria espletata, con puntualità di
riferimenti le ragioni tecnico-valutative che impediscono
nella fattispecie il rilascio della concessione in
sanatoria. Viceversa, come esattamente rilevato in ricorso,
il provvedimento di diniego impugnato deve ritenersi
illegittimo perché non esterna in maniera compiuta e
puntuale le ragioni per cui l’Amministrazione abbia ritenuto
di opporre il contestato diniego; in particolare il relativo
provvedimento finale non esplicita alcun concreto
riferimento alla normativa urbanistica violata…..” (TAR
Campania, Napoli, Sez. II, 21.06.2007, n. 6667); inoltre, “il
diniego di sanatoria di opere edilizie deve precisare quali
siano gli ostacoli di fatto ed in diritto che impediscano il
rilascio del provvedimento richiesto, e ciò al fine di porre
l’istante nelle condizioni di adeguare, ove possibile,
l’intervento alla normativa vigente (TAR Liguria, sez. I,
10.12.2002, n. 1187) ovvero di proporre impugnativa in sede
giurisdizionale, denunziando non solo il difetto della
motivazione, ma l’eventuale errata interpretazione della
disciplina urbanistica, edilizia ed ambientale (TAR Sardegna
10.11.2003, n. 1448)” (in tal senso, TAR Calabria,
Catanzaro, Sez. II, 1844 del 06.10.2004)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 03.09.2014 n. 2254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto al ritenuto difetto di titolo giuridico in
capo alla ricorrente ex art. 11 DPR 380/2001 per chiedere il
rilascio del permesso di costruire, basta rammentare il
condivisibile orientamento del Consiglio di Stato secondo
cui, ai fini del rilascio di titolo edilizio “il contratto
di locazione è titolo idoneo alla realizzazione di opere”,
soprattutto in casi come quello oggetto del presente
giudizio, in cui il conduttore intende realizzare un
intervento edilizio di carattere precario ed amovibile.
Peraltro, proprio considerato il carattere precario ed
amovibile dell’intervento, caratterizzato da permanenza
limitata alla sola stagione estiva ed avente superficie
coperta complessiva di mq 36 circa oltre i servizi igienici
per come emerge dalla documentazione in atti, non può
ritenersi nella specie ravvisabile quella paventata
trasformazione urbanistica ed edilizia definitiva del
territorio circostante, che si porrebbe in contrasto con le
NTA del PUG vigente, che l’Amministrazione resistente ha
posto quale ulteriore motivo di diniego della richiesta
autorizzazione.
Risulta agli atti che la ricorrente società ha
la disponibilità, mercé regolare contratto di locazione, di
un’area sita in Comune di Porto Cesareo censita a fl 16 all. ”L”,
plle 323 e 352 e che, in data 29.01.2009, ha presentato
istanza di permesso di costruire per la realizzazione di una
struttura precaria e di facile amovibilità da adibirsi a
chiosco-bar ad uso turistico-balneare, con permanenza
limitata alla sola stagione estiva.
Sennonché, con il provvedimento impugnato il Comune di Porto
Cesareo ha opposto diniego a tale istanza, sull’assunto che
la società ricorrente non abbia titolo per richiedere il
permesso di costruire, che l’intervento proposto pur in
astratto assentibile realizzerebbe una trasformazione
urbanistica ed edilizia definitiva del territorio in
contrasto con le NTA del PUG vigente e, peraltro,
comporterebbe un immediato aggravio dell’attuale situazione
di carenza di servizi e standard urbanistici caratterizzante
il territorio circostante, che ha portato
all’assoggettamento dell’area a P.I.R.T., con reperimento
delle aree da destinare a servizi e degli standard necessari
da quantificarsi ed ubicarsi mediante la redazione del piano
esecutivo.
Orbene, le censure mosse dalla ricorrente società al
provvedimento impugnato risultano fondate.
Ed invero, quanto al ritenuto difetto di titolo giuridico in
capo alla ricorrente ex art. 11 DPR 380/2001 per chiedere il
rilascio del permesso di costruire, basta rammentare il
condivisibile orientamento del Consiglio di Stato secondo
cui, ai fini del rilascio di titolo edilizio “il contratto
di locazione è titolo idoneo alla realizzazione di opere”
(cfr. C.d.S. sent. 568/2012), soprattutto in casi come quello
oggetto del presente giudizio, in cui il conduttore intende
realizzare un intervento edilizio di carattere precario ed
amovibile.
Peraltro, proprio considerato il carattere precario ed
amovibile dell’intervento, caratterizzato da permanenza
limitata alla sola stagione estiva ed avente superficie
coperta complessiva di mq 36 circa oltre i servizi igienici
per come emerge dalla documentazione in atti, non può
ritenersi nella specie ravvisabile quella paventata
trasformazione urbanistica ed edilizia definitiva del
territorio circostante, che si porrebbe in contrasto con le
NTA del PUG vigente, che l’Amministrazione resistente ha
posto quale ulteriore motivo di diniego della richiesta
autorizzazione.
Infine, quanto all’ultimo motivo posto dall’Amministrazione
a base del diniego del permesso di costruire, relativo
all’immediato aggravio che l’intervento proposto
realizzerebbe in una situazione già caratterizzata da
carenza di servizi e standard urbanistici nel territorio
circostante, interessato da numerosi immobili oggetto di
condono ex l. 47/1985 e perciò assoggettato a P.I.R.T. dallo
strumento urbanistico vigente, osserva il Tribunale che la
perimetrazione dell’area oggetto del presente giudizio tra
quelle da sottoporsi a PIRT non è di per sé ostativa al
rilascio del permesso di costruire tutte le volte in cui si
intenda realizzare, come nella specie, un intervento di
natura precaria ed amovibile e perciò di per se inidoneo ad
arrecare quell’aggravamento dei servizi e degli standard
urbanistici che il PIRT intenda evitare (cfr. in tal senso
Tar Lecce, sez I, sent. 1358/2012)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 03.09.2014 n. 2249 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo l’orientamento consolidato della
giurisprudenza, fondato sullo stesso tenore letterale
dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di
contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è
corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di
costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di
costruzione, determinata all'atto del rilascio...”), i
contributi concessori devono essere stabiliti al momento del
rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre
dunque avere riguardo per la determinazione della entità
dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al
momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario
della irretroattività delle determinazioni comunali a
carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri
generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli
oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del
principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed
ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto
al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che
dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano
trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto
deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca
anteriore.
---------------
Deve ritenersi, sulla base del dato normativo e in
conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato
da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la
determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle
tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta
che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio
senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità
successive al rilascio del titolo.
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa
dell’Amministrazione Comunale intimata di addossare al
titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima
l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di
aggiornamento posto che la determinazione degli oneri
concessori al momento del rilascio era stata -a quanto
risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla
base delle tabelle vigenti all’epoca.
Con il ricorso in epigrafe, il signor
T.C.P. ha impugnato il provvedimento del
Responsabile del Settore Servizi alla Città/Servizio
Urbanistico del Comune di Matino 19.03.2013 prot. n.
6867, con il quale, in applicazione della deliberazione del
Consiglio comunale 08.11.2012 n. 38 -di aggiornamento
del contributo degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione- anch’essa gravata, è stato richiesto al
ricorrente il "conguaglio relativo agli oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione" in riferimento alle
pratiche edilizie n. 306/06 e n. 129/07, per le quali
l’interessato aveva già regolarmente pagato i contributi
allora liquidati.
L’interessata ha domandato altresì l'accertamento
dell’insussistenza dell’obbligo di pagamento della somma di
€ 10.006,24, preteso dall’Amministrazione municipale quale
aggiornamento degli oneri concessori e del costo di
costruzione.
...
La questione dedotta è stata già affrontata da questo
Tribunale, che si è pronunciato in senso favorevole alle
tesi attorie, in varie sentenze, dalle cui conclusioni e
argomentazioni non vi è motivo di discostarsi (Sezione
terza, 20.01.2014 n. 183; 23.10.2013 n. 2164; 27.09.2013 n. 2058; 27.08.2013 n. 1800; 15.05.2013 n. 1103; 15.01.2013 n. 49).
In particolare, è stato chiarito che, in casi del genere, è
da “escludere che si sia di fronte all’esercizio di un
potere di autotutela volto a correggere eventuali errori di
determinazione o calcolo, peraltro nemmeno chiaramente
evidenziati in atti, compiuti all’epoca del rilascio del
permesso di costruire".
L’attività comunale appare invece orientata ad addossare al
privato successivamente al rilascio del titolo edilizio
costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di
adeguamento degli oneri concessori.
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi
ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di
urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle
opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale”
(cfr. art. 16, sesto comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o,
in relazione alla voce relativa al costo di costruzione,
facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per
l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in
assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta
variazione dei costi di costruzione accertata dall'ISTAT”
(cfr. art. 16, nono comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare
l’importo degli oneri concessori a fenomeni di natura
sostanzialmente inflattiva -legati all’aumento
generalizzato dei costi di urbanizzazione o costruzione- in
maniera da far corrispondere a permessi edilizi rilasciati
in epoche diverse un impegno economico sostanzialmente
uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza,
fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo
relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al
Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e
“la quota di contributo relativa al costo di costruzione,
determinata all'atto del rilascio...”), i contributi
concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio
del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere
riguardo per la determinazione della entità dell’onere
facendo applicazione della normativa vigente al momento del
rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario
della irretroattività delle determinazioni comunali a
carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri
generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli
oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del
principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed
ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto
al momento del rilascio della concessione edilizia (Cfr. ex multis: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n.
49).
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che
dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano
trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto
deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca
anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la
determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di
parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via
retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale
appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile
esigere periodicamente la richiesta di integrazione del
pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga
modificato, posto che tale rideterminazione appare nella
specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni
successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in
conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato
da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la
determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle
tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta
che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio
senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità
successive al rilascio del titolo (Cfr. ex multis: TAR
Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa
dell’Amministrazione Comunale intimata di addossare al
titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima
l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di
aggiornamento posto che la determinazione degli oneri
concessori al momento del rilascio era stata -a quanto
risulta dagli atti di causa- correttamente determinata
sulla base delle tabelle vigenti all’epoca.
Per ragione di completezza, si precisa che, anche
qualificando come conseguenza del potere di autotutela la
richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa
risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente
in violazione dell’art. 21-nonies Legge 07.08.1990 n. 241
e ss.mm. posto che:
- non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere,
limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e
le tabelle succedutesi nel tempo;
- non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico
con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'
affidamento ingeneratosi nel privato;
- in particolare non viene data alcuna motivazione in
relazione al tempo trascorso, quasi tre anni [rectius, nel
caso concreto, addirittura sei anni], “tra la determinazione
originaria e la successiva rideterminazione, tenendo conto
che lo stesso art. 21-nonies della Legge n° 241/1990
prescrive che il potere di ritiro venga esercitato “entro un
ragionevole termine”” (sentenza 20.01.2014 n. 183).
Il ricorso è dunque d’accogliere, con il conseguente
annullamento degli atti impugnati anche tramite motivi
aggiunti
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 03.09.2014 n. 2244 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Il TAR è giurisdizionalmente competente in
materia di pareri di congruità rilasciati dagli Ordini degli
Avvocati.
In merito, questo Collegio si limita a citare recente
giurisprudenza secondo la quale “il parere di congruità
sulle parcelle professionali reso dal Consiglio dell'Ordine
degli Avvocati è atto soggettivamente e oggettivamente
amministrativo, poiché non si esaurisce in una mera
certificazione della rispondenza del credito alla tariffa
professionale, bensì implica una valutazione di congruità
della prestazione, che trova inequivocabile presupposto nel
rapporto di supremazia che intercorre tra l'Ordine od il
Collegio professionale (soggetto, questo, indubitabilmente
pubblico) ed i propri iscritti. Siffatta valutazione, per un
verso, ha senz'altro connotati di evidente discrezionalità
in quanto frutto dell'esercizio di un potere conferito da
una norma (almeno in parte qua) d'azione e non di relazione,
che configura l'esercizio di un potere avente natura
unilaterale e che costituisce espressione di potestà
amministrativa riconosciuta per finalità di pubblico
interesse che trova il proprio fondamento normativo
nell'art. 14, comma 1, lettera d), del R.D.L. 27.11.1933, n.
1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di
procuratore)”.
---------------
Allorché l’atto emesso dall’Ordine degli Avvocati (circa la
congruità della parcella emessa di un avvocato) abbia la
natura di atto meramente confermativo, atteso che lo stesso
non è stato preceduto da una nuova istruttoria e si limita a
ripetere lo stesso contenuto di quello precedente, sul punto
la giurisprudenza ha chiarito che “La conferma "mera"… si
verifica solo nei casi in cui la nuova determinazione
dell'amministrazione si limiti a ripetere il contenuto del
precedente provvedimento, senza aggiungere alcun ulteriore
supporto motivazionale e senza percorrere una rinnovata
istruttoria delle circostanze ritenute rilevanti ai fini
della valutazione dell'istanza proposta dal richiedente.
Qualora l'amministrazione adotti un atto di identico
contenuto dispositivo di un altro precedente, ma arricchito
da una puntuale motivazione prima inesistente, o basato su
elementi istruttori prima non considerati, si è in presenza
di un atto confermativo, a carattere rinnovatorio, che
modifica la realtà giuridica, riaprendo i termini per la
proposizione del ricorso giurisdizionale da parte dei
soggetti che ne intendano contestare la legittimità.”
Come richiesto dal ricorrente, in via
preliminare si evidenzia che questo Tribunale è giurisdizionalmente competente in materia di pareri di
congruità rilasciati dagli Ordini degli Avvocati.
In merito,
questo Collegio si limita a citare recente giurisprudenza
secondo la quale “il parere di congruità sulle parcelle
professionali reso dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati
è atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo,
poiché non si esaurisce in una mera certificazione della
rispondenza del credito alla tariffa professionale, bensì
implica una valutazione di congruità della prestazione
(Cass. Civ., Sez. Un., 24.06.2009, n. 14812 e, da
ultimo, Cons. St., IV, 24.12.2009, n. 8749), che trova
inequivocabile presupposto nel rapporto di supremazia che
intercorre tra l'Ordine od il Collegio professionale
(soggetto, questo, indubitabilmente pubblico) ed i propri
iscritti. Siffatta valutazione, per un verso, ha senz'altro
connotati di evidente discrezionalità in quanto frutto
dell'esercizio di un potere conferito da una norma (almeno
in parte qua) d'azione e non di relazione, che configura
l'esercizio di un potere avente natura unilaterale e che
costituisce espressione di potestà amministrativa
riconosciuta per finalità di pubblico interesse che trova il
proprio fondamento normativo nell'art. 14, comma 1, lettera
d), del R.D.L. 27.11.1933, n. 1578 (Ordinamento delle
professioni di avvocato e di procuratore)” (TAR Venezia,
sez. I, 13.02.2014, n. 183).
Il ricorso è inammissibile.
Il giorno 20.10.2010, l’Ordine degli Avvocati di Bari si è
riunito al limitato scopo di valutare la domanda di
revisione del parere di congruità già rilasciato in data
22.09.2010 presentata dal ricorrente in data 08.10.2010.
L’esito di tale riunione è stato la mera conferma del parere
di congruità già rilasciato.
Questo Collegio ritiene che l’atto emesso dall’Ordine degli
Avvocati di Bari abbia la natura di atto meramente
confermativo atteso che lo stesso non è stato preceduto da
una nuova istruttoria e si limita a ripetere lo stesso
contenuto di quello precedente.
Sul punto, la giurisprudenza
ha chiarito che “La conferma "mera"… si verifica solo nei
casi in cui la nuova determinazione dell'amministrazione si
limiti a ripetere il contenuto del precedente provvedimento,
senza aggiungere alcun ulteriore supporto motivazionale e
senza percorrere una rinnovata istruttoria delle circostanze
ritenute rilevanti ai fini della valutazione dell'istanza
proposta dal richiedente. Qualora l'amministrazione adotti
un atto di identico contenuto dispositivo di un altro
precedente, ma arricchito da una puntuale motivazione prima
inesistente, o basato su elementi istruttori prima non
considerati, si è in presenza di un atto confermativo, a
carattere rinnovatorio, che modifica la realtà giuridica,
riaprendo i termini per la proposizione del ricorso
giurisdizionale da parte dei soggetti che ne intendano
contestare la legittimità.” (Cons. Stato, sez. V, 25.02.2009, n. 1115).
Ne consegue che, essendo decorsi i termini per impugnare il
parere di congruità n. 319 del 22.09.2010 e vista la natura
meramente confermativa dell’atto impugnato, il ricorso
indicato in epigrafe deve essere dichiarato inammissibile
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 03.09.2014 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (che
riproduce l’art. 7 l. n. 47 del 1985) per le opere eseguite
in assenza di titolo edilizio o in totale difformità o con
variazioni essenziali, dispone che "il giudice, con la
sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina
la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata
altrimenti eseguita".
Si tratta di un atto dovuto, nell'esercizio di un potere
autonomo dell’autorità giudiziaria rispetto a quello
amministrativo, che non si pone in rapporto alternativo con
l'ordine di demolizione, eventualmente già impartito dalla
P.A., ai sensi della stessa disposizione, ma ha la sua
ragion d’essere in un criterio di economia e concentrazione
degli atti giuridici dipendenti dagli stessi presupposti,
come stabilito dall’ art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 che
prevede l’applicazione delle sanzioni amministrative con la
sentenza di condanna per lo stesso fatto per il quale ne è
prevista l’irrogazione.
Ne consegue che la sanzione accessoria della demolizione
irrogata dal giudice non può essere pronunciata, ovvero deve
essere revocata, se la sentenza pronuncia la prescrizione
del reato presupposto, ancorché accertato negli elementi
costitutivi.
Tuttavia, all’estinzione del reato per prescrizione
sopravvive la sanzione amministrativa della demolizione,
irrogabile dalla pubblica amministrazione finché dura
l’opera abusiva che con esso contrasta o non intervenga il
rilascio di un titolo edilizio, perché permane fino ad
allora il pregiudizio dell’interesse primario alla tutela
del territorio, non abdicabile dallo Stato, come invece
l’interesse alla punizione del colpevole, decorso un certo
tempo dalla commissione del fatto di reato.
Pertanto l’autore del reato potrà opporsi alla demolizione
disposta dal giudice e ottenerne la revoca, eccependo la
prescrizione del reato, ma nulla potrà, per lo stesso
motivo, contro la demolizione disposta ex art. 31 dalla P.A.
nell’esercizio di un potere autonomo dall’accertamento del
reato edilizio, che ha come presupposto l’abusività
dell’opera, anche se il reato prescritto.
Ne consegue che la sanzione in parola, benché adottabile
sulla base di presupposti diversi, da diverse autorità
-quella giudiziaria solo se pronuncia condanna per un reato
edilizio, quella amministrativa, se accerta l’abusività
dell’opera- non è mai soggetta a prescrizione, trattandosi
di sanzione amministrativa, non punitiva, ma ripristinatoria.
Manifestamente non ricorre dunque la violazione del
principio di uguaglianza, né del diritto di difesa, poiché
chiunque detenga un’opera sprovvista di titolo edilizio
potrebbe essere destinatario di un ordine di demolizione
della P.A., benché sia intervenuta sentenza di prescrizione
del reato edilizio, ovvero nessun procedimento penale sia
mai stato avviato.
E’ pregiudiziale ad ogni altra questione
stabilire se l’ordine di demolizione, impartito ai sensi
dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, debba essere inteso come
sanzione accessiva al reato di abuso edilizio e, come tale,
soggetto esso stesso a prescrizione, oppure se si tratti di
sanzione non soggetta a prescrizione con conseguente
sospetto di incostituzionalità degli articoli 10, 11 e 12 l.
47/1985 e degli articoli 31 e 33 del d.P.R. 380/2001, per
violazione degli art. 3 e 24 Cost. che non tollerebbero un
diverso trattamento e limiti al diritto di difesa, laddove
la demolizione faccia seguito all’accertamento del reato e
sia dunque soggetta a revoca ove il reato risulti
prescritto, rispetto al caso in cui non ci sia stato un
procedimento penale e la demolizione sia ingiunta senza
limitazioni temporali dalla pubblica amministrazione.
Il quadro normativo è il seguente.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (che riproduce l’art. 7
l. n. 47 del 1985) per le opere eseguite in assenza di
titolo edilizio o in totale difformità o con variazioni
essenziali, dispone che "il giudice, con la sentenza di
condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la
demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata
altrimenti eseguita".
Si tratta di un atto dovuto, nell'esercizio di un potere
autonomo dell’autorità giudiziaria rispetto a quello
amministrativo, che non si pone in rapporto alternativo con
l'ordine di demolizione, eventualmente già impartito dalla
P.A., ai sensi della stessa disposizione, ma ha la sua
ragion d’essere in un criterio di economia e concentrazione
degli atti giuridici dipendenti dagli stessi presupposti,
come stabilito dall’ art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 che
prevede l’applicazione delle sanzioni amministrative con la
sentenza di condanna per lo stesso fatto per il quale ne è
prevista l’irrogazione (Cass., Sez. Unite, 24.07.1996, ric. Monterisi).
Ne consegue che la sanzione accessoria della demolizione
irrogata dal giudice non può essere pronunciata, ovvero deve
essere revocata, se la sentenza pronuncia la prescrizione
del reato presupposto, ancorché accertato negli elementi
costitutivi.
Tuttavia, all’estinzione del reato per prescrizione
sopravvive la sanzione amministrativa della demolizione,
irrogabile dalla pubblica amministrazione finché dura
l’opera abusiva che con esso contrasta o non intervenga il
rilascio di un titolo edilizio, perché permane fino ad
allora il pregiudizio dell’interesse primario alla tutela
del territorio (Consiglio di Stato, sez. IV, 16.04.2010,
n. 2160), non abdicabile dallo Stato, come invece
l’interesse alla punizione del colpevole, decorso un certo
tempo dalla commissione del fatto di reato.
Pertanto l’autore del reato potrà opporsi alla demolizione
disposta dal giudice e ottenerne la revoca, eccependo la
prescrizione del reato, ma nulla potrà, per lo stesso
motivo, contro la demolizione disposta ex art. 31 dalla P.A.
nell’esercizio di un potere autonomo dall’accertamento del
reato edilizio, che ha come presupposto l’abusività
dell’opera, anche se il reato prescritto.
Ne consegue che la sanzione in parola, benché adottabile
sulla base di presupposti diversi, da diverse autorità -quella giudiziaria solo se pronuncia condanna per un reato
edilizio, quella amministrativa, se accerta l’abusività
dell’opera- non è mai soggetta a prescrizione, trattandosi
di sanzione amministrativa, non punitiva, ma ripristinatoria.
Manifestamente non ricorre dunque la violazione del
principio di uguaglianza, né del diritto di difesa, poiché
chiunque detenga un’opera sprovvista di titolo edilizio
potrebbe essere destinatario di un ordine di demolizione
della P.A., benché sia intervenuta sentenza di prescrizione
del reato edilizio, ovvero nessun procedimento penale sia
mai stato avviato
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 03.09.2014 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Principio di soccombenza con eccezioni circoscritte.
Processo. I criteri sulla ripartizione dei costi.
La compensazione delle
spese di giudizio deve restare un'assoluta eccezione. Il
principio per cui «chi perde paga», invocato dal premier
Matteo Renzi ancora venerdì nella conferenza stampa
successiva all'approvazione da parte del Consiglio dei
ministri del "pacchetto giustizia", è un cardine del
processo civile che va semmai rafforzato.
E la Corte di
Cassazione, sentenza 02.09.2014 n. 18497 della VI Sez. civile, chiarisce che al principio della
soccombenza non fa eccezione neppure il caso in cui la
sconfitta in giudizio non deve essere ricondotta a carenza
di strategie difensive. E neanche il caso in cui l'interesse
concreto realizzato dalla parte vincente è di valore assai
basso e comunque inferiore al costo stesso delle attività
processuali. La Corte ha così accolto il ricorso presentato
da un automobilista che aveva vinto davanti al giudice di
pace il giudizio di opposizione a una multa che gli era
stata inflitta.
La sentenza, dopo avere ricordato che anche nelle
opposizioni a sanzione amministrativa le spese sono regolate
dai principi generali del Codice di procedura civile,
sottolinea come la possibilità di compensazione delle spese
è giustificata solo da gravi ed eccezionali ragioni, che il
giudice deve, tra l'altro, espressamente indicare nella
motivazione. A fare da contraltare, invece, il principio
secondo il quale la soccombenza rappresenta «un'applicazione
del principio di causalità, che vuole non esente da onere
delle spese la parte che, col suo comportamento
antigiuridico (per la trasgressione delle norme di diritto
sostanziale) abbia provocato la necessità del processo».
Gli oneri della lite cioè devono essere posti a carico della
parte che, con il suo comportamento antigiuridico, l'ha
originata. Il fatto poi che questi oneri possano venire
aggravati da una circostanza che non deve essere imputata
direttamente a deficit difensivi delle parti, non basta da
sola a fondare una compensazione delle spese. E neppure, a
fare cambiare idea alla Cassazione, vale il fatto che
l'importo della multa in questione fosse inferiore a quello
delle spese di giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore del
03.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo afferente al permesso di costruire, ai sensi
dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001, commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio
del titolo edilizio, onde non può ammettersi, peraltro in
mancanza dell'inserimento nel permesso di costruire di una
clausola che ne riservi la rideterminazione, che
l'Amministrazione comunale possa, in epoca successiva, in
relazione all'aggiornamento delle due componenti, provvedere
ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio
---------------
L’obbligo gravante sui Comuni di procedere alla revisione
periodica dei contributi urbanistici va coniugato col
rispetto del divieto di applicazione retroattiva nei
confronti dei titoli edilizia già in precedenza rilasciati.
Come la giurisprudenza pacificamente riconosce, il
contributo afferente al permesso di costruire, ai sensi
dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001, commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio
del titolo edilizio, onde non può ammettersi, peraltro in
mancanza dell'inserimento nel permesso di costruire di una
clausola che ne riservi la rideterminazione, che
l'Amministrazione comunale possa, in epoca successiva, in
relazione all'aggiornamento delle due componenti, provvedere
ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio
(v. in termini, da ultimo, CdS, IV,12/06/2014, n. 3009 e
cfr. anche in tal senso tra le più recenti Cons. Stato, Sez.
IV, 30.07.2012, n. 4320 e 27.04.2012, n. 2471, che ha in
specie chiarito come la riliquidazione possa consentirsi
solo quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in
relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del
precedente e per il completamento con mutamento di
destinazione d'uso delle opere assentite in origine).
E' anche illegittima nella specie, in parte qua e nei
limiti dell’interesse dell’istante, la determinazione
dell’Assemblea Capitolina n. 31 in data 19.07.2012, in
quanto la stessa, richiamata dalla P.A. a supporto delle
richieste di conguaglio, pur emanata nella data predetta,
stabilisce la sua applicazione retroattiva dal 01.01.2012
venendo così ad incidere indebitamente anche sui permessi di
costruire già rilasciati, in contrasto con il consolidato
orientamento della giurisprudenza per cui: l’obbligo
gravante sui Comuni di procedere alla revisione periodica
dei contributi urbanistici va coniugato col rispetto del
divieto di applicazione retroattiva nei confronti dei titoli
edilizia già in precedenza rilasciati (cfr., sulla tematica,
CGA n. 67/2007, TAR PA n. 559/2008 e n. 1798/2009, TAR LE;
TAR CT n. 989/2012; TAR LE n. 1103/2013)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 02.09.2014 n. 9285 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: L'art.
37, c. 13, del D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato
ad opera della L. n. 135 del 2012, stabilisce, in caso di
appalto di lavori, che “…i concorrenti riuniti in
raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni
nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento.”.
Pertanto, trattandosi, nella specie, di appalto in
prevalenza di lavori (75%) rispetto ai servizi (25%), si
ritiene che sia pienamente legittima, in quanto coerente con
la ratio della citata disposizione, l’offerta di ... recante
l’indicazione delle quote di partecipazione delle imprese
riunite all’esecuzione dei lavori, non potendo queste ex
lege differenziarsi da quelle di partecipazione al
raggruppamento temporaneo.
La Sezione, riguardo alla riferita questione, intende
aderire all’indirizzo giurisprudenziale di tipo
sostanzialistico (che è fronteggiato da altro rilevante
orientamento che, interpretando diversamente la citata
disposizione, perviene ad opposte conclusioni) con il quale
si sostiene, sulla base della ratio del combinato disposto
degli artt. 3 e 13 dell’art. 37 del D.Lgs. n. 163 del 2006 e
coerentemente con il principio generale (poi formalizzato in
norma positiva con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma
1-bis, D.Lgs. n. 163 del 2006 e s.m. e i.) di tassatività
delle cause di esclusione dalle gare pubbliche, che l’art.
37, comma 13, del D.Lgs. n. 163 del 2006 debba essere
interpretato nel senso che le quote di rispettiva
partecipazione delle imprese ad un R.T.I. siano comunque
desumibili dalle quote di esecuzione dei lavori indicate
nell’offerta, qualora queste ultime siano sufficientemente
precise ed indicate analiticamente.
Nello specifico, il Consiglio di Stato ha sostenuto –in
fattispecie nella quale, viceversa, erano state indicate le
quote di partecipazione al R.T.I. ma non quelle di
esecuzione dell’appalto da parte delle singole imprese- che
in base all’art. 37, comma 13, del d.lgs. n. 163 del 2006
“…l’indicazione delle quote partecipative delle imprese
costituenti l’associazione, implica la quota parte dei
lavori che eseguirà ciascun associato, dovendo sussistere
esatta corrispondenza tra quota di lavori e quota di
effettiva partecipazione al raggruppamento.
Ne consegue che la formulazione nell’offerta da parte
dell’aggiudicataria delle quote di partecipazione al
raggruppamento di ciascun associato, giustificava
l’ammissione alla gara, atteso l’obbligo di simmetria tra
quota di lavori e quota di effettiva partecipazione al
raggruppamento fissato per legge. L’obbligo di
corrispondenza, infatti, discende direttamente dall’art. 37,
comma 13 del Codice dei contratti, norma imperativa ed
idonea ad etero integrare il bando di gara, che trova
applicazione anche a prescindere da un espresso richiamo ai
sensi dell’art. 1339 cod. civ.. Si tratta, invero, di una
dichiarazione tipica, nel senso che la legge attribuisce
alla dichiarazione delle quote di partecipazione al
raggruppamento un valore legale predeterminato, che è quello
dell’assunzione dell’impegno da parte delle imprese di
eseguire i lavori in misura corrispondente.
Peraltro, la ratio sottesa al principio di corrispondenza
evincibile dall’art. 37, comma 13, del Codice, è quella di
assicurare che la stazione appaltante sia posta in grado di
verificare fin dalla partecipazione il possesso dei
requisiti di qualificazione in capo alle singole imprese del
raggruppamento, in relazione alle prestazioni che ciascuna
di esse dovrà eseguire, al fine di evitare partecipazioni
fittizie effettuate al solo scopo di fare conseguire
l’aggiudicazione a soggetti privi delle necessarie
qualificazioni.
Poiché, nel caso, era stato dimostrato il possesso dei
requisiti di ammissione in relazione alla quota di
partecipazione di ciascuna impresa del raggruppamento,
essendo inoltre sovrabbondanti tali requisiti, la stazione
appaltante era garantita del buon esito del programma
contrattuale nella fase di esecuzione.”.
---------------
L’art. 79, comma 16, del D.P.R. n. 207 del 2010 (Regolamento
di esecuzione del Codice degli Appalti) espressamente
stabilisce che “l’impresa qualificata nella categoria OG 11
può eseguire i lavori in ciascuna delle categorie OS3, OS 28
e OS 30 per la classifica corrispondente a quella
posseduta”.
Tale disposizione -applicabile alla fattispecie in esame in
quanto riferita alle qualificazioni certificate da
attestazioni SOA rilasciate in applicazione del sistema
delineato dallo stesso comma 16 dell'art. 79 cit.– consente
alle imprese in possesso della categoria di lavorazione
generale OG 11 di assorbire le suddette categorie
specialistiche (in assenza della relativa qualifica) anche a
prescindere da qualsiasi previsione di bando.
Di qui la legittimità della partecipazione della mandataria
... alla gara, in quanto, dalla documentazione versata in
atti (v. doc. n. 36 dell’Azienda USL) risulta impresa in
possesso della qualifica nella predetta categoria generale
di lavorazione per classifica superiore a quella dei lavori
relativi alla categoria speciale OS3 -impianti idrici e gas
naturali–.
---------------
Non è richiesto dalla normativa relativa agli appalti di
lavori (vigente al momento dell’indizione della gara) che
l’impresa individui, già al momento della presentazione
dell’offerta e senza sapere se sarà o no affidataria
dell’appalto, il nominativo dell’impresa sub-appaltatrice.
Trattasi, infatti, secondo il prevalente orientamento
giurisprudenziale al quale la Sezione aderisce, di
incombente da attuarsi nel successivo ed eventuale momento
dell’esecuzione dei lavori da parte dell’impresa
aggiudicataria sub appaltante come stabilisce, in via
generale, l’art. 118 D.Lgs. n. 163 del 2006.
--------------
Circa la censurata mancata indicazione, da parte di ATI
aggiudicataria, dei c.d. “costi della sicurezza aziendali”
nella propria offerta economica, con conseguente asserito
obbligo, per la stazione appaltante, di escludere la
concorrente dalla gara, al riguardo si osserva che la
censura è infondata, risultando tale specifica clausola
richiesta solo in riferimento agli appalti di servizi e di
forniture, ai sensi di quanto dispone l’art. 87, c. 4,
D.Lgs. n. 163 del 2006 e non riguardo ad appalti di lavori
-quale è quello in esame- in riferimento ai quali
l’amministrazione appaltante ha già predeterminato ed
indicato nella lex specialis di gara l’importo di tali
oneri.
Ad abundantiam si deve inoltre affermare che l’indicazione
degli oneri della sicurezza da rischio specifico non era
prevista in alcuna parte della lex specialis, né essa
risulta riportata nei moduli predisposti
dall’amministrazione per la presentazione delle offerte e
della documentazione di gara, cosicché tale presunta
omissione della stazione appaltante non potrebbe comunque
riverberarsi sulla concorrente incolpevole mediante la
misura dell’esclusione dalla gara, posto il completo
affidamento riposto dalla stessa (anzi, da tutte le imprese
concorrenti) sulla validità e legittimità del contenuto dei
moduli di gara predisposti dall’amministrazione appaltante.
Il Tribunale ritiene che sia infondato il primo mezzo del
ricorso principale, stante che l’art. 37, c. 13, del D.Lgs.
n. 163 del 2006, nel testo modificato ad opera della L. n.
135 del 2012, stabilisce, in caso di appalto di lavori, che
“…i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo
devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento.”.
Pertanto, trattandosi, nella specie, di appalto in
prevalenza di lavori (75%) rispetto ai servizi (25%), si
ritiene che sia pienamente legittima, in quanto coerente con
la ratio della citata disposizione, l’offerta di ATI
CME recante l’indicazione delle quote di partecipazione
delle imprese riunite all’esecuzione dei lavori, non potendo
queste ex lege differenziarsi da quelle di
partecipazione al raggruppamento temporaneo.
La Sezione, riguardo alla riferita questione, intende
aderire all’indirizzo giurisprudenziale di tipo
sostanzialistico (che è fronteggiato da altro rilevante
orientamento che, interpretando diversamente la citata
disposizione, perviene ad opposte conclusioni) con il quale
si sostiene, sulla base della ratio del combinato
disposto degli artt. 3 e 13 dell’art. 37 del D.Lgs. n. 163
del 2006 e coerentemente con il principio generale (poi
formalizzato in norma positiva con l’entrata in vigore
dell’art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163 del 2006 e s.m. e
i.) di tassatività delle cause di esclusione dalle gare
pubbliche, che l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. 163 del
2006 debba essere interpretato nel senso che le quote di
rispettiva partecipazione delle imprese ad un R.T.I. siano
comunque desumibili dalle quote di esecuzione dei lavori
indicate nell’offerta, qualora queste ultime siano
sufficientemente precise ed indicate analiticamente (v. in
termini: Cons. Stato sez. V 26/09/2013 n. 4753; sez. VI,
18/09/2013 n. 4663; sez. IV, 27.11.2010, n. 8253; sez. V,
21.03.2012, n. 1597; 14.03.2012, n. 1422; 29.03.2011, n.
1911; TAR Lazio-RM- Sez. III, 19/11/2012 n. 9505 e
l’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici, con
determinazione n. 4 del 10.10.2012).
Nello specifico, con la citata sentenza n. 4753 del 2013 il
Consiglio di Stato sez. V, ha sostenuto –in fattispecie
nella quale, viceversa, erano state indicate le quote di
partecipazione al R.T.I. ma non quelle di esecuzione
dell’appalto da parte delle singole imprese- che in base
all’art. 37, comma 13, del d.lgs. n. 163 del 2006 “…l’indicazione
delle quote partecipative delle imprese costituenti
l’associazione, implica la quota parte dei lavori che
eseguirà ciascun associato, dovendo sussistere esatta
corrispondenza tra quota di lavori e quota di effettiva
partecipazione al raggruppamento. Ne consegue che la
formulazione nell’offerta da parte dell’aggiudicataria delle
quote di partecipazione al raggruppamento di ciascun
associato, giustificava l’ammissione alla gara, atteso
l’obbligo di simmetria tra quota di lavori e quota di
effettiva partecipazione al raggruppamento fissato per
legge. L’obbligo di corrispondenza, infatti, discende
direttamente dall’art. 37, comma 13 del Codice dei
contratti, norma imperativa ed idonea ad etero integrare il
bando di gara, che trova applicazione anche a prescindere da
un espresso richiamo ai sensi dell’art. 1339 cod. civ.. Si
tratta, invero, di una dichiarazione tipica, nel senso che
la legge attribuisce alla dichiarazione delle quote di
partecipazione al raggruppamento un valore legale
predeterminato, che è quello dell’assunzione dell’impegno da
parte delle imprese di eseguire i lavori in misura
corrispondente. Peraltro, la ratio sottesa al principio di
corrispondenza evincibile dall’art. 37, comma 13, del
Codice, è quella di assicurare che la stazione appaltante
sia posta in grado di verificare fin dalla partecipazione il
possesso dei requisiti di qualificazione in capo alle
singole imprese del raggruppamento, in relazione alle
prestazioni che ciascuna di esse dovrà eseguire, al fine di
evitare partecipazioni fittizie effettuate al solo scopo di
fare conseguire l’aggiudicazione a soggetti privi delle
necessarie qualificazioni. Poiché, nel caso, era stato
dimostrato il possesso dei requisiti di ammissione in
relazione alla quota di partecipazione di ciascuna impresa
del raggruppamento, essendo inoltre sovrabbondanti tali
requisiti, la stazione appaltante era garantita del buon
esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione.”.
Pertanto, trasferendo le considerazioni sopra esposte alla
fattispecie in esame, ove non è contestato che trattasi di
appalto di lavori e che le quote di esecuzione dell’appalto
siano state dettagliatamente individuate e quantificate
oltre che nell’offerta presentata da ATI controinteressata,
anche nel’atto costitutivo di A.T.I. (con assunzione, da
parte delle singole società associate dei relativi obblighi
e responsabilità di legge nei confronti dell’amministrazione
appaltante v. doc. n. 35 dell’azienda USL) questa Sezione
ritiene legittimo l’operato dell’amministrazione sanitaria
in ordine alla permanenza in gara della suddetta
concorrente.
Risulta parimenti infondato anche il secondo mezzo
d’impugnazione, dato che l’art. 79, comma 16, del D.P.R. n.
207 del 2010 (Regolamento di esecuzione del Codice degli
Appalti) espressamente stabilisce che “l’impresa qualificata
nella categoria OG 11 può eseguire i lavori in ciascuna
delle categorie OS3, OS 28 e OS 30 per la classifica
corrispondente a quella posseduta”. Tale disposizione -applicabile alla fattispecie in esame in quanto riferita
alle qualificazioni certificate da attestazioni SOA
rilasciate in applicazione del sistema delineato dallo
stesso comma 16 dell'art. 79 cit.– consente alle imprese in
possesso della categoria di lavorazione generale OG 11 di
assorbire le suddette categorie specialistiche (in assenza
della relativa qualifica) anche a prescindere da qualsiasi
previsione di bando. Di qui la legittimità della
partecipazione della mandataria CME alla gara, in quanto,
dalla documentazione versata in atti (v. doc. n. 36
dell’Azienda USL) risulta impresa in possesso della
qualifica nella predetta categoria generale di lavorazione
per classifica superiore a quella dei lavori relativi alla
categoria speciale OS3 -impianti idrici e gas naturali– (v.
TAR Lazio RM – sez. I, 07/02/2013 n. 1357; TAR Friuli V.
G., sez. I, 18/10/2012 n. 374).
Anche il terzo mezzo di impugnazione risulta infondato,
stante che ATI CME legittimamente ha partecipato alla gara,
non essendo richiesto dalla normativa relativa agli appalti
di lavori vigente al momento dell’indizione della gara che
l’impresa individui, già al momento della presentazione
dell’offerta e senza sapere se sarà o no affidataria
dell’appalto, il nominativo dell’impresa sub-appaltatrice
(nel caso di specie CME relativamente alla categoria
specialistica OS4). Trattasi, infatti, secondo il prevalente
orientamento giurisprudenziale al quale la Sezione aderisce,
di incombente da attuarsi nel successivo ed eventuale
momento dell’esecuzione dei lavori da parte dell’impresa
aggiudicataria sub appaltante come stabilisce, in via
generale, l’art. 118 D.Lgs. n. 163 del 2006 (v. Cons. Stato
sez. V, 12/03/2013 n. 3963; 19/06/2012 n. 3563).
Né può ritenersi fondata l’ulteriore censura rilevante la
mancata indicazione, da parte di ATI aggiudicataria, dei
c.d. “costi della sicurezza aziendali” nella propria offerta
economica, con conseguente asserito obbligo, per la stazione
appaltante, di escludere la concorrente dalla gara. Al
riguardo si osserva che la censura è infondata, risultando
tale specifica clausola richiesta solo in riferimento agli
appalti di servizi e di forniture, ai sensi di quanto
dispone l’art. 87, c. 4, D.Lgs. n. 163 del 2006 e non
riguardo ad appalti di lavori -quale è quello in esame- in
riferimento ai quali l’amministrazione appaltante ha già
predeterminato ed indicato nella lex specialis di gara
l’importo di tali oneri (Cons. Stato, sez. V, 09/10/2013 n.
4964). Ad abundantiam si deve inoltre affermare che
l’indicazione degli oneri della sicurezza da rischio
specifico non era prevista in alcuna parte della lex
specialis, né essa risulta riportata nei moduli predisposti
dall’amministrazione per la presentazione delle offerte e
della documentazione di gara, cosicché tale presunta
omissione della stazione appaltante non potrebbe comunque
riverberarsi sulla concorrente incolpevole mediante la
misura dell’esclusione dalla gara, posto il completo
affidamento riposto dalla stessa (anzi, da tutte le imprese
concorrenti) sulla validità e legittimità del contenuto dei
moduli di gara predisposti dall’amministrazione appaltante
(v. in termini: Cons. Stato, sez. III, 14/01/2013 n. 145;
TAR Piemonte, sez. I, 22/11/2013 n. 1254).
E’ destituita di fondamento, infine, anche l’ultima censura
del ricorso principale, posto che, riguardo all’appalto di
lavori in esame, non risulta esistente alcuno dei casi in
riferimento ai quali l’art. 86 del D.Lgs. n. 163 del 2006
impone alle stazioni appaltanti di procedere alla verifica
delle offerte risultanti anormalmente basse. Nello
specifico, l’appalto in questione è stato aggiudicato
secondo il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, con conseguente obbligo per Azienda USL di
procedere a tale verifica solo qualora l’offerta
dell’aggiudicataria sia superiore ai 4/5 del punteggio
massimo attribuibile sia alla parte economica sia a quella
“tecnica” dell’offerta.
Nel caso in esame, dagli atti di causa risulta
inequivocabilmente che l’offerta dell’aggiudicataria non ha
superato tale rapporto, con conseguente infondatezza del
relativo motivo di ricorso. Quanto, poi, all’argomentazione
facente leva sulla sussistenza comunque, in capo alla
stazione appaltante, del potere di esperire ugualmente detta
verifica ai sensi dell’art. 86, c. 3, del D.Lgs. n. 163 del
2006, si deve osservare che trattasi comunque di possibilità
e, dunque, di scelta facoltativa di natura tecnico–discrezionale dell’amministrazione appaltante, che non è
sindacabile in quanto tale dal giudice amministrativo, se
non in casi –oggettivamente qui non ricorrenti– di
manifesta illogicità e/o contraddittorietà dell’operato
dell’amministrazione, pena l’inammissibile introduzione, nel
giudizio amministrativo di legittimità, di censure impingenti sul merito dell’azione amministrativa, con
conseguente palese superamento del confine del sindacato
giurisdizionale di legittimità
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 02.09.2014 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: Semafori,
il giallo breve non salva dalla multa.
Chi passa col rosso paga la multa anche se il giallo resta
sul semaforo per meno di quattro secondi, durata che pure
risulta indicata come quella da adottare generalmente su
strade urbane da una nota ad hoc del ministero dei
trasporti: basta e avanza il minimo di tre secondi perché
consente di arrestare il veicolo in tutta sicurezza.
È quanto emerge dalla
sentenza 01.09.2014 n. 18470 della VI Sez. civile della
Cassazione.
Accolto il ricorso del Comune contro la sentenza del
tribunale che accoglieva l'opposizione proposta
dall'automobilista, riformando la decisione del giudice di
pace: decisiva risultava la produzione in giudizio dei
fotogrammi inerenti la rilevazione dai quali risulta che la
luce gialla del semaforo dura meno di quattro secondi, in
barba alla nota 16.07.2007 n. 67906 di prot. dei Trasporti.
Passa ora la tesi del Comune lombardo la cui polizia
municipale ha depositato il verbale di accertamento per
l'infrazione agli articoli 41, comma 11, e 146 Cds. E ciò
perché l'amministrazione locale deduce come sia lo stesso
trasgressore ad ammettere di aver oltrepassato la linea
d'arresto quando la luce rossa del semaforo era scattata da
190 millesimi di secondo, restando irrilevante la durata
della proiezione della luce gialla della lanterna. In realtà
il dato dei quattro secondi indicato dalle Infrastrutture
non risulta affatto inderogabile: è il conducente del
veicolo che deve adeguare la velocità del mezzo allo stato
dei luoghi.
Il codice della strada, al momento, non indica una durata
minima del periodo di accensione della lanterna gialla: ecco
allora che la risoluzione dei Trasporti fissa a tre secondi
il tempo minimo in cui la luce arancione deve restare accesa
perché si tratta di un periodo sufficiente per consentire la
frenata a un veicolo che va a 50 chilometri orari (lo ha
calcolato il Cnr in uno studio prenormativo).
Risultato: una durata superiore deve ritenersi congrua.
Rispondendo di recente a un'interrogazione parlamentare il
sottosegretario all'economia Enrico Zanetti ha «aperto»
all'inserimento della durata minima del semaforo giallo nel
codice della strada. Parola al giudice del rinvio
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2014). |
ENTI LOCALI - VARI:
Il giallo dura tre secondi? La multa rimane valida. Sanzione
anche se lo «stop» arriva prima di quattro secondi.
Cassazione. L'automobilista che è passato con il semaforo
rosso deve pagare.
Anche se il semaforo
resta sul giallo solo per tre secondi, l'automobilista che
passa con il rosso deve pagare la multa.
La Corte di
Cassazione -Sez. VI civile- con la
sentenza
01.09.2014 n. 18470, dirime un
ricorso che il conducente aveva giocato sui millesimi di
secondo, ottenendo successo però solo davanti al giudice
pace.
In prima battuta era stato considerato convincente il
racconto del guidatore, che aveva proseguito la sua marcia
certo di poter contare su quattro secondi di luce arancione,
quando questi gli erano stati invece decurtati, anche se di
pochi centesimi di secondo, come risultato dai fotogrammi
prodotti. Aveva quindi avuto poi a disposizione un tempo
troppo ridotto per frenare e comunque inferiore ai quattro
secondi: la durata che, in base a una nota del ministero dei
Trasporti (n. 67906), dovrebbe essere adottata sulle strade
urbane.
Ma la Cassazione dà ragione al Comune di Montevecchia in
provincia di Lecco, spiegando che il "tesoretto" dei quattro
secondi si può tagliare.
La regola che l'automobilista, benché frettoloso, deve
seguire, è quella di adeguare la sua velocità allo stato dei
luoghi senza contare troppo sulla durata di quattro secondi
dell'esposizione della luce gialla perché questa «non
costituisce un dato inderogabile».
E sul punto cita proprio la risoluzione del ministero dei
Trasporti invocata dall'automobilista multato. L'atto,
nell'accertare «che il codice della strada non indica una
durata minima del periodo di accensione della lanterna di
attivazione gialla, regola il tempo minino di durata di
detta luce che non può mai essere inferiore a tre secondi».
Un'interpretazione a cui la Corte di sente di aderire anche
in forza di uno studio del Consiglio nazionale delle
ricerche, del 2001, in base al quale i tre secondi sono il
tempo di arresto di cui ha bisogno un veicolo che proceda a
una velocità non superiore ai 50 chilometri. Se tre secondi
sono sufficienti, una durata superiore -come quella ammessa
dallo stesso ricorrente che aveva parlato di uno scarto di
frazioni di secondo- deve considerarsi, secondo i giudici,
senz'altro congrua.
La Cassazione rinvia dunque al Tribunale di Lecco
invitandolo ad adeguarsi al principio affermato (articolo Il Sole 24 Ore del
02.09.201). |
TRIBUTI:
Aliquote e tariffe, vietato sforare termini di
bilancio.
In nessun caso i comuni possono definire aliquote e tariffe
con validità per l'anno in corso oltre il termine fissato
per l'approvazione del proprio bilancio di previsione.
A ribadire l'inderogabilità della regola (dettata dall'art.
1, comma 169, della l 296/2006) è la
sentenza 28.08.2014 n. 4409 del Consiglio di Stato (V
Sez.), con la quale è stato respinto il ricorso di un comune
calabrese che nel 2013 aveva deliberato sull'addizionale
Irpef in data 12 dicembre, circa due settimane dopo la
scadenza per il varo del preventivo (30 novembre).
L'amministrazione sosteneva di essere stata rimessa in
termini dall'atto di diffida con cui il Prefetto, ai sensi
dell'art. 141, comma 2, del Tuel, aveva concesso un extra
time di 20 giorni per licenziare il documento contabile.
Secondo tale tesi, in tali casi, verrebbe ope legis
differita anche la scadenza relativa a tutti gli atti
collegati al bilancio, compresi quelli riguardanti la misura
dei tributi e dei corrispettivi dei servizi a domanda
individuale. I giudici di Palazzo Spada hanno respinto tali
argomentazioni, affermando che la perentorietà di tale
termine è desumibile dal dato testuale della disposizione di
cui al citato art. 1, comma 169.
In questa prospettiva, l'autorizzazione concessa all'ente
dal Prefetto ha natura eccezionale ed è finalizzata solo ad
evitare le gravi conseguenze che deriverebbero dalla mancata
approvazione del bilancio da parte dell'ente locale
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2014). |
ENTI LOCALI: Non
è rinvenibile nell’ordinamento un obbligo generalizzato e
specifico di predisporre il servizio scuolabus, salva la
necessità di esplorare modalità alternative che agevolino
comunque lo spostamento degli studenti dalla propria
abitazione alla struttura scolastica (e viceversa). Anche la
corresponsione di una somma adeguata (a titolo di rimborso
spese) può in questo contesto assolvere alla funzione de
qua.
In linea generale l’art. 2 della L.r. 31/1980 –rubricato
“Attuazione del diritto allo studio”– dispone che il diritto
allo studio è tra l’altro “… assicurato mediante interventi
diretti a facilitare la frequenza nelle scuole materne e
dell'obbligo”. L’art. 16 regola l’attività di programmazione
e statuisce che “I comuni singoli o associati deliberano,
entro il mese di luglio, il piano di intervento per la
attuazione del diritto allo studio, coordinando con le
proprie risorse i finanziamenti regionali e tenendo conto
delle indicazioni programmate e prioritarie dei distretti
scolastici” (comma 1), puntualizzando di seguito (comma 2)
che “Ogni Comune decide le modalità di realizzazione dei
servizi e le modalità di coordinamento”.
Dal quadro normativo appena delineato deriva che
l’istituzione del servizio scuolabus è la tipica modalità
idonea a garantire l’effettività del diritto alla studio in
assenza di collegamenti con mezzi pubblici, e tuttavia i
Comuni conservano il potere discrezionale di valutare
opzioni differenti in presenza di situazioni peculiari.
In buona sostanza, se è condivisibile una lettura della
disposizione di cui all’art. 3 come quella illustrata dagli
esponenti, la medesima tuttavia non può essere esaminata
isolatamente dal quadro normativo generale che rimette
all’Ente locale la platea delle scelte in materia, a
condizione di realizzare l’obiettivo (ossia garantire
l’attuazione del diritto allo studio): il raggiungimento di
quest’ultimo esige la predisposizione di modalità
organizzative adeguate (come il servizio scuolabus) ma non
può essere disallineato dal canone costituzionale di buona
amministrazione e dai suoi precipitati di ragionevolezza e
di sostenibilità.
E’ opinione del Collegio che possano affiorare condizioni di
fatto particolari suscettibili di avvalorare la bontà della
decisione di sostituire il servizio scuolabus con interventi
mirati, ugualmente rispondenti alla finalità di facilitare
la frequenza della scuola dell’obbligo.
Pertanto non coglie nel segno la censura sollevata, poiché
non è rinvenibile nell’ordinamento un obbligo generalizzato
e specifico di predisporre il servizio scuolabus, salva la
necessità di esplorare modalità alternative che agevolino
comunque lo spostamento degli studenti dalla propria
abitazione alla struttura scolastica (e viceversa). Anche la
corresponsione di una somma adeguata (a titolo di rimborso
spese) può in questo contesto assolvere alla funzione de
qua.
... per l'annullamento DELLA DELIBERAZIONE CONSILIARE IN
DATA 24/09/2013 N. 23, DI APPROVAZIONE DEFINITIVA DEL PIANO
PER IL DIRITTO ALLO STUDIO PER L’ANNO SCOLASTICO 2013/2014,
NELLA PARTE IN CUI ESCLUDE DAL SERVIZIO DI SCUOLABUS LA
FRAZIONE DI ACQUEBONE.
...
Riferiscono i ricorrenti di abitare con le rispettive
famiglie nella frazione Acquebone del Comune di Artogne (che
contempla anche Montecampione e Piazze), e di essere
genitori di due minori (rispettivamente di 9 e 6 anni) che
frequentano la scuola primaria nel capoluogo comunale.
Con il Piano impugnato l’amministrazione ha introdotto
misure per garantire il diritto allo studio relativamente
alla fornitura di libri, alla mensa scolastica, alle
attività complementari, alle borse di studio e al trasporto
degli alunni.
Su quest’ultimo servizio, l’atto impugnato stabilisce, per
gravi questioni di bilancio e antieconomicità, la
soppressione del servizio scuolabus per la frazione di
Acquebone, prevedendosi per i tre alunni interessati
l’erogazione di un contributo pro capite di € 1.500
calcolato sul rimborso chilometrico con tabella ACI.
...
I ricorrenti censurano la deliberazione consiliare in data
24/09/2013 n. 23, di approvazione definitiva del Piano per
il diritto allo studio per l’anno scolastico 2013/2014,
nella parte in cui esclude dal servizio di scuolabus la
frazione di Acquebone.
1. Con il primo motivo gli esponenti lamentano la violazione
e falsa applicazione dell’art. 34, comma 2, della
Costituzione laddove afferma che l’istruzione è obbligatoria
e gratuita per almeno otto anni, nonché l’inosservanza degli
artt. 1, 2, 3, 10 e 16 della L.r. 31/1980, che attribuiscono
ai Comuni l’esercizio delle funzioni per raggiungere
l’obiettivo di assicurare il diritto allo studio dei minori.
Sottolineano i ricorrenti che:
• l’art. 21, comma 3, della L. 42/2009 individua
l’istruzione pubblica come funzione fondamentale dei Comuni;
• l’art. 14, commi 26 e 27, del D.L. 78/2010 assegna ai
Comuni l’esercizio delle funzioni fondamentali tra cui “organizzazione
e gestione dei servizi scolastici”;
• l’art. 3 della L.r. 31/1980 dispone che “I Comuni …
organizzano servizi speciali di trasporto scolastico o
assicurano l’accesso degli studenti ai servizi ordinari
mediante tariffe differenziate o altre agevolazioni, in modo
da garantire e razionalizzare la frequenza scolastica in
ogni parte del territorio regionale”;
• il servizio di trasporto è obbligatorio per assicurare il
godimento del diritto allo studio e rendere la scuola
accessibile anche a chi abita a distanza;
• la frazione Acquebone dista 5 km di strada di montagna
dalla scuola e non dispone di un servizio di linea;
• il Comune vanta una discrezionalità nella concreta
disciplina del servizio ma non può giungere a eliminarlo
invocando motivazioni economiche, perché lo garantisce
ovunque tranne per la sola frazione di residenza dei
ricorrenti (di circa 50 abitanti, per cui non si tratta di
case isolate).
La prospettazione non merita condivisione.
1.1 La norma invocata affida ai Comuni –incontestabilmente
titolari delle funzioni di assistenza scolastica– il compito
di “garantire e razionalizzare la frequenza scolastica in
ogni parte del territorio regionale”, attraverso la
seguente modalità alternativa:
- organizzazione di servizi speciali di trasporto scolastico
(comunemente erogati mediante la predisposizione di
scuolabus);
- previsione di tariffe differenziate o di altre
agevolazioni che assicuri l'accesso degli studenti ai
servizi ordinari.
Ad avviso degli esponenti la formulazione della disposizione
è chiara nell’escludere una terza opzione, poiché introduce
l’obbligo cogente per il Comune di istituire in ogni caso
(ove non sia già presente un servizio di linea) un mezzo di
trasporto a favore dell’utenza della scuola dell’obbligo.
Detto ordine di idee non merita condivisione.
1.2 In linea generale l’art. 2 della L.r. 31/1980 –rubricato
“Attuazione del diritto allo studio”– dispone che il
diritto allo studio è tra l’altro “… assicurato mediante
interventi diretti a facilitare la frequenza nelle scuole
materne e dell'obbligo”. L’art. 16 regola l’attività di
programmazione e statuisce che “I comuni singoli o
associati deliberano, entro il mese di luglio, il piano di
intervento per la attuazione del diritto allo studio,
coordinando con le proprie risorse i finanziamenti regionali
e tenendo conto delle indicazioni programmate e prioritarie
dei distretti scolastici” (comma 1), puntualizzando di
seguito (comma 2) che “Ogni Comune decide le modalità di
realizzazione dei servizi e le modalità di coordinamento”.
1.3 Dal quadro normativo appena delineato deriva che
l’istituzione del servizio scuolabus è la tipica modalità
idonea a garantire l’effettività del diritto alla studio in
assenza di collegamenti con mezzi pubblici, e tuttavia i
Comuni conservano il potere discrezionale di valutare
opzioni differenti in presenza di situazioni peculiari.
In buona sostanza, se è condivisibile una lettura della
disposizione di cui all’art. 3 come quella illustrata dagli
esponenti, la medesima tuttavia non può essere esaminata
isolatamente dal quadro normativo generale che rimette
all’Ente locale la platea delle scelte in materia, a
condizione di realizzare l’obiettivo (ossia garantire
l’attuazione del diritto allo studio): il raggiungimento di
quest’ultimo esige la predisposizione di modalità
organizzative adeguate (come il servizio scuolabus) ma non
può essere disallineato dal canone costituzionale di buona
amministrazione e dai suoi precipitati di ragionevolezza e
di sostenibilità.
1.4 E’ opinione del Collegio che possano affiorare
condizioni di fatto particolari suscettibili di avvalorare
la bontà della decisione di sostituire il servizio scuolabus
con interventi mirati, ugualmente rispondenti alla finalità
di facilitare la frequenza della scuola dell’obbligo.
Pertanto non coglie nel segno la censura sollevata, poiché
non è rinvenibile nell’ordinamento un obbligo generalizzato
e specifico di predisporre il servizio scuolabus, salva la
necessità di esplorare modalità alternative che agevolino
comunque lo spostamento degli studenti dalla propria
abitazione alla struttura scolastica (e viceversa). Anche la
corresponsione di una somma adeguata (a titolo di rimborso
spese) può in questo contesto assolvere alla funzione de
qua.
2. La correttezza della scelta amministrativa deve tuttavia
essere vagliata trasferendo l’indagine sul secondo motivo di
ricorso, con il quale parte ricorrente si duole dell’eccesso
di potere per disparità di trattamento, difetto di
istruttoria e contraddittorietà, in quanto viene escluso il
solo nucleo abitato di Acquebone con i suoi alunni, quando
lo stesso sacrificio non è imposto alle altre frazioni.
Sostengono i Sigg.ri A. e R. che l’impugnata deliberazione
non motiva la grave scelta, se non facendo generico
riferimento al bilancio e a profili di antieconomicità,
quando il servizio era sempre stato assicurato fino ad oggi.
Puntualizzano che il contributo di € 1.500 non può
sostituire l’obbligatorio servizio e che difettano le
comprovate e reali oggettive difficoltà nella
predisposizione del trasporto; ravvisano una carente
istruttoria sulla situazione delle tre famiglie interessate
(se possono svolgere in autonomia il trasporto, se
dispongono di autovetture e del tempo necessario per
accompagnare e recuperare i figli).
L’articolata doglianza si rivela priva di fondamento.
L’amministrazione ha dato conto dell’avvenuta soppressione
del servizio presso l’abitato di Artogne, salva la sua
sostituzione solo per alcuni mesi con il servizio di “piedi-bus”,
mentre è stato mantenuto per la frazione Piazze ove
risiedono ben 34 alunni. Come già sottolineato
nell’esposizione in fatto, la scelta contestata in questa
sede ha prodotto un risparmio di circa 27.000 € annui tenuto
conto del numero limitato di utenti (3) presso la frazione
Acquebone.
A fronte di queste circostanze fattuali, la decisione
dell’amministrazione risulta immune da incongruenze e da
vizi di irragionevolezza, anche alla luce di risorse
finanziarie pubbliche sempre più limitate e circondate da
numerosi vincoli nell’erogazione della spesa. Se l’analisi
dell’art. 3 della L.r. 31/1980 è già stata condotta al
precedente paragrafo 1, rileva il Collegio che il Comune ha
dato conto del fatto che entrambi i genitori dei minori
sarebbero dotati di patente di guida e di autovettura e
devono già accedere (per motivi lavorativi) all’abitato di
Artogne; inoltre, l’amministrazione ha acquisito dal
dirigente scolastico la possibilità di adattare gli orari
con le esigenze lavorative della famiglia, tramite accesso
anticipato e uscita posticipata e sorveglianza assicurata
dal personale scolastico.
Ebbene, il mancato riscontro documentale di dette asserzioni
non è sufficiente a metterne in dubbio la veridicità, tenuto
conto dell’agevole possibilità di offrire la prova contraria
rappresentando la reale condizione lavorativa e la dotazione
dei mezzi di trasporto di proprietà ovvero verificando la
dedotta intesa con un semplice colloquio con gli organi di
direzione della scuola. I ricorrenti non hanno evidenziato
una diversa realtà fattuale né hanno ricostruito la vicenda
in maniera differente.
In conclusione il gravame è infondato e deve essere respinto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.08.2014 n. 918 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Concessioni di immobili con una gara pubblica.
I codicilli bloccano le
attività economiche del Comune di Milano? Si cambino i
codicilli, ma non si chieda ai giudici di non far rispettare
le norme.
La vicenda della Galleria Vittorio Emanuele di Milano offre
l'occasione per un dibattito sui principi in gioco e sul
ruolo dei magistrati amministrativi: secondo
un'interpretazione dei fatti, gli investimenti dei privati
sarebbero stati bloccati dalla «cavillosa miopia» dei
giudici amministrativi che sebbene siano solo un "granello"
avrebbero il potere di bloccare «sempre gli ingranaggi della
modernizzazione di un paese già troppo in ritardo».
Ma quali sono le norme che vengono definite "codicilli"?
Parliamo della libertà di iniziativa economica privata e dei
principi di concorrenza e di parità di trattamento e divieto
di discriminazione dei privati da parte delle pubbliche
amministrazioni. Si tratta di principi che dovrebbero
interessare chi reclama certezze per investire nel nostro
Paese. Ma parliamo anche dell'interesse economico del Comune
di Milano e dei milanesi.
Davvero la soluzione migliore è "mai più" Tar?
Il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, è accusato di avere vanificato
un'importante iniziativa del comune riguardante la Galleria
Vittorio Emanuele con la
sentenza
22.08.2014 n. 2218 che ha annullato la
delibera con la quale veniva disciplinato ex novo il regime concessorio degli immobili comunali compresi nella Galleria
e destinati a un uso commerciale: i privati già
concessionari avrebbero potuto cedere l'azienda gestita in
tali immobili a un altro operatore a condizione che il nuovo
concessionario versi al Comune un canone doppio.
Il Tribunale ha ritenuto che il Comune debba garantire la
libertà di iniziativa economica degli operatori non
coinvolti nella trattativa diretta, per rispetto della par
condicio, attraverso l'indizione di una gara pubblica.
Inoltre il prezzo da versare per la nuova concessione dev'essere
quello di mercato. Cosa non accaduta in questa circostanza.
Mentre, per il rilascio delle concessioni pubbliche, le
valutazioni cui l'amministrazione pubblica è chiamata sono
complesse, devono tener conto primariamente dell'interesse
generale.
Anche nella logica del profitto per le casse pubbliche, la
scelta perseguita non sembra avere prodotto lo stesso
risultato che sarebbe stato conseguibile con la gara
pubblica, visti i prezzi pagati dai subentranti in favore
degli originari concessionari.
Le cifre pagate dai subentranti, grandi nomi del made in
Italy, agli originari concessionari sono da capogiro (si
parla di decine di milioni di euro). Invece, i canoni
versati al comune, sebbene doppi rispetto al passato, sono
solo una piccola frazione di questi. Sicuri che sia un
affare per il comune e per i cittadini? E con una gara,
rispettando le logiche di mercato, non si sarebbero ottenuti
maggiori introiti?
Queste le considerazioni di buonsenso, invocate anche dai
commentatori del Sole 24 Ore, poi ci sono i vincoli del
diritto. Finché l'Italia resterà nell'Unione Europea noi
giudici saremo chiamati all'applicazione diretta della
normativa europea. L'interesse dell'amministrazione alla
massimizzazione delle entrate finanziarie è garantito dal
mercato e dalla libertà di concorrenza e non da violazioni
dei principi del diritto comunitario.
L'utilità economica legittimamente ottenibile dalla gestione
degli immobili pubblici è quella che emerge dal mercato e
non quella che il Comune pretende di stabilire
unilateralmente e al di fuori di ogni prospettiva di
ragionevolezza. Non si tratta di osservare meri formalismi
ma di rispettare le leggi (articolo Il Sole 24 Ore del
02.09.2014). |
APPALTI: Revocato
l'appalto all'evasore.
Tar Lombardia.
Appalto pubblico revocato e addio cauzione provvisoria per
l'evasore fiscale. Rischia grosso il legale rappresentante
della società che partecipa alla gara per gestire un
servizio pubblico tacendo i suoi precedenti con la giustizia
per reati tributari. È infatti legittima la decisione
dell'amministrazione che «si rimangia» l'attribuzione dei
lavori perché il fatto che il titolare sia pregiudicato
incide sui requisiti per la moralità professionale. E ciò
soprattutto se la «macchia» riguarda i rapporto con
l'Erario. Scatta anche la segnalazione alla procura della
Repubblica ai fini di un eventuale reato di falso per la
domanda di partecipazione alla procedura pubblica.
È quanto
emerge dalla
sentenza
19.08.2014 n. 2208, pubblicata dalla IV Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Niente da fare per il titolare di una carrozzeria che aveva
ottenuto il via libera per gestire la manutenzione di mezzi
e veicoli del comune di Milano: la violazione delle norme
sulla repressione dell'evasione fiscale pesa come un macigno
sui requisiti per poter lavorare con la p.a. La fedina
penale dell'artigiano è sporca proprio per l'evasione
dell'Iva, delle ritenute certificate e spunta anche un giro
di fatture false.
Ce n'è d'avanzo per ritenere fondata la valutazione di
incidenza della stazione appaltante. E ciò anche se uno dei
reati fiscali sarebbe caduto sotto la scure della Consulta
con la sentenza 80/2014: la condanna doveva ugualmente
essere indicata al momento della partecipazione al bando,
laddove non è chi partecipa alla gara a dover fare un filtro
dei suoi precedenti penali, ma l'amministrazione a dover
giudicare quali sono rilevanti ai fini dell'aggiudicazione
dell'appalto.
La revoca dell'attribuzione in tali casi non è automatica:
la stazione appaltante ha però valutato in concreto la
gravità delle condotte penalmente rilevanti del titolare
dell'azienda; sulla decisione pesano l'entità delle pene
inflitte e la mancata concessione del beneficio della non
menzione della condanna sul casellario giudiziale
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2014). |
APPALTI: Appalti da rifare. Ricalcolo per ribassi e anomalie.
Dal Tar Puglia la prima sentenza sul decreto p.a..
Le novità introdotte dal decreto p.a. non incidono
giurisprudenza amministrativa formatasi sull'ipotesi in cui
è annullata l'aggiudicazione della gara: la stazione
appaltante è comunque tenuta a rideterminare le medie dei
ribassi e la soglia di anomalia in tutte le procedure di
affidamento indette prima del 25.08.2014, data di
entrata in vigore del decreto dell'entrata del decreto legge
90/2014.
Lo precisa la
sentenza
06.08.2014 n. 1001, pubblicata dalla
II Sez. del TAR Puglia-Bari.
Senza senso. Niente da fare, per la parte privata non
risulta decisiva la riforma contenuta nel decreto per la
semplificazione amministrativa: è dichiarato inammissibile
il ricorso contro il Comune.
Dalla novella infatti arriva
una conferma all'indirizzo interpretativo seguito dai
giudici amministrativi prima della pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale del dl p.a. Se la novella avesse cambiato
qualcosa, si legge nella sentenza, non si spiegherebbe come
mai il legislatore abbia ritenuto di dover introdurre una
norma ad hoc volta a imporre questo modus operandi: «Ogni
variazione che intervenga, anche in conseguenza di una
pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non
rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte».
Insomma: l'intervento del legislatore non avrebbe senso se
già oggi non fosse necessaria la rideterminazione della
soglia di anomalia dopo l'annullamento da parte del giudice
amministrativo del provvedimento di aggiudicazione.
Allora per ora. Nel caso di specie, poi, l'unico motivo del
ricorso è l'illegittimità dell'aggiudicazione per mancanza
dei requisiti di partecipazione in capo alla prima
classificata perché si è servita di un contratto di avvalimento generico. La sentenza di annullamento
determinerebbe il venir meno ex tunc dell'aggiudicazione
medesima per il fatto che l'aggiudicataria avrebbe dovuto
essere esclusa per mancanza dei requisiti di partecipazione:
è come se l'offerta dell'aggiudicataria non fosse mai
pervenuta.
Prova di resistenza.
I giudici spiegano che al massimo si sarebbe potuta superare
l'eccezione di inammissibilità per difetto di interesse, se
il ricorrente avesse fatto valere nel ricorso anche solo in
via subordinata l'interesse strumentale alla riedizione
dell'intera gara.
Ma l'impresa avrebbe dovuto dimostrare, attraverso la
cosiddetta prova di resistenza, la sussistenza
dell'interesse diretto, concreto e attuale a ottenere la
pronuncia del tribunale amministrativo, che ha fatto valere
solo ed esclusivamente l'interesse principale
all'aggiudicazione della gara. Spese di giudizio compensate
per le controversie esistenti sulla questione
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Il
ricorrente, per dimostrare di avere un interesse effettivo e
concreto, deve provare che sarebbe riuscito a collocarsi al
primo posto nella graduatoria finale, e l'eventuale
violazione della procedura deve concretarsi in una lesione
effettiva della posizione del ricorrente stesso.
Il ricorso contro l’aggiudicazione è inammissibile quando,
dall’esperimento della c.d. prova di resistenza, risulti che
il ricorrente non sarebbe comunque risultato aggiudicatario
neppure in caso di accoglimento del gravame.
---------------
Il Collegio ritiene che per tutte le procedure di
affidamento indette prima della data di entrata in vigore
del D.L. 24.06.2014, n. 90 (25.06.2014) debba continuare ad
essere applicato l’indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale, a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, la
stazione appaltante debba procedere alla rideterminazione
delle medie dei ribassi e della soglia di anomalia.
In particolare, quando l’unico motivo del ricorso è
l’illegittimità dell’aggiudicazione per mancanza dei
requisiti di partecipazione in capo alla prima classificata
perché si è servita di un contratto di avvalimento generico.
Infatti, la sentenza di annullamento determinerebbe il venir
meno ex tunc dell’aggiudicazione medesima per il fatto che
l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa per mancanza
dei requisiti di partecipazione. E’ come se l’offerta
dell’aggiudicataria non fosse mai pervenuta. Pertanto, anche
dal punto di vista logico, la stazione appaltante dovrebbe
procedere alla rideterminazione della media dei ribassi e
del calcolo della soglia di anomalia. L’art. 39 del D.L.
24.06.2014, n. 90 pare confermare questo indirizzo.
Infatti, se già oggi non fosse necessaria la
rideterminazione della soglia di anomalia dopo
l’annullamento da parte del giudice amministrativo del
provvedimento di aggiudicazione, non si spiegherebbe come
mai il legislatore abbia ritenuto di dover introdurre una
norma ad hoc volta ad imporre questo modus operandi “Ogni
variazione che intervenga, anche in conseguenza di una
pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non
rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte.
La ricorrente non coglie nel segno.
Preliminarmente il Collegio ritiene opportuno evidenziare
quali sono i principi sulla cui base verrà adottata la
decisione del giudizio de quo:
a) il principio secondo cui “il ricorrente, per
dimostrare di avere un interesse effettivo e concreto, deve
provare che sarebbe riuscito a collocarsi al primo posto
nella graduatoria finale, e l'eventuale violazione della
procedura deve concretarsi in una lesione effettiva della
posizione del ricorrente stesso…” (Cons. Stato, sez. III,
05.02.2014, n. 571. In tema di condizioni dell’azione e, in
particolare, di interesse ad agire di recente Cons. Stato,
sez. V, 02.04.2014, n. 1572);
b) il principio, vigente nel processo in materia di appalti
pubblici, secondo cui il ricorso contro l’aggiudicazione è
inammissibile quando, dall’esperimento della c.d. prova di
resistenza, risulti che il ricorrente non sarebbe comunque
risultato aggiudicatario neppure in caso di accoglimento del
gravame (Cons. Stato, sez. V, 15.10.2012, n. 5276; Cons.
