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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di SETTEMBRE 2014

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aggiornamento al 30.09.2014

aggiornamento al 24.09.2014

aggiornamento al 18.09.2014

aggiornamento al 13.09.2014

aggiornamento al 10.09.2014

aggiornamento al 02.09.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.09.2014

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dite la vostra .... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, IL CERTIFICATO MEDICO DI “RETTIFICA” DELL'ORIGINARIA PROGNOSI DI MALATTIA, OVVERO:  COME NEL PUBBLICO IMPIEGO (E NON SOLO) SI RITORNA  AL LAVORO IN CASO DI GUARIGIONE ANTICIPATA (29.09.2014).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: PROVINCE: APPROVATO IL D.P.C.M. SUL TRASFERIMENTO DI FUNZIONI PREVISTO DALLA LEGGE DELRIO (CGIL-FP di Bergamo, nota 24.09.2014).
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Si leggano anche:
la bozza del D.P.C.M.
l'accordo sancito tra Governo e Regioni in sede di Conferenza Unificata

PUBBLICO IMPIEGO: A PROPOSITO DI LAVORATORI DI SERIE A) E SERIE B) - La disparità di trattamento tra pubblici dipendenti (CGIL-FP di Bergamo, nota 22.09.2014).

UTILITA'

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: Modelli semplificati per la redazione:
del piano operativo di sicurezza (Pos) - allegato I
del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) - allegato II
del piano di sicurezza sostitutivo (Pss) - allegato III
del fascicolo dell'opera (Fo) - allegato IV
in formato .doc per la facile compilazione personalizzata, di cui al
decreto 09.09.2014 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

SICUREZZA LAVOROSicurezza sul posto di lavoro, cosa fare nei casi d’emergenza? Dal SUVA una utile check-list.
Per affrontare in tutta sicurezza le varie condizioni di emergenza che possono verificarsi (infortuni, malattie acute, incendi) sui luoghi di lavoro è opportuna una buona organizzazione del piano d’emergenza.
Il SUVA svizzero ha realizzato un’utile check-list contenente una serie di domande sul piano, per avere una corretta gestione dei casi d’emergenza.
Il documento aiuta a tener sotto controllo il piano di emergenza, a gestire con efficacia un primo soccorso e a garantire un’adeguata formazione del personale, consentendo una notevole riduzione delle possibili conseguenze.
Gli argomenti affrontati nella presente lista sono:
● organizzazione dell’allarme
● pronto soccorso
● istruzione e comportamento
● varie (25.09.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATALibretto di impianto, nuove FAQ aggiornate del Ministero.
Il 15.10.2014 scatterà l’obbligo di adottare i nuovi modelli di libretto di impianto e i nuovi rapporti di efficienza energetica introdotti dal D.M. 10.02.2014.
A seguito delle richieste di chiarimento sollevate da amministrazioni locali, operatori del settore (imprese, installatori, manutentori) e cittadini, il Ministero dello Sviluppo Economico ha pubblicato sul proprio sito le domande e le risposte più frequenti in materia di efficienza energetica degli impianti di climatizzazione invernale ed estiva.
Le FAQ aggiornate al 19.09.2014 hanno l’obiettivo di rispondere ai quesiti avanzati e di fornire gli opportuni chiarimenti per una corretta applicazione di quanto previsto dal Decreto.
Ecco gli argomenti trattati:
● impianto termico
● controllo e manutenzione ai fini della sicurezza
● libretto di impianto
● trattamento dell’acqua di raffreddamento dell’impianto di climatizzazione estiva
● controlli di efficienza energetica
● periodicità dell'invio del rapporto di controllo di efficienza energetica
Ricordiamo ai lettori che il nuovo software ACCA, Impiantus-LIBRETTO, consente la redazione del nuovo libretto di impianto per la climatizzazione e dei rapporti di controllo di efficienza energetica, in ottemperanza alle recenti prescrizioni normative (25.09.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (settembre 2014 - tratto da www.agenziaentrate.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreti “Competitività” e “Sblocca Italia”: novità in campo ambientale (ANCE Bergamo, circolare 26.09.2014 n. 183).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Impianti termici - Differimento dei termini per l’entrata in vigore del nuovo libretto di impianto (ANCE Bergamo, circolare 26.09.2014 n. 182).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Registro Sonde Geotermiche (RSG) – Nuovo Manuale Utente e nuove condizioni d’uso al servizio (ANCE Bergamo, circolare 26.09.2014 n. 181).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Regione Lombardia – Provvedimenti relativi al periodo dal 15.10.2014 al 15.04.2015: 1) Misure per la limitazione del traffico veicolare; 2) Misure per il contenimento dell’inquinamento da combustione di biomasse legnose (ANCE Bergamo, circolare 26.09.2014 n. 178).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Decreto 28.02.2014 recante "Regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione e l'esercizio delle strutture turistico - ricettive in aria aperta (campeggi, villaggi turistici, ecc.) con capacità ricettiva superiore a 400 persone" - Chiarimenti ed indirizzi applicativi (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico ed ella Difesa Civile, nota 12.09.2014 n. 11002 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 29.09.2014, "Direzione centrale Legale, controlli, istituzionale, prevenzione corruzione - Nomine e designazioni di competenza della Giunta regionale: Commissioni regionali per il paesaggio (rif. art. 78 della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»)" (comunicato regionale 24.09.2014 n. 121).