Stato, sez. V, 29.03.2011, n. 1928 e Cons. Stato, sez. VI,
10.09.2008, n. 4326).
Fatta questa breve premessa, questo Collegio, in conformità
a quanto disposto dall’art. 39, comma 3, del D.L.
24.06.2014, n. 90 “Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2
si applicano alle procedure di affidamento indette
successivamente alla data di entrata in vigore del presente
decreto”, ritiene che per tutte le procedure di
affidamento indette prima della data di entrata in vigore
del D.L. 24.06.2014, n. 90 (25.06.2014) debba continuare ad
essere applicato l’indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale, a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, la
stazione appaltante debba procedere alla rideterminazione
delle medie dei ribassi e della soglia di anomalia. In
particolare, come nel caso di specie, quando l’unico motivo
del ricorso è l’illegittimità dell’aggiudicazione per
mancanza dei requisiti di partecipazione in capo alla prima
classificata perché si è servita di un contratto di
avvalimento generico. Infatti, la sentenza di annullamento
determinerebbe il venir meno ex tunc
dell’aggiudicazione medesima per il fatto che
l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa per mancanza
dei requisiti di partecipazione. E’ come se l’offerta
dell’aggiudicataria non fosse mai pervenuta. Pertanto, anche
dal punto di vista logico, la stazione appaltante dovrebbe
procedere alla rideterminazione della media dei ribassi e
del calcolo della soglia di anomalia. L’art. 39 del D.L.
24.06.2014, n. 90 pare confermare questo indirizzo.
Infatti, se già oggi non fosse necessaria la
rideterminazione della soglia di anomalia dopo
l’annullamento da parte del giudice amministrativo del
provvedimento di aggiudicazione, non si spiegherebbe come
mai il legislatore abbia ritenuto di dover introdurre una
norma ad hoc volta ad imporre questo modus operandi “Ogni
variazione che intervenga, anche in conseguenza di una
pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non
rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte”.
Per completezza, il Collegio precisa che, tutt’al più, si
sarebbe potuta superare l’eccezione di inammissibilità per
difetto di interesse, se il ricorrente avesse fatto valere
nel ricorso (anche solo in via subordinata) l’interesse
strumentale alla riedizione dell’intera gara. Infatti,
secondo una parte della giurisprudenza (cfr., fra le altre,
Cons. Stato, sez. V, 15.10.2010, n. 7515 e Cons. Stato, sez.
V, 21.02.2011, n. 1082) costituisce bene della vita
meritevole di protezione giurisdizionale anche la chance di
aggiudicazione derivante dalla partecipazione alla nuova
procedura, sempre che l'impresa abbia differenziato, con la
domanda di partecipazione, la propria posizione rispetto al
quisque de populo e che non sussistano preclusioni
soggettive alla partecipazione alla nuova procedura.
Tale assunto, peraltro, non è pacifico in giurisprudenza.
Recentemente, il Consiglio di Stato ha precisato che anche
nel caso in cui si faccia valere (di norma in via
subordinata) l’interesse strumentale alla riedizione della
gara, debbono comunque sussistere, in concreto, ragionevoli
possibilità di ottenere l'"utilità richiesta": “…non
si può prescindere dalla verifica della cd. prova di
resistenza, con riferimento alla posizione della parte
ricorrente rispetto alla procedura selettiva le cui
operazioni sono prospettate come illegittime, nel senso che
è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso contro
un provvedimento qualora, dall'esperimento per l'appunto
della cd. prova di resistenza e in esito a una verifica a
priori, risulti con certezza che il ricorrente non avrebbe
comunque ottenuto il bene della vita perseguito nel caso di
accoglimento del ricorso. Occorre avere riguardo, cioè, alla
possibilità concreta di vedere soddisfatta la pretesa
sostanziale fatta valere” (Cons. Stato, sez. III,
05.02.2014, n. 571).
Il ricorrente, in ogni caso, nel ricorso di cui in epigrafe,
ha fatto valere solo ed esclusivamente l’interesse
principale all’aggiudicazione della gara. E’ questo l’unico
bene della vita a cui quest’ultimo processualmente aspira.
Ne consegue che, nel caso in esame, in presenza di una gara
indetta con il metodo del massimo ribasso ed esclusione
automatica delle offerte, nonché di una simulazione prodotta
dalla controinteressata dalla quale emergerebbe che comunque
l’impresa Coletto Michele non sarebbe risultata (a seguito
dell’esclusione della controinteressata) aggiudicataria, era
onere dello stesso ricorrente dimostrare, attraverso la c.d.
prova di resistenza, la sussistenza dell’interesse diretto,
concreto e attuale ad una pronuncia giurisprudenziale
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 06.08.2014 n. 1001 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Manca l'antiacustica,
l'indennizzo cresce.
Innovativo principio del tribunale di Brescia.
I proprietari di immobili se subiscono un danno per non
corretta esecuzione dei lavori di ristrutturazione del
proprio immobile per renderlo in regola con le disposizioni
antiacustiche, possono vedersi riconosciuto un indennizzo
pari non più al 20% del valore dell'immobile bensì del 30%.
È questo l'importante e innovativo principio stabilito dalla
sentenza 05.08.2014 n. 2664 con la quale il TRIBUNALE di
Brescia (pres. est. Magnoli) ha condannato il costruttore
edile e il progettista-direttore lavori a risarcire i
proprietari di un immobile ristrutturato ma senza rispettare
i requisiti acustico-passivi prescritti dalla legge.
La
sentenza in oggetto costituisce la prima sentenza dopo
l'intervento della Corte costituzionale n. 103 del 29.05.2013 che aveva disposto l'illegittimità della legge 96/2010
nella parte in cui sanava gli immobili edificati prima
dell'entrata in vigore della legge n. 88/2009 (comunitaria
2008) non in linea con i parametri di isolamento acustico.
La sentenza del tribunale di Brescia riguarda il caso di
proprietari di un appartamento in condominio che avevano
lamentato disturbi provenienti dagli appartamenti confinanti
con il loro e avevano incaricato un tecnico per verificare
l'effettiva insonorizzazione dell'immobile. Dall'analisi era
emerso che il fabbricato in oggetto risultava essere stato
ristrutturato senza alcun rispetto dei parametri acustico-passivi prescritti dal dpcm
05/12/1997.
Da qui la citazione in giudizio dell'impresa costruttrice la
quale, a sua volta, aveva chiamato in giudizio in manleva il
progettista/direttore lavori nonché l'originario
committente. In corso di causa, la Ctu aveva confermato
integralmente i vizi denunciati dagli attori e quantificato
il risarcimento spettante agli attori nella misura del 30%
del valore d'acquisto dell'immobile (mentre le pronunce in
materia prima dell'intervento della Corte costituzionale
prevedevano risarcimenti sull'ordine del 20%), oltre al
rimborso dei canoni pagati per l'affitto di altro
appartamento e alle spese necessarie per l'insonorizzazione
dell'appartamento viziato.
Da qui l'accoglimento della domanda e il risarcimento del
danno nella misura maggiore
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9 della legge 28.01.1977, n. 10 prevede che: “Il contributo
di cui al precedente art. 3 non è dovuto: .. f) per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse
generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Alla luce della lettera della norma sopra richiamata, è
evidente che anche ove l’edificio fosse stato, per ipotesi,
condonato come luogo di culto, come pretende la ricorrente,
esso non avrebbe potuto beneficiare dell’esenzione dal
contributo ai sensi dell’art. 9 della legge 28.01.1977, n.
10, in quanto tale trasformazione non sarebbe certo avvenuta
in attuazione dello strumento urbanistico generale (che
invece destina l'area medesima a "verde pubblico di
interesse generale"), né in attuazione di una variante al
P.R.G., né in conformità di uno strumento attuativo che
localizzasse sull’area e/o destinasse l’edificio
preesistente sull’area ad opera di urbanizzazione
secondaria, come luogo di culto.
Per tale ragione la concessione in sanatoria, anche ove
fosse stata rilasciata per una destinazione a luogo di
culto, non poteva essere rilasciata gratuitamente, come
invece la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova
(ricorrente) pretende che le venga riconosciuto da questo
Tribunale.
In data 30.09.1986 il sig. E.G. chiedeva la sanatoria per le
opere abusive, eseguite sull'immobile di sua proprietà sito
in Padova, vicolo Portenari 2, consistenti in: “A)
Copertura di spazi aperti e chiusura laterale per il ricavo
di locale antistante a servizi igienici ed ampliamento
locale ripostiglio; B) Sistemazione di vecchio stabile ad
uso industriale con conseguente mutamento di destinazione
d'uso (riunioni a carattere religioso); C) Ristrutturazione
servizio igienico esistente a servizio delle opere di cui
alla lettera B”.
Le opere abusive si dichiaravano ultimate alla data del
30.04.1983.
In data 13.01.1997 il dirigente del Settore Edilizia Privata
concedeva la sanatoria ai sensi dell’art. 31 L. n. 47/1985
sull'immobile a destinazione commerciale, e richiedeva il
pagamento degli oneri concessori per un totale di Lire
7.463.243, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 10/1977.
La proprietà dell’ immobile in esame veniva trasferita dal
sig. E.G. alla Congregazione Cristiana dei Testimoni di
Geova con atto di vendita in data 19.06.1992.
Con un primo ricorso iscritto al n. 354/1997 del ruolo
generale, la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova
ha impugnato il provvedimento del 24.10.1996 nella parte in
cui aveva disposto il pagamento degli oneri di
urbanizzazione, ed ha chiesto la condanna del Comune alla
restituzione di quanto versato, con gli interessi di legge.
A fondamento del gravame la ricorrente ha dedotto la
violazione di legge, ed in particolare, dell’ art. 9, lett.
f), della legge 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 76 della L.R.
26.06.1985 n. 61, nonché l’eccesso di potere per difetto di
presupposto.
Si sostiene che essendo qualificabile la costruzione de
quo quale opera di urbanizzazione secondaria, la
concessione in sanatoria non poteva essere soggetta al
pagamento di alcun onere o contributo, e pertanto
illegittimamente il Comune di Padova aveva imposto il
pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Con successivo ricorso iscritto al n. 861/1997 del ruolo
generale la medesima Congregazione ha impugnato la
concessione a sanatoria del 13.01.1997, nella parte in cui
aveva sanato l'immobile della ricorrente con destinazione
d'uso "commerciale", anziché con destinazione a "culto
- opere religiose" richiesta con l'istanza di condono
edilizio.
A fondamento di tale impugnazione la ricorrente ha lamentato
la violazione degli artt. 31 e 37 della L. n. 47/1985 e
dell’art. 76 della L.R. n. 61/1985, nonché l’eccesso di
potere per illogicità e difetto di presupposto. Ciò in
quanto, a fronte di una domanda di condono presentata per
sanare la destinazione d’uso a luogo di culto, il Comune
aveva invece sanato gli abusi edilizi per una destinazione
commerciale non richiesta né di fatto esistente, con la
conseguenza di ritenere dovuti oneri di urbanizzazione che
invece non potevano essere richiesti ove fosse stata sanata
la destinazione a luogo di culto.
...
La questione principale sottesa ad entrambi i ricorsi è
costituita dall’assoggettamento o meno delle opere oggetto
di sanatoria al pagamento degli oneri di urbanizzazione, dei
quali, con il primo ricorso se ne chiede direttamente la
restituzione, mentre, con il secondo ricorso s’intende
ottenere, propedeuticamente, l’annullamento della sanatoria
della destinazione d’uso commerciale, dovendo l’immobile
essere sanato come luogo di culto, ed in quanto tale non
assoggettabile ad oneri di urbanizzazione.
Sul punto l’art. 9 della legge 28.01.1977, n. 10 prevede
che: “Il contributo di cui al precedente art. 3 non è
dovuto: .. f) per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
Nel caso di specie è indubbio che le opere oggetto di
sanatoria sono state realizzate dal privato allora
proprietario dell’immobile, per proprio conto, e non da un “ente
istituzionalmente competente”.
Ed è pure evidente che l’immobile in questione, sito in
vicolo Portenari 2, nel Comune di Padova, di proprietà
privata ed avente una destinazione industriale, non
costituiva originariamente un’opera di urbanizzazione
secondaria.
Piuttosto, il sig. E.G., con la domanda di condono del
26.09.1986, ha chiesto, oltre alla sanatoria di alcune opere
di ristrutturazione edilizia realizzate sull’edificio in
questione, anche la sanatoria del mutamento di destinazione
d’uso di questo, in quanto “usato per riunioni religiose”.
Ciò premesso, alla luce della lettera della norma sopra
richiamata, è evidente che anche ove l’edificio fosse stato,
per ipotesi, condonato come luogo di culto, come pretende la
ricorrente, esso non avrebbe potuto beneficiare
dell’esenzione dal contributo ai sensi dell’art. 9 della
legge 28.01.1977, n. 10, in quanto tale trasformazione non
sarebbe certo avvenuta in attuazione dello strumento
urbanistico generale (che invece destina l'area medesima a "verde
pubblico di interesse generale"), né in attuazione di
una variante al P.R.G., né in conformità di uno strumento
attuativo che localizzasse sull’area e/o destinasse
l’edificio preesistente sull’area ad opera di urbanizzazione
secondaria, come luogo di culto.
Per tale ragione la concessione in sanatoria, anche ove
fosse stata rilasciata per una destinazione a luogo di
culto, non poteva essere rilasciata gratuitamente, come
invece la Congregazione ricorrente pretende che le venga
riconosciuto da questo Tribunale.
A ciò si aggiunga che comunque l’immobile in questione non
poteva essere sanato con destinazione a “culto-opere
religiose”, in quanto esso, all’epoca della proposizione
della domanda di condono (30.09.1986), era di proprietà di
un privato cittadino che dichiarava a tal fine che tale
edificio veniva usato per “riunioni di carattere
religioso”, senza altra specificazione o indicazione.
Per cui -atteso peraltro che la Congregazione dei Testimoni
di Geova è stata riconosciuta dallo Stato con D.P.R.
31.10.1986, successivo alla data di ultimazione delle opere
e alla domanda di condono- il Comune di Padova ha
correttamente ritenuto di classificare tale destinazione
come commerciale, comprendente, ai sensi dell’art. 5 del
disciplinare oneri allora vigente, le attività culturali e
sociali
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 04.08.2014 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Contatori dell'acqua da installare a maggioranza.
Risparmi. Fra regole e sentenze.
In condominio, fatta
salva la diversa disciplina convenzionale, la ripartizione
delle spese per il consumo dell'acqua –in mancanza di
contatori di sottrazione installati in ogni singola unità
immobiliare– avviene in base al valore millesimale
dell'appartamento, anche se non è affatto remota la
richiesta di alcuni condòmini di voler addebitare queste
spese ai soli occupanti di ogni appartamento
(in questo
senso, la recentissima sentenza 01.08.2014 n. 17557 della Corte di
Cassazione).
Sempre la Corte di cassazione con la sentenza 16.05.2014
n. 10895 ha dichiarato che l'installazione dei contatori
di ripartizione del consumo dell'acqua in ogni singola unità
immobiliare può essere deliberata dall'assemblea di
condominio, anche se la ripartizione del servizio è
disciplinata diversamente dal regolamento contrattuale.
Cerchiamo di capire come ha fatto la Corte a pervenire a
questa decisione, che a una lettura poco attenta può
sembrare in contrasto con quanto sino ad ora affermato. Già
nel 1994 la legge n. 36, recante «Disposizioni in materia di
risorse idriche», all'articolo 5 prevedeva che «il risparmio
della risorsa idrica è conseguito, in particolare, mediante
la progressiva estensione delle seguenti misure: (...) d)
installazione di contatori in ogni singola unità abitativa».
Nel 1996 interviene il Dpcm del 4 marzo, successivamente
richiamato dal Dlgs 152/2006 (articolo 144, lettera f), che
impone alle Regioni di adottare norme per l'obbligo di
installare in ogni singola unità abitativa dei contatori di
ripartizione del consumo dell'acqua.
Il legislatore guarda
dunque con particolare favore l'installazione di contatori
per il consumo dell'acqua in ogni singola unità abitativa
(nonché di contatori differenziati per le attività
produttive e del settore terziario esercitate nel contesto
urbano) in quanto volta a razionalizzare i consumi e ad
eliminare gli sprechi e quindi a conseguire, in una
prospettiva di tutela ambientale, il risparmio della risorsa
idrica.
È quanto afferma la sentenza 17557/2014 citata prima, nel
decidere in relazione al criterio da applicarsi per la
ripartizione delle spese di consumo dell'acqua in
condominio, ed è il principio a cui si rifà la sentenza
10859/2014 quando dichiara che rientra nelle attribuzioni
dell'assemblea di condominio la gestione delle cose e dei
servizi comuni «in modo dinamico», nel senso, cioè, di un
loro adattamento nel tempo al fine di una più razionale ed
efficiente utilizzazione dei servizi stessi, con eventuale
dismissione anche di alcuni beni comuni, e ciò anche se il
servizio è disciplinato dal regolamento di natura
contrattuale.
Si aggiunge, poi, che le norme riguardanti le
modalità d'uso della cosa comune e, in generale, le modalità
d'uso e il funzionamento dei servizi condominiali, hanno
natura tipicamente regolamentare in base all'articolo 1138
del Codice civile e, come tali, demandati all'assemblea
dall'articolo 1135 del Codice civile. La natura
contrattuale, invece, attiene a quelle norme che incidono
nella sfera dei diritti soggettivi e degli obblighi di
ciascun condomino.
Alla luce di tutto questo, quindi,
l'assemblea può deliberare la dismissione dell'impianto
comune a favore della installazione dei contatori di
sottrazione in ogni appartamento, anche se il regolamento
contrattuale disponga diversamente.
Per quanto riguarda le maggioranze, la mera sostituzione
dell'impianto idrico esistente non costituisce una
innovazione ai sensi dell'articolo 1120 del Codice civile ma
solo una modifica diretta al miglior godimento e, pertanto
(si veda anche il Sole 24 Ore del 01.04.2014) può essere
approvata con la maggioranza semplice, ovvero almeno un
terzo dei condòmini che rappresenti un terzo dei millesimi (articolo Il Sole 24 Ore del
02.09.2014). |
CONDOMINIO: Regolamenti condominiali ad opponibilità limitata.
In ambito condominiale la trascrizione del regolamento non è
sufficiente a sancirne l'automatica opponibilità a tutti gli
acquirenti i futuri.
Lo hanno stabilito i giudici della II Sez. civile
della Corte di Cassazione, con
sentenza
31.07.2014 n. 17493.
I giudici di piazza Cavour hanno
evidenziato, evidentemente, come sia necessaria una
trascrizione specifica e autonoma del vincolo, ai fini della opponibilità delle servitù reciproche costituite con il
regolamento di condominio cosiddetto contrattuale.
E infatti, secondo i supremi giudici, in ossequio anche alla
giurisprudenza della stessa Corte di cassazione (Cass. 15.12.1986 n. 7515): «Va ricordato che l'art. 2659, comma
1, n. 2, c.c., secondo cui nella nota di trascrizione devono
essere indicati il titolo di cui si richiede la trascrizione
e la data del medesimo, va interpretato in collegamento con
il successivo art. 2655 il quale stabilisce che l'omissione
o l'inesattezza delle indicazioni richieste nella nota non
nuoce alla validità della trascrizione eccetto che induca
incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico
a cui si riferisce l'atto.
Ne consegue che dalla nota deve
risultare non solo l'atto in forza del quale si domanda la
trascrizione ma anche il mutamento giuridico, oggetto
precipuo della trascrizione stessa, che quell'atto produce
in relazione al bene. Pertanto, in caso di regolamento di
condominio cosiddetto contrattuale, non basta indicare il
medesimo ma occorre indicare le clausole di esso incidenti
in senso limitativo sui diritti dei condomini sui beni
condominiali o sui beni di proprietà esclusiva».
Nella sentenza in commento, viene, poi, ribadito il
principio secondo il quale le clausole del regolamento
condominiale di natura contrattuale sono vincolanti per gli
acquirenti dei singoli appartamenti qualora,
indipendentemente dalla trascrizione, nell'atto di acquisto
si sia fatto riferimento al regolamento di condominio,
dimostrando di esserne a conoscenza e di accettarne il
contenuto (si veda: Cass. 31.07.2009 n. 17886; Cass. 03.07.2003 n. 10523).
Tale principio è stato però, opportunamente, integrato con
il presupposto del necessario richiamo al regolamento dei
condominio contenuto nell'atto di acquisto e col fatto che
non è sufficiente la semplice presunzione che tale richiamo
fosse contenuto negli atti di acquisto
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.09.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Qualità anche in prestito. La certificazione da un'impresa
all'altra.
APPALTI/ Sentenza del Consiglio di stato sull'utilizzo dell'avvalimento.
In un appalto pubblico la certificazione di qualità, in
quanto elemento che garantisce la stazione appaltante
rispetto alla capacità tecnica dell'imprenditore, può essere
«prestata» da una impresa a un'altra utilizzando l'istituto
dell'avvalimento; è però necessario che le risorse tecniche
e professionali siano messe a disposizione per tutta la
durata del contratto.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 24.07.2014 n. 3949, rispetto a una specifica vicenda
riguardante un appalto di lavori di messa in sicurezza e
ampliamento di una scuola elementare.
In primo grado era
stato disposto l'annullamento dell'aggiudicazione perché, da
un lato, l'avvalimento a favore dell'aggiudicataria da parte
di un'altra impresa non sarebbe stato utilizzabile per
sopperire alla carenza dell'attestazione Soa e, dall'altro,
perché il contratto di avvalimento non sarebbe stato
esaustivo e non avrebbe coperto la mancanza di alcune figure
(direttore tecnico e responsabile tecnico degli impianti)
previste dalla normativa regolamentare sugli impianti.
Il
Consiglio di stato annulla la sentenza del Tar e
ricostruisce innanzitutto il quadro normativo riferibile
all'articolo 49 del Codice dei contratti pubblici e all'art.
88 del dpr 207/2010. In particolare i giudici specificano
che nelle gare pubbliche, la certificazione di qualità,
finalizzata a valorizzare gli elementi di eccellenza
dell'organizzazione complessiva, va qualificata come
requisito di idoneità tecnico-organizzativa dell'impresa. Si
tratta quindi di un elemento che ha la funzione di
verificare la capacità tecnico-professionale di un'impresa,
assicurando che l'impresa cui sarà affidato il servizio o la
fornitura sarà in grado di effettuare la prestazione nel
rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un
organismo a ciò predisposto.
Sulla base di tale presupposto
la sentenza, contrariamente alla determina Anac n. 2/2012,
afferma che la certificazione di qualità, afferendo alla
capacità tecnica dell'imprenditore, è coerente con
l'istituto dell'avvalimento, strumento giuridico
utilizzabile per provare i possessori di tale elemento, e
applicabile alla gara specifica che non preclude il ricorso
all'istituto dell'avvalimento per la certificazione di
qualità (ma sarebbe stata comunque una clausola inefficace).
Per i giudici quindi il contratto di avvalimento
legittimamente prodotto dall'aggiudicataria risultava in
concreto anche del tutto rispondente a quanto previsto dalla
normativa vigente dal momento che in esso erano
espressamente chiariti i requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa propri del
modello di gestione e organizzazione dell'impresa ausiliaria
che la stessa si era obbligata a mettere a disposizione
dell'ausiliata, oltre alle macchine e attrezzature
analiticamente elencate.
Inoltre il prestito delle risorse e
mezzi, comprendendo anche le figure tecniche (responsabile
tecnico e direttore tecnico) messe a disposizione dell'ausiliata,
fa sì che il contratto si ponga del tutto in linea con le
esigenze di messa a disposizione per tutta la durata
dell'appalto delle risorse necessarie a svolgere le
prestazioni contrattuali
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è saldamente orientata nel ritenere che la
disposizione dell’articolo 9 del decreto ministeriale n.
1444 del 1968 trovi applicazione con riferimento alle pareti
nella loro interezza, a prescindere dalla collocazione delle
finestre.
In particolare, la Corte di Cassazione ha autorevolmente
chiarito che è da ritenere condizione sufficiente per
l’applicazione dell’articolo 9 del decreto ministeriale n.
1444 del 1968, “che le finestre esistano in qualsiasi zona
della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo
una parte di essa si trovi a distanza minore da quella
prescritta”, in quanto “sono le pareti, non le finestre
aperte in esse, a costituire dati di riferimento per il
calcolo della distanza”, di talché “in relazione alla ratio
della previsione (finalizzata alla salvaguardia
dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una
determinata intercapedine degli edifici che si
fronteggiano), il rispetto della distanza minima è dovuto
anche per i tratti di parete che sono in parte privi di
finestre”.
7. A diverse conclusioni deve, invece, pervenirsi quanto
alla determinazione assunta dal Comune con riferimento alla
proposta di regolarizzazione dell’intervento, allorché
–stante la mancata acquisizione dell’assenso di tutti i
proprietari dell’immobile alla chiusura di tutte le finestre
presenti sulla parete interessata e alla loro traslazione su
altro fronte– l’Ente ha rigettato l’istanza dei ricorrenti e
reiterato l’ordine di demolizione dell’intero fabbricato.
7.1 Devono condividersi, al riguardo, le doglianze espresse
dai ricorrenti, poiché l’operato comunale non appare
sorretto, sul punto, dalla disposizione del richiamato
articolo 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, che regola –come
detto– la fattispecie di cui è causa.
In particolare, non risulta correttamente inteso il
riferimento contenuto nella disposizione in esame alla “rimozione
dei vizi delle procedure” o della “rimessione in
pristino”.
Nel caso di specie, infatti, l’illegittimità accertata
attiene unicamente al mancato rispetto delle distanze tra
pareti finestrate prescritto dall’articolo 9 del decreto
ministeriale n. 1444 del 1968. Disposizione, quest’ultima,
che non vieta in termini assoluti l’edificazione a una
distanza inferiore a dieci metri rispetto al fabbricato del
confinante, ma preclude solo l’apertura di finestre sulla
parete eventualmente costruita a una distanza inferiore.
Ciò comporta che –pur rivestendo la disposizione carattere
di rilevante interesse pubblico, in quanto posta a presidio
di esigenze di ordine igienico-sanitario– essa presenta una
portata nettamente differente rispetto alle altre previsioni
normative che, sulla base di esigenze parimenti di rilevante
interesse pubblico, prescrivono l’osservanza di specifiche
distanze riferite ai fabbricati nella loro interezza, come
avviene ad esempio –per limitarsi a un solo caso– con
riguardo al divieto di edificazione in prossimità degli
argini dei fiumi di cui all’articolo 96, lettera f), del
R.D. n. 523 del 1904.
E invero, in tale seconda ipotesi è evidente che, a seguito
della violazione della norma, la piena soddisfazione
dell’interesse ad essa sotteso può essere effettivamente
conseguita solo mediante la demolizione dell’intera
costruzione posta a distanza inferiore a quella prescritta.
Nel caso oggetto del presente giudizio, invece, il vizio dei
titoli edilizi, rimossi mediante l’adozione del
provvedimento di autotutela, non atteneva all’illegittimità
dell’assentita collocazione spaziale del fabbricato, ma
risiedeva solo nella previsione dell’apertura di finestre su
una parete posta a distanza inferiore a dieci metri rispetto
al fabbricato del confinante.
7.2 Di conseguenza, nel procedimento aperto ai sensi
dell’articolo 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente
all’annullamento in autotutela dei titoli edificatori, ben
avrebbe potuto il Comune limitarsi ad ordinare la rimozione
del vizio riscontrato, prescrivendo la chiusura delle
finestre aperte in violazione del limite legale, apparendo,
invece, non sorretta dalla stessa previsione normativa
invocata, oltre che sproporzionata e irragionevole,
l’adozione di un ordine di demolizione dell’intero edificio
interessato.
8. Neppure può condividersi la scelta del Comune di
subordinare l’adozione di una sanzione limitata alla
rimozione dei vizi relativi alla parete interessata allo
spostamento delle finestre su altra parete, previamente
assentito da tutti i condomini.
8.1 Ciò in quanto il provvedimento Comunale, nel rispetto
della richiamata previsione normativa, avrebbe dovuto
limitarsi ad assumere determinazioni in merito alla parte in
questione, ordinandone la regolarizzazione.
Appare, invece, questione del tutto distinta e non di
pertinenza dell’Ente la sorte delle unità immobiliari
interessate, rimanendo rimessa ai rispettivi proprietari
l’eventuale successiva presentazione di autonome istanze,
corredate dai dovuti assensi, finalizzate a conseguire il
rilascio dei titoli autorizzatori necessari per l’eventuale
apertura di luci o vedute su altra parete.
8.2 Né a ciò potrebbe obiettarsi che la sola chiusura delle
finestre, senza contestuale riapertura su altro fronte,
potrebbe astrattamente incidere sull’abitabilità di singole
unità immobiliari.
Anzitutto, una tale affermazione proverebbe troppo, in
quanto l’eventuale inabitabilità di alcuni appartamenti
costituisce certamente una conseguenza di gran lunga meno
pregiudizievole rispetto alla demolizione dell’intero
immobile, che non appare, nella specie, giustificata.
In secondo luogo, l’effettivo perdurare delle condizioni di
abitabilità delle singole unità immobiliari dovrebbe,
semmai, costituire oggetto di una successiva e autonoma
valutazione da parte del Comune. E ciò ferma restando la
possibilità per gli interessati di attivare, come detto,
tutte le iniziative eventualmente necessarie per evitare
–beninteso, ove se ne presentasse il caso– la compromissione
dei dovuti rapporti di aeroilluminazione degli ambienti.
9. Appaiono invece non censurabili le determinazioni del
Comune –contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti–
quanto alla ritenuta necessità di chiusura di tutte le
finestre presenti sulla parete interessata, e non
esclusivamente di quelle collocate nella sola porzione
frontistante l’edificio del confinante.
E invero, la giurisprudenza è saldamente orientata nel
ritenere che la disposizione dell’articolo 9 del decreto
ministeriale n. 1444 del 1968 trovi applicazione con
riferimento alle pareti nella loro interezza, a prescindere
dalla collocazione delle finestre.
In particolare, la Corte di Cassazione, con la sentenza
della Sezione II civile 20.06.2011, n. 13547, ha
autorevolmente chiarito che è da ritenere condizione
sufficiente per l’applicazione dell’articolo 9 del decreto
ministeriale n. 1444 del 1968, “che le finestre esistano
in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro
edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a
distanza minore da quella prescritta (Sez. 2^, 28.09.2007,
n. 20574)”, in quanto “sono le pareti, non le
finestre aperte in esse, a costituire dati di riferimento
per il calcolo della distanza (Sez. 2^, 28.08.1991, n. 9207)”,
di talché “in relazione alla ratio della previsione
(finalizzata alla salvaguardia dell'interesse
pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine
degli edifici che si fronteggiano), il rispetto della
distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che
sono in parte privi di finestre”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.06.2014 n. 1597 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001 il contributo
afferente al permesso di costruire, commisurato
all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo
di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del
rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi,
peraltro in mancanza dell'inserimento nel permesso di
costruite di una clausola che ne riservi la
rideterminazione, che l'Amministrazione comunale possa, in
epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, in relazione
all'aggiornamento delle due componenti, provvedere ad una
nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio.
Nel merito i rilievi del giudice amministrativo salentino
sono esatti e condivisibili, posto che, ai sensi dell'art.
16 del d.P.R. 380/2001, il contributo afferente al permesso
di costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato
e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde
non può ammettersi, peraltro in mancanza dell'inserimento
nel permesso di costruite di una clausola che ne riservi la
rideterminazione, che l'Amministrazione comunale possa, in
epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, in relazione
all'aggiornamento delle due componenti, provvedere ad una
nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio (cfr. in
tal senso tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV,
30.07.2012, n. 4320 e 27.04.2012, n. 2471, che ha in specie
chiarito come la riliquidazione possa consentirsi solo
quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in relazione
alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per
il completamento con mutamento di destinazione d'uso delle
opere assentite in origine)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.06.2014 n. 3009 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Legittimità diffida per recupero o smaltimento
rifiuti dalle calci di defecazione derivanti dalle
lavorazioni di uno zuccherificio.
E’ legittima la diffida ad avviare al recupero o allo
smaltimento i rifiuti costituiti dalle calci di defecazione
derivanti dalle lavorazioni dello zuccherificio, utilizzate
per il recupero ambientale (R10), dalla quota di 3 metri
fino a quella di 4,7 metri dal p.c..
Consentire tempi e
quantità superiori per la messa in riserva di un rifiuto in
regime di procedura semplificata comporta il rischio di
creazione di una discarica, facendo insorgere il sospetto di
una probabile perdita di controllo del flusso del rifiuto.
Ai sensi del nuovo testo del DM 05.02.1998, All. 3)
(ora art. 214, comma 8, d.lgs. n. 152/2006) per ciascun
impianto o stabilimento di recupero la quantità massima di
una determinata tipologia di rifiuto contemporaneamente
messa in riserva ed avviata ad ulteriore operazione
recupero, non può superare il 70% della quantità di rifiuti
individuata nell’Allegato 4 come limite massimo per le
operazioni di recupero effettuate sullo stesso rifiuto. Per
i rifiuti combustibili tale limite viene ridotto al 50%,
fatta salva la capacità effettiva di trattamento
dell’impianto, che verrà preferita solo qualora risultasse
inferiore.
Il Legislatore con l’avverbio
“contemporaneamente” partendo dal concetto che non è
consentito stoccare più di quanto si recupera, ha ritenuto
che se presso il medesimo impianto, in un anno, le quantità
di rifiuto destinate alle operazioni di messa in riserva non
possono superare quelle indicate dall’Allegato 4 per le
operazioni di recupero di quel rifiuto, conseguentemente,
non sarà possibile accumulare istantaneamente una quantità
di rifiuti superiore al 70% (ridotta al 50% per i rifiuti
combustibili) della quantità massima di rifiuti stoccabili
in un anno. In ogni momento, pertanto, le quantità
effettivamente presenti e stoccate nell’impianto non
potranno andare oltre tale limite percentuale.
2.4. Per giustificare ragionevolmente tale regola di matrice
giurisprudenziale occorre analizzare il corpus normativo nel
quale il D.M. 05.02.1998, che è destinato principalmente
alla determinazione delle quantità massime di rifiuti non
pericolosi da destinare alle attività di recupero in
procedura semplificata, si inserisce.
Al riguardo, deve premettersi che la Corte di Giustizia
Europea, con sentenza 07.10.2004 (causa C - 103/02), ha
condannato l’Italia per non aver previsto nel decreto
05.02.1998, sull’individuazione dei rifiuti non pericolosi
sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi
degli artt. 31 e 33 del decreto legislativo 05.02.1997, n.
22, quantità massime per tipo di rifiuti, che possano essere
oggetto di recupero in regime di dispensa
dall’autorizzazione.
Con l’adozione del DM 05.04.2006, n. 186 sono stati
riscritti gli articoli 6 (Messa in riserva), 7 (Quantità
impiegabile), 8 (Campionamenti ed analisi) e 9 (Test di
cessione) del precedente DM 05.02.1998, ed apportato delle
aggiunte al previgente art. 11 (Attività di monitoraggio e
controllo alle operazioni di recupero), nonché alcune
modifiche sostanziali e significative alle diverse voci
degli Allegati al testo normativo; i pertinenti artt. 31 e
33 del d.lgs. n. 22/1997 (norme primarie di riferimento)
sono stati, inoltre, sostituiti dagli artt. 214 e 216 del
Codice dell’Ambiente (d.lgs. n. 152/2006).
La novità normativa introdotta dalle modifiche al D.M.
05.02.1998 ha riguardato l’allargamento delle tipologie di
rifiuti che è possibile destinare ad operazioni di messa in
riserva in regime di procedura semplificata. In precedenza
infatti, era possibile stoccare, effettuando la
comunicazione di inizio attività, solo poche categorie di
rifiuti tra cui carta, cartone, plastica, vetro, alcuni
metalli, legno, sughero, caucciù e gomma, e solo se
destinate ad ulteriore operazione di recupero esplicitamente
individuata dagli Allegati del decreto.
Ad oggi è possibile mettere in riserva in procedura
agevolata tutti i tipi di rifiuti elencati nel decreto, e la
stessa operazione acquista una propria autonomia rispetto al
tipo di operazione di recupero che verrà successivamente
effettuata sul rifiuto.
Il nuovo testo dell’art. 6 del D.M. 05.02.1998, introdotto
dall’art. 1, comma 1, lettera c) del D.M. n. 186/2006, che
si occupa della “messa in riserva”, distingue infatti
tra:
a) operazioni di messa in riserva effettuate presso
l’impianto di produzione del rifiuto;
b) operazioni di messa in riserva effettuate presso impianti
che svolgono unicamente tale operazione (e quindi in via
esclusiva);
c) operazioni di messa in riserva effettuate presso impianti
di recupero (e che pertanto effettuano anche altre attività
di recupero sul medesimo rifiuto non pericoloso).
Per l’ipotesi di cui alla lettera a) la norma, prevede quali
quantità massime di rifiuti impiegabili quelle individuate
dall’Allegato 4, espresse in termini assoluti, così come
richiesto dalla Corte di Giustizia Europea.
Tuttavia il Decreto, fissa un ulteriore limite: “la
quantità di rifiuti non pericolosi sottoposti ad operazioni
di messa in riserva presso l’impianto di produzione del
rifiuto non può eccedere la quantità di rifiuti prodotti in
un anno, all’interno del medesimo impianto”.
Indipendentemente dal limite massimo applicabile, prosegue
la norma: “i rifiuti prodotti devono essere avviati ad
operazioni di recupero entro un anno dalla data di
produzione”.
Queste previsioni mirano ad evitare che presso il medesimo
impianto di produzione vengano stoccati rifiuti in quantità
eccessive, e al contempo che gli stessi rifiuti vengano
effettivamente destinati alle attività di recupero in tempi
rapidi, non superiori ad un anno decorrente dalla data della
loro produzione.
Coerentemente, il d.lgs. n. 36/2003 di attuazione della
Direttiva 1999/31/CE (Discariche rifiuti), all’art. 2, comma
1, lett. g), definisce “discarica” anche “qualsiasi
area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per
più di un anno.
Pertanto, sulla base di queste considerazioni di ordine
generali, derivanti dal complesso ordito normativo sopra
sintetizzato, appare evidente che consentire tempi e
quantità superiori per la messa in riserva di un rifiuto in
regime di procedura semplificata comporta il rischio di
creazione di una discarica, facendo insorgere il sospetto di
una probabile perdita di controllo del flusso del rifiuto.
E’ evidente, dunque, che impostare un onere probatorio in
capo al soggetto che beneficia della procedura semplificata,
come nella specie, è coerente con i rischi ambientali e di
inquinamento che tale procedura potrebbe implicare
(creazione di fatto di una discarica) che si vogliono
senz’altro prevenire.
Inoltre, ai sensi del nuovo testo del DM 05.02.1998, All. 3)
(ora art. 214, comma 8, d.lgs. n. 152/2006) per ciascun
impianto o stabilimento di recupero la quantità massima di
una determinata tipologia di rifiuto contemporaneamente
messa in riserva ed avviata ad ulteriore operazione
recupero, non può superare il 70% della quantità di rifiuti
individuata nell’Allegato 4 come limite massimo per le
operazioni di recupero effettuate sullo stesso rifiuto. Per
i rifiuti combustibili tale limite viene ridotto al 50%,
fatta salva la capacità effettiva di trattamento
dell’impianto, che verrà preferita solo qualora risultasse
inferiore.
Il Legislatore con l’avverbio “contemporaneamente”
partendo dal concetto che non è consentito stoccare più di
quanto si recupera, ha ritenuto che se presso il medesimo
impianto, in un anno, le quantità di rifiuto destinate alle
operazioni di messa in riserva non possono superare quelle
indicate dall’Allegato 4 per le operazioni di recupero di
quel rifiuto, conseguentemente, non sarà possibile
accumulare istantaneamente una quantità di rifiuti superiore
al 70% (ridotta al 50% per i rifiuti combustibili) della
quantità massima di rifiuti stoccabili in un anno.
In ogni momento, pertanto, le quantità effettivamente
presenti e stoccate nell’impianto non potranno andare oltre
tale limite percentuale.
3. Relativamente alla questione del test necessariamente da
svolgere sul “rifiuto tal quale”, l’ARPAM ha
dimostrato con documentazione fotografica che non è stato
riscontrato alcun materiale estraneo nei campioni di rifiuti
posti in analisi ed il campionamento operato è stato svolto
in modo conforme a quanto dettato dall’allegato 3 al D.M.
05.02.1998.
3.1. Peraltro, sotto il profilo giuridico, occorre osservare
che l’art. 239, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, in caso di
avvio a recupero, smaltimento rifiuti abbandonati o deposito
in modo incontrollato, subordina l’attività di
caratterizzazione dell’area ai fini degli eventuali
interventi di bonifica e ripristino ambientale all’avvenuta
rimozione del rifiuto.
Ciò implica, per il Collegio, che il legislatore abbia
riconosciuto l’impossibilità giuridica di una trasformazione
del rifiuto abbancato in “terreno”, non più soggetto
a smaltimento.
3.2. Inoltre, la tesi dell’appellante, secondo cui il test
di cessione doveva essere effettuato sul “rifiuto tal
quale” e non successivamente all’abbancamento dei
rifiuti e all’avvenuta ricopertura degli stessi con terreno
vegetale, che avrebbe potuto alterarne la proprietà di
rilasciare i metalli, non è fondata anche in relazione alla
previsione dello stesso D.M. 05.02.1998, poiché, come ha
correttamente rilevato il TAR, il concetto di rifiuto “tal
quale” è rilevante soltanto ai sensi dell’art. 8 del DM
05.02.1998, che disciplina le modalità di campionamento al
fine della caratterizzazione chimico fisica del rifiuto
stesso, mentre non compare nel successivo art. 9 ai fini
dell'effettuazione del test di cessione di cui all’Allegato
3 dello stesso DM 05.02.1998 (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.02.2014 n. 818 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Perequazione urbanistica e collocazione standard
urbanistico.
Lo standard urbanistico deve collocarsi spazialmente e
funzionalmente in prossimità dell’area di intervento
edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente
commoda e incommoda della modificazione sul territorio.
L’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione
urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte
costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n, 121, che le “previsioni, relative al trasferimento
ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla
materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello
Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline
regionali emanate prima della fissazione di un quadro
organico statale - che non si limiti all’aspetto della mera
documentazione della trascrizione dei diritti edificatori,
di cui all’art. 5 comma 3 del D.L. 13.05.2011, n. 70)
dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle
diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al
fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni
operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una
lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei
livelli qualitativi omogenei di convivenza civile.
La doglianza è fondata e va accolta.
Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli standard
urbanistici abbia nuovamente assunto di recente un rilievo
centrale nell’ambito degli strumenti di governo del
territorio. In questo senso, sono riscontrabili non solo
interventi normativi (peraltro organizzati secondo
prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema della
loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un lato -come
nel caso della legge 14.01. 2013, n. 10 “Norme per lo
sviluppo degli spazi verdi urbani” -a marcarne la
rilevanza ai fini della qualità di vita urbana e,
dall’altro– come con l’introduzione dell’art. 2-bis “Deroghe
in materia di limiti di distanza tra fabbricati” nel
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 “Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia”– a
renderne al contrario più flessibile e meno stringente il
contenuto), ma anche prese di posizione di questo Consiglio,
che non si è sottratto al dovere di esprimere il proprio
avviso su un tema così rilevante nella costruzione del
tessuto urbanistico.
In particolare, questo Giudice ha già delineato una propria
linea interpretativa in merito al collegamento tra
interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha
così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la
sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile,
dove la fruibilità era collegata non a valutazioni
normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale
destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come
condizione necessaria per la migliore fruizione del
parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono
comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per
poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti
e/o pesanti da collocare su tali mezzi” (Consiglio di
Stato, sez. V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che
hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione
degli standard, sottolineando come “la monetizzazione
degli standard urbanistici non può essere considerata alla
stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale
e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico
e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un
lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di
separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per
il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità
di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti
dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 04.02.2013
n. 644).
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del solo
dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra
il dato funzionale, ossia la destinazione concreta
dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli
standard con la messa a disposizione di aree non
utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del
TAR, utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per
forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne
un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma
di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art.
41-sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo
dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito”
(Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.13 n. 2916).
Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla
giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla
funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come
indicatori minimi della qualità edificatoria (e così
riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di
rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di
aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali
destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei
fruitori dell’area interessata. Il che comporta, come già
notato dalle decisioni che precedono, come il criterio
essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità
dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione
dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione
stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in
condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del
quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina
urbanistica.
La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la
cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra
intervento edilizio e localizzazione dello standard,
correlazione che connota il tema della qualità edilizia,
assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui
operino strumenti urbanistici informati al principio della
perequazione. Infatti, la soluzione perequativa, che tende
ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione
a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in
favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità
collettive, sia per conseguire un’effettiva equità
distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie
di strumenti operativi che, letti senza un congruo
ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono,
favoriscono astrazioni concettuali pericolose. L’utilizzo di
formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di
atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti
volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che
lo scopo della disciplina urbanistica non è la
massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la
fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur
sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione
che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla
perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la
Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del
26.03.2010 n, 121, che le “previsioni, relative al
trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori,
incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza
esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la
presenza di discipline regionali emanate prima della
fissazione di un quadro organico statale - che non si limiti
all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei
diritti edificatori, di cui all’art. 5, comma 3, del D.L.
13.05.2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una
disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli
strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema
flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle
singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili
esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di
convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività
amministrativa, intesa come “prestazione”, al
parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m)
della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di
diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza
del giudice delle leggi, cfr. Corte Costituzionale,
27.06.2012 n. 164).
Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo
orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi
spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di
intervento edilizio, al fine di legare strettamente e
indissolubilmente commoda e incommoda della
modificazione sul territorio (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.02.2014 n. 616 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Solo gestore di telefonia mobile può impugnarne
il diniego di concessione edilizia per la realizzazione di
SRB.
Il diritto di natura patrimoniale al conseguimento dei
canoni di locazione, derivanti dal contratto sottoscritto
con la società di telefonia mobile, è condizionato al
perfezionamento dell’iter amministrativo avviato dalla
società, al fine di ottenere l’assenso alla realizzazione
dell’impianto.
Assenso che, peraltro, può essere richiesto,
e può essere ottenuto, solo da un operatore telefonico a ciò
legittimato, ai sensi del d.lgs. n. 259 del 2003, recante il
Codice delle Comunicazioni elettroniche.
4.- L’appello non è fondato.
Il sig. B., come correttamente ha osservato il TAR, non
risultava, infatti, il destinatario diretto dell’atto da lui
impugnato ma era titolare di un interesse solo indiretto
alla realizzazione dell’impianto per la telefonia mobile, in
una porzione dell’immobile (del quale era usufruttuario) che
aveva locato con contratto di diritto privato alla società
H3G.
Il suo diritto di natura patrimoniale al conseguimento dei
canoni di locazione, derivanti dal contratto sottoscritto
con la società H3G, era tuttavia condizionato al
perfezionamento dell’iter amministrativo avviato da H3G al
fine di ottenere l’assenso alla realizzazione dell’impianto.
Assenso che, peraltro, può essere richiesto e può essere
ottenuto (solo) da un operatore telefonico a ciò
legittimato, ai sensi del d.lgs. n. 259 del 2003, recante il
Codice delle Comunicazioni elettroniche.
4.1.- L’interesse del sig. B. (al rilascio
dell’autorizzazione richiesta dalla società H3G per poter
poi beneficiare del corrispettivo economico della
locazione), non era quindi tutelabile se non attraverso
l’attività dell’operatore telefonico H3G che aveva
presentato la richiesta respinta dal Comune e che poteva poi
far valere (eventualmente) le sue ragioni per ottenere la
rimozione dell’atto di diniego (se ritenuto illegittimo).
Mentre il sig. B. è estraneo al potere che l’amministrazione
ha esercitato nei confronti di H3G che era l’operatore
telefonico che doveva essere in possesso di tutti i
requisiti per ottenere l’assenso alla realizzazione
dell’impianto.
4.2.- In conseguenza il sig. B. non aveva un interesse
giuridicamente protetto e non poteva far valere
autonomamente le sue ragioni davanti al TAR nei confronti
dell’atto di diniego, opposto dal Comune alla società H3G,
anche se da tale atto potevano determinarsi (per lui)
conseguenze di natura economica (poi verificatesi a seguito
dell’avvenuta risoluzione del rapporto contrattuale nel
rispetto di una clausola espressa contenuta nel contratto
medesimo).
4.3.- Ciò trova conferma nella circostanza che H3G non ha
ritenuto di dover impugnare tale diniego ma ha fatto
acquiescenza alle determinazioni dell’Amministrazione, con
ciò rendendo impossibile la realizzazione dell’impianto nel
sito in questione e facendo quindi venir meno (anche) ogni
possibile interesse oppositivo del sig. B. alle suddette
determinazioni.
4.4.- Né il sig. B. si è tempestivamente attivato (anche in
via giudiziaria) per non consentire tale definitivo esito
della vicenda che lo ha riguardato.
5.- In conclusione l’appello deve essere respinto (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.02.2014 n. 567 -
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EDILIZIA PRIVATA: Beni Culturali. Legittimità vincolo indiretto ex art. 45 DLgs
42/2004 a tutela di compendio storico-monumentale.
Il vincolo indiretto, previsto dalla Parte seconda (Beni
culturali) del Codice, è funzionale ad evitare che sia messa
in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia
danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le
condizioni di ambiente e di decoro.
Non si tratta di un
vincolo che implica l’accertamento di un pregio culturale (e
tanto meno paesaggistico) intrinseco al territorio che
riguarda, ma che è servente alla protezione della cornice di
un distinto immobile, a sua volta dichiarato, quello sì per
le sue intrinseche caratteristiche, bene culturale.
Non vale
pertanto assumere che il vincolo in questione non si basa
sul previo accertamento di caratteristiche di pregio,
culturale o a ben vedere paesaggistico, della porzione di
territorio che questo stesso vincolo indiretto concerne.
... ritiene il Collegio che il provvedimento impugnato si
sottragga ai rilievi del Comune e degli odierni appellanti
incidentali.
Nel provvedimento impugnato, il Ministero odierno appellante
principale ha precisato che beni situati nei luoghi
sottoposti a vincolo indiretto “non sono vincolati
necessariamente per la loro storicità, ma piuttosto come
contesto urbano costituitosi e conservatosi in modo tale da
garantire le condizioni favorevoli esistenti di decoro, luce
e prospettiva ai beni monumentali vincolati circostanti”,
tenuto per giunta conto del fatto che il contesto preso in
considerazione era il frutto di “una stratificazione
successiva di episodi edilizi”; e che, conseguentemente,
non è decisiva l’epoca di realizzazione dei manufatti presi
in considerazione.
Ciò in particolare per quanto riguarda le contestazioni
relative al muro di cinta insistente sulla particella n. 93,
in piazza Gallarati Scotti, che i sig.ri Gorbani ed il
Comune di Truccazzano riconducono ad epoca recente.
Oltre ad essere congruente con la tipica funzione di tutela
dell’integrità di beni culturali propria del vincolo
indiretto di cui all’art. 45 del Codice dei beni culturali e
del paesaggio, come diffusamente precisato da questa VI
Sezione nella sentenza 03.07.2012, n. 3893, il citato
passaggio motivazionale è comunque idoneo a privare di
pregio le deduzioni degli appellanti incidentali, così come
le censure da questi e dal Comune di Truccazzano svolte nei
rispettivi ricorsi di primo grado, nondimeno accolte dal
primo giudice.
Preliminare è invero la considerazione che il vincolo
indiretto, previsto dalla Parte seconda (Beni culturali) del
Codice, è funzionale “ad evitare che sia messa in
pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia
danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le
condizioni di ambiente e di decoro”. Non si tratta di un
vincolo che implica l’accertamento di un pregio culturale (e
tanto meno paesaggistico) intrinseco al territorio che
riguarda, ma che è servente alla protezione della cornice di
un distinto immobile, a sua volta dichiarato, quello sì per
le sue intrinseche caratteristiche, bene culturale.
Non vale pertanto assumere, come qui invece viene fatto, che
il vincolo in questione non si basa sul previo accertamento
di caratteristiche di pregio, culturale o a ben vedere
paesaggistico, della porzione di territorio che questo
stesso vincolo indiretto concerne.
Cioè fermo, può comunque osservarsi che, in realtà, gli
asseriti travisamenti fattuali e carente istruttoria nella
ricostruzione dei luoghi non sussistono, perché il
provvedimento impugnato contiene un’analitica confutazione
delle contrarie deduzioni delle parti ricorrenti in primo
grado. E nemmeno sussiste una violazione dei parametri di
congruenza, proporzione e ragionevolezza, applicati al caso
particolare del vincolo culturale indiretto, anche in
rispetto alla pregressa pianificazione urbanistica
attuativa.
Nel provvedimento si precisa infatti che il rispetto delle
esigenze di tutela dei beni vincolati può condurre “ad
una rimodulazione delle volumetrie o ad una loro diversa
distribuzione”. Quindi si formulano analitiche
prescrizioni volte a disciplinare l’attività edilizia
programmata dai sig.ri Gorbani e dal Comune di Truccazzano
nell’ambito del piano di recupero interessante il compendio
immobiliare dei primi.
Le quali prescrizioni sono precedute dall’illustrazione
delle relative ragioni, consistenti nella necessità di
assicurare che i lavori di riconversione ad uso residenziale
rispettino gli “allineamenti sulle strade e limiti alle
altezze”, al fine di conservare le caratteristiche
costruttive “del tipo a corte”. Coerenti con tali
premesse si rivelano quindi le sopra dette prescrizioni,
nella parte in cui sono volte ad imporre il rispetto dei
“caratteri costruttivi già presenti”: ed in particolare,
fabbricati a due piani, con il primo a livello della strada,
assenza di sporti sulla strada, proporzioni tradizionali
delle gronde e caratteristiche esistenti dei rivestimenti
esterni e delle coperture. Non mancano specificazioni
proprio con riguardo alla possibilità di ricostruire
manufatti non recuperabili e di elevare a tre piani le
particelle non visibili dalla strada, il tutto come
rappresentato dai sig.ri Gorbani mediante la loro relazione
tecnica (massima tratta da
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Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
27.12.2013 n. 6241 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Impugnazione del permesso di costruire.
La possibilità d’impugnare una concessione edilizia o
permesso di costruire decorre, nei confronti dei terzi,
dalla piena consapevolezza del provvedimento autorizzativo,
la quale si perfeziona da quando è percepibile la lesività
dell'opera realizzata, ossia da quando venga conosciuto il
contenuto specifico del titolo abilitativo o del progetto
assentito ovvero da quando detta opera si trovi in fase
avanzata o di completamento e riveli, così, in modo certo e
inequivoco le sue caratteristiche essenziali e la sua
eventuale non conformità alla disciplina urbanistica.
Al riguardo, il Collegio non ignora che il dies a quo
per gravare una concessione edilizia o permesso di costruire
decorre, nei confronti dei terzi, dalla piena consapevolezza
del provvedimento autorizzativo, la quale si perfeziona da
quando è percepibile la lesività dell'opera realizzata,
ossia da quando venga conosciuto il contenuto specifico del
titolo abilitativo o del progetto assentito ovvero da quando
detta opera si trovi in fase avanzata o di completamento e
riveli, così, in modo certo e inequivoco le sue
caratteristiche essenziali e la sua eventuale non conformità
alla disciplina urbanistica (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
17.05.2002, n. 2668; sez. IV, 08.07.2002, n. 3805; sez. V,
23.09.2005, n. 5033; sez. IV, 15.09.2006, n. 5394; sez. IV,
31.10.2006, n. 6465; 12.02.2007, n. 599; sez. V, 24.08.2007,
n. 4485; sez. IV, 10.12.2007, n. 6342; sez. V, 04.03.2008,
n. 885; sez. VI, 09.02.2009, n. 717; sez. IV, 29.05.2009, n.
3358; 18.06.2009, n. 4015; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
03.09.2008, n. 10036; sez. III, 18.09.2008, n. 10354;
Salerno, sez. II, 03.10.2008, n. 2823; TAR Sardegna,
Cagliari, sez. II, 06.04.2009, n. 432; TAR Piemonte, Torino,
sez. I, 26.03.2009, n. 795; 05.06.2009, n. 1601; TAR
Sicilia, Catania, sez. I, 08.02.2008, n. 225; 23.01.2009, n.
168; TAR Toscana, Firenze, sez. II, 30.12.2008, n. 4451; TAR
Trentino Alto Adige, Trento, 16.12.2009, n. 305; TAR
Liguria, Genova, sez. I, 26.03.2010, n. 1235) (massima tratta da
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TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.12.2013 n. 5884 -
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URBANISTICA:
Differenza tra opere d’interesse generale e
opere pubbliche.
Come chiarito da consolidata giurisprudenza, le opere
d’interesse generale integrano una categoria logico
giuridica nettamente differenziata rispetto a quella delle
opere pubbliche, comprendendo quegli impianti e attrezzature
che, sebbene non destinati a scopi di stretta cura della
pubblica amministrazione, sono idonee a soddisfare bisogni
della collettività, ancorché vengano realizzati e gestiti da
soggetti privati; ciò con la conseguenza che devono
ritenersi di interesse generale le opere realizzabili nelle
zone F dei piani regolatori, nelle quali vanno posizionate
non soltanto le strutture pubbliche in senso stretto (quali
scuole, chiese, ospedali) ma anche quelle private, purché
contrassegnate da una generale fruibilità pubblica.
3.3. Questa Sezione ha, invero, già avuto modo di esaminare
la questione in analogo giudizio, definito con sentenza n.
2135 del 13.02.2004, addivenendo a conclusioni che il
Collegio ritiene di condividere e ribadire.
3.4. Dalla documentazione versata in atti emerge, in
particolare, che per la zona in questione (F1) lo strumento
urbanistico ha previsto l’ammissibilità di interventi
finalizzati alla realizzazione di interventi che non possono
essere qualificati quali interventi tesi alla realizzazione
di opere pubbliche o di interesse pubblico bensì in termini
di opere di interesse generale.
3.5. Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, le
opere di interesse generale integrano una categoria logico
giuridica nettamente differenziata rispetto a quella delle
«opere pubbliche», comprendendo quegli impianti e
attrezzature che, sebbene non destinati a scopi di stretta
cura della pubblica amministrazione, sono idonee a
soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano
realizzati e gestiti da soggetti privati; ciò con la
conseguenza che devono ritenersi di interesse generale le
opere realizzabili nelle zone F dei piani regolatori, nelle
quali vanno posizionate non soltanto le strutture pubbliche
in senso stretto (quali scuole, chiese, ospedali) ma anche
quelle private, purché contrassegnate da una generale
fruibilità pubblica (cfr., ex multis, Cons. Stato
Sez. IV, 22.06.2011, n. 3797).
3.6. Nella fattispecie oggetto di giudizio, dall’esame delle
destinazioni ammesse, tutte d’interesse generale, emerge,
dunque, la compatibilità con un’iniziativa di carattere sia
pubblico sia promiscuo, trattandosi di attività non
riservate, in via esclusiva, alla mano pubblica; la
locuzione contenuta nella disciplina urbanistica comunale,
infatti, (attrezzature “a carattere comunale e
intercomunale”), associata alla correlata elencazione
esemplificativa (“attrezzature sociosanitarie, centri
meccanografici, nuovi impianti tecnologici, ecc.”),
lungi dall'attribuire soltanto all'intervento pubblico la
realizzazione delle opere, evidenzia, piuttosto, il profilo
funzionale ed oggettivo dell'idoneità a soddisfare i bisogni
della collettività.
3.7. Da ciò consegue la non sussumibilità del vincolo
previsto nello schema ablatorio, ma, piuttosto, nella
tipologia dei vincoli urbanistici di tipo "conformativo",
che non pongono particolari limitazioni alle facoltà del
proprietario, sicché la relativa formazione di zona non può
che avere validità a tempo indeterminato (ibidem).
3.8. Né è possibile attribuire rilievo ai giustificativi
ulteriori addotti dalla difesa dell’amministrazione
comunale, la quale ha rilevato la non conformità del
progetto ai parametri di zona e l’assenza di un piano
urbanistico attuativo; tali giustificativi, infatti, si
sostanziano in una inammissibile motivazione postuma (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza
19.12.2013 n. 5876 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
I provvedimenti emanati da un
commissario ad acta, nominato in sede di controllo
sostitutivo dall’amministrazione provinciale, restano
imputabili direttamente ed esclusivamente
all’amministrazione sostituita; il commissario ad acta
interviene, infatti, a colmare una lacuna dell'azione
comunale non riconducibile ad alcun altro soggetto, sicché è
indubbio che la posizione dallo stesso rivestita sia proprio
quella di un organo comunale, sia pure di natura
straordinaria, chiamato ad esercitare, in via sostitutiva,
le specifiche competenze che la legge attribuisce
direttamente all'ente comunale.
Sul punto, il
Collegio, conformemente all’orientamento giurisprudenziale
consolidato, reputa sufficiente evidenziare che i
provvedimenti emanati da un commissario ad acta, nominato in
sede di controllo sostitutivo dall’amministrazione
provinciale, restano imputabili direttamente ed
esclusivamente all’amministrazione sostituita; il
commissario ad acta interviene, infatti, a colmare una
lacuna dell'azione comunale non riconducibile ad alcun altro
soggetto, sicché è indubbio che la posizione dallo stesso
rivestita sia proprio quella di un organo comunale, sia pure
di natura straordinaria, chiamato ad esercitare, in via
sostitutiva, le specifiche competenze che la legge
attribuisce direttamente all'ente comunale (in termini,
TAR Campania, Napoli, sez. II, 11.07.2007, n. 6671;
cfr. anche: Cons. St., sez. IV, 27.04.2004, n. 2520;
Sez. VI, 16.10.2002, n. 5647; Sez. IV, 22.06.2000,
n. 3536; Sez. IV, 08.06.2000, n. 3280) (massima tratta da
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TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza
19.12.2013 n. 5876 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire e misure di salvaguardia.
La misura di salvaguardia ex art. 12, c. 3, d.P.R. 380/2001,
è strumento diretto ad evitare che, nelle more del
procedimento di approvazione degli strumenti di
pianificazione, le richieste dei privati, fondate su una
pianificazione ritenuta non più attuale, finiscano per
alterare profondamente la situazione di fatto e, di
conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio gli
obiettivi generali cui invece è finalizzata la
programmazione urbanistica generale.
L'attività edificatoria
rimane regolata dallo strumento urbanistico vigente, salvo
il limite che possono essere rilasciate solo concessioni
edilizie che non contrastino con le previsioni del nuovo
piano, in attesa di approvazione.
Nel caso in cui, nel corso
del procedimento inerente una domanda di permesso di
costruire, sopravvenga l’adozione di una strumento
urbanistico generale, le condizioni perché tale domanda
possa trovare favorevole definizione sono quindi due: che
l’intervento edilizio sia conforme al piano vigente ed
inoltre che non sia in contrasto con il piano adottato.
Ai sensi dell'articolo 12, comma 3, prima parte, del d.P.R.
n. 380/2001, “in caso di contrasto dell'intervento
oggetto della domanda di permesso di costruire con le
previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni
determinazione in ordine alla domanda”.
Come chiarito dalla giurisprudenza formatasi sul punto “la
misura di salvaguardia di cui all'art. 12, comma 3, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è strumento diretto ad evitare
che, nelle more del procedimento di approvazione degli
strumenti di pianificazione, le richieste dei privati,
fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale,
finiscano per alterare profondamente la situazione di fatto
e, di conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio
gli obiettivi generali cui invece è finalizzata la
programmazione urbanistica generale” (Consiglio di
Stato, sez. IV, 09.10.2012, n. 5257); “l'attività
edificatoria rimane regolata dallo strumento urbanistico
vigente, salvo il limite che possono essere rilasciate solo
concessioni edilizie che non contrastino con le previsioni
del nuovo piano, in attesa di approvazione” (TAR
Sicilia, Catania sez. I, 16.01.2012, n. 102).
Nel caso in cui, nel corso del procedimento inerente una
domanda di permesso di costruire, sopravvenga l’adozione di
una strumento urbanistico generale, le condizioni perché
tale domanda possa trovare favorevole definizione sono
quindi due: che l’intervento edilizio sia conforme al piano
vigente ed inoltre che non sia in contrasto con il piano
adottato.
E’ pertanto evidente che la mancanza di una soltanto delle
due condizioni rende superflua qualsiasi indagine
sull’altra.
L'applicazione della misura di salvaguardia, in caso di
contrarietà della richiesta di intervento edilizio rispetto
alle sopravvenute disposizioni del piano adottato, è
obbligatoria, derivando direttamente dalla legge, e comporta
l’inutilità, nelle more della vigenza della misura stessa,
della verifica della conformità del medesimo intervento
rispetto alla precedente normativa, non più attuale (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza
19.12.2013 n. 5871 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Legittimità diniego acquisto di area di
proprietà demaniale, confinante con proprietà dei
richiedenti.
E’ legittimo il diniego all’acquisto di area di proprietà
demaniale, confinante con proprietà dei richiedenti.
Questo
Tribunale ha già affermato, che l’art. 5-bis d.l. 24.06.2003 n. 143, convertito dalla l.
01.08.2003, n. 212
all’ultimo comma: “Il presente articolo non si applica,
comunque, alle aree sottoposte a tutela ai sensi del testo
unico delle disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e successive modificazioni”, esclude
inequivocabilmente dal proprio ambito di applicazione le
aree sottoposte a vincolo paesaggistico, negando la
possibilità del loro acquisto.
Nel merito il ricorso è infondato.
L’art. 5-bis d.l. 24.06.2003 n. 143, convertito dalla l.
01.08.2003, n. 212, stabilisce che: “1. Le porzioni di
aree appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato,
escluso il demanio marittimo, che alla data di entrata in
vigore del presente decreto risultino interessate dallo
sconfinamento di opere eseguite entro il 31.12.2002 su fondi
attigui di proprietà altrui, in forza di licenze o
concessioni edilizie o altri titoli legittimanti tali opere
e comunque sia quelle divenute aree di pertinenza, sia
quelle interne agli strumenti urbanistici vigenti, sono
alienate a cura delle filiale dell’Agenzia del demanio
territorialmente competente mediante vendita diretta in
favore del soggetto legittimato che ne faccia richiesta.
L’estensione dell’area di cui si chiede l’alienazione oltre
a quella oggetto di sconfinamento per l’esecuzione dei
manufatti assentiti potrà comprendere, alle medesime
condizioni, una superficie di pertinenza entro e non oltre
tre metri dai confini dell’opera. Il presente articolo non
si applica, comunque, alle aree sottoposte a tutela ai sensi
del testo unico delle disposizioni legislative in materia di
beni culturali e ambientali di cui al decreto legislativo
29.10.1999, n. 490, e successive modificazioni”.
Come questo Tribunale ha già affermato, la norma, all’ultimo
comma, esclude inequivocabilmente dal proprio ambito di
applicazione le aree sottoposte a vincolo paesaggistico,
negando la possibilità del loro acquisto (cfr. Tar
Lombardia, Milano, sez. II, 17.09.2009, n. 4680) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.12.2013 n. 2865 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Legittimità ordinanza con la quale si intima ad ANAS
SpA di bonificare l’area di proprietà mediante rimozione di
tutto il materiale esistente
L’esplicita previsione della pulizia della sede stradale e
delle pertinenze caratterizza questa norma da un rapporto di
specialità rispetto alle disposizioni del d.lgs. 152/2006
“poiché, più che il dato relativo alla materia dei
"rifiuti", che costituiscono per così dire, l'oggetto
dell'attività cui il destinatario dell'ordine è tenuto,
sembra significativo l'ulteriore dato del contesto spaziale
rispetto a cui l'attività in parola va svolta: la
circostanza che i rifiuti interessino beni quali le strade,
difatti, per l'evidente peculiarità che le medesime
presentano sul piano strutturale, funzionale e della
sicurezza pubblica, giustifica -anche sul piano
costituzionale- la configurabilità di speciali doveri di
vigilanza, controllo e conservazione in capo al proprietario
o concessionario.
Nel merito il ricorso è infondato.
Questo Tribunale ha più volte precisato che l’art. 14,
d.lgs. 285/1992 –per il quale “gli enti proprietari delle
strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità
della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione,
gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e
arredo....Per le strade in concessione i poteri e i compiti
dell'ente proprietario della strada previsti dal presente
codice sono esercitati dal concessionario”– attribuisce
all'ente proprietario della strada (o al concessionario, nel
caso di strada in concessione, come quella in riferimento)
la competenza a provvedere “alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo”.
In sostanza, la previsione in esame centralizza
sostanzialmente nel gestore del servizio stradale tutte le
competenze relative alla corretta manutenzione, pulizia e
gestione del tratto stradale (Tar Lecce, sez. I, 18.11.2009,
2756).
È stato altresì ritenuto che l’esplicita previsione della
pulizia della sede stradale e delle pertinenze caratterizza
questa norma da un rapporto di specialità rispetto alle
disposizioni del d.lgs. 152/2006 “poiché, più che il dato
relativo alla materia dei "rifiuti", che costituiscono per
così dire, l'oggetto dell'attività cui il destinatario
dell'ordine è tenuto, sembra significativo l'ulteriore dato
del contesto spaziale rispetto a cui l'attività in parola va
svolta: la circostanza che i rifiuti interessino beni quali
le strade, difatti, per l'evidente peculiarità che le
medesime presentano sul piano strutturale, funzionale e
della sicurezza pubblica, giustifica -anche sul piano
costituzionale- la configurabilità di speciali doveri di
vigilanza, controllo e conservazione in capo al proprietario
o concessionario” (Tara Lecce, sez. I, ord. 24.10.2007
n. 1027; 23.01.2008 n. 56).
Del resto, la conclusione sopra richiamata non può essere
contestata sulla base di generici riferimenti alla natura
cronologicamente successiva delle norme del d.lgs. 22/1997 o
del d.lgs. 152/2006, in quanto le previsioni successive non
recano certamente l’ulteriore elemento specializzante,
costituito dall'attinenza dell’obbligo di rimozione dei
rifiuti alla sede stradale ed alle pertinenze; del resto, la
strutturazione normativa del settore è stata ben compresa
dalla Corte di cassazione (Cass. civ. sez. II, 24.06.2008,
n. 17178) che ha rilevato come la norma cardine in materia
sia l'art. 14 del d.lgs. 285/1992 (proprio in virtù della
natura speciale sopra individuata) e non le previsioni (art.
14 d.lgs. 22/1997; art. 192 d.lgs. 152/2006) successive in
materia di rimozione dei rifiuti che sono destinate a
trovare applicazione solo per quanto (ad es., individuazione
tipologie di rifiuti; modalità di smaltimento; ecc.) non
espressamente regolamentato dalla previsione del Codice
della strada (così Tar Lecce, 2756/2009 cit.)
Inoltre, il riferimento “allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione” presente nel
primo comma dell’art. 14 del d.lgs. 285/1992, individua
semplicemente la ratio di una serie di attribuzioni
di competenze che chiaramente comprendono anche la pulizia “delle
strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle
attrezzature, impianti e servizi”; in altre parole, il
chiaro riferimento alle pertinenze, agli arredi, alle
attrezzature, impianti e servizi annessi alla sede stradale
evidenzia un campo applicativo della norma che è già tanto
ampio da ricomprendere anche i rifiuti non direttamente
abbandonati sulla sede stradale e non è certamente
ammissibile un’interpretazione restrittiva che, sulla base
dell'incerto riferimento alla ratio della previsione,
approdi ad una lettura della norma che è certamente in
contraddizione con la volontà del legislatore.
In definitiva, trattandosi indubbiamente di rifiuti
abbandonati sulle immediate pertinenze di strada in
concessione all’Anas, visto che sono situati all’interno
della cunetta per lo scolo delle acque piovane adiacente
alla piazzola di sosta, la legittimità del provvedimento
impugnato deve essere valutata con riferimento al parametro
costituito dall’art. 14 d.lgs. 285/1992, n. 285 e non
dall’art. 192 d.lgs. 152/2006, n. 152 (massima tratta da
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TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 11.12.2013 n. 2416 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Pianificazione comunale come modello di sviluppo
dei luoghi in considerazione della loro storia e tradizione,
attraverso la partecipazione dei cittadini.
L’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di
pianificazione, non possono essere intesi, sul piano
giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di proprietà, così
offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul
proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo
ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia
delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto,
bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione
della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia di
valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela
della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia
delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul
territorio (tra le quali certamente rientra l’aspirazione,
anche in proprietà, alla casa di abitazione), sia, in
definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere
ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia,
tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro”
sulla propria stessa essenza, svolta, per autorappresentazione ed autodeterminazione, dalla comunità
medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi
e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini
al procedimento pianificatorio.
Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione
urbanistica; del significato stesso del concetto di
“urbanistica” in senso giuridico e, di conseguenza, del
contenuto della potestà pianificatoria, è stato affrontato
da questo Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10.05.2012 n. 2710, con considerazioni che devono essere
riconfermate ai fini della presente decisione.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica
del territorio –la cui attribuzione e conformazione
normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art.
117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente
attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti
di pianificazione, al Comune– non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio
comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti
edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica
che non è limitato solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per
mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico–sociali della comunità locale
(non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore
costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione
per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito –al fine di individuare le materie rientranti nella potestà
legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine
“urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di
“governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che
oggi devono ricomprendersi nel citato termine di
“urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai
fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative
controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998
n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne
tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1),
non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato,
ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel
territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità
edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione
alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle
concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e
paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e
quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze
economico – sociali della comunità radicata sul territorio
(tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in
proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del
modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi
stessi, in considerazione della loro storia, tradizione,
ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria
stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed
autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le
decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora,
attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è
funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di
ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato
alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica
amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione
di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi
dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma
secondo, Cost..
A quanto sin qui esposto, occorre aggiungere che l’onere di
motivazione gravante sull’amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui
le scelte effettuate incidano su zone territorialmente
circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”
(Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478), così come,
nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello
strumento urbanistico, non occorre controdedurre
singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e
opposizione.
Occorre, infatti, ribadire che le scelte urbanistiche (in
particolare, in sede di variante) richiedono puntuale
motivazione esclusivamente ove incidano su zone
territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative
(specie edificatorie) dei privati proprietari, in
conseguenza non soltanto di statuizioni di pronunce
giurisdizionali passate in giudicato, ma anche di accordi
con l'ente locale ed in particolare di convenzioni di
lottizzazione divenute operative. A fronte di aspettative di
mero fatto, le scelte di natura tanto ambientale quanto
urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse
generale, infatti, sono di regola sufficientemente motivate
con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che
hanno sorretto la previsione, senza necessità di una
motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV. n.
5478/2008 cit.).
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione
più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area
determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche,
ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una
motivazione specifica una variante che interessi aree
determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di
legittime aspettative dei privati), non altrettanto può
dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto
della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del
territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la
destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno
di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo
che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo
criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle
scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento
urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente
impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo
appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un
nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva
valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e
delle esigenze medio tempore sopravvenute (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.07.2013 n. 3606 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Limitazione alla proprietà privata e
pianificazione urbanistica.
La proprietà privata è certamente tutelata dalla
Costituzione e dagli accordi internazionali, ma in ogni caso
l'art. 42, II co. prevede comunque che possano essere
imposti “… limiti allo scopo di assicurarne la funzione
sociale”.
Non può perciò ravvisarsi alcuna violazione dei principi
costituzionali quando, in sede di pianificazione urbanistica
generale l'amministrazione, ritenendo persistenti le
esigenze e le ragioni d’interesse pubblico che sorreggono la
reiterazione dei vincoli, imponga dei limiti al diritto di
proprietà in vista della realizzazione di superiori
interessi pubblici.
Con il terzo motivo si assume la violazione delle norme
costituzionali relative alla proprietà privata,
all'imparzialità e al buon andamento dell'attività
amministrativa che sarebbero conseguenti alla reitera del
vincolo di inedificabilità, che di fatto decorrerebbe dal
lontano 1980 e quindi a tempo indeterminato.
La mancata ri-pianificazione dell'area a seguito della
scadenza del vincolo espropriativo si sarebbe tradotta in
una compressione del contenuto essenziale del diritto di
proprietà, ed avrebbe inciso sul godimento del bene in modo
tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua naturale
destinazione edificatoria, e ne avrebbe diminuito il suo
valore economico.
L’assunto va respinto.
In primo luogo si deve rilevare che esattamente la difesa
del Comune ha sottolineato come, dalla data decadenza del
vincolo nel 1985 fino alla presente azione giurisdizionale
iniziata con l’istanza del 20.07.2011, gli appellanti non
abbiamo esperito alcuna attività relativamente ai terreni in
questione.
La proprietà privata è certamente tutelata dalla
Costituzione e dagli accordi internazionali, ma in ogni caso
l'art. 42, II co. prevede comunque che possano essere
imposti “… limiti allo scopo di assicurarne la funzione
sociale“.
Non può perciò ravvisarsi alcuna violazione dei principi
costituzionali quando, in sede di pianificazione urbanistica
generale l'amministrazione, ritenendo persistenti le
esigenze e le ragioni di interesse pubblico che sorreggono
la reiterazione dei vincoli, imponga dei limiti al diritto
di proprietà in vista della realizzazione di superiori
interessi pubblici.
Nel caso in esame deve comunque escludersi ogni contenuto
vessatorio o comunque ingiusto nella reiterazione di
vincoli, preordinati all'espropriazione e che comportino l'inedificabilità
dei terreni degli appellanti, alla luce della complessiva
valutazione della situazione e degli interessi coinvolti.
L’allargamento dell’asse viario previsto nel P.S. e nella
bozza di R.U. appare ragionevolmente motivato non tanto con
il riferimento allo generico sviluppo delle aree
circostanti, quanto soprattutto con riguardo alla finalità
di migliorare la viabilità, e assicurare ai cittadini un
efficiente collegamento il Nuovo Ospedale Unico delle
Apuane, vale a dire con un servizio pubblico assolutamente
essenziale.
Sotto altro profilo poi, ai sensi dell'art. 39, comma 1, t.u.
sugli espropri di cui al d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il
principio della spettanza di un indennizzo al proprietario,
nel caso di reiterazione o di tempestiva proroga del vincolo
preordinato all'esproprio, non rileva ai fini della verifica
della legittimità dei provvedimenti, che hanno disposto
l'approvazione dello strumento urbanistico, atteso che i
profili attinenti alla spettanza o meno dell'indennizzo e al
suo pagamento non attengono alla legittimità del
procedimento, ma riguardano questioni di carattere
patrimoniale, che presuppongono la conclusione del
procedimento di pianificazione e sono devolute alla
cognizione della giurisdizione ordinaria (cfr. Consiglio
Stato sez. IV 06.05.2010 n. 2627) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.07.2013 n. 3603 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tettoia e porticato agganciate al muro del
fabbricato esistente.
Tettoia e porticato soltanto agganciate
al muro del fabbricato esistente, per la loro stabilità ed
ampiezza e per il fatto che comportano un aumento di
volumetria e una nuova superficie, necessitano del permesso
di costruire.
Con un quarto motivo si assume l’erroneità della sentenza
nella parte in cui ha ritenuto che la tettoia e il
porticato, per la loro stabilità ed ampiezza e per il fatto
che comportano un aumento di volumetria e una nuova
superficie, necessitano del permesso di costruire.
Sul punto gli appellanti deducono che tali opere, essendo
«soltanto agganciate al muro del fabbricato esistente»,
appoggiate al suolo mediante profilati in ferro ed aperte su
tre lati, possono essere realizzate con una mera denuncia di
inizio attività, con conseguente illegittimità dell’ordine
di demolizione.
Il motivo non è fondato.
L’art. 10 del d.p.r. n. 380 del 2001 prevede che sono
subordinati al rilascio del permesso di costruire, tra
l’altro, gli interventi di ristrutturazione edilizia che
comportino modifiche della sagoma e dei prospetti.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già avuto modo
di affermare che le opere, sopra indicate, essendo, come
nella specie, agganciate al muro perimetrale danno luogo
alla predetta modificazione, con la conseguente necessità
del permesso di costruire (Cons. Stato, IV, 29.04.2011, n.
2549)
(massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.05.2013 n. 3010 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza di questo Consiglio,
cui la Sezione aderisce, è costante nel ritenere che
«l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni
di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere
legittimato, né l’interessato può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi».
In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi
vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento
contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che
confida nell’omissione dei controlli o comunque nella
persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del
potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non
agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità
dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di
un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative
pregresse».
---------------
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
---------------
L’art. 32 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 prevede, al comma 2,
che l’ordine di demolizione deve indicare l’area che viene
acquisita. Il terzo comma dello stesso art. 32 dispone che
«se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione
e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di
novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime,
nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del Comune».
La chiara distinzione tra atto di demolizione e atto di
acquisizione implica che l’omessa indicazione nell’ordinanza
di demolizione dell’area non costituisce motivo di
invalidità dell’atto, in quanto la posizione del
destinatario del provvedimento –sotto tale profilo- è
tutelata dall’esistenza di un successivo e autonomo
provvedimento acquisitivo.
Ne consegue che, una volta definita la natura e la
consistenza delle opere abusivamente realizzate mediante
l’accertamento che si stata svolgendo in questa sede,
l’amministrazione potrà adottare i provvedimenti
consequenziali che terranno conto delle modalità, previste
dalla legge, di acquisizione delle aree.
Con un primo
motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte
in cui non ha rilevato il difetto di motivazione del
provvedimento impugnato, che non avrebbe indicato le ragioni
di interesse pubblico alla demolizione in presenza, in
particolare, di un «ampliamento al fabbricato esistente»
effettuato da «tantissimo tempo».
Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza di questo Consiglio, cui la Sezione
aderisce, è costante nel ritenere che «l’ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere
legittimato, né l’interessato può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi» (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n.
2781).
In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi
vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento
contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che
confida nell’omissione dei controlli o comunque nella
persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del
potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non
agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità
dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di
un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative
pregresse» (Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592).
Con un secondo motivo si assume l’erroneità della
sentenza per omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento.
Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui non vi è
ragione di discostarsi, ritiene che l’esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di
attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto (tra gli altri, Cons. Stato, IV,
18.09.2012; 10.08.2011, n. 4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI,
24.09.2010, n. 7129).
Con un terzo motivo si assume l’erroneità della
sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittima
l’ordinanza di demolizione per non avere indicato l’area di
sedime. Inoltre, l’iter finalizzato all’acquisizione
gratuita non sarebbe applicabile alle opere quali il
porticato e la tettoia, nonché al fabbricato «regolarmente
assentito dall’ente e legittimamente realizzato».
L’art. 32 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia) prevede, al comma 2, che l’ordine di demolizione
deve indicare l’area che viene acquisita. Il terzo comma
dello stesso art. 32 dispone che «se il responsabile
dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino
dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni
dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche,
alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune».
La chiara distinzione tra atto di demolizione e atto di
acquisizione implica che l’omessa indicazione nell’ordinanza
di demolizione dell’area non costituisce motivo di
invalidità dell’atto, in quanto la posizione del
destinatario del provvedimento –sotto tale profilo- è
tutelata dall’esistenza di un successivo e autonomo
provvedimento acquisitivo (Cons. Stato, VI, 13.02.2013, n.
894; Cons. Stato, IV, 26.09.2008, n. 4659).
Ne consegue che, una volta definita la natura e la
consistenza delle opere abusivamente realizzate mediante
l’accertamento che si stata svolgendo in questa sede,
l’amministrazione potrà adottare i provvedimenti
consequenziali che terranno conto delle modalità, previste
dalla legge, di acquisizione delle aree
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 31.05.2013 n. 3010 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Illegittimità improcedibilità della d.i.a. per
l’adeguamento tecnologico di una stazione radio base.
E’ illegittimità la comunicazione del
Comune d’improcedibilità della d.i.a. per l’adeguamento
tecnologico di una stazione radio base.
Il provvedimento del Comune si pone, infatti, in palese
contrasto non solo con la disposizione dell’art. 87-bis del
Codice delle comunicazioni elettroniche, la cui ratio
acceleratoria è indiscutibile alla luce del favor
legislativo per l’ammodernamento degli impianti di banda
larga mobile mediante tecnologia UMTS, ma anche con lo
stesso art. 8, sesto comma, della l. 36/2001, che prevede il
potere del Comune di “adottare un regolamento per assicurare
il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai
campi elettromagnetici”, non già di vietare i meri
ammodernamenti della rete esistente.
16. L’appello, ciò premesso, è fondato, nel merito, e va
accolto.
17. Ha errato il giudice di prime cure, anzitutto, nel
ritenere inammissibile il ricorso di H3G contro la nota prot.
n. 11977/Urb del 9.2.2011 per l’omessa impugnazione della
precedente nota prot. n. 97118/Urb del 06.12.2010.
Il provvedimento in questione, con il quale il Comune ha
intimato ad H3G di non effettuare l’intervento richiesto,
non può infatti considerarsi lesivo ed autonomamente
impugnabile, dato che esso, per sua espressa
(auto)qualificazione, non era definitivo.
18. È lo stesso Comune, infatti, a far presente expressis
verbis in tale provvedimento che “in ottemperanza ai
principi di proporzionalità, di conservazione degli atti
giuridici, di non aggravamento ed economia generale del
procedimento, nonché in applicazione analogica dell’articolo
10-bis della L. n. 241/1990, in quanto compatibile, tenuto
conto della denuncia di inizio attività in oggetto, qualora
entro 10 giorni dal ricevimento della presente, siano
presentate per iscritto osservazioni pertinenti,
eventualmente corredate dalla documentazione che il
denunciante ritenesse utile, in base alle quali possano
essere superati i motivi di diniego sopraesposti, il
presente ordine sarà revocato e l’intervento potrà essere
effettuato”, precisando che, diversamente, l’ordine di
non eseguire l’intervento “deve considerarsi sin d’ora
provvedimento definitivo e la denuncia d’inizio attività,
giuridicamente inefficace, sarà archiviata”.
19. Appare quanto meno dubbia l’affermata definitività di un
provvedimento che ammetta l’eventualità di essere revocato
in presenza di osservazioni da parte dell’interessato.
Il richiamo all’istituto del preavviso di rigetto, reso
palese dalla dichiarata applicazione “analogica”
dell’art. 10-bis della l. 241/1990 nel corso del
provvedimento, ben sta a comprovare, inoltre, la volontà
dell’amministrazione di esprimersi solo in vista di una
valutazione successiva e finale, rispetto alla quale il
provvedimento in oggetto assume la valenza, indiscutibile,
di determinazione interlocutoria.
20. Se il provvedimento fosse stato definitivo, infatti, non
avrebbe avuto alcun senso invitare la ricorrente a
presentare osservazioni pertinenti, salvo non voler
ritenere, per absurdum, che la p.a., emanando tale
provvedimento, abbia inteso comunque assegnare un termine
all’istante per sollecitare l’autotutela contro un suo
stesso atto.
E ciò, peraltro, senza dire che di fronte ad un
provvedimento tanto ambiguo la società ben avrebbe potuto
versare in un errore scusabile
21. Prova decisiva della non definitività del provvedimento
in questione, comunque, è proprio il rilievo che, con
successiva nota prot. n. 11977/Urb del 09.02.2011,
tempestivamente impugnata, il Comune ha dichiarato la
definitiva improcedibilità della D.I.A. in oggetto, con ciò
significando, chiaramente, che il proprio precedente
provvedimento era provvisorio e non determinava alcun
immediato arresto procedimentale, diversamente da quanto
ritenuto dal giudice di prime cure.
22. La sentenza merita dunque riforma per aver male
interpretato la sequenza dei provvedimenti emessi dal Comune
sino a quello definitivo e immediatamente lesivo, appena
richiamato, oggetto di rituale impugnazione da parte di H3G
con un ricorso che appare, quindi, pienamente ammissibile.
23. Esaminando il contenuto del provvedimento impugnato in
prime cure, quindi, deve rilevarsi che esso è affetto da
violazione di legge e da eccesso di potere.
24. La nota prot. n. 11977/Urb del 09.02.2011 giustifica il
diniego dell’intervento sulla base del rilievo che il
regolamento comunale per l’installazione di infrastrutture
per impianti di telefonia mobile non ricomprende l’area in
cui l’impianto sorge, sita in Guidonia Montecelio, via
dell’Unione, n. 58, tra quelle “più idonee destinate ai
nuovi impianti di telefonia mobile”.
25. Ma l’intervento richiesto da H3G non concerne la
costruzione di un nuovo impianto, bensì l’adeguamento
tecnologico di una stazione radio base preesistente
all’adozione del nuovo regolamento comunale e, in
particolare, l’installazione di apparati con tecnologia UMTS
e, più precisamente, l’inserimento del c.d. terzo layer,
ossia una mera scheda funzionale all’invio e alla ricezione
di dati attraverso la rete mobile.
26. Il provvedimento del Comune si pone, così, in palese
contrasto non solo con la disposizione dell’art. 87-bis del
Codice delle comunicazioni elettroniche, la cui ratio
acceleratoria è indiscutibile alla luce del favor
legislativo per l’ammodernamento degli impianti di banda
larga mobile mediante tecnologia UMTS, ma anche con lo
stesso art. 8, sesto comma, della l. 36/2001, che prevede il
potere del Comune di “adottare un regolamento per
assicurare il corretto insediamento urbanistico e
territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione
della popolazione ai campi elettromagnetici”, non già di
vietare i meri ammodernamenti della rete esistente (massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 30.05.2013 n. 2945 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Rimozione rifiuti abbandonati durante le operazioni
di taglio del bosco, responsabilità ditta esecutrice.
La presenza di rifiuti urbani non pericolosi e pericolosi
(taniche di plastica di varie dimensioni che avevano
contenuto carburanti e oli per motori e motoseghe)
abbandonati sul luogo, asseritamente durante le operazioni
di taglio del bosco, legittima l’ordinanza per la rimozione
e lo smaltimento dei rifiuti a carico dell’azienda
agricola-forestale.
Infatti, risulta evidente il rapporto di fatto esistente tra
il sito e la correlazione tra l’attività svolta (il taglio
del bosco) e i rifiuti rinvenuti, sì da escludere la
riconducibilità di tale condotta ad altri soggetti.
L’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 è stato interpretato nel
senso che, per esigenze di tutela ambientale, tra i soggetti
potenzialmente responsabili va annoverato chiunque si trovi
con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto,
tale da consentirgli, e per ciò stesso imporgli, di
esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata
ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente, ben potendo il requisito della colpa
postulato dalla norma consistere nell'omissione delle
cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza
suggerisce ai fini di un'efficace custodia.
La tesi non può essere condivisa.
Invero, dalla lettura del provvedimento è agevole constatare
l’esatta indicazione tanto del sito ove si è riscontrato
l’abbandono, quanto la natura degli stessi, ovvero taniche e
contenitori di plastica (rifiuti non pericolosi) e residui
di carburanti e lubrificanti in esse contenuti (rifiuti
pericolosi) per i quali, ad ogni buon conto, viene precisato
il codice del catalogo europeo dei rifiuti.
In ordine al profilo della responsabilità al quale, seppure
implicitamente fa riferimento la parte ricorrente, si
rammenta che l’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce,
in tema di abbandono incontrollato di rifiuti sul suolo, che
“…chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a
procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo
smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei
luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati….”.
La norma è stata interpreta nel senso che, per le sottese
esigenze di tutela ambientale, tra i soggetti potenzialmente
responsabili va annoverato chiunque si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una
funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che
l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente, ben
potendo il requisito della colpa postulato dalla norma
consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti
che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace
custodia (Cass., sez. un., 25.02.2009, n. 4472; Cons.
Stato, sez. IV, 13.01.2010).
Nel caso di specie risulta evidente il rapporto di fatto
esistente tra il sito e i ricorrenti e la correlazione tra
l’attività svolta (il taglio del bosco) e i rifiuti
rinvenuti, sì da escludere come del tutto implausibile la
riconducibilità di tale condotta ad altri soggetti e, in
ogni caso, dovendosi ricondurre la responsabilità degli
interessati all’omissione di un’adeguata attività di
vigilanza e custodia dei luoghi dove i rifiuti sono stati
abbandonati, tenuto conto del contratto d’affitto stipulato
per l’esecuzione del taglio.
Per le ragioni che precedono il ricorso deve essere respinto (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 30.05.2013 n. 879 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità diniego condono in area gravata da
servitù militare a protezione della postazione radar.
E’ legittimo il diniego di condono edilizio un edificio (un
albergo con venti bungalow e strutture accessorie)
realizzato in zona gravata da servitù militare, istituita a
protezione della postazione radar di Licola.
Nell’area ove
sorge l’edificio abusivo esiste, a protezione dell’impianto
radar dell’Aeronautica militare di Licola, una servitù
militare costituita, in base alla legge 24.12.1976, n. 898,
con provvedimento dell’Autorità militare.
Ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge citata, tale servitù
comporta un limite al diritto di proprietà. In particolare,
nella zona più interna dell’area attorno all’installazione
militare (c.d. zona rossa) sussistono specifici limiti di
altezza (5 metri sul livello del mare) che nel caso di
specie non sarebbero rispettati.
Nell’area ove sorge l’edificio oggetto della richiesta di
condono esiste, a protezione dell’impianto radar
dell’Aeronautica militare di Licola, una servitù militare,
originariamente costituita -in base alla legge 24.12.1976,
n. 898- con provvedimento dell’Autorità militare (decreto
del Comandante della 2° Regione aerea n. 32 del 17.02.1982).
Ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge citata, tale servitù
comporta un limite al diritto di proprietà. In particolare,
nella zona più interna dell’area attorno all’installazione
militare (c.d. zona rossa) sussistono specifici limiti di
altezza (5 metri sul livello del mare) che nel caso di
specie non sarebbero rispettati, posto che l’altezza sul
livello del mare dell’edificio risulta essere di m. 11,40
(questo dato di fatto non è contestato).
Il Russo sostiene che la servitù sarebbe stata costituta
solo nel 2004, se non nel 2005 (si veda la richiesta di
nulla osta in data 18.10.2006). Questa affermazione, però, è
smentita dalla documentazione versata in atti
dall’Amministrazione militare nel corso del giudizio di
primo grado (con nota dell’Avvocatura distrettuale del
15.02.2008) e non specificamente contestata, secondo la
quale la fonte primitiva è costituita dal ricordato decreto
n. 32 del 1982, pubblicato per affissione nel territorio del
Comune.
Il vincolo, di durata quinquennale (ex art. 10 della legge
n. 898 del 1976), è stato successivamente rinnovato senza
soluzione di continuità sino al 1997 e, in seguito, a
partire dal 2004.
A questo proposito, l’appellante richiama l’ultimo comma
dell’art. 10 citato (“se non interviene decreto di
conferma alla prevista scadenza, le limitazioni restano
estinte ad ogni effetto”) per sostenere l’avvenuta
decadenza del vincolo alla sua proprietà.
L’argomento, tuttavia, non ha pregio. Come correttamente
osserva il Tribunale regionale, il vincolo era vigente ed
efficace al momento della costruzione dell’edificio (1985) e
a quello della presentazione della domanda di condono
(1994), cosicché è indubbio che le iniziative del privato si
ponevano in conflitto con il vincolo medesimo.
Trattandosi di opera costruita in contrasto con un vincolo
imposto a tutela di interessi della difesa militare,
l’edificio è del tutto insanabile, a norma dell’art. 33
della legge 28.02.1985, n. 47. La fattispecie esula dunque
completamente da quella regolata dal precedente art. 32
della stessa legge. E’ dunque irrilevante che
l’Amministrazione, nel rigettare l’istanza di condono, non
abbia preventivamente acquisito il parere dell’Autorità
preposta alla tutela del vincolo né convocato una conferenza
di servizi (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.05.2013 n. 2903 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Variante cartografica per individuazione
parcheggi privati.
E’ legittima la variante cartografica per l’individuazione
di parcheggi privati.
Invero, nella fattispecie ,
trattandosi di una variante urbanistica di minor conto, con
limitati effetti pianificatori, l’Amministrazione ha
correttamente utilizzato lo strumento procedurale della
variante urbanistica di cui all’art. 50 delle legge n. 61/85
di esclusiva competenza del Comune, non rinvenendosi a
carico dell’Amministrazione procedente l’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento nei confronti di
eventuali soggetti interessati, dal momento che si è in
presenza di un atto a contenuto normativo in cui le esigenze
di partecipazione e contraddittorio sono assicurate dagli
ordinari rimedi delle osservazioni previsti per la
formazione di siffatti strumenti.
Priva di fondamento infine si rivela la censura di
violazione della normativa di tipo partecipativo di cui agli
artt. 7 e ss della legge sul procedimento.
Invero, nella fattispecie, trattandosi di una variante
urbanistica di minor conto, con limitati effetti
pianificatori, l’Amministrazione ha correttamente utilizzato
lo strumento procedurale della variante urbanistica di cui
all’art 50 delle legge n. 61/1985 di esclusiva competenza
del Comune, non rinvenendosi a carico dell’Amministrazione
procedente l’obbligo di comunicazione dell’avvio del
procedimento nei confronti di eventuali soggetti
interessati, dal momento che si è in presenza di un atto a
contenuto normativo in cui le esigenze di partecipazione e
contraddittorio sono assicurate dagli ordinari rimedi delle
osservazioni previsti per la formazione di siffatti
strumenti (Cons. Stato Sez. IV 22.03.2005 n.1236; idem Sez.
29.05.2006 n. 3259) (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.05.2013 n. 2896 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Piano di lottizzazione e vincolo paesaggistico.
Il decreto ministeriale 01.08.1985, non può ritenersi
comunque decaduto ai sensi dell’art. 1-quinquies della legge
n. 431 del 1985, poiché ne permane l’effetto legale proprio
del vincolo di inedificabilità relativa, che consegue alla
dichiarazione del notevole interesse pubblico effettuata ai
sensi dell'art. 1, numeri 3 e 4, della legge n. 1497 del
1939. Ne consegue che la trasformazione delle aree in
questione deve essere autorizzata ai sensi dell'art. 7 della
medesima legge. n. 1497 del 1939.
Dunque è di tutta evidenza
l’idoneità del vincolo ad imporsi sulla zonizzazione recata
dal PUTT, che non solo è recessivo rispetto ad un
preesistente vincolo di inedificabilità relativa, ma che
deve essere interpretato con la necessaria clausola di
salvezza di difformi espressioni di un potere più generale.
Considerazione, questa, che precede e assorbe ogni altra
valutazione generale circa l’inidoneità dei piani
urbanistici territoriali o dei piani paesaggistici, i quali
ultimi sono strumento di attuazione e non eventuale di
revisione dei vincoli, a derogare ai vincoli stessi.
L’appello è fondato.
Il decreto 01.08.1985, con il quale il Ministero per i beni
culturali e ambientali ha sottoposto a vincolo, tra le
altre, la zona del Comune di Massafra interessata
dall’intervento di cui è causa, reca nel preambolo, quali
fonti del potere esercitato, non solo il decreto-legge
27.06.1985, n. 312, poi convertito dalla legge 08.08.1985,
n. 431, ma anche la legge 29.06.1939, n. 1497. Tanto è
sufficiente a ritenere non dirimente la censura, accolta
invece dal Tribunale amministrativo, relativa alla mancata
convalida dei vincoli perfezionatisi ai sensi del decreto
ministeriale del 21.09.1984 in data successiva all’entrata
in vigore della suddetta legge n. 431 del 1985.
Se, infatti, l’applicazione nelle località vincolate di un
divieto assoluto e temporaneo di modificazione dei luoghi
era venuto meno per effetto riflesso della mancata
pubblicazione del decreto di imposizione del vincolo prima
dell’entrata in vigore delle legge n. 431 del 1985 (Corte
Costituzionale, 27.06.1986, n. 153, secondo cui, dopo
l’entrata in vigore del d.l. n. 312 del 1985, come
convertito dalla l. n. 431 del 1985, era passato alle
regioni il potere di introdurre vincoli di inedificabilità
ai sensi degli artt. 1-ter e 1-quinquies dello stesso
decreto-legge), permane, tuttavia, e con pieno effetto, il
riconoscimento del valore dell’area stessa e la connessa
dichiarazione di notevole interesse paesistico: e questo
effetto comporta comunque, quale contenuto essenziale e
indeclinabile del vincolo, la necessità di sottoporre ogni
progetto di intervento modificativo alla previa valutazione
dell’Amministrazione preposta alla tutela, ai sensi
dell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939.
Conformemente a quanto ha più volte rilevato questo
Consiglio di Stato (es. Cons. Stato, VI, 08.08.2006, n.
4778; 08.02.2008, n. 408) il decreto ministeriale
01.08.1985, che qui interessa, non può ritenersi comunque
decaduto ai sensi dell’art. 1-quinquies della legge n. 431
del 1985, poiché ne permane l’effetto legale proprio del
vincolo di inedificabilità relativa, che consegue alla
dichiarazione del notevole interesse pubblico effettuata ai
sensi dell'art. 1, numeri 3 e 4, della legge n. 1497 del
1939. Ne consegue che la trasformazione delle aree in
questione deve essere autorizzata ai sensi dell'art. 7 della
medesima legge n. 1497 del 1939 (Cons. Stato, VI,
19.06.2001, n. 3242).
Va, infatti, ribadito che il suddetto decreto del 1985 ha
una duplice valenza: di individuazione di località aventi
pregio paesaggistico con la sottoposizione delle stesse al
regime di tutela di cui alla legge n. 1497 del 1939 operata
dal Ministero per i beni culturali e ambientali in via di
integrazione degli elenchi delle bellezze naturali; di
applicazione nelle medesime località vincolate di un divieto
assoluto e temporaneo di modificazione dei luoghi predetti
fino al 31.12.1985. Solo quest’ultimo aspetto ha perduto
efficacia a causa della mancata pubblicazione del decreto di
imposizione del vincolo prima dell'entrata in vigore della
legge n. 431 del 1985, mentre la dichiarazione delle aree di
interesse paesaggistico individuate dallo stesso decreto,
emanato dal Ministero in virtù di un concorrente potere
statale di integrazione degli elenchi delle bellezze
naturali meritevoli di tutela, mantiene la sua piena
efficacia, con ogni conseguenza in ordine al regime di
inedificabilità relativa dell'area in questione, la cui
attività di trasformazione dovrà essere autorizzata
necessariamente, come si è detto, ai sensi dell'art. 7 della
legge n. 1497 del 1939 e successive modificazioni.
Ciò risulta peraltro confermato dalla successiva
disposizione transitoria di cui all'articolo 162 del d.lgs.
29.10.1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali), che
precisa la permanenza del vincolo di inedificabilità
assoluta, fino all'approvazione dei piani previsti
dall'articolo 149 della stessa legge, soltanto per i decreti
pubblicati in data anteriore al 06.09.1985.
Il venir meno del vincolo d'inedificabilità assoluta non ha
fatto venire meno dunque l'individuazione delle località
aventi pregio paesistico e il conseguente effetto della loro
sottoposizione all’ordinario regime di tutela di cui alla
legge n. 1497 del 1939, in via di integrazione degli elenchi
delle bellezze naturali. Ciò comporta l'applicabilità alle
località individuate dai decreti cosiddetti galassini (cioè
i dd.mm. del 01.08.1985, che avevano la fonte nel decreto
Galasso), pubblicati, come nel caso in esame, in data
successiva al 06.09.1985, del regime di inedificabilità
relativa, con conseguente necessità della prescritta
autorizzazione dell'art. 7 della legge del 1939 per ogni
attività di trasformazione.
Ove occorra è altresì, da un punto di vista sistematico, da
considerare quanto agli effetti di inedificabilità assoluta
come effetti distinti da quello comunque essenziale di
inedificabilità relativa, che l’art. 1-quinquies del d.l. n.
312 del 1985, come convertito dalla l. n. 431 del 1985, ha
temporaneamente salvaguardato gli effetti di salvaguardia
per impedire su determinate aree, di interesse paesaggistico
o di particolare pregio, ogni modificazione innovativa.
Il parere negativo qui opposto, con ampia ed esauriente
motivazione, dalla Soprintendenza nell’ambito della
valutazione di impatto ambientale sul progetto di
lottizzazione di cui è causa, pertanto, contrariamente a
quanto ha ritenuto la sentenza impugnata, è legittimo sotto
l’aspetto considerato.
È anche di tutta evidenza l’idoneità del vincolo ad imporsi
sulla zonizzazione recata dal PUTT (il cui art. 5.02 delle
norme tecniche di attuazione, come si è detto, esclude, per
le aree, quale quella in esame, perimetrate nell’ambito dei
territori costruiti, la necessità dell’autorizzazione
paesaggistica), che non solo è recessivo rispetto ad un
preesistente vincolo di inedificabilità relativa, ma che
deve essere interpretato con la necessaria clausola di
salvezza di difformi espressioni di un potere più generale,
salvezza resa esplicita dallo stesso art. 5.02, primo comma,
nell’assoggettare all’obbligo di acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica gli interventi in zone
vincolate con le procedure della legge n. 1497 del 1939.
Considerazione, questa, che precede e assorbe ogni altra
valutazione generale circa l’inidoneità dei piani
urbanistici territoriali o dei piani paesaggistici, i quali
ultimi sono strumento di attuazione e non eventuale di
revisione dei vincoli, a derogare ai vincoli stessi (cfr.
Cons. Stato, II, II, 20 maggio 1998, n. 548/98.) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.05.2013 n. 2867 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oneri concessori per cambio destinazione d’uso
da civile abitazione a studio professionale.
La giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato
che, indipendentemente dall’esecuzione di opere edilizie, la
richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione deve
ritenersi legittima ogni qual volta si verifichi una
variazione, in aumento, del carico urbanistico, giacché in
tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica la
corresponsione, quanto meno, della differenza tra gli oneri
di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e
quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione
impressa all'immobile.
L’obbligo di pagamento sussiste, in
via astratta, anche per quanto concerne contributo relativo
al costo di costruzione. Trattandosi di un prelievo
paratributario è comunque dovuto in presenza di una
"trasformazione edilizia" che, indipendentemente
dall'esecuzione fisica di opere, si riveli produttiva di
vantaggi economici connessi all'utilizzazione.
La censura, essendo posta in termini generici e
in via di principio, non può essere condivisa.
Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha
ripetutamente affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione di opere edilizie, la richiesta di pagamento
degli oneri di urbanizzazione deve ritenersi legittima ogni
qual volta si verifichi una variazione, in aumento, del
carico urbanistico, giacché in tale evenienza sussiste il
presupposto che giustifica la corresponsione, quanto meno,
della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per
la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per
la nuova destinazione impressa all'immobile (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 29.04.2004 n. 2611; id., Sez. V, 15.09.1997 n.
959; TAR Roma, Sez. II-ter, 17.03.2012 n. 2604; TAR Bari,
Sez. III, 22.02.2006, n. 571; TAR Milano, Sez. II, 02.10.2003
n. 4502; TAR Bologna, Sez. II, 19.02.2001 n. 157 e 07.05.1999,
n. 259).
L’obbligo di pagamento sussiste, in via astratta, anche per
quanto concerne contributo relativo al costo di costruzione.
Trattandosi di un prelievo paratributario è comunque dovuto
in presenza di una "trasformazione edilizia" che,
indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si riveli
produttiva di vantaggi economici connessi all'utilizzazione
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV 14.10.2011 n. 5539; id. 21.04.2006
n. 2258).
Nel caso specifico pare evidente che il richiesto mutamento
d'uso comporti il passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico e che produce un
aumento del carico, come evidenziato anche dall’ulteriore
richiesta di £ 123.156 a titolo di monetizzazione delle aree
da destinare a viabilità e standard connesse con la nuova
destinazione produttiva.
Non essendo state evidenziate circostanze particolari e
riferite al caso specifico che potrebbero escludere in parte
il pagamento della contribuzione (quali, ad esempio, il
pagamento di precedenti contributi concessori), il ricorso
va quindi respinto (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Marche,
sentenza 24.05.2013 n. 384 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità diniego autorizzazione
paesaggistica per impianto di distribuzione carburanti in
area collinare del Vesuvio.
E’ legittimo il diniego di autorizzazione paesaggistica per
la realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti,
in quanto le opere oggetto si collocano nella “zona
pedemontana”, costituita da un’ampia area collinare alle
pendici del Vesuvio di particolare pregio
paesaggistico-ambientale.
In questo quadro, è legittimo il parere negativo parere
della Soprintendenza, nei termini in cui, nell’esercizio
della discrezionalità tecnica di cui è espressione, ha
stimato le nuove volumetrie non compatibili con la tutela
del paesaggio.
5. L’appello merita accoglimento.
5.1. In primo, a differenza di quanto ritenuto dalla
sentenza appellata, non vi è stata violazione del divieto di
effettuazione ex novo della valutazione di
compatibilità paesaggistica, in quanto il parere negativo
espresso dalla Soprintendenza ha ad oggetto opere diverse
rispetto a quelle già assentite con autorizzazione unica del
2008: si tratta di varianti al precedente progetto che
importano modifiche sostanziali che, pertanto, giustificano
una nuova valutazione paesaggistica.
5.2. Ugualmente non ha pregio il motivo proposto in primo
grado (e ritenuto fondato dal Tribunale amministrativo
regionale) diretto a denunciare la violazione dell’art. 21
del Piano territoriale paesistico (PTP) dei Comuni
vesuviani.
In base a tale previsione: “È consentito in tutte le zone
del presente piano, anche in deroga alle norme e alle
prescrizioni delle singole zone di cui alla presente
normativa: 1) la realizzazione e/o l’adeguamento degli
impianti tecnologici ed infrastrutturali quali sistemi
fognari e di depurazione, idrici, elettrici telefonici e
sistemi similari di pubblica utilità sia di rilevanza
comunale che sovra comunale”.
Sebbene l’impianto di distribuzione di carburante possa
rientrare, in astratto, nel campo di applicazione dell’art.
21 PTP, occorre, tuttavia, chiarire che la disposizione in
esame, nel consentire la realizzazione di tali impianti in
eventuale deroga alle prescrizioni di piano -tra cui quella
del generale divieto di incremento volumetrico prevista
dall’art. 15 per la zona S.I. (zone Sature Interne)- non
esclude, tuttavia, la persistenza, in ogni caso, del potere
della Soprintendenza di valutare, in concreto, l’impatto
paesaggistico della nuova opera e, in particolare, di
valutarne la compatibilità paesaggistica.
In altri termini, anche per gli impianti che ricadono nel
campo di applicazione di cui all’art. 21 PTP, la valutazione
dell’impatto paesaggistico risulta, comunque, necessaria,
non potendo certamente la detta deroga essere letta nel
senso di consentire che gli impianti in essa menzionati
possano essere realizzati a prescindere da ogni forma di
tutela paesaggistica e, quindi, sottranedoli
surrettiziamente al regime vincolistico e così di fatto
precludendo alla Soprintendenza di valutare, caso per caso,
il concreto impatto che essi possono avere sul paesaggio nel
quale si inseriscono e di stimarne la relativa
compatibilità.
5.3. Nel caso di specie, come evidenzia il Ministero
nell’atto di appello, le opere oggetto di intervento si
collocano nella “zona pedemontana”, costituita da
un’ampia area collinare alle pendici del Vesuvio di
particolare pregio paesaggistico-ambientale.
In questo quadro, il parere della Soprintendenza, nei
termini in cui –nell’esercizio della discrezionalità tecnica
di cui è espressione- ha stimato le nuove volumetrie non
compatibili con la tutela del detto paesaggio, sfugge, anche
sotto il profilo motivazionale, alle censure sollevate
dall’originario ricorrente (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.05.2013 n. 2817 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità ordinanza demolizione gazebo.
La precarietà di un’opera va valutata
sul piano funzionale, non potendo ravvisarsi tale
caratteristica in un gazebo per l’esercizio dell’attività di
somministrazione al pubblico di alimenti e bevande,
indipendentemente dall’essere stato realizzato con struttura
amovibile o meno, essendo lo stesso destinato a soddisfare
esigenze durature nel tempo, principio rafforzato nel caso
concreto dal carattere permanente e non stagionale
dell’attività svolta.
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi in
considerazione dell’autorizzazione all’occupazione di suolo
pubblico, considerato che tale autorizzazione non ha
attribuito la facoltà di costruzione della struttura oggetto
dell’impugnata ordinanza di demolizione.
Non può essere accolta la prospettazione impugnatoria per la
quale il manufatto di cui si controverte sarebbe a carattere
precario.
La precarietà di un’opera va valutata sul piano funzionale,
non potendo ravvisarsi tale caratteristica in un gazebo per
l’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di
alimenti e bevande, indipendentemente dall’essere stato
realizzato con struttura amovibile o meno, essendo lo stesso
destinato a soddisfare esigenze durature nel tempo,
principio rafforzato nel caso concreto dal carattere
permanente e non stagionale dell’attività svolta.
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi in
considerazione dell’autorizzazione all’occupazione di suolo
pubblico rilasciata all’odierna ricorrente in data 16.04.2010,
considerato che tale autorizzazione non ha attribuito la
facoltà di costruzione della struttura oggetto
dell’impugnata ordinanza di demolizione (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Marche,
sentenza 23.05.2013 n. 377 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per ius receptum, l’ordinanza di
demolizione di opere abusive é un atto dovuto a carattere
vincolato, che costituisce esercizio dei poteri-doveri di
vigilanza sull’attività edilizia spettanti all’autorità
preposta al governo del territorio.
Per tale ragione, é da condividersi il principio
giurisprudenziale in virtù del quale il provvedimento con il
quale si ingiunge doverosamente la demolizione di opere
abusive, quale atto vincolato, fondato sull’accertamento del
carattere abusivo delle opere, non deve essere preceduto
dall’avviso dell’inizio del procedimento.
Per la medesima considerazione, non si richiede una
motivazione particolarmente stringente, una volta che sia
stata evidenziata l’accertata abusività delle opere.
Sono infondate le dedotte doglianze di eccesso di potere per
difetto dei presupposti, sviamento dalla causa tipica,
difetto di motivazione, omessa comunicazione di avvio del
procedimento, violazione delle garanzie procedimentali,
contraddittorietà, irrazionalità e difetto di istruttoria.
Per ius receptum, l’ordinanza di demolizione di opere
abusive é un atto dovuto a carattere vincolato, che
costituisce esercizio dei poteri-doveri di vigilanza
sull’attività edilizia spettanti all’autorità preposta al
governo del territorio.
Per tale ragione, é da condividersi il principio
giurisprudenziale in virtù del quale il provvedimento con il
quale si ingiunge doverosamente la demolizione di opere
abusive, quale atto vincolato, fondato sull’accertamento del
carattere abusivo delle opere, non deve essere preceduto
dall’avviso dell’inizio del procedimento.
Per la medesima considerazione, non si richiede una
motivazione particolarmente stringente, una volta che sia
stata evidenziata l’accertata abusività delle opere (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Marche,
sentenza 23.05.2013 n. 377 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia mediante demolizione e
ricostruzione del fabbricato preesistente.
Non vi è dubbio che, laddove sia stata assentita una
ristrutturazione edilizia mediante demolizione e
ricostruzione del fabbricato preesistente, l’intervento,
unitariamente considerato, di edificazione del nuovo
edificio senza la demolizione del preesistente è da
ritenersi in difformità totale rispetto al titolo
abilitativo.
La mancata demolizione dell’edificio
preesistente, in sede di ristrutturazione edilizia per la
demolizione e ricostruzione dell’immobile, comporta la
realizzazione di una volumetria aggiuntiva, dotata di
specifica rilevanza e autonoma utilizzabilità, in difformità
totale rispetto al progetto assentito, di talché il
risultato della complessiva attività edificatoria viene a
configurare un organismo edilizio integralmente diverso da
quello oggetto del permesso di costruire.
Ciò premesso, rileva il Collegio che, con il titolo
abilitativo n. 40 del 1975, è stato assentito un intervento
di ristrutturazione edilizia mediante demolizione
dell’edificio esistente e ricostruzione.
L’elaborazione normativa e giurisprudenziale ha tracciato i
profili di distinzione dell’intervento di ristrutturazione
mediante demolizione e ricostruzione, rispetto al
risanamento conservativo e rispetto alla nuova costruzione.
Sul primo fronte, si è evidenziata la funzione cui assolve
il risanamento conservativo, quale intervento preordinato
alla conservazione dell’organismo edilizio, immutati
restando gli elementi tipologici, formali e strutturali
dell’organismo stesso, che viene ad essere sottoposto ad un
recupero architettonico, suscettibile di comprendere il
consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi
costitutivi dell’edificio esistente, l’inserimento degli
elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell’uso, nonché l’eliminazione degli elementi estranei
all’organismo edilizio.
La ristrutturazione edilizia può portare ad un organismo in
tutto o in parte diverso dal preesistente, rispondendo ad
una funzione di integrale rinnovo dell’edificio piuttosto
che di mera conservazione.
La preesistenza dell’organismo edilizio e la già avvenuta
trasformazione del territorio caratterizzano la
ristrutturazione edilizia rispetto ad un intervento di nuova
costruzione.
Nell’odierna controversia, essendo stato assentito un
intervento di ristrutturazione mediante demolizione e
ricostruzione, il fabbricato colonico avrebbe dovuto essere
demolito e riedificato, come da progetto.
Tuttavia, per quanto risulta dagli atti del giudizio, il
nuovo fabbricato è stato edificato senza che la preesistente
casa colonica sia stata demolita.
Dall’accertamento compiuto dalla polizia municipale del
Comune di Ancona in data 31.01.2008, si evince che la
demolizione del fabbricato colonico prevista dai progetti
allegati alla licenza edilizia non è stata eseguita.
La deduzione, svolta con il primo motivo del ricorso
principale, sotto il profilo della nullità della diffida a
demolire per nullità della notifica, articolata sull’assunto
che la ricorrente avrebbe conseguito la piena conoscenza
della predetta diffida a demolire solo in seguito
all’accesso agli atti, se può rilevare ai fini della
tempestività dell’impugnazione della diffida del 31.07.1980, peraltro non è conducente per addivenire
all’accoglimento dell’impugnativa, considerato che la
diffida a demolire non costituisce il presupposto unico ed
imprescindibile dei provvedimenti impugnati con il ricorso
principale e con i motivi aggiunti, provvedimenti che non
possono ritenersi conseguenza inevitabile della ridetta
diffida a demolire, di talché, in mancanza di alcun nesso di
presupposizione necessaria, non sussistono i lamentati
profili di illegittimità derivata.
Le osservazioni superiormente svolte con riguardo agli
elaborati progettuali allegati alla licenza edilizia n°
40/1975 impongono il rigetto della doglianza, svolta con il
secondo motivo del ricorso principale per asserito eccesso
di potere per carenza di presupposti, errore di fatto o
contraddittorietà.
La demolizione della ex casa colonica era il presupposto del
rilascio del titolo abilitativo n. 40 del 1975 per la
ristrutturazione di tipo ricostruttivo, di talché la stessa
ex casa colonica non poteva formare oggetto del chiesto
risanamento conservativo.
In seguito agli eventi sismici del 1972, infatti, la
proprietà del fabbricato colonico danneggiato dal sisma
aveva richiesto la realizzazione di un intervento rivolto
non alla conservazione dell’organismo edilizio esistente,
con mantenimento degli elementi tipologici, formali e
strutturali del fabbricato, non quindi un intervento
qualificabile come restauro o risanamento conservativo, ma
piuttosto la demolizione e ricostruzione del fabbricato.
Il provvedimento prot. n. 20910/46099 del 13.05.2008,
emesso in seguito alla valutazione delle deduzioni svolte
con memoria ai sensi dell’art. 10–bis della legge n.
241/1990, è adeguatamente motivato sulle ragioni per le
quali l’amministrazione è addivenuta all’impugnato diniego.
Nessuna contraddittorietà è ravvisabile nell’azione
amministrativa, essendo state denegate le istanze presentate
dalla ricorrente sul rilievo della mancata esecuzione della
demolizione della ex casa colonica.
Per le medesime ragioni, sono infondate le doglianze svolte
per violazione del principio dell’affidamento, considerato
che sin dal provvedimento con il quale era stata respinta
l’istanza avanzata dalla ricorrente in data 28.10.1977,
per la “trasformazione” del fabbricato colonico da
abitazione a fienile, l’amministrazione comunale aveva
sottolineato l’obbligo di provvedere “alla demolizione della
vecchia casa colonica, così come riportato nel progetto
allegato alla licenza edilizia n° 40 del 10/04/1975”, di talché non può ritenersi che la condotta amministrativa
possa in alcun modo aver ingenerato un ragionevole
affidamento sulla legittimità della mancata demolizione
della ex casa colonica.
Non può, quindi, accogliersi il terzo motivo del ricorso
principale con il quale si invoca l’istituto dell’errore
scusabile per domandare la “rimessione in termini”,
considerato che la ricorrente non è incorsa, nell’odierno
giudizio, in preclusioni o decadenze rispetto alle quali la
stessa possa essere restituita in termini.
Deve anche osservarsi che la ricorrente non ha dedotto di
aver proposto istanza di condono edilizio e che le istanze
di sanatoria presentate ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n.
380/2001 sono state respinte per la non conformità
dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica
vigente, il che evidenzia l’infondatezza della doglianza,
anche sotto tale profilo.
Priva di alcun fondamento è la tesi, svolta nel quarto
motivo del ricorso principale, che la ex casa colonica possa
considerarsi “pertinenza”, non sussistendo alcun nesso di
destinazione funzionale del fabbricato in questione al
servizio della nuova casa colonica.
Infondata si appalesa, altresì, la doglianza con la quale si
lamenta violazione del giusto procedimento e disparità di
trattamento rispetto agli odierni controinteressati
costituiti, considerato che questi ultimi non hanno
richiesto la demolizione e ricostruzione del fabbricato di
loro proprietà, e che, pertanto, differenti essendo le
situazioni della ricorrente e dei controinteressati,
l’amministrazione legittimamente ha differenziato il
relativo trattamento giuridico.
Per tali ragioni, il ricorso principale dev’essere respinto
per infondatezza.
Il primo ricorso per motivi aggiunti è infondato.
Preliminarmente, deve osservarsi che l’istanza, avanzata
dalla ricorrente in corso di giudizio, con la quale la
stessa ha chiesto di essere autorizzata a demolire le opere
abusive, non determina il venir meno dell’interesse
all’impugnativa, considerata la natura sanzionatoria delle
ordinanze di demolizione e gli effetti giuridici che
l’ordinamento annette all’accertamento dell’abusività delle
opere.
Devono essere respinti i motivi aggiunti con i quali sono
riproposte, per illegittimità derivata, avverso le impugnate
ordinanze n. 92875 del 13.10.2008 e n. 92829 del 13.10.2008, deduzioni svolte in via principale nell’atto
introduttivo del giudizio.
Non merita accoglimento la doglianza con la quale si lamenta
carenza di presupposti ed errore di fatto.
Non vi è dubbio che, laddove sia stata assentita una
ristrutturazione edilizia mediante demolizione e
ricostruzione del fabbricato preesistente, l’intervento,
unitariamente considerato, di edificazione del nuovo
edificio senza la demolizione del preesistente è da
ritenersi in difformità totale rispetto al titolo
abilitativo.
La mancata demolizione dell’edificio preesistente, in sede
di ristrutturazione edilizia per la demolizione e
ricostruzione dell’immobile, comporta la realizzazione di
una volumetria aggiuntiva, dotata di specifica rilevanza e
autonoma utilizzabilità, in difformità totale rispetto al
progetto assentito, di talché il risultato della complessiva
attività edificatoria viene a configurare un organismo
edilizio integralmente diverso da quello oggetto del
permesso di costruire.
Sull’organismo edilizio così realizzato in totale
difformità, per la mancata demolizione della preesistente
casa colonica, abuso sanzionato con l’ordinanza n. 92875 del
13.10.2008, si sono innestati ulteriori interventi in
parziale difformità rispetto al progetto assentito con la
licenza di costruzione n. 40/1975, sanzionati con
l’ordinanza n. 92829 del 13.10.2008 (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Marche,
sentenza 23.05.2013 n. 372 -
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Ambiente in genere. Illegittimità Piano comunale di
localizzazione della rete di distribuzione dei carburanti
adottato senza preventiva Valutazione Ambientale Strategica
(VAS).
Lo scopo della V.A.S. consiste nella
verifica degli impatti derivanti sull'ambiente naturale da
strumenti urbanistici generali; in particolare, l'aggettivo
"strategica" evidenzia l'aspetto caratterizzante
dell'istituto, costituito dalla significativa anticipazione
della valutazione delle possibili conseguenze ambientali
negative dell'azione amministrativa conseguenti alla
progettazione e adozione di piani e dei programmi.
Tale valutazione ha quindi la finalità di garantire un
elevato livello di protezione dell'ambiente e contribuire
all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto
dell'elaborazione, dell'adozione e approvazione di piani e
programmi, assicurando che siano coerenti e contribuiscano
alle condizioni per uno sviluppo sostenibile.
Assicura, inoltre, che l'attività antropica sia compatibile
con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, nel rispetto
della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle
risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un'equa
distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica.
Lo scopo della V.A.S. consiste nella verifica degli impatti
derivanti sull'ambiente naturale da strumenti urbanistici
generali; in particolare, l'aggettivo "strategica"
evidenzia l'aspetto caratterizzante dell'istituto,
costituito dalla significativa anticipazione della
valutazione delle possibili conseguenze ambientali negative
dell'azione amministrativa conseguenti alla progettazione e
adozione di piani e dei programmi.
Tale valutazione ha quindi la finalità di garantire un
elevato livello di protezione dell'ambiente e contribuire
all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto
dell'elaborazione, dell'adozione e approvazione di piani e
programmi, assicurando che siano coerenti e contribuiscano
alle condizioni per uno sviluppo sostenibile. Assicura,
inoltre, che l'attività antropica sia compatibile con le
condizioni per uno sviluppo sostenibile, nel rispetto della
capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse,
della salvaguardia della biodiversità e di un'equa
distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica
(cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 19.12.2012, n. 5256).
Considerato che l'iter di formazione degli strumenti
urbanistici si articola, di regola, nelle diverse fasi
dell'adozione e dell'approvazione, il giudizio di
compatibilità ambientale deve essere compiuto nella fase
preparatoria dello strumento di pianificazione.
In ogni caso esso deve sussistere prima della relativa
approvazione; infatti dispone l'art. 11 ultimo comma, del
Codice dell'Ambiente, che "i provvedimenti amministrativi
di approvazione adottati senza la previa valutazione
ambientale strategica, ove prescritta, sono annullabili per
violazione di legge".
Il Collegio non ignora che, interpretando la su riportata
norma, la giurisprudenza è abbastanza concorde nel ritenere
che, ai fini della legittimità dell’atto di approvazione, è
sufficiente che la valutazione ambientale strategica degli
atti di pianificazione territoriale e di destinazione dei
suoli sia effettuata prima dell'approvazione del piano,
atteso che l’art. 11 citato ha individuato, quale unico
limite temporale inderogabile per l'espletamento della
valutazione ambientale, la data di approvazione del piano e
non quella di adozione (cfr. ex multis: TAR Campania,
Salerno, sez. II, 21.02.2013, n. 471).
Tuttavia ritiene che la posposizione di tale valutazione,
pur pacificamente ammissibile, non possa essere
metodologicamente condivisa laddove, come nel caso di
specie, finisca col risolversi in una mera formalità, priva
del contenuto sostanziale imprescindibile che la normativa
comunitaria e la legislazione nazionale che l’ha recepita
hanno inteso attribuirle (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
23.05.2013 n. 186 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione distanza legale e principio di
prevenzione ex artt. 873 e 875 c.c..
Il principio di prevenzione, fotografato
dal combinato disposto degli artt. 873 e 875 c.c., prevede
che è consentito a chi costruisce per primo di operare la
scelta tra il costruire alla distanza legale e l’erigere la
propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del
confine, determinando così le modalità da seguire per chi
costruisce dopo.
Ne deriva che il citato principio non può coprire anche le
ipotesi in cui chi ha costruito per primo, rispettando la
distanza legale, successivamente alla costruzione dell’altro
fabbricato, abbia poi violato tale distanza in conseguenza
dell’ampliamento dell’edificio.
Il principio di prevenzione
opera al momento della realizzazione dell’edificio e non si
estende anche agli ampliamenti realizzati successivamente
alla costruzione dell’edificio antistante.
Con riguardo, invece, al provvedimento n. 15669 del
31.03.2000, di rigetto della richiesta del 28.07.1999, n.
23762, con cui l’amministrazione resistente ha negato la
domanda di concessione edilizia in sanatoria tesa alla
creazione di un nuovo spazio abitabile, il ricorso va
rigettato, perché il provvedimento risulta congruamente
motivato.
L’amministrazione, come detto, ha rigettato la richiesta in
argomento, non perché l’opera non era stata previamente
assentita, ma perché in contrasto, in ogni caso, con l’art.
873 c.c., con l’art. 9 del D.M. 1444 del 02.04.1968, nonché
con gli artt. 3.4.7, 3.4.18 e 3.4.22 del Regolamento locale
d’igiene.
In particolare, secondo l’amministrazione, la creazione di
un nuovo spazio abitabile avrebbe violato l’art. 873 c.c.
che fissa la distanza minima tra le costruzioni in mt. 3,00,
nonché con l’art. 9 del D.M. 1444 del 02.04.1968, che
stabilisce in mt. 10 la distanza tra i fabbricati, prendendo
come punto di riferimento la distanza tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti. Inoltre, l’intervento
avrebbe violato il Regolamento d’igiene che prescrive
determinate altezze minime e la ventilazione dei locali.
Orbene, il provvedimento dell’amministrazione risulta
correttamente motivato.
Le ricorrenti hanno chiesto l’autorizzazione in sanatoria
per la creazione di un nuovo spazio abitabile per
l’ampliamento della sala ristorante; il nuovo corpo di
fabbrica “risulta posto ad una distanza di circa 2,50 mt.
dall’edificio confinante” e, quindi, in aperta
violazione sia dell’art. 873 c.c. che dell’art. 9 D.M. 1444
del 02.04.1968.
Secondo le ricorrenti, l’art. 873 c.c. non si applicherebbe
al caso di specie, perché una porzione dell’edificio delle
ricorrenti che preesisteva all’intervento, nonché
all’edificio antistante, era posto ad una distanza maggiore
di mt. 3 e, pertanto, per il principio della prevenzione
sarebbe ininfluente che successivamente si sia ridotta la
distanza tra gli edifici.
La censura non può essere condivisa.
Il principio di prevenzione, fotografato dal combinato
disposto degli artt. 873 e 875 c.c., prevede che è
consentito a chi costruisce per primo di operare la scelta
tra il costruire alla distanza legale e l’erigere la propria
fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine,
determinando così le modalità da seguire per chi costruisce
dopo (cfr., Cass., 3638/2007). Ne deriva che il citato
principio non può coprire anche le ipotesi in cui chi ha
costruito per primo, rispettando la distanza legale,
successivamente alla costruzione dell’altro fabbricato,
abbia poi violato tale distanza in conseguenza
dell’ampliamento dell’edificio. Il principio di prevenzione
opera al momento della realizzazione dell’edificio e non si
estende anche agli ampliamenti realizzati successivamente
alla costruzione dell’edificio antistante.
Ne deriva che, pertanto, correttamente l’amministrazione ha
negato il rilascio della concessione edilizia, in quanto il
richiesto ampliamento è stato realizzato in violazione della
distanza minima prevista dall’art. 873 c.c.
Tale motivazione sorregge da sola la legittimità del
provvedimento impugnato e consente di ritenere superfluo
l’esame degli altri motivi di doglianza contenuti in ricorso
e diretti a contestare le ulteriori motivazioni del diniego
di sanatoria (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.05.2013 n. 1221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Illegittimità del provvedimento comunale di
sospensione dei lavori di riconfigurazione della stazione
radiobase.
Il provvedimento inibitorio è stato motivato col rilievo che
la d.i.a. presentata dalla ricorrente contrasta con l’art.
17 delle n.t.a. del p.r.g. che “ammette l’installazione
degli impianti …soggetta a titolo edilizio abilitativo, solo
sottoscrivendo con gli enti gestori apposito atto di
convenzione ed a condizione che si perseguano
rispettivamente obiettivi di qualità nell’impatto visivo e
obiettivi di qualità nella minimizzazione dell’esposizione
ai campi elettromagnetici”.
Secondo l’interpretazione logica, l’imposizione dell’obbligo
della convenzione, all’esplicito fine di perseguire
“obiettivi di qualità nell’impatto visivo e nella
minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici”
se appare ragionevole nel caso dell’installazione di nuovi
impianti, non ha invece alcuna ragione giustificatrice
allorquando si tratti di semplice riconfigurazione
radioelettrica, ferma restando la consistenza fisica
dell’impianto già esistente.
Passando alle valutazioni di merito, va premesso che
l’impugnato provvedimento inibitorio è stato motivato col
rilievo che la d.i.a. presentata dalla ricorrente contrasta
con l’art. 17 delle n.t.a. del p.r.g. che “ammette
l’installazione degli impianti …soggetta a titolo edilizio
abilitativo, solo sottoscrivendo con gli enti gestori
apposito atto di convenzione ed a condizione che si
perseguano rispettivamente obiettivi di qualità nell’impatto
visivo e obiettivi di qualità nella minimizzazione
dell’esposizione ai campi elettromagnetici”.
Con i primi tre motivi di ricorso si sostiene che,
allorquando è stato comunicato alla ricorrente il
provvedimento impugnato, era ormai esaurito il periodo di
tempo entro il quale l'Amministrazione avrebbe potuto
esercitare i poteri inibitori.
Si sostiene inoltre che sarebbe stato violato l’art. 10-bis
L. 241/1990.
Circa quest’ultimo punto, osserva il Collegio che l'adozione
del provvedimento con il quale l'amministrazione comunale
ordina al privato di non effettuare l'intervento da lui
denunciato non deve essere preceduta dalla comunicazione di
cui all'art. 10-bis della L. n. 241/1990 ostando in tal
senso la dirimente circostanza che la denuncia di inizio di
attività non può considerarsi in nessun caso un’"istanza
di parte".
La d.i.a. (ora segnalazione certificata d'inizio attività -
Scia, dopo che la L. 122/2010 ha sostituito, con l’art. 49,
comma 4bis, l’articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241),
infatti, non è un provvedimento amministrativo a formazione
tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo,
ma è un atto privato volto a comunicare all’amministrazione
l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente
ammessa dalla legge (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen.,
29.07.2011, n. 15 che ha risolto in tal senso il conflitto
ermeneutico sulla natura provvedimentale o meno della d.i.a.).
Il Comune, a fronte di tale atto, deve verificare
l'eventuale mancanza di uno dei presupposti normativamente
previsti per l'esecuzione dei lavori previsti entro il
termine perentorio di 30 giorni (ex art. 19, comma 6bis
della L. 241/1990 nei casi di Scia in materia edilizia, il
termine di sessanta giorni è ridotto a trenta giorni)
decorso il quale lo stesso Comune può ricorrere al potere
discrezionale di autotutela ai sensi degli articoli
21-quinquies e 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241.
Restano inoltre salve, ai sensi dell'art. 21 della legge n.
241/1990, le misure sanzionatorie volte a reprimere le
dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in
contrasto con la normativa vigente, così come sono
impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e
controllo previste dalla disciplina di settore.
Invero, come ha chiarito l'Adunanza plenaria con la sentenza
29.07.2011, n. 15, sopra citata, dopo la scadenza del
termine perentorio per l'esercizio del potere inibitorio
l’amministrazione conserva l’anzidetto potere residuale di
autotutela in quanto l’inutile decorso del termine di
verifica dei requisiti enunciati nella d.i.a. equivale ad un
atto tacito di diniego di esercizio del potere inibitorio.
Solo in quest’ultimo caso (che non è quello in controversia)
dovrà essere avviato un apposito procedimento in
contraddittorio, nel rispetto di un termine ragionevole e
previa valutazione comparativa, di natura discrezionale,
degli interessi in rilievo (cfr.: Consiglio di Stato, sez.
VI, 14.11.2012, n. 5751).
Circa l’assunta decadenza dal potere inibitorio, per
l’inutile decorso del termine di 30 giorni senza che sia
stato comunicato il provvedimento inibitorio, rileva il
Collegio che la d.i.a. è stata presentata
all’Amministrazione il 17.09.2012 e che il provvedimento
inibitorio è stato adottato il 10.10.2012 e che la relativa
comunicazione con raccomandata a.r. è stata tempestivamente
consegnata all’ufficio postale lo stesso giorno (vd. doc. n.
6 prodotto dall’Amministrazione) mentre è pervenuta alla
destinataria Vodafone Omnitel il 19.10.2012.
Ora, è pur vero che l'atto inibitorio della d.i.a. ha natura
di atto recettizio che, ex art. 21-bis, L. n. 241 del 1990,
acquista efficacia nei confronti del destinatario con la
comunicazione allo stesso effettuata. Peraltro, applicando i
principi generali in materia di notifiche a mezzo posta
(comma 3 dell'art. 149 c.p.c.; sent. C. Cost. 26.11.2002, n.
477), ne consegue che la decadenza dell'Amministrazione dal
potere di inibizione dei lavori è impedita dall'adozione
dell'atto e dalla sua tempestiva consegna all'agente
postale. Si tratta di una soluzione che contempera
adeguatamente anche i diritti del richiedente, la cui
attività potrà assumere i connotati dell'abusività ex art.
21-bis L. n. 241 del 1990 soltanto a seguito dell'eventuale
notificazione del provvedimento negativo (cfr. TAR Liguria,
sez. I, 02.11.2011 n. 1511).
E’ invece fondata la censura, svolta col quarto motivo di
ricorso, con cui si assume l’inesistenza dei presupposti di
cui all’art. 17 delle n.t.a. per esercitare il potere
inibitorio, trattandosi della mera riconfigurazione della
SRB esistente (già assentita dal Comitato presso l’A.P.P.A.
ex art. 2, co. 5, L.p. 9/1997 con determinazione 28.08.2012)
e non dell’installazione di un nuovo impianto.
L’interpretazione letterale della norma urbanistica comunale
è nel senso predicato dalla parte ricorrente, imponendo la
sottoscrizione con gli enti gestori di un apposito atto di
convenzione per “l’installazione degli impianti”, mentre
nella fattispecie si tratta invece della riconfigurazione
radioelettrica di un impianto già esistente.
Anche secondo l’interpretazione logica, l’imposizione
dell’obbligo della convenzione, all’esplicito fine di
perseguire “obiettivi di qualità nell’impatto visivo e
nella minimizzazione dell’esposizione ai campi
elettromagnetici” se appare ragionevole nel caso
dell’installazione di nuovi impianti, non ha invece alcuna
ragione giustificatrice allorquando si tratti di semplice
riconfigurazione radioelettrica, ferma restando la
consistenza fisica dell’impianto già esistente.
Del resto, il potere regolamentare dei Comuni di fissare, ai
sensi dell'art. 8, ultimo comma, della L. n. 36 del 2001,
criteri localizzativi per assicurare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici deve tradursi in scelte ragionevoli sotto
il profilo ambientale, ma non può dissimulare norme di
radioprotezione aggiuntive o peggiorative dei già
cautelativi e rigorosi limiti posti, in modo unitario per
tutto il territorio della Repubblica, dalla normativa
statale (cfr. Cons. St., III, 05.02.2013, n. 687).
Se invece si estendesse l’interpretazione della controversa
norma urbanistica di Riva del Garda fino a ricomprendervi
semplici modifiche d’irradiazione del segnale -ferma
restando la consistenza fisica dell’impianto già installato-
essa finirebbe per assumere una valenza radioprotezionistica
che travalica i poteri comunali (massima
tratta da www.lexambiente.it - TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 09.05.2013 n. 148 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Legittimità diniego nuova SRB per telefonia
mobile in area soggetta a delocalizzazione dal Regolamento
comunale.
E’ legittimo il diniego di rilascio dell’autorizzazione per
l’installazione di una nuova SRB per telefonia mobile UMTS
visto che l’art. 10 del regolamento comunale sulle antenne
prevede che gli impianti preesistenti debbono essere
delocalizzati dal centro storico, sia pure in accordo con i
gestori.
Peraltro, al fine di non pregiudicare l’obiettivo
della norma (che è quello, ricompreso nei limiti del potere
regolamentare comunale di cui all’art. 8 della L. n.
36/2001, di garantire la tutela dei beni architettonici e
paesaggistici), non si può in primo luogo ritenere che i
gestori possano pregiudicare l’attuazione del piano
semplicemente omettendo di presentare al Comune proposte delocalizzative o ritardando ad arte tale adempimento.
In
secondo luogo, se l’amministrazione ha previsto la
delocalizzazione degli impianti esistenti, è del tutto
logico che nessun altro operatore può essere autorizzato ad
installare le proprie SRB nel centro storico, sia pure in
co-sitting, anche perché questi operatori dovrebbero in
seguito spostare i propri impianti nei siti indicati come
idonei dal regolamento.
Con riguardo all’unica censura dedotta dalla ricorrente, si
osserva che:
- come è noto, la giurisprudenza amministrativa ha da molti
anni affermato il principio per cui il potere regolamentare
che l’art. 8 della L. n. 36/2001 attribuisce ai Comuni in subiecta materia non può sconfinare in divieti generalizzati
di installazione delle SRB su intere porzioni del territorio
comunale, pena l’impossibilità per i gestori di erogare
quello che la normativa comunitaria e nazionale qualificano
pur sempre come un pubblico servizio (senza pretesa di
completezza, vedasi TAR Lecce, II, nn. 3579-3585 del
02/07/2005);
- peraltro, incombe sul gestore che ricorre avverso un
diniego di autorizzazione fondato su norme regolamentari
siffatte provare che le localizzazioni indicate nel
regolamento comunale impediscono di garantire la omogenea
copertura del segnale in tutto il territorio di riferimento.
Solitamente, la prova viene fornita mediante perizie di
parte con cui, prendendo a riferimento la cartografia del
piano comunale sulle antenne e le caratteristiche tecniche
delle SRB, si cerca di far comprendere al giudice che intere
zone del territorio comunale rimangono “scoperte” dal
segnale;
- nella specie, la ricorrente non ha depositato alcun
elaborato tecnico che possa in qualche modo suffragare le
scarne asserzioni riportate a pagina 12 del ricorso, il che
non può che portare al rigetto del presente motivo di
ricorso.
Ad colorandum, va rilevato che nelle controversie più
risalenti che hanno visto contrapposti i Comuni e i gestori
del servizio di telefonia mobile, questi ultimi hanno avuto
molto spesso vita facile nel censure l’operato delle
amministrazioni, visto che:
- il più delle volte, i regolamenti e i provvedimenti
adottati dai Comuni si fondavano su ingiustificati timori
per la salute umana, dando luogo a generalizzati e spesso
pittoreschi divieti (ma incorrendo in tal modo nello
sviamento di potere, visto che in subiecta materia spetta
solo allo Stato stabilire i valori limite di emissioni
elettromagnetiche – Corte Cost., sentenze nn. 307 e 331 del
2003);
- tali atti non erano sovente preceduti da alcuna seria
istruttoria, limitandosi a inibire l’installazione delle SRB
nelle zone più popolate, in modo da elidere al massimo il
malcontento popolare.
Nella specie, al contrario, l’adozione del regolamento
comunale sulle antenne, come risulta dal preambolo della
deliberazione consiliare n. 10/2007 e dalla relazione
tecnica datata 29/1/2007 (documento n. 10 della produzione
del Comune del 9/1/2012), è stata preceduta da adeguata
istruttoria tecnica, che non viene in alcun modo attinta da
specifiche critiche da parte della ricorrente (la quale non
deduce nemmeno lo sviamento di potere per avere il Comune
introdotto in modo surrettizio valori limite di emissioni
più stringenti di quelli indicati dal DPCM 08/07/2003).
Passando invece a trattare del primo motivo di ricorso, il
Collegio ritiene sostanzialmente irrilevante la questione se
l’impianto H3G debba o meno considerarsi un nuovo impianto,
visto che, come si è già sottolineato, l’art. 10 del
regolamento comunale sulle antenne (in parte qua non
censurato) prevede che gli impianti preesistenti debbono
essere delocalizzati dal centro storico di Fermo, sia pure
in accordo con i gestori.
Peraltro, al fine di non pregiudicare l’obiettivo della
norma (che è quello, ricompreso nei limiti del potere
regolamentare comunale di cui all’art. 8 della L. n.
36/2001, di garantire la tutela dei beni architettonici e
paesaggistici), non si può in primo luogo ritenere che i
gestori possano pregiudicare l’attuazione del piano
semplicemente omettendo di presentare al Comune proposte
delocalizzative o ritardando ad arte tale adempimento.
In secondo luogo, se l’amministrazione ha previsto la
delocalizzazione degli impianti esistenti, è del tutto
logico che nessun altro operatore può essere autorizzato ad
installare le proprie SRB nel centro storico, sia pure in
co-sitting (anche perché questi operatori dovrebbero in
seguito spostare i propri impianti nei siti indicati come
idonei dal regolamento).
In ogni caso, come correttamente eccepito dalla difesa del
Comune, solo in ossequio ad un’interpretazione meramente
formalistica dell’art. 10 si potrebbe sostenere che
l’impianto de quo è già esistente. Ed in effetti:
- formalismo per formalismo, si deve anzitutto evidenziare
che l’impianto preesistente è quello di proprietà Vodafone;
- dal punto di vista sostanziale, la rimozione di tre
antenne e la loro sostituzione con altrettante antenne e la
collocazione ex novo di due parabole, in una con
l’incremento complessivo delle emissioni elettromagnetiche,
non può che dare vita ad un impianto nuovo (ai sensi del
citato art. 10).
In conclusione, la domanda impugnatoria va respinta. Ne
consegue il rigetto anche della domanda risarcitoria (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Marche,
sentenza 08.05.2013 n. 336 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte di natura urbanistica rimesse
all'Amministrazione nell'interesse generale sono di regola
sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili
generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione,
senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata".
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione
più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area
determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche,
ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una
motivazione specifica una variante che interessi aree
determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di
legittime aspettative dei privati), non altrettanto può
dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto
della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del
territorio comunale.
Il Collegio deve innanzi tutto ricordare che le scelte di
natura urbanistica rimesse all'Amministrazione
nell'interesse generale sono di regola sufficientemente
motivate con l'indicazione dei profili generali e dei
criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di
una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato,
sez. IV. 03.11.2008 n. 5478).
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione
più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area
determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche,
ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una
motivazione specifica una variante che interessi aree
determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di
legittime aspettative dei privati), non altrettanto può
dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto
della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del
territorio comunale (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.05.2013 n. 2432 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Reiterazione vincoli.
Costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli
preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione,
e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà
incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale,
ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di
scambio.
Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un
piano regolatore che destinano un’area a “verde pubblico
attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della
proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione
dell’intero territorio comunale o di parte di esso, che
incidono su una generalità di beni, in funzione della
destinazione dell’intera zona in cui questi ricadono.
La
decadenza del vincolo non esclude che l’amministrazione,
mediante il ricorso al procedimento per l’adozione delle
varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i
vincoli preordinati all’espropriazione, fornendo congrua
motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di
interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione,
così da escludere un contenuto vessatorio o comunque
ingiusto dei relativi atti.
Altrettanto
infondato è il secondo motivo di appello (sub b)
dell’esposizione in fatto), con il quale, assunta una
intervenuta reiterazione di vincolo, si lamenta una
violazione dell’art. 2 l. n. 1187/1968 ed il difetto di
motivazione della disposta reiterazione (oltre all’omessa
previsione di indennizzo).
Come è noto, la vicenda dei vincoli preordinati
all’espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale
ovvero in altri strumenti urbanistici prende le mosse dalla
sentenza con la quale la Corte Costituzionale riconobbe
illegittima la disciplina recata dalla legge urbanistica (l.
17.08.1942 n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre
alla proprietà privata, in sede di pianificazione, vincoli
preordinati all' espropriazione, senza alcun limite
temporale e senza indennizzo (Corte Cost., 29.05.1968 n.
55).
A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con
la legge 19.11.1968 n. 1187, il cui art. 2 ha provveduto a
fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli
devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o,
comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento
espropriativo.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez.
V, 03.01.2001 n. 3; sez. IV, 17.04.2003 n. 2015 e 22.06.2004
n. 4426), costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo
quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione,
e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà
incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale,
ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di
scambio.
Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un piano
regolatore che destinano un’area a “verde pubblico
attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della
proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione
dell’intero territorio comunale o di parte di esso, che
incidono su una generalità di beni, in funzione della
destinazione dell’intera zona in cui questi ricadono (Cons.
Stato, sez. IV, 19.03.2008 n. 1095; sez. IV, 12.05.2010 n.
2843).
La decadenza del vincolo non esclude che l’amministrazione,
mediante il ricorso al procedimento per l’adozione delle
varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i
vincoli preordinati all’espropriazione, fornendo congrua
motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di
interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione
(Cons. Stato, sez. IV, 24.09.1997 n. 1013 e 22.06.2004 n.
4397), così da escludere un contenuto vessatorio o comunque
ingiusto dei relativi atti.
Si è, in particolare, affermato quanto all'adeguatezza della
motivazione, che, se in linea di principio può ritenersi
giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, in
occasione di una prima reiterazione, quando il rinnovato
vincolo sia a sua volta decaduto, è necessario che la
motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia
provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi
coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto
degli standard, le esigenze della spesa, ovvero specifici
accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali)
che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad
ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico
(Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2008 n. 4765).
La Corte Costituzionale (sent. 20.05.1999 n. 179, indirizzo
successivamente riconfermato con sent. 18.12.2001 n. 411) ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato
disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. n.