CONDOMINIO: G.U. 24.09.2014 n. 222 "Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità per la formazione degli amministratori di condominio nonché dei corsi di formazione per gli amministratori condominiali" (Ministero della Giustizia, decreto 13.08.2014 n. 140).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: D. Tramutoli, Valutazione delle offerte tecniche e possibile annullamento della gara d'appalto” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sentenza n. 4514 del 04.09.2014) (24.09.2014 - link a www.diritto.it).

VARI: G. Milizia, Il pedone nell’attraversare deve rispettare il codice della strada: doppia condanna per aver distrattamente investito un ciclista (23.09.2014 - link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: A. P. Esposito, Dichiarazione di falsità di documenti di una graduatoria di concorso pubblico: il giudice penale non può “depennare” i candidati (Corte di Cassazione, V sez. pen., con sentenza del 21.07.2014, n. 32035) (22.09.2014 - link a www.diritto.it).

ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO: Personale News (tratto dalla newsletter gratuita di www.publika.it, 16.09.2014 n. 17).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: D. Romei, Lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazioni o condizionamento mafioso (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).
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SOMMARIO: 1. Premessa: lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazioni della criminalità organizzata di tipo mafioso nel sistema dei controlli - 2. L’originaria disciplina sullo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni della criminalità organizzata di tipo mafioso e l’intervento della Corte costituzionale - 3. La disciplina di cui all’art. 143 T.U.E.L. e le modifiche apportate dal c.d. Pacchetto sicurezza - 4. La natura del decreto di scioglimento - 5. Il vigente sistema dello scioglimento dei consigli comunali. Il quadro indiziario posto a base delle valutazioni dell’autorità prefettizia ex art. 143 T.U.E.L. Natura ampiamente discrezionale dell’accertamento prefettizio - 6. Gli elementi sintomatici della ricorrenza dei presupposti richiesti dall’art. 143 T.U.E.L. per lo scioglimento del Consiglio comunale - 7. Gli effetti dello scioglimento nei confronti degli amministratori degli enti locali - 8. Considerazioni conclusive.

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: R. Steffenoni, L’abolizione delle province: evoluzione di un processo di semplificazione delle autonomie locali (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).
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SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. Le riforme degli anni ’90, il nuovo titolo V della Costituzione e la legge “La Loggia” - 3. La riforma delle province nell’ambito della legge 05.05.2009, n. 42 - 4. L’utilizzo della decretazione d’urgenza per riformare le province e la sentenza n. 220/2013 della Corte Costituzionale - 5. La legge 07.04.2014, n. 56 sulla c.d. “abolizione delle province” - 6. Conclusioni.

PATRIMONIO: S. Peluso, La sponsorizzazione dei beni culturali: opportunità e criticità dello strumento alla luce del caso Colosseo (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).

APPALTI: V. Cardellicchio e F. Gallo, Stazione unica appaltante e centrale di committenza: lo sviluppo degli istituti nella prospettiva di riorganizzazione dei livelli di Governo (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).

APPALTI: A. Mutarelli, L’insostenibile pesantezza economica dei diritti. Nuovo rito speciale sugli appalti pubblici: verso un processo senza giudizio? (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).

APPALTI: A. Fragomeni, Il problema (irrisolto) del rapporto tra esame del ricorso principale e ricorso incidentale alla luce dei principi comunitari (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).
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SOMMARIO: 1. Breve sintesi della problematica secondo la giurisprudenza del giudice civile e del giudice amministrativo di primo e secondo grado - 2. Segue. Le nuove Adunanze Plenarie del 2014 nel solco dell’Adunanza 4/2011 - 3. Il punto di vista comunitario: principi e giurisprudenza della Corte di giustizia sul tema dell’effettività della tutela giurisdizionale e del giusto processo: uno sguardo particolare alle nuove direttive appalti e concessioni pubblicate nella G.U.C.E. del 28.03.2014 - 4. Le divergenze intorno al concetto di oggetto del processo amministrativo e di domande giudiziali - 5. Brevi conclusioni: opportunità di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia della problematica in oggetto - 6. Segue. Il rischio di azioni di risarcimento danni contro il Governo italiano sia in sede comunitaria che interna.

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione unica.
Domanda
In campo di energia eolica il termine per il rilascio dell'autorizzazione unica può essere derogato dalla regione?
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione quinta, con la sentenza del 09.09.2013, numero 4473, ha affermato che il termine massimo entro il quale si deve concludere, alla luce del disposto dell'articolo 12, del decreto legislativo numero 387, del 29.12.2003, il procedimento relativo al rilascio dell'autorizzazione unica alla costruzione e all'esercizio di impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili, è un termine perentorio, atteso che esso risponde a evidenti finalità di semplificazione e accelerazione.
La normativa su citata prevede, all'articolo 12, comma 3, che la conferenza dei servizi deve essere convocata dalla regione entro 30 giorni dal ricevimento della domanda di autorizzazione.
Inoltre le Linee guida nazionali di cui al decreto ministeriale del 10.09.2010, al punto 14.6, prevedono che entro 30 giorni dal ricevimento dell'istanza, l'amministrazione convoca la conferenza dei servizi, che si deve svolgere con le modalità previste dall'articolo 14 e seguenti della legge numero 241, del 1990. Inoltre, ai sensi della normativa portata dal comma 4, del citato articolo 12, il termine massimo per la conclusione del procedimento unico non può essere superiore a 90 giorni.
Si sottolinea inoltre, che alla luce della sentenza numero 124 del 2010, della Corte costituzionale, la disciplina relativa alla realizzazione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili attiene prevalentemente alla materia di produzione, trasporto e distribuzione dell'energia di cui all'articolo 117, comma terzo, della Costituzione ed è, quindi, di competenza concorrente stato-regioni.
E, al riguardo, rientra nelle competenze del legislatore nazionale dettare le disposizioni di principio, mentre rientrano nelle competenze delle regioni il dettare le disposizioni di dettaglio. E, ancora, anche alla luce della sentenza del Consiglio di stato, sezione quinta, del 15.05.2013, numero 2634, il termine suddetto è, come detto, perentorio e non derogabile, in alcun modo, dalle regioni.
Ne consegue che termini più lunghi, stabiliti dalle regioni in materia, devono essere abbreviati nel rispetto del termine stabilito dal citato articolo 12 (articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.201).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuali sono gli enti tenuti a consentire l'accesso e a rilasciare l'informazione ambientale?
Partendo dal presupposto che il diritto di accesso alle informazioni e agli atti delle autorità pubbliche o detenute dalle stesse a qualsiasi titolo è riconosciuto dalla maggior parte degli ordinamenti democratici, la Corte di giustizia dell'Unione europea, grande sezione, con la sentenza del 19.12.2013 (causa C-279/12)- Fish legali e altri, ha approfondito, ai sensi dell'articolo 2, punto n. 2, della direttiva 2003/Ce, gli elementi attraverso i quali devono esser individuati gli enti obbligati a consentire l'accesso e a rilasciare l'informazione ambientale.