1150/1942 e 2, primo comma, della legge n. 1187/1968 nella
parte in cui consente alla “amministrazione di reiterare
i vincoli urbanistici scaduti, preordinati
all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza
la previsione di indennizzo”.
Secondo la Corte, “la reiterazione in via amministrativa
dei vincoli decaduti (preordinati all’espropriazione o con
carattere sostanzialmente espropriativo) . . . non sono
fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista
costituzionale”, ma tale fenomeno assume aspetti
patologici allorché vi sia una indefinita reiterazione dei
vincoli o una loro proroga sine die, o quando il
limite temporale sia indeterminato.
In presenza delle suddette situazioni patologiche, sorge
obbligo di indennizzo che “opera una volta superato il
periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo
di franchigia)”. In altre parole, la permanenza del
vincolo oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio
dell’espropriazione, “non può essere dissociato ... dalla
previsione di un indennizzo”.
Orbene, alla luce delle considerazioni svolte, ritiene il
Collegio che nel caso di specie, la misura di pianificazione
che ha coinvolto le aree di proprietà degli appellanti non
costituisce né un “vincolo preordinato all’espropriazione”,
né un vincolo “con carattere sostanzialmente
espropriativo”, integrando invece tale misura un’ipotesi
di conformazione del diritto di proprietà che, lungi
dall’incidere sul medesimo, consente anche l’esercizio di
talune possibilità edificatorie, sia pure connesse alla
preesistenza di volumi già edificati (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.05.2013 n. 2432 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il potere del Comune di pianificazione
urbanistica del territorio deve prevedere anche finalità
economico-sociali per la comunità locale.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica
del territorio, la cui attribuzione e conformazione
normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art.
117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente
attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti
di pianificazione, al Comune, non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio
comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti
edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di
pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad
un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla
disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al
massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal
modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina
dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità
economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma
anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre
comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro
di rispetto e positiva attuazione di valori
costituzionalmente tutelati.
Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione
urbanistica, del significato stesso del concetto di “urbanistica”
in senso giuridico e, di conseguenza, del contenuto della
potestà pianificatoria, è stato affrontato da questo
Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10.05.2012 n.
2710, medio tempore pubblicata, con considerazioni che
devono essere riconfermate ai fini della presente decisione.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica
del territorio –la cui attribuzione e conformazione
normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art.
117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente
attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti
di pianificazione, al Comune– non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio
comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti
edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica
che non è limitato solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per
mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico–sociali della comunità locale (non
in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore
costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione
per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito
–al fine di individuare le materie rientranti nella potestà
legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine “urbanistica”,
con la più onnicomprensiva espressione di “governo del
territorio”, certamente più aderente,
contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che
oggi devono ricomprendersi nel citato termine di “urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai
fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative
controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n.
80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne
tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge
17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art.
1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio”
dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in
genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità
edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione
alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle
concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e
paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e
quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze
economico–sociali della comunità radicata sul territorio
(tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in
proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del
modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi
stessi, in considerazione della loro storia, tradizione,
ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla
propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed
autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le
decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora,
attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento
pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è
funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di
ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato
alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica
amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione
di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi
dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma
secondo, Cost..
Alla luce di quanto esposto, la finalità di sostenere
l’esigenza di una “prima casa” dei cittadini
residenti appare del tutto coerente, in generale, con il
potere pianificatorio conferito all’Ente locale dalla legge,
e costituisce –soprattutto in Comuni a vocazione turistica-
una evidente misura di declinazione dello sviluppo edilizio
del territorio con le esigenze abitative della comunità
locale, evitando sfruttamenti intensivi a fini turistici,
tali da snaturare la quotidianità e l’essenza stessa della
comunità locale (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.05.2013 n. 2427 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Area destinata ad edilizia scolastica non
configura vincolo preordinato all’esproprio.
E’ da escludersi che la destinazione
dell’area ad edilizia scolastica possa configurare un
vincolo preordinato all’esproprio, poiché, non sussistendo
alcun impedimento a che alle necessità scolastiche si
provveda mediante soluzioni locative, anziché proprietarie,
il vincolo può ricomprendersi tra quelli che, secondo la
decisione della Corte cost. n. 179 del 1999, "importano una
destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad
iniziativa privata o promiscua pubblico-privata.
In altri termini, dunque, la destinazione scolastica
comporta l’attribuzione al terreno di una vocazione
edificatoria, sia pure specifica, in quanto realizzabile
anche da privati ed inoltre la vocazione edificatoria del
terreno va confermata anche in relazione al fatto che
l'edilizia scolastica elementare costituisce opera di
urbanizzazione secondaria (art. 1, lett. c, in relazione
all'art. 4 della l. n. 847 del 1964), la cui costruzione si
deve considerare funzionale ad una destinazione edificatoria
della zona.
Del pari infondato si palesa il quarto motivo di ricorso,
con il quale è stata sostenuta la natura espropriativa del
vincolo sussistente sull’area interessata dall’intervento.
Si deve premettere, in linea generale, che la differenza tra
i vincoli espropriativi e quelli conformativi sta nel fatto
che, mentre per i primi è necessario che la previsione di
P.R.G. determini una riserva alla mano pubblica della
facoltà di realizzare determinate strutture (pubbliche, per
l’appunto), i secondi lasciano il proprietario nella
condizione di gestire l’eventuale trasformazione
dell'immobile, non intaccando il valore di scambio del bene
in quanto non privano il suo titolare della facoltà di
godimento e di utilizzazione della res.
In linea generale, dunque, i vincoli di piano regolatore, ai
quali si applica il principio della decadenza quinquennale,
sono soltanto quelli che incidono su beni determinati,
assoggettandoli a vincoli preordinati all'espropriazione o a
vincoli che ne comportano l'inedificabilità e dunque
svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul
godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto
alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo
significativo il valore di scambio.
Tanto premesso osserva il Collegio che secondo la prevalente
giurisprudenza, anche della Corte di Cassazione, «è da
escludersi che la destinazione dell’area ad edilizia
scolastica possa configurare un vincolo preordinato
all’esproprio, poiché, non sussistendo alcun impedimento a
che alle necessità scolastiche si provveda mediante
soluzioni locative, anziché proprietarie, il vincolo può
ricomprendersi tra quelli che, secondo la decisione della
Corte cost. n. 179 del 1999, "importano una destinazione
(anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa
privata o promiscua pubblico-privata". In altri termini,
dunque, la destinazione scolastica comporta l’attribuzione
al terreno di una vocazione edificatoria, sia pure
specifica, in quanto realizzabile anche da privati ed
inoltre la vocazione edificatoria del terreno va confermata
anche in relazione al fatto che l'edilizia scolastica
elementare costituisce opera di urbanizzazione secondaria
(art. 1, lett. c, in relazione all'art. 4 della l. n. 847
del 1964), la cui costruzione si deve considerare funzionale
ad una destinazione edificatoria della zona» (cfr. Cass.
civile, sez. I, 21.03.2000, n. 3298; Cass. civile, sez. I,
21.02.2003, n. 2641; si veda altresì, in questa stessa
direzione, TAR Puglia Bari, sez. III, 26.02.2009, n. 403) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 03.05.2013 n. 2281 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edificazione in area agricola.
Le esenzioni poste dall’art. 9 (Concessione gratuita) della
legge n. 10/1977, non dimostrano affatto che la qualifica di
imprenditore agricolo a titolo principale possa rilevare
soltanto ai fini della concessione di benefici economici.
Ciò posto, è facilmente riscontrabile che la scelta di
limitare l’edificazione a scopo residenziale nelle zone
agricole ai soli imprenditori agricoli a titolo principale
trova solida giustificazione nell’esigenza di salvaguardare
la destinazione agricola dell’area, impedendo lo
snaturamento delle sue caratteristiche.
Come ha ben osservato la difesa provinciale, infatti, le
esenzioni poste dall’art. 9 della legge n. 10/1977,
diversamente da quanto parte appellante apoditticamente
afferma, non dimostrano affatto che la qualifica di
imprenditore agricolo a titolo principale possa rilevare
soltanto ai fini della concessione di benefici economici.
Ciò posto, è agevole convenire con la difesa delle
Amministrazioni appellate che la scelta di limitare
l’edificazione a scopo residenziale nelle zone agricole ai
soli imprenditori agricoli a titolo principale trova solida
giustificazione nell’esigenza di salvaguardare la
destinazione agricola dell’area, impedendo lo snaturamento
delle sue caratteristiche (quale quello realizzatosi nella
fattispecie, in cui si è partiti da una concessione
rilasciata per una rimessa per macchine agricole per
costruire poi, di fatto, una villetta).
La Sezione condivide quindi la valutazione di manifesta
infondatezza espressa dal primo Giudice sui dubbi di
legittimità costituzionale formulati in merito dall’attuale
parte appellante. E questo sin dal rilievo del T.A.R. che ha
escluso la sussistenza di una censurabile disparità di
trattamento, facendo notare come la regola dettata dal
legislatore regionale in punto di edificabilità si
ricolleghi non tanto ad una distinzione tra soggetti, quanto
alla destinazione obiettiva degli immobili interessati.
La Corte Costituzionale si è difatti già pronunciata con
chiarezza su queste tematiche.
Con riferimento alla legge della Regione Lombardia
07.06.1980 n. 93 (Norme in materia di edificazione nelle
zone agricole), sospettata di incostituzionalità nella parte
in cui la realizzazione di opere non destinate alla
residenza era subordinata al possesso di particolari
requisiti soggettivi (qualità di imprenditore agricolo o di
figure assimilate) e all'accertamento di un collegamento
funzionale delle opere stesse con l'attività di agricoltura,
la Corte, con la sentenza n. 167 del 16.05.1995, ha
giudicato manifestamente infondati i dubbi dei quali era
stata investita, sulla base della seguente motivazione: “Considerato
che gli artt. 2, primo comma, e 3 della legge della Regione
Lombardia n. 93 del 1980, oggetto di contestazione da parte
del giudice a quo, sono frutto di un'insindacabile scelta
del legislatore regionale, diretta a limitare
l'utilizzazione edilizia dei territori agricoli e a frenare
il processo di erosione dello spazio destinato alle colture,
scelta che ha il proprio fondamento nell'art. 44 della
Costituzione, il quale, " fine di conseguire il razionale
sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti
sociali", facoltizza il legislatore, anche regionale, a
predisporre aiuti e sostegni all'impresa agricola e alla
proprietà coltivatrice;
- che, rispetto a tale ratio legislativa, non può essere
affatto considerata un'irragionevole discriminazione, lesiva
dell'art. 3 della Costituzione, la subordinazione del
rilascio della concessione edilizia sia al possesso della
qualità di imprenditore agricolo o di altra figura
assimilata, sia all'accertamento di un collegamento
funzionale dell'opera con l'attività agricola,essendo
elementi volti a denotare la destinazione effettiva delle
opere alla conduzione del fondo o, in genere, alla attività
di agricoltura;
- che, inoltre, del pari manifestamente infondata risulta la
pretesa violazione dell'art. 117 della Costituzione sotto il
profilo della lesione dei principi fondamentali desumibili
dalle leggi statali in materia urbanistica, poiché, come
questa Corte ha già avuto modo di affermare (v. ordinanze nn.
714 e 709 del 1988), mentre rientra nei poteri del
legislatore in tema di disciplina urbanistica sottoporre a
un trattamento differenziato tanto le zone agricole rispetto
ad altre zone, quanto, all'interno della stessa zona, la
posizione degli imprenditori agricoli o di altre figure
assimilate rispetto a quella di soggetti diversi, nello
stesso tempo l'indicata differenziazione è saldamente
stabilita in disposizioni di legge statale, segnatamente
nell'art. 9 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, recante
"Norme per la edificabilità dei suoli" (a nulla rilevando,
invece, gli altri articoli di legge citati dal giudice a
quo);
- che, infine, la previsione in una legge regionale dei
requisiti, soggettivi e oggettivi, per il rilascio di una
concessione edilizia in zona agricola non può essere
minimamente considerata lesiva dei principi vòlti a
garantire l'autonomia comunale, ai sensi degli artt. 5 e 128
della Costituzione;” (C.Cost., n. 167/1995).
Già prima, peraltro, la Corte costituzionale si era espressa
nello stesso senso sul conto della legge regionale della
Toscana 19.02.1979, n. 10, che, nel disciplinare le nuove
costruzioni in zone agricole e i nuovi edifici rurali per
uso abitativo, nonché le modificazioni degli stessi, non si
sarebbe limitata a prevedere particolari zone di rispetto
agricolo, ma avrebbe disposto un vincolo inedificativo
generalizzato escludendolo solo nei confronti della
categoria degli agricoltori.
Con la sentenza n. 709 del 23.06.1988 la Corte anche in tal
caso ha concluso per la manifesta infondatezza dei dubbi di
costituzionalità, facendo notare, in particolare, che “le
norme in questione non determinano alcuna disparità di
trattamento, in quanto la valutazione sulla edificabilità
delle zone agricole non si ricollega ad una distinzione tra
cittadini, ma solo alla particolare destinazione dei beni"
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2394 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità annullamento del permesso di
costruire, tacitamento assentito per esigenza di
conservazione della zona agricola ed i suoi equilibri
ambientali.
E’ legittimo l’annullamento in autotutela del permesso di
costruire ottenuto con il silenzio-assenso.
Non sussiste la
violazione dell’articolo 21-nonies, della legge n. 241 del
1990, dedotta sotto il profilo della mancanza dei
presupposti per l’esercizio del potere di autotutela avendo,
invece, l’amministrazione evidenziato le ragioni di pubblico
interesse costituite dalla esigenza di “conservazione della
zona agricola ed i suoi equilibri ambientali di spiccata
valenza decongestionante rispetto all’espansione
dell’aggregato urbano”.
8. Né sussiste la violazione dell’articolo 21-nonies, della
legge n. 241 del 1990, dedotta sotto il profilo della
mancanza dei presupposti per l’esercizio del potere di
autotutela avendo, invece, l’amministrazione evidenziato le
ragioni di pubblico interesse costituite dalla esigenza di “conservazione
della zona agricola ed i suoi equilibri ambientali di
spiccata valenza decongestionante rispetto all’espansione
dell’aggregato urbano”.
8.1. Inoltre, il provvedimento impugnato prende in
considerazione la posizione del privato evidenziando la
mancanza di un affidamento consolidato dello stesso, in
virtù del breve tempo trascorso e la circostanza che
l’inizio dei lavori è stato comunicato dopo l’avvio del
procedimento di autotutela (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 02.05.2013 n. 339 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Vincolo di rispetto di una strada o a verde
attrezzato
Non può attribuirsi carattere ablatorio ai vincoli che
regolano la proprietà privata al perseguimento di obiettivi
di interesse generale, quali il vincolo di inedificabilità,
c.d. "di rispetto", a tutela di una strada esistente, a
verde attrezzato, a parco, a zona agricola di pregio, verde,
ecc..
Con la seconda censura i ricorrenti contestano il vincolo
SI.E7 per i mappali 48 e 198, fig. 4 sostenendo la natura di
vincolo espropriativo gravante sull’area e la illegittimità
dello stesso quale reiterazione immotivata di vincolo
scaduto.
L’istruttoria ha chiarito che detta destinazione a “spazi
attrezzati a verde come parchi o giardini connessi ad
attività ricreative e di svago” prevede l’eventuale
esproprio ma consente anche l’intervento di privati previa
convenzione con il comune in cui siano stabiliti i criteri
di gestione sociale dell’attrezzatura stessa.
Ciò premesso la giurisprudenza ha chiarito con un
orientamento giurisprudenziale del tutto consolidato, non
solo presso il giudice amministrativo (si veda anche, ad
esempio, Cass. civ., SS. UU., 25.11.2008, n. 28051) – che
non ogni vincolo posto alla proprietà privata dallo
strumento urbanistico generale ha carattere espropriativo ed
è dunque soggetto alla disciplina relativa. In altri
termini, occorre distinguere tra vincoli espropriativi e
vincoli conformativi, secondo una linea di discrimine che ha
un preciso fondamento costituzionale, in quanto l’art. 42
Cost. prevede separatamente l’espropriazione (terzo comma) e
i limiti che la legge può imporre alla proprietà al fine di
assicurarne la funzione sociale (secondo comma).
Pertanto, i vincoli espropriativi, che sono soggetti alla
scadenza quinquennale, concernono beni determinati, in
funzione della localizzazione puntuale di un'opera pubblica,
la cui realizzazione non può, quindi, coesistere con la
proprietà privata. Non può invece attribuirsi carattere
ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al
perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il
vincolo di inedificabilità, c.d. "di rispetto", a
tutela di una strada esistente, a verde attrezzato, a parco,
a zona agricola di pregio, verde, ecc. (cfr. per tutte,
Cons. Stato, Sez. IV, sentenza 28.12.2012 n. 6700; Cons.
Stato, Sez. IV, 03.12.2010, n 8531; Id., Sez. IV,
23.12.2010, n. 9772; Id., Sez. IV, 13.07.2011, n. 4242; Id.,
Sez. IV, 19.01.2012, n. 244; ivi riferimenti ulteriori) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 02.05.2013 n. 336 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rumore. Zonizzazione acustica comunale, aree particolarmente
protette.
In base a quanto previsto nell’All. A del D.P.C.M.
14.11.1997 sull'inquinamento acustico, sono aree
particolarmente protette quelle in cui la quiete rappresenta
un elemento di base per la loro utilizzazione, e cioè aree
ospedaliere, scolastiche, destinate al riposo ed allo svago,
aree residenziali rurali, aree di particolare interesse
urbanistico, parchi pubblici, ecc.
Nel dettaglio, si è espressamente ritenuto che non
sussistessero nel territorio comunale aree “particolarmente
protette”, dovendosi intendere per “area” una vasta
estensione esclusivamente a ciò destinata.
La semplice sussistenza di edifici destinati ad attrezzature
assistenziali, scuole, aree verdi, non è invece stata
ritenuta sufficiente a giustificare l’identificazione di una
zona specifica di classe I, ad eccezione di un’Oasi
naturalistica.
II) Sotto altro aspetto, si lamenta il mancato inserimento
dell’area nella quale i ricorrenti risiedono, nell’ambito di
quelle classificate “particolarmente protette”.
Osserva il Collegio che, in base a quanto previsto nell’All.
A del D.P.C.M. 14.11.1997, sono aree particolarmente
protette quelle in cui la quiete rappresenta un elemento di
base per la loro utilizzazione, e cioè aree ospedaliere,
scolastiche, destinate al riposo ed allo svago, aree
residenziali rurali, aree di particolare interesse
urbanistico, parchi pubblici, ecc., laddove, neppure dalla
prospettazione offerta dai ricorrenti, risulta che l’area in
questione sia adibita a tali destinazioni o presenti
comunque caratteri corrispondenti ai presupposti di
fattispecie. Ed invero, la presenza dello stabilimento
industriale costituisce elemento incompatibile con la
classificazione pretesa dai ricorrenti.
III) Questi lamentano ancora l’insufficienza della
motivazione con cui il Comune ha ritenuto di classificare le
aree di che trattasi nell’ambito del Piano impugnato.
Osserva preliminarmente il Collegio che un atto di
pianificazione generale, tranne i casi di incidenza su
posizioni consolidate, non ha bisogno di una motivazione
ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri
posti a sua base (C.S., Sez. IV, 02.10.2008 n. 4765).
Il Piano impugnato, ha espressamente enunciato i criteri
utilizzati per la zonizzazione, precisando in generale che “la
classificazione è stata prevista avendo come riferimento la
prevalenza delle attività insediate”.
Nel dettaglio, si è espressamente ritenuto che non
sussistessero nel territorio comunale aree “particolarmente
protette”, dovendosi intendere per “area” una vasta
estensione esclusivamente a ciò destinata. La semplice
sussistenza di edifici destinati ad attrezzature
assistenziali, scuole, aree verdi, non è invece stata
ritenuta sufficiente a giustificare l’identificazione di una
zona specifica di classe I, ad eccezione di un’Oasi
naturalistica (Boza). Quanto precede è stato motivato in
relazione al contenuto della D.G.R. 12.7.2022 n. 9776, in
materia di “criteri tecnici di dettaglio per la redazione
della classificazione acustica del territorio comunale”,
secondo cui “l’individuazione di zone di classe I va
fatta con estrema attenzione, a fronte anche di specifici
rilievi fonometrici che ne supportino la sostenibilità” (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.04.2013 n. 986 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 02.09.2014 |
ã |
L'avevamo già posto tempo fa
l'interrogativo ma lo riproponiamo ancora oggi: cos'è che uccide di più al mondo??
L'INDIFFERENZA !! |
In questi giorni impazzano on-line video di persone,
più o meno famose, che fanno la "doccia
gelata" per dare una mano (contributo economico)
alla lotta contro la S.L.A.
(Sclerosi Laterale Amiotrofica):
una malattia semplicemente
DEVASTANTE se non la peggiore che un
essere umano potrebbe patire.
Ebbene, forse il testimone più autentico di questa
campagna promozionale conoscitiva e di
sensibilizzazione è uno sconosciuto giovane fotografo
statunitense di 26 anni, anch'egli colpito dalla
malattia, che spiega come sia importante che tutti
(ma proprio tutti) prendano coscienza di tale problema sociale e che
tutti (diciamo noi) contribuiscano per incrementare
gli esigui fondi a disposizione e necessari per
finanziare i progetti di ricerca scientifica per
trovare una cura. Tale testimonianza
è visibile
cliccando qui: attenzione
però, prima verificate che le
casse audio siano funzionanti e, soprattutto,
guardate il video sino alla fine poiché, altrimenti,
non capireste il senso profondo della stessa.
Poi, sta alla Tua coscienza e sensibilità:
per fare una donazione alla
ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA
cliccare qui.
Si può donare anche inviando un SMS
al n. 45502
dal 1° al 21 settembre 2014 ... quindi,
scegli la modalità che più Ti aggrada ma dona.
Speriamo di no: ma se un domani dovesse capitare anche
a Te?? Beh, se trovano in fretta una cura si
potrebbe anche correre il rischio ... ma se la cura
tarda ad arrivare perché mancano i fondi della
ricerca allora sì che è un bel kasino ... Quindi |
NON RESTARE
INDIFFERENTE !! |
02.09.2014 - LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
VARI:
FISCO E CASA: ACQUISTO E VENDITA (Agenzia delle Entrate,
agosto 2014). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI: G.U.
28.08.2014 n. 199 "Disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, recante
disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi
contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli
enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e
2 della legge 05.05.2009, n. 42" (D.Lgs.
10.08.2014 n. 126). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Ordinanze ingiunzione e verbale di accertamento
di sanzioni amministrative: richiesta su imputazione oneri e
su notificazione tramite PEC
(Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 28.08.2014 n. 149353 di prot.). |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE -
LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito in Legge
11.08.2014, n. 114. Misure urgenti per la semplificazione e
la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli
uffici giudiziari -
Nota di lettura delle disposizioni in materia di
personale e delle altre disposizioni di interesse per gli
enti locali (ANCI, 27.08.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Oggetto: Rappresentanza di genere nella Giunta comunale
(Prefettura di Avellino,
nota 25.08.2014 n. 17723 di prot.). |
ENTI LOCALI:
Oggetto: Gestione associata delle funzioni fondamentali
degli enti locali ex art. 14, commi da 25 a 31-quater della
legge n. 122/2010 e successive modifiche, in base al testo
come integrato dall'art. 19 della legge n. 135/2012
(Prefettura di Avellino,
nota 22.08.2014 n. 1256 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: uffici di supporto agli organi di direzione
politica – art. 11, comma 4, del decreto legge 90/2014 -
Nota interpretativa ANCI–UPI
(UPI, agosto 2014). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: Ulteriori chiarimenti sui compensi e sulla
facoltà degli Ordini territoriali di rendere pareri di
congruità degli onorari professionali - quadro riassuntivo
(Consiglio Nazionale Ingegneri,
circolare 07.08.2014 n. 408). |
ENTI LOCALI -
VARI:
OGGETTO: Iscrizione della medesima PEC su due distinte
imprese - Richiesta chiarimenti
Ministero dello Sviluppo Economico,
lettera-circolare 09.05.2014 n. 77684 di prot.). |
QUESITI & PARERI |
TRIBUTI: Pertinenzialità
da dimostrare.
Domanda
Vorremmo sapere se
ai fini Imu/Ici è fondato l'assunto di pertinenzialità, e
quindi di non autonoma tassabilità, di un'area
urbanisticamente edificabile limitrofa a un fabbricato in
quanto utilizzata stabilmente come terreno per il deposito
di materiale. Il Comune pretende invece di tassarla in modo
autonomo come terreno edificabile.
Risposta
Del tema si è
occupata di recente la Ctr di Firenze (sent. n. 1067/13/14),
che, nel richiamare l'orientamento giurisprudenziale della
Cassazione, ha posto la prova della pertinenzialità a carico
del contribuente. Più in particolare, la sentenza ha
evidenziato la rilevanza della destinazione urbanistica
(ossia, la qualificazione del terreno come edificabile in
base agli strumenti urbanistici generali adottati) e la
prevalenza di tale criterio rispetto al concetto di
pertinenzialità di cui all'art. 817, 1° c., cod. civ. («Sono
pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o
ad ornamento di un'altra cosa. La destinazione può essere
effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi
ha un diritto reale sulla medesima»), essendo
irrilevante l'uso concreto che il proprietario fa dell'area
e quindi l'eventuale funzione pertinenziale svolta di fatto.
La sentenza ha così richiesto al contribuente di fornire la
prova di un effettivo e durevole asservimento pertinenziale,
non riconducibile a un mero collegamento occasionale, basato
su concreti elementi di fatto, prova rispetto alla quale
possono risultare d'ausilio anche le risultanze catastali.
Nello specifico, non è stato ritenuto sufficiente il
parziale e temporaneo utilizzo quale deposito di materiale,
reputato quale mera esigenza occasionale ovviabile facendo
ricorso a una diversa organizzazione gestionale
dell'attività produttiva, aprendosi diversamente l'accesso,
in modo strumentale, a comportamenti fiscali elusivi
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.09.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
No al vicesindaco affine.
L'incompatibilità opera fino al terzo grado.
Conferimento di carica al consigliere lontano parente del
sindaco.
È possibile conferire la carica di vicesindaco a un
consigliere comunale, nipote del coniuge del sindaco, tenuto
conto della causa d'incompatibilità prevista dall'art. 64,
comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267?
La norma citata, come altre ad essa corrispondenti, persegue
la finalità di evitare il rischio, sia pure potenziale, di
commistioni tra gli interessi pubblici dell'ente
territoriale, che il primo cittadino, nella sua qualità, ha
l'obbligo di garantire e gli interessi privati di suoi
prossimi congiunti, a salvaguardia del principio
d'imparzialità, che deve informare il comportamento Pubblica
amministrazione anche in sede locale (cfr. Corte di
cassazione, sezione I, sentenza 07.02.2001, n. 1733).
In tal senso, la lettera del menzionato art. 64, comma 4, è
chiara nell'escludere che il coniuge, gli ascendenti, i
discendenti, i parenti ed affini entro il terzo grado del
sindaco possano fare parte della giunta o essere nominati
rappresentanti del comune.
Nel caso di specie, tra il primo cittadino dell'ente ed il
soggetto che dovrebbe essere nominato vicesindaco intercorre
un rapporto di affinità in linea collaterale di terzo grado
(cfr. artt. 76 e seguenti del codice civile).
Pertanto, anche alla luce della disciplina dettata dall'art.
46, comma 2, e dall'art. 64, commi 1 e 2, del decreto
legislativo n. 267 del 2000, nella fattispecie sono
ravvisabili gli estremi della prospettata situazione
d'incompatibilità
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Indennità di funzione.
Qual è ammontare corretto dell'indennità di funzione da
corrispondere ai consiglieri comunali, tenuto conto che
l'ente, avvalendosi delle facoltà allora concesse dall'art.
82, comma 1, del decreto 267/2000, aveva determinato in 80
euro la misura del gettone di presenza da corrispondere agli
amministratori comunali e che su tale importo
l'amministrazione comunale ha applicato la decurtazione del
10% prevista dalla legge finanziaria 2006?
Sul sistema delle indennità degli amministratori degli enti
locali è intervenuta la legge n. 266/2005 (Finanziaria 2006)
che, all'articolo 1, comma 54, ha stabilito, «per esigenze
di coordinamento della finanza pubblica», la
rideterminazione in riduzione nella misura del 10%, rispetto
all'ammontare risultante al 30.09.2005, delle
indennità e dei gettoni di presenza spettanti agli
amministratori degli enti locali.
A confermare la vigenza della citata disposizione è
successivamente intervenuta la Sezione Toscana della Corte
dei conti che, con diverse deliberazioni ha ribadito che «la
misura alla quale fare riferimento è quella edittale
decurtata dalla percentuale di cui all'art. 1, comma 54,
della legge n. 266/2005, anche sul presupposto che
l'intenzione del legislatore, con la norma di cui all'art.
76, comma 3, della legge n. 133/2008 che ha introdotto
l'attuale versione dell' art. 82, comma 11, del Tuoel, è
stata quella di negare incrementi delle indennità rispetto
alla misura massima edittale di cui al dm n. 119/2000».
L'effetto di «sterilizzazione permanente» del sistema delle
indennità e dei gettoni di presenza e le connesse
osservazioni formulate con le richiamate decisioni, sono
stati confermati nel parere emesso dalla Sezione regionale
di controllo per la Toscana, con delibera del 23.10.2012, la quale ha riaffermato che dall'entrata in vigore
della disposizione del citato comma 3 dell'art. 76 è venuta
meno la possibilità di corrispondere incrementi sulla misura
della indennità di funzione e gettoni di presenza spettanti
agli amministratori, che vanno determinati in ragione dei
valori edittali di cui al dm n. 119/2000, ridotti della
percentuale prevista dal succitato art. 1, comma 54, della
legge n. 266/2005.
La Corte dei conti –sezione regionale di controllo del
Lazio, con delibera del 01.02.2013, è nuovamente
intervenuta sull'argomento, confermando il consolidato
orientamento; pertanto, non sembrano residuare margini per
un riesame della questione sulla quale peraltro questa
Amministrazione, nel tempo, si è sempre espressa con
argomenti in linea con quelli formulati dalla stessa Corte
dei conti
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2014). |
CORTE DEI CONTI |
LAVORI PUBBLICI:
Il Comune paga "a peso d'oro" la ristrutturazione
della Casa del Fascio.
Condannati il responsabile del Servizio tecnico comunale ed
il responsabile unico del procedimento per errato pagamento
nell'appalto.
Per l'errato pagamento di Euro 89.603,23 nell'appalto per la
ristrutturazione dell'immobile comunale dell'ex "Casa del
Fascio" del Comune di Passirano (BS) la Corte Conti,
Sezione giurisdizionale per la Lombardia, con la
sentenza 13.08.2014 n. 166 ha condannato il
responsabile del Servizio tecnico comunale ed il
responsabile unico del procedimento.
Tutto ruota attorno al pagamento della 5^ rata dello Stato
Avanzamento Lavori effettuata dall'Amministrazione alla
Società appaltatrice, nonostante la notifica
dell’intervenuta cessione dei crediti derivanti dal
contratto d'appalto, che ha, quindi, provocato un
pregiudizio patrimoniale consistente in una fuoriuscita di
denaro dalle casse comunali senza alcuna efficacia
liberatoria per il Comune.
Si tratta di una complessa vicenda giudiziaria dove
peraltro, il responsabile dell'Ufficio Tecnico, il
Responsabile unico del Procedimento ed il Responsabile del
settore Finanziario del Comune di Passirano avevano
sicuramente tirato un sospiro di sollievo quando nel 2011 la
Corte dei Conti con sentenza n. 227 li aveva assolti per
intervenuta prescrizione dell’azione di responsabilità.
La Procura non ci sta e riesce a dimostrare con riferimento
alla posizione del responsabile del procedimento e del
responsabile dell'ufficio tecnico l'avvenuta interruzione
della prescrizione che con una nuova sentenza n. 474/2012
della I Sezione Centrale veniva dichiarata rimettendo la
causa alla Sezione giurisdizionale della Lombardia.
Nel nuovo giudizio il Collegio ha ritenuto negligente la
condotta del Responsabile dell'Ufficio Tecnico che, in tale
ruolo, avrebbe dovuto procedere alla corretta individuazione
del creditore sulla base della documentazione necessaria a
comprovarne il diritto per poi trasmettere l'atto di
liquidazione, con tutti i relativi documenti giustificativi
ed i riferimenti contabili, al Servizio finanziario per i
competenti riscontri.
Il Responsabile dell'Ufficio Tecnico, invece, in violazione
di tali obblighi, ha sottoscritto un atto di liquidazione
nei confronti del soggetto non legittimato pur potendo avere
piena disponibilità della documentazione eventualmente non
esibita dal creditore.
Altrettanto censurabile per il Collegio è la condotta del
Responsabile Unico del Procedimento che nel predisporre
l’atto di liquidazione non ha “previamente valutato le
condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione
ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di
provvedimento”, né ha utilmente fornito “all'Amministrazione
i dati e le informazioni relativi alle principali fasi di
svolgimento del processo attuativo”, omettendo di
avvisare tempestivamente dell’avvenuta cessione il Servizio
finanziario.
Aggiunge la Corte che "Nell’aver effettuato, dunque, un
indebito pagamento privo di efficacia liberatoria nei
confronti della società cedente e nell’aver esposto il
Comune alla legittima richiesta di adempimento da parte
della società cessionaria, richiesta che...è stata comunque
soddisfatta dal Comune, seppure in via stragiudiziale, si
manifesta altresì evidente il nesso causale tra la condotta
dei convenuti ed il danno contestato."
Il conclusione la Corte dei Conti con la sentenza n.
166/2014 ha ritenuto che il danno subito dal Comune di
Passirano per l’indebito pagamento dell’importo di euro
89.603,23 sia ascrivibile nella misura dell’80%, pari ad
euro 71.628,58, alle condotte del responsabile dell'ufficio
tecnico e del responsabile unico del procedimento.
Da ciò la condanna al risarcimento, in favore del Comune di
Passirano della somma di euro 71.628,58 da imputare per il
50% a ciascuno dei convenuti, oltre alla rivalutazione dalla
data dell’avvenuto pagamento (22.09.2003) sino al deposito
della sentenza (13.08.2014) (commento tratto da
www.ilquotidianodellapa.it). |
ENTI LOCALI: Corte dei conti non dà assensi.
I quesiti devono avere carattere generale e astratto.
La Cdc della Campania esclude il via libera preventivo sulle
scelte degli enti locali.
La Corte dei conti non può emanare pareri per gli enti
locali su qualsiasi questione riguardante la contabilità
pubblica. I quesiti devono avere carattere generale e
astratto. Quindi, non devono fare riferimento all'adozione
di specifici atti di gestione, altrimenti l'attività
consultiva si va a sovrapporre all'esercizio di altre
funzioni della Corte, comprese quelle giurisdizionali.
L'amministrazione locale può fare istanza per avere
chiarimenti sui principi di carattere generale
giuridico-contabile. Non può invece richiedere un assenso
preventivo sulla legittimità dell'interpretazione della
normativa da applicare a una specifica attività
amministrativo-gestionale. Altrimenti il quesito è
oggettivamente inammissibile.
È quanto ha affermato la Corte
dei Conti della Campania, sezione di controllo, con il
parere 10.07.2014 n. 179.
Nel caso in esame, un comune della Campania aveva chiesto ai
giudici contabili se fosse possibile escludere la spesa per
Lsu (Lavori socialmente utili), considerata di «utilità
pubblica», dal computo di quella rilevante per l'articolo 9,
comma 28, del dl 78/2010, norma che impone un taglio lineare
del 50% ai contratti a tempo determinato e alle altre forme
flessibili di lavoro.
In effetti, in base a quanto disposto
dall'articolo 8 della legge 131/2003 (legge «La Loggia») le
regioni e gli altri enti locali territoriali possono
richiedere pareri in materia di contabilità pubblica alle
sezioni regionali di controllo della Corte dei conti per una
corretta gestione finanziaria. Per i giudici campani, però,
non è possibile porre la questione nei termini in cui l'ha
posta il comune, in quanto i quesiti, oltre a fare
riferimento a problematiche di contabilità pubblica, «devono
avere carattere generale ed essere astratti, cioè non
direttamente funzionali all'adozione di specifici atti di
gestione che afferiscono alla sfera discrezionale della
potestà amministrativa dell'ente».
L'istanza di parere
presentata, secondo la Corte, non era finalizzata a
individuare i principi di carattere generale giuridico-contabile
che possono orientare l'amministrazione comunale, bensì era
«destinata a ottenere l'assenso “preventivo” di questa
sezione circa la “legittimità” dell'interpretazione della
normativa da applicare a una specifica attività
amministrativo-gestionale». Tra l'altro, viene posto in
rilievo nella delibera che con un precedente parere la
stessa sezione si era già espressa sulla questione sollevata
e aveva avuto modo di chiarire che vanno certamente ritenute
esenti le prestazioni che non sono a carico dell'ente,
remunerate con assegno dell'Inps.
Infine, sottolineano i giudici, la funzione consultiva non
deve mai sovrapporsi all'attività di controllo della Corte e
non può interferire con l'esercizio di funzioni
giurisdizionali in sede civile, penale, amministrativa o
contabile
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Chi non rispetta il Patto non assume.
Deliberazione dei giudici contabili del
Piemonte.
Niente assunzioni se non si rispetta il patto di stabilità
interno.
Con il recente
parere 26.03.2014 n. 59, la sezione
della Corte dei conti, Regione Piemonte, si è espressa sulle
condizioni indispensabili per poter procedere all'assunzione
di personale, anche attraverso la mobilità.
Nel caso di specie, il collegio ha rilevato che per
procedere a trasferimenti per mobilità è necessario che
l'ente che assume sia in grado di certificare, oltre al
rispetto dei parametri del rapporto tra spesa di personale e
spesa corrente ai sensi dell'art. 76, comma 7, dl 112/2008,
come succ. modificato e il rispetto della complessiva spesa
del personale di cui all'art. 1, comma 557, della legge n.
296 del 2006, anche e soprattutto, di essere in linea con le
regole dettate dal patto di stabilità interno.
È costante, nei vari interventi della Corte dei Conti, oltre
all'ossequio dei limiti di spesa, il riferimento al rispetto
del patto di stabilità. In questo senso, a dimostrazione
dell'intensità del richiamo, si è espressa anche la sezione
della regione Puglia, che con deliberazione n. 171/2013 a
precisato che «il divieto di effettuare nuove assunzioni –a
qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale–
posto dall'art. 31, comma 26, della legge n. 183/2011 a
carico degli enti inadempienti al patto di stabilità deve
intendersi esteso anche all'istituto del comando, a
prescindere da qualsiasi altra considerazione di carattere
formale legata alla natura giuridica dell'istituto».
Occorre rilevare, per completezza, che il riferimento al
rispetto del patto di stabilità –pur nel silenzio della
norma– deve essere riferito non solo all'anno precedente
all'assunzione ma anche con riferimento all'anno in cui
l'assunzione stessa viene effettuata.
In questo senso, tra i tanti, anche il parere contenuto
nella deliberazione n. 605/2009 della sezione lombarda della
Corte dei conti secondo cui «il divieto di assunzione di
nuovo personale operi anche nei confronti dell'ente locale
che si trovi nella condizione attuale di non rispettare il
patto di stabilità interno per l'anno 2009» ovvero l'anno in
cui avveniva l'assunzione. Ed in ogni caso «il divieto non
viene meno per il fatto che le nuove assunzioni siano
finalizzate alla sostituzione di personale che verrà a
cessare nel corso dell'anno». In senso analogo, la
deliberazione della sezione regionale della Sardegna n.
78/2011.
Le segnalazioni, che non devono essere sottovalutate,
tendono a rimarcare come sia del tutto irrilevante che
l'assunzione avvenga ad invarianza della spesa se, nell'anno
in cui si procede, l'ente non è in grado di assicurare il
rispetto del patto o, peggio ancora, risulti dal prospetto
degli aggregati (che individuano il margine di azione
consentito all'ente in rapporto all'obiettivo del patto di
stabilità) il mancato rispetto dell'obiettivo in fase
prognostica.
In questo senso, del resto, risultano chiare le stesse
indicazioni della Ragioneria generale riportate nella
circolare n. 6/2014 sulla disciplina del patto di stabilità
interno che impone l'autoapplicazione delle sanzioni –e tra
queste il divieto di assunzione– se in corso d'anno vi sia
chiara evidenza che, alla fine dell'esercizio stesso, il
patto non sarà rispettato.
Più precisamente in tale circostanza, l'autoapplicazione
delle sanzioni in corso di esercizio si configura come un
intervento correttivo e di contenimento che l'ente,
autonomamente, deve porre in essere per recuperare il
prevedibile sforamento del patto di stabilità interno
evidenziato dalla gestione finanziaria dell'anno.
Pertanto, si legge ancora nella circolare del Mef, «deve
ritenersi che il divieto di assunzione di nuovo personale
operi anche nei confronti dell'ente locale che si trovi
nella condizione attuale di non rispettare il patto di
stabilità interno, in quanto diversamente si determinerebbe
un aggravamento della situazione finanziaria dell'ente
medesimo»
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2014). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazioni paesistiche, arriva l'appello al
ministero. Per il primo sì ritorna la conferenza di servizi.
Dl cultura. Riesame a livello centrale per le decisioni
delle soprintendenze.
Per le autorizzazioni
paesaggistiche arriva il giudizio di appello. Con la
conversione in legge del Dl n. 83/2014 sui beni culturali e
il turismo nascono infatti le commissioni per il riesame
delle autorizzazioni necessarie per interventi edilizi su
beni vincolati.
Il testo del Dl 83, entrato in vigore lo scorso 31 luglio,
incide nuovamente sul procedimento di autorizzazione
paesaggistica, stabilito all'articolo 146 del Dlgs 42/2004
e, più in generale, interessa i procedimenti in materia di
beni culturali e paesaggistici.
Riesame in commissione
Rispetto a quanto previsto dall'originario decreto 83/2014,
la legge di conversione introduce nell'articolo 12 del Dl,
al comma 1-bis, una nuova procedura di riesame a livello
centrale dei pareri e degli atti resi dagli organi
periferici del ministero dei Beni e delle attività
culturali. La norma, in particolare, prevede che possano
essere riesaminati da apposite commissioni di garanzia
incaricate della tutela del patrimonio culturale i pareri, i
nulla osta e gli altri atti di assenso comunque denominati
rilasciati dagli organi periferici del ministero
(soprintendenze).
Il riesame potrà avvenire sia d'ufficio, sia a seguito di
segnalazione da parte delle altre amministrazioni coinvolte
nei procedimenti, alle quali è data la facoltà di chiedere
la una nuova valutazione dell'atto amministrativo entro tre
giorni dalla ricezione. Nulla vieta, peraltro, che le
amministrazioni coinvolte si attivino sulla base di
documenti prodotti dai privati o da soggetti coinvolti nel
procedimento in quanto portatori d'interessi diffusi (ad
esempio, associazioni).
Le commissioni di garanzia –previste a livello regionale o
interregionale– potranno riesaminare la decisione entro il
termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione
dell'atto, che viene inviato loro per via telematica
contestualmente alla relativa adozione. Decorso
infruttuosamente il termine di dieci giorni l'atto si
intende tacitamente confermato.
Le commissioni saranno disciplinate mediante il nuovo
regolamento di organizzazione del Mibact (previsto
dall'articolo 14 dello stesso decreto) e saranno costituite
da personale appartenente ai ruoli del ministero stesso che
–per questa funzione– non percepirà alcun compenso, rimborso
o gettone di presenza.
Nelle more dell'adozione del regolamento, il potere di
riesame è attribuito ai comitati regionali di coordinamento
di cui al Dpr 26.11.2007, n. 233.
Si introduce un meccanismo di controllo sugli atti che in
qualche misura incidono sui beni culturali e paesaggistici.
Ma va rilevato che il termine di tre giorni è oggettivamente
molto stretto e potrebbe in diversi casi impedire la
proposizione del ricorso. Inoltre, il termine entro cui
decidere ha sì il vantaggio di evitare lungaggini, ma
potrebbe tradursi in un elevato tasso di silenzio-assenso da
parte delle commissioni ministeriali.
Si torna al testo base
La legge di conversione rivede la scelta iniziale del Dl
83/2014 di eliminare la possibilità di indire una conferenza
di servizi nel caso in cui il soprintendente non renda il
parere previsto nell'ambito del procedimento di
autorizzazione paesaggistica di cui all'articolo 146 del
Codice dei beni culturali entro 45 giorni dalla ricezione
degli atti.
Con l'entrata in vigore della legge di conversione, è stato
ripristinato l'originario dettato dei primi tre periodi del
comma 9 dell'articolo 146: fermo restando l'obbligo in capo
all'amministrazione procedente –di solito, il Comune– di
concludere il procedimento di autorizzazione decorsi 60
giorni dalla ricezione degli atti da parte del
soprintendente, l'amministrazione stessa potrà ancora
chiamare il soprintendente a esprimersi nell'ambito di una
conferenza di servizi.
Tutti gli atti su internet
Un'altra rilevante novità, finalizzata ad assicurare la
trasparenza dei procedimenti di tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale e a favorire lo studio e la ricerca in
materia di beni culturali e paesaggistici, è rappresentata
dalla pubblicità prevista per gli atti assunti dal ministero
nell'esercizio delle funzioni di tutela e valorizzazione
previste dal Codice.
Il nuovo comma 1-ter dell'articolo 12 del Dl 83, introdotto
dalla legge di conversione, dispone infatti che tutti gli
atti aventi rilevanza esterna e i provvedimenti adottati
dagli organi centrali e periferici del ministero dei Beni e
delle attività culturali e del turismo nell'esercizio delle
funzioni di tutela devono essere pubblicati integralmente
nel sito del ministero e in quello, ove esistente,
dell'organo che ha adottato l'atto. L'obbligo di
pubblicazione non intaccherà la riservatezza dei dati
personali. La legge di conversione fa infatti salvo il
rispetto delle disposizioni del Codice della privacy.
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Le tappe
GLI ORGANISMI
L'ultima parola a livello centrale
Incaricate del riesame sono le nuove commissioni di
garanzia, costituite da personale del ministero Beni
culturali e previste a livello regionale o interregionale.
In attesa del regolamento di istituzione, il potere di
riesame è attribuito ai comitati regionali di coordinamento
GLI ATTI
Si parte d'ufficio o su segnalazione
Il riesame può avere ad oggetto i pareri, nulla osta o altri
atti di assenso rilasciati dalle soprintendenze. Può essere
svolto d'ufficio o su segnalazione delle altre
amministrazioni coinvolte nel procedimento, che possono
richiederlo entro tre giorni dalla ricezione dell'atto
IL TERMINE
Dieci giorni di tempo per il giudizio-bis
Le commissioni di garanzia possono riesaminare la decisione
entro il termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione
dell'atto, trasmesso per via telematica dalle
sovrintendenze. Decorso inutilmente il termine di dieci
giorni, l'atto si intende confermato
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Le altre modifiche. Stop allo
sfasamento. Durata allineata con i
titoli abilitativi per il via ai lavori.
Con il decreto cultura, autorizzazione paesaggistica e
titoli abilitativi per i lavori tornano a viaggiare
allineati. La legge n. 106/2014 (di conversione del Dl
83/2014) ha chiarito in modo definitivo che il termine di
efficacia dell'autorizzazione paesaggistica (articolo 146
del Codice dei beni culturali) decorre dalla data di
efficacia del titolo edilizio eventualmente necessario per
gli interventi.
L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento edilizio: è efficace per
cinque anni, scaduti i quali l'esecuzione dei lavori
progettati deve essere sottoposta a una nuova
autorizzazione. Finora l'efficacia decorreva prima del
conseguimento del titolo edilizio e, dunque, invano, perché
senza titolo le opere non risultavano comunque realizzabili.
Ora invece i due procedimenti sono allineati. Ma
l'allineamento viene meno se il provvedimento edilizio viene
rilasciato in ritardo per circostanze imputabili
all'interessato.
La legge di conversione non ha appianato il dibattito sugli
effetti dell'eventuale silenzio della soprintendenza
nell'ambito del procedimento di autorizzazione
paesaggistica.
L'articolo 146 dispone che sull'istanza di autorizzazione si
pronunci la Regione (o l'ente delegato), dopo avere
acquisito il parere del soprintendente, che deve
pronunciarsi entro 45 giorni. La norma prevede poi che «in
ogni caso», dopo 60 giorni dalla ricezione degli atti da
parte del soprintendente, l'amministrazione competente
provvede sulla domanda di autorizzazione.
Ebbene, in caso di mancato rispetto del termine per
l'espressione del parere, secondo parte della giurisprudenza
il potere della soprintendenza continuerebbe a sussistere
(tanto che un parere tardivo resterebbe comunque vincolante)
e all'interessato resterebbe solo la possibilità di
ricorrere al giudice amministrativo per contestare il
silenzio-inadempimento dell'organo statale (Consiglio di
Stato, sezione VI, n. 4914 del 30.07.2013). In quest'ottica,
la perentorietà del termine non riguarderebbe la sussistenza
del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di
concludere la fase del procedimento.
Un'altra tesi giurisprudenziale afferma invece che il
silenzio ha effetto devolutivo e comporta l'assunzione del
pieno potere decisorio sull'istanza di autorizzazione
paesaggistica in capo alla Regione o al soggetto da questa
delegato (Consiglio di Stato, sezione VI, 15.03.2013, n.
1561). In assenza di un chiarimento normativo, spetta ancora
ai giudici amministrativi trovare la bussola
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
SICUREZZA
LAVORO:
Corsi sulla sicurezza da «aggiornare» dopo cinque
anni. Necessarie altre sei ore su argomenti non ripetitivi.
Formazione. La pianificazione a
carico del datore di lavoro.
La formazione
sulla sicurezza obbligatoria per i lavoratori è entrata
ormai nella «fase 2». Esaurita l'emergenza di assicurare una
adeguata formazione a tutti i lavoratori come disposto
dall'Accordo del dicembre 2011, ora il datore di lavoro deve
cominciare a pianificare le nuove scadenze. Il primo ciclo
di formazione per la sicurezza, infatti, rimane valido, per
ogni lavoratore cinque anni dopo il termine del corso. E
dunque per tutti i soggetti coinvolti –lavoratori, preposti
e dirigenti– deve essere effettuato un aggiornamento della
formazione già erogata entro i cinque anni successivi al
completamento del percorso generale di formazione.
La durata dell'aggiornamento è di sei ore complessive, da
erogare con le modalità ritenute più idonee dal datore di
lavoro: un'unica sessione di almeno sei ore o più moduli nel
corso degli anni.
Negli aggiornamenti non potranno essere riproposti argomenti
o contenuti già somministrati nei corsi base ma si dovranno
trattare significative evoluzioni e innovazioni riguardanti
gli approfondimenti giuridico-normativi, aggiornamenti
tecnici sui rischi, organizzazione e gestione della
sicurezza in azienda, fonti di rischio e misure di
prevenzione. Nell'aggiornamento non è compresa la formazione
relativa al trasferimento o cambiamento di mansione e
all'introduzione di nuove attrezzature di lavoro.
Per rendere più dinamico l'apprendimento e garantire un
monitoraggio continuo sull'acquisizione delle competenze, si
possono prevedere verifiche annuali, anche tramite
e-learning, sul mantenimento delle competenze acquisite. Le
verifiche sono per il datore di lavoro uno strumento
importantissimo, soprattutto in caso di infortunio per
fronteggiare eventuali contestazioni sull'inefficacia o
carenza della formazione.
Una volta esaurito l'aggiornamento dei lavoratori in
azienda, il datore di lavoro ha l'obbligo di provvedere a
formare i nuovi assunti che non siano in possesso di
adeguati attestati che provino l'avvenuta formazione, e
adeguare la formazione del lavoratore in caso di mutamento
di mansioni o nel caso in cui il lavoratore provenga da
un'azienda con fattori di rischio minori.
Oltre alle scadenze per l'aggiornamento il datore di lavoro
deve monitorare i problemi pratici e applicativi derivanti
da alcuni passaggi non chiarissimi del testo unico sulla
sicurezza (Dlgs 81/2008). Alcuni chiarimenti sono arrivati
di recente anche dalla Commissione interpelli. Ad esempio
con una risposta a un quesito di Federfarma data l'11 luglio
scorso la Commissione ha chiarito che, terminato il percorso
di formazione sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di
lavoro, il superamento della prova di verifica obbligatoria
è necessario solo per i corsi dei preposti e dei dirigenti e
per il datore di lavoro che svolge direttamente i compiti
del servizio di prevenzione e protezione. Per i lavoratori,
invece, l'accordo Conferenza-Stato Regioni del dicembre 2011
stabilisce che nel caso in cui il corso di formazione sia
erogato con e-learning la verifica finale va fatta «in
presenza», cioè con la diretta supervisione del docente
nel momento del test. Al contrario, se la formazione è
erogata in aula non è obbligatoria la verifica finale per i
lavoratori (mentre lo è per dirigenti e preposti) anche se,
a parere di chi scrive, è opportuno che sia effettuato e
documentato un momento di confronto docenti-discenti, per
dimostrare che la formazione è stata efficace.
Una dimostrazione importante anche per evitare le pesanti
sanzioni: l'articolo 55 del Dlgs 81/2008 prevede la sanzione
dell'arresto da 2 a 4 mesi o l'ammenda da 1.315,20 a
5.699,20 euro per il non corretto adempimento degli obblighi
formativi. E non finisce qui. Infatti, se un infortunio
fosse collegato –come avviene sovente– alla omessa o carente
formazione, sarebbe contestato al datore di lavoro (o al suo
delegato) e al dirigente anche il delitto di lesioni colpose
o omicidio colposo. Inoltre, in caso di lesioni gravi o
gravissime, o omicidio colposo, all'azienda potrebbe essere
contestata la violazione delle norme del Dlgs 231/2001, con
l'applicazione delle sanzioni pecuniarie o interdittive a
carico dell'azienda.
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In sintesi
OBBLIGO FORMATIVO - Coinvolti tutti i
datori
Qualunque soggetto che impieghi lavoratori (come definiti
dall'articolo 2, comma 1, del Dlgs 81/2008 e quindi compresi
tirocinanti, soci di cooperativa, stagisti e così via) deve
formarli in materia di salute e sicurezza sul lavoro con i
contenuti e la durata declinati dagli Accordi della
Conferenza Stato Regioni del 21.12.2011.
Ciascun datore di lavoro individua il percorso formativo in
relazione al codice Ateco dell'azienda per individuare il
livello di rischio applicabile alla situazione specifica:
rischio basso, rischio medio oppure rischio alto
L'E-LEARNING - Interazione necessaria
È consentita la formazione con modalità e-learning (cioè con
aule virtuali, telematiche, forum o chat via internet) nelle
quale operi una piattaforma informatica che consenta
l'interazione fra docente e discenti e fra discenti stessi.
La modalità e-learning è ammessa per la formazione generale
dei lavoratori, per i dirigenti e per gli aggiornamenti
successivi alla formazione obbligatoria, oltre che per
progetti formativi sperimentali individuati dalle Regioni e
Province. Per questi corsi sono obbligatori i test di
verifica dell'apprendimento
LA DURATA - Tempistica legata al rischio
Per i lavoratori
la formazione deve essere di almeno 8 ore, suddivise in 4
ore di formazione generale più 4 di formazione specifica per
le aziende a rischio basso; 4 ore di formazione generale e 8
di formazione specifica per il rischio medio; 4 ore più 12
per il rischio alto.
Per i preposti di tutte le aziende sono obbligatorie altre 8
ore di formazione specifica per la mansione. Per i dirigenti
(come individuati dall'articolo 2 del Testo Unico e pertanto
non solo per coloro che hanno contratto dirigenziale) i
percorsi formativi sono uniformi: 16 ore a prescindere dai
fattori di rischio
L'AGGIORNAMENTO - Vietato ripetere i
contenuti
La formazione
rimane valida per cinque anni. Entro questa scadenza i
lavoratori, i preposti e i dirigenti devono effettuare
almeno sei ore di aggiornamento in relazione ai propri
compiti in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
L'aggiornamento deve riguardare argomenti diversi da quelli
trattati nella formazione generale: non è possibile una mera
riproposizione degli stessi contenuti.
Non può essere qualificata come aggiornamento la formazione
erogata in caso di cambiamento di mansione o derivante
dall'insorgenza di nuovi rischi in azienda
LE SANZIONI - Può scattare anche la «231»
Per l'omessa
formazione, l'articolo 55 del Dlgs 81/2008 prevede a carico
del datore di lavoro la sanzione dell'arresto da due a
quattro mesi o l'ammenda da 1.315,20 a 5.699,20 euro.
Attenzione, però. Le ricadute penali non si fermano a questo
primo livello ma ce n'è un secondo per così dire "indiretto".
Infatti, in caso di infortunio derivante da omessa o non
corretta formazione è prevista anche l'imputazione per
omicidio colposo o lesioni colpose nonché la possibile
contestazione all'azienda di violazioni del Dlgs 231/2001
(responsabilità amministrativa di enti e aziende) (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Compensi aggiuntivi legati al rendimento. Nuove
regole per incentivi di progettazione e onorari dei legali.
Personale. Il Dl 90 stabilisce
l'obbligo di fissare criteri e modalità di erogazione.
Il rendimento del personale dev'essere
valutato ai fini della corresponsione degli incentivi alla
progettazione e degli onorari delle avvocature degli enti
pubblici. Il Dl 90/2014 (convertito nella legge 114/2014)
stabilisce infatti l'obbligo di regolamentare criteri e
modalità di erogazione e decurtazione dei compensi
aggiuntivi ai dipendenti degli enti locali.
L'articolo 13-bis del decreto innova completamente la
disciplina dei fondi per la progettazione e l'innovazione.
L'80% di tale fondo dev'essere ripartito secondo modalità e
criteri da definire in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale non dirigenziale. Il restante 20%
è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti
innovativi, di implementazione delle banche dati per il
controllo e il miglioramento della capacità di spesa per
centri di costo, e all'ammodernamento e accrescimento
dell'efficienza interna e dei servizi ai cittadini.
Gli importi –da stanziare al lordo degli oneri riflessi a
carico dell'amministrazione– debbono essere ripartiti fra il
responsabile del procedimento, i progettisti, i responsabili
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori. Il regolamento
dovrà tenere conto delle effettive responsabilità connesse
alle prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a
quelle che non rientrano nella qualifica funzionale
ricoperta, e dovrà disciplinare criteri e modalità di
riduzione delle risorse finanziarie a fronte di eventuali
incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo, depurato del ribasso
d'asta offerto.
L'incentivo non può essere corrisposto per la progettazione
delle attività manutentive. Le somme complessivamente
corrisposte nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche
da amministrazioni diverse, non possono superare il 50% del
trattamento economico complessivo annuo lordo.
Anche il compenso professionale degli avvocati dev'essere
parametrato al rendimento individuale, secondo criteri
oggettivamente misurabili che tengano conto, tra l'altro,
della puntualità negli adempimenti processuali.
La contrattazione collettiva e i regolamenti interni –da
approvare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione del decreto, pena l'impossibilità
di erogazione di qualunque somma a tale titolo– dovranno
definire le modalità di assegnazione dei contenziosi,
secondo principi di parità di trattamento e specializzazione
professionale. I compensi professionali attribuiti ai legali
non possono comunque superare l'importo annuo corrispondente
al loro trattamento economico complessivo.
Anche i diritti di rogito ai segretari generali subiscono un
taglio. È infatti previsto il versamento all'ente
dell'intera quota dei proventi annuali, a eccezione degli
enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale,
nei quali il segretario rogante, che non deve essere un
dirigente, percepisce il diritto in misura non superiore a
un quinto dello stipendio in godimento
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.201). |
PUBBLICO IMPIEGO: Turni
festivi con bonus limitati. Retribuzioni. La Cassazione
consente un solo «extra» per l'attività domenicale.
L'attività lavorativa prestata di domenica in regime di
turnazione non darebbe diritto alla maggiorazione ex
articolo 24 del Ccnl 14.09.2000 del comparto Enti locali, ma
solo a quella dell'articolo 22, che compensa il disagio
derivante dalla diversa articolazione dell'orario di lavoro
diurno, notturno o festivo.
Con due sentenze riguardanti i Comuni di Teramo e Chieti (n.
7790/2014 e n. 13558/2014), la VI Sez. della
Corte di Cassazione fissa il punto sulla questione della
remunerazione del festivo infrasettimanale del personale in
turno della Polizia municipale.
Il distinguo
Secondo i giudici della Suprema corte, la maggiorazione ex
articolo 24, primo comma, rivendicata nei ricorsi
presupporrebbe l'esistenza di particolari esigenze del
servizio, ossia esigenze straordinarie che esulano dalla
ordinaria articolazione del lavoro e per le quali viene
richiesta la prestazione lavorativa nel giorno destinato al
riposo settimanale. L'ipotesi del cumulo non sarebbe
sostenibile neanche richiamandosi al quarto comma dello
stesso articolo 24 in quanto, anche in questo caso, il
lavoratore dovrebbe lavorare in un giorno destinato a riposo
settimanale.
D'altro canto, sempre secondo i magistrati, il tenore
testuale dell'articolo 22, comma 5, rende palese la volontà
delle parti collettive di attribuire al dipendente, che
presti attività in giorno festivo ricadente nel turno, una
indennità con funzione interamente compensativa del disagio
derivante dalla particolare articolazione del lavoro. Al
personale in turno nella giornata festiva infrasettimanale
spetterebbe dunque il solo compenso previsto dall'articolo
22 del contratto, che stabilisce la misura delle indennità
per il disagio derivante dalla diversa articolazione
dell'orario di lavoro diurno, notturno o festivo. Le
fattispecie previste dai primi tre commi dell'articolo 24
riguarderebbero invece prestazioni di attività lavorative in
giorni non lavorativi, ossia eccedenti rispetto al normale
orario di lavoro.
Le sentenze in questione si pongono in contrapposizione
rispetto all'orientamento espresso dalla Corte di appello di
Milano con la sentenza 1102/2013, depositata il 18.01.2014,
nella quale, ribaltando le valutazioni espresse in primo
grado, i magistrati accoglievano le tesi della Polizia
municipale e delle organizzazioni sindacali, che
rivendicavano la cumulabilità dei compensi indicati negli
articoli 22 e 24.
Questione chiusa
La legge di stabilità 2014, sulla scia della copiosa
giurisprudenza derivante dalle sentenze dei giudici del
lavoro e della Corte di cassazione, aveva disciplinato la
materia per le sole forze di polizia e forze armate,
disponendo l'applicabilità dell'indennità di turno e non il
compenso per lavoro straordinario maggiorato. Le conclusioni
cui giunge la Cassazione sembrerebbero dunque chiudere
definitivamente la questione sul cumulo delle indennità per
i lavoratori turnisti che effettuino attività lavorativa in
giorno festivo infrasettimanale o domenicale (se il riposo è
previsto in un'altra giornata settimanale), con espressa
dichiarazione di rigetto del ricorso perché manifestamente
infondato e condanna alle spese di giudizio e accessorie di
legge
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Forniture e consulenze, il revisore vigila sui
tagli. Contabilità.
Il monitoraggio della riduzione delle spese.
La manovra sui conti pubblici prevista
nel Dl 66/2014 comporta, per quanto riguarda gli enti
locali, un esplicito dovere di controllo da parte
dell'organo di revisione, oltre che una richiesta di
monitoraggio da parte delle sezioni di controllo della Corte
dei conti.
Questo risulta dall'insieme delle disposizioni contenute
nell'articolo 8 e nell'articolo 47. Infatti, il comma 13
dell'articolo 47 prevede che «l'organo di controllo di
regolarità amministrativa e contabile verifica che le misure
di cui ai precedenti commi siano adottate, dandone atto
nella relazione di cui al comma 166 dell'articolo 1 della
legge 23.12.2005, n. 266». Un'analoga prescrizione si
trova anche al comma 7, con riferimento agli obblighi di
Province e Città metropolitane.
Si noti che l'articolo 47 non si preoccupa di equilibri di
bilancio, bensì esclusivamente di «riduzione della spesa
pubblica». Poco importa, in altre parole, se il Comune o
la Città metropolitana hanno aumentato o meno l'imposizione
fiscale: le voci di spesa indicate (per i Comuni) al comma 9
dovranno comunque essere ridotte nella misura indicata dal
ministero dell'Interno. Si tratta di spese per beni e
servizi (alla lettera a del comma 9), oneri per autovetture
(lettera b), incarichi di consulenza, studio e ricerca, e
contratti di collaborazione coordinata e continuativa
(lettera c).
Il mancato rispetto di quanto previsto non è scevro di
conseguenze, almeno in teoria, perché, secondo il comma 11,
«in caso di incapienza, sulla base dei dati comunicati
dal ministero dell'Interno, l'agenzia delle Entrate provvede
al recupero delle somme nei confronti dei Comuni
interessati, all'atto del riversamento agli stessi Comuni
dell'imposta municipale propria».
La norma non obbliga, di per sé, a redigere un bilancio di
previsione che "preannunci" la riduzione di spesa, ma
questa dovrà essere comunque ottenuta nel corso
dell'esercizio, secondo le misure previste dal comma 9 per i
Comuni (e dal comma 2 per Province e Città metropolitane).
Il risparmio dovrà essere ottenuto, si ritiene, in termini
di effettiva erogazione di cassa (non si spiegherebbe,
altrimenti, il riferimento ai codici Siope contenuto
nell'articolo 47) e, per quanto riguarda la «spesa per
beni e servizi» dei Comuni, specificatamente alle voci
di spesa indicate nella tabella A allegata al Dl 66/2014.
Di fatto, il modo più semplice e oggettivo per verificare il
rispetto della norma è quello di prendere i valori al
31.12.del 2013 e verificare, a fine esercizio 2014, se la
riduzione della spesa sia stata effettivamente conseguita.
Viste le conseguenze e l'esplicita richiesta contenuta dal
comma 7 dell'articolo 47, è però opportuno che il collegio
dei revisori si attivi per tempo a effettuare i suoi doveri
di monitoraggio sulla riduzione di spesa, sul cui rispetto
dovrà poi relazionare alla sezione regionale di controllo
competente nel corso della relazione che viene redatta ai
sensi della finanziaria per il 2006. È infatti consigliabile
attuare verifiche periodiche, così da avere tempo e modo per
intervenire nel corso della gestione, se del caso, con
adeguate manovre correttive.
Invero si nutrono non poche perplessità sulle modalità
previste dal Dl 66/2014 per conseguire questo "risparmio
di spesa": l'articolo 47 lede in modo sostanziale
l'autonomia dei Comuni e obbliga a tagli lineari che
ignorano elementi importanti, quali le decisioni di
fiscalità locale, ormai assunte, e le legittime scelte
organizzative degli enti locali (basti pensare a un Comune
che abbia deciso di affidare a terzi un servizio prima
gestito in economia). Questo, però, non esime l'ente dal
rispettare la norma né il collegio dei revisori
dall'attivarsi per il controllo dovuto (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014). |
ENTI LOCALI:
Bilanci, verifiche alleggerite. Controlli. La
Corte dei conti non vigilerà più su regolarità e legittimità
della gestione.
Il decreto competitività (Dl
91/2014, convertito nella legge 116) interviene anche sul
fronte dei controlli. Con l'articolo 33, dal titolo «Semplificazione
e razionalizzazione dei controlli della Corte dei conti»,
si attenuano (commi 1 e 2) gli adempimenti degli enti
territoriali e si incide negativamente sulla continuità e
tempestività della verifica sistematica del magistrato
contabile.
Con ciò si mette a rischio la "bonifica" dei bilanci di
Comuni e Regioni, oggetto di interesse del legislatore sia
nelle norme attuative del federalismo fiscale sia in tema di
modifiche del Tuel e di obblighi a carico delle autonomie
regionali. Nel primo caso il riferimento è al Dlgs 149/2011,
che ha introdotto la relazione di fine mandato comunale
(alla quale si è aggiunta nel 2012 quella di inizio mandato)
e le sanzioni a carico dei sindaci in caso di dissesto, e al
Dlgs 118/2011, riguardante l'armonizzazione dei bilanci,
implementata dal Dlgs 126/2014 («Gazzetta Ufficiale» n. 199
del 28 agosto scorso, supplemento ordinario n. 73; si veda
anche il Sole 24 Ore dell'08.08.2014).
Nel secondo caso è stato il Dl 174/2012 a riscrivere i
sistemi dei controlli interni ed esterni dei Comuni, nonché
a introdurre il giudizio di parifica sui bilanci regionali e
il cosiddetto predissesto per gli enti locali.
Il Dl 91/2014 è nuovamente intervenuto sui controlli
esterni, disciplinati dall'articolo 148 del Tuel,
indebolendo quello esercitato dalle sezioni regionali di
controllo della Corte dei conti. Intanto, ha dimezzato la
frequenza degli interventi routinari di controllo, cui il
magistrato contabile è tenuto nei confronti degli enti
locali: essa è passata da semestrale ad annuale (anche in
relazione ai controlli sulla copertura finanziaria delle
leggi regionali).
Con questo, se da una parte è emersa la volontà del
legislatore di snellire il carico di lavoro della Corte dei
conti, dall'altra è stato sancito un depotenziamento della
filiera dei controlli sui Comuni, resisi sovente
responsabili di ingenti danni al bilancio statale, con
pesanti ricadute fiscali nei confronti delle collettività
amministrate.
Quanto alla portata dell'intervento verificatore del giudice
dei conti, esso risulta sensibilmente affievolito, poiché va
esercitato solo sul funzionamento dei controlli interni, e
non più sulla legittimità e regolarità della gestione. È
scomparsa l'attività di controllo della Corte dei conti sul
piano esecutivo di gestione, regolamenti e atti di
programmazione e pianificazione dei Comuni.
Sono state così depotenziate le competenze delle sezioni
regionali di controllo, già indebolite in relazione alle
dichiarazioni di dissesto conseguenti alla mancata
approvazione dei piani di riequilibrio pluriennali, ex
articolo 243-bis del Tuel, in quanto agli enti locali
destinatari della bocciatura dei piani di rientro è stato
consentito di ripresentarli (quasi) come se nulla fosse (Dl
16/2014). A condizione, però, che il tutto sia concluso e
perfezionato entro mercoledì 3 settembre (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Più tempo per il libretto unico. Fino alla
scadenza si potrà usare il vecchio modello.
Slitta al 15/10 il termine per adeguarsi al nuovo
documento su caldaie e condizionatori.
Per le caldaie e condizionatori il nuovo libretto unico
slitta a ottobre. Prorogata al 15.10.2014, infatti, la
scadenza del libretto unico per gli impianti di
climatizzazione e per i rapporti di efficienza energetica
degli edifici di uffici, aziende e abitazione. Fino al
15.10.2014 nelle operazioni di controllo o negli interventi
sugli impianti termici e nelle nuove installazioni possono
essere utilizzati sia i nuovi che i vecchi modelli di
libretto.
Il ministero dello sviluppo economico ha ritenuto opportuno
prorogare la scadenza fissata al 01.06.2014 al fine di
consentire alle regioni e agli operatori del settore di
avere più tempo per adeguarsi alle nuove disposizioni in
materia di manutenzione e ispezione degli impianti termici
degli edifici.
Con decreto del ministro dello sviluppo economico, del 20
giugno scorso, è stata fissata al 15.10.2014 la scadenza
entro la quale il libretto di impianto per la
climatizzazione e il rapporto di controllo di efficienza
energetica sugli impianti termici di climatizzazione
invernale ed estiva, siano conformi ai modelli di cui al dm
10.02.2014 del Mise. Il 15.10.2014, pertanto, è la data a
partire dalla quale imprese e abitazione dovranno provvedere
alla sostituzione o alla compilazione del nuovo libretto.
La predetta sostituzione può avvenire in occasione e con la
gradualità dei controlli periodici di efficienza energetica
previsti dal dpr 74/2013 o di interventi su chiamata per
guasti o malfunzionamenti. Dalla stessa data il libretto
diventerà obbligatorio anche per i dispositivi di
climatizzazione estiva. Il nuovo libretto non sarà suddiviso
in due distinti modelli (libretti di centrale e l'altro di
impianto), ma sarà costituito da un unico documento,
composto da tante schede, utilizzabili in funzione delle
apparecchiature componenti l'impianto. Nel nuovo libretto
sarà possibile indicare la presenza sia dell'impianto
termico (di qualsiasi potenza) sia dell'impianto di
climatizzazione estiva.
Il libretto di impianto per gli impianti di climatizzazione
invernale e/o estiva sarà disponibile in forma cartacea o
elettronica. Nel primo caso verrà conservato dal
responsabile dell'impianto o eventuale terzo responsabile,
che ne curerà l'aggiornamento dove previsto o mettendolo a
disposizione degli operatori di volta in volta interessati.
Il libretto di impianto elettronico sarà conservato presso
il catasto informatico dell'autorità competente o presso
altro catasto accessibile all'autorità stessa, e verrà
aggiornato di volta in volta dagli operatori interessati,
che potranno accedere mediante una password personale al
libretto.
Rapporto efficienza energetica.
Dal 15 ottobre prossimo dovranno essere utilizzati i nuovi
modelli per il rapporto di efficienza energetica. Il
rapporto di efficienza energetica si compilerà per gli
impianti termici di climatizzazione invernale di potenza
utile nominale maggiore di 10 Kw e di climatizzazione estiva
di potenza utile nominale maggiore di 12 Kw, con o senza
produzione di acqua calda sanitaria. Gli impianti termici
alimentati esclusivamente da fonti rinnovabili non rientrano
negli impianti soggetti a compilazione del rapporto
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.09.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Il cliente può sempre pagare con il Pos. Il
professionista senza apparecchiatura non rischia sanzioni ma
la «mora del creditore».
Tecnicamente quello di dotarsi del Pos non è un "obbligo",
ma un "onere". Nella pratica, significa che il
cliente può pretendere di pagare con il bancomat. Con
diverse ricadute a livello operativo. Ma andiamo con ordine.
Il 30.06.2014 -per effetto dell'articolo 9, comma 15-bis,
del DI Milleproroghe 150/2013- è scattato l'obbligo per
tutte le imprese e i professionisti di accettare pagamenti
effettuati attraverso carte di debito (Bancomat).
La norma è contenuta nell'articolo 15, comma 4, del Dl
179/2012 (convertito dalla 221/2012) e si applica a tutti i
pagamenti superiori a 30 curo, come previsto dall'articolo 3
del decreto del ministero dello Sviluppo economico del
24.01.2014.
Con questa previsione si attribuisce al pagamento effettuato
tramite Pos (Point of sale) la stessa efficacia
liberatoria del pagamento "in contanti" ex articolo
1277 del Codice civile, con la possibilità per il
consumatore o l'utente di scegliere la tipologia di
pagamento preferita. Per il destinatario del pagamento
(professionista, artigiano o impresa), è sorto quindi
l'obbligo di attrezzarsi, per garantire al cliente (...
continua) (articolo
Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus antisismico 50-65% per tutti.