Essi vanno individuati, innanzitutto, oltre che nelle amministrazioni centrali, nelle cosiddette autorità amministrative, che all'interno degli stati sono custodi delle informazioni ambientali. Sono quegli apparati-organi, costituiti da persone fisiche e giuridiche che svolgono funzioni di pubblica amministrazione. Essi, operando sotto il controllo di soggetti pubblici, vengono a erogare servizi pubblici connessi all'ambiente.
Vi sono , poi, gli enti funzionali con poteri di imperio, che hanno il compito di prestare , alla luce della normativa loro applicabile, servizi di interesse pubblico, e, a tal fine, sono investiti di poteri speciali (al riguardo si rimanda, pure, alla sentenza della Corte di giustizia Ue del 19.12.2013, causa C-279/12).
Vi sono, infine, i cosiddetti enti oggetto di controllo, autorizzati dall'autorità statale ad agire per suo conto o per un ente controllato dallo stato, e che hanno il potere di impartire ordini, di esercitare i diritti dell'azionista, nominare o revocare i membri degli organi direttivi, ecc.. Sono organismi, anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia Ue del 12.07.1990, causa C-188/89, che indipendentemente dalla loro forma giuridica, sono stati incaricati, «con un atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest'ultima, un servizio di interesse pubblico e che dispone a questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra i singoli» (articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Centri commerciali.
Domanda
I centri commerciali di media dimensione sono soggetti alla procedura di valutazione di impatto ambientale?
Risposta
La Corte costituzionale, con la sentenza del 28.10.2013, numero 251, ha affermato che sono soggetti alla procedura di valutazione di impatto ambientale (Via) anche i centri commerciali di media dimensione, alla luce della disciplina nazionale dettata dal Testo unico ambientale (decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006), che all'allegato IV, parte II, punto 7, lettera b), prevede espressamente che siano sottoposti alla citata procedura di valutazione di impatto ambientale (Via) tutti i «centri commerciali».
Di conseguenza, i giudici costituzionali hanno dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 22 della legge della regione Veneto del 28.12.2012, numero 50, per violazione dell'articolo 117, comma 2, lettera s), della Costituzione. E ciò in considerazione del fatto che la procedura di valutazione di impatto ambientale (Via) rientra nella competenza esclusiva dello stato. Per la Corte costituzionale, però, rimane in vita, alla luce della normativa vigente, la deroga dell'allargamento dei casi di verifica di assoggettabilità a Via delle grandi strutture di vendita che non costituiscano centri commerciali.
Peraltro, è da dire che l'articolo 6, comma 9, del Testo unico ambientale, su citato, prevede testualmente che: «Le regioni e le province di Trento e di Bolzano possono definire, per determinate tipologie progettuali o aree predeterminate, sulla base degli elementi indicati nell'allegato V, un incremento nella misura massima del trenta per cento o decremento delle soglie di cui all'allegato IV. Con riferimento ai progetti di cui all'allegato IV, qualora non ricadenti neppure parzialmente in aree naturali protette, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono determinare, per specifiche categorie progettuali o in particolari situazioni ambientali e territoriali, sulla base degli elementi di cui all'allegato V, criteri o condizioni di esclusione dalla verifica di assoggettabilità».
Alla luce di detta disposizione, la legislazione regionale potrebbe escludere l'applicazione della verifica di assoggettabilità a Via quelle strutture di modeste dimensioni che non determinino significativi impatti anche se qualificabili come centro commerciale ai sensi della normativa del commercio (articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Revoche senza contrasti. Il regolamento va adeguato allo statuto. Maggioranze e quorum per destituire il presidente del consiglio.
Qual è l'esatto numero di consiglieri comunali necessario per la votazione della proposta di revoca del presidente del consiglio comunale?

Nel caso di specie, la proposta di revoca è stata votata favorevolmente dai due terzi dei componenti il consiglio; il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che la proposta di revoca del presidente possa essere presentata da un terzo dei consiglieri assegnati e debba essere approvata con il voto favorevole di almeno dodici consiglieri; tale previsione risulterebbe parzialmente non coerente con lo statuto, che si limita a disciplinare la presentazione della proposta da parte di dodici consiglieri, senza indicare la maggioranza necessaria per la sua approvazione.
La discordanza rilevata e la circostanza legata alla riduzione del numero dei consiglieri per effetto delle modifiche di legge introdotte successivamente all'adozione degli strumenti normativi del comune, cui non è seguito alcun ulteriore adeguamento, determinerebbero problemi applicativi.
Il Tar Puglia–Lecce, con sentenza n. 528/2014, ha evidenziato che «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata perciò con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia (conforme, Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)».
In merito alla specifica tematica, lo statuto del comune, prevedendo la possibilità di revoca del presidente, fissa esclusivamente il numero (dodici) dei proponenti necessari ad avanzare la richiesta.
La percentuale di un terzo, indicata dal regolamento consiliare come numero minimo di consiglieri necessari per la presentazione della richiesta, risulta in contrasto con lo statuto, per cui, seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009) la citata disposizione regolamentare dovrebbe essere disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
In carenza di apposita disposizione statutaria, il regolamento trova applicazione, invece, nella parte in cui si individua la maggioranza numerica necessaria per l'approvazione della deliberazione. In merito all'adeguamento alla legge, il Tar Marche, con sentenza n. 970 del 02.09.2002, emessa in fattispecie relativa alla composizione del consiglio di una comunità montana, ha affermato che: «Anche ammettendo che le disposizioni del decreto legislativo n. 267/2000 sul numero dei componenti gli organi collegiali siano di principio, tanto non comporta affatto l'immediata e diretta abrogazione delle norme statutarie con esse incompatibili, né l'immediata applicazione della nuova composizione, ma tanto si verifica solo con l'adeguamento dello Statuto, perché così dispone, appunto, l'art. 1 del suindicato decreto legislativo».
Pertanto, ferma restando la regolarità degli atti assunti con le maggioranze comunque previste dallo statuto o dal regolamento (per quest'ultimo, solo se non in contrasto con lo statuto), appare opportuna la revisione delle disposizioni statutarie e regolamentari che disciplinano i quorum e le maggioranze necessarie per il funzionamento del consiglio, al fine del loro corretto adeguamento alle disposizioni di legge che hanno innovato in merito alla riduzione del numero dei componenti del consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del 26.09.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: Disciplina delle interrogazioni.
La disciplina delle interrogazioni è demandata al regolamento consiliare il quale deve, in particolare, prevedere 'le modalità di presentazione di tali atti e delle relative risposte'.
Non si rinviene alcun obbligo normativo a che una interrogazione debba essere, necessariamente, ed a prescindere da una specifica indicazione in tal senso contenuta nel regolamento, trattata in consiglio comunale.
Tuttavia, considerando il ruolo del consiglio comunale e nell'ottica di dare conoscenza all'organo collegiale dell'attività di sindacato ispettivo esercitata dai singoli consiglieri, si ritiene opportuno che il consiglio sia informato dell'avvenuta presentazione di una interrogazione e della risposta eventualmente fornita, secondo modalità definite nel regolamento.