Salta la limitazione ai soli Comuni a rischio - Lupi:
100mila posti con lo sblocca Italia.
Sgravi fiscali tra il 50
e il 65% estesi a tutto il territorio nazionale per la spesa
sostenuta negli interventi di adeguamento e consolidamento
antisismico. Tutto questo a partire dal 2015. Nessun
intervento invece sullo "storico" bonus fiscale sulle
ristrutturazioni edilizie, attualmente al 50%, che scadrà a
fine anno riducendosi al 40 per cento. Prorogato invece lo
sgravio del 65% sui lavori dei efficientamento energetico
dell'edificio. È stato il premier Renzi a volere fortemente
la misura anche se l'Economia aveva proposto nei testi di
entrata una riduzione al 50% della misura a partire dal
2015.
È in questi termini la questione dei bonus fiscali sui
lavori edili -così come è stato affrontata nel Consiglio
dei ministri di venerdì- e sui quali il governo non ha
ancora alzato ufficialmente il sipario. Non mancano, quindi,
le questioni da dirimere nel decreto Sblocca-Italia, sul
quale però si ripone molta fiducia: il ministro delle
Infrastrutture, Maurizio Lupi, ieri ha sottolineato che
l'esecutivo stima «almeno 100mila posti di lavoro che
possono derivare» dal provvedimento.
Il premier Matteo Renzi ha voluto a tutti i costi la proroga
dello sgravio sulle riqualificazioni energetiche. L'Economia
ha opposto i soliti argomenti di equilibrio di bilancio. Non
è escluso che la questione venga ripresa e affrontata in
occasione della legge di stabilità.
La novità più dirompente è l'ampliamento degli sgravi
fiscali sui consolidamenti edilizi, possibilità attualmente
limitata geograficamente alle zone di massima pericolosità
sismica. La proposta è di poter scontare un importo tra il
50% e il 65% della spesa sostenuta fino a un massimo di
60mila euro, cumulando anche lo sgravio con gli interventi
di riqualificazione energetica.
L'attuazione non sarà immediata. L'effettiva possibilità di
cumulare lo sgravio dei lavori antisismici con quelli
dell'efficienza energetica è infatti rinviata a un Dm
attuativo da definire tra Mef, ministero dell'Interno e
Protezione civile. Il provvedimento dovrà anche fissare
delle «linee guida per la definizione e la classificazione
del rischio sismico degli edifici», incluse «procedure di
controllo e modalità di attuazione». Per il 2015 si è
rischiato invece il doppio depotenziamento dell'attuale
bonus sulle riqualificazioni con aumento di efficienza
energetica. Il bonus ha rischiato di scendere dal 65% al 50%
mentre la detrazione massima si è pensato a una
rimodulazione da 100mila a 96mila euro. Ridimensionamento
sempre per motivi di copertura.
Stessa cosa per l'altro bonus, quello del 50% sui lavori di
ristrutturazione edilizia, che viene appunto abbandonato
alla naturale scadenza a fine anno, con il passaggio
automatico dello sgravio dal 50% al 40 per cento.
In base alle ultime elaborazioni del rapporto a cura del
centro studi della Camera dei deputati-Cresme sull'impatto
degli incentivi fiscali alle ristrutturazioni e
all'efficienza energetica (si veda Il Sole 24 Ore del 29.07.2014) il bonus del 65% metterà in moto quest'anno
investimenti per oltre 4,8 miliardi (esattamente 4.851
milioni). La previsione individua i soli lavori incentivati,
ed è stata ricavata dall'analogo valore stimato per 2013,
incrementato del 20 per cento.
Se si assume come plausibile la stima Cresme-Camera dei
deputati, si deduce che la copertura necessaria sarebbe di
315 milioni l'anno per 10 anni. Ripetendo il calcolo con la
nuova detrazione al 50% si ottiene una cifra di 242 milioni.
Se questo è l'ordine di grandezza, appare difficile capire
la resistenza dell'Economia di fronte a una copertura
aggiuntiva di appena 73 milioni l'anno per 10 anni che evita
di depotenziare fortemente lo strumento.
Riducendo l'aliquota dal 65% al 50% verrebbe meno gran parte
dell'appeal di questa misura che, negli anni (insieme
all'analogo sgravio sulle ristrutturazioni edilizie), ha
dimostrato un potente effetto keynesiano: dal 1998 al 2013
il bonus sulle ristrutturazioni edilizie ha stimolato
investimenti per oltre 132 miliardi da parte di quasi 7,5
milioni di famiglie. E il bonus del 65% tra 2007 e 2013 ha
stimolato 22,3 miliardi di investimenti per oltre 1,9
milioni di richiedenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Resta
la responsabilità solidale negli appalti. Sovrintendenti
senza veto.
Lo Sblocca-Italia viaggia
in retromarcia. Il ministero dell'Economia e Palazzo Chigi
hanno lavorato per sottrazione al decreto approvato venerdì
scorso dal Governo, con l'obiettivo di rivitalizzare alcuni
settori strategici per il Paese.
Il testo, partito
all'inizio della scorsa settimana da un centinaio di
articoli, è dimagrito un poco per volta, anche per effetto
delle richieste del Quirinale di evitare provvedimenti
omnibus. Così, all'uscita del Consiglio dei ministri, è
stato dimezzato a una cinquantina di articoli. Nel giro di
poche ore, insomma, ci sono state parecchie defezioni
eccellenti.
Come ha sottolineato il sottosegretario alla presidenza del
Consiglio Graziano Delrio, è saltata la norma che avrebbe
dovuto portare alla potatura delle partecipate degli enti
locali: sarà oggetto della prossima legge di stabilità.
Questa parte del provvedimento, però, è in buona compagnia.
Soprattutto gli interventi legati all'edilizia e al settore
dei lavori pubblici sono stati passati al setaccio dai
tecnici, che hanno fatto molte vittime. Per cominciare, le
stazioni appaltanti italiane non potranno più sperare
nell'ennesima proroga, stavolta a gennaio 2015, del sistema
di verifica informatizzata dei requisiti delle imprese per
l'accesso alle gare, il cosiddetto "Avcpass". Alla vigilia
del Cdm pareva praticamente certa, ma è stata cassata.
Allo stesso modo, è stato cancellato lo sblocca cantieri
minori: si trattava di un nuovo modello di appalto riservato
alle piccole opere di importo complessivo compreso tra
200mila e 1 milione di euro, totalmente innovativo rispetto
agli attuali sistemi di selezione delle imprese. Era
previsto un contratto "chiavi in mano", senza possibilità di
varianti in corso d'opera. Nel pacchetto dedicato alle opere
pubbliche, è venuta meno anche una novità strategica per le
imprese: la cancellazione della responsabilità solidale
fiscale tra appaltatore e subappaltatore. Ed è andata al
macero la semplificazione delle autorizzazioni
paesaggistiche per gli impianti da rinnovabili.
Qualcosa, comunque, è rimasto. In tema di autorizzazioni
paesaggistiche, resta in vita la riduzione dei poteri di
veto dei sovrintendenti. Così come viene confermata la norma
che prevede la possibilità di avviare con una semplice
comunicazione gli interventi di ristrutturazione del proprio
immobile. E viene regolato il cosiddetto "overdesign", il
principio in base al quale «non possono essere richieste
modifiche dei progetti delle opere pubbliche rispondenti a
standard tecnici» che impongano livelli di sicurezza
superiori a quelli definiti dalle norme europee. Per andare
oltre questi limiti bisognerà presentare un'analisi di
sostenibilità economica e una stima dei tempi di attuazione (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Per il Sistri una gara europea.
Sanzioni fino a 100mila euro per chi commercializza
sacchetti non biodegradabili.
Ambiente. Nel Dl 91/14 proroga della «vecchia» gestione al
31.12.2015 e bando in cantiere entro il prossimo 30
giugno.
Le
novità ambientali contenute nella legge 116/2014 di
conversione del decreto 91/2014 (Dl competitività, in vigore
dal 21.08.2014) sono molte e spaziano dalla conferma del
Sistri (che, con apposito decreto sarà interconnesso con il
Corpo forestale dello Stato) e altre puntuali disposizioni
in materia di gestione dei rifiuti, fino ad arrivare a
dragaggi, valutazione di impatto ambientale, rumore,
bonifiche e accelerazione degli interventi a tutela dal
rischio idrogeologico. Partono le sanzioni (da 2.500 euro a
25mila euro, aumentate fino a 100mila euro per ingenti
quantità) previste dal Dl 2/2012 per la commercializzazione di
sacchi di plastica non biodegradabili e compostabili.
Le disposizioni più rilevanti in materia di gestione dei
rifiuti riguardano il Sistri, la classificazione dei
pericolosi, le autorizzazioni per la miscelazione; gli oli
minerali usati; il coordinamento tra l'"end of waste" e le
procedure semplificate per il recupero.
Il Sistri si protrae fino al 31.12.2015 e da questa
data il contratto tra il ministero dell'Ambiente e Selex
Se.Ma. Spa perderà la sua efficacia. Entro il 30.06.2015
il Ministero bandirà una gara europea per affidare la
concessione del servizio di tracciamento informatico dei
rifiuti nel rispetto del Dlgs 163/2006 (contratti pubblici per
lavori, servizi e forniture). Selex sarà indennizzata dei
costi di produzione consuntivati al 31.12.2015 con «i
contributi versati dagli operatori alla predetta data». Non
è stata approvata alcuna delle numerose semplificazioni
proposte dal mondo imprenditoriale e slitta dal 3 marzo al
31.12.2014 il termine entro cui il ministro
dell'Ambiente semplificherà e ottimizzerà il Sistri.
L'articolo 13 della nuova legge presenta i rifiuti
classificati con codice europeo (Cer) come pericolosi o non
pericolosi «assoluti» (sono quelli privi di voci speculari).
Per i pericolosi sarà però necessario ricercare le
caratteristiche di pericolo (che la nuova legge chiama con
il non condivisibile neologismo «proprietà di pericolo»).
Per i rifiuti con Cer speculari (stesso rifiuto a volte
pericoloso e a volte no) sono stabilite le indagini per
capire il versante al quale ascriverlo. Se l'analisi non
rileva i composti del rifiuto occorre riferirsi a quelli
«peggiori». La modifica rischia di non risolvere i problemi,
perché il raggio d'azione è troppo ampio, sarebbe invece
stato opportuno che i composti «peggiori» fossero
individuati come quelli pertinenti al processo.
Le autorizzazioni per la miscelazione di rifiuti speciali in
possesso di impianti di recupero/smaltimento di rifiuti
ottenute prima dell'entrata in vigore del Dlgs 205/2010 (25.12.2010) restano in vigore fino alla loro revisione.
Il trattamento dei rifiuti disciplinato dai regolamenti Ue
sull'"end of waste" si coordina con le procedure nazionali
per il recupero agevolato: il trattamento previsto dai
Regolamenti Ue può essere autorizzato in forma agevolata nel
rispetto di requisiti, criteri, prescrizioni e destinazione
finale ivi stabiliti. Gli enti e le imprese che effettuano
recupero agevolato di rifiuti ai quali si applicano i
Regolamenti Ue in materia di "end of waste" adeguano le
attività a tali Regolamenti entro i sei mesi successivi alla
loro entrata in vigore. Diversamente, entro tale termine,
dovranno accedere al regime autorizzatorio ordinario. Fino
ad allora potranno operare con le regole nazionali del
recupero agevolato (Dm 05.02.1998, Dm 161/2002, Dm 269/2005
e articolo 9-bis legge 210/08), che restano ferme per quanto
riguarda le quantità massime recuperabili.
Recuperi ambientali, rilevati, sottofondi stradali,
ferroviari e aeroportuali e piazzali potranno essere
realizzati con le materie prime secondarie per l'edilizia
conformi all'allegato C, Circolare Minambiente 15.07.2005, n. UL/2005/5205.
Il Presidente della Regione Lazio per affrontare l'emergenza
rifiuti può requisire in uso gli impianti e avvalersi del
personale.
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Nel decreto competitività.
Le principali novità in materia di gestione rifiuti
contenute nel Dl 91/2014.
SISTRI
Il Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti è
stato confermato fino alla data del 31.12.2015. Da
questa data il contratto tra ministero dell'Ambiente e il
concessionario del servizio Selex Se. Ma Spa perderà la sua
efficacia. La Selex, tuttavia, sarà indennizzata dei costi
di produzione consuntivati al 31.12.2015 attraverso «i
contributi versati dagli operatori
alla predetta data»
RIFIUTI PERICOLOSI
Per i rifiuti classificati con codice europeo i quali
abbiano voce speculare (stesso rifiuto a volte pericoloso e
a volte no) nell'articolo 13 della legge 116/2014 sono
stabilite le indagini da condurre. Se l'analisi non rileva i
composti del rifiuto occorre riferirsi a quelli «peggiori».
Così, però, il raggio d'azione appare troppo ampi, per cui
sarebbe stato probabilmente opportuno riferirsi ai composti
pertinenti al processo
MISCELAZIONE
Le autorizzazioni per la miscelazione di rifiuti speciali in
possesso di impianti di recupero/smaltimento di rifiuti
ottenute prima dell'entrata in vigore del Dlgs 205/2010
(25.12.2010) restano in vigore fino alla loro revisione.
Sono previste dall'articolo 187, comma 2, del Dlgs 152/2006
in deroga al divieto di miscelazione dei rifiuti pericolosi
dotati di diverse caratteristiche di pericolo o dei rifiuti
pericolosi con quelli non pericolosi
END OF WASTE
Il trattamento dei rifiuti previsto dai regolamenti
dell'Unione europea può essere autorizzato in forma
agevolata nel rispetto di quanto stabilito da tali
regolamenti. L'operatore che effettua recupero agevolato di
rifiuti ai quali si applicano i regolamenti Ue di «end of
waste» si adegua a tali regolamenti entro i sei mesi
successivi alla loro entrata in vigore
PROCEDURA BONIFICHE
Entro 90 giorni dalla convocazione della Conferenza di
servizi, la Regione adotta l'atto finale. Entro 30 giorni
dalla comunicazione dell'assenso, l'impresa comunica
all'Autorità competente e all'Arpa la data d'avvio della
bonifica che si deve concludere nei successivi 18 mesi,
salvo proroga non superiore a sei mesi. Diversamente, la
bonifica rientra nella procedura ordinaria
FILOSOFIA BONIFICHE
La procedura semplificata prevista dalla nuova normativa si
fonda sul più rigoroso approccio cosiddetto Csc
(Concentrazione soglia di contaminazione) che impone un
obiettivo certo di risanamento con la riduzione della
contaminazione ad un livello uguale o inferiore ai limiti
tabellari. In questa maniera ciò che rileva è il controllo
successivo del raggiungimento o meno delle soglie di Csc (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Suoli inquinati, procedure più snelle.
Bonifiche. Viene meno la caratterizzazione preliminare sotto
la supervisione delle autorità.
Tra le novità ambientali
contenute nella legge 116/2014 le semplificazioni in materia
di bonifiche occupano un posto di grande rilievo e si
applicano anche alle procedure di bonifica e di messa in
sicurezza attualmente in corso e bloccate da anni.
Infatti, i risultati raggiunti in 15 anni di vigenza della
disciplina sulle bonifiche, di fatto non applicabile né dal
pubblico, né dal privato, sono stati decisamente scarsi. Un
esito pessimo dovuto solo al bizantinismo di regole e
procedure che l'articolo 13 della nuova legge prova a
superare mediante l'individuazione di procedure di bonifica
e di messa in sicurezza dei siti contaminati più rapide,
semplici ed efficienti.
Si prevede, infatti, un'inversione della procedura ordinaria
mediante l'inserimento del nuovo articolo 242-bis nel
"Codice ambientale" (Dlgs 152/2006). Questo contiene la
possibilità per le imprese di accedere ad una procedura
semplificata per le operazioni di bonifica dei suoli
contaminati (di interesse nazionale e regionale).
Il concetto posto a fondamento della novità risiede
nell'applicazione del più rigoroso approccio Csc
(Concentrazione soglia di contaminazione), il quale impone
un obiettivo certo di risanamento con la riduzione della
contaminazione ad un livello uguale o inferiore ai limiti
tabellari di Csc. In tal modo, pertanto, non occorre una
verifica preventiva dei progetti e delle metodiche di
intervento, perché ciò che rileva è il controllo successivo
in ordine al raggiungimento o meno delle soglie di Csc.
Nel concreto, infatti, a differenza del sistema ordinario,
la nuova procedura non prefigura alcuna autorizzazione per
il progetto di bonifica, per le metodologie di intervento e
per la caratterizzazione.
Essa, infatti, prevede che l'operatore possa presentare
all'Autorità competente il progetto completo degli
interventi programmati in base ai dati dello stato di
contaminazione del sito, nonché del cronoprogramma di
svolgimento dei lavori per raggiungere i valori tabellari di
legge riferiti alla specifica destinazione d'uso del sito.
Pertanto, non sarà più necessario caratterizzare
preliminarmente il sito sotto la supervisione delle
autorità. Sarà, invece, possibile raccogliere autonomamente
le informazioni per la bonifica. Dovrà essere privilegiato
il riutilizzo in situ dei materiali trattati.
La procedura semplificata consiste in un'unica conferenza di
servizi, con la quale la Regione territorialmente competente
rilascia le autorizzazioni e i permessi necessari alle opere
e alle attività per realizzare la bonifica (ad esempio,
permesso di costruire, autorizzazione agli scarichi). Entro
90 giorni dalla convocazione, la Regione adotta l'atto
finale di assenso, sostitutivo di ogni altra autorizzazione,
comunque denominata. Entro 30 giorni dalla comunicazione
dell'atto di assenso, l'impresa comunica all'Autorità
competente e all'Arpa la data di avvio dell'esecuzione della
bonifica che si deve concludere nei successivi 18 mesi,
salvo proroga non superiore a sei mesi. Decorso inutilmente
tale termine, salvo motivata sospensione, la bonifica
rientra nella procedura ordinaria di cui agli articoli 242 o
252 del Dlgs 152/2006.
Alla fine dei lavori di bonifica, l'impresa presenta il
piano di caratterizzazione all'Autorità competente per
verificare il conseguimento dei valori di Csc. Il piano è
approvato nei successivi 45 giorni. Decorso inutilmente tale
termine, in via sperimentale, per i procedimenti avviati
entro il 31.12.2017 il piano di caratterizzazione si
intende approvato. Il piano è eseguito in contraddittorio
con l'Arpa, che valida i relativi dati e ne dà comunicazione
all'autorità competente entro 45 giorni.
La validazione del piano di campionamento di collaudo finale
da parte dell'Arpa costituisce certificazione dell'avvenuta
bonifica del suolo
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Distacchi sindacali tagliati da domani.
Pubblico impiego. Operativo il dimezzamento delle quote.
Diventa operativa a
partire da domani la riforma dei distacchi sindacali,
contenuta nell'articolo 7 del decreto legge 24.06.2014
n. 90 (convertito dalla legge 114/2014).
La norma riduce l'entità complessiva dei distacchi, delle
aspettative e dei permessi sindacali attribuiti al personale
delle pubbliche amministrazioni. Con la nozione di "distacco
sindacale" si fa riferimento al diritto, riconosciuto ai
dipendenti pubblici, di svolgere, a tempo pieno o parziale,
attività sindacale, con la conseguente sospensione
dell'attività lavorativa, mantenendo tutte le altre
prerogative del rapporto di lavoro (compresa la
retribuzione).
La riforma prevede una regola molto semplice: le prerogative
esistenti sono ridotte del 50% per ciascuna associazione
sindacale (regole speciali sono previste per le forze di
polizia e per i vigili del fuoco; la legge stabilisce che
alla riunioni sindacali possa partecipare un solo
rappresentante per associazione). Come chiarito dalla
circolare 5/15 del ministero della Funzione pubblica, la
decurtazione del 50% non trova applicazione qualora
l'associazione sindacale sia titolare di un solo distacco
sindacale.
La legge precisa che il contingente complessivo dei
distacchi, dopo la riduzione del 50%, potrà essere
nuovamente ripartito tra le associazioni sindacali mediante
contratto collettivo.
La riforma riduce anche i distacchi che sono fruiti facendo
ricorso al cumulo delle ore di permesso retribuito; per tali
prerogative sindacali si applicano gli stessi principi
enunciati per i distacchi sindacali.
Come chiarito ancora dalla circolare 5/14, il dipendente che
riprende servizio al termine del distacco può, a domanda,
essere trasferito –con precedenza rispetto agli altri
richiedenti– in altra sede della propria amministrazione
quando dimostri di aver svolto attività sindacale e di aver
avuto il domicilio nell'ultimo anno nella sede richiesta.
Inoltre, il dipendente che rientra in servizio è ricollocato
in servizio recuperando la posizione di provenienza, con
l'aggiunta delle anzianità maturate.
La circolare ministeriale ricorda, altresì, che il
dipendente non può essere discriminato per l'attività svolta
quale dirigente sindacale, né può essere assegnato ad
attività che facciano sorgere conflitti di interesse con la
stessa.
La riforma, come accennato, si occupa anche dei permessi: la
riduzione del 50% si applica anche al monte-ore complessivo
dei permessi sindacali retribuiti concessi
dall'amministrazione di appartenenza ai dirigenti delle
associazioni sindacali per l'espletamento del proprio
mandato.
La circolare 5/14 ricorda che la riduzione del 50% non si
applica alle aspettative sindacali non retribuite, ai
permessi non retribuiti e ai permessi per la partecipazione
a riunioni sindacali su convocazione dell'amministrazione
per il solo personale della carriera diplomatica e della
carriera prefettizia, in quanto per essi non è previsto
alcun contingente.
L'attuazione della riforma passa per la comunicazione, entro
la data odierna, da parte delle organizzazioni sindacali
alle amministrazioni competenti dei distacchi sindacali non
più spettanti. Il ministero della Funzione pubblica si
occuperà di verificare, a consuntivo, il rispetto dei limiti
derivanti dalla riduzione.
Ma cosa accade se un'organizzazione sindacale supera questi
limiti?
Per le prerogative sindacali utilizzate in eccedenza si
applica la regola, già contenuta nella contrattazione
collettiva, la quale impone la restituzione del
corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti; in
mancanza, si dovrà operare la compensazione nel corso
dell'anno successivo, quando sarà detratto dal monte-ore di
spettanza delle singole associazioni sindacali il numero di
ore risultate eccedenti nell'anno precedente, fino al
completo recupero (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non si pagano più gli oneri per dividere
l'appartamento. Nuovi edifici, obbligatoria la ricarica
delle auto elettriche.
Ristrutturazioni immobiliari più veloci e con meno costi. In
attesa che con la legge di Stabilità il governo confermi
anche per i prossimi anni i bonus fiscali sui lavori di
manutenzione, il decreto presentato venerdì scorso, e noto
per ora solo in bozza poiché ancora in attesa di
pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, prevede un iter più
snello per alcune operazioni di riconversione degli
immobili.
La norma che appare destinata ad avere il maggiore impatto
sui proprietari di casa è la possibilità di effettuare con
una semplice comunicazione di inizio lavori «asseverata
» da un professionista l'accorpamento di due o più
appartamenti in uno o, al contrario, il frazionamento di un
immobile grande in due o più unità. L'accorpamento oggi è
praticamente obbligatorio in tutti i casi in cui il
proprietario abbia diritto su uno degli immobili
all'esenzione dell'Imu perché si tratta di abitazione
principale. Unendo le unità adiacenti l'esenzione si
trasmette a tutto l'appartamento che si viene a realizzare.
La suddivisione di unità immobiliari, invece, è un caso che
si verifica sempre più frequente sugli immobili di grande
dimensione, per riuscire a venderne una parte alleggerendo i
costi di gestione.
La bozza del decreto assimila accorpamento e frazionamento
alla manutenzione straordinaria (e quindi alla procedura
semplificata prevista per questa categoria di opere) alla
sola condizione che non vi sia il cambio di destinazione
degli immobili: in pratica non si può realizzare con iter
facilitato l'accorpamento tra una casa e un ufficio o
ricavare da un grande ufficio uno studio e una casa. (...
continua) (articolo
Corriere della Sera del 31.08.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Casa, ristrutturazioni in libertà. Se non cambiano i volumi
basterà una comunicazione. Il consiglio dei ministri ha approvato il dl sblocca Italia
e il pacchetto sulla giustizia.
Ristrutturazioni in libertà. Per risistemare casa non sarà
più necessario chiedere l'autorizzazione al comune ma
basterà una semplice comunicazione, a patto di non
modificare i volumi. E per divorziare si andrà
dall'ufficiale di stato civile. Se il rapporto matrimoniale
si interrompe consensualmente e non ci sono figli non sarà
più necessario passare per le aule del tribunale.
Sono solo due delle tante disposizioni contenute nel decreto
sblocca Italia e nel pacchetto di riforma della giustizia,
approvati ieri dal consiglio dei ministri. Mentre per la
riforma della scuola si dovrà aspettare mercoledì.
Il
governo, oltre al decreto legge con le misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive e al dl con le misure
urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per
la definizione dell'arretrato in materia di processo civile,
anche altri cinque disegni di legge tre dei quali delegano
il governo a intervenire sul processo civile, a riformare la
magistratura onoraria e a rivedere le norme in materia di
estradizione. Con altri due disegni di legge, sempre in
materia di giustizia, si interviene poi sulla responsabilità
civile dei magistrati e sul processo penale.
Sblocca Italia. Le misure approvate con il decreto legge
sblocca Italia, secondo quanto annunciato in conferenza
stampa dal presidente del consiglio Matteo Renzi, hanno come
obiettivo lo sblocco di risorse per le opere pubbliche.
Dieci miliardi in dodici mesi andranno a investimenti per le
autostrade e altre risorse per 3 miliardi 820 mln saranno
destinate a opere pubbliche che potranno essere cantierabili
in dodici mesi.
Arriva, inoltre, un credito di imposta del
50% per la banda larga. Una novità è introdotta nel disegno
di legge che accompagna il decreto legge sblocca italia sul
codice degli appalti. Una previsione di principio che ha
come obiettivo, ha spiegato Renzi, di avere «le stesse
regole in Italia come nel resto d'Europa». «Cio che è
consentito nell'Ue», ha spiegato, «deve essere consentito in
Italia». I provvedimenti approvati guardano anche
all'utilizzo dei fondi europei: «c'è una norma», ha detto il
premier, «che attribuisce al governo la responsabilità di
recuperare risorse non spese».
Sul fronte delle
semplificazioni per i cittadini il ministro alle
infrastrutture Maurizio Lupi ha spiegato che nel decreto
legge è prevista una misura per cui chi dovrà effettuare
lavori di ristrutturazione in casa, senza aumentare i
volumi, non dovrà inviare una domanda al comune ma sarà
sufficiente una comunicazione. Lupi ha poi confermato
l'intenzione di rinnovare l'ecobonus, per la cui copertura,
però, si dovrà attendere la legge di stabilità. In
quest'ultimo provvedimento ci sarà anche la proroga delle
detrazioni per le ristrutturazioni edilizie.
Il decreto legge di 50 articoli guarda anche agli
investimenti dei privati in settori di rilevanza pubblica;
la soglia per godere del credito d'imposta per il project financing è stata abbassata da 200 milioni a 50 milioni di
euro. E sempre con uno sguardo agli interventi dei privati
nel piano del governo per quanto riguarda le autostrade, è
prevista l'attivazione di risorse che possono essere
investite con il prolungamento delle concessioni. Cambia
anche il ruolo della Cassa depositi e prestiti, con
l'estensione della garanzia per investimenti alle imprese
Pacchetto giustizia. Un decreto legge per lo smaltimento
dell'arretrato della giustizia civile. Le intenzioni del
governo sul punto, sono quelle di arrivare, spiega Renzi:
«dopo i mille giorni a ottenere in meno di un anno una
sentenza di primo grado nelle cause civili e di dimezzare
l'arretrato che ammonta a 5,2 mln di pendenze».
L'accelerazione dei tempi della giustizia passa anche per le
ferie dei magistrati. Nelle misure approvate ieri c'è
infatti il dimezzamento delle vacanze estive dei magistrati.
Il restyling della giustizia guarda principalmente a due
binari tematici, impresa e famiglia, con il rafforzamento,
nel primo caso, del tribunale delle imprese, attribuendogli
competenze più ampie e nel secondo caso, raccogliendo le
diverse competenze sul contenzioso disseminate nelle
strutture giudiziarie in un unico organismo, il tribunale
per la famiglia e i diritti delle persone. Il ministro della
giustizia, Andrea Orlando, spiega poi il termine
degiurisdizionalizzazione, che consiste nel «togliere ciò
che non è strettamente necessario davanti al giudice». E in
questa direzione andrà la riforma della separazione e del
divorzio quando sono consensuali, quando cioè «non mettono
in discussione diritti di terzi con il passaggio davanti al
giudice routinario», ha detto Orlando.
Spazio, dunque, alle separazioni e ai divorzi per decreto
davanti ad altre autorità, mentre negli altri casi sarà
possibile rivolgersi agli avvocati che attraverso una
negoziazione aiuteranno le parti ad arrivare a sentenza. In
questo caso saranno previsti incentivi per evitare di
arrivare davanti al giudice. Nell'ottica dell'accelerazione
della giustizia saranno poi previsti disincentivi sulle
cause temerarie facendo leva sulla compensazione delle
spese.
Un capitolo a sé è quello della giustizia e economia. «In
una fase come questa di crisi, cresce il rischio di
infiltrazioni di capitali illeciti, o di un utilizzo opaco
dei bilanci», spiega Orlando. Per queste ragioni è stato
reintrodotto un reato che esisteva già come il falso in
bilancio mentre ne è stato previsto uno nuovo: l'autoriciclaggio.
In particolare il nuovo falso in bilancio prevederà per le
società quotate una pena tra i 3 e gli 8 anni di reclusione,
mentre per le piccole società la pena sarà calibrata
attraverso una valutazione dell'impatto causato dal fatto
compiuto.
Nei provvedimenti approvati ieri non si è affrontato il tema
della riforma del consiglio superiore della magistratura
(Csm). La ragione, ha motivato Orlando, è nell'attesa che si
insedi il nuovo organismo di autogoverno della magistratura
per interloquire sul progetto di riforma. Cambia anche la
responsabilità civile dei magistrati con la previsione di un
aumento della percentuale di rivalsa, che passa dal 30 al
50%, che lo stato potrà richiedere al magistrato condannato (articolo ItaliaOggi del
30.08.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
VARI: Attività d'impresa, tutela a 360°. Dopo due anni la p.a. non
potrà più revocare il via libera. DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Le modifiche alla legge sul
procedimento amministrativo.
Le attività di impresa, anche illegittimamente attivate, si
consolideranno e resteranno intangibili dopo due anni dal
loro avvio.
La
riforma della Scia (Segnalazione certificata di inizio
attività), contenuta nel decreto Sblocca Italia, varato ieri
dal Consiglio dei ministri, non costituisce certo un passo
in avanti verso la semplificazione e, soprattutto, la
linearità dei procedimenti amministrativi.
Modifica, quella alla disciplina della Scia, certamente
necessaria perché, se da un lato essa semplifica di molto le
procedure, in quanto consente agli imprenditori di iniziare
le attività con una semplice comunicazione alle
amministrazioni competenti, dotata della documentazione
tecnica asseverata da professionisti, dall'altro lato è
caratterizzata da un sistema di controlli deficitario.
L'attuale testo dell'articolo 19, comma 3, della legge
241/1990, infatti, nel caso di accertata carenza dei
requisiti e presupposti per avviare l'impresa, consente alle
amministrazioni di adottare provvedimenti motivati di
divieto di prosecuzione dell'attività o di conformazione
alla normativa vigente, entro 60 giorni dal ricevimento
della Scia. Trascorso tale termine, poi è possibile solo
procedere in via di autotutela, nonostante la Scia non
produca la formazione di alcun provvedimento amministrativo,
visto che il titolo per l'esercizio dell'impresa è
integralmente privato e autoprodotto dall'interessato.
L'autotutela, per altro, limita di molto i poteri di divieto
o conformazione successivi.
Sarebbe stato necessario,
quindi, modificare il quadro complessivo, assegnando alle
amministrazioni un potere di controllo pieno e non connesso
all'autotutela, entro un lasso di tempo più congruo dei 60
giorni. Il decreto, però, compie una scelta molto diversa.
Conferma, infatti, che il potere pieno di divieto o
conformazione possa esercitarsi solo entro i 60 giorni e
modifica l'articolo 19, comma 3, abolendo il comma 4, della
legge 241/1990 trasferendo la regolazione dell'autotutela
nell'articolo 21-nonies, arricchito di un comma 1-bis. Tale
nuovo comma fissa in due anni il termine entro il quale le
amministrazioni possono adottare provvedimenti di divieto o
conformazione delle imprese attivate illegittimamente.
Trascorso il termine di due anni, ogni provvedimento che
sanzioni l'esercizio di imprese illegittimamente formatosi
sarà nullo. Così facendo, se per un verso forse si intende
sollecitare le amministrazioni a compiere i controlli pieni
entro i 60 giorni dalla ricezione della Scia, per altro
verso si rischia di compromettere seriamente la concorrenza
e la trasparenza del mercato, permettendo alle imprese non
regolarmente avviate di contare su un'inerzia procedimentale
che sani ogni irregolarità della loro genesi. Lo Sblocca
Italia, per altro, introduce un nuovo articolo 21-decies
nella legge 241/1990.
Il nuovo articolo configura
l'autotutela riguardante l'attività di impresa come si
trattasse di uno spurio autoricorso gerarchico. Prevede,
infatti, che ad adottare i provvedimenti di divieto o
conformazione entro i due anni, nel caso di amministrazione
centrale sia uno specifico dirigente individuato tra le
massime figure apicali. Nel caso in cui il dirigente non sia
individuato, provvederà il dirigente generale
dell'amministrazione centrale di appartenenza. Nelle regioni
e negli enti locali, invece, il soggetto competente dovrà
essere il segretario generale dell'ente.
Positivo, inoltre, il parere di Confedilizia. «Il dl è un
provvedimento di ampio respiro, al quale va riconosciuta una
importanza fondamentale perché con incisive misure mette
finalmente il mercato immobiliare al centro di un programma
di rilancio», ha dichiarato il presidente Corrado Sforza Fogliani, «accanto a provvedimenti per le società del grande
capitale, anche cooperativo, si affiancano per la prima
volta misure essenziali per la ripresa dell'investimento
immobiliare, che può trovare la sua concretizzazione
soprattutto nella locazione. Spira nelle decisioni assunte
dal Governo un vento nuovo, anche in senso liberalizzatore,
del quale dobbiamo dare atto in relazione a molte nostre
richieste» (articolo ItaliaOggi del
30.08.2014). |
VARI: Il bonus arredi anche a rate. Detrazione del 50% ammessa per
gli acquisti frazionati. Le indicazioni su come fruire dell'agevolazione sul sito
dell'Agenzia delle entrate.
L'acquisto a rate di mobili ed elettrodomestici non
pregiudica il bonus arredi. La detrazione Irpef del 50% è
ammessa purché la società che concede il finanziamento
effettui il pagamento al fornitore dei mobili attraverso
bonifico «parlante». L'operazione bancaria o postale deve
cioè contenere nella causale gli estremi della norma
agevolativa (articolo 16-bis del dpr n. 917/1986), il codice
fiscale dell'acquirente e il numero di partita Iva del
soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato. Non
solo. Se l'acquisto a rate è avvenuto nel 2013 ma il piano
di rimborso si conclude solo quest'anno, il contribuente può
comunque indicare per intero la spesa già nella
dichiarazione 2014. Ciò in quanto, come già chiarito dalla
circolare n. 11/E del 2014, l'anno in cui è stata sostenuta
la spesa è l'anno nel quale la finanziaria ha effettuato il
bonifico al fornitore.
È quanto ha ricordato ieri l'Agenzia
delle entrate affidando a un tweet una delle risposte ai
quesiti più ricorrenti in materia di bonus arredi.
Si ricorda che tale agevolazione viaggia in simbiosi con la
detrazione Irpef del 50% sulle ristrutturazioni edilizie:
solo coloro che hanno effettuato interventi di recupero o
manutenzione degli immobili possono fruire dell'ulteriore
sconto fiscale per l'acquisto di mobili e grandi
elettrodomestici di classe energetica non inferiore alla A+
(classe A per i forni). L'aiuto erariale è pari al 50% delle
spese sostenute tra il 06.06.2013 e il 31.12.2014,
da calcolare su un massimo di 10 mila euro e da suddividere
in dieci quote annuali da far valere in dichiarazione.
Un'altra delle risposte disponibili sul sito delle Entrate
riguarda le modalità di pagamento. Se è vero che il bonifico
parlante è l'unica modalità ammessa per lo sgravio
tributario sulle ristrutturazioni, sugli arredi l'Agenzia ha
ampliato le possibilità. Ciò in quanto gli acquisti presso
negozi e grandi magazzini difficilmente possono essere
regolati tramite bonifico. Pertanto l'agevolazione su mobili
ed elettrodomestici è ammessa anche pagando con carta di
credito o bancomat. In questo caso, precisa l'Agenzia, la
data di pagamento è quella di utilizzo della carta di
credito o di debito da parte del titolare.
Rileva cioè il momento della transazione, riportato nella
ricevuta telematica, e non il giorno di addebito sul conto
corrente del titolare stesso (in tal senso anche la
circolare n. 29/E del 18.09.2013). Per avere diritto al
beneficio, quindi, gli acquisti con carta devono essere
effettuati entro il 31.12.2014. Ai fini del bonus arredi non
è invece consentito pagare mediante assegni bancari o in
contanti (articolo ItaliaOggi del
30.08.201). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Verbali e ingiunzioni via Pec. Svolta dopo l'ok di Equitalia
alle proprie notifiche via web. Lo Sviluppo economico apre all'inoltro online delle sanzioni
delle camere di commercio.
Possibilità di notificare per Posta elettronica certificata
le ordinanze di ingiunzione e i verbali di accertamento
delle sanzioni amministrative. L'Ini Pec e non il registro
delle imprese è lo strumento per conoscere gli indirizzi di
posta elettronica certificata delle imprese o dei
professionisti per l'invio dei verbali. Dal 26 agosto,
Equitalia ha esteso anche alle imprese individuali la
notifica delle propria cartelle di pagamento tramite posta
elettronica certificata.
Questo è l'importante principio innovativo espresso dal
Ministero dello Sviluppo economico –dipartimento XXI
registro delle imprese– con la
nota
del 28.08.2014 n. 149353 di prot. in risposta a un
quesito formulato da una camera di commercio.
La Camera di commercio di Reggio Emilia chiedeva al
ministero dello sviluppo economico spiegazioni circa
l'imputabilità degli oneri postali relativi alla
trasmissione dei verbali amministrativi e la possibilità di
notificare gli stessi tramite Pec. I tecnici dello sviluppo
economico sottolineano che se si parametra l'articolo 5-bis
del codice dell'amministrazione digitale con quello dettato
per i cittadini (articolo 3-bis del codice amministrativo
digitale) è evidente come il legislatore abbia ricostruito
non in termini di facoltà ma di obbligo reciproco per la
pubblica amministrazione e l'impresa o il professionista,
dell'utilizzo esclusivo della Pec.
L'onere delle pubblica
amministrazione deve correlarsi con l'obbligo di verifica
dell'indirizzo Pec dell'impresa o del professionista
rinvenibile non dal registro delle imprese ma dall'Ini Pec
istituito presso il Mise che costituisce lo strumento unico
e necessario per accertare l'esistenza e la veridicità
dell'indirizzo di posta elettronica certificata.
L'Ini Pec
infatti raccoglie tutti gli indirizzi di Posta elettronica
certificata delle imprese e dei professionisti presenti sul
territorio italiano. Al 18 luglio scorso sono stati raccolti
quasi 1.042.000 indirizzi Pec di professionisti relativi a
quasi 1.600 ordini e collegi professionali. Per quanto
riguarda la sezione imprese, sono disponibili circa
4.382.000 indirizzi Pec, tra società e imprese individuali.
L'obiettivo è quello di raccogliere gli indirizzi Pec di
tutti i professionisti e di tutte le imprese presenti sul
territorio nazionale, per dare la possibilità ai vari
soggetti economici e alle pubbliche amministrazioni di
interagire tra con semplicità, efficienza ed economicità.
Condizione questa indispensabile per uno sviluppo più rapido
ed efficace del sistema paese. Gli ordini e dei collegi
professionali ai fini dell'adempimento Ini Pec non possono
dotarsi della posta elettronica gratuita «Cec Pac»
(lettera-circolare Mise del 15.01.2014 n. 6391 di prot.) (articolo ItaliaOggi del
30.08.2014). |
APPALTI:
Codice appalti semplificato L'Italia si allinea all'Europa.
Opere. Approvato il Ddl - Lupi: delega stringata e chiara.
«Questa è la vera
rivoluzione, che nei prossimi mesi cambierà il sistema delle
gare pubbliche». Il premier Renzi non ha paura di esagerare
quando parla del ddl delega sugli appalti, approvato ieri
dal Consiglio dei ministri dopo un lungo lavoro di
preparazione del ministero delle Infrastrutture.
Il testo
recepisce le direttive Ue in materia di appalti pubblici,
concessioni e cosiddetti «settori esclusi» (acqua, energia,
trasporti, poste) e ha un obiettivo dichiarato: avviare il
processo che porterà all'alleggerimento del corpo di 600
articoli che attualmente costituisce il Codice appalti e il
relativo regolamento di attuazione. Con l'idea di allinearci
al resto d'Europa, grazie a un sistema composto da meno
regole, ma di più efficace utilizzo. In questo modo sarà
possibile combattere in maniera più ficcante il fenomeno
della corruzione negli appalti.
«L'Italia ha il vezzo di irrobustire la normativa europea
complicandola e inserendo elementi di difficoltà», spiega
Renzi. Questa complicazione, per il premier, è inutile o,
addirittura, dannosa. Perché produce regole incoerenti e
difficilmente applicabili all'atto pratico, alle quali
spesso si deroga negli appalti più importanti, creando
anomalie come quelle tristemente note dell'Expo e del Mose.
Allora, bisogna semplificare e tagliare, seguendo un
principio guida: «Quello che viene consentito dall'Europa è
quello che dovrà essere fatto dall'Italia». Adattando il
modello Ue alle nostre caratteristiche, ma senza
stravolgerlo. Più volte è stato dichiarato l'obiettivo di
scendere dagli attuali 600 articoli a un massimo di 200
articoli di più rapida comprensione. Una potatura di due
terzi.
Il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi sottolinea
come la delega sia «molto stringata, molto chiara e molto
netta» allo scopo di orientare in maniera esatta i decreti
delegati. Lupi cita uno di questi criteri: «Il divieto di
introduzione e mantenimento di standard superiori a quelli
minimi delle direttive comunitarie». Il testo, poi, lavora
soprattutto sul tema dell'anticorruzione. «Per noi è
fondamentale la trasparenza delle procedure e delle gare,
perché questa norma arriva dopo una serie di fatti e di
dibattiti per fenomeni di corruzione». Sul punto Lupi si
allinea a quanto spiegato dal premier: «La lotta alla
corruzione non si fa con ulteriori regole, ma con la
certezza delle regole e con la semplificazione». In questo
senso la nuova legge delega viene definita «un testo unico
che stabilisce cosa si può fare e cosa non si può fare»,
senza burocrazia ulteriore e sovrapposizioni inutili e
dannose.
Questo principio di semplificazione e di allineamento alle
regole Ue non riguarda, però, solo la legge delega. Il
Governo lo ha inserito già all'interno del decreto legge
approvato ieri. In questo senso, il responsabile delle
Infrastrutture cita la norma sull'"overdesign": «Le
caratteristiche tecniche delle nostre progettazioni in
Italia si adeguano alle caratteristiche dell'Europa». In
sostanza, nelle opere pubbliche non potranno più essere
richiesti livelli di sicurezza superiori a quelli minimi
definiti a livello Ue. «Qualora questo dovesse accadere -dice il ministro- deve esserci una ragione». E non può
essere solo formale, ma deve essere sostenuta da un'analisi
di sostenibilità economica e finanziaria, oltre che da stime
sui tempi di attuazione dell'opera.
Il termine per il recepimento delle direttive in materia di
appalti, concessioni e settori esclusi è fissato da
Bruxelles al 18.04.2016. L'intenzione del Governo è
chiudere il percorso appena avviato con un netto anticipo.
Secondo il viceministro delle Infrastrutture, Riccardo Nencini l'idea è arrivare alla formulazione di un testo
consolidato entro la fine dell'anno, per poi approvare il
nuovo Codice in via definitiva entro la metà del 2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus a chi compra e affitta.
Ma resta il nodo copertura - Semplificazioni nell'edilizia:
ampliata la Scia.
E speriamo che il mercato
si sblocchi. L'interesse del Governo per il mattone è
concentrato soprattutto sullo stock dell'invenduto, che
soffoca le imprese di costruzione con una zavorra
pesantissima: la liquidità è il nodo da sciogliere e la
speranza è che lo sconto fiscale del 20% sull'acquisto, che
diventerà una deduzione di 60mila euro al massimo in otto
anni (7.500 all'anno), possa spingere a tornare
sull'investimento immobiliare. La norma, inserita ieri nel
Dl Sblocca Italia, è stata approvata «salvo intese» sulla
copertura. Confedilizia ha apprezzato lo sforzo del Governo.
Il problema è che quella casa, da acquistare direttamente
dal costruttore (immobile nuovo o ristrutturato), dovrà poi
essere affittata per almeno otto anni a canone concordato,
perché il Governo spera di prendere con la stessa fava anche
il piccione della crisi abitativa. Così lo scotto da pagare
per chi comprerà con il bonus del 20% sarà l'obbligo di
affittare in base al meccanismo dettato dalla legge 431/1998,
oppure con canoni da social housing (Dpr 380/2001 e legge
350/2003). L'acquirente deve essere persona fisica, coop
edilizia oppure Onlus e non deve essere parente di primo
grado (quindi il limite è solo tra genitori e figli) del
futuro inquilino.
Tra le condizioni per la concessione dell'agevolazione ci
sono anche: la classe energetica degli immobili, che deve
essere A o B; la categoria catastale, che deve essere una A
(abitazioni) con esclusione di A8, A9 e A1 (ville e case
storiche o signorili); il tetto di spesa per l'acquisto
(anche di due case) è di 300mila euro.
Se mancano i requisiti scatta l'immediata decadenza dalle
agevolazioni e la restituzione del bonus, ma non si capisce
cosa debba accadere quando questo si verifica
indipendentemente dalla volontà del locatore e, soprattutto,
quando la locazione riprende dopo un periodo; ma è previsto
un Dm attuativo che dovrà risolvere questi dubbi.
La partita della convenienza, però, è ancora tutta da
giocare: in soldoni, se la differenza tra canone concordato
e canone libero non è superiore al 40 per cento (a Milano,
per esempio, è superiore), il gioco potrebbe funzionare
(anche se per una percentuale di vantaggio minima) e la
scelta penderebbe per la soluzione di comprare per affittare
a canone concordato.
Di notevole impatto un'altra norma sugli affitti: per quelli
non abitativi sarà derogabile la vecchia legge 392/78,
purché il canone annuo superi i 100mila euro (250mila se
alberghi).
Semplificazioni edilizie
Una serie di semplificazioni sono previste per l'attività
edilizia, a partire dal regolamento edilizio unico per tutti
i Comuni e dal rafforzamento della Scia. Vengono equiparate
alla manutenzione straordinaria (quindi basterà la Scia al
posto del permesso di costruire), il frazionamento o
l'accorpamento di unità immobiliari, con aumento delle unità
o variazione del «carico urbanistico».
In ogni caso non sarà dovuto il contributo di costruzione
per accorpamento e frazionamenti e verrà ridotto del 20% per
ristrutturazioni e recuperi di immobili in dismissione.
Lo sportello unico dell'edilizia rilascerà l'attestazione
della formazione del silenzio-assenso sul permesso di
costruire. E le relative varianti saranno realizzabili con
semplice Dia purché non difformi agli strumenti urbanistici
e ai vincoli.
Affitto con riscatto
Ma nel Dl non ci si ferma qui: si rivitalizza anche il
vecchio affitto con riscatto (con trascrizione), con obbligo
del concedente, se inadempiente, di rendere tutti i canoni
(con interessi) incassati sino a quel momento. Se invece a
essere inadempiente è l'inquilino, perde i canoni versati.
Il limite per i canoni in ritardo è determinato dalle parti,
ma non può essere inferiore al 5% del loro numero. Quindi,
per esempio, con 100 rate mensili se ne possono saltare
cinque al massimo, poi l'accordo salta. Ma nel contratto può
essere previsto un trattamento più generoso.
Rottamazione energetica
Altro bonus è riservato a coloro (che non siano soggetto
passivo Iva) che rottamano immobili a bassa prestazione
energetica (sempre con esclusione di quelli classificati
catastalmente in A1, A8 o A9): le imposte di trasferimento
si applicheranno in misura fissa, quindi, attualmente, in
600 euro in tutto.
Gli immobili (che devono essere abitativi) vanno ceduti a
società che abbiano come attività esclusiva o prevalente la
costruzione, il ricupero e la rivendita di beni immobili.
Queste dovranno dichiarare nell'atto di acquisto che
intendono rivendere l'immobile entro cinque anni dopo aver
effettuato interventi di restauro-risanamento conservativo o
di ristrutturazione conseguendo la certificazione energetica
in classe A o B. Se poi i lavori sono stati eseguiti su
singole unità immobiliari, al posto della certificazione
basta che la certificazione energetica attesti un
miglioramento del fabbisogno di energia primaria pari almeno
al 50% rispetto a prima. Il beneficio fiscale (che è
vantaggio dell'acquirente) scatta anche in caso di permuta
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2014). |
LAVORI PUBBLICI:
Cantieri e made in, sblocca-Italia al via.
Confermata la proroga del bonus del 65% ma resta il nodo
delle coperture.
Alla fine le coperture
per i 3,8 miliardi destinati al finanziamento delle
infrastrutture nel decreto Sblocca-Italia sono venute fuori.
Agli 841 milioni del «fondo revoche» si sommano circa 3
miliardi del Fondo sviluppo coesione (Fsc), l'ex Fas che va
destinato in prevalenza al Mezzogiorno: lo stanziamento è a
valere sugli anni 2016-2017, ma impegnabili subito. Anzi, i
cantieri dovranno aprire entro agosto 2015, pena la revoca
del finanziamento.
La mappa delle opere finanziate è notevolmente mutata
rispetto a quella di un mese fa, puntando a dare ossigeno a
cantieri in corso come terzo valico, Brescia-Padova, tunnel
del Brennero e inserendo tra i beneficiari quattro
metropolitane: per Roma (linea C), Torino (Passante
ferroviario), Napoli e Firenze (la nuova metrotranvia).
Nuove anche la ferrovia Lucca-Pistoia e, a Roma, il ponte
fra l'Eur e il collegamento autostradale per Fiumicino.
Nel decreto legge ci sono anche i poteri da commmissario
straordinario, affidati all'ad delle Fs, Michele Elia, per
sbloccare le grandi opere ferroviarie Napoli-Bari e
Catania-Messina che decolleranno nel novembre 2015 anziché
nel 2018. Previsto un supercommissario anche per la
riqualificazione dell'area di Bagnoli.
Nel decreto legge ci sarà il pacchetto delle semplificazioni
edilizie con la liberalizzazione di quasi tutti i lavori in
casa (comunicazione, non autorizzazione). Ci sarà il
pacchetto Padoan per incentivare il finanziamento privato di
infrastrutture, a partire dall'abbassamento della soglia per
il credito di imposta da 200 a 50 milioni.
Fin qui le norme sicure e dettagliate del decreto
sblocca-Italia. Così come sicura è l'approvazione da parte
del Consiglio dei ministri del disegno di legge sugli
appalti per sfoltire il codice degli appalti adeguandosi a
norme e standard Ue. «Una rivoluzione», l'ha definita Matteo
Renzi.
C'è poi un cospicuo pacchetto di norme del decreto legge
approvate «salve intese»: ha bisogno cioè di nuovi incontri
per approvare i dettagli normativi e soprattutto le
coperture. In questa condizione c'è anzitutto il bonus Irpef
al 65% per i lavori di risparmio energetico e per la
prevenzione antisismica, che il premier Renzi vuole
assolutamente confermare nel 2015 dando subito un segnale a
chi vuole investire. Il ministero dell'Economia era più
dell'idea di portarlo in legge di stabilità, ma il premier
ha insistito e lunedì ci si rivedrà per trovare i fondi
necessari a finanziarlo (dovrebbe trattarsi di 200-300
milioni). Per far passare la norma potrebbe essere ridotta a
60mila euro la spesa finanziabile (che oggi può arrivare
fino a 100mila euro per certi impianti).
Stessa sorte per l'altra norma, questa voluta dal ministro
delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che prevede una
deduzione del 20% per chi acquista da un costruttore
un'abitazione nuova o pesantemente ristrutturata e si
impegna a darla per otto anni in affitto a canone
concordato.
È uscito dal decreto legge, invece, il primo pacchetto di
misure per la quotazione in Borsa e la privatizzazione delle
società partecipate dagli enti locali (trasporto e rifiuti)
e per la chiusura di un migliaio di quelle in rosso. Se ne
riparlerà in un decreto ad hoc: è il premier che vuole un
provvedimento organico per evitare segnali frammentati su un
tema decisivo per la spending review.
Nel decreto legge Sblocca-Italia viene confermato invece il
piano per la promozione straordinaria del made in Italy e
l'attrazione degli investimenti messo a punto dal
viceministro Calenda (si veda altro articolo) e il piano per
l'energia. Vari i capitoli di questo che il premier ha
presentato come un elemento di rottura: gli incentivi
procedurali e fiscali per l'estrazione degli idrocarburi (ma
qui davvero dobbiamo vedere cosa c'è oltre gli annunci),
l'approvazione del Tap, la possibilità di inserire i
termovalorizzatori tra le opere strategiche nazionali.
Tornando ai cantieri, una norma che aspetta ancora di essere
definita meglio è quella che concede una quota dei dei 3,8
miliardi di finanziamenti e lo svincolo dal patto di
stabilità ai comuni che vogliono realizzare piccole opere.
Il premier ha stimato che in questo modo si potranno
realizzare lavori per 600 milioni. Si tratta dei sindaci che
avevano inviato le proprie segnalazioni per e-mail a Palazzo
Chigi
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Agevolazioni fiscali per contrastare il rischio
sismico. Dall'imposta lorda
detraibile un importo compreso tra il 50 e il 65% delle
spese sostenute per i lavori.
Fisco agevolato per contrastare il rischio sismico.
Dall'imposta lorda potrà essere detratto un importo compreso
tra il 50 e il 65% delle spese documentate fino a un
ammontare complessivo non superiore a 60 mila euro per unità
immobiliare. Il tutto, purché gli interventi siano
realizzati sulle parti strutturali degli edifici.
Queste alcune delle agevolazioni fiscali previste nella
parte della bozza del provvedimento Sblocca Italia relativa
all'efficientamento energetico e al rischio sismico, al
vaglio del Consiglio dei ministri in programma oggi. Nel
dettaglio il provvedimento prevede l'introduzione dell'art.
16-ter all'interno del dpr 917/1986 (Testo unico delle
imposte sui redditi), con un rubrica ad hoc
denominata «Detrazione delle spese per interventi
finalizzati alla riduzione del rischio sismico e al
miglioramento del rendimento energetico degli edifici
esistenti».
L'art. 16-ter prevede la possibilità di detrarre
dall'imposta lorda un importo compreso tra il 50 e il 65%
delle spese documentate fino a un ammontare complessivo di
60 mila euro. Le spese in questione, però, devono essere
effettivamente sostenute dai contribuenti che detengono
l'immobile sulla base di un titolo idoneo. A stabilire la
soglia di detrazione, il livello di rischio sismico che,
infatti, sarà oggetto di un apposito decreto proveniente dal
ministero delle infrastrutture e dei trasporti all'interno
del quale sarà appositamente classificato.
Ad accompagnare il decreto, delle linee guida ad hoc
che definiranno: un parametro per eseguire la
classificazione; la tipologia di interventi; le correlazioni
intercorrenti tra la riduzione del rischio sismico e le
detrazioni fiscali; la documentazione tecnica idonea a
definire la classificazione. A completare il quadro, poi,
anche le agevolazioni per l'efficientamento energetico. Il
comma del nuovo art. 16-ter prevede, infatti la possibilità
di detrarre dall'imposta lorda un importo pari al 50% delle
spese documentate fino a un ammontare complessivo non
superiore a 96 mila euro per unità immobiliare.
Il tutto, a condizione che sull'immobile siano effettuati
interventi volti al risparmio energetico con particolare
attenzione all'installazione di impianti basati sull'impiego
di fonti rinnovabili di energia. I limiti di detrazione
previsti, infine, restano quelli fissati dall'art. 16-ter,
se sulla stessa unità immobiliare sono eseguiti anche
interventi di riqualificazione energetica o di recupero del
patrimonio edilizio (articolo
ItaliaOggi del 29.08.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, ravvedimento operoso.
Immobili messi in regola pagando l'aumento di valore.
DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Nella bozza una sanatoria permanente
degli abusi.
Arriva il ravvedimento operoso in edilizia. Chi è
responsabile di un abuso edilizio potrà conciliare con il
comune dietro pagamento di una misura sanzionatoria pari
all'aumento di valore dell'immobile. Lo prevede il
provvedimento Sblocca Italia all'esame del consiglio dei
ministri di oggi.
Nel testo, ancora suscettibile di modifica, si interviene
nel testo unico dell'edilizia aggiungendo un nuovo articolo,
il 38-bis. La misura prevede che il proprietario o il
soggetto responsabile dell'abuso, quando non sia possibile
ottenere l'accertamento di conformità, ai sensi degli
articoli 36 e 37 del Testo unico edilizia (dpr 380/2001) o
quando la relativa domanda non abbia trovato accoglimento
nei termini prescritti, può chiedere l'avvio di una
procedura di conciliazione al fine di individuare, in
contraddittorio con l'amministrazione comunale, quali
interventi possano essere eseguiti per rendere l'opera
conforme alla disciplina urbanistica vigente e adottata.
Il nuovo percorso soccorre molteplici situazioni in quanto
l'accertamento di conformità attualmente previsto dal dpr
380/2001 ha confini molto stringenti prevedendo una doppia
soglia di conformità alle regole edilizie dell'abuso: al
momento della costruzione e al momento attuale, in buona
sostanza attualmente potevano essere corretti solo errori
meramente formali e documentali delle costruzioni, con la
nuova procedura invece sarà possibile consiliare con l'ente
locale anche il manufatto che ad esempio all'epoca della
costruzione non rispondeva ai requisiti prescritti dalla
legge.
Sono estinte le sanzioni penali e non si applicano le
sanzioni amministrative salvo si legge nella bozza del
documento, «quanto stabilito dall'articolo 45» e cioè quando
le violazioni configurino fattispecie penali. Ma la
condizione è che vi sia un pagamento a titolo di oblazione
di una somma pari all'aumento di valore dell'immobile e ce
comunque non deve essere inferiore a 516 euro. La
disposizione fissa anche in 90 giorni il termine per la
conclusione del procedimento. Il ministero dei beni
culturali ha espresso parere contrario alla retroattività
della norma ed è quindi possibile ritenere che essa si
applicherà agli abusi successivi all'entrata in vigore del
provvedimento.
Inoltre la parte dello Sblocca Italia dedicata alle misure
di semplificazione edilizia prevede una disposizione ad hoc
per il mutamento rilevante di destinazione d'uso. «Salvo
diversa previsione da parte delle leggi regionali,
costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso
ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità
immobiliare diversa da quella originaria», si legge nel
documento, «ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati a una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
residenziale e turistico-ricettiva; produttiva e
direzionale; commerciale; rurale».
La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità
immobiliare è quella prevalente in termini di superficie
utile. E infine salvo diversa previsione da parte delle
leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il
mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa
categoria funzionale è sempre consentito
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Le modifiche alla disciplina della segnalazione certificata
di inizio attività nella legge 241/1990. Attività di impresa
sempre in salvo trascorsi due anni.
Tutela più ampia per l'impresa. Il via libera all'attività
potrà essere, infatti, revocato entro e non oltre due anni.
Non solo. Anche se emanato entro il biennio, l'annullamento
del provvedimento che ha consentito l'avvio o l'esercizio
dell'attività di impresa potrà essere disposto solo in
presenza di un interesse pubblico che attiene al pericolo di
un danno per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la
difesa nazionale. Il tutto, previo motivato accertamento
dell'impossibilità di tutelare tali interessi mediante
conformazione dell'attività dei privati.
Queste alcune delle
disposizioni contenute nel provvedimento Sblocca Italia,
nella parte che apporta dei cambiamenti alla legge 241/1190
(legge sul procedimento amministrativo). Ad essere
modificate, in particolare, le discipline relative alla
Segnalazione certificata di inizio attività, alla revoca del
provvedimento, all'annullabilità e all'annullamento
d'ufficio.
Nel dettaglio, tramite una modifica ad hoc dell'art. 19
legge 241/1990, è prevista l'eliminazione della possibilità
di agire in autotutela dell'amministrazione, trascorsi i 60
giorni dal ricevimento della Scia. Entro e non oltre questo
termine, quindi, la p.a. è tenuta a emanare un provvedimento
di divieto di prosecuzione dell'attività in caso di
accertata carenza dei requisiti. Trascorsi i 60 giorni,
però, l'amministrazione non potrà più agire in autotutela.
Per compensare il venire meno di questa possibilità, però,
viene aggiunto all'art. 21-nonies, il comma 1-bis in cui è
fissato a 24 mesi il termine il termine entro il quale le
amministrazioni possono adottare provvedimenti di divieto o
conformazione delle imprese attivate illegittimamente. Di
nuovo, però, trascorso tale termine ogni provvedimento che
sanzioni l'esercizio di imprese che si sono formate, anche
illegittimamente, sarà nullo.
A completare il quadro, l'introduzione dell'art. 21-decies,
rubricato «Competenza sulla revoca e l'annullamento
d'ufficio dei provvedimenti incidenti sull'avvio o
l'esercizio di attività di impresa». La norma in
questione prevede che i provvedimenti di revoca e di
annullamento d'ufficio che incidono sull'attività possano
essere adottati dal dirigente individuato dall'organo di
governo tra le figure apicali massime dell'amministrazione
centrale.
In caso, poi, di omessa individuazione i relativo poteri
sono attribuiti al dirigente dell'amministrazione centrale
di appartenenza. Per le regioni e gli enti territoriali tali
poteri sono attribuiti, in mancanza del dirigente apicale,
al segretario dell'ente
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2014). |
INCARICHI PROGETTAZIONE: Rivoluzione progettisti.
Incarichi a sorteggio e stop al preliminare.
DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Le novità in arrivo per gli appalti.
Progettisti affidatari di incarichi per sorteggio; eliminata
la progettazione preliminare per le opere minori, il costo
del progetto definitivo ed esecutivo non potrà superare il
10% del valore dell'opera; differito a gennaio 2015 l'Avcpass,
il sistema online di verifica dei requisiti nelle gare di
appalto.
Sono queste alcune delle novità che dovrebbero
essere introdotte nell'atteso decreto-legge «sblocca
Italia», alla luce della bozza in circolazione in queste
ore. Di particolare interesse per i progettisti le
disposizioni a carattere sperimentale e applicabili fino al
31.12.2015 che le stazioni appaltanti potranno
utilizzare per incarichi relativi a lavori di valore
compreso fra 200 mila euro e un milione e ad altri lavori
oggetto del decreto.
Si tratta di progettazioni concernenti
lavori definiti minori, ma che dovranno essere comunque
immediatamente cantierabili; per questi lavori il decreto
prevede che non sia necessaria la progettazione preliminare,
ma che si proceda soltanto con la progettazione definitiva
ed esecutiva in considerazione della presunta non
complessità dei lavori da progettare.
In ogni caso si stabilisce che Il progetto definitivo, così
come quello esecutivo, contenga tutti gli elementi, le
verifiche e le informazioni necessarie ai fini
dell'approvazione e del rilascio delle autorizzazioni,
pareri ed ogni altro atto previsto dalla vigente normativa.
Le norme del decreto fanno quindi salvi gli affidamenti
disciplinati dalle nuove direttive europee, di valore
superiore ai 190 mila euro, per i quali si continueranno ad
applicare le norme del codice dei contratti pubblici e del
regolamento attuativo. Per le progettazioni prese in
considerazione dal decreto i progettisti (professionisti,
studi e società interessate a questi affidamenti) dovranno
iscriversi in un elenco speciale gestito da una Unità di
missione costituita presso la presidenza del consiglio entro
45 giorni dalla entrata in vigore della legge di
conversione. L'Unità dovrà definire i requisiti di
qualificazione per essere iscritti all'elenco e, con una
domanda corredata da autodichiarazione, i progettisti
faranno richiesta di iscrizione.
Nelle domande, redatte
sulla base dei moduli predisposti dall'Unità di missione, il
progettista dovrà attestare di essere in possesso dei
requisiti di qualificazione indicati per la progettazione
dei lavori, nonché di non trovarsi in nessuna delle cause di
esclusione previste per l'affidamento della progettazione di
lavori di pari importo. Le domande dovranno pervenire entro
15 giorni dalla pubblicazione delle regole per iscriversi.
Sarà poi ogni singola stazione appaltante a invitare i primi
cinque progettisti presenti in elenco a formulare offerta
per l'affidamento, nel rispetto dei principi di trasparenza,
rotazione e parità di trattamento.
Il valore della
progettazione non potrà comunque superare il 10%
dell'importo dei lavori, valore che in alcuni casi potrebbe
essere ben superiore a quanto la stazione appaltante
potrebbe ottenere secondo le usuali procedure. Nell'offerta
ciascun concorrente dovrà confermare quanto precedentemente autodichiarato ai fini dell'inserimento nell'elenco ed
eventuali variazioni. In caso di parità di punteggio
attribuito a più concorrenti, l'appalto della progettazione
sarà aggiudicato al concorrente sorteggiato in seduta
pubblica.
Nel testo del decreto legge si prevede poi il
rinvio a gennaio 2015 del sistema di verifica on-line dei
requisiti di partecipazione alle gare che i concorrenti
dichiarano, messo a punto dall'ex Avcp, adesso Anac, che è
divenuto operativo dal 1° luglio scorso. Il differimento
dell'obbligo per tutte le stazioni appaltanti di fare
ricorso all'Avcpass viene incontro a richieste formulate nei
mesi scorsi dall'Anci e da diverse organizzazioni di
categoria
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Multe se la busta non è bio.
Sanzioni molto salate per la
commercializzazione di sacchetti di plastica non
biodegradabili.
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (n. 192 del 20
agosto) della legge 11.08.2014, n. 116, di conversione del
decreto legge n. 91/2014 (c.d. decreto «competitività»),
sono entrate in vigore (dal 21 agosto) le sanzioni per la
commercializzazione di sacchetti di plastica non
biodegradabili, anche se ceduti a titolo gratuito.
Per «commercializzazione» deve intendersi «l'offerta
o la messa a disposizione di terzi, contro pagamento o
gratuita», quindi anche l'omaggio del classico sacchetto
della spesa
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La Via sulle tre fasi del progetto.
Per verificare il peso dell'opera occorre riferirsi al
livello preliminare, definitivo ed esecutivo.
Ambiente e territorio. Le modifiche introdotte dal Dl
91/2014 per evitare i rischi delle procedure di infrazione
rispetto alle norme comunitarie.
L'articolo
15 del decreto legge 91 (convertito dalla legge 116 in
vigore dal 21 agosto) interviene in materia di impatto
ambientale unificando la nozione di «progetto»: prevalgono
le regole e le definizioni presenti nella legge sugli
appalti pubblici (Dlgs 163/2006). Fino al giugno 2014, in
tema di valutazione di impatto si distingueva tra progetto
preliminare e definitivo (articolo 5, comma 1, lettere g ed
h, del Dlgs 152/2006), prescrivendo che questi progetti
dovessero avere un livello informativo e di dettaglio
equivalente a quello richiesto per i progetti di esecuzione
di lavori pubblici, ai fini della valutazione ambientale.
La modifica consiste nella definizione di «progetto», che
comprende oggi la generica realizzazione di lavori di
costruzione di impianti o di opere o genericamente di
interventi sull'ambiente naturale del paesaggio, compresi
quelli destinati allo sfruttamento delle risorse del suolo.
Alcuni di questi interventi non ricadono nella previsione
della norme sulle opere pubbliche ma vengono ora attratti,
quanto ai contenuti, nelle categorie previste per le opere
pubbliche predette.
In altri termini: per ottenere una
verifica ambientale occorrerà progettare come se si
eseguisse un'opera pubblica e quindi, seguendo l'articolo 93
del decreto legislativo 163/2006, occorrerà tener presenti i
vincoli esistenti e i limiti di spesa prestabiliti, secondo
tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, e cioè di
progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, in modo
da assicurare la qualità dell'opera e la rispondenza alle
finalità relative. La conformità alle norme ambientali e
urbanistiche dovrà poi tendere al soddisfacimento dei
requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo
nazionale e comunitario.
Sarà consentita l'omissione di uno dei primi due livelli di
progettazione purché il livello successivo contenga tutti
gli elementi previsti per il livello omesso e siano
garantiti una serie di elementi, quali i requisiti di
qualità dell'opera, rispondenza alle finalità relative, la
conformità alle norme ambientali e urbanistiche, e infine il
soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal
quadro normativo nazionale e comunitario .
La modifica introdotta dall'articolo 15 intende risolvere
alcuni problemi conseguenti a procedura di infrazione
rispetto alla normativa comunitaria. La prima infrazione
riguardava l'autorizzazione delle centrali a biogas e
biomassa nell'ambito della promozione dell'uso dell'energia
da fonti rinnovabili: si discuteva della necessità di una
valutazione impatto ambientale o della sufficienza di uno
screening (o verifica preliminare); le centrali rischiavano
infatti di essere realizzate in luoghi non adatti come aree
naturali, in prossimità di corsi d'acqua e in zone già
soggette a inquinamento atmosferico. La seconda procedura di
infrazione riguardava problemi di escavazioni nei fiumi con
riferimento alla normativa regionale del Veneto: anche in
questo caso si discuteva del rapporto tra screening e
valutazione di impatto ambientale.
L'articolo 15 disciplina la verifica di assoggettabilità
(screening) per i progetti di infrastrutture di rilevanza
strategica (tra quelli indicati in specifici allegati al Dlgs
ambientale 152/2006), prevedendo successivi decreti
ministeriali su criteri e soglie per l'assoggettamento a
screening nel rispetto della direttiva europea. Finché
questo decreto ministeriale non sopravverrà, occorrerà
valutare caso per caso la procedura di verifica di
assoggettabilità (articolo 20 del Dlgs 152).
Nella valutazione caso per caso, potranno avere il loro peso
le normative regionali. Si fronteggeranno infatti due
principi: quello che fa salve le normative regionali finché
lo Stato omette di provvedere emanando il decreto di propria
competenza, e quello che fa cadere, insieme alla competenza
statale modificata e rinviata a un successivo decreto, anche
le norme già emesse dalle Regioni, imponendo alle regioni
stesse di attendere il nuovo decreto ministeriale cui
conformarsi.
Le principali innovazioni dell'articolo 15 del decreto legge
91 riguardano comunque il contenuto degli allegati al Dlgs
152/2006 (ambientale) circa lo stoccaggio di gas in serbatoi
sotterranei, le opere di canalizzazione e regolazione dei
corsi d'acqua, che vengono confermate opere di competenza
statale, mentre sono affidate a procedure di valutazione
facenti capo a regioni e province i depositi di fanghi con
capacità superiore 10mila m³ e la costruzione di strade
urbane di scorrimento o di quartiere in area urbana ed
extraurbana di lunghezza superiore a 1.500 metri.
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Le novità
01 | IL PROGETTO
Con l'articolo 15 del decreto legge 91 è stata introdotta
nell'articolo 5 del Testo unico ambientale la definizione di
«Progetto», che sostituisce le precedenti definizioni di
progetto preliminare e di progetto definitivo. In sostanza,
per ottenere una verifica ambientale occorrerà progettare
come se si eseguisse un'opera pubblica. Occorrerà cioè
tenere presenti i vincoli esistenti e i limiti di spesa
prestabiliti, secondo tre livelli di successivi
approfondimenti tecnici: progettazione preliminare,
definitiva ed esecutiva
02 | IL RUOLO DELLE REGIONI
Ridotta la discrezionalità delle regioni sui progetti
sottoposti alla verifica di assoggettabilità di loro
competenza. Il ministero dell'Ambiente dovrà infatti emanare
un Dm con il quale verranno fissati i criteri e le soglie
per l'assoggettamento alla procedura di screening
ambientale, nonché le modalità con cui le Regioni
adegueranno criteri e soglie alle specifiche situazioni
ambientali e territoriali.
Una volta che il decreto sarà
emanato, queste soglie saranno integrate con le disposizioni
del decreto e le Regioni, per le opere collocate in aree
protette, non potranno più ridurre del 50% le soglie
dimensionali dei progetti da sottoporre a Via o screening
regionali. Fino all'entrata in vigore del Dm, invece, le
Regioni dovranno effettuare la procedura di screening caso
per caso
03 | LA PUBBLICITÀ
Potenziate anche le procedure di pubblicità per la Via.
L'articolo 15 del DL 91 prevede una più ampia pubblicazione
del risultato della verifica di assoggettabilità a Via,
esito che si leggerà integralmente nel sito dell'autorità
competente. Anche le altre fasi del procedimento potranno
essere desunte dalla lettura dei siti web, e cioè sia i
passaggi di trasmissione da un'autorità all'altra sia la
descrizione delle caratteristiche dell'opera.
Le procedure
di consultazione dell'intero progetto preliminare saranno
disponibili in formato digitale e lo studio preliminare
ambientale sarà pubblicato nel sito web dell'autorità
competente (articolo Il Sole 24 Ore del
29.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Accesso agli atti più facile con il web.
La pubblicità. I risultati nel sito dell'autorità competente.
Il decreto legge 91
approfitta del riordino in materia di impatto ambientale per
affidare alla pubblicità informatica molti dei passaggi di
informazione e consultazione relativi alle opere e ai
relativi piani e programmi. L'articolo 15 del decreto legge
prevede (modificando il Dlgs 152/2006) la pubblicazione del
risultato della verifica di assoggettabilità a Via, esito
che si leggerà integralmente nel sito dell'autorità
competente. Anche le altre fasi del procedimento potranno
essere desunte dalla lettura dei siti web, e cioè sia i
passaggi di trasmissione da un'autorità all'altra sia la
descrizione (breve) delle caratteristiche dell'opera. Le
procedure di consultazione dell'intero progetto preliminare
saranno disponibili in formato digitale e lo studio
preliminare ambientale sarà pubblicato nel sito web
dell'autorità competente.
Si tratta di una notevole semplificazione che renderà più
agevole l'accesso, generando un risparmio dei tempi,
aggirando ad esempio i 30 giorni previsti dalla legge
241/1990 per ottenere copia di atti. L'accesso quindi sarà
semplificato e diventerà economicamente più conveniente,
così come più rapida sarà la procedura di consultazione dei
soggetti interessati, procedura in precedenza rallentata nei
tempi, nell'individuazione dell'autorità competente, e non
di rado dal formato stesso (disegni, planimetrie, foto) dei
documenti allegati.
Queste norme in tema di pubblicità saldano le direttive in
materia di valutazione di impatto ambientale con le norme
comunitarie in materia di appalti pubblici: è infatti
imminente l'applicazione della direttiva 2014/24/Ue sugli
appalti pubblici, la quale tende a rimediare alla
circostanza che la litigiosità in materia di appalti risulti
riservata (direttiva 89/665/Ue) a chi abbia interesse a
ottenere l'aggiudicazione (limitando quindi le contestazioni
alle imprese che vogliono realizzare l'intervento, semmai
con caratteristiche diverse).
Per evitare il rischio che
venga meno l'informazione e la possibilità di contestare i
presupposti e le caratteristiche dell'opera da realizzare,
la direttiva 2014/24 sottolinea che i cittadini, soggetti
interessati organizzati o meno, e altre persone od organismi
che non hanno accesso alle procedure di ricorso sulle
operazioni di gara, devono vedersi riconosciuto comunque un
interesse legittimo «in qualità di contribuenti» a un
corretto svolgimento delle procedure di appalto.
La pubblicità prevista dall'articolo 15 del Dl 91/2014 diventa
uno dei presupposti, per i soggetti interessati, per
interloquire sul progetto con modalità diverse dal sistema
di ricorso (litigiosità prevista in modo privilegiato per le
imprese dalla direttiva 89/665/Cee), e cioè senza
necessariamente un'azione «dinanzi a corti e tribunali»,
bensì segnalando le eventuali violazioni di direttive
all'autorità o alla struttura competente. Anzi, la stessa
direttiva in materia di appalti 2014/24 prevede, al fine di
non creare duplicazioni di autorità o strutture esistenti,
che gli Stati membri dovrebbero essere in grado di prevedere
il ricorso ad autorità o strutture di controllo generali,
organi di vigilanza settoriali, autorità di vigilanza
comunali, autorità competenti in materia di concorrenza, al
mediatore o ad autorità nazionali competenti in materia di audit.
È quindi probabile uno sdoppiamento delle
contestazioni: le imprese entreranno in contrasto (tra loro
e con le amministrazioni) circa la rispettiva idoneità o le
caratteristiche del progetto; cittadini e comunità, già solo
come contribuenti, avranno accesso ad altri sistemi di
controllo, altrettanto efficienti specialmente grazie alla
pubblicità immediata degli atti (articolo Il Sole 24 Ore del
29.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: La responsabilità solidale k.o..
Le imprese non esibiranno il versamento delle ritenute.
Il provvedimento Sblocca Italia interviene sulle misure
fiscali negli appalti d'opere.
Responsabilità solidale fiscale negli appalti addio. Il
provvedimento Sblocca Italia che sarà esaminato nel
consiglio dei ministri di domani, e il cui testo è al
momento ancora suscettibile di modifiche, sopprime le misure
che prevedevano la corresponsabilità tra imprese per il
versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di
lavoro dipendente.
La norma non è mai piaciuta alle associazioni di impresa e
ai professionisti che ne hanno sottolineato il carattere
eccessivamente gravoso.
Nell'attuazione della legge delega fiscale era stato chiesto
di inserire la semplificazione ma la commissione finanze
della camera nel licenziare il parere aveva ritenuto di non
inserire la misura. In precedenza era già stata eliminata la
responsabilità solidale per la voce dell'Iva.
Ora ci riprova il provvedimento Sblocca Italia. La misura in
attesa del parere del ministero dell'economia farà saltare
il meccanismo presente nell'articolo 35, commi dal 28 al
28-ter, del dl 223/2006.
Le regole prevedono che in caso di appalto di opere o di
servizi, l'appaltatore risponde in solido con il
subappaltatore, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo
dovuto, del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui
redditi di lavoro dipendente dovute dal subappaltatore
all'erario in relazione alle prestazioni effettuate
nell'ambito del rapporto di subappalto.
La responsabilità
solidale viene meno se l'appaltatore verifica, acquisendo la
documentazione prima del versamento del corrispettivo, che
gli adempimenti di cui al periodo precedente, scaduti alla
data del versamento, sono stati correttamente eseguiti dal
subappaltatore. L'attestazione dell'avvenuto adempimento
degli obblighi può essere rilasciata anche attraverso
un'asseverazione.
E anche i pagamenti da parte del committente sono
subordinati all'esibizione da parte di chi ha effettuato i
lavori della certificazione di regolarità fiscale e
contributiva.
Il pagamento può essere sospeso fino all'esibizione della
documentazione e sono previste sanzioni laddove
l'adempimento non sia rispettato
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2014). |
APPALTI: Sblocca-Italia, gare di appalto con rating di legalità e
sorteggio.
Piccole opere. Ribasso limitato a una soglia predefinita per
lavori fra 200mila euro e un milione.
Gare di appalto affidate
alle imprese in base al rating di legalità più alto e, in
caso di parità, mediante il sistema del sorteggio. Nel
decreto sblocca-Italia entra anche un modello sperimentale
di gara di appalto riservato alle piccole opere di importo
complessivo fra 200mila euro e un milione, totalmente
innovativo rispetto agli attuali criteri di selezione delle
imprese. Il contratto sarà «chiavi in mano» e sarà escluso
in partenza qualunque tipo di variante in corso d'opera.
In sostanza per evitare i massimi ribassi che in questi anni
hanno caratterizzato in negativo il mercato degli appalti si
dà la possibilità alle stazioni appaltanti che decidono di
aderire al modello sperimentale di fissare una soglia
massima di ribasso considerata congrua rispetto al lavoro in
appalto. Poiché è prevedibile che molte o tutte le imprese
invitate si allineino a quella soglia nella loro offerta,
ecco che scatta il sistema di selezione alternativo.
Anzitutto varrà il rating di legalità che è stato proposto
in questi anni dal sistema confindustriale, soprattutto
nelle regioni ad alto tasso di criminalità organizzata, ed è
stato rilanciato in questa proposta da un suggerimento
arrivato a Palazzo Chigi dal presidente dell'Autorità
nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. Qualora più
imprese dovessero avere lo stesso rating di legalità, si
procederebbe alla scelta dell'appaltatore con il sistema del
sorteggio. È previsto, per altro, un criterio di rotazione
nella scelta delle imprese da invitare alla gara.
La norma messa a punto dalla presidenza del Consiglio sarà
sperimentale nel senso che varrà fino al dicembre 2015 e
sarà applicata dalle stazioni appaltanti su base volontaria:
accorgimenti che dovrebbero consentire di evitare una
procedura di infrazione comunitaria. D'altra parte la norma
inserita nella bozza di decreto diffusa da Palazzo Chigi
domenica scorsa prevede che «al fine di incentivare il
ricorso alla procedura sperimentale, in caso di
finanziamenti statali è data preferenza ai lavori affidati»
con il sistema normato nel decreto. Prevista anche la
creazione di una unità di missione a Palazzo Chigi per
gestire il modello sperimentale.
Un altro pilastro del modello sperimentale che viene
proposto è la creazione di un «elenco speciale degli
esecutori per ciascun lavoro da affidare con la procedura»,
detenuto presso l'unità di missione. Sarà l'unità di
missione, con proprio atto, a disciplinare le modalità di
funzionamento dell'elenco speciale, specificando i requisiti
di qualificazione e partecipazione richiesti e assicurando
la pubblicazione delle schede di sintesi degli interventi.
Le imprese interessate dovranno inviare domanda di
iscrizione all'elenco speciale.
Le stazioni appaltanti inviteranno a presentare offerta, in
relazione ad ogni singolo lavoro, «i primi dieci
operatori presenti nell'elenco speciale degli esecutori, non
ancora selezionati e così fino a esaurimento degli operatori
iscritti in possesso dei requisiti e delle qualificazioni
richieste». L'affidamento «avviene nel rispetto dei principi
di trasparenza, rotazione e parità di trattamento» (articolo Il Sole 24 Ore del
28.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Agrotecnici, competenza fondiaria.
Sono di competenza anche degli iscritti all'albo degli
agrotecnici le attività di progettazione e direzione delle
opere di trasformazione e miglioramento fondiario, sia
agrario che forestale.
Questa precisazione è contenuta
nell'art. 1-bis, 16 comma, del decreto-legge 24.06.2014,
n. 91 convertito nella legge 11.08.2014 n. 116
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21.08.2014 n.
72).
Con tale norma è stato interpretato l'articolo 11, comma 1,
lettera c), della legge 06.06.1986, n. 251 (come
modificato dall'articolo 26, comma 2-bis, del decreto-legge
31.12.2007, n. 248, convertito, con modificazioni,
dalla legge 28.02.2008, n. 31), sostenendo che «sono
anche di competenza degli iscritti nell'albo degli
agrotecnici le attività di progettazione e direzione delle
opere di trasformazione e miglioramento fondiario, sia
agrario che forestale».
Il presidente del collegio nazionale degli agrotecnici,
Roberto Orlandi, ha commentato la portata di tale norma
affermando che «con questo chiarimento legislativo è
stata messa fine alla continua incertezza sulle competenze e
resa giustizia alla elevata professionalità degli iscritti
nell'albo degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati, i
quali da oggi sanno di potere pacificamente attendere alle
loro attività, scevri da conflitti, mentre la maggiore
concorrenza fra la nostra e le altre categorie, che
iscrivono le medesime classi di laurea, si svolgerà in
condizioni di maggiore parità, all'interno di un quadro
legislativo meglio definito, portando indiscussi benefici
sia per al mercato dei servizi professionali che per gli
stessi albi coinvolti, obbligati a operare in modo più
accorto e con maggiore riguardo verso i loro iscritti e
verso i cittadini-consumatori»
(articolo ItaliaOggi del 27.08.2014
- tratto da www.centrocstudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Da ottobre modello unico per il fotovoltaico.
Semplificazioni amministrative con rilevanza anche dal punto
di vista edilizio per la realizzazione, la connessione e
l'esercizio degli impianti di produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili e delle unità di
microcogenerazione. Dal 01.10.2014, si utilizzerà un
modello unico per la realizzazione, la connessione e
l'esercizio degli impianti di produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili e per l'esercizio di unità di microcogenerazione.
Il modello sarà approvato dal ministero dello sviluppo
economico, sentita l'autorità per l'energia elettrica e il
gas ed il sistema idrico e sostituirà tutti i modelli
eventualmente adottati dai comuni, dai gestori di rete e dal
Gse. Questo grazie all'articolo 30, del decreto-legge 24.06.2014, n. 91 convertito nella legge 11.08.2014 n.
116 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21.08.2014
n. 72), con il quale viene inserito, dopo l'articolo 7 del
decreto legislativo 03.03.2011, n. 28 il nuovo articolo
7-bis rubricato «semplificazione delle procedure autorizzative per la realizzazione di interventi di
efficienza energetica e piccoli impianti a fonti
rinnovabili».
Il nuovo modello dovrà contenere
esclusivamente i dati anagrafici di colui che presenta la
comunicazione, l'indirizzo dell'immobile e la descrizione
sommaria dell'intervento, la dichiarazione di essere in
possesso della documentazione rilasciata dal progettista
circa la conformità dell'intervento alla regola d'arte e
alle normative di settore. I soggetti destinatari della
comunicazione resa con il modello unico non potranno
richiedere documentazione aggiuntiva.
Viene, inoltre,
previsto che nel caso in cui si debbano acquisire appositi
atti amministrativi l'interessato potrà allegarli alla
comunicazione stessa ovvero demandarne l'acquisizione allo
sportello unico per l'edilizia, che vi dovrà provvedere
entro il termine di 45 giorni. Sono state inoltre introdotte
semplificazioni per le autorizzazioni in biometano.
Per gli
impianti e le attività degli stabilimenti a tecnologia
avanzata nella produzione di biocarburanti, al fine di
assicurare la tutela della salute e dell'ambiente, il
ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del
mare, sentito il ministro della salute, adotta entro 18 mesi
dalla data di entrata in vigore della legge 11.08.2014
n. 116 (21.08.2014), nel rispetto di quanto previsto
dalla normativa europea, apposite linee guida recanti i
criteri per la fissazione dei valori limite di emissione
degli impianti di bioraffinazione, quale parametro
vincolante di valutazione da parte delle autorità
competenti.
Nelle more dell'adozione delle linee guida, gli
impianti di bioraffinazione devono applicare le migliori
tecniche disponibili, rispettare i limiti massimi previsti
dalla normativa nazionale applicabile in materia di tutela
della qualità dell'aria, di qualità ambientale e di
emissioni in atmosfera
(articolo ItaliaOggi del 27.08.2014). |
APPALTI: Rischio caos sulle «white list».
Appalti. Le novità del Dl 90/2014.
Il decreto legge Pa
(n. 90/2014) è intervenuto, tra le altre cose, anche sulla
questione delle "white list", cioè gli elenchi prefettizi
delle imprese che eseguono lavori pubblici e che non sono
soggette a infiltrazioni mafiose. Il Dl interviene però con
una norma transitoria che rischia –paradossalmente– di
vanificare, almeno per i prossimi 12 mesi, l'obiettivo di
bloccare le infiltrazioni criminali. Ecco perché.
Le maggiori perplessità destate dall'articolo 29 del
decreto-legge n. 90/2014 ruotano probabilmente intorno alla
norma transitoria contenuta nel comma 2, il quale dispone
che: «In prima applicazione, e comunque per un periodo non
superiore a dodici mesi dalla data di entrata in vigore del
presente decreto, i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1
e 2, del citato decreto legislativo n. 159 del 2011, per le
attività indicate all'articolo 1, comma 53, della predetta
legge n. 190 del 2012, procedono all'affidamento di
contratti o all'autorizzazione di subcontratti previo
accertamento della avvenuta presentazione della domanda di
iscrizione nell'elenco di cui al comma 1».
A una prima lettura della disposizione, sembrerebbe dunque
che, nell'attesa di una maggiore definizione delle white
list nel corso del prossimo anno, le stazioni appaltanti
potranno comunque definire i propri rapporti contrattuali, e
quindi bypassare paradossalmente le verifiche antimafia,
servendosi della sola richiesta, formulata dall'impresa, di
iscrizione negli elenchi prefettizi.
Qualora poi dovesse essere accertata la sussistenza di un
tentativo di infiltrazione mafiosa, che condurrà ovviamente
al diniego di iscrizione dell'impresa da parte della
prefettura, troveranno applicazione –in base alla norma
transitoria– i commi 2 e 3 dell'articolo 94 d.lgs. n.
159/2011.
E quindi, le amministrazioni dovranno recedere dai
contratti, facendo salvo il pagamento delle opere già
eseguite e il rimborso delle spese sostenute per
l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità
conseguite; oppure, ancora, potranno evitare il recesso nel
caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione.
In sostanza, le stazioni appaltanti rischiano, ancora una
volta, di ammettere alla stipula un soggetto che potrebbe
rivelarsi in odore di mafia, con buona pace dei controlli
preventivi (articolo Il Sole 24 Ore del
27.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza, obbligo degli appaltatori.
Appalti. Il vincolo vale anche per le imprese straniere.
La verifica delle
capacità tecnico professionali dell'impresa appaltatrice non
può essere limitata alle competenze tecniche, ma si deve
estendere anche all'osservanza delle norme
antinfortunistiche.
Il principio è stato espresso dalla
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la
sentenza 28.08.2014 n. 36268.
La sentenza scaturisce dalla condanna di un appaltatore e
dal responsabile delegato alla sicurezza della ditta
committente, che aveva affidato l'appalto a una società
croata, per aver cagionato al dipendente del primo lesioni
personali gravi per imperizia, imprudenza e inosservanza
delle norme di prevenzione infortuni da parte dell'azienda
appaltatrice.
Il responsabile dell'impresa committente ha fatto ricorso. I
giudici avrebbero erroneamente fondato la responsabilità nei
suoi confronti ritenendo che i requisiti di idoneità
tecnico-professionale dell'impresa appaltatrice, previsti
dal Dlgs 626/1994, riguardino anche la sicurezza,
interpretando in tal senso una norma la quale difetta della
necessaria tassatività che deve caratterizzare il precetto
penale con riferimento alle norme integrative.
È quanto meno
dubbio, secondo la difesa, che l'idoneità tecnico
professionale investa anche il profilo della sicurezza, cui
è specificamente dedicato il punto sub b) dell'articolo 7,
in merito al quale è apparso di notevole portata
interpretativa l'articolo 26 del Dlgs 81/2008 (nel quale è
trasfuso l'articolo 7 del 626/1994), il quale specifica come
effettuare la verifica fino a quando le modalità non vengano
previste con decreto: una norma priva della tassatività e
determinatezza idonei a configurarla come integratrice del
precetto penale.
La Cassazione ritiene, invece, che gli articoli 7 e 26
individuano due distinti obblighi del datore di lavoro che
si avvale di un'impresa appaltatrice per lavori all'interno
dell'azienda: un obbligo di verifica dell'idoneità tecnico
professionale in relazione al lavoro da fare, dal quale si
desume una posizione di garanzia del datore nella scelta
dell'impresa e un obbligo di informazione sui rischi
specifici che questa incontrerà nell'ambiente di lavoro.
La
disposizione richiamata non lascia margini di dubbio,
secondo la Cassazione, in merito alla finalità della norma,
di garantire la sicurezza del lavoro nella particolare
situazione in cui determinate attività vengano affidate in
appalto e si svolgano nei locali dell'impresa committente. È
evidente che la scelta dell'impresa appaltatrice trova la
sua ragion d'essere nella finalità di evitare che attraverso
la stipula di un contratto di appalto, vengano affidate
all'appaltatore lavorazioni o mansioni che il singolo
lavoratore non sia in grado di svolgere, con incremento del
rischio per la sua sicurezza.
Da qui l'altro principio secondo cui la norma ha la funzione
di individuare l'ipotesi in cui il committente si debba
ritenere corresponsabile con l'appaltatore per la violazione
delle norme antinfortunistiche (articolo Il Sole 24 Ore del
29.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Permesso nell'ex festività, maggiorazione festivo ko.
Il permesso sindacale fruito in un giorno coincidente con ex
festività soppresse non dà diritto a fruire della
maggiorazione retributiva per lavoro festivo. L'art. 23
della legge n. 300/1970 (statuto lavoratori), infatti,
stabilisce la sola retribuzione dei permessi sindacali,
escludendo le voci retributive che presuppongono l'effettiva
presenza al lavoro.
Lo stabilisce la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella
sentenza 28.08.2014 n. 18425.
La questione riguarda due lavoratrici che hanno fruito di
permessi sindacali nelle giornate del 04.11.1996 e del
02.06.1997, coincidenti con le festività soppresse dalla
legge n. 54/1977. Con un primo ricorso al Tribunale, le
lavoratrici hanno ottenuto il riconoscimento delle
maggiorazioni per lavoro festivo per le giornate di permesso
sindacale, sostenendo una piena equiparazione dell'assenza
dall'azienda per esercizio di attività sindacale con
l'effettiva prestazione di lavoro. Impugnata la sentenza, la
Corte di appello l'ha riformata disconoscendo le
maggiorazioni. La vicenda è quindi arrivata in Cassazione
per volontà delle lavoratrici che vogliono vedere
ristabilito il diritto alle maggiorazioni.
Ma anche la Cassazione dice no. A tal fine riprende il
principio dell'onnicomprensività della retribuzione
(sentenza n. 5647/1989), con cui ha chiarito che «nel
trattamento economico spettante al lavoratore subordinato
nei periodi di assenza per permessi sindacali (nonché per
ferie) non deve essere incluso un'indennità contrattuale
quale il contributo-paso, ancorché configuri un'erogazione
del datore di lavoro di natura retributiva, ove dai patti
della contrattazione collettiva o individuale emerga la
volontà delle parti di limitare detta erogazione alle sole
giornate in cui vi sia stata effettiva presenza al lavoro».
Ciò perché, spiega, il principio non ha valore di regola
generale dell'ordinamento, limitativa dell'autonomia
privata, e non osta a che questa disponga di non includere
tale elemento nel calcolo della retribuzione per i periodi
di non lavoro. L'esclusione peraltro «è legittima in
particolare quanto ai permessi per i quali la legge (art. 23
Statuto lavoratori) impone solo che le relative assenze dal
lavoro siano retribuite»
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2014). |
APPALTI SERVIZI:
Ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo
antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma
2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito nella
legge 07.08.2012 n. 135, negli appalti di servizi da
affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige ex
lege il principio di necessaria corrispondenza tra la
qualificazione di ciascuna impresa e la quota della
prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa
disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis
della gara.
F)
Nella presente sede nomo-filattica, l’Adunanza plenaria è
chiamata a risolvere, ai sensi dell'art. 99, comma 1, c.p.a.,
il seguente quesito di diritto: “se gli artt. 37, 41 e 42
del codice dei contratti, nella formulazione antecedente
alla novella di cui alla legge n. 135/2012, consentano,
anche per gli appalti di servizi, l’applicazione del
principio di corrispondenza fra quota di capacità e quota di
esecuzione della prestazione, a prescindere dalle espresse
previsioni della lex certaminis”.
Al riguardo l’Adunanza ritiene di confermare in toto il
proprio indirizzo interpretativo espresso con la sentenza
30.01.2014 n. 7.
In detta occasione si è osservato come la risoluzione della
questione imponga di stabilire in primis la natura giuridica
e la portata applicativa della norma sancita dall’art. 37,
comma 13, codice dei contratti pubblici che, nel testo
vigente alla data del bando, così disponeva: <<13. I
concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono
eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente
alla quota di partecipazione al raggruppamento>>.
Successivamente tale disposizione è stata novellata dalla
lettera a) del comma 2-bis dell’art. 1 del decreto-legge
06.07.2012 n. 95, introdotto dalla legge di conversione
07.08.2012 n. 135 (con decorrenza dal 15.08.2012, data di
entrata in vigore della legge di conversione): <<13. Nel
caso di lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento>>.
Da ultimo tale comma è stato abrogato dall’ art. 12, comma
8, d.l. 28.03.2014, n. 47, convertito, con modificazioni,
dalla l. 23.05.2014, n. 80.
G)
Prima della novella del 2012, la giurisprudenza
amministrativa (cfr. da ultimo Cons. St., Sez. V, sent.
29.09.2013 n. 4753; sez. VI, sent. 20.09.2013 n. 4676), per
alcuni aspetti corroborata da recenti pronunce dell’Adunanza
plenaria (cfr. sentt. 13.06.2012 n. 22 e 05.07.2012 n. 26,
in tema di appalti di servizi), si era consolidata -sulla
scorta di una lettura unitaria della norma sancita dal comma
13 cit. con quella di cui al comma 4 del medesimo articolo
37, secondo cui: <<4. Nel caso di forniture o servizi
nell’offerta devono essere specificate le parti del servizio
o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori
economici riuniti o consorziati>>- nell’affermazione dei
seguenti princìpi:
a) corrispondenza sostanziale, già nella fase dell'offerta,
tra le quote di partecipazione all’a.t.i. e le quote di
esecuzione delle prestazioni, costituendo la relativa
dichiarazione requisito di ammissione alla gara e non
contenuto di obbligazione da far valere solo in sede di
esecuzione del contratto;
b) funzione dell’obbligo di corrispondenza fra quote di
partecipazione ed esecuzione ravvisata nelle seguenti
esigenze: I) conoscere preventivamente, da parte della
stazione appaltante, il soggetto incaricato di eseguire le
prestazioni e la misura percentuale, al fine di rendere più
spedita l’esecuzione del rapporto, individuando ciascun
responsabile; II) agevolare la verifica della competenza
dell’esecutore in rapporto alla documentazione di gara; III)
prevenire la partecipazione alla gara d’imprese non
qualificate;
c) trattandosi di un precetto imperativo che introduce un
requisito di ammissione, quand'anche non esplicitato dalla
lex specialis, quest’ultima è da intendersi
corrispondentemente etero-integrata ai sensi dell’art. 1339,
c.c., sicché la sua inosservanza determina l'esclusione
dalla gara (sulla non necessità, ai sensi dell’art. 46,
comma 1-bis, codice dei contratti pubblici, che la sanzione
dell’esclusione sia espressamente prevista dalla norma di
legge, allorquando sia certo il carattere imperativo del
precetto che imponga un determinato adempimento ai
partecipanti ad una gara, cfr. Adunanza plenaria, 16.10.2013
n. 23 e 07.06.2012 n. 21);
d) tale obbligo di dichiarazione in sede di offerta s’impone
per tutte le tipologie di a.t.i. (costituite, costituende,
verticali, orizzontali), per tutte le tipologie di
prestazioni (scorporabili o unitarie, principali o
secondarie) e per tutti i tipi di appalti (lavori, servizi e
forniture), indipendentemente dall’assoggettamento della
gara alla disciplina comunitaria;
e) poiché l’obbligo di simmetria tra quota di esecuzione e
quota di effettiva partecipazione all’a.t.i. scaturisce e
s’impone ex lege, è necessaria e sufficiente, in sede
di formulazione dell’offerta, la dichiarazione delle quote
di partecipazione, cui la legge attribuisce un valore
predeterminato, che è quello dell’assunzione dell’impegno da
parte delle imprese di eseguire le prestazioni in misura
corrispondente.
H)
All’interno del su riferito indirizzo giurisprudenziale si è
sviluppato un filone esegetico che ha divisato un ulteriore
necessario parallelismo, in modo congiunto, anche fra quote
di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote di
esecuzione.
Tale impostazione va respinta perché:
a) in contrasto con il tenore testuale delle disposizioni
del codice dei contratti pubblici (e segnatamente, i commi 4
e 13 dell’art. 37), che non consentono di avallare una
siffatta opzione interpretativa;
b) in contrasto con la sistematica del codice (e del
regolamento attuativo), che disciplina in maniera completa e
nella sede propria il regime della qualificazione delle
imprese anche riunite in a.t.i., per i lavori, mentre affida
alla disciplina di gara ogni determinazione in materia per
gli appalti di servizi e forniture, salvi i limiti sanciti
dagli artt. 41 – 45.
Il quadro unitario così configurato dalla giurisprudenza, ha
subìto, successivamente alla novella introdotta dal d.l. n.
95/2012, una frattura che conduce ad una lettura atomistica
delle norme sancite dai più volte richiamati commi 4 e 13
dell’art. 37, codice dei contratti pubblici.
Deve ritenersi, invero, che:
a) giusta il tenore letterale della nuova disposizione e la
sua finalità di semplificare gli oneri di dichiarazione
incombenti sulle imprese raggruppate operanti nel mercato
dei contratti pubblici, l’obbligo di corrispondenza fra
quote di partecipazione e quote di esecuzione, sancito dal
più volte menzionato comma 13, sia rimasto circoscritto ai
soli appalti di lavori, fino all’entrata in vigore del d.l.
n. 47/2014 (abrogante il cit. comma 13);
b) per gli appalti di servizi e forniture continua a trovare
applicazione unicamente la norma sancita dal comma 4
dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più
modesto obbligo d’indicare le parti del servizio o della
fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere
anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di
partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però,
che ciascuna impresa va qualificata per la parte di
prestazioni che s’impegna ad eseguire, nel rispetto delle
speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa
di gara;
c) rimane inteso, in entrambi i casi, che le norme in
questione continuano ad esprimere un precetto imperativo da
rispettarsi a pena di esclusione e sono dunque capaci di
etero-integrare i bandi silenti.
I)
In base alle esposte considerazioni va, quindi, enunciato il
seguente principio di diritto: “Ai sensi dell’art. 37,
commi 4 e 13, nel testo antecedente alle modifiche apportate
dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95,
convertito nella legge 07.08.2012 n. 135, negli appalti di
servizi da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese
non vige ex lege il principio di necessaria corrispondenza
tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della
prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa
disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis
della gara” (Consiglio di Stato, adunanza plenaria,
sentenza 28.08.2014 n. 27 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Reati fiscali ostativi all'appalto.
Tar Milano. Il requisito di moralità.
Chi vuole partecipare a
una gara di appalto pubblico, deve dichiarare l'esistenza di
eventuali condanne penali in materia fiscale: lo sottolinea
il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, nella
sentenza
19.08.2014 n. 2208.
Il Comune aveva indetto una gara per l'affidamento del
servizio di manutenzione di veicoli e macchine operatrici e
un imprenditore era risultato aggiudicatario: poi era emersa
l'esistenza di un decreto penale del Gip, per il reato di
omesso versamento Iva (articolo 10-ter del decreto
legislativo 74 del 10.03.2000), un patteggiamento per il
reato di omesso versamento di ritenute certificate (articolo
10-bis, Dlgs 74/2000) e un altro patteggiamento per
dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti (articolo 2, Dlgs
74/2000).
Di qui il provvedimento del Comune, che ha annullato in
autotutela l'aggiudicazione, ritenendo carente il requisito
della moralità professionale, richiesto dall'articolo 38,
lettera c), Dlgs 163/2006 sugli appalti pubblici.
Respingendo il ricorso dell'impresa, il Tar ha condiviso
l'orientamento del Comune, precisando che i reati in materia
di violazione delle norme sulla repressione dell'evasione
fiscale risultano tra quelli, in astratto, idonei a incidere
sulla moralità professionale e che le valutazioni in ordine
alla gravità delle eventuali condanne riportate e la loro
incidenza sulla moralità professionale spettano
esclusivamente all'amministrazione appaltante e non già ai
concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad indicare tutte
le condanne riportate.
Il giudizio relativo alla dichiarazione o meno delle
condanne a seconda della loro gravità, è inevitabilmente
soggettivo, è quindi evidentemente inconciliabile con la
finalità della legge.
La sentenza del Tar è uno dei primi casi di valutazione del
peso degli illeciti fiscali, poiché in precedenza (Consiglio
Stato 1378/2013; Tar Friuli-Venezia Giulia 537/2011) si
erano esaminati solo concetti generici di completezza e
veridicità delle dichiarazioni degli imprenditori
concorrenti, sotto il profilo della puntuale indicazione di
tutte le sentenze penali di condanna eventualmente riportate
(ad esempio in tema di prevenzione degli infortuni sul
lavoro).
Nel caso esaminato, i giudici milanesi hanno precisato che
l'esclusione dell'imprenditore condannato penalmente per
reati fiscali, doveva ritenersi legittima anche se una
recente sentenza della Corte Costituzionale 80/2014 avrebbe
comportato l'assoluzione dell'imprenditore per i medesimi
fatti.
La sentenza della Corte costituzionale dichiara,
effettivamente, l'illegittimità dell'articolo 10-ter del
Dlgs 74/2000 nella parte in cui punisce l'omesso versamento
dell'Iva dovuta per importi non superiori, per ciascun
periodo di imposta, a 103.291 euro.
Tuttavia, sottolineano i giudici amministrativi, la
pronuncia della Corte risultava depositata dopo la domanda
di partecipazione alla gara, con la conseguenza che
l'imprenditore avrebbe dovuto comunque menzionare tutte le
condanne fiscali riportate (articolo Il Sole 24 Ore del
28.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla costa piscina compatibile.
Il mancato impatto ambientale dimostrato da un dossier di
foto.
Consiglio di Stato. Si può sanare il manufatto in una zona
senza vincolo di inedificabilità assoluta.
Una piscina realizzata vicino al mare, nella fascia di
tutela, può essere ritenuta compatibile con il vincolo
paesaggistico: lo
sottolinea il
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.08.2014 n. 4226,
relativa ad un intervento nel Comune di Orbetello sulla
riviera toscana.
Il contrasto era sorto in quanto un Comune aveva respinto
un'istanza di sanatoria in base alla legge 47 del 1985,
facendo generico riferimento all'impatto visivo dell'opera;
in particolare, si discuteva della visibilità della piscina
da parte di chi guardasse verso il complesso edilizio
percorrendo la costa.
Per negare tale visibilità e quindi il presupposto stesso
del diniego di compatibilità paesaggistica, il costruttore
aver fornito una relazione tecnica con allegati grafici e
fotografici dai quali risultava che la piscina era
notevolmente arretrata rispetto alla linea di costa, e
quindi non risultava visibile dal mare. Al più, dalla costa
era possibile scorgere il belvedere con giardino
prospicienti la piscina, ma solo ponendosi al livello di
tali strutture, e non da quote inferiori (e, in particolare,
dal livello della costa), l'intervento era effettivamente
percepibile.
Infine, si discuteva anche di una discesa a mare, che era
stata realizzata con accorgimenti costruttivi idonei a
mitigarne in modo rilevante l'impatto sul paesaggio
circostante, ad esempio attraverso il ricorso alla pietra
locale e alla copertura dei manufatti con essenze arboree e
senza alterare l'andamento del naturale del terreno.
Una parte rilevante della decisione del giudice
amministrativo riguarda l'esame congiunto della
documentazione fornita dal privato rispetto a quella
dell'amministrazione: il privato si era immedesimato in un
generico fruitore del paesaggio, illustrando la
percepibilità dell'abuso nelle varie prospettive
utilizzabili; l'amministrazione comunale, invece, aveva
esibito unicamente fotografie aeree, nelle quali la piscina
risultava particolarmente evidente, anche se in un'ottica
non usuale proprio perché aerea.
La vicenda esaminata appare rilevante anche per altri casi
di realizzazione di piscine, poiché tali strutture, pur non
avendo un impatto di tipo volumetrico, sono spesso di forte
peso ambientale per la loro collocazione, i riverberi ed i
colori fortemente invasivi sull'ambiente. Nel caso
specifico, inoltre, si discuteva di un intervento oggetto di
sanatoria dell'inizio degli anni 90 e di un provvedimento
sfavorevole che derivava da norme sul condono edilizio, di
dubbia applicabilità nei casi in cui sussista un vincolo di
carattere paesaggistico, diverso dal vincolo di
inedificabilità assoluta.
Nell'ottica ambientale, il problema della percepibilità
dell'abuso emerge anche in altri casi, ad esempio quando il
manufatto è arretrato rispetto al fronte visibile, oppure
quando è interrato o inglobato in una struttura preesistente
che ne esclude l'invasività. In materia di pregiudizio
causato da una piscina alla visuale e al paesaggio, si
ricorda la sentenza del Consiglio di Stato 3853/2010,
secondo la quale un'opera che non abbia uno sviluppo
verticale difficilmente può avere rilevanza sotto il profilo
paesaggistico, con la conseguenza che i vicini non possono
lamentarsi dell'esecuzione piscina.
Infine, qualora manchino vincoli ambientali, la
realizzazione di questi impianti e agevolata secondo
l'orientamento del Consiglio di Stato 1951/2014 che
esaminando il caso di una piscina prefabbricata di
dimensioni relativamente modeste in rapporto a un edificio a
destinazione residenziale, sito in zona agricola, ha
qualificato l'opera come una pertinenza, realizzabile
(articolo 7, secondo comma, lettera a) del decreto legge
23.01.1982, n. 9) con semplice autorizzazione gratuita,
assieme ai vani per impianti tecnologici a servizio della
piscina stessa (articolo Il Sole 24 Ore del
28.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Divieto di transito stradale, prevale l'interesse pubblico.
Via libera al divieto di transito nell'area anche se questo
può danneggiare il distributore di benzina. Legittimo,
invece, il dispositivo che privilegia i mezzi pubblici per
tutelare salute e sicurezza restando, infatti, accessibile
l'impianto, uno dei pochi rimasti nell'area urbana.
È quanto
emerge dalla
sentenza
24.07.2014 n. 3929, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di stato.
Nel caso di specie, il
titolare di una pompa di benzina non è riuscito a far
togliere il divieto di transito nell'area contigua
all'impianto nonostante la tesi secondo la quale il nuovo
dispositivo di traffico gli farebbe perdere clienti. Il
comune, però, ben può privilegiare i mezzi del trasporto
pubblico per motivi di salute e sicurezza laddove il
distributore resta comunque accessibile dalle auto. E ciò
specialmente se si tratta di amministrare una metropoli come
Roma.
Niente da fare, quindi, per il titolare del chiosco di
rifornimento carburanti: l'eventuale diminuzione dei sui
incassi non ferma il provvedimento del Comune che a due
passi dal distributore limita il traffico veicolare. E ciò
perché l'amministrazione cittadina disciplina la viabilità
ispirandosi al suo statuto, secondo cui la «mobilità
generale» si promuove incentivando il trasporto pubblico
locale: l'ordinanza riduce a 25 chilometri l'ora il limite
di velocità nella zona per evitare che al passaggio dei
mezzi possano tremare i palazzi d'epoca del quartiere dei Parioli. Di fronte alle esigenze pubbliche, dunque, deve
farsi da parte l'interesse del piccolo imprenditore che
intende mantenere costanti i flussi di utenza del servizio
di vendita del carburante per autotrasporto.
«Fra l'altro»,
osservano i giudici di Palazzo Spada, «la pompa di benzina
non è caduta in disgrazia con il nuovo dispositivo di
traffico, che interessa solo marginalmente il distributore
collocato al di fuori dall'area del divieto: il chiosco ha
addirittura ampliato e migliorato il servizio». E può
giovarsi della pianificazione degli impianti di rifornimento
del carburante che punta a portare sempre più impianti in
periferia. Insomma: resta confermata la disposizione che si
inserisce nel più ampio piano generale del trasporto urbano
(Pgtu), approvato dal Consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del
30.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire in deroga agli strumenti
urbanistici generali (deroga che, nel rispetto delle norme
igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare
esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione
degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi) è
rilasciato esclusivamente per edifici e impianti pubblici o
di interesse pubblico, previa deliberazione del Consiglio
comunale (cfr. art. 14, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 380;
in precedenza, l'art. 41-quater della legge urbanistica).
Se la deliberazione preliminare del Consiglio comunale
costituisce un elemento necessario del procedimento
amministrativo destinato a sfociare nel rilascio o diniego
della concessione in deroga, con la conseguenza che la sua
assenza vizia il procedimento stesso, d'altro canto, la
giurisprudenza amministrativa, da sempre, reputa che l'atto
terminale del procedimento è costituito dal permesso di
costruire in deroga, mentre la previa deliberazione del
Consiglio comunale (salvo il caso di determinazione
negativa) si configura come atto interno del procedimento,
non immediatamente lesivo, impugnabile assieme agli atti di
uguale natura confluiti nel procedimento stesso, solo
congiuntamente all'atto finale, una volta emanato.
Ciò premesso, quello che conta maggiormente sottolineare è
che la delibera consiliare è deputata soltanto a dettare gli
indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato il
rilascio della concessione in deroga; per contro, sono
demandate agli uffici competenti, le verifiche e gli
accertamenti volti a verificare la fattibilità del progetto
che l'istante presenta al momento della richiesta del titolo
edilizio.
----------------
In ordine alla presentata richiesta di permesso di costruire
"in deroga" risulta necessario precisare quanto segue:
►
dall’esame degli atti di causa emerge l'omessa
comunicazione, da parte dell’amministrazione, dei motivi
ostativi all’accoglimento dell’istanza della ricorrente, ai
sensi dell’art. 10-bis L. 241/1990.
Al riguardo e come noto, “la comunicazione dei motivi
ostativi al rilascio del provvedimento richiesto,
disciplinata dall'art. 10-bis, della legge 07.08.1990 n. 241
ha la funzione, in un rapporto collaborativo con
l'Amministrazione, di consentire al soggetto destinatario
del provvedimento negativo di presentare delle
controdeduzioni avverso i motivi di diniego per evidenziare
eventuali profili di illegittimità dell'atto finale in via
di formazione (profili che dovranno poi essere valutati
dall'amministrazione ed esternati con la motivazione del
provvedimento conclusivo del procedimento), e serve per
consentire all'Amministrazione di acquisire ulteriori
elementi per l'adozione di una legittima determinazione
finale, con gli evidenti effetti deflazionistici sul
contenzioso”.
Nella specie l’amministrazione comunale non ha consentito al
ricorrente l’instaurazione del contraddittorio sulle ragioni
poste a fondamento del diniego e, in particolare,
sull’asserita necessità dell’adozione di una variante del
P.R.G.;
►
non è ostativa all’accoglimento del ricorso, nella
fattispecie, la previsione dell'articolo 21-octies, comma 2,
della legge n. 241 del 1990, secondo cui non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
Il procedimento in esame, infatti, non può ritenersi di
natura strettamente vincolata in quanto involge, e richiede,
da parte dell’Amministrazione, un’istruttoria complessa
destinata a fare luce su molteplici aspetti che la norma
prende in esame per verificare la possibilità di addivenire
alla deroga e, in particolare, da un lato la valutazione
dell’interesse pubblico dell’opera, dall’altro la
considerazione dei limiti in cui la stessa può essere
autorizzata, tenuto conto dei vincoli che possono risultare
ostativi alla deroga.
Nel caso di specie, trattandosi di struttura deputata alla
fornitura di prestazioni sanitarie, la sussistenza del
requisito dell’interesse pubblico non è revocabile in
dubbio.
►
tuttavia, l’art. 14 del D.P.R.
380/2001 prevede altresì che la deroga alla disciplina
urbanistica:
1) è inammissibile se contrastante con la normativa
paesaggistica di cui al D.Lg.vo n. 42/2004, con le "norme
igieniche, sanitarie e di sicurezza" e con le "altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia";
2) "può riguardare esclusivamente i limiti di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui
alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici
generali ed esecutivi, fermo restando in ogni caso il
rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del
D.M. n. 1444 del 02.04.1968", cioè tale deroga può riferirsi
soltanto ai parametri edilizi della densità edilizia,
dell'altezza e della distanza tra i fabbricati, previsti
dagli strumenti urbanistici generali ed esecutivi in misura
maggiore e/o superiore a quelli stabiliti dai predetti artt.
7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968.
Il permesso di costruire in deroga agli strumenti
urbanistici generali ed esecutivi, disciplinato da tale
norma, non può quindi essere rilasciato, se contrastante con
le norme e prescrizioni urbanistiche, diverse da quelle in
tema di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati ("fermo restando in ogni caso il rispetto delle
disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del
02.04.1968"), come per esempio quelle in materia di
destinazioni di zona e/o di uso.
Con riferimento a tali aspetti nessun contraddittorio è
stato sollecitato dall’Amministrazione comunale.
Non può quindi ritenersi che l’interlocuzione con la
ricorrente da attivare con il "preavviso" non avrebbe
variato il contenuto del provvedimento conclusivo, stante la
necessità di chiarire, in ogni caso con la partecipazione
dell’interessato, quale fosse l’ostacolo della normativa di
piano regolatore generale rilevante nella fattispecie.
►
ritiene, inoltre, il Collegio
che, nella fattispecie l'onere della motivazione non sia
stato né sufficientemente né correttamente assolto, avendo
l’Amministrazione comunale fatto riferimento in modo del
tutto generico ed apodittico alla necessità della variante,
senza in alcun modo specificare quali aspetti del progetto
risultassero in contrasto con quali precisi vincoli posti
dalla pianificazione.
Tale indicazione risultava tanto più necessaria se si
considera che il permesso in deroga era stato già rilasciato
una volta ed era decaduto per la mancata ultimazione delle
opere nel termine previsto.
Inoltre, considerato che l'ordinamento consente di derogare
alla ordinaria disciplina pianificatoria, privilegiando il
concorrente interesse pubblico sotteso alla deroga, la
previsione di tale specifico potere esclude, tuttavia, per
la contraddizione che non consente la diversa conclusione
che si possa attribuire rilevanza preclusiva alla
valutazione del solo contrasto con la pianificazione
urbanistica comunale.
Il presente ricorso verte essenzialmente sul diniego di
rilascio del secondo permesso di costruire in deroga,
scaduto il primo, per l’ampliamento della struttura adibita
dalla società ricorrente a casa di cura deputata a fornire
prestazioni specialistiche in varie branche sanitarie.
Giova premettere che il permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici generali (deroga che, nel rispetto
delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può
riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di
altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di
attuazione degli strumenti urbanistici generali ed
esecutivi) è rilasciato esclusivamente per edifici e
impianti pubblici o di interesse pubblico, previa
deliberazione del Consiglio comunale (cfr. art. 14, comma 1,
del DPR 06.06.2001, n. 380; in precedenza, l'art. 41-quater
della legge urbanistica). Se la deliberazione preliminare
del Consiglio comunale costituisce un elemento necessario
del procedimento amministrativo destinato a sfociare nel
rilascio o diniego della concessione in deroga, con la
conseguenza che la sua assenza vizia il procedimento stesso,
d'altro canto, la giurisprudenza amministrativa, da sempre
(quantomeno a partire da Consiglio Stato, sez. V,
06.06.1984, n. 433), reputa che l'atto terminale del
procedimento è costituito dal permesso di costruire in
deroga, mentre la previa deliberazione del Consiglio
comunale (salvo il caso di determinazione negativa) si
configura come atto interno del procedimento, non
immediatamente lesivo, impugnabile assieme agli atti di
uguale natura confluiti nel procedimento stesso, solo
congiuntamente all'atto finale, una volta emanato (così TAR
Milano, Sez. II, 09.04.1998, n. 728; più recentemente, TAR
Sardegna sez. II, 04.06.2012, n. 556). Ciò premesso, quello
che conta maggiormente sottolineare è che la delibera
consiliare è deputata soltanto a dettare gli indirizzi al
soddisfacimento dei quali viene subordinato il rilascio
della concessione in deroga; per contro, sono demandate agli
uffici competenti, le verifiche e gli accertamenti volti a
verificare la fattibilità del progetto che l'istante
presenta al momento della richiesta del titolo edilizio.
Nel caso di specie il permesso è stato negato avendo il
Comune addotto che le opere progettate avrebbero richiesto
una variante al Piano regolatore generale, senza alcuna
ulteriore specificazione.
Dall’esame degli atti di causa emerge, in primo luogo, la
fondatezza del primo motivo del ricorso principale, con il
quale è stata contestata la omessa comunicazione, da parte
dell’amministrazione, dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza della ricorrente, ai sensi dell’art. 10-bis L.
241/1990.
Nella fattispecie risulta pacifico che alla società
ricorrente non è stata inviata la comunicazione prevista
dall’art. 10-bis L. 241/1990.
Come noto, “la comunicazione dei motivi ostativi al
rilascio del provvedimento richiesto, disciplinata dall'art.
10-bis, della legge 07.08.1990 n. 241 ha la funzione, in un
rapporto collaborativo con l'Amministrazione, di consentire
al soggetto destinatario del provvedimento negativo di
presentare delle controdeduzioni avverso i motivi di diniego
per evidenziare eventuali profili di illegittimità dell'atto
finale in via di formazione (profili che dovranno poi essere
valutati dall'amministrazione ed esternati con la
motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento),
e serve per consentire all'Amministrazione di acquisire
ulteriori elementi per l'adozione di una legittima
determinazione finale, con gli evidenti effetti
deflazionistici sul contenzioso” (cfr., da ultimo, TAR
Napoli, sez. VIII, sent. n. 958/2014).
Nella specie l’amministrazione comunale non ha consentito al
ricorrente l’instaurazione del contraddittorio sulle ragioni
poste a fondamento del diniego e, in particolare,
sull’asserita necessità dell’adozione di una variante del
P.R.G. del Comune di Caserta.
Non è ostativa all’accoglimento del ricorso, nella
fattispecie, la previsione dell'articolo 21-octies, comma 2,
della legge n. 241 del 1990, secondo cui non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato; il procedimento in esame, infatti, non
può ritenersi di natura strettamente vincolata in quanto
involge, e richiede, da parte dell’Amministrazione,
un’istruttoria complessa destinata a fare luce su molteplici
aspetti che la norma prende in esame per verificare la
possibilità di addivenire alla deroga e, in particolare, da
un lato la valutazione dell’interesse pubblico dell’opera,
dall’altro la considerazione dei limiti in cui la stessa può
essere autorizzata, tenuto conto dei vincoli che possono
risultare ostativi alla deroga.
Nel caso di specie, trattandosi di struttura deputata alla
fornitura di prestazioni sanitarie, la sussistenza del
requisito dell’interesse pubblico non è revocabile in
dubbio.
Tuttavia, l’art. 14 del D.P.R. 380/2001 prevede altresì che
la deroga alla disciplina urbanistica:
1) è inammissibile se contrastante con la normativa
paesaggistica di cui al D.Lg.vo n. 42/2004, con le "norme
igieniche, sanitarie e di sicurezza" e con le "altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia";
2) "può riguardare esclusivamente i limiti di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui
alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici
generali ed esecutivi, fermo restando in ogni caso il
rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del
D.M. n. 1444 del 02.04.1968", cioè tale deroga può
riferirsi soltanto ai parametri edilizi della densità
edilizia, dell'altezza e della distanza tra i fabbricati,
previsti dagli strumenti urbanistici generali ed esecutivi
in misura maggiore e/o superiore a quelli stabiliti dai
predetti artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968.
Il permesso di costruire in deroga agli strumenti
urbanistici generali ed esecutivi, disciplinato da tale
norma, non può quindi essere rilasciato, se contrastante con
le norme e prescrizioni urbanistiche, diverse da quelle in
tema di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati ("fermo restando in ogni caso il rispetto
delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del D.M. n.
1444 del 02.04.1968"), come per esempio quelle in
materia di destinazioni di zona e/o di uso.
Con riferimento a tali aspetti nessun contraddittorio è
stato sollecitato dall’Amministrazione comunale.
Non può quindi ritenersi che l’interlocuzione con la
ricorrente da attivare con il "preavviso" non avrebbe
variato il contenuto del provvedimento conclusivo, stante la
necessità di chiarire, in ogni caso con la partecipazione
dell’interessato, quale fosse l’ostacolo della normativa di
piano regolatore generale rilevante nella fattispecie.
Ritiene, inoltre, il Collegio che, nella fattispecie, come
contestato con il secondo motivo del ricorso principale,
l'onere della motivazione non sia stato né sufficientemente
né correttamente assolto, avendo l’Amministrazione comunale
fatto riferimento in modo del tutto generico ed apodittico
alla necessità della variante, senza in alcun modo
specificare quali aspetti del progetto risultassero in
contrasto con quali precisi vincoli posti dalla
pianificazione.
Tale indicazione risultava tanto più necessaria se si
considera che il permesso in deroga era stato già rilasciato
una volta ed era decaduto per la mancata ultimazione delle
opere nel termine previsto.
Inoltre, considerato che l'ordinamento consente di derogare
alla ordinaria disciplina pianificatoria, privilegiando il
concorrente interesse pubblico sotteso alla deroga (cfr.,
ibidem: Cons. St., V, 11.01.2006, n. 46), la previsione
di tale specifico potere esclude, tuttavia, per la
contraddizione che non consente la diversa conclusione che
si possa attribuire rilevanza preclusiva alla valutazione
del solo contrasto con la pianificazione urbanistica
comunale.
La circostanza che le opere oggetto dell’istanza
divergessero da quelle oggetto del primo permesso e
comportassero la violazione degli standard, peraltro, è
stata dedotta dalla difesa del Comune di Caserta nella
memoria conclusiva ma non ha formato oggetto di
contraddittorio né è stata addotta dal Comune quale
motivazione a sostegno del provvedimento di diniego,
concretizzando così una inammissibile integrazione postuma
della motivazione dello stesso (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 23.07.2014 n. 4110 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Niente concorsi, assunto chi è già idoneo.
Tar Basilicata. Bloccato in Regione un bando per addetti a
fondi strutturali.
Speranze infrante per 50
laureati che aspiravano a lavorare a tempo determinato
presso la Regione Basilicata come esperti di fondi
strutturali e programmazione negoziata.
Il TAR
Basilicata, con la
sentenza 17.07.2014
n. 475, ha annullato l'avviso pubblico indetto nello scorso
mese di febbraio.
La Regione si è avvalsa della selezione pubblica per
individuare le professionalità idonee da impiegare
nell'ambito del Programma operativo Fesr 2007-2013 e alla
preparazione del programma operativo regionale per il
2014-2020.
La decisione di annullare la selezione è avvenuta in seguito
a un ricorso presentato davanti al Tar da due partecipanti
ad un concorso del 2009 per due posti a tempo pieno e
indeterminato (categoria di inquadramento D3) come
funzionari presso il Consiglio regionale della Basilicata. I
ricorrenti risultarono cinque anni fa idonei non vincitori
del concorso, in quanto si sono collocatii al quinto e
decimo posto della graduatoria di merito. Per quale motivo -hanno evidenziato i legali dei ricorrenti al Tar- non
attingere dalla graduatoria dei partecipanti già idonei e
non vincitori? L'interrogativo e le argomentazioni poste a
fondamento del ricorso hanno convinto i giudici
amministrativi.
Il Tar per la Basilicata ha rilevato
l'omogeneità tra le figure professionali oggetto del
concorso indetto nel 2009 e quello per la selezione dei 50
laureati dell'avviso pubblico impugnato. La Regione si è
difesa evidenziando che nella selezione del febbraio scorso,
indetta dalla Giunta regionale, veniva chiesta esperienza
maturata nell'ambito dei fondi strutturali, dei fondi a
finalità strutturale e della programmazione negoziata. Tesi
censurata dal Tar, essendo emerso «un difetto di istruttoria
della Regione Basilicata, in quanto non risultano svolte
verifiche di sorta circa il possesso di detto requisito in
capo ai candidati utilmente collocati nella graduatoria in
discorso».
Le tesi difensive della Regione sono state
respinte anche su un altro versante. Secondo i legali
dell'ente regionale, la graduatoria per la quale si è
chiesto l'utilizzo appartiene al Consiglio regionale,
«organizzazione autonoma e distinta» dalla Giunta dalla
quale proviene l'avviso per la selezione pubblica, adesso
annullata, per 50 posti. Il Tar ha affermato che
l'amministrazione deve essere considerata nella sua
unitarietà, «restando irrilevanti articolazioni interne ad
essa» (articolo Il Sole 24 Ore del
28.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Per il 50% sui lavori il patto di comodato può essere
verbale. Recupero edilizio. Controlli sulla detrazione.
Per il bonus
ristrutturazioni bisogna che chi ha pagato le spese abiti a
buon diritto nella casa ma le Entrate pretendono le prove:
anche quando è in comodato ai figli e parenti. La giustizia
tributaria, però, interviene per riportare le richieste del
fisco su un piano di realtà.
La regola è, in apparenza, semplice: per poter beneficiare
della detrazione in dieci anni del 36% (ora 50%) delle spese
sostenute per lavori di ricupero edilizio, non è necessario
solo che queste vengano pagate con bonifici "parlanti" ma
anche che chi paga sia, in qualche modo, legato
all'abitazione. La casistica è molto ampia: proprietari,
usufruttuari, inquilini e, naturalmente, comodatari.
Quest'ultima categoria è molto ampia: sono milioni le case
in comodato in Italia e altrettanti i comodatari che, da
utenti effettivi dell'abitazione, desiderano migliorarla
beneficiando quanto meno degli stessi diritti di altri che
non sono proprietari, come gli inquilini. Ma se è facile
esibire un contratto di locazione come prova dell'effettivo
possesso dell'abitazione, anche a causa dell'obbligatorietà
dello stesso per vantare un titolo valido (recentemente è
stata assunta come condizione per ottenere gli allacciamenti
alle forniture di gas, luce e telefono), può esserlo meno
con un comodato.
La cessione gratuita dell'immobile a scopo
abitativo, infatti, è la soluzione preferita da chi intende
evadere le imposte sui canoni di locazione e gli inquilini,
in assenza di un vero conflitto d'interesse (la detrazione
Irpef attualmente prevista non supera i 495,80 euro per le
famiglie più povere e a canone concordato) accettano la
situazione. Probabilmente è per colpire queste situazioni
che l'agenzia delle Entrate pretende l'esibizione del
contratto di comodato, in modo da verificarne i contenuti e
accertare invece un contratto di locazione.
Ma ci sono casi in cui è evidente che il comodato è "vero",
cioè è un prestito della casa tra genitori e figli (o tra
altri parenti stretti): eppure anche qui le Entrate, in caso
di controllo, chiedono di esibire il contratto. Che spesso
non c'è, dato che la forma scritta non è obbligatoria ed
esiste il rapporto di fiducia tra proprietari e comodatari.
Con la conseguenza dell'annullamento del diritto alla
detrazione, più sanzioni e interessi.
Ma le commissioni tributarie locali hanno preso, da qualche
tempo, una strada diversa, legando la richiesta delle
Entrate a considerazioni non astratte: così la Ctp di Forlì,
con
sentenza 01.07.2014 n. 387,
ha chiarito che, anche secondo la risoluzione delle Entrate
14/E/2001, la registrazione non è obbligatoria in caso di
semplice esibizione, quindi il contratto può benissimo
essere verbale. Ma dato che, riconoscono i giudici, in
questo modo non sarebbe verificabile la situazione, la Cpt
suggerisce di avere riguardo ad altri elementi che indichino
un comportamento concludente del soggetto che ha chiesto
l'agevolazione: la residenza, la pratica edilizia, la
relazione parentale con il proprietario.
In presenza di
questi fatti, conclude la Ctp, non è sostanziale la mancanza
del contratto, ancorché non obbligatorio ai sensi
dell'articolo 1803 e seguenti del Codice civile.
Sulla stessa linea sono altre sentenze, una sempre della Ctp
di Forlì (la 179 del 01.04.2014) e l'altra della Ctp di
Como (la 43/5/13 del 28.05.2013) (articolo Il Sole 24 Ore del
28.08.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Procedimenti lenti, due binari. Danno da ritardo
e indennizzo: fattispecie distinte.
Il Consiglio di stato chiarisce la natura giuridica
e i limiti delle forme risarcitorie.
Ritardata conclusione del procedimento amministrativo: danno
da ritardo ed indennizzo a carico della p.a. sono
fattispecie distinte.
La IV Sez. del Consiglio di Stato, con la recente
sentenza 22.05.2014 n. 2638, ha chiarito la
natura giuridica e i limiti operativi delle due forme
risarcitorie a carico del pubblico dipendente, conseguenti
al mancato rispetto dei termini del procedimento
amministrativo.
I due istituti sono collegati all'obbligo della p.a. –ai
sensi dell'art. 2 della legge 241/1990– di concludere il
procedimento amministrativo con un provvedimento espresso.
Circa i presupposti del danno da ritardo, il giudice ha
puntualizzato che la previsione dell'articolo 2-bis della
legge 241/1990, disponendo che le pubbliche amministrazioni
e i soggetti che si ingeriscono nell'esercizio di attività
amministrative (si pensi ai concessionari) «sono tenuti
al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento», non può mai prescindere
dalla dimostrazione concreta, da parte del danneggiato,
della imputabilità del comportamento dannoso alla p.a.,
nonché del nesso di causalità tra condotta e danno subito.
Nella sentenza si segnala che la fattispecie del danno da
ritardo non può essere ricollegata al semplice «superamento
del termine di conclusione del procedimento amministrativo
(senza che sia intervenuta l'emanazione del provvedimento
finale)», ma esige «l'inosservanza del termine
normativamente previsto come presupposto causale del danno
ingiusto (_) cagionato in conseguenza dell'inosservanza
dolosa o colposa di detto termine».
Questa lettura della norma –nonostante un forte orientamento
giurisprudenziale contrario teso a far risaltare una sorta
di responsabilità oggettiva della p.a. che scaturirebbe
dalla semplice violazione del termine conclusivo del
procedimento senza l'adozione di un provvedimento–
risulterebbe avvalorata, secondo i giudici di Palazzo Spada,
dalla introduzione, complementare ma distinta, di una
specifica forma di indennizzo da ritardo stabilita nel comma
1-bis dell'articolo 2-bis della legge 241/1990.
Proprio con questa recente previsione, il legislatore
avrebbe ammesso –limitatamente a procedure relative ad
attività di impresa ed in relazione alle sole istanze di
parte– il riconoscimento di un indennizzo a carico della
p.a. collegandolo alla sola dimostrazione, da parte del
danneggiato, della scadenza infruttuosa del termine
conclusivo del procedimento.
In particolare, dietro semplice richiesta da esercitarsi
entro 20 giorni dall'accadimento, a pena di decadenza.
Secondo il giudice, pertanto, si è in presenza di due
ipotesi nettamente distinte e ciò emergerebbe anche dalla
circostanza che l'indennizzo da ritardo –fattispecie,
inoltre, sperimentale della durata di 18 mesi dall'entrata
in vigore della legge 98/2013– qualora concorresse con la
distinta obbligazione risarcitoria del danno da ritardo
dovrà essere ridotto, come dispone la norma, delle somme
complessivamente riconosciuta a tale ultimo titolo.
Aspetto che invece accomuna le due previsioni, prosegue il
collegio nella sentenza in commento, e che caratterizza in
particolare la fattispecie del risarcimento del danno da
ritardo, è che entrambe presuppongono che si verta
nell'ambito di un procedimento amministrativo, non potendo
le norme applicarsi ad ipotesi di attività della pubblica
amministrazione diversa da quella procedimentalizzata.
Infatti, nel caso in esame, non è stata riconosciuta alcuna
forma di indennizzo perché si era in presenza non di
procedimento amministrativo ma di mera attività materiale ed
in particolare, di una attività relativa alla mancata
esecuzione ed ultimazione delle opere edilizie di attuazione
di un piano d'insediamenti produttivi
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Legittimità ordinanza del Sindaco che ha ordinato
alla Regione di rimuovere e di smaltire i rifiuti, con la
conseguente bonifica, dall’area al di sotto della strada di
proprietà regionale
Il Sindaco non ha esercitato il potere contingibile ed
urgente previsto dall’art. 54 del T.U. Enti locali n. 267
del 2000, ma quello specificamente disciplinato dall’art.
192 del decreto legislativo n. 152 del 2006, che disciplina
il “divieto di abbandono”.
L’art. 192 qualora vi sia la
concreta esposizione al pericolo che su un bene si realizzi
una discarica abusiva di rifiuti anche per i fatti illeciti
di soggetti ignoti, attribuisce rilevanza esimente alla
diligenza del proprietario, che abbia fatto quanto risulti
concretamente esigibile, e impone invece all’amministrazione
di disporre le misure ivi previste nei confronti del
proprietario che, per trascuratezza, superficialità o anche
indifferenza o proprie difficoltà economiche, nulla abbia
fatto e non abbia adottato alcuna cautela volta ad evitare
che vi sia in concreto l’abbandono dei rifiuti.
La condotta
illecita del terzo, ovvero la proliferazione delle condotte
illecite dei terzi, non è di per sé una causa che rende non
imputabile al proprietario l’evento (la trasformazione del
suo terreno in discarica abusiva), né frattura il nesso di
causalità tra la sua condotta colposa (id est,
caratterizzata dalla trascuratezza e dall’incuria), quando
costituisce un fatto prevedibile e prevenibile.
L’ordinanza
dell’Adunanza Plenaria 21/2013 ha rilevato come l’art. 192
attribuisce espressamente rilievo alla colpa del
proprietario per il quale sussiste la colpa anche nel caso
di mancanza degli accorgimenti e delle cautele che
l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace
custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano
essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi.
11.4. Risulta inoltre erronea –come puntualmente dedotto dal
Comune appellante– anche la statuizione del TAR secondo cui
–poiché l’ordinanza del 15 gennaio 2013 avrebbe natura di
atto contingibile ed urgente– tale provvedimento sarebbe
illegittimo, perché emanato per affrontare una situazione
non eccezionale ed imprevedibile, ma risalente nel tempo.
Infatti, il Sindaco non ha esercitato il potere contingibile
ed urgente previsto dall’art. 54 del testo unico sugli enti
locali n. 267 del 2000, ma quello specificamente
disciplinato dall’art. 192 del decreto legislativo n. 152
del 2006, che disciplina il “divieto di abbandono”.
Risulta pertanto anche non pertinente il richiamo che la
sentenza impugnata ha effettuato alla sentenza della Corte
Costituzionale n. 115 del 2011 (che ha dichiarato la
parziale incostituzionalità dell’art. 54, comma 4, del testo
unico).
12. Resta da accertare se effettivamente il comportamento
della Regione con riguardo all’abbandono di rifiuti nel sito
sottostante la strada vada qualificato come colposo (sulla
base degli elementi probatori acquisiti) e se sussista un
nesso di causalità tra tale comportamento e la verificazione
dell’evento (l’esistenza stessa della discarica abusiva)..
13. Al riguardo, va premesso che la natura stessa dei
rifiuti in questione, come prima elencati, rende palesemente
inattendibile la tesi difensiva della Regione Campania, per
la quale gli stessi sarebbero gettati sotto il viadotto in
questione da auto di passaggio (con dedotta impossibilità di
adozione di idonee misure di prevenzione dell’abbandono dei
rifiuti).
Appare infatti inverosimile che lastre di cemento, amianto,
parti di autoveicoli, pneumatici ed altro possano essere
sversati da ‘auto di passaggio’ non ai bordi della
strada in questione, ma addirittura nell’area sottostante il
viadotto.
Al di là delle difficoltà materiali cui andrebbe incontro
chi intenda gettare materiali dalla strada ‘sotto la
strada’ (anche per l’intenso traffico veicolare che,
come è fatto notorio, interessa l’asse viario in questione),
risulta evidente che i rifiuti vengano abbandonati nell’area
sottostante l’Asse Mediano accedendo ad essa dalla stradina
cui è fatto cenno negli atti processuali, la cui recinzione
la Regione afferma (con la istanza di revoca della ordinanza
cautelare disposta dalla Sezione) di aver sbarrato con una
asta in ferro, rinforzata a seguito della emanazione della
medesima ordinanza.
14. Quanto quindi alla questione se sia configurabile la
colpa della Regione Campania con riguardo alla adozione di
misure adeguate a prevenire l’abbandono dei rifiuti in
questione, ritiene la Sezione che ad essa debba darsi
risposta affermativa.
14.1. Poiché non sussistono i vizi di difetto di istruttoria
e di motivazione rilevati dal TAR, si deve infatti passare
all’esame della questione centrale del presente giudizio, e
cioè se siano fondate le censure di primo grado (richiamate
dalla Regione Campania e sulle quali vi è stato un
articolato contraddittorio tra le parti) sulla violazione
dell’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006, per
il quale le misure della rimozione dei rifiuti e della
riduzione in pristino dell’area possono essere emanate nei
confronti del proprietario solo se sussista il suo dolo o la
sua colpa.
14.2. Il TAR ha ritenuto che l’ordinanza sindacale del
15.01.2013 non avrebbe indicato alcun elemento da cui possa
evincersi la colpa della proprietaria Regione
Nel proprio atto d’appello, il Comune di Frattamaggiore ha
rilevato in sostanza che l’art. 192, comma 3, consente
l’emanazione delle misure ivi previste nei confronti del
proprietario del suolo quando è ravvisabile la sua
negligenza, perché non assume iniziative per evitare
l’abbandono dei rifiuti ed ha osservato che proprio
nell’atto impugnato vi è una specifica motivazione sulla
sussistenza della colpa della Regione, perché essa non ha
posto in essere “gli accorgimenti e le cautele idonee”
alla realizzazione di una efficace custodia e della
protezione dell’area e non ha impedito che potessero essere
facilmente depositati rifiuti di vario genere.
La Regione Campania, al contrario, nel sostenere che
l’abbandono è effettuato da ignoti (che ‘dalle auto di
passaggio’ sull’Asse Mediano lancerebbero verso il basso
i rifiuti) ha rilevato che non ha i mezzi e le risorse né
per impedire per l’abbandono avvenga, né per rimuovere e
smaltire i rifiuti, né per bonificare l’area ed ha rimarcato
come -a seguito dell’ordinanza cautelare di questa Sezione
n. 2831 del 2013- essa abbia ‘rinforzato’ la sbarra
che chiude la recinzione della “stradina di accesso
all’area in questione” ed ha apposto “cartelli
monitori”.
14.3. Osserva il Collegio che –per la definizione della
controversia in esame– occorre individuare l’ambito di
applicazione dell’art. 192 del testo unico n. 152 del 2006,
il quale, per quanto rileva nel presente giudizio, dispone:
- al comma 1, che “L'abbandono e il deposito
incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati”;
- al comma 3, che, “Fatta salva l'applicazione della
sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i
divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla
rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco
dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed
il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede
all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al
recupero delle somme anticipate”.
Dal dato testuale del comma 3 (e dalla parola ‘dispone’),
si evince come il potere-dovere di ordinare la rimozione e
il ripristino dello stato dei luoghi vada esercitato senza
indugio non solo nei confronti di chi abbandona sine
titulo i rifiuti (il quale realizza la propria condotta
col dolo e con l’animus derelinquendi), ma anche del
proprietario o del titolare di altro diritto reale cui la “violazione
sia imputabile a titolo di dolo o di colpa”.
In un quadro normativo volto a tutelare l’integrità
dell’ambiente, il comma 3 non prevede una ipotesi di
responsabilità oggettiva o per fatto altrui: se vi è un
abbandono di rifiuti avente il carattere della repentinità e
della irresistibilità. Se avvisa dell’accaduto la pubblica
autorità e pone in essere le misure esigibili per evitare il
ripetersi dell’accaduto, il proprietario non può essere
considerato responsabile, per il suo solo titolo di
proprietario.
Tuttavia, non dissimilmente ad altre disposizioni del
settore, il comma 3 ritiene sufficiente la colpa.
Tra le ipotesi tipiche di colpa, rientra la negligenza.
Nel suo significato lessicale (risalente anche al diritto
romano, e prima ancora che la nozione fosse riferita alle
singole obbligazioni), la negligentia (vale a dire la
mancata diligentia) consisteva e consiste nella
trascuratezza, nella incuria nella gestione di un proprio
bene, e cioè nella assenza della cura, della vigilanza,
della custodia e della buona amministrazione del bene.
L’art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisce
rilievo proprio alla negligenza del proprietario, che –a
parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti
(qui non prospettabili)- si disinteressi del proprio bene
per una qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare
concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure
palesemente inadeguate.
L’art. 192 –qualora vi sia la concreta esposizione al
pericolo che su un bene si realizzi una discarica abusiva di
rifiuti anche per i fatti illeciti di soggetti ignoti–
attribuisce rilevanza esimente alla diligenza del
proprietario, che abbia fatto quanto risulti concretamente
esigibile, e impone invece all’amministrazione di disporre
le misure ivi previste nei confronti del proprietario che
-per trascuratezza, superficialità o anche indifferenza o
proprie difficoltà economiche– nulla abbia fatto e non abbia
adottato alcuna cautela volta ad evitare che vi sia in
concreto l’abbandono dei rifiuti.
La condotta illecita del terzo –ovvero la proliferazione
delle condotte illecite dei terzi– dunque non è di per sé
una causa che rende non imputabile al proprietario l’evento
(la trasformazione del suo terreno in discarica abusiva), né
frattura il nesso di causalità tra la sua condotta colposa (id
est, caratterizzata dalla trascuratezza e dalla incuria),
quando costituisce un fatto prevedibile e prevenibile.
14.4. Nella specie, ritiene la Sezione che sussista
effettivamente la colpa dell’amministrazione regionale e che
risultano non condivisibili le argomentazioni che la Regione
ha formulato, per escludere la propria responsabilità.
Ovviamente, quando proprietario dell’area non sia una
persona fisica, ma sia una persona giuridica pubblica o
privata, va esclusa una concezione ‘antropomorfica’
dell’elemento soggettivo, rilevando soprattutto il dato
oggettivo della disfunzione della struttura organizzativa e
il dato in sé –quando si tratti della gestione di un bene–
della obiettiva trascuratezza ed incuria della gestione.
Con riferimento all’area in questione, posta al di sotto
dell’Asse Mediano, tranne il ‘rafforzamento’ della sbarra
posta sulla stradina di accesso all’area da tempo adibita a
discarica, nel corso del giudizio non è risultata alcuna
concreta attività precedente, volta ad evitare che il suo
terreno diventasse una discarica e che su di esso si
continui a sversare rifiuti di ogni genere.
14.5. La Sezione non può che constatare la singolarità della
situazione venutasi a verificare.
Proprietaria dell’area –oggetto delle misure previste
dall’art. 192- risulta proprio l’Ente che, anche in base
alle regole costituzionali, ha plurime competenze per la
salvaguardia dell’ambiente.
La linea principale della difesa della Regione è consistita
nella deduzione secondo cui essa non ha “i mezzi e le
risorse” per impedire che l’abbandono avvenga, o per
rimuovere e smaltire i rifiuti, o per bonificare l’area.
Al riguardo, la Sezione rileva che –in ordine all’ambito di
applicazione dell’art. 192, comma 3– non importa se il
proprietario dell’area sia un soggetto pubblico o un
soggetto privato.
Anzi, proprio la qualità di soggetto pubblico implica che
l’amministrazione debba dare esempio del rispetto della
legalità (CEDU, Sez. I, 19.06.2001, Zwiewrzynsi c. Polonia,
§ 73).
E ciò a maggior ragione quando si tratti di realtà locali
–come quella in questione– caratterizzate dalla perduranza
di situazioni emergenziali, dalla assenza diffusa di senso
civico delle cittadinanze, da una diffusa omertà e dalla
presenza di organizzazioni criminali proprio nel settore del
trasporto e dello smaltimento dei rifiuti: le pubbliche
autorità possono concretamente esigere ed ottenere il
rispetto della legalità, solo quando esse stesse ne danno
l’esempio, applicando le leggi quando ne sono destinatarie e
imponendo la loro applicazione, quando agiscano
nell’esercizio dei loro doveri istituzionali.
14.6. Quando sia proprietaria di un terreno, la Regione
–come qualsiasi altro proprietario– deve rispettare le leggi
a tutela dell’ambiente (e della salute): in ragione del
valore primario di tale tutela, essa non può sottrarsi
all’obbligo di utilizzare le proprie risorse secondo un
ordine di priorità, realizzando le misure che le sono
imposte dalla legge (o da atti conformi alla legge) per la
salvaguardia dell’ambiente e della salute.
Non spetta al giudice amministrativo indicare quale ordine
di priorità delle spese debba essere programmato dalla
Regione, ma non v’è dubbio che –in considerazione delle
complessive risorse del bilancio regionale– essa deve
subordinare l’erogazione di ‘spese facoltative’ alla
previa erogazione delle somme che non solo occorrano per
svolgere le proprie funzioni essenziali, ma anche che
occorrano per adempiere gli obblighi alla quale è tenuta
nella qualità di proprietaria.
Poiché la Regione non ha provato che le proprie risorse sono
tutte destinate allo svolgimento di funzioni essenziali, ed
essendo plausibile che essa eroghi somme sulla base di
proprie scelte discrezionali sull’an, e poiché
comunque anche le difficoltà economiche del proprietario non
costituiscono una esimente circa l’ambito di applicazione
dell’art. 192, resta priva di rilievo la tesi difensiva
della Regione sulla assenza di mezzi e risorse per
affrontare la situazione.
14.7. Neppure risultano condivisibili le ulteriori
argomentazioni difensive della Regione.
Essa ha reiteratamente dedotto che l’abbandono è effettuato
da ignoti, che ‘dalle auto di passaggio’ sull’Asse
Mediano lancerebbero verso il basso i rifiuti, e che
pertanto essi non potrebbero essere ‘controllati’.