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla disciplina dell'istituto delle interrogazioni. In particolare, premesso che l'attuale regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che 'Il Sindaco o l'Assessore da lui delegato risponde, entro trenta giorni, alle interrogazioni e ad ogni altra istanza di sindacato ispettivo presentata dai Consiglieri. La risposta è data, di norma, nella prima adunanza del Consiglio che si tiene entro il termine di cui sopra. Nel caso in cui entro il termine predetto non si tengano adunanze del Consiglio, la risposta è data per iscritto. Se il Consigliere interessato lo richiede, l'interrogazione e la risposta sono comunicate al Consiglio, alla prima adunanza, nel corso della trattazione delle interrogazioni' (articolo 17, comma 3) chiede se sia possibile eliminare l'ultimo periodo della norma citata sopprimendo la possibilità per il consigliere comunale, che ha ricevuto risposta scritta alla interrogazione dallo stesso formulata, di comunicare, nel primo consiglio utile, l'oggetto dell'interrogazione e la relativa risposta.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti osservazioni.
In via preliminare, si osserva che l'articolo 43, comma 1, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede che i consiglieri comunali hanno il diritto di presentare interrogazioni e mozioni. Il successivo comma 3 stabilisce, ulteriormente, che il sindaco o gli assessori da esso delegati 'rispondono, entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni istanza di sindacato ispettivo presentata dai consiglieri. Le modalità di presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal regolamento consiliare'.
Si tratta di istituti il cui utilizzo è garantito ai consiglieri comunali al fine di poter esercitare il proprio munus publicum. La facoltà di presentare interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno rientra tra le funzioni di sindacato ispettivo attribuite dalla legge agli amministratori locali. Si tratta di istituti finalizzati a garantire la funzione propria del consigliere comunale che è quella di verificare che il sindaco e la giunta esercitino correttamente la loro attività di governo.
Quanto alla disciplina di tali istituti essa è demandata al regolamento consiliare il quale deve, in particolare, prevedere 'le modalità di presentazione di tali atti e delle relative risposte'. Non si rinviene alcun obbligo normativo a che una interrogazione debba essere, necessariamente, ed a prescindere da una specifica indicazione in tal senso contenuta nel regolamento, trattata in consiglio comunale.
Sul tema si è espresso il Ministero dell'Interno il quale ha sottolineato la non necessità della trattazione in aula consiliare. Il parere ministeriale, recita, al riguardo, che: 'Non si evincono elementi che inducano a configurare la sussistenza di un obbligo di riscontrare la medesima interrogazione sia per iscritto, sia nell'aula consiliare; si potrebbe addirittura pervenire ad ipotizzare la necessità di una alternatività fra le due modalità, ove si consideri che nello specifico caso (diverso da quello ricorrente nella fattispecie in esame) dell'interrogazione urgente, presentata durante la seduta del consiglio, si prevede che, ove non vi siano le condizioni per dare immediatamente risposta, la stessa potrà essere 'inviata entro trenta giorni o nelle adunanze successive'. Per quanto precede si ritiene, conclusivamente, che nel caso di specie non sembra sussistere un obbligo di procedere alla trattazione anche in aula consiliare dell'interrogazione già riscontrata per iscritto'.
[1]
Tuttavia, considerando il ruolo del consiglio comunale e nell'ottica di dare conoscenza all'organo collegiale dell'attività di sindacato ispettivo esercitata dai singoli consiglieri, si ritiene opportuno che il consiglio sia informato dell'avvenuta presentazione di una interrogazione e della risposta eventualmente fornita, secondo modalità definite nel regolamento.
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[1] Ministero dell'Interno, parere del 14.09.2004. Nello stesso senso si veda, anche, il parere del 25.05.2012 (25.09.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Commissioni comunali.
La scelta delle modalità con le quali il comune intende garantire le pari opportunità è demandata dalla legge all'autonomia normativa dell'ente, il quale può liberamente decidere di utilizzare gli strumenti ritenuti più idonei, tra i quali la istituzione di una commissione consiliare o di una commissione comunale mista, intesa quale 'organismo di pari opportunità'.
È compito, poi, dei regolamenti dettare la disciplina delle stesse, compresi gli aspetti concernenti le funzioni e la composizione (che solo nel caso di commissione comunale mista può prevedere la presenza di soggetti non facenti parte del consiglio comunale).