Pur se è evidente che i responsabili dei fatti siano rimasti
ignoti, tale prospettazione difensiva non risulta però
plausibile, perché, come sopra si è osservato, l’ordinanza
sindacale ha riguardato i rifiuti che si trovano ‘al di
sotto’ dell’Asse Mediano: il lancio di rifiuti verso il
basso, ipotizzato dalla difesa regionale, porterebbe al loro
accumulo nelle aree adiacenti (che non sono state invece
oggetto di misure nei confronti della Regione).
Non è dunque sostenibile che gli autori degli abbandoni
siano coloro che transitano sull’Asse Mediano: i rifiuti non
possono che essere abbandonati da chi accede all’area
sottostante, probabilmente ma non esclusivamente dalla
stradina di accesso.
La Regione ha inoltre evidenziato come, a seguito
dell’ordinanza cautelare di questa Sezione n. 2831 del 2013,
essa abbia ‘rinforzato’ la sbarra che chiude la
recinzione della “stradina di accesso all’area in
questione” ed abbia apposto “cartelli monitori”.
La Sezione osserva però che tali circostanze non possano
avere (per di più ex post) un rilievo esimente ed
anzi avvalorano la ragionevolezza della motivazione posta a
base dell’atto impugnato in primo grado (la negligenza della
Regione è perdurata nel tempo e solo nel corso del secondo
grado del giudizio vi è stata una tale iniziativa): il
provvedimento del 15.01.2013 è stato emesso in
considerazione dello stato di degrado derivante dalla
trascuratezza, dall’incuria e dalla mancanza di vigilanza e
i fatti sopravvenuti –a parte ogni considerazione sulla loro
ininfluenza sulla situazione oggettiva- non incidono sulla
valutazione della sua legittimità.
14.8. Dalla documentazione acquisita, risulta dunque che la
Regione nulla ha fatto per impedire che il proprio terreno
divenisse una discarica abusiva.
Non vi è stata una adeguata recinzione di sufficiente
altezza e robustezza, ovvero la interdizione degli accessi
all’area con robuste chiusure, la sistemazione di
videocamere o apparecchi fotografici funzionanti solo
all’atto del rilevamento di presenze sul luogo tramite
sensori (le c.d. “foto trappole”), oppure una
convenzione con istituti di vigilanza: l’incuria e la
trascuratezza hanno agevolato che l’area in questione sia
diventata un ricettacolo di ogni genere di rifiuti, con
danni all’ambiente e verosimilmente alla salute degli
abitanti della zona.
14.9. Le osservazioni che precedono inducono dunque la
Sezione a ritenere che sia del tutto legittima l’ordinanza
impugnata in primo grado, poiché la Regione Campania non ha
svolto in concreto alcuna attività di custodia, vigilanza e
protezione dell’area di cui trattasi, rimasta facilmente
accessibile “senza alcun mezzo di inibizione” del
deposito di rifiuti da parte di ignoti.
14. 10. La difesa regionale –nei propri scritti difensivi–
ha invocato i principi formulati dalla ordinanza della
Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 21 del
2013, la quale ha affrontato le questioni interpretative,
riguardanti l’art. 242 del decreto legislativo n. 152 del
2006, dandone una interpretazione, per la cui ‘compatibilità
comunitaria’ ha trasmesso gli atti all’esame della Corte
di Giustizia.
Osserva al riguardo la Sezione che tale richiamo –con le
questioni affrontate con la citata ordinanza– non rilevi per
definire il presente giudizio, poiché:
- l’Adunanza Plenaria si è occupata dell’ambito di
applicazione delle disposizioni del titolo V della Parte IV
del decreto legislativo n. 152 del 2006, sulle misure
conseguenti alla contaminazione (in un quadro normativo per
il quale è previsto l’onere reale disciplinato dall’art. 253
del medesimo decreto legislativo), mentre l’ordinanza
impugnata in primo grado è stata emanata ai sensi dell’art.
192, il quale prende in specifica considerazione la colpa
del proprietario;
- in quella sede, le società proprietarie delle aree
-destinatarie dell’ordine di porre in essere le misure di
messa in sicurezza e di presentare il progetto di bonifica–
risultavano acquirenti delle relative aree in un periodo
successivo allo svolgimento dell’attività inquinante svolta
dalla società dante causa, mentre l’ordinanza impugnata in
primo grado è stata emanata nei confronti del soggetto che è
risultato il perdurante proprietario dell’area
sostanzialmente trasformata in discarica incontrollata di
rifiuti;
- la stessa ordinanza della Adunanza Plenaria, al § 23, ha
rilevato come l’art. 192 attribuisce espressamente rilievo
alla colpa del proprietario ed ha richiamato l’orientamento
delle Sezioni Unite (25 febbraio 2009, n. 4472) per il quale
sussiste la colpa anche nel caso di mancanza “degli
accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza
suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione
dell’area, così impedendo che possano essere in essa
indebitamente depositati rifiuti nocivi”;
- nel presente giudizio, è indubitabile la sussistenza della
colpa del soggetto destinatario dell’ordinanza ex art. 192,
in ragione della trascuratezza, dell’incuria e dell’assenza
di vigilanza e di custodia, che hanno caratterizzato la
vicenda in esame (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.06.2014 n. 2977 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Destinazione ed edilizia scolastica configura
vincolo conformativo.
Il carattere non edificabile della destinazione ad edilizia
scolastica, ha l'effetto di configurare un tipico vincolo
conformativo, come destinazione ad un servizio che trascende
le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo
nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro
della ripartizione zonale in base a criteri generali ed
astratti.
La destinazione a zone per l’istruzione
dell’obbligo, non comporta, quindi, l’imposizione di un
vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente
alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per
definire i caratteri generali dell’edificabilità in ciascuna
delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale,
ponendo limitazioni in funzione dell’interesse pubblico
generale.
L’appello è infondato.
Come, infatti, correttamente evidenziato dal Comune
appellato, già dal 1973 l’area era stata compresa in una più
vasta “zona per attrezzature collettive”, nel 1984 a
“zona F1 – per attrezzature pubbliche e di interesse
generale” e, per quanto riguarda il caso di specie,
mediante PRG approvato con deliberazione consiliare n. 29
del 27.04.1999, l’area di proprietà della Lombardini &
Partners era stata inserita tra le zone pubbliche di
interesse generale e, in particolare, tra le zone per
l’istruzione dell’obbligo, denominate AS, destinate a asili
nido, scuole materne e scuole dell’obbligo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 39 delle NTA, “le aree di
seguito specificate sono di proprietà pubblica o preordinate
alla acquisizione mediante acquisizione o esproprio da parte
del Comune o degli Enti istituzionalmente competenti, è
consentita anche l’attuazione da parte dei proprietari delle
aree … La realizzazione e la gestione di tali attrezzature
spettano al Comune, ovvero agli Enti per le opere di loro
competenza, o a soggetti privati proprietari dell’area in
diritto di superficie o con trasferimento in proprietà con
apposita convenzione solo ove l’area non sia pervenuta al
Comune a mezzo di esproprio”.
Da ciò deriva la palese configurazione di un vincolo
conformativo sia in ragione della zonizzazione disposta, sia
alla luce dell’art. 39 NTA.
Inoltre, come pure riferito dal Comune di Lomazzo, in data
20.03.2013 sul BUR Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 42,
è stato pubblicato l’avviso di approvazione definitiva e
deposito degli atti costituenti il PGT, con deliberazione
C.C. n. 49 del 18.12.2012, in cui l’area oggetto del
contendere è individuata quale area di trasformazione
denominata TRP5, con l’obiettivo di completare le strutture
scolastiche previste.
Il Collegio, pertanto, ritiene -in linea anche con
l’orientamento giurisprudenziale maggioritario- che tale
destinazione abbia natura conformativa e non espropriativa.
Risulta, del resto, di questo stesso avviso anche la Corte
di Cassazione, che nell’affermare il carattere non
edificabile della destinazione ad edilizia scolastica, ha
sostenuto che essa ha “l'effetto di configurare un tipico
vincolo conformativo, come destinazione ad un servizio che
trascende le necessità di zone circoscritte, ed è
concepibile solo nella complessiva sistemazione del
territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a
criteri generali ed astratti” (cfr., da ultimo,
Cass.civ., sez. I, 26.05.2010, n. 12862).
La destinazione a zone per l’istruzione dell’obbligo,
impressa all’area della ricorrente, non comporta, quindi,
l’imposizione di un vincolo espropriativo, ma solo
conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo
strumento urbanistico per definire i caratteri generali
dell’edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso
il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione
dell’interesse pubblico generale (cfr. Cons. St., IV,
19.02.2007, n. 870) (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.06.2014 n. 2855 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Temporaneità manufatto.
Non si può ritenere che la sola stagionalità
dell'installazione del voluminoso manufatto per cui è causa
conferisse al manufatto nel suo complesso il carattere di
‘temporaneità’, atteso:
- il carattere ontologicamente ‘non
temporaneo’ di una struttura destinata all'esercizio di
un'attività commerciale e di somministrazione;
- la permanente
idoneità ad alterare lo stato dei luoghi che il complessivo
manufatto (di notevoli dimensioni) era idoneo a determinare,
anche a prescindere dalla rimozione per alcuni mesi l’anno.
3. L’appello è fondato.
3.1. In particolare il Collegio ritiene dirimente ai fini
del decidere la fondatezza dell’argomento con cui si è
osservato che l’intervento in questione, per le sue
caratteristiche oggettive, fosse da qualificare come
intervento di ‘nuova costruzione’, con quanto ne
consegue ai fini del rilascio del necessario titolo
abilitativo edilizio (d.P.R. 06.06.2001, n. 380) in
relazione ai vincoli di in edificabilità esistenti
sull’area.
Al riguardo il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento
–da quale non si rinvengono elementi per discostarsi–
secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali a
soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come
idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro
incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il
manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è
deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato
ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in
quanto stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la ‘precarietà’
dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del
permesso di costruire, postula un uso specifico e
temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità la
quale non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti,
ma permanenti nel tempo (in tal senso: Cons. Stato, IV,
22.12.2007, n. 6615).
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue
caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in
considerazione del regime temporale della relativa
utilizzazione il manufatto per cui è causa fosse
riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del
comma 1 dell'articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001 (a tenore del
quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le
installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere che siano usati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee”).
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento
secondo cui non possono comunque essere considerati
manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può
essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons.
Stato, VI, 12.02.2011, n. 986; id., V, 12.12.2009, n. 7789;
id., V, 24.02.2003, n. 986; id., V, 24.02.1996, n. 226).
3.2. Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità
dell'installazione del voluminoso manufatto per cui è causa
(destinato ad occupare, nella tesi della società appellata,
56,13 mq.) conferisse al manufatto nel suo complesso il
carattere di ‘temporaneità’, atteso:
- il carattere ontologicamente ‘non temporaneo’ di
una struttura destinata all'esercizio di un'attività
commerciale e di somministrazione (in tal senso: Cons.
Stato, IV, 23.07.2009, n. 4673).
- la permanente idoneità ad alterare lo stato dei luoghi che
il complessivo manufatto (di notevoli dimensioni) era idoneo
a determinare, anche a prescindere dalla rimozione per
alcuni mesi l’anno.
3.3. Né a conclusioni diverse rispetto a quelle appena
rassegnate può giungersi avuto riguardo alla previsione di
cui all’articolo 56 del Regolamento edilizio comunale (il
quale, nella tesi della società riconoscerebbe sempre un
carattere ontologicamente precario ai chioschi.
Al contrario, la necessaria interpretazione secundum
legem della richiamata disposizione (volta, cioè, a
preservarla da un’altrimenti inevitabile taccia di
illegittimità per contrasto con il pertinente paradigma
normativo primario) porta a ritenere che il carattere di ‘precarietà’
ivi richiamato possa comunque essere affermato solo
all’esito di un’operazione di valutazione svolta ‘caso
per caso’ in ordine alle caratteristiche oggettive e
funzionali del manufatto di cui si discute (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.06.2014 n. 2842 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Imprescindibili per
l'avvio del procedimento attraverso la convocazione della
conferenza di cui al d.P.R. 20.10.1998, n. 447, art. 5, sono
da un lato la conformità del progetto alle norme
vigenti in materia ambientale, sanitaria e della sicurezza
del lavoro; dall'altro l'impossibilità di reperire
nello strumento esistente ulteriori e diverse aree idonee
all'iniziativa produttiva.
Ed ancora, a conclusioni diverse rispetto a quelle sin qui
delineate non può giungersi in relazione al fatto che la
società appellata avesse proposto istanza di variazione
dello strumento urbanistico ai sensi dell’articolo 5 del
d.P.R. 20.10.1998, n. 447 (il cui comma 1, come è noto,
stabilisce che “qualora il progetto presentato sia in
contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda
una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta
l'istanza. Tuttavia, allorché il progetto sia conforme alle
norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di
sicurezza del lavoro ma lo strumento urbanistico non
individui aree destinate all'insediamento di impianti
produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al
progetto presentato, il responsabile del procedimento può,
motivatamente, convocare una conferenza di servizi,
disciplinata dall’articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241
(…), per le conseguenti decisioni, dandone contestualmente
pubblico avviso. Alla conferenza può intervenire qualunque
soggetto, portatore di interessi pubblici o privati,
individuali o collettivi nonché i portatori di interessi
diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa
derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto
dell'impianto industriale”).
Al riguardo si osserva in primo luogo che la sola
presentazione di un’istanza finalizzata dalla variazione
dello strumento urbanistico ai sensi del richiamato articolo
5, lungi dal fornire argomenti in favore delle tesi della
società appellata, conferma –piuttosto– il contrasto fra il
progetto presentato e la pertinente disciplina di piano (di
cui, per facta concludentia, si mostrava consapevole
la stessa società appellata nel momento stesso in cui
prendeva l’iniziativa finalizzata a superare il carattere
ostativo di tale contrarietà).
In secondo luogo si osserva che la stessa appellata non ha
fornito elementi persuasivi atti a ritenere l’effettiva
percorribilità dell’iter delineato dal richiamato articolo 5
(e, in particolare, l’insussistenza nell’ambito del
territorio comunale di diverse aree idonee ad ospitare
l’iniziativa proposta in assenza della richiesta modifica di
Piano).
Al riguardo si ritiene di richiamare il condiviso
orientamento secondo cui condizioni imprescindibili per
l'avvio del procedimento attraverso la convocazione della
conferenza di cui al d.P.R. 20.10.1998, n. 447, art. 5, sono
da un lato la conformità del progetto alle norme
vigenti in materia ambientale, sanitaria e della sicurezza
del lavoro; dall'altro l'impossibilità di reperire
nello strumento esistente ulteriori e diverse aree idonee
all'iniziativa produttiva (in tal senso –ex plurimis-:
Cons. Stato, IV, 03.03.2006, n. 1038) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.06.2014 n. 2842 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Indice rivelatore dell'intenzione di rendere
abitabile in via permanente un locale sottotetto.
Sulla base della giurisprudenza, può ritenersi che possa
costituire indice rivelatore dell'intenzione di rendere
abitabile in via permanente un locale sottotetto il fatto
che questo sia suddiviso in vani distinti e comunicanti con
il piano sottostante mediante una scala interna o che il
piano di copertura, impropriamente definito sottotetto,
costituisca in realtà una mansarda in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda.
Né a
conclusione contraria può indurre la circostanza che, alcune
delle finestre poste in detto locale siano state tamponate
in modo da contenere il rapporto di aero-illuminazione al di
sotto dei parametri previsti dal regolamento edilizio per i
locali abitabili; e ciò in quanto la tamponatura delle
finestre è un’operazione in sé talmente semplice,
reversibile e surrettizia da non privare l’ambiente della
sua intrinseca qualità abitativa; e quindi non può
considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di
abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione
di tamponamento delle finestre.
Nella specie, la rilevanza dell’abitabilità potenziale in
via permanente del sottotetto riguarda la possibilità di
computarlo nel misurare il rispetto del limite di altezza
previsto dalla normativa urbanistica per un intervento di
ricostruzione di fabbricato residenziale successivo alla
demolizione.
La giurisprudenza in materia si è affidata al richiamo di
indici rivelatori e alla rilevanza di tutte le circostanze
fattuali.
L’appellante invoca il regolamento edilizio laddove prevede
che non debbano essere computati nella superficie gli spazi
che pur comportando l’insediamento di abitanti e in cui è
ammessa la realizzazione di servizi igienici, presentino
determinate caratteristiche, per esempio di altezza media
non superiore a metri 2 e 40.
La Sezione è consapevole della circostanza che la normativa
urbanistica vigente nel Comune di Milano, nel prevedere una
tripartizione tipologica tra abitazione, sottotetti
abitabili in via non permanente, e volumi tecnici non
abitabili introduce elementi valutativi in ordine alla
seconda tipologia di natura finalistica e quindi non certi.
E tale previsione andrebbe opportunamente rivalutata dal
Comune di Milano quanto meno per meglio chiarire gli
elementi fisici e strutturali che possano determinare in
maniera certa tale distinzione.
Nella situazione normativa vigente, peraltro, il Giudice,
allo scopo di verificare se il sottotetto abbia
caratteristiche inidonee a essere abitato in via permanente
e ne possa essere quindi esclusa la rilevanza ai fini
dell’altezza massima dell’edificio, è tenuto a condurre
un’analisi rapportata alla situazione di fatto, in modo da
evitare che la costruzione, per caratteristiche oggettive,
si risolva in una sostanziale elusione della sopra
richiamata disciplina urbanistica attualmente vigente nel
Comune di Milano.
A tal fine, può essere utilmente richiamata la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato che, anche
quando formatasi con riferimento alla diversa fattispecie
della distinzione tra locali abitabili e volumi tecnici
(diversa da quella ricorrente nel caso in esame), consente
di trarre indici rivelatori (anche) dell’abitabilità in via
permanente dei locali sottotetti.
In altri termini, al fine di stabilire se un locale abbia o
meno i requisiti dell’abitabilità, è necessario effettuare
una valutazione complessiva delle sue caratteristiche atta a
verificare se il locale in questione possa o meno essere
considerato ambiente idoneo allo svolgimento della vita
domestica; quando per le sue caratteristiche complessive il
locale si appalesa idoneo ad assolvere a tale funzione, si
deve giungere alla conclusione che esso sostenga carico
urbanistico.
Sulla base della giurisprudenza, può ritenersi che possa
costituire indice rivelatore dell'intenzione di rendere
abitabile in via permanente un locale sottotetto il fatto
che questo sia suddiviso in vani distinti e comunicanti con
il piano sottostante mediante una scala interna o che il
piano di copertura, impropriamente definito sottotetto,
costituisca in realtà una mansarda in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (cfr.
esemplificativamente, Consiglio di Stato, sez. IV,
07.02.2011 n. 812).
Né a conclusione contraria può indurre la circostanza che
(ricorrente nella specie), alcune delle finestre poste in
detto locale siano state tamponate in modo da contenere il
rapporto di aero-illuminazione al di sotto dei parametri
previsti dal regolamento edilizio per i locali abitabili; e
ciò in quanto la tamponatura delle finestre è un’operazione
in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non
privare l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa; e
quindi non può considerarsi volume tecnico un locale con
requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una
semplice operazione di tamponamento delle finestre (così,
Cons. St., sez. IV, 07.02.2011 n. 812).
In altre parole, quando una costruzione abbia già raggiunto
o sia poco al di sotto dell’altezza massima consentita a un
edificio, non è consentita una qualificazione negativa (nel
senso che non si computa a fini di altezza) del sottotetto,
che, per le caratteristiche di sostanziale identità con
quelle delle abitazioni sottostanti, si traduca in un
sostanziale innalzamento dell’edificio assentito in elusione
della stessa normativa invocata sull’utilizzazione dei
sottotetti per finalità abitative non stabili.
Infatti la ratio della norma che vieta il superamento
dei limiti di altezza previsti dagli strumenti urbanistici è
senza dubbio quella di evitare che attraverso il recupero
abitativo dei sottotetti esistenti vengano nei fatti eluse o
violate le prescrizioni urbanistiche vincolanti in tema di
altezza massima di edifici.
In presenza di univoci elementi che denotano l’intenzione di
rendere abitabile il locale, perde di rilevanza il fatto che
siano stati adottati accorgimenti surrettizi (quali la
tamponatura di alcune finestre) finalizzati a rendere i
rapporti di aero-illuminazione inferiori rispetto ai
parametri previsti dalla normativa edilizia vigente. Allo
stesso modo, con riferimento alle altezze, quando un
ambiente possiede nel suo complesso caratteristiche
oggettive, tali da renderlo idoneo ad ospitare stabilmente
la vita domestica, al fine di escludere la volontà del
privato di destinarlo a funzione abitativa, non si può
addurre la circostanza che la sua altezza sia di poco
inferiore rispetto a quella prescritta dal regolamento
edilizio per i vani abitabili. Anche in questo caso, come
nel precedente, si deve ritenere che tale caratteristica,
lungi dal dimostrare un differente intento del costruttore,
costituisca elemento ulteriormente ostativo all’assentibilità
dell’intervento.
Nella specie, la considerazione del sottotetto quale
elemento abitabile in via permanente rileva ai fini del
complessivo computo delle altezze e del rispetto di quanto
prevede la normativa urbanistica (limite di metri 13 e 50 ai
fini della ricostruzione del fabbricato).
Nella fattispecie esaminata non è contestato, ed anzi è
ammesso, che il locale sottotetto di cui alla DIA oggetto
del provvedimento impugnato, oltre ad essere suddiviso in
diversi vani collegati ai locali sottostanti da scala
interna, possieda altre numerose caratteristiche che dal
punto di vista fattuale ne testimoniano la funzione
abitativa.
Si rileva come esso: a) sia dotato di impianto di
riscaldamento ed impianto elettrico; b) sia dotato di
servizio igienico avente dimensioni ben maggiori rispetto a
quelle minime previste dal regolamento edilizio; c) sia
destinato ad essere intonacato e rifinito a “civile
abitazione”.
L’intervento edilizio di nuova edificazione raggiunge
l’altezza di metri 13 e 30 già in corrispondenza del
sottostante piano abitabile; lo spazio sottotetto, al di
sopra, presenta caratteristiche di abitabilità e anche un
ingombro fisico esterno identico a quello del piano
sottostante, di cui costituisce replica sia in pianta che in
totalità di facciata; il piano sottotetto, quindi, si trova
ad occupare uno spazio aereo per la quasi totalità al di
sopra del limite imposto dagli strumenti urbanistici
comunali; come riferisce il Comune, il regolamento edilizio
comunale prevede (art. 10 comma 2.7) che sono escluse dal
computo (soltanto) le superfici dei piani sottotetto che non
hanno i requisiti di abitabilità, pari o inferiori alla
superficie dell’ultimo piano.
Come emerge dalle planimetrie allegate, richiamate dalla
difesa comunale, sussiste una sostanziale coincidenza di
dimensione delle rispettive unità immobiliari poste al piano
sottotetto e al piano sottostante; le unità immobiliari sono
dotate di un identico numero di bagni regolamentari e dello
stesso numero di finestre, con l’unica eccezione di due
aperture lungo la parete perimetrale posta a nord.
Tali elementi, sulla base dei principi giurisprudenziali
richiamati, sono idonei a suffragare la convinzione che la
reale intenzione del ricorrente sia quella di destinare tali
locali, alla funzione abitativa già virtualmente impressa.
La circostanza addotta dall’appello che il regolamento
edilizio ammetta che anche i locali privi dei requisiti
dell’abitabilità possano presentare le caratteristiche
suindicate (e quindi possano essere dotati di impianto di
riscaldamento ed elettrico, di bagno, e possano essere
intonacati) non può portare, nel contesto dianzi delineato,
a diversa conclusione.
Né, per la stessa ragione, vale il richiamo alla legge
regionale (n. 12 del 2005) -che consente e anzi favorisce il
recupero abitativo dei sottotetti, contemplando quindi una
categoria di sottotetti non ancora divenuti abitabili ma che
sono appunto destinati a diventarlo- a sostenere che in
teoria sono ammissibili sottotetti non abitabili, in quanto,
come visto, la abitabilità deve essere valutata in concreto.
Infatti, essendo complessiva la valutazione che deve essere
effettuata dal Comune, non è escluso che locali
oggettivamente inidonei ad assolvere alla funzione abitativa
(ad esempio perché particolarmente bassi o poco illuminati)
possiedano una o più delle suindicate caratteristiche, ma se
la combinazione di queste comprova inequivocabilmente la
volontà di imprimere ai locali tale funzione, non è
possibile invocare le suddette prescrizioni del regolamento
edilizio per giungere a conclusioni contrarie.
In definitiva, deve ritenersi che la valutazione compiuta
dal Comune di Milano, secondo il quale il locale sottotetto
oggetto del provvedimento impugnato possiede i requisiti
dell’abitabilità in via stabile, sia nella sostanza
condivisibile e che correttamente tale locale sia stato
computato ai fini del calcolo dell’altezza complessiva
dell’edificio (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato Sez. VI,
sentenza 30.05.2014 n. 2825 -
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EDILIZIA PRIVATA:
La tutela del paesaggio non consente
l’autorizzazione paesaggistica a sanatoria.
L’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non
consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica a
sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di
valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione
o l’aumento di superfici utili o di volumi”.
La premessa, da
cui occorre prendere le mosse, è che il paesaggio, come bene
oggetto di tutela, non è suscettibile né di reintegrazioni,
né di incrementi: ciò giustifica una disciplina
particolarmente rigorosa, che è ragionevole ritenere, è
stata adottata anche per arginare esperienze pregresse, non
pienamente rispettose del disposto dell’art. 9 della
Costituzione.
7. Il ricorso in appello è infondato.
8. La premessa, da cui occorre prendere le mosse, è che il
paesaggio, come bene oggetto di tutela, non è suscettibile
né di reintegrazioni, né di incrementi: ciò giustifica una
disciplina particolarmente rigorosa, che (è ragionevole
ritenere) è stata adottata anche per arginare esperienze
pregresse, non pienamente rispettose del disposto dell’art.
9 della Costituzione.
L’argomento di maggior impatto utilizzato dal ricorrente è
l’affermata irragionevolezza della previsione legislativa
che impone la demolizione di un’opera che potrà essere
ricostruita previo rilascio dell’autorizzazione.
Tale impostazione muove, verosimilmente, da numerosi
interventi legislativi, che, in vari settori, hanno
consentito la sanatoria di situazioni originariamente
contra legem. Poiché i predetti provvedimenti
legislativi esauriscono la propria efficacia nel limiti di
tempo e di oggetto in essi contenuti, essi non possono
costituire il fondamento di una situazione soggettiva di
generalizzata aspettativa di sanatoria.
La norma della cui costituzionalità si dubita impedisce la
sanatoria allorquando vi sia stato un incremento di volumi:
la specificità della previsione esclude qualsiasi violazione
dell’art. 3 della Costituzione, applicabile solo quando si
attribuisca trattamento differenziato a situazioni analoghe.
Né appaiono violate le altre norme della Costituzione in
quanto, così come evidenziato nella sentenza impugnata, la
finalità della norma è di costituire un più solido
deterrente contro gli abusi (al fine di prevenirli) dei
privati (verificatisi nel recente passato in dimensioni
notevoli sia dal punto di vista quantitativo che
qualitativo), a tutela di beni costituzionalmente protetti.
9. Il Collegio non può quindi che confermare il proprio
orientamento di recente espresso (sez. VI, 20.06.2013, n.
3373) secondo il quale: “L’art. 167, comma 4, d.lgs.
22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il
manufatto realizzato in assenza di valutazione di
compatibilità abbia determinato la creazione o l’aumento di
superfici utili o di volumi” (massima tratta da
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Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.05.2014 n. 2806 -
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EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego installazione
impianto pubblicitario per tutela del verde urbano.
L'impianto si collocherebbe in un tratto di strada
pericoloso ad alta intensità veicolare, che rende
impossibile l'inserimento di qualunque manufatto, nonché in
uno spazio caratterizzato dalla presenza di essenze arboree,
alterando negativamente la percezione visiva del verde
esistente. L'impatto negativo dell'impianto pubblicitario su
tale contesto, con pregiudizio dell'estetica, del decoro
urbano e dell'ambiente, la cui tutela da parte
dell'Amministrazione comunale prescinde dall'esistenza di
particolari vincoli.
2. La doglianza è infondata.
3. Ed invero, sia la Conferenza dei Servizi che la
Commissione Edilizia all'unanimità hanno espresso parere
contrario all’accoglimento dell’istanza "in quanto
l'impianto pubblicitario si collocherebbe su un tratto di
strada pericoloso, ad alta intensità veicolare tale da
rendere impossibile l'inserimento di qualsiasi manufatto che
arrechi disturbo alla circolazione di tale tratto di strada.
Inoltre l'impianto andrebbe a collocarsi in uno spazio verde
caratterizzato dalla presenza di essenze arboree alterandone
negativamente la percezione visiva del verde esistente".
Pertanto il provvedimento dirigenziale impugnato,
contrariamente a quanto dedotto dall’appellante, risulta
adeguatamente motivato sulla scorta dell’espresso richiamo
degli anzidetti pareri, che sono di per sé sufficienti a
dare ragione della determinazione assunta.
Né l’appellante ha addotto elementi sostanziali idonei ad
evidenziare l’inadeguatezza e, tanto meno, l’erroneità delle
argomentazioni sviluppate dagli organi tecnici del Comune,
limitandosi a dedurre la presenza lungo la strada di altri
impianti pubblicitari, l'esistenza del limite di velocità di
50 Km/h e la presenza di una rotatoria ubicata100 metri
prima dell'impianto.
Deduzioni all’evidenza insufficienti, nella loro genericità,
a superare le ragioni ostative al rilascio del titolo
autorizzatorio evidenziate dall’Amministrazione.
Per un verso, infatti, le caratteristiche strutturali
dell'arteria costituita da due carreggiate indipendenti,
ciascuna a due corsie, comprovano che si tratta di una
strada di scorrimento ad alta intensità di traffico
veicolare che ben può essere percorsa a velocità sostenuta,
a prescindere dalla sussistenza di eventuali limiti di
velocità.
Per altro verso, proprio la prossimità alla rotatoria di
immissione nelle circonvallazioni, pone l'impianto
pubblicitario in un punto critico dove la sicurezza della
circolazione richiede che non vi siano elementi di possibile
distrazione degli automobilisti.
Quanto, poi, alla presenza di un altro cartello
pubblicitario, questo è risultato essere collocato in uno
spazio con diverse caratteristiche e ad una maggiore
distanza dalla carreggiata.
Per ciò che attiene, infine, alla valutazione in ordine alla
tutela del verde urbano, la documentazione fotografica
versata in atti dà conto dell'ampia superficie di verde e
delle alberature esistenti nell'area interessata ed
evidenzia l'impatto negativo dell'impianto pubblicitario su
tale contesto, con pregiudizio dell'estetica, del decoro
urbano e dell'ambiente, la cui tutela da parte
dell'Amministrazione comunale prescinde dall'esistenza di
particolari vincoli (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.05.2014 n. 2757 -
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APPALTI:
La giurisprudenza ha già avuto modo di
evidenziare che nelle gare pubbliche le referenze bancarie
chieste dalla stazione appaltante alle imprese partecipanti,
con i contenuti fissati dalla lex specialis, hanno una
sicura efficacia probatoria dei requisiti
economico-finanziari necessari per l’aggiudicazione di
contratti pubblici: e ciò in base al fatto notorio che il
sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto
tali profili, per cui è ragionevole che un’Amministrazione
aggiudicatrice, nell’esercizio della propria discrezionalità
in sede di fissazione della legge di gara, ne richieda la
produzione in tale sede.
Le referenze bancarie assolvono pertanto alla funzione di
determinare in concreto la capacità economica e finanziaria
delle imprese concorrenti, essendo infatti del tutto
assodato -come detto innanzi- il non limitato potere
discrezionale delle pubbliche amministrazioni nel fissare i
requisiti di partecipazione a una gara per l’aggiudicazione
di lavori, servizi o forniture.
L’espressione “idonee referenze bancarie”, ove riportata nei
bandi di gara pubblica senza ulteriori precisazioni, deve
essere interpretata dagli istituti bancari nel senso, anche
lessicalmente corretto, che essi devono riferire sulla
qualità dei rapporti in atto con le società, per le quali le
referenze sono richieste, quali la correttezza e la
puntualità di queste nell’adempimento degli impegni assunti
con l’istituto, l’assenza di situazioni passive con lo
stesso istituto o con altri soggetti, sempre che tali
situazioni siano desumibili dai movimenti bancari o da altre
informazioni in loro possesso.
---------------
La stazione appaltante legittimamente ha escluso, a comprova
del requisito dell’idoneità economico-finanziaria dei
concorrenti, le referenze bancarie recanti attestazioni di
affidabilità del tutto generiche, in quanto prive di
concreti riferimenti all’appalto reso oggetto di gara.
---------------
Nelle gare pubbliche, l’omessa allegazione di un documento o
di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può
essere considerata alla stregua di un’irregolarità sanabile,
in applicazione del cd. “dovere di soccorso” di cui all’art.
46 del D.L.vo 163 del 2006 e che, non ne è permessa
l’integrazione o la regolarizzazione postuma, non
trattandosi di rimediare a vizi puramente formali: ciò tanto
più quando non sussistano equivoci o incertezze generati
dall'ambiguità di clausole della legge di gara, potendosi al
più ammettersi in tale contesto l’integrazione solo quando i
vizi sono chiaramente imputabili ad errore materiale, e –per
l’appunto- sempre che riguardino dichiarazioni o documenti
non richiesti a pena di esclusione, non essendo, in
quest’ultima ipotesi, consentita la sanatoria o
l’integrazione postuma, che si tradurrebbe in una violazione
dei termini massimi di presentazione dell’offerta e, in
definitiva, in una violazione del principio di parità delle
parti, che deve presiedere ogni procedura ad evidenza
pubblica.
L’art. 41, comma 1, del D.L.vo 163 del
2006, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera l),
numero 1), del D.L.vo 11.09.2008 n. 152 (vigente,
quindi, all’epoca dei fatti per cui è causa) dispone che
“negli appalti di forniture o servizi, la dimostrazione
della capacità finanziaria ed economica delle imprese
concorrenti può essere fornita mediante uno o più dei
seguenti documenti: a) dichiarazione di almeno due istituti
bancari o intermediari autorizzati ai sensi del decreto
legislativo 01.09.1993, n. 385; b) bilanci o estratti
dei bilanci dell’impresa, ovvero dichiarazione sottoscritta
in conformità alle disposizioni del D.P.R. 28.12.2000,
n. 445; c) dichiarazione, sottoscritta in conformità alle
disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, concernente il fatturato globale
d'impresa e l’importo relativo ai servizi o forniture nel
settore oggetto della gara, realizzati negli ultimi tre
esercizi”.
Il comma 2 dello stesso articolo disponeva, a sua volta, nel
testo vigente all’epoca dei fatti di causa –e, quindi,
prima della novella introdotta per effetto modificato
dall’art. 1, comma 2-bis, lett. b), del D.L. 06.07.2012
n. 95 convertito con modificazioni in L. 07.08.2012 n.
135– che “le amministrazioni precisano nel bando di gara i
requisiti che devono essere posseduti dal concorrente,
nonché gli altri eventuali che ritengono di richiedere. I
documenti di cui al comma 1, lettera b), non possono essere
richiesti a prestatori di servizi o di forniture stabiliti
in Stati membri che non prevedono la pubblicazione del
bilancio”.
Ai sensi del comma 3, “se il concorrente non è in grado, per
giustificati motivi, ivi compreso quello concernente la
costituzione o l'inizio dell’attività da meno di tre anni,
di presentare le referenze richieste, può provare la propria
capacità economica e finanziaria mediante qualsiasi altro
documento considerato idoneo dalla stazione appaltante”.
Il comma 4, da ultimo, dispone -nel testo sostituito per
effetto dell’art. 2, comma 1, lettera l), numero 2), del
D.L.vo 152 del 2008- che “la dichiarazione di cui al comma
1, lettera a), è presentata già in sede di offerta. Il
concorrente aggiudicatario è tenuto ad esibire la
documentazione probatoria a conferma delle dichiarazioni di
cui al comma 1, lettere b) e c)”.
Da quanto sopra consta, quindi, che la stazione appaltante è
titolare di un’ampia discrezionalità in ordine alla scelta
della documentazione che può essere chiesta al fine della
comprova della capacità economica e finanziaria dei
concorrenti, potendo in tal senso contemplare nel bando
l’acquisizione di “uno o più” dei “documenti” anzidetti,
senza dunque che la produzione da parte del concorrente dei
bilanci e del fatturato globale degli anni di riferimento
possa surrogare la richiesta delle referenze bancarie
contemplata dalla lex specialis.
Men che meno, poi, la produzione di tali referenze può
essere surrogata dal ben diverso istituto della cauzione
provvisoria di cui all’art. 75 del D.L.vo 163 del 2006, il
quale contempla e disciplina la prestazione di una garanzia
chiesta, per ragioni contingenti, al concorrente, ma non
concorre ad individuare gli elementi -per così dire-
“storici” della sua capacità economico-finanziaria.
La giurisprudenza ha già avuto modo di evidenziare che nelle
gare pubbliche le referenze bancarie chieste dalla stazione
appaltante alle imprese partecipanti, con i contenuti
fissati dalla lex specialis, hanno una sicura efficacia
probatoria dei requisiti economico-finanziari necessari per
l’aggiudicazione di contratti pubblici: e ciò in base al
fatto notorio che il sistema bancario eroga credito a
soggetti affidabili sotto tali profili, per cui è
ragionevole che un’Amministrazione aggiudicatrice,
nell’esercizio della propria discrezionalità in sede di
fissazione della legge di gara, ne richieda la produzione in
tale sede (così Cons. Stato, Sez. V, 22.05.2012 n.
2959).
Le referenze bancarie assolvono pertanto alla funzione di
determinare in concreto la capacità economica e finanziaria
delle imprese concorrenti, essendo infatti del tutto
assodato
-come detto innanzi- il non limitato potere discrezionale
delle pubbliche amministrazioni nel fissare i requisiti di
partecipazione a una gara per l’aggiudicazione di lavori,
servizi o forniture (Cons. Stato, Sez. VI, 22.05.2006 n.
2959).
L’espressione “idonee referenze bancarie”, ove riportata nei
bandi di gara pubblica senza ulteriori precisazioni, deve
essere interpretata dagli istituti bancari nel senso, anche lessicalmente corretto, che essi devono riferire sulla
qualità dei rapporti in atto con le società, per le quali le
referenze sono richieste, quali la correttezza e la
puntualità di queste nell’adempimento degli impegni assunti
con l’istituto, l’assenza di situazioni passive con lo
stesso istituto o con altri soggetti, sempre che tali
situazioni siano desumibili dai movimenti bancari o da altre
informazioni in loro possesso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23.06.2008 n. 3108).
Nel caso di specie, peraltro, la lex specialis di gara
disponeva, in via del tutto inequivoca, che le referenze
delle banche dovevano attestare “non solo la correttezza
dell’impresa ma anche la sua solvibilità e sostenibilità
degli impegni in rapporto al valore dell’appalto, al momento
della presentazione dell’offerta”.
In tal modo la stazione appaltante ha pertanto inteso
legittimamente escludere, a comprova del requisito
dell’idoneità economico-finanziaria dei concorrenti, le
referenze bancarie recanti attestazioni di affidabilità del
tutto generiche (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato,
Stato, Sez. V, 21.11.2007 n. 5909 e 03.02.2003,
n. 504; Sez. IV, 12.05.2011 n. 2860), in quanto prive di
concreti riferimenti all’appalto reso oggetto di gara: e se Carispaq ha in tal senso espressamente affermato –tra
l’altro- che Tekneko è dotata di “buone capacità economiche
e finanziarie, atte ad assumere impegni dell’entità del
corrispettivo presunto per i servizi oggetto della gara”,
altrettanto non può dirsi per la referenza del Monte dei
Paschi di Siena, nella quale si afferma senza alcun concreto
riferimento all’appalto per il quale la referenza medesima
era stata chiesta –e, quindi, in via del tutto generica-
che “sulla scorta delle informazioni in nostro possesso … la Tekneko Sr.l. intrattiene rapporti fiduciari con la nostra
Banca dimostrando buone capacità economiche e finanziarie e,
per quanto a noi noto ha fatto sempre fronte ai propri
impegni con regolarità e puntualità”.
E’ ben vero che, come rimarca la stessa Tekneko, tale
referenza reca una data immediatamente antecedente al
termine di presentazione delle offerte per la gara in
questione e che pertanto riferisce una solidità
economico-finanziaria della propria azienda in essere
all’epoca della stessa lex specialis: ma la referenza
medesima non reca alcuna precisazione, a differenza di
quanto viceversa affermato in quella rilasciata da Carispaq,
circa la compatibilità dell’eventuale assunzione
dell’appalto di cui trattasi con tali pur intrinsecamente
buone capacità economico-finanziarie di Tekneko, non essendo
per certo sufficiente a tal fine il mero riferimento ad una
“gara di appalto per servizi di igiene urbana” contenuto
nell’oggetto della referenza stessa ma non considerato nel
testo della referenza come elemento di giudizio in ordine
alla concreta possibilità per la medesima Tekneko di poter
onorare anche tale ulteriore suo impegno nell’ipotesi di
eventuale aggiudicazione della gara.
Ne deriva, quindi, che il difetto di una delle due referenze
bancarie previste dal disciplinare di gara impedisce
all’impresa di comprovare la capacità economico-finanziaria
nei modi voluti dalla stazione appaltante, con la
conseguenza che l’impresa medesima, in applicazione delle
regole espulsive sancite dalla lex specialis della gara, non
può che essere esclusa dal procedimento di scelta del
contraente.
Va anche soggiunto che, nelle gare pubbliche, l’omessa
allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti
a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua
di un’irregolarità sanabile, in applicazione del cd. “dovere
di soccorso” di cui all’art. 46 del D.L.vo 163 del 2006 e
che, non ne è permessa l’integrazione o la regolarizzazione
postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente
formali: ciò tanto più quando non sussistano equivoci o
incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge
di gara, potendosi al più ammettersi in tale contesto
l’integrazione solo quando i vizi sono chiaramente
imputabili ad errore materiale, e –per l’appunto- sempre
che riguardino dichiarazioni o documenti non richiesti a
pena di esclusione, non essendo, in quest’ultima ipotesi,
consentita la sanatoria o l’integrazione postuma, che si
tradurrebbe in una violazione dei termini massimi di
presentazione dell’offerta e, in definitiva, in una
violazione del principio di parità delle parti, che deve
presiedere ogni procedura ad evidenza pubblica (cfr. sul
punto le dirimenti, conclusive e vincolanti argomentazioni
di Cons. Stato, Ad. plen., n. 9 del 2014).
4.3. Né Tekneko può invocare a sostegno della propria tesi
la novella introdotta con il comma 1-bis dello stesso art.
46 del D.L.vo 163 del 2006 per effetto dell’art. 4, comma 2,
lett. d), del D.L. 13.05.2011 n. 70 convertito con
modificazioni in L. 12.07.2011 n. 106, trattandosi di
disciplina non retroattiva e, pertanto, non applicabile alle
gare bandite prima della sua introduzione nel nostro
ordinamento (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nel caso in cui il
provvedimento amministrativo si fondi su più motivazioni,
tra di loro autonome ma ciascuna delle quali risulti di per
sé idonea a supportare la parte dispositiva del
provvedimento, è sufficiente che una sola resista al vaglio
giurisdizionale perché il provvedimento medesimo nel suo
complesso resti indenne, risultando conseguentemente privo
di utilità l’esame in sede giudiziale delle altre censure.
A ragione, inoltre, il giudice di primo grado ha
assorbito l’ordine di censure riferito alla parte
dell’impugnato provvedimento di esclusione della gara
riguardante l’omessa indicazione della gara e dell’oggetto
della stessa sulle tre buste interne al plico reso al seggio
di gara, posto che –come è ben noto– nel caso in cui il
provvedimento amministrativo si fondi su più motivazioni,
tra di loro autonome ma ciascuna delle quali risulti di per
sé idonea a supportare la parte dispositiva del
provvedimento, è sufficiente che una sola resista al vaglio
giurisdizionale perché il provvedimento medesimo nel suo
complesso resti indenne, risultando conseguentemente privo
di utilità l’esame in sede giudiziale delle altre censure
(così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 09.01.2014 n.
25) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Stabilisce l’art. 3 comma primo, del d.m. n. 1444
del 1968 che “per gli insediamenti residenziali, i rapporti
massimi di cui all'art. 17 -penultimo comma- della legge n.
765 del 1967, sono fissati in misura tale da assicurare per
ogni abitante -insediato o da insediare- la dotazione
minima, inderogabile, di mq. 18 per spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggio…”.
Analoga norma è contenuta nell’art. 9, comma 3, della l.r.
n. 12 del 2005, ove si specifica peraltro che tale rapporto
minimo deve essere assicurato anche all’interno dei piani
attuativi.
Le disposizioni, come si vede, quantificano le dotazioni
minime di aree standard necessarie per rendere armonico ed
equilibrato il rapporto fra insediamenti umani ed ambiente
circostante; a tali prescrizioni sono vincolate le autorità
preposte alla predisposizione ed all’approvazione degli atti
di pianificazione territoriale.
Trattandosi di quantificazioni minime, è del tutto pacifica
la possibilità di prescrivere, in sede pianificatoria,
rapporti più elevati rispetto ai 18 mq. per abitante. In tal
caso sarà però necessaria una motivazione particolare che
renda palesi le ragioni che hanno indotto al
sovradimensionamento degli standard, con la precisazione che
la motivazione specifica andrà comunque riferita alle
previsioni urbanistiche complessive di
"sovradimensionamento" indipendentemente dal riferimento
alla destinazione di zona di determinate aree.
2. Con una prima doglianza contenuta nel primo motivo, l’interessata
deduce l’illegittimità della decisione di prevedere un
obbligo di cessione di aree standard interne all’ambito per
una superficie complessiva pari a mq. 26.890 e,
correlativamente, la decisione di ammettere una quantità
massima di superficie lorda di pavimento (s.l.p.) pari a mq.
8.120. Tali indici sarebbero, a suo dire, sproporzionati,
posto che, in base all’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968, la
dotazione minima di aree standard è pari a 18 mq. per
abitante e che, nel caso concreto, questa proporzione
sarebbe stata abbondantemente superata dalle previsioni
dello strumento urbanistico.
In sede di osservazioni l’interessata aveva proposto, al
fine di riequilibrare il rapporto, di elevare a mq 11.000 la
s.l.p. realizzabile, ma l’osservazione è stata respinta in
ragione di un asserito contrasto fra la richiesta di parte e
gli obiettivi indicati nel Documento di Piano.
La ricorrente contesta tale assunto evidenziando che, anche
a voler prescindere dalle previsioni di cui al citato art. 3
del d.m. n. 1444 del 1968, l’art. 5 delle Disposizioni di
Attuazione al Piano dei Servizi prescrive un rapporto minimo
fra aree standard ed abitanti insediabili pari a mq. 60 per
abitante, e che la proposta effettuata in sede di
osservazioni sarebbe compatibile con tale prescrizione.
In ogni caso, la parte rileva che la decisione di disporre
un sovradimensionamento degli standard non sarebbe motivata.
2.1. Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato nei
termini di seguito specificati.
Stabilisce l’art. 3 comma primo, del d.m. n. 1444 del 1968
che “per gli insediamenti residenziali, i rapporti massimi
di cui all'art. 17 -penultimo comma- della legge n. 765
del 1967, sono fissati in misura tale da assicurare per
ogni abitante -insediato o da insediare- la dotazione
minima, inderogabile, di mq. 18 per spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggio…”.
Analoga norma è contenuta nell’art. 9, comma 3, della l.r.
n. 12 del 2005, ove si specifica peraltro che tale rapporto
minimo deve essere assicurato anche all’interno dei piani
attuativi.
Le disposizioni, come si vede, quantificano le dotazioni
minime di aree standard necessarie per rendere armonico ed
equilibrato il rapporto fra insediamenti umani ed ambiente
circostante; a tali prescrizioni sono vincolate le autorità
preposte alla predisposizione ed all’approvazione degli atti
di pianificazione territoriale.
Trattandosi di quantificazioni minime, è del tutto pacifica
la possibilità di prescrivere, in sede pianificatoria,
rapporti più elevati rispetto ai 18 mq. per abitante. In tal
caso sarà però necessaria una motivazione particolare che
renda palesi le ragioni che hanno indotto al
sovradimensionamento degli standard, con la precisazione che
la motivazione specifica andrà comunque riferita alle
previsioni urbanistiche complessive di
"sovradimensionamento" indipendentemente dal riferimento
alla destinazione di zona di determinate aree (cfr.
Consiglio di Stato, ad. plen. 22.12.1999 n. 24; id.
sez. IV, febbraio 2014 n. 493).
Ciò premesso, va osservato che, nel caso concreto, non è
contestato che l’Amministrazione resistente, nel proprio
Piano di Governo del Territorio, ha prescritto, per lo
specifico ambito oggetto del presente giudizio, un rapporto
fra aree standard ed abitanti insediabili superiore a quello
minimo stabilito dall’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968 e
dall’art. 9, comma 3, della l.r. n. 15 del 2005.
Tale scelta non è stata, tuttavia, adeguatamente
giustificata.
E’ vero, infatti, che nell’atto di controdeduzione alle
osservazioni, il Comune resistente ha precisato che un
incremento della s.l.p. realizzabile sarebbe “… in contrasto
con gli obiettivi di dimensionamento riportati nel documento
di piano”.
Tale precisazione vale, però, esclusivamente a giustificare
l’impossibilità di elevare la quantità di volume
residenziale edificabile, ma non spiega le ragioni della
necessità di reperire aree standard per una superficie
superiore rispetto a quella ordinaria, e non vale quindi a
giustificare il sacrificio dell’interesse della parte
privata a cedere una superficie inferiore rispetto a quella
prescritta dal PGT.
Né può considerarsi idonea motivazione il passaggio,
contenuto nell’art. 41, comma 1 delle Disposizioni di
Attuazione del Piano delle Regole, laddove si legge che, fra
gli obiettivi generali da attuare nei “campi della
modificazione m1”, vi è quello di assicurare l’incremento
delle dotazioni di aree per servizi di uso pubblico. Tale
disposizione invero si limita ad enunciare la volontà di
conseguire l’obiettivo di sovradimensionamento degli
standard, senza tuttavia indicarne le ragioni.
Sotto questo profilo il motivo appare pertanto fondato.
Non è invece condivisibile l’argomentazione che fa leva
sull’art. 5 delle Disposizioni di Attuazione del Piano dei
Servizi, il quale, per i piani attuativi relativi a zone
diverse dai “campi della modificazione - m1” prescrive una
dotazione minima di aree standard pari a mq. 60/abitanti
(inferiore rispetto a quella prescritta dalle disposizioni
del Piano delle Regole impugnate in questa sede).
L’art. 5, comma 1, delle disposizioni di Attuazione del
Piano dei Servizi, come detto, vale difatti per i piani
attuativi relativi a zone diverse dai “campi della
modificazione - m1”; per questi ultimi è invece applicabile
il comma successivo il quale rimanda alle previsioni
specifiche contenute nelle Disposizioni Attuative del Piano
delle Regole (che dovrebbero appunto dettare norme
specifiche per ciascun singolo ambito), chiarendo che, per
questi ultimi la dotazione dovrà essere stabilità “…in
relazione alla consistenza ed alle caratteristiche
dell’insediamento previsto, nonché alle esigenze urbanizzative indotte dall’insediamento stesso e
dall’incidenza del consumo di suolo rispetto all’equilibrio
complessivo del territorio comunale". Il Piano delle Regole,
pertanto, per esplicita previsione normativa, ben poteva
derogare alle previsioni di cui al primo comma del
richiamato art. 5, comma 1.
Vale tuttavia quanto sopra illustrato in punto di carenza di
motivazionale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.05.2014 n. 1282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per pacifico orientamento giurisprudenziale, le
scelte urbanistiche compiute dalle competenti autorità
amministrative in sede di pianificazione costituiscono
apprezzamenti di merito, sottratti al sindacato del giudice
amministrativo se non nei casi in cui vi sia manifesta
irragionevolezza, ovvero manifesto travisamento della
situazione fattuale.
2.2. Con una seconda
doglianza contenuta nel primo motivo di ricorso,
l’interessata deduce l’illegittimità della previsione che
obbliga la concentrazione della volumetria edificabile nella
porzione di ambito collocata ad ovest della via Fontanile.
Secondo la ricorrente la previsione sarebbe del tutto
illogica in quanto, come evidenziato in sede di
osservazioni, non consentirebbe la valorizzazione delle aree
poste ad est della suddetta strada, non garantirebbe un
miglior utilizzo degli standard da destinarsi
all’ampliamento di un centro sportivo ubicato a ridosso
dell’ambito e, infine, renderebbe inapplicabili le
disposizioni che consentono la possibilità di approvazione
di piani attuativi frazionati.
2.3. In proposito si osserva che, per pacifico orientamento
giurisprudenziale, le scelte urbanistiche compiute dalle
competenti autorità amministrative in sede di pianificazione
costituiscono apprezzamenti di merito, sottratti al
sindacato del giudice amministrativo se non nei casi in cui
vi sia manifesta irragionevolezza, ovvero manifesto
travisamento della situazione fattuale (cfr. ex multis
Consiglio di Stato, sez. IV, 22.06.2006 n. 3880).
Peraltro, a differenza di quanto rilevato con riferimento al
sovradimensionamento degli standard, la scelta qui
contestata non rientra fra quelle che richiedono
l’assolvimento di uno specifico onere motivazionale.
Ciò permesso, il Collegio ritiene che la ricorrente non
abbia fornito sufficienti elementi che possano dimostrare
l’irrazionalità della scelta compiuta dal Comune di Cernusco
sul Naviglio il quale, peraltro, nei propri atti ha
specificato che essa dipende dalla necessità di “a)
concentrare le superfici fondiarie nella parte nord del
campo della modificazione sul retro degli insediamenti che
si sviluppano su via Monza; b) realizzare l’ampliamento del
campo sportivo; c) assicurare uno spazio di interesse
generale ad est della via Fontanile, continuità con le
attrezzature scolastiche esistenti".
La doglianza non può dunque essere accolta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.05.2014 n. 1282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza ha
chiarito che l'istituto perequativo della cessione di aree,
pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova
il suo fondamento "in due pilastri fondamentali" del nostro
ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del
territorio di cui è titolare l'Amministrazione
nell'esercizio della propria attività di pianificazione e,
al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli
consensuali per il perseguimento di finalità di interesse
pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis
e 11 della legge n. 241 del 1990.
Non è quindi necessaria la presenza di puntuali norme che
configurino in maniera specifica i modelli secondo i quali
l’istituto stesso si può sostanziare.
3. Nel secondo motivo di
ricorso, viene censurata la previsione che impone l’obbligo
di cessione di aree di proprietà di terzi esterne
all’ambito. In particolare secondo la ricorrente tale
previsione sarebbe sfornita di supporto normativo; sarebbe
contraria all’art. 28 della legge n. 1150 del 1942 atteso
che tale norma consente, in casi eccezionali, la possibilità
di cessione di aree da destinare a standard esterne
all’ambito, ma dispone altresì che tali aree debbano essere
a questo attigue (mentre nel caso concreto le aree da cedere
sarebbero collocate a notevole distanza dall’ambito);
sarebbe di difficile attuazione in quanto i proprietari
della aree da cedere potrebbero non essere disposti a
venderle al soggetto attuatore oppure potrebbero pretendere
prezzi eccessivi: per questo la previsione censurata
comprometterebbe le possibilità di edificazione che spettano
ai proprietari della aree interne all’ambito, con
conseguente violazione degli artt. 41 e 42 Cost., dell’art.
1, primo protocollo addizionale, della Convenzione Europea
dei diritti dell’Uomo, nonché dell’art. 17 della Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
3.1. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
Nella scheda riguardante il “campo della modificazione – m1
via Fontanile” è previsto, per i soggetti attuatori,
l’obbligo di cedere aree per servizi di interesse generale
esterne all’ambito,
per una superficie complessiva pari a mq. 5.590.
L’art. 7, comma 3, delle Disposizioni di Attuazione del
Piano dei Servizi stabilisce che all’interno dei “campi
della modificazione – m1” la dotazione minima di aree per
servizi di interesse generale non è monetizzabile ed è
garantita attraverso la cessione gratuita al Comune di lotti
identificati dallo stesso Piano dei Servizi come aree
“Parchi e Giardini Sg1, Sg2, Sg3, Sg4….” .
Queste disposizioni hanno evidente carattere perequativo, in
quanto attraverso di esse vengono valorizzate aree per le
quali è esclusa ogni capacità edificatoria, l’acquisto e la
cessione al Comune delle quali diviene requisito
indefettibile per l’esercizio dello jus aedificandi con
riferimento ad aree che invece hanno capacità edificatoria.
La stessa disposizione ha anche evidenti finalità
pubblicistiche, in quanto consente al Comune di divenire
proprietario di aree considerate importanti per
l’insediamento di servizi di interesse generale.
Come premesso, la ricorrente contesta innanzitutto la
sussistenza di una base normativa che sorregga detta
previsione, posto che l’art. 11 della l.r. n. 12 del 2005
non contempla, fra le ipotesi perequative e compensative ivi
previste, la possibilità di obbligare i soggetti attuatori
alla cessione di aree di proprietà di terzi esterne agli
ambiti dei piani attuativi.
In proposito va però osservato come la giurisprudenza abbia
chiarito che l'istituto perequativo della cessione di aree,
pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova
il suo fondamento "in due pilastri fondamentali" del nostro
ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del
territorio di cui è titolare l'Amministrazione
nell'esercizio della propria attività di pianificazione e,
al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli
consensuali per il perseguimento di finalità di interesse
pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis
e 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
13.07.2010 n. 4545; si vedano anche TAR Campania,
Salerno, sez. I, 05.07.2002 n. 670, TAR Veneto sez. I,
19.05.2009, n. 1504).
Non è quindi necessaria la presenza di puntuali norme che
configurino in maniera specifica i modelli secondo i quali
l’istituto stesso si può sostanziare.
La ricorrente obietta che, nel caso specifico, a differenza
del caso esaminato nella sentenza del Coniglio di Stato n.
4545 del 2010, non è prevista l’assegnazione di volumetrie
aggiuntive all’area di proprietà del soggetto attuatore
obbligato ad effettuare la cessione.
Ritiene il Collegio che questo rilievo non sia decisivo in
quanto il sacrificio della cessione viene comunque
compensato dall’attribuzione di capacità edificatoria
all’area di proprietà dello stesso soggetto attuatore.
Il meccanismo configurato dal Comune di Cernusco sul
Naviglio conserva una sua intrinseca ragionevolezza anche in
mancanza di una previsione sull’assegnazione di volumetria
aggiuntiva giacché, come anticipato, esso consente di
soddisfare contemporaneamente l’interesse di tre soggetti:
l’interesse dei proprietari dei suoli interni al comparto, i
quali vedono assegnare capacità edificatoria alle proprie
aree; l’interesse dei proprietari dei suoli destinati a
parchi e giardini (privi di capacità edificatoria) che
vedono valorizzare le proprie aree e, infine, l’interesse
del Comune che in tal modo può divenire proprietario di aree
considerate strategiche ai fini dell’insediamento di servizi
di interesse generale.
Non può essere pertanto condivisa la doglianza che lamenta
il difetto di base normativa.
In tale quadro poi, risulta evidente come non abbiano
rilievo le disposizioni contenute nell’art. 28 della legge
n. 1150 del 1942 e le disposizioni costituzionali e di
diritto comunitario ed internazionale che tutelano il
diritto di proprietà.
La prima in quanto esula completamente dalla materia degli
istituti perequativi, avendo essa l’esclusiva finalità di
agevolare i soggetti attuatori in caso di impossibilità di
cessione di aree per dotazioni standard interne all’ambito
del piano attuativo; le seconde in quanto si è dimostrato
sopra che le disposizioni contestate, lungi dall’introdurre
immotivati sacrifici al diritto proprietà, soddisfano
l’interesse di una pluralità di soggetti ridistribuendo fra
questi i vantaggi derivanti dall’attribuzione di capacità
edificatoria alle aree di proprietà di alcuni di essi, in
armonia peraltro con le previsioni contenute nell’art. 3,
commi primo e secondo, Cost.
L’Amministrazione resistente ha inoltre dimostrato in
giudizio che la superficie delle aree di interesse pubblico
individuate dal Piano dei Servizi è di molto superiore
rispetto alla superficie che costituisce obbligo di
cessione. Non pare quindi dimostrato che il meccanismo qui
avversato sia di impossibile o estremamente difficoltosa
attuazione (i soggetti attuatori hanno invero ampia
possibilità di scelta sulle aree da acquistare e cedere al
Comune); sicché ne va confermata l’intrinseca
ragionevolezza.
La doglianza in esame non può pertanto essere condivisa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.05.2014 n. 1282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI
- INCARICHI PROFESSIONALI: Giacché il servizio oggetto della procedura di evidenza
pubblica ha avuto integrale esecuzione, non è più utile ai
ricorrenti l’annullamento dei provvedimenti impugnati;
piuttosto, accertata la loro illegittimità ai sensi
dell’art. 34, comma 3, c.p.a., occorre decidere la domanda
di risarcimento del danno per equivalente, proposta con il
ricorso per motivi aggiunti.
In proposito, si riscontra la presenza di tutti gli
elementi integranti la fattispecie risarcitoria.
Vi è, in primo luogo, la condotta illegittima
dell’amministrazione.
Vi è la lesione, non iure e contra ius, dell’interesse al
bene della vita vantato dai ricorrenti: infatti, laddove
l’amministrazione avesse correttamente rilevato che il
raggruppamento aggiudicatario non possedeva i requisiti che
–ai sensi dell’art. 90 d.lgs. 12.04.2006, n. 163– gli
consentivano di partecipare alla procedura di evidenza
pubblica, l’appalto di servizi avrebbe dovuto essere
affidato al Raggruppamento Temporaneo di Professionisti in
vi di costituzione ad opera dei ricorrenti.
Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta
illegittima e la lesione.
Ritiene, invece, il Collegio che non occorra anche che
l’illegittima condotta dell’amministrazione debba anche
essere qualificata come colposa.
Invero, trattandosi di una procedura di evidenza pubblica
sotto la soglia di applicabilità della direttiva 2004/18/CE
del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004,
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
non sono vincolanti per il giudice nazionale i principi
sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la
quale ha affermato che il diritto comunitario in tema di
appalti osta ad una normativa nazionale che subordini il
diritto al risarcimento a motivo di una violazione della
disciplina sugli appalti pubblici da parte di
un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di
tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della
normativa in questione sia incentrata su una presunzione di
colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché
sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la
mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un
difetto di imputabilità soggettiva della violazione
lamentata.
Tuttavia, il Collegio ritiene che tali principi (di cui
hanno fatto applicazione, più di recente, Cons. Stato, Sez.
V, 27.03.2013 n. 1833; Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5686; Cons. Stato, Sez. IV,
04.09.2013, n.
4439; Cons. Stato, Sez. IV, 13.12.2013, n. 6000;
TAR Lazio–Roma, Sez. II, 11.09.2013, n. 8208,
secondo cui l'art. 124 c.p.a. ha introdotto un'ipotesi di
responsabilità oggettiva) debbano trovare applicazione
indipendentemente dal fatto che l'affidamento si collochi
sopra o sotto la soglia di rilevanza comunitaria. Non pare,
infatti, ragionevole diversificare il regime di
responsabilità in funzione di un elemento in fondo
estrinseco, quale quello del superamento o meno della soglia
richiamata.
---------------
Secondo il noto principio dell’aliunde perceptum verl
percipiendum, onde evitare che, a seguito del risarcimento,
l'impresa danneggiata possa trovarsi in una situazione
addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe
trovata in assenza dell'illecito, va detratto dall'importo
dovuto a titolo risarcitorio quanto percepito o quanto
avrebbe potuto percepire grazie allo svolgimento di diverse
attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto
eseguire l'appalto in contestazione.
L'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde perceptum vel
percipiendum grava non sull'amministrazione, ma
sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l'id
quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente
diligente non rimane inerte in caso di mancata
aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni
contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il
relativo utile.
Trattandosi di professionisti, tale prova avrebbe potuto
essere agevolmente fornita, mediante la produzione in
giudizio dei registri che i ricorrenti debbono
obbligatoriamente tenere per ragioni fiscali.
Essa, però, non è stata data, non essendo idonee, a tal
scopo, le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà
prodotte in giudizio. Infatti, le dichiarazioni de quibus
hanno attitudine certificativa e probatoria, fino a
contraria risultanza, nei confronti dell’amministrazione
pubblica ed in determinate attività o procedure
amministrative, ma, in difetto di diversa, specifica
previsione di legge, nessun valore probatorio, neanche
indiziario, può essere ad essa attribuito in un giudizio
caratterizzato dal principio dell'onere della prova (qual è
anche quello amministrativo, allorché si discuta del diritto
al risarcimento del danno), atteso che la parte non può
derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini del
soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c., da
proprie dichiarazioni.
---------------
Deve ammettersi che l'impresa illegittimamente privata
dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di
lucro cessante anche la perdita della possibilità di
arricchire il proprio curriculum professionale; infatti,
l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di
un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione
dell'opera in sé e al relativo incasso, posto che alla
mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano
indirettamente nocumenti all'immagine della società ed al
suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento
di imprese concorrenti che operano su medesimo target di
mercato, dichiarate, in modo illegittimo, aggiudicatarie
della gara.
Tale danno non può che essere quantificato in via
equitativa, nella misura che si reputa corretta di €
1.000,00 (si noti che nella giurisprudenza il danno
curriculare viene liquidato in una misura variabile tra l’1%
ed il 3% del lucro cessante).
3. Il ricorso è fondato.
L’illegittimità dell’azione amministrativa emerge ictu oculi
avendo riguardo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato,
correttamente citata dalla parte ricorrente (Cons. Stato,
Sez. VI, 05.09.2011, n. 5003).
Infatti, l’art. 90, comma 1, lett. d), d.lgs. 12.04.2006,
n. 163, prevede che i soggetti esterni ai quali può essere
affidata l’attività di progettazione sono –in sintesi– i
liberi professionisti iscritti nel relativo albo
professionale, le società di professionisti o le società di
ingegneria.
Attesa la tassatività di un siffatto elenco –da raccordare
alla diretta responsabilizzazione del soggetto della cui
prestazione ci si avvale–, il soggetto “esterno”,
destinatario dell’incarico di progettazione esterna, non può
essere un pubblico dipendente a tempo pieno. Quest’ultimo,
invero, non può esercitare la libera professione e, quindi,
non può assumere la qualifica professionale che l’art. 90
citato richiede per i progettisti esterni.
In senso contrario non rileva l’autorizzazione che il
professionista abbia eventualmente ricevuto
dall’amministrazione di appartenenza, perché tale
autorizzazione non può rimuovere la circostanza che la
prescrizione normativa da qui applicare richiede in capo ai
progettisti esterni un vero e proprio status di libero
professionista (con tanto di iscrizione nel relativo albo) e
questo è precluso dall’esistenza di un rapporto di lavoro a
tempo pieno.
4. Giacché il servizio oggetto della procedura di evidenza
pubblica ha avuto integrale esecuzione, non è più utile ai
ricorrenti l’annullamento dei provvedimenti impugnati;
piuttosto, accertata la loro illegittimità ai sensi
dell’art. 34, comma 3, c.p.a., occorre decidere la domanda
di risarcimento del danno per equivalente, proposta con il
ricorso per motivi aggiunti.
5. In proposito, si riscontra la presenza di tutti gli
elementi integranti la fattispecie risarcitoria.
Vi è, in primo luogo, la condotta illegittima
dell’amministrazione.
Vi è la lesione, non iure e contra ius, dell’interesse al
bene della vita vantato dai ricorrenti: infatti, laddove
l’amministrazione avesse correttamente rilevato che il
raggruppamento aggiudicatario non possedeva i requisiti che
–ai sensi dell’art. 90 d.lgs. 12.04.2006, n. 163– gli
consentivano di partecipare alla procedura di evidenza
pubblica, l’appalto di servizi avrebbe dovuto essere
affidato al Raggruppamento Temporaneo di Professionisti in
vi di costituzione ad opera dei ricorrenti.
Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta
illegittima e la lesione.
Ritiene, invece, il Collegio che non occorra anche che
l’illegittima condotta dell’amministrazione debba anche
essere qualificata come colposa.
Invero, trattandosi di una procedura di evidenza pubblica
sotto la soglia di applicabilità della direttiva 2004/18/CE
del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004,
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
non sono vincolanti per il giudice nazionale i principi
sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la
quale ha affermato che il diritto comunitario in tema di
appalti osta ad una normativa nazionale che subordini il
diritto al risarcimento a motivo di una violazione della
disciplina sugli appalti pubblici da parte di
un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di
tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della
normativa in questione sia incentrata su una presunzione di
colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché
sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la
mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un
difetto di imputabilità soggettiva della violazione
lamentata (CGUE, Sez. III, 30.09.2010, in causa
C-314/09, richiamata dai ricorrenti nel ricorso per motivi
aggiunti; in precedenza CGUE, Sez. III, sentenza del 14.10.2004, in causa C275/03).
Tuttavia, il Collegio ritiene che tali principi (di cui
hanno fatto applicazione, più di recente, Cons. Stato, Sez.
V, 27.03.2013 n. 1833; Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5686; Cons. Stato, Sez. IV,
04.09.2013, n.
4439; Cons. Stato, Sez. IV, 13.12.2013, n. 6000;
TAR Lazio–Roma, Sez. II, 11.09.2013, n. 8208,
secondo cui l'art. 124 c.p.a. ha introdotto un'ipotesi di
responsabilità oggettiva) debbano trovare applicazione
indipendentemente dal fatto che l'affidamento si collochi
sopra o sotto la soglia di rilevanza comunitaria. Non pare,
infatti, ragionevole diversificare il regime di
responsabilità in funzione di un elemento in fondo
estrinseco, quale quello del superamento o meno della soglia
richiamata (nel medesimo senso Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012, n. 5685; TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II,
17.12.2011, n. 1616).
6. Occorre, pertanto, accertare e liquidare i pregiudizi
subiti dai ricorrenti.
6.1. Viene in rilievo, in primo luogo, il lucro cessante.
In relazione ad esso, il Collegio condivide le
argomentazioni spese dalla parte ricorrente, secondo cui –trattandosi di prestazione di opere di ingegno, che non
richiede l’uso di mezzi e di maestranze, ma che si svolge
prevalentemente con l’attività intellettuale del
professionista– il rapporto tra guadagni complessivamente
ottenibili dall’esecuzione del servizio e prezzo
dell’appalto sia maggiore del 10%, generalmente e
presuntivamente ritenuto congruo dalla giurisprudenza
formatasi in materia di appalti pubblici di lavori.
Nel caso di specie, la parte ricorrente afferma che, a
fronte di un ricavo di € 76.000,00, le spese sopportate
sarebbero state di circa € 8.000,00, analoghe, nell’entità
globale, a quelle sopportate dal raggruppamento
aggiudicatario (cfr. doc. 4 della produzione documentale del
controinteressato).
Tale valutazione può ritenersi congrua, sicché occorre
ritenere dimostrato che il guadagno che i ricorrenti
avrebbero potuto trarre dall’esecuzione del servizio oggetto
della controversia sarebbe ammontato ad € 68.000,00 (€
76.000,00 - € 8.000,00).
6.2. Ai fini risarcitori, tale importo va diminuito (nella
misura, ritenuta equa, della metà) secondo il noto principio
dell’aliunde perceptum verl percipiendum, per cui, onde
evitare che, a seguito del risarcimento, l'impresa
danneggiata possa trovarsi in una situazione addirittura
migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in
assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a
titolo risarcitorio quanto percepito o quanto avrebbe potuto
percepire grazie allo svolgimento di diverse attività
lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire
l'appalto in contestazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.03.2011, n. 1681).
6.2.1. Non appare convincente, sul punto, la pur suggestiva
tesi propugnata dai ricorrenti (pagg. 11 e 12 del ricorso
per motivi aggiunti), secondo cui “nel caso in questione non
è applicabile il principio dell’aliunde perceptum con
eventuale riduzione della somma di risarcimento; nelle
prestazioni intellettuali, infatti, l’eseguire un lavoro non
fa venire meno la possibilità di eseguirne un altro, atteso
che non sorge problema di utilizzo di macchinari
incompatibili con più commesse. La perdita di una commessa
pubblica, pertanto, è sempre piena, e giammai potrebbe
essere compensata dall’acquisizione di un altro lavoro, che
comunque si andrebbe ad aggiungere e non a sostituire a
quello illegittimamente negato (è nella natura del lavoro
libero-professionale assumere più incarichi in contemporanea
senza alcuna “esclusività”)”.
Ed infatti, la capacità di svolgere prestazioni
intellettuali –pur non scontando i limiti che alla capacità
di prestare attività materiali derivano dalla naturale
scarsità di mezzi e di maestranze– è anch’essa limitata, se
non altro perché il tempo destinabile a tale attività ha una
dimensione finita, cosicché non sembra corretto sostenere
che “l’eseguire un lavoro non fa venire meno la possibilità
di eseguirne un altro”.
6.2.2. Ciò posto, l'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde
perceptum vel percipiendum grava non sull'amministrazione,
ma sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo
l'id quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente
diligente non rimane inerte in caso di mancata
aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni
contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il
relativo utile (Cons. Stato, Sez. VI, 15.10.2012, n.
5279; cfr. anche la già citata sentenza Cons. Stato, Sez. VI,
18.03.2011, n. 1681).
Trattandosi di professionisti, tale prova avrebbe potuto
essere agevolmente fornita, mediante la produzione in
giudizio dei registri che i ricorrenti debbono
obbligatoriamente tenere per ragioni fiscali.
Essa, però, non è stata data, non essendo idonee, a tal
scopo, le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà
prodotte in giudizio. Infatti, le dichiarazioni de quibus
hanno attitudine certificativa e probatoria, fino a
contraria risultanza, nei confronti dell’amministrazione
pubblica ed in determinate attività o procedure
amministrative, ma, in difetto di diversa, specifica
previsione di legge, nessun valore probatorio, neanche
indiziario, può essere ad essa attribuito in un giudizio
caratterizzato dal principio dell'onere della prova (qual è
anche quello amministrativo, allorché si discuta del diritto
al risarcimento del danno), atteso che la parte non può
derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini del
soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c., da
proprie dichiarazioni (Cass. Civ., Sez. Un, 14.10.1998,
n. 10153; più di recente, Cass. Civ., Sez. III, 28.04.2010, n. 10191).
6.3. E’ dovuto, altresì, il risarcimento del danno
curriculare .
Infatti, deve ammettersi che l'impresa illegittimamente
privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a
titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità
di arricchire il proprio curriculum professionale; infatti,
l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di
un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione
dell'opera in sé e al relativo incasso, posto che alla
mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano
indirettamente nocumenti all'immagine della società ed al
suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento
di imprese concorrenti che operano su medesimo target di
mercato, dichiarate, in modo illegittimo, aggiudicatarie
della gara (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751).
Tale danno non può che essere quantificato in via
equitativa, nella misura che si reputa corretta di €
1.000,00 (si noti che nella giurisprudenza il danno
curriculare viene liquidato in una misura variabile tra l’1%
ed il 3% del lucro cessante: cfr. TAR Campania–Napoli,
Sez. VIII, 11.10.2012, n. 4058; TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
08.02.2012, n. 309; TAR Sardegna,
21.06.2012, n. 628; TAR Sicilia–Catania, Sez. IV,
25.05.2011, n. 1279).
6.4. Il danno complessivo, al cui risarcimento deve essere
condannato il Comune di Acquaro, ammonta, dunque, ad €
35.000,00 [(€ 68.000,00 / 2) + € 1.000,00].
Trattandosi di debito di valore, su tale importo sono dovuti
la rivalutazione secondo l’indice ISTAT dei prezzi al
consumo (FOI) e gli interessi corrispettivi, da computarsi
al saggio legale sulla somma annualmente rivalutata, con
decorrenza dalla data di cristallizzazione del danno, da
individuare nel giorno di stipula del contratto oggetto
della procedura concorsuale, sino alla data di pubblicazione
della presente sentenza
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 15.05.2014 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Volume a copertura di un fabbricato
caratteristiche di sottotetto o mansarda.
Un volume realizzato a copertura di un fabbricato o ha le
caratteristiche oggettive di un sottotetto non abitabile,
trattandosi in questo caso di un minimo volume tecnico
richiesto per la copertura dell’edificio, ovvero si tratta
di una mansarda, anche potenziale, in quanto dotata di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda.
Ciò che
rileva, al fine della considerabilità del cd. vano
sottotetto, è la sua materiale potenzialità di sfruttamento
a fini abitativi, mentre non assumono alcun rilievo gli
impegni, anche assunti per atto pubblico, limitativi delle
facoltà di godimento del bene.
A fini edificatori, e quindi
per le valutazioni della pubblica amministrazione che deve
rilasciare il titolo autorizzatorio ciò che rileva è la
effettiva consistenza del volume e la sua concreta
utilizzabilità, non già la limitazione unilateralmente
assunta delle facoltà dominicali di godimento del bene.
3. Altrettanto fondato è il motivo sub b)
dell’esposizione in fatto.
Il Collegio ritiene di dovere innanzi tutto precisare –sia
ai fini dell’esame del presente motivo di appello, sia in
ordine al successivo motivo sub d) dell0’esposizione in
fatto, relativamente alla rilevanza del sottotetto– che la
sentenza di I grado non può essere condivisa, laddove
ritiene di non poter considerare la volumetria del
sottotetto, per il fatto che la soc. Edilborgo si è
impegnata con atto notarile a mantenere il medesimo non
abitabile (pag. 13 – 14 sent.).
Il Collegio ritiene che un volume realizzato a copertura di
un fabbricato o ha le caratteristiche oggettive di un
sottotetto non abitabile, trattandosi in questo caso di un
minimo volume tecnico richiesto per la copertura
dell’edificio, ovvero si tratta di una mansarda, anche
potenziale, in quanto dotata di rilevante altezza media
rispetto al piano di gronda.
Ciò che rileva, dunque, al fine della considerabilità del
cd. vano sottotetto, è la sua materiale potenzialità di
sfruttamento a fini abitativi (il che lo rende pienamente
rilevante per tutti gli aspetti inerenti alla legittimità
del fabbricato assentito), mentre non assumono alcun rilievo
gli impegni, anche assunti per atto pubblico, limitativi
delle facoltà di godimento del bene.
A fini edificatori, e quindi per le valutazioni della
pubblica amministrazione che deve rilasciare il titolo
autorizzatorio ciò che rileva è la effettiva consistenza del
volume e la sua concreta utilizzabilità, non già la
limitazione unilateralmente assunta delle facoltà dominicali
di godimento del bene.
Le caratteristiche di ciò che si intende realizzare devono
essere in concreto ed ex ante valutate dall’amministrazione
nella loro oggettività, non potendosi ovviare ad un difetto
di valutazione, ovvero ritenere comunque assentibile il
progetto, considerando (come non condivisibilmente affermato
dalla sentenza impugnata) che “ove le prescrizioni in parola
dovessero mai essere violate verrebbe posta in discussione
la stessa efficacia del permesso di costruire”.
In disparte la considerazione che il permesso di costruire è
atto amministrativo ad efficacia istantanea, che, pertanto,
non può essere incisa da un comportamento successivo alla
realizzazione del fabbricato, quanto affermato denota,
invece, come il volume del sottotetto consentisse
l’abitabilità (desumibile anche dalle sue accertate
caratteristiche oggettive) e, quindi, il progetto che lo
prevedeva non poteva essere assentito, essendo irrilevanti
come già detto, ai fini della valutazione di legittimità del
titolo edilizio, obblighi unilateralmente assunti.
Tanto precisato, il Collegio rileva che, nel caso di specie,
trova applicazione l’art. 28.2.3 delle NTA, che prevede, per
le costruzioni in zona B3, l’altezza massima di 14 m., e
che, in ogni caso, il sottotetto, in quanto potenzialmente
abitabile, deve essere calcolata nell’altezza complessiva
dell’edificio.
Per le ragioni esposte, il secondo motivo di appello deve
essere accolto (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.05.2014 n. 2467 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza la nozione
di volume tecnico, non computabile nel calcolo della
volumetria massima consentita, può essere applicata solo con
riferimento ad opere edilizie completamente prive di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinate a contenere impianti serventi di una costruzione
principale, per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione stessa.
Si tratta in particolare di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati
all'interno di questa, connessi alla condotta idrica,
termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa
parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al
fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque
esistenti nella realtà fisica. Resta dunque estraneo a tale
nozione il volume del vano scale.
Altrettanto fondato è il motivo sub d) dell’esposizione
in fatto, con il quale si espone che ai fini della
volumetria complessiva avrebbero dovuto essere calcolati i
volumi della mansarda, del vano scala e del piano pilotis
trasformato in autorimesse.
Quanto alla necessaria computabilità dei volumi del
sottotetto, trovano applicazione le considerazioni già in
precedenza espresse, di modo che non può essere condivisa la
sentenza impugnata, laddove afferma (pag. 15) che “la non
abitabilità del sottotetto, determinata sia dalla mancanza
dei requisiti minimi di abitabilità sia dall’atto
unilaterale di vincolo, escludono che esso possa
configurarsi, da un punto di vista urbanistico, alla stregua
di un piano fuori terra ulteriore ai tre sottostanti”.
Quanto al vano scala, giova osservare che l’art. 21.3.4
delle NTA esclude dal calcolo dei volumi e dalla superficie
lorda i porticati aperti e le logge anche se chiuse da
murature su tre lati. Nella esclusione non rientrano,
dunque, i vani adibiti a scale, ancorché gli stessi
risultino chiusi con muratura solo per tre lati.
Inoltre, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di
affermare (sez. IV, 04.05.2010 n. 2565):
“per costante giurisprudenza la nozione di volume tecnico,
non computabile nel calcolo della volumetria massima
consentita, può essere applicata solo con riferimento ad
opere edilizie completamente prive di una propria autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a
contenere impianti serventi di una costruzione principale,
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.
Si tratta in particolare di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati
all'interno di questa, connessi alla condotta idrica,
termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa
parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al
fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque
esistenti nella realtà fisica. Resta dunque estraneo a tale
nozione il volume del vano scale ( cfr. V Sez. n. 120 del
02.03.1994)”.
Per effetto dell’inclusione del sottotetto e del vano scala,
il volume totale così realizzato rende illegittimo il
permesso di costruire in sanatoria (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.05.2014 n. 2467 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. SRB illegittimità obbligo d’installazione degli
impianti di telefonia mobile in soli tre siti.
La scelta del Comune di localizzare nell’ambito dell’intero
territorio comunale, l’installazione degli impianti di
telefonia mobile in soli tre siti, si pone in evidente
contrasto con la natura di opere di urbanizzazione primaria
delle anzidette strutture, che devono essere poste al
servizio degli insediamenti abitativi e seguire il loro
sviluppo, garantendo una capillare distribuzione sul
territorio della rete di telecomunicazione.
Inoltre, la
disposizione censurata si configura indirizzata a scopi di
radioprotezione che esulano dalla sfera dei poteri assegnati
al Comune dall’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001
sull’insediamento degli impianti di telecomunicazione nel
proprio territorio e rientrano, invece, nelle attribuzioni
degli organi dello Stato individuati dall’art. 4 della legge
citata.
Quanto al merito della vicenda, la scelta del Comune di
Veroli di localizzare, nell’ambito dell’intero territorio
comunale, l’installazione degli impianti di telefonia mobile
in soli tre siti, si pone in evidente contrasto con la
natura di opere di urbanizzazione primaria delle anzidette
strutture, che devono essere poste al servizio degli
insediamenti abitativi e seguire il loro sviluppo,
garantendo una capillare distribuzione sul territorio della
rete di telecomunicazione.
Inoltre, come reso evidente dalla stessa intestazione del
regolamento approvato con delibera n. 23 del 2003, la
disposizione censurata si configura indirizzata a scopi di
radioprotezione che esulano dalla sfera dei poteri assegnati
al Comune dall’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001
sull’insediamento degli impianti di telecomunicazione nel
proprio territorio e rientrano, invece, nelle attribuzioni
degli organi dello Stato individuati dall’art. 4 della legge
citata (cfr. ex multis Cons. St. Sez. VI, n. 1567 del
06.04.2007; n. 3332 del 05.06.2006) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 13.05.2014 n. 2455 -
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ATTI AMMINISTRATIVI - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
Termini per l’impugnazione dell’Accordo di
programma.
L’accordo di programma è un provvedimento amministrativo
soggetto a pubblicazione ex art. 34 del d.lgs. 17.08.2000, n. 267 (in cui è confluito l’art. 27 della legge
06.06.1990, n. 142), e del quale non è necessaria la
comunicazione individuale agli interessati atteso che il
piano oggetto di approvazione, per contenuto e finalità,
costituisce una variante di tipo generale preordinata ad
incidere, non già su una singola area in proprietà privata
per la realizzazione di una determinata e specifica opera
pubblica, bensì su una generalità di aree del territorio
comunale conformandole, cioè un tipo di variante avente la
medesima valenza e gli stessi contenuti programmatici del
piano regolatore generale.
Diverso evidentemente sarebbe il
caso ove l’accordo di programma e la variante dallo stesso
implicata avessero avuto ad oggetto una specifica e singola
opera pubblica localizzata su una ben definita area: in
questo caso infatti avrebbe trovato applicazione il noto e
condivisibile orientamento secondo cui il termine per
l’impugnazione non decorre dalla pubblicazione ma dalla
comunicazione ovvero dalla piena conoscenza della variante
da parte del singolo soggetto interessato.
5.1. Con riguardo alla eccepita tardività dell’impugnazione
dell’accordo di programma del 30.11.2007, la reiezione va
confermata ancorché sulla scorta di motivazioni diverse da
quelle impiegate dal primo giudice.
5.1.1. Ed invero, il TAR non ha condiviso l’opinione di
parte resistente, secondo cui il dies a quo del
termine d’impugnazione avrebbe dovuto farsi decorrere
dall’avvenuta pubblicazione dell’accordo medesimo sul
Bollettino Ufficiale della Regione Liguria, avvenuta in data
06.02.2008, sul rilievo che tale pubblicazione non avrebbe
avuto valore di presunzione legale di conoscenza per gli
istanti, dovendo quindi farsi riferimento alla data in cui
questi hanno avuto effettiva conoscenza del provvedimento.
Tale conclusione non è in linea, prima ancora che con gli
orientamenti della giurisprudenza, col dato normativo, in
virtù del quale il termine di impugnazione decorre o dalla
notifica o comunicazione individuale del provvedimento
ovvero, per gli atti per i quali non è prevista la
notificazione individuale ai destinatari, dalla loro
pubblicazione ove prevista dalla legge, la quale dunque
integra una presunzione legale di conoscenza; soltanto
laddove manchino le due indicate formalità, può farsi luogo
al criterio suppletivo della piena conoscenza.
Orbene, è appena il caso di sottolineare come la prevalente
giurisprudenza estenda anche agli accordi di programma,
trattandosi di provvedimenti comportanti varianti
urbanistiche, il principio per cui il dies a quo del
termine d’impugnazione corrisponde a quello della loro
pubblicazione, costituente presunzione legale di conoscenza
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.11.2005, nr. 6467; id.,
30.07.2002, nr. 4075).
Infatti, l’accordo di programma è un provvedimento
amministrativo soggetto a pubblicazione ex art. 34 del d.lg.
17.08.2000, n. 267 (in cui è confluito l’art. 27 della legge
06.06.1990, n. 142), e del quale non è necessaria la
comunicazione individuale agli interessati atteso che il
piano oggetto di approvazione, per contenuto e finalità,
costituisce una variante di tipo generale preordinata ad
incidere, non già su una singola area in proprietà privata
per la realizzazione di una determinata e specifica opera
pubblica, bensì su una generalità di aree del territorio
comunale conformandole, cioè un tipo di variante avente la
medesima valenza e gli stessi contenuti programmatici del
piano regolatore generale; diverso evidentemente sarebbe il
caso ove l’accordo di programma e la variante dallo stesso
implicata avessero avuto ad oggetto una specifica e singola
opera pubblica localizzata su una ben definita area: in
questo caso infatti avrebbe trovato applicazione il noto e
condivisibile orientamento secondo cui il termine per
l’impugnazione non decorre dalla pubblicazione ma dalla
comunicazione ovvero dalla piena conoscenza della variante
da parte del singolo soggetto interessato (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 23.12.1998, n. 1904).
Nel caso di specie, la pubblicazione dell’accordo di
programma sul B.U.R.L. è stata eseguita anche ai sensi
dell’espressa previsione in tal senso contenuta nell’art. 58
della l.r. nr. 36 del 1997; né è in alcun modo sostenibile,
neanche astrattamente, che ai ricorrenti spettasse una
notifica o una comunicazione individuale, trattandosi –come
detto– di soggetti non direttamente incisi dalle
prescrizioni adottate in variante al P.U.C. (massima
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Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.05.2014 n. 2403
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EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. D.I.A. (ora S.C.I.A.) in sanatoria anche per gli
impianti di telefonia mobile.
Non si può disconoscere, infatti, la possibilità di
richiedere la d.i.a. (ora s.c.i.a.) in sanatoria anche per
gli impianti di telefonia mobile, non ostando a ciò la sola
mancata espressa previsione di tale possibilità nell’art. 87
del d.lgs. 259/2003, dato che lo stesso art. 87, comma 3,
del d.lgs. 259/2003 richiama sic et simpliciter il
procedimento della s.c.i.a. (un tempo d.i.a.) e, con esso,
non esclude affatto anche la d.i.a. in sanatoria.
A nulla
giova invocare, in senso ostativo a tale conclusione, il
principio di cautela nel rilascio di titoli autorizzatori
per l’installazione degli impianti in questione, e trarne il
corollario che tale regime debba essere necessariamente
preventivo a tutela della salute umana, poiché la stessa
scelta legislativa della d.i.a. (ora s.c.i.a.) e il favor
che assiste l’installazione degli impianti e la
semplificazione delle procedure, “fermo restando il rispetto
dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli
obiettivi di qualità” indicati dall’art. 87 del d.lgs.
259/2003, consente di affermare la legittimità della d.i.a.
in sanatoria, in presenza di tutte le autorizzazioni
richieste dalla normativa in materia.
16. Non si può disconoscere, infatti, la possibilità di
richiedere la d.i.a. (ora s.c.i.a.) in sanatoria anche per
gli impianti di telefonia mobile, non ostando a ciò la sola
mancata espressa previsione di tale possibilità nell’art. 87
del d.lgs. 259/2003, dato che lo stesso art. 87, comma 3,
del d.lgs. 259/2003 richiama sic et simpliciter il
procedimento della s.c.i.a. (un tempo d.i.a.) e, con esso,
non esclude affatto anche la d.i.a. in sanatoria.
16.1. A nulla giova invocare, in senso ostativo a tale
conclusione, il principio di cautela nel rilascio di titoli
autorizzatori per l’installazione degli impianti in
questione, come fa il TAR nella sentenza impugnata, e trarne
il corollario che tale regime debba essere necessariamente
preventivo a tutela della salute umana, poiché la stessa
scelta legislativa della d.i.a. (ora s.c.i.a.) e il favor
che assiste l’installazione degli impianti e la
semplificazione delle procedure, “fermo restando il
rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione
e degli obiettivi di qualità” indicati dall’art. 87 del
d.lgs. 259/2003, consente di affermare la legittimità della
d.i.a. in sanatoria, in presenza di tutte le autorizzazioni
richieste dalla normativa in materia (massima tratta da
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Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 30.04.2014 n. 2247 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Il paesaggio rappresenta un bene primario ed
assoluto prevalente rispetto a qualunque altro interesse.
Come è noto, sotto il profilo costituzionale l’art. 9 Cost.
introduce la tutela del “paesaggio” tra le disposizioni
fondamentali.
Il concetto non va però limitato al
significato meramente estetico di “bellezza naturale” ma
deve essere considerato come bene “primario” ed “assoluto”,
in quanto abbraccia l’insieme “dei valori inerenti il
territorio” concernenti l'ambiente, l'eco-sistema ed i beni
culturali che devono essere tutelati nel loro complesso, e
non solamente nei singoli elementi che la compongono. Il
paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a
qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi,
deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie.
Il
piano paesaggistico costituisce una valutazione ex ante
della tipologia e dell’incidenza qualitativa degli
interventi ammissibili in funzione conservativa degli ambiti
reputati meritevoli di tutela per cui i relativi precetti
devono essere orientati nel senso di assicurare la tutela
del paesaggio per assicurare la conservazione di quei valori
che fondano l’identità stessa della nazione.
In linea di principio, il divieto di nuove costruzioni
imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude in ogni
caso qualsiasi nuova edificazione che comporti comunque la
creazione di edifici, senza che sia possibile distinguere
tra volumi tecnici, residenziali, commerciali, ecc. ecc.
(cfr. Consiglio di Stato Sez. VI 13/09/2012 n. 4875).
Ciò perché, come è noto, sotto il profilo costituzionale
l’art. 9 Cost. introduce la tutela del “paesaggio”
tra le disposizioni fondamentali. Il concetto non va però
limitato al significato meramente estetico di “bellezza
naturale” ma deve essere considerato come bene
“primario” ed “assoluto” (Corte cost., 05.05.2006, nn. 182,
183), in quanto abbraccia l’insieme “dei valori inerenti
il territorio” concernenti l'ambiente, l'eco-sistema ed
i beni culturali che devono essere tutelati nel loro
complesso, e non solamente nei singoli elementi che la
compongono (cfr. Corte Cost., 07.11.1994, n. 379).
In tale quadro, va riportato il terzo comma dell’art. 145,
del d.lgs. n. 42/2004, per cui “Le previsioni dei piani
paesaggistici … non sono derogabili da parte di piani,
programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo
economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei
comuni, delle città metropolitane e delle province, sono
immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi
eventualmente contenute negli strumenti urbanistici,
stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa
dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì
vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene
alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani
paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni
contenute negli atti di pianificazione ad incidenza
territoriale previsti dalle normative di settore, ivi
compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali
protette”.
Il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a
qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi,
deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie
(cfr. Consiglio di Stato sez. VI 13/09/2012 n. 4875;
Consiglio di Stato sez. IV 29/07/2003; Consiglio di Stato
sez. IV 03/05/2005 n. 2079; n. 4351 Consiglio di Stato sez.
V 24/04/2013 n. 2265; Cons. Stato VI, 22.03.2005, n. 1186).
Il piano paesaggistico costituisce infatti una valutazione
ex ante della tipologia e dell’incidenza qualitativa degli
interventi ammissibili in funzione conservativa degli ambiti
reputati meritevoli di tutela per cui i relativi precetti
devono essere orientati nel senso di assicurare la tutela
del paesaggio per assicurare la conservazione di quei valori
che fondano l’identità stessa della nazione (come affermò
Benedetto Croce, quale Ministro della Pubblica Istruzione,
nella relazione di presentazione della prima legge del 1920
in materia: “… il paesaggio altro non è che la
rappresentazione materiale e visibile della Patria...”) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.04.2014 n. 2222 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Segnalazione tecnica dei vigili del fuoco per edificio
pericolante.
La segnalazione tecnica dei vigili del fuoco non ha valore
di accertamento tecnico in senso proprio, bensì di sollecito
all’amministrazione comunale ad intervenire per quanto di
sua competenza.
Come correttamente rilevato dal TAR con percorso
motivazionale che si condivide, l’iter istruttorio volto ad
accertare la situazione di pericolo e l’urgenza di
provvedere era già stato espletato nel 1994, con
l’acquisizione della perizia e del certificato di non
idoneità statica dell’ing. Pietro Bianchi, posti a base
dell’ordinanza contingibile e urgente n. 790 del 1994.
Non v’era dunque necessità alcuna di procedere ad un nuovo
accertamento, posto che quello a suo tempo effettuato aveva
già evidenziato la necessità improcrastinabile di
provvedere.
Nemmeno può porsi in discussione l’aggravamento delle
condizioni dell’immobile sul quale nei cinque anni
intercorrenti tra la prima ordinanza contingibile e urgente
e quella di demolizione, nessun intervento manutentivo era
stato realizzato con la conseguenza che l’immobile era
rimasto esposto all’azione degli agenti atmosferici, più
incisiva a seguito della rimozione di parte del tetto per
ragioni di sicurezza.
L’accertamento dei vigili del fuoco, diretto, invero, agli
interventi più urgenti di loro competenza e non alla
condizione di insieme del fabbricato, non smentisce o toglie
valenza all’accertamento dell’ing. Bianchi del 1994.
Le fotografie prodotte dalla stessa ricorrente già nel
giudizio di primo grado, evidenziano che l’immobile
danneggiato è finitimo a diverse abitazioni, oltre a vie
pubbliche, tanto che sarebbe impossibile estendere il
transennamento in modo da garantire la sicurezza ai
passanti.
I riscontrati persistenti crolli di pietre costituiscono
d’altra parte indubbio pericolo per la pubblica incolumità.
In conclusione, non può che condividersi quanto affermato
dal giudice di primo grado, sulla doverosità della disposta
demolizione, a fronte di un accertamento tecnico con cui era
stata valutata l’inidoneità dell’immobile e la necessità del
suo abbattimento.
Quanto ai fatti nuovi richiamati dalla difesa
dell’appellante, essi non sono idonei a provare che fosse
venuto meno lo stato di pericolosità dello stabile.
La segnalazione tecnica dei vigili del fuoco non ha valore
di accertamento tecnico in senso proprio, bensì di sollecito
all’amministrazione comunale ad intervenire per quanto di
sua competenza (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.04.2014 n. 2193 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Acquisizione gratuita immobile abusivo
sottoposto a sequestro penale.
L'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo
oggetto d’ingiunzione comunale di demolizione e di
ripristino dello stato dei luoghi, non determina la
sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso
comporta, in caso d’inottemperanza, l'acquisizione gratuita
di diritto al patrimonio del comune ex art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380: infatti il sequestro non rientra tra gli
impedimenti assoluti che non consentono di dare esecuzione
all'ingiunzione, atteso il disposto dell'art. 85 disp. att.
c.p.p..
Non esiste alcun principio di preferenza per il
mantenimento dell’abuso del privato, in quanto al contrario
l’art. 9 Cost., considera la “tutela del paesaggio della
Repubblica” come un valore fondamentale della nazione ed un
bene “primario” ed assoluto”.
Il TAR non avrebbe poi considerato che la sottoposizione del
manufatto a sequestro penale avrebbe impedito all'appellante
di attuare la demolizione, in contrasto con alcuni
precedenti giurisprudenziali.
Al contrario, si ricorda che il sequestro non costituisce un
impedimento assoluto all’esecuzione dell’ingiunzione di
demolizione in quanto l'art. 85 disp. att. c.p.p. prevede
che le cose sequestrate possono, mediante domanda alla
competente A.G., essere restituite – previa esecuzione di
specifiche prescrizioni dell’A.G. e salvo il versamento di
un’idonea cauzione imposta ai sensi dell’art. 2621 c.p.p. a
garanzia dell’esecuzione delle prescrizioni nel termine
stabilito.
L'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo
oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di
ripristino dello stato dei luoghi, non determina la
sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso
comporta, in caso di inottemperanza, l'acquisizione gratuita
di diritto al patrimonio del comune ex art. 31 d.P.R.
06.06.2001 n. 380: infatti il sequestro non rientra tra gli
impedimenti assoluti che non consentono di dare esecuzione
all'ingiunzione, atteso il disposto dell'art. 85 disp. att.
c.p.p. (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 08.05.2013 n. 2484;
Consiglio di Stato sez. VI 09/07/2013 n. 3626; Cons. giust.
amm. Sicilia sez. giurisd. 18.09.2012 n. 768).
L’interessata avrebbe dunque potuto, e dovuto, attivarsi
positivamente al fine di rimuovere l’abuso realizzato in
violazione del vincolo paesaggistico, per cui il
provvedimento di sequestro penale a nulla rilevava sul piano
della legittimità del provvedimento di demolizione (cfr.
Consiglio di Stato Par. sez. I 30/01/2014 n. 1804) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2014 n. 1994 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Inapplicabilità del preavviso di rigetto al
procedimento ex art. 13 della legge 394/1991.
Il procedimento scandito dall’art. 13 della legge 394/1991,
(Legge quadro sulle aree protette) per il quale sono
prescritte specifiche regole temporalmente determinate, le
quali, similmente al consolidato e condiviso principio
giurisprudenziale sull’analogo oggetto dell’autorizzazione
paesaggistica, rendono inapplicabili le disposizioni
dell’art. 10-bis in tema di preavviso di rigetto.
Diversamente, infatti, sarebbe reso in pratica pressoché
impossibile, o comunque di estrema difficoltà, rispettare il
termine stabilito per la conclusione del procedimento per i
fini dell’art. 2 della stessa l. n. 241 del 1990.
Stante
tale insanabilità di conflitto tra le due garanzie, si deve
concludere che l’esigenza semplificatoria di speditezza del
procedimento, posta a garanzia sia dell’istante che
dell’azione amministrativa, prevale su quella al preavviso
qui reclamato, posta a garanzia del solo istante. Del resto,
non v’è chi non veda che diversamente, visto il
silenzio-accoglimento previsto dalla disposizione, i tempi
dialettici del preavviso renderebbero vana la possibilità
stessa di un diniego di nulla osta.
La fase procedimentale nella quale si inserisce il parere di
cui è causa, per il quale il Comune ha trasmesso la pratica
all’ente Parco, si inserisce nel complesso procedimento
iniziato a istanza di parte con la presentazione
all’Amministrazione municipale del progetto ai fini
dell’autorizzazione a costruire, procedimento scandito
dall’art. 13 della legge 06.12.1991, n. 394 (Legge quadro
sulle aree protette).
Detto art. 13 prevede: “il rilascio di concessioni o
autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere
all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta
dell'Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le
disposizioni del piano e del regolamento e l'intervento ed è
reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso
inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato”.
Trattasi, quindi, di un procedimento per il quale sono
prescritte specifiche regole procedimentali temporalmente
determinate, le quali, similmente al consolidato e condiviso
principio giurisprudenziale sull’analogo oggetto
dell’autorizzazione paesaggistica, rendono inapplicabili le
disposizioni dell’art. 10-bis in tema di preavviso di
rigetto. Diversamente, infatti, sarebbe reso in pratica
pressoché impossibile, o comunque di estrema difficoltà,
rispettare il termine stabilito per la conclusione del
procedimento per i fini dell’art. 2 della stessa l. n. 241
del 1990. Stante tale insanabilità di conflitto tra le due
garanzie, si deve concludere che l’esigenza semplificatoria
di speditezza del procedimento, posta a garanzia sia
dell’istante che dell’azione amministrativa, prevale su
quella al preavviso qui reclamato, posta a garanzia del solo
istante.
Del resto, non v’è chi non veda che diversamente, visto il
silenzio-accoglimento previsto dalla disposizione, i tempi
dialettici del preavviso renderebbero vana la possibilità
stessa di un diniego di nulla osta.
È noto infatti che per questa stessa ragione il parere reso
al Comune ai fini paesaggistici dall’Amministrazione
preposta alla tutela dello specifico interesse non è
soggetto all'obbligo di comunicazione preventiva del
preavviso di rigetto di cui al citato art. 10-bis, in quanto
costituisce esercizio, entro un termine decadenziale, di un
potere che intercorre tra autorità pubbliche (cfr. per tutte
Cons. Stato, VI, 21.09.2011, n. 5293; VI, 20.12.2011, n.
6725; VI, 02.02.2012, n. 576, VI, 09.07.2013, n. 3616).
La circostanza che il termine ora in questione non sia come
quello decadenziale, ma anzi senz’altro costitutivo
dell’accoglimento, non solo non muta le cose (perché per
entrambi la ratio è la medesima dell’accelerazione
dell’azione amministrativa), ma spinge l’analogia fino a
naturali, se non ovvie, considerazioni concludenti a
fortiori.
In conclusione, il diniego del nulla osta dell’art. 13 l. n.
394 del 1990 per interventi, impianti ed opere all'interno
di un parco non va preceduto dal preavviso dell’art. 10-bis
l. n. 241 del 1990.
Detta conclusione, dal carattere prioritario, consente qui
di prescindere dalla valutazione processuale dell’art.
21-octies, comma 2, della stessa l. n. 241 del 1990, che
impone al giudice di vagliare il contenuto sostanziale del
provvedimento e di non annullare l’atto se le violazioni
formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del
medesimo (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.04.2014 n. 1729 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Demolizione del fabbricato e ricostruzione.
Pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione
edilizia la demolizione del fabbricato, ove sia seguita
dalla sua fedele ricostruzione, non è sufficiente, ai fini
della qualificazione di un intervento ricostruttivo come
ristrutturazione, che un anteriore fabbricato sia
fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, e
che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in
piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga
eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della
avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo.
Con il secondo motivo di censura, strettamente connesso al
precedente, gli appellanti sostengono che, al caso di
specie, possa applicarsi il principio dei cosiddetti "commoda"
della prevenzione, secondo il quale, nei casi di demolizione
ed immediata ricostruzione, il proprietario conserva il
diritto di ricostruire con analoga ubicazione rispetto al
confine.
Orbene, deve osservarsi che nelle opere edilizie, la
semplice ristrutturazione si verifica quando gli interventi,
comportando modificazioni esclusivamente interne,
interessano un edificio nel quale sussistano (e, all'esito
degli stessi, rimangano inalterate) le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile l’ordinaria ricostruzione, poi, allorché
vengano meno, per evento naturale o per volontaria
demolizione, le citate componenti essenziali dell’edificio
preesistente e l'intervento si traduca nell'esatto
ripristino delle stesse, senza alcuna variazione rispetto
alle originarie dimensioni dell'edificio e, sopratutto,
senza aumenti di volumetria, né delle superfici occupate in
relazione alla originaria sagoma di ingombro.
Diversamente, in presenza di aumenti di volumetria, si verte
in ipotesi di nuova costruzione, con i relativi effetti, ai
fini del computo delle distanze rispetto agli edifici
contigui esistenti, come previsto dagli strumenti
urbanistici vigenti.
Resta ferma, peraltro, la possibilità che lo strumento
urbanistico estenda, con una norma espressa, le prescrizioni
sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni
anche alle ricostruzioni, ovvero, alle parti eccedenti le
dimensioni dell'edificio originario (cfr. Cass. n. 9637 del
2006; Cass. n. 19287 del 2009).
Quanto evidenziato, non muta anche ove si abbia riguardo al
disposto della legge n. 457 del 1978, invocata dal
ricorrente, atteso che, in base all’articolo 31, comma 1,
lett. d), costituiscono ristrutturazioni edilizie, con
conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle
distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su
fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate
quanto meno di murature perimetrali, di strutture
orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro
essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione
dell'entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal
concetto normativo di ristrutturazione edilizia la
demolizione del fabbricato, ove sia seguita dalla sua fedele
ricostruzione, "non è sufficiente, ai fini della
qualificazione di un intervento ricostruttivo come
ristrutturazione, che un anteriore fabbricato sia
fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, e
che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in
piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga
eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della
avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo"
(cfr. Cass. n. 22688 del 2009).
Invero, in materia urbanistica, tra gli interventi di
recupero del patrimonio edilizio esistente, anche alla luce
del disposto dell’articolo 31 della legge 05.08.1978, n.
457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti
precedenti con costruzioni completamente nuove, purché, per
quanto rimaneggiato ed in parte ricostruito, come risultato
finale l’edificio conservi la struttura e la funzionalità
precedenti e non si tratti di un'opera nuova, sia
strutturalmente che funzionalmente.
Conseguentemente, non può essere condiviso l'assunto degli
appellanti che, nel caso di specie, con l'intervenuta
ricostruzione dell'immobile si possano conservare i
precedenti "commoda", perché la semplice
constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è
sufficiente a rendere l'intervento edilizio non
riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione
e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto
per detto tipo di interventi (massima tratta da
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Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.04.2014 n. 1653 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità diniego condono edilizio per parere
negativo dell’Ente Parco.
L’articolo 32, comma 43-bis, del decreto legge n. 269 del
2003 si è limitato a disporre che le istanze di condono,
presentate in base alle prime due leggi del 1985 e del 1994,
continuano a dover essere esaminate sulla base della
normativa sostanziale anteriore (più favorevole) a quella
(più restrittiva) contenuta nella legge n. 326 del 2003.
Il
medesimo comma 43-bis non ha affatto inciso sui poteri delle
autorità preposte alla tutela dei vincoli, imposti con legge
o con atto amministrativo in un’area sulla quale è stato in
precedenza commesso un abuso edilizio, né ha inciso sul loro
dovere di valutare l’attuale compatibilità dei manufatti
realizzati abusivamente con lo speciale regime di tutela del
bene compendiato nel vincolo, con cui la disposizione di
legge o l’atto amministrativo hanno imposto la immodificabilità dei luoghi e, dunque, la tendenziale
insanabilità (relativa) degli abusi ancora esistenti.
●
Rilevato che la sentenza del Tar di cui in epigrafe –di
accoglimento del ricorso proposto avverso il provvedimento
comunale dell’08.01.2004, di diniego dell’istanza di condono
relativa a un manufatto ubicato nel perimetro del Parco del
Cilento (presentata il 16.01.1986), ed il presupposto parere
negativo dell’Ente Parco del 23.12.2003–, sulla base di una
lettura diacronica della legislazione in materia di ‘condono
edilizio’, ha ritenuto inapplicabile alla fattispecie
oggetto di causa l’art. 32 della legge n. 47 del 1985 (nel
testo risultante dalla modifica introdotta dal comma 43
dell’art. 32 del decreto legge n. 296 del 2003), nella parte
in cui tale disposizione impone, anche in caso di vincoli
sopravvenuti all’intervento edilizio abusivo, l’acquisizione
del parere favorevole delle amministrazioni preposte alla
tutela del vincolo, nel procedimento di sanatoria del titolo
edilizio;
●
Ritenuta la fondatezza dell’appello proposto
dall’Amministrazione soccombente avverso tale statuizione
–con cui è devoluta in appello la questione di principio
attinente alla compatibilità dell’abuso eseguito con la zona
protetta (Parco del Cilento) in relazione al vincolo
sopravvenuto ed all’esatta incidenza dell’art. 32, comma
43-bis, del decreto legge n. 269 del 2003 (c.d. terzo
condono) sulle leggi di condono anteriori n. 47 del 1985 e
n. 724 del 1994–, in quanto, secondo ormai consolidato
orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato:
- nel caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione,
l’autorità competente ad esaminare l’istanza di condono,
riconducibile ai primi due condoni, deve acquisire il parere
della autorità preposta alla tutela del ‘vincolo
sopravvenuto’, la quale deve pronunciarsi tenendo conto
del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i
propri poteri consultivi (Adunanza Plenaria, 22.07.1999, n.
20);
- il richiamato art. 32, comma 43-bis, si è limitato a
disporre che le istanze di condono, presentate in base alle
prime due leggi del 1985 e del 1994, continuano a dover
essere esaminate sulla base della normativa sostanziale
anteriore (più favorevole) a quella (più restrittiva)
contenuta nella legge n. 326 del 2003;
- sarebbe, invece, stata palesemente incostituzionale (per
contrasto con gli artt. 3, 9 e 117, secondo comma, Cost.)
una disposizione statale che avesse inteso porre nel nulla i
poteri consultivi delle autorità preposte alla tutela del
vincolo, il cui esercizio –come nel caso di specie– fosse
stato a lungo impedito dall’inerzia degli enti locali;
- il medesimo comma 43-bis non ha affatto inciso sui poteri
delle autorità preposte alla tutela dei vincoli, imposti con
legge o con atto amministrativo in un’area sulla quale è
stato in precedenza commesso un abuso edilizio, né ha inciso
sul loro dovere di valutare l’attuale compatibilità dei
manufatti realizzati abusivamente con lo speciale regime di
tutela del bene compendiato nel vincolo, con cui la
disposizione di legge o l’atto amministrativo hanno imposto
la immodificabilità dei luoghi e, dunque, la tendenziale
insanabilità (relativa) degli abusi ancora esistenti (v.
Cons. di Stato, Sez. VI, n. 231 del 2014, n. 5274 del 2013,
n. 4660 del 2013, n. 3015 del 2013, n. 2367 del 2013)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.04.2014 n. 2308 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attività alberghiera e destinazione turistica e
commerciale.
L’esercizio dell’attività alberghiera viene solitamente
accorpata concettualmente con la destinazione turistica e
commerciale, sicchè sotto un tale aspetto non può negarsi un
primo elemento di affinità con una destinazione del piano di
fabbricazione, quella artigianale, che consente depositi
commerciali , cioè manufatti comunque connessi ad attività
di commercio.
Gli alberghi vanno compresi ai sensi
dell’art. 1, comma 1-bis, del DPR 20/10/1988 n. 447 e s.m.i.
negli impianti produttivi e precisamente quelli di
produzione di beni e servizi, ivi inclusi quelli relativi ad
attività artigianali e commerciali, turistiche ed
alberghiere. Dunque sotto un profilo per così dire
strutturale l’esistenza di un albergo in zona artigianale
non può dirsi estranea al detto contesto urbanistico.
Passando poi all’argomentazione addotta a fondamento del
disposto annullamento in autotutela di cui al suindicato sub
2), il punto fondamentale della quaestio iuris su cui
s’incentra la controversa vicenda è di verificare se
l’ubicazione dell’albergo come derivata dalla rilasciata
concessione in variante sia compatibile con la destinazione
urbanistica impressa dagli strumenti di pianificazione del
territorio comunale ( come sostenuto dall’appellante) oppure
si ponga in contrasto con la prevista zonizzazione (come
sostenuto dal Comune e avallato dal Tar).
Dunque, la progettata struttura alberghiera viene ad
insistere su area per la quale, per una parte le
prescrizioni recate dal Piano di insediamenti produttivi (P.I.P.)
prevedono la destinazione a verde pubblico attrezzato e per
altra parte in zona D-Artigianale del vigente P.d F.
In particolare, come peraltro sottolinea il primo giudice il
Piano di Fabbricazione prevede l’edificazione di depositi
agricoli e commerciali e piccole industrie manifatturiere e
artigianali, mentre non è consentita l’edificazione a scopo
residenziale: di qui, sempre secondo il Tar, la
inammissibilità d’un manufatto siffatto (l’albergo) con le
destinazioni consentite nella zona artigianale del Pd F di
Miglionico.
Ora, per il primo aspetto, occorre rilevare come i vincoli
di destinazione recati dal P.I.P. sono venuti meno per
intervenuta inefficacia temporale delle previsioni del Piano
di insediamenti produttivi, restando così travolti i vincoli
di destinazione ivi apposti, compreso quello di verde
attrezzato che gravava sull’area de qua e che, in quanto non
più vigente non può più essere validamente opposto
Rimangono quindi le previsioni recate dal P d. F., relative
alla destinazione impressa alla pozione di territorio in cui
si inserisce l’area de qua, specificatamente quelle che
connotano la zona a destinazione artigianale: ebbene, tale
zonizzazione ad avviso del Collegio non appare preclusiva
per il progettato (e realizzato) albergo ove si proceda a
leggere ed interpretare il regime urbanistico ivi previsto
alla luce della normativa di carattere generale dettata
in subjecta materia in relazione a quella di dettaglio
prevista in loco e dei principi giurisprudenziali pure
affermati sul punto.
Ed invero, va tenuto in primo luogo conto che l’esercizio
dell’attività alberghiera viene solitamente accorpata
concettualmente con la destinazione turistica e commerciale
(Cons. Stato Sez. IV 04/08/2000 n. 4302) sicché sotto un
tale aspetto non può negarsi un primo elemento di affinità
con una destinazione del piano di fabbricazione, quella
artigianale, che consente depositi commerciali , cioè
manufatti comunque connessi ad attività di commercio.
Decisiva però si rivela l’osservazione secondo cui gli
alberghi vanno compresi ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis,
del DPR 20/10/1988 n. 447 come aggiunto dall’art.1 del DPR
07/12/2000 n. 440 negli impianti produttivi e precisamente
quelli di produzione di beni e servizi, ivi inclusi quelli
relativi ad attività artigianali e commerciali, turistiche
ed alberghiere (Cons. Stato Sez. IV 07/08/2003 n.4658):
dunque esiste una formale consacrazione a livello normativo,
confermata , quanto al profilo esegetico, da un preciso
orientamento giurisprudenziale, che equipara tout court una
struttura alberghiera ad un impianto produttivo-artigianale,
sicché sotto un profilo per così dire strutturale
l’esistenza di un albergo in zona artigianale non po’ dirsi
estranea al detto contesto urbanistico.
Con specifico riferimento poi alla fattispecie, in base alle
previsioni del vigente P.d. F. è pacifico che nella zona
artigianale sono consentite espressamente piccole industrie
manifatturiere artigianali, di talché anche in relazione al
criterio di interpretazione logico- letterale delle
previsioni all’uopo recate dal P d F, in dette aree potrebbe
trovare collocazione la realizzazione di un albergo che
consta di sole dieci stanze e che perciò stesso può farsi
rientrare in quelle piccole industrie manifatturiere che la
disciplina urbanistica comunale ha inteso espressamente
consentire nella zona in cui è situata l’area in
discussione.
In definitiva deve ritenersi non sussistere una situazione
di non compatibilità tra l’albergo a suo tempo autorizzato e
realizzato e la previsione di zona artigianale recata dal
P.d.F. in relazione all’area interessata a detto
insediamento, il che sta a significare che l’annullamento
disposto in autotutela e il conseguente provvedimento che
dispone la rimessa in pristino dello stato dei luoghi per
l’albergo in questione si basano su erronei presupposti di
fatto e di diritto, perciò stesso non idonei a supportare le
determinazioni di carattere negativo assunte nei confronti
dell’appellante Società e che perciò stesso vanno annullate
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.04.2014 n. 1592 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e buona fede
dell’acquirente.
Non può essere utilmente invocata una presunta buona fede
degli istanti, i quali sono tutti aventi causa dal
frazionamento “in prima battuta”, e non terzi che hanno
acquistato da altri soggetti che fossero stati i primi
beneficiari dello stesso.
Al riguardo occorre precisare che
gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal
frazionamento non possono invocare sic et simpliciter una
propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale
loro qualità, qualificarsi terzi estranei all’illecito,
dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria
diligenza nell’adempimento dei doveri d’informazione e
conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede,
di partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione.
8. Quanto all’ultimo
motivo di tutti gli appelli qui riuniti, anche questo è
privo di pregio, non potendo essere utilmente invocata una
presunta buona fede degli istanti, i quali –giova
sottolinearlo– sono tutti aventi causa dal frazionamento “in
prima battuta”, e non terzi che hanno acquistato da
altri soggetti che fossero stati i primi beneficiari dello
stesso.
Al riguardo, va innanzi tutto richiamata la giurisprudenza
penale che, argomentando dal carattere contravvenzionale del
reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti
dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono
invocare sic et simpliciter una propria asserita
buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità,
qualificarsi terzi estranei all’illecito, dovendo, invece,
dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza
nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza
senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di
partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione (cfr.
Cass. pen., sez. III, 13.02.2014, nr. 2646; id., 03.12.2013,
nr. 51710; id., 27.04.2011, nr. 21853).
Per converso, dal punto di vista amministrativo, un
condivisibile indirizzo di primo grado assume che è
irrilevante l’asserita buona fede degli acquirenti, i quali
in ipotesi facciano risalire la responsabilità della
lottizzazione abusiva esclusivamente ai loro danti causa,
trattandosi di una situazione in cui rileva, dal punto di
vista urbanistico, la sussistenza di un abuso oggettivo,
fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti di buona
fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede
civile nei confronti dell’alienante.
Quanto sopra rende giustizia anche degli principi in materia
di sanzioni amministrative di cui alla legge 24.11.1981, nr.
689, evocati dalle parti odierne appellanti, dal momento che
–anche ammesso che nella specie si controverta di sanzioni
riconducibili a detta disciplina- quanto rilevato in ordine
alla responsabilità penale per lottizzazione abusiva non può
non valere, stante l’identità di ratio, anche per gli
eventuali illeciti amministrativi ravvisabili nelle medesime
condotte (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.04.2014 n. 1589 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Se l’intento
lottizzatorio è desumibile anche solo da elementi esteriori
alle caratteristiche fisiche dei lotti ricavati dal
frazionamento, ne discende necessariamente che il complesso
di elementi indiziari idoneo e sufficiente a individuare la
lottizzazione abusiva non presuppone necessariamente
un’attività edificatoria già in itinere su ciascuna porzione
di suolo, ben potendo esservene anche solo su talune di esse
(beninteso, in sinergia con altri e diversi elementi
sintomatici dell’intento di sottrarre il terreno alla sua
destinazione urbanistica).
Ma a questo punto, non essendo smentito neanche dagli
odierni appellanti che su altri lotti derivati dal medesimo
frazionamento siano state realizzate opere abusive, il
problema diventa quello di verificare quale sia la soglia
minima degli elementi indiziari sulla base dei quali
l’Amministrazione, ai sensi dell’art. 30 del d.P.R.
06.06.2001, nr. 380 (e in precedenza dell’art. 18 della
legge 25.02.1985, nr. 47), può ritenere la sussistenza di
una lottizzazione abusiva: se, in particolare, per sostenere
che il frazionamento di un suolo sia strumentale a un
intento edificatorio sia necessario verificare la presenza
di opere edili, o quanto meno di un loro principio di
esecuzione, su ciascuno dei lotti ricavati dalla
suddivisione.
Che la risposta a quest’ultimo interrogativo sia negativa si
evince già solo dalla circostanza –opportunamente
evidenziata dal primo giudice– che il legislatore abbia
costruito l’illecito de quo anche come condotta
meramente “cartolare” o negoziale, oltre che come
attività materiale; in altri termini, se l’intento
lottizzatorio è desumibile anche solo da elementi esteriori
alle caratteristiche fisiche dei lotti ricavati dal
frazionamento, ne discende necessariamente che il complesso
di elementi indiziari idoneo e sufficiente a individuare la
lottizzazione abusiva non presuppone necessariamente
un’attività edificatoria già in itinere su ciascuna porzione
di suolo, ben potendo esservene anche solo su talune di esse
(beninteso, in sinergia con altri e diversi elementi
sintomatici dell’intento di sottrarre il terreno alla sua
destinazione urbanistica).
Dai rilievi appena svolti emerge l’infondatezza anche del
secondo e del terzo mezzo, con i quali gli appellanti
sostengono l’insussistenza nella specie di sufficienti
elementi indiziari idonei a sostenere la sussistenza di una
lottizzazione abusiva, intesa sia in senso “materiale”
che in senso “cartolare”.
Più specificamente, sono del tutto inconferenti gli
argomenti spesi col secondo motivo degli appelli in ordine
ai tempi e alle modalità delle operazioni di divisione e
vendita del suolo, essendo evidente dalle emergenze
documentali più sopra richiamate che nel caso che occupa
l’Amministrazione ha inteso contestare una lottizzazione
materiale, e non meramente negoziale.
Sotto tale profilo, il complesso degli elementi indiziari
che si è sopra richiamato, corrispondendo a quelli che
comunemente sono gli indici rivelatori di una suddivisione
operata a scopo edificatorio, appare idoneo a rendere non
manifestamente infondate né irragionevoli le conclusioni cui
il Comune è pervenuto: discendendone, pertanto,
l’infondatezza del terzo motivo di gravame.
In particolare, non si rinviene alcun elemento che corrobori
l’assunto degli appellanti secondo cui l’acquisto dei lotti
era strumentale, nelle loro intenzioni, a recuperarne la
vocazione originaria attraverso l’installazione di nuove
aziende agricole; al riguardo, è sufficiente evidenziare che
neanche la perizia di parte prodotta in giudizio smentisce
il dato rilevato dall’Amministrazione, secondo cui nel 2002
–e, quindi, a distanza di molti anni dall’acquisto dei lotti
da parte degli odierni istanti– i terreni erano ancora
totalmente incolti
(massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.04.2014 n. 1589 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità diniego installazione di un
impianto tecnologico (interrato) di cogenerazione a servizio
dell’albergo.
Si tratta di un impianto tecnologico a servizio
dell’edificio principale e non comporta modificazione dei
volumi e delle superfici delle singole unità immobiliari o
delle destinazioni d’uso, non potendosi considerare volume
urbanisticamente rilevante un volume completamente
interrato.
Al più potrebbe rientrare negli interventi di
risanamento conservativo, ugualmente ammissibili ai sensi
dell’art. 31 della l. n. 457 del 1978, atteso che gli
interventi di restauro e risanamento conservativo di cui
all’articolo 31, comprendono “l’allestimento e l’adeguamento
di servizi tecnologici e degli impianti tecnici richiesti
dalle esigenze dell’uso”.
3.1- L’impianto di cui trattasi, quale definito nella
relazione tecnica presentata dalla società a corredo
dell’istanza di autorizzazione, riguarda la sostituzione del
vecchio impianto di riscaldamento con un nuovo impianto di
cogenerazione che consente di risparmiare energia primaria,
salvaguardare l’ambiente, diminuire le emissioni di CO2 e
diminuire i costi di energia elettrica.
Il progetto prevede la sistemazione dell’impianto in un
volume tecnico interrato di metri quadrati 62 da realizzare
nel terreno di proprietà della società pertinenziale
all’albergo, contrassegnato in catasto con il mappale n.
274.
L’intervento, in quanto relativo ad impianto tecnologico,
come correttamente evidenziato dal TAR, è ascrivibile agli
interventi di manutenzione straordinaria, che ai sensi
dell’art. 31 della l. n. 457 del 1978 comprendono anche la
realizzazione e l’integrazione dei servizi tecnologici.
Trattasi, peraltro, di intervento compatibile con il vincolo
paesaggistico, essendo stato autorizzato dalla Regione
Liguria (la Regione Liguria, alla quale era stata chiesta
l’autorizzazione paesaggistica, riconosceva che “l’intervento
è tale da non compromettere gli equilibri ambientali della
zona interessata in quanto la soluzione progettuale
prospettata ne definisce adeguatamente le caratteristiche
tipologiche–compositive sia in relazione alle situazioni
esistenti nell’immediato contorno che in rapporto ai valori
di insieme del quadro paesaggistico nel quale l’intervento
si colloca”), nel mentre la Soprintendenza dei beni
culturali non ha esercitato il potere di annullamento di cui
all’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999.
4.- Assume il Comune di Santa Margherita Ligure che
l’impianto non può essere considerato di manutenzione
straordinaria ai sensi dell’art. 31 della l. n. 457 del 1978
e, pertanto, non può essere insediato nell’area interessata,
caratterizzata da un vincolo di strumento urbanistico
generale decaduto, nel quale in base alla l. regionale n. 30
del 1992, articoli 1 e 2 non sono consentiti nuovi
interventi ma solo opere di manutenzione ordinaria e
straordinaria.
L’assunto del Comune non può essere condiviso.
Come correttamente rilevato dal TAR, l’impianto di cui
trattasi è un impianto tecnologico a servizio dell’edificio
principale e non comporta modificazione dei volumi e delle
superfici delle singole unità immobiliari o delle
destinazioni d’uso, non potendosi considerare volume
urbanisticamente rilevante un volume completamente
interrato.
Al più potrebbe rientrare negli interventi di risanamento
conservativo, ugualmente ammissibili ai sensi dell’art. 31
della l. n. 457 del 1978, atteso che gli interventi di
restauro e risanamento conservativo di cui al citato
articolo 31, comprendono “l’allestimento e l’adeguamento
di servizi tecnologici e degli impianti tecnici richiesti
dalle esigenze dell’uso”.
Si tratta quindi di opera che può essere realizzata anche
nelle aree a vincolo decaduto.
4.1- Peraltro la decadenza del vincolo non è ostativa ad
interventi conformi alle previsioni di piano, ove il
proprietario non opponga la decadenza del vincolo, essendo
interesse del soggetto privato e non già
dell’amministrazione comunale opporre l’avvenuta decadenza
di destinazioni di piano regolatore comportanti l’inedificabilità
assoluta delle aree o destinazioni di natura vincolistica.
Sta di fatto che, in base alle previsioni c.d. decadute di
piano, l’area era destinata a servizi pubblici di quartiere,
disciplinata dall’art. 45 delle NA del PRG che ammette anche
l’incremento volumetrico fino al 30% della preesistenza per
conseguire miglioramenti funzionali o qualitativi del
complesso edilizio preesistente, sicché la doglianza
dell’amministrazione comunale risulta, invero,
incomprensibile, senza considerare, poi, che la natura
dell’opera, che ha quale effetto immediato la riduzione dei
consumi di energia elettrica in misura considerevole e,
quindi, l’interesse pubblico in senso ampio dell’intervento,
ne consentirebbero comunque l’autorizzazione in deroga alla
destinazione di piano (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 31.03.2014 n. 1544 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Norme sanzionatorie riferite non all’autore ma
al responsabile dell’abuso.
Le norme sanzionatorie relative alle opere abusivamente
eseguite in area demaniale si riferiscono, non all’autore,
ma al responsabile dell’abuso, tale dovendo intendersi non
solo lo stesso esecutore materiale, ma anche il proprietario
dell’immobile o chi abbia titolo per disporne, al momento
dell’emissione della misura repressiva (e quindi, per quanto
qui interessa, il concessionario, per opere eseguite su
suolo demaniale).
L’Amministrazione è tenuta a sanzionare in
qualsiasi momento l’esecuzione di opere senza titolo, che
hanno carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio (non anche sotto il profilo della
responsabilità penale) corrisponde un’esigenza di rimessa in
pristino, da far valere appunto nei confronti dei soggetti
che abbiano la proprietà o comunque la disponibilità del
bene, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi
ultimi, nei confronti degli esecutori materiali delle opere,
sulla base dei rapporti interni intercorsi.
Ugualmente infondata risulta l’ulteriore censura, riferita
all’assenza di responsabilità del medesimo appellante per la
realizzazione degli abusi edilizi contestati.
Le norme sanzionatorie si riferiscono, infatti, non all’”autore”,
ma al “responsabile” dell’abuso, tale dovendo
intendersi non solo lo stesso esecutore materiale, ma anche
il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per
disporne, al momento dell’emissione della misura repressiva
(e quindi, per quanto qui interessa, il concessionario, per
opere eseguite su suolo demaniale); quanto sopra, essendo
l’Amministrazione tenuta a sanzionare in qualsiasi momento
l’esecuzione di opere senza titolo, che hanno carattere di
illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio
(non anche sotto il profilo della responsabilità penale)
corrisponde un’esigenza di rimessa in pristino, da far
valere appunto nei confronti dei soggetti che abbiano la
proprietà o comunque la disponibilità del bene, fatte salve
le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi, nei
confronti degli esecutori materiali delle opere, sulla base
dei rapporti interni intercorsi (cfr. anche, per il
principio, Cons. St., sez. V, 08.06.1994, n. 614 e Consiglio
Giust. Amm. Sic. 29.07.1992, n. 229) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.03.2014 n. 1517 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. SRB illegittimità obbligo conferma della
validità dell’autorizzazione posseduta alla data di entrata
in vigore del regolamento comunale.
Esula dai poteri riconosciuti dall’art. 8, comma 6, della l.
n. 36/2001 ai Comuni la potestà di aggravare, senza che ve
ne siano le specifiche ragioni da tale legge previste, il
procedimento finalizzato al rilascio dei titoli abilitativi
contemplati dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche,
onerando gli operatori, di nuove e/o periodiche procedure di
“conferma” di titoli già validi ed efficaci, ai sensi della
normativa nazionale, sotto comminatoria di decadenza, dato
che tale potestà non si può mai tradurre nel potere di
sospendere la efficacia e validità dei titoli abilitativi
formati e di incidere, come appunto accade nel caso di
specie, sul procedimento di formazione della d.i.a.
presentata per l’ammodernamento tecnologico dell’impianto,
così introducendo un’inammissibile misura di carattere
generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle
emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile.
---------------
La potestà assegnata ai Comuni dall’art. 8, comma 6, della
legge quadro n. 36/2001 (che prevede la possibilità che i
Comuni adottino un regolamento c.d. di minimizzazione
finalizzato a garantire "il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e a minimizzare
l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici")
deve tradursi nell’introduzione, sotto il profilo
urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di
particolare pregio ambientale, paesaggistico o
storico-artistico (ovvero, per ciò che riguarda la
minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici, nell’individuazione di siti che per
destinazione d’uso e qualità degli utenti possano essere
considerati sensibili alle immissioni radioelettriche),
senza trasformarsi in limitazioni alla localizzazione degli
impianti di telefonia mobile per intere ed estese porzioni
del territorio comunale, in assenza di una plausibile
ragione giustificativa.
--------------
L’autorizzazione, di cui all’art. 87 del d.lgs. 259/2003,
non costituisce atto che presuppone o è presupposto a quello
richiesto dal testo unico in materia edilizia, ma assorbe in
sé e sintetizza, all’esito del procedimento previsto dallo
stesso art. 87, anche la valutazione urbanistico-edilizia
che presiede al titolo, facendo salve le sole disposizioni,
non rilevanti nel caso all’esame, del D.Lgs. n. 42/2004.
Laddove infatti il nuovo procedimento fosse destinato non a
sostituire, ma ad abbinarsi a quello edilizio ordinario,
verrebbero di fatto vanificati i principi ispiratori del
Codice delle Comunicazioni Elettroniche e, in particolare,
quelli della previsione di procedure tempestive, non
discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto
di installazione e della riduzione dei termini per la
conclusione dei procedimenti nonché della regolazione
uniforme dei medesimi.
Deve insomma escludersi, in applicazione degli ordinari
principi in materia di gerarchia delle fonti, che i
regolamenti comunali possano derogare al modulo
procedimentale previsto in materia dalla legge, ispirato
alla ratio di semplificazione e di concentrazione al suo
interno di tutte le relative valutazioni di carattere
urbanistico-edilizio ed igienico-sanitario.
15.1. È anzitutto evidente che il Regolamento comunale abbia
imposto agli operatori e, in particolare, ad H3G s.p.a. un
ingiustificato aggravio procedimentale, richiedendo la “conferma”
dei titoli autorizzatori già rilasciati, addirittura a pena
di decadenza dei titoli stessi, con una previsione che è
contraria alla ratio di semplificazione e di
speditezza, che informa l’intera disciplina dettata dal
Codice delle Comunicazioni Elettroniche in questa materia;
aggravio che appare tanto più irragionevole e penalizzante,
nel caso di specie, quanto più si consideri che H3G s.p.a.,
già dotata di regolare autorizzazione, aveva richiesto solo
l’ammodernamento tecnologico del proprio impianto ai sensi
dell’art. 87-bis del d.lgs. n. 259/2003.
15.2. Esula invero dai poteri riconosciuti dall’art. 8,
comma 6, della l. n. 36/2001 ai Comuni la potestà di
aggravare, senza che ve ne siano le specifiche ragioni da
tale legge previste, il procedimento finalizzato al rilascio
dei titoli abilitativi contemplati dal Codice delle
Comunicazioni Eletrtroniche, onerando gli operatori, come
nel caso di specie, di nuove e/o periodiche procedure di “conferma”
di titoli già validi ed efficaci, ai sensi della normativa
nazionale, sotto comminatoria di decadenza, dato che tale
potestà non si può mai tradurre nel potere di sospendere la
efficacia e validità dei titoli abilitativi formati e di
incidere, come appunto accade nel caso di specie, sul
procedimento di formazione della d.i.a. presentata per
l’ammodernamento tecnologico dell’impianto, così
introducendo un’inammissibile misura di carattere generale,
sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni
derivanti dagli impianti di telefonia mobile (v., ex
plurimis, Cons. St., sez. VI, 15.06.2011, n. 3646).
15.3. Vero è che la Sezione non ha mancato di ribadire,
nella sua costante giurisprudenza e ancor di recente, che il
favor assicurato, soprattutto dagli artt. 86 ss. del d.lgs.
259/2003, alla diffusione delle infrastrutture a rete della
comunicazione elettronica, se comporta una forte
compressione dei poteri urbanistici conformativi
ordinariamente spettanti ai Comuni, non arriva a derogare
alle discipline poste a tutela degli interessi differenziati
(in quanto espressione di principi fondamentali della
Costituzione), come quello naturalistico-ambientale.
15.4. Ma questa stessa Sezione ha anche chiaramente
precisato, nel solco della giurisprudenza costituzionale
(cfr., tra le altre, Corte cost. n. 331/2003, n. 307/2003 e
n. 336/2005 ), che la potestà assegnata ai Comuni dall’art.
8, comma 6, della legge quadro n. 36/2001 (che prevede la
possibilità che i Comuni adottino un regolamento c.d. di
minimizzazione finalizzato a garantire "il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e a
minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici") deve tradursi nell’introduzione,
sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e
beni di particolare pregio ambientale, paesaggistico o
storico-artistico (ovvero, per ciò che riguarda la
minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici, nell’individuazione di siti che per
destinazione d’uso e qualità degli utenti possano essere
considerati sensibili alle immissioni radioelettriche),
senza trasformarsi in limitazioni alla localizzazione degli
impianti di telefonia mobile per intere ed estese porzioni
del territorio comunale, in assenza di una plausibile
ragione giustificativa (cfr., ex plurimis, Cons. St.,
sez. III, 04.04.2013, n. 1873).
---------------
16.3. Il Collegio
non può al riguardo che ribadire, anche in questa sede, il
consolidato orientamento di questo Consiglio, secondo cui
l’autorizzazione, di cui all’art. 87 del d.lgs. 259/2003,
non costituisce atto che presuppone o è presupposto a quello
richiesto dal testo unico in materia edilizia, ma assorbe in
sé e sintetizza, all’esito del procedimento previsto dallo
stesso art. 87, anche la valutazione urbanistico-edilizia
che presiede al titolo, facendo salve le sole disposizioni,
non rilevanti nel caso all’esame, del D.Lgs. n. 42/2004.
16.4. Laddove infatti il nuovo procedimento fosse destinato
non a sostituire, ma ad abbinarsi a quello edilizio
ordinario, verrebbero di fatto vanificati i principi
ispiratori del Codice delle Comunicazioni Elettroniche e, in
particolare, quelli della previsione di procedure
tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la
concessione del diritto di installazione e della riduzione
dei termini per la conclusione dei procedimenti nonché della
regolazione uniforme dei medesimi (v., ex plurimis,
Cons. St., sez. VI, 12.01.2011, n. 98).
Deve insomma escludersi, in applicazione degli ordinari
principi in materia di gerarchia delle fonti, che i
regolamenti comunali possano derogare al modulo
procedimentale previsto in materia dalla legge, ispirato
alla ratio di semplificazione e di concentrazione al
suo interno di tutte le relative valutazioni di carattere
urbanistico-edilizio ed igienico-sanitario.
16.5. Ne deriva, quindi, l’illegittimità del provvedimento
di diniego anche nella parte in cui, in pretesa applicazione
dell’art. 22 del d.P.R. 380/2001, ha richiesto ad H3G s.p.a.
il nominativo dell’impresa commissionaria degli interventi,
aggiungendo indebitamente requisiti ulteriori rispetto a
quelli esclusivamente richiesti, in subiecta materia,
dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche e dal modello B
da esso previsto, sicché l’impugnata sentenza, anche laddove
ha ritenuto legittima tale richiesta, ha fatto erronea
applicazione del d.P.R. 380/2001 in tale materia, sì da non
poter essere condivisa e meritare quindi riforma
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.03.2014 n. 1361 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esclusione riduzione fascia di rispetto cimiteriale per
interessi privati.
Per consolidata giurisprudenza, il vincolo cimiteriale
determina una situazione di inedificabilità ex lege,
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quarto
comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per
legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di
privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un’area a
tal fine indisponibile per ragioni di ordine
igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di
sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di
un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il
procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno
della fascia di rispetto, pertanto, è dunque, in ogni caso,
soltanto quello finalizzato agli interventi di cui all’art.
338, settimo comma, del citato r.d. n. 1265 del 1934
(recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni
preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse
pubblico –per i motivi anzidetti– la procedura di
riduzione della fascia inedificabile in questione.
Quanto al secondo ordine di censure, riferito alla richiesta
declaratoria dell’obbligo dell’Amministrazione di
pronunciarsi sull’istanza di un privato, avente ad oggetto
la riduzione della fascia di rispetto cimiteriale, il
Collegio deve porsi d’ufficio la questione di ammissibilità
del gravame, in rapporto al principio del ne bis in idem,
mutuato dai canoni comuni di cui agli articoli 2909 Cod.
civ. e 324 Cod. proc. civ., che escludono una nuova
pronuncia del giudice in materia coperta da giudicato fra le
medesime parti (cfr., per l’applicabilità del principio nel
processo amministrativo, Cons. Stato, IV, 28.10.2013, n.
5197; VI, 03.07.2013, n. 3553).
Risulta infatti che, con sentenza del medesimo Tribunale
amministrativo 13.12.2012, n. 3020, la legittimità delle
ordinanze di rimessa in pristino nn. 110 e 77 del 2011 fosse
stata ravvisata anche in rapporto all’insussistenza
dell’obbligo di provvedere dell’Amministrazione in merito
all’istanza di riduzione della fascia di rispetto
cimiteriale, proposta dall’interessato. Il fatto che il
principio enunciato attenesse ad un’azione di annullamento e
non di accertamento non esclude di ritenere qui presente e
vincolante il cosiddetto giudicato sostanziale, formatosi
sulla questione interpretativa anzidetta fra le medesime
parti e nell’ambito della medesima vicenda edificatoria,
vale a dire circa l’insussistenza di quel medesimo interesse
pretensivo.
In presenza di non perfetta identità di petitum e
causa petendi rispetto all’oggetto della citata sentenza
n. 3020/2012, tuttavia, il Collegio ritiene preferibile
vagliare il merito dell’accertamento richiesto.
Questo non può che concludersi in senso sfavorevole per
l’appellante.
Il silenzio-rifiuto disciplinato dall’ordinamento, infatti,
è riconducibile a un’inadempienza dell’Amministrazione in
rapporto ad un sussistente obbligo di provvedere (cfr. Cons.
Stato, Ad. plen., 10.03.1978, n. 10). Un tale obbligo può
discendere dalla legge, da un regolamento o eventualmente da
un atto di autolimitazione dell’Amministrazione stessa, e in
ogni caso deve corrispondere ad una situazione soggettiva
protetta, qualificata come tale dall’ordinamento (cfr. art.
21-bis l. 06.12.1971, n. 1034, nel testo introdotto
dall’art. 2 l. 21.07.2000, n. 205, nonché, per il principio
Cons. Stato, IV, 04.09.1985, n. 333 e 6 febbraio 1995, n.
51; V, 06.06.1996, n. 681 e 15.09.1997, n. 980).
La fattispecie del silenzio produttivo di effetti giuridici,
come mera inerzia dei pubblici poteri contrastante con i
principi di buon andamento, trasparenza, pubblicità e
tempestività dell’azione amministrativa, è rapportabile a
fattispecie anche diverse da procedure su istanza di parte,
essendo ipotizzabili lesioni di interessi protetti (di tipo
sia oppositivo che pretensivo), connesse a omissioni
dell’Amministrazione in ordine all’emanazione di atti dovuti
(es. Cons. Stato, VI, 19.03.2008, n. 1188; IV, 07.07.2008,
n. 3384).
I principi acquisiti in tema di illegittimità del silenzio
dell’amministrazione non paiono però rapportabili alla
pretesa di un privato di riduzione della fascia di rispetto
cimiteriale a norma dell’art. 338, quarto comma, r.d.
27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle
leggi sanitarie) sul vincolo di inedificabilità per fascia
di rispetto cimiteriale, secondo cui “Il Consiglio
Comunale può approvare, previo parere favorevole delle
competete azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi
cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti ad una
distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché
non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche
alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che,
per particolari condizioni locali, non sia possibile
provvedere altrimenti;
b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da
strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base
della classificazione prevista ai sensi della legislazione
vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari”.
La norma riportata ha carattere derogatorio ed eccezionale
rispetto alla regola enunciata al primo comma secondo cui “I
cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno
200 metri dal centro abitato. E’ vietato costruire intorno
ai cimiteri nuovi edifici[…]”.
Per consolidata giurisprudenza, il vincolo cimiteriale
determina una situazione di inedificabilità ex lege,
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quarto
comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per
legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di
privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un’area a
tal fine indisponibile per ragioni di ordine
igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di
sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di
un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale
(cfr. Cass., I, 23.06.2004, n. 11669; Cons. Stato., II,
07.03.1990, parere n. 1109; Cons. Stato, IV, 11.10.2006, n.
6064; V, 02.04.1991, n. 379, 29.03.2006, n. 1593;
03.05.2007, n. 1934 e 14.09.2010, n. 6671).
A parte ogni ulteriore considerazione di base circa la
discrezionalità sul se provvedere, il procedimento
attivabile dai singoli proprietari all’interno della fascia
di rispetto, pertanto, è dunque, in ogni caso, soltanto
quello finalizzato agli interventi di cui all’art. 338,
settimo comma, del citato r.d. n. 1265 del 1934 (recupero o
cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti);
mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico –per i
motivi anzidetti– la procedura di riduzione della fascia
inedificabile in questione (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.03.2014 n. 1317 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Comune dove sarà collocato impianto di trattamento
di rifiuti solidi urbani, legittimità impugnazione
provvedimento autorizzativo.
Non vi è ragione per discostarsi dal prevalente e
condivisibile indirizzo giurisprudenziale che riconosce la
legittimazione dei comuni, nei cui territori sono destinati
ad essere collocati impianti di trattamento di rifiuti
solidi urbani, ad impugnare i provvedimenti di approvazione
dei relativi progetti, sia in quanto incidenti sulle
destinazioni di zona e sulle caratteristiche del territori,
sia quali enti esponenziali della collettività che risiedono
nell’ambiente comunale, perché, per un verso, la tutela
dell’ambiente assume il ruolo unificante e finalizzante di
distinte tutele giuridiche predisposte a favore di diversi
beni della vita che nell’ambiente si collocano e, per altro
verso, l’ambiente è un bene pubblico non suscettibile di
appropriazione individuale, indivisibile, non attribuibile,
unitario e multiforme.
Né la legittimazione può essere
subordinata alla prova puntuale della concreta pericolosità
dell’impianto, essendo sufficiente una ragionevole prospettazione di temute ripercussioni sul territorio
comunale collocato nelle immediate vicinanze dell’impianto
da realizzare.
6.2. Passando all’esame del merito, la Sezione osserva che
non è meritevole di favorevole accoglimento il primo motivo
di gravame, con il quale, lamentando “Errore nel
giudicare: inammissibilità del ricorso dei Comuni di Cesano
Maderno, Limbiate e Bovisio Masciago per difetto di
legittimazione ad agire”, la Regione Lombardia ha
sostenuto che quelle amministrazioni non avevano provato il
concreto ed effettivo pregiudizio che sarebbe loro derivato
dalla realizzazione dell’impianto in argomento e quindi la
loro stessa legittimazione a ricorrere, non essendo a tal
fine sufficiente la sola circostanza che l’impianto
ricadesse nel loro territorio (circostanza che peraltro
neppure ricorreva quanto ai Comuni di Limbiate e di Bovisio
Msciago), tanto più che esse non erano titolari di
competenze primarie per la cura degli interessi pubblici
rilevanti nel procedimento di valutazione di impatto
ambientale (spettanti invero al Parco delle Groane), mentre
le censure sollevate dal Comune di Cesano Maderno non erano
neppure direttamente inerenti agli interessi sottesi alla
valutazione di impatto ambientale, ma solo alla
compatibilità urbanistica dell’impianto da realizzare.
6.2.1. In realtà, anche a voler tacere del fatto che
l’eventuale accoglimento di tale censura non inciderebbe
sulla (non contestata) legittimazione della Provincia di
Monza e Brianza (subentrata alla Provincia di Milano,
originaria ricorrente), così che potrebbe addivenirsi ad una
pronuncia di totale inammissibilità del ricorso di primo
grado (e di conseguente definitiva legittimità del
provvedimento impugnato in primo grado, cui aspira la
società appellante), non vi è ragione per discostarsi dal
prevalente ( e condivisibile) indirizzo giurisprudenziale
che riconosce la legittimazione dei comuni, nei cui
territori sono destinati ad essere collocati impianti di
trattamento di rifiuti solidi urbani, ad impugnare i
provvedimenti di approvazione dei relativi progetti, sia in
quanto incidenti sulle destinazioni di zona e sulle
caratteristiche del territorio (Cons. Stato, sez. V,
28.11.2008, n. 5910), sia quali enti esponenziali della
collettività che risiedono nell’ambiente comunale, perché,
per un verso, la tutela dell’ambiente assume il ruolo
unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche
predisposte a favore di diversi beni della vita che
nell’ambiente si collocano e, per altro verso, l’ambiente è
un bene pubblico non suscettibile di appropriazione
individuale, indivisibile, non attribuibile, unitario e
multiforme (Cons. Stato, sez. V, 30.06.2011, n. 3921).
Né la legittimazione può essere subordinata alla prova
puntuale della concreta pericolosità dell’impianto, essendo
sufficiente una (ragionevole) prospettazione di temute
ripercussioni sul territorio comunale collocato nelle
immediate vicinanze dell’impianto da realizzare (Cons.
Stato, sez. V, 16.09.2001, n. 5193; sez. VI, 05.12.2001, n.
6657).
Tali principi (ribaditi anche recentemente, Cons. Stato,
sez. V, 10.07.2012, n. 4068; sez. IV, 17.09.2012, n. 4926))
ben si attagliano al caso in esame, in cui viene in rilievo
un progetto di ampliamento di un impianto di depurazione di
acque reflue industriali già esistente (mediante la
realizzazione della sezione fisico–chimica per il
trattamento di rifiuti pericolosi e non pericolosi), come
tale astrattamente idoneo ad incidere, secondo l’id quod
plerumque accidit, sul contesto ambientale in cui si
colloca e a pregiudicare (potenzialmente) il territorio
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.03.2014 n. 1058 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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