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità di procedere all'accorpamento di due commissioni comunali esistenti, rispettivamente la 'Commissione pari opportunità tra uomo e donna' e la 'Commissione attività sociali, assistenziali ed economiche'.
In particolare, l'Ente vorrebbe mantenere la sola Commissione pari opportunità ampliandone le funzioni con alcune attualmente svolte dalla Commissione attività sociali, assistenziali ed economiche. Specifica, altresì, che mentre la Commissione pari opportunità è composta di sole donne, per l'altra Commissione è prevista la presenza sia di soggetti femminili che maschili.
In via preliminare, si osserva che le commissioni comunali le quali prevedono la partecipazione, accanto a soggetti politici, di rappresentanti degli interessi della collettività, rientrano tra gli organismi di partecipazione popolare previsti dall'articolo 12, comma 2, della legge regionale 09.01.2006, n. 1
[1] e dall'articolo 8 del D.Lgs. 267/2000. Il comma 3 di tale ultima norma individua nello statuto l'atto normativo nel quale devono essere previste le forme di consultazione della popolazione.
L'articolo 12, comma 2, della legge regionale 1/2006, prevede, poi, in particolare, che lo statuto debba stabilire 'le condizioni per assicurare pari opportunità tra uomo e donna anche in ordine alla presenza negli organi collegiali dell'ente'. La scelta delle modalità con le quali il comune intende garantire le pari opportunità è, pertanto, demandata dalla legge all'autonomia normativa dell'ente, il quale può liberamente decidere di utilizzare gli strumenti ritenuti più idonei, tra i quali la istituzione di una commissione consiliare o di una commissione comunale mista, intesa quale 'organismo di pari opportunità'.
È compito, poi, dei regolamenti dettare la disciplina delle stesse tra cui gli aspetti concernenti le funzioni e la composizione (che solo nel caso di commissione comunale mista potrà prevedere la presenza di soggetti non facenti parte del consiglio comunale).
Con riferimento al quesito posto l'Ente dovrà, pertanto, valutare la necessità di modificare il proprio regolamento sul funzionamento della Commissione pari opportunità al fine di renderlo coerente con le funzioni che alla stessa si vorrebbero attribuire valutando la congruenza delle stesse con il tipo di Commissione in oggetto.
Quanto alla composizione si rileva che, in linea generale, non sussiste alcun divieto a che le Commissioni delle pari opportunità siano costituite anche da soggetti di sesso maschile, ferme rimanendo eventuali previsioni contrarie contenute nel regolamento dell'Ente.
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[1] Tale disposizione, che nella nostra Regione si applica in luogo dell'articolo 6 TUEL, prevede che lo statuto stabilisca, tra l'altro, le forme della partecipazione popolare (17.09.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Partecipazione alle sedute del consiglio comunale da parte degli amministratori locali. Presentazione di interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno da parte dei consiglieri di minoranza.
1) I consiglieri che si collocano nello spazio riservato al pubblico sono considerati assenti dalla riunione a tutti gli effetti, compresi quelli relativi ai diritti previsti dalle norme sullo status degli amministratori locali; non sono pertanto computabili nel numero minimo necessario per rendere legale l'adunanza.
2) Ai consiglieri è garantito l'esercizio del diritto di presentare interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno al fine di poter esercitare il proprio munus publicum, di talché pare non consentito introdurre particolari vincoli all'utilizzo di tali strumenti da parte degli amministratori locali, che possano tramutarsi in una inammissibile limitazione del loro diritto. Si ritiene, invece, possibile regolamentare le modalità di esercizio del diritto di sindacato ispettivo spettante ai consiglieri, allo scopo di salvaguardare le esigenze di operatività degli uffici.

Il Comune pone due distinti quesiti afferenti la condotta dei consiglieri comunali ed, in particolare:
1) premesso che, durante una seduta consiliare, i consiglieri di minoranza hanno preso posto tra il pubblico e non già nei posti loro assegnati, chiede di sapere se la deliberazione assunta possa incorrere in qualche vizio in considerazione di questa peculiare collocazione degli stessi. L'Ente, facendo presente che il sindaco ha, inutilmente, rivolto vari inviti a prendere correttamente posto negli spazi assegnati, desidera, altresì, sapere quali ulteriori strumenti possa adottare qualora si ripresenti tale situazione;
2) atteso il comportamento di alcuni consiglieri consistente nella presentazione di una moltitudine di interrogazioni, interpellanze ed ordini del giorno, molti dei quali caratterizzati da ripetitività, l'Ente desidera sapere se tali condotte possano essere fonte di responsabilità erariale.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
Con riferimento alla prima questione posta, si osserva che l'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, prevede che il funzionamento dei consigli sia disciplinato dal relativo regolamento, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto. Al riguardo, l'articolo 14, comma 1, del regolamento per il funzionamento del consiglio comunale dell'Ente prevede che: 'I Consiglieri parlano dal posto loro assegnato, rivolgendosi sempre al Presidente'.
L'ANCI, in un proprio parere, ha affermato che: 'I Consiglieri che [...] si collocano nello spazio riservato al pubblico sono considerati assenti dalla riunione a tutti gli effetti, compresi quelli relativi ai diritti previsti dalle norme sullo status. Non sono inoltre computabili nel numero minimo necessario per rendere legale l'adunanza'.
Dalle considerazioni sopra esposte segue che la deliberazione assunta nel corso di una seduta nella quale tutti i consiglieri di minoranza hanno preso parte tra il pubblico e non già nei posti loro assegnati potrà considerarsi validamente assunta qualora, sulla base del numero dei consiglieri presenti nell'apposito settore, siano stati raggiunti i quorum costitutivo e deliberativo previsti dalla normativa dell'Ente.
Quanto agli strumenti adottabili nel caso in cui si ripresenti la situazione prospettata si osserva che l'articolo 43, comma 6, del TUEL prevede che: 'Lo statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative'. In attuazione di tale norma, lo statuto dell'Ente, all'articolo 21, dispone che si abbia la decadenza dalla carica di consigliere comunale 'per mancato intervento, senza giustificati motivi, ad una intera sessione ordinaria'.
La giurisprudenza ha chiarito che la decadenza dalla carica di consigliere appartiene alla categoria di quelle limitazioni all'esercizio di un diritto al munus publicum che devono essere interpretate restrittivamente.
Segue che, qualora si verificasse la condizione prevista nello statuto, il consiglio comunale dovrebbe, comunque, valutare i motivi posti alla base di un tale astensionismo dando ai consiglieri interessati la completa facoltà di far valere le cause giustificative delle assenze al fine di mettere in condizione il Consiglio di escludere che le assenze dalle sedute siano motivate da 'un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con l'incarico pubblico elettivo'.
Il Consiglio di Stato ha affermato, in proposito, che spetta al consigliere nei confronti del quale è stato instaurato il procedimento di decadenza fornire ragionevoli giustificazioni dell'assenza non rilevando, ad esempio, il generico richiamo ad una c.d. protesta politica, dichiarata soltanto a posteriori che, in quanto appunto non esternata in anticipo, sia tale da 'impedire qualsiasi accertamento della fondatezza, serietà e rilevanza del motivo'.
Il Ministero dell'Interno, intervenuto sull'argomento, ha, a tale proposito, ulteriormente sostenuto che: 'Si osserva, al riguardo, che pur non essendo necessaria, secondo una consolidata giurisprudenza, la preventiva giustificazione delle assenze, sarebbe buona consuetudine, ove possibile, giustificare l'assenza prima della seduta alla quale non si può partecipare, consentendo in tal modo all'adunanza di conoscerne i motivi che, una volta verbalizzati, potrebbero valere da causa giustificativa'.
Passando a trattare della seconda questione posta, si osserva che l'articolo 43, comma 1, del D.Lgs. 267/2000 prevede che i consiglieri comunali hanno il diritto di presentare interrogazioni e mozioni. Il successivo comma 3 stabilisce, ulteriormente, che il sindaco o gli assessori da esso delegati 'rispondono, entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni istanza di sindacato ispettivo presentata dai consiglieri. Le modalità di presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal regolamento consiliare'.
Si tratta di istituti il cui esercizio è garantito ai consiglieri comunali al fine di poter esercitare il proprio munus publicum di talché pare non ammissibile introdurre particolari vincoli all'utilizzo di tali strumenti da parte degli amministratori locali che potrebbero tramutarsi in una inammissibile limitazione del loro diritto.
Si osserva, in particolare, come la facoltà di presentare interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno rientra tra le funzioni di sindacato ispettivo attribuite dalla legge agli amministratori locali. Si tratta di istituti finalizzati a garantire la funzione propria del consigliere comunale che è quella di verificare che il sindaco e la giunta esercitino correttamente la loro attività di governo. Come più sopra già affermato, ogni limitazione all'esercizio di tale diritto dovrà essere attentamente valutata e motivata, al fine di dettare una disciplina sulle modalità attuative di tale diritto che non restringa in modo ingiustificato l'utilizzo di strumenti che sono istituzionalmente riconosciuti ai consiglieri comunali.
Si rileva, comunque, che il diritto dei consiglieri in oggetto non può essere esercitato con modalità tali da pregiudicare lo svolgimento dell'attività amministrativa e l'ordinario funzionamento delle strutture burocratiche dell'ente, in modo da assurgere a comportamento di carattere emulativo e paralizzante dell'attività dello stesso. Di conseguenza, si reputa che, allo scopo di salvaguardare le esigenze di operatività degli uffici, sia possibile regolamentare le modalità di esercizio del diritto di sindacato ispettivo spettante ai consiglieri.
Una forma di regolamentazione ammissibile si ritiene possa riguardare le istanze caratterizzate da ripetitività rispetto ad altre già presentate a vicina distanza di tempo. A tal fine l'Ente potrebbe modificare il proprio regolamento per il funzionamento del consiglio comunale integrando, ad esempio, la previsione di cui all'articolo 28 afferente il 'rigetto delle interrogazioni, interpellanze, mozioni e ordini del giorno' e inserendo, quale ulteriore ipotesi di rigetto, il caso di presentazione di istanze meramente ripetitive.
Si ritiene, infine, che l'esercizio del diritto in riferimento, nei termini sopra riportati, difficilmente possa comportare l'insorgere di responsabilità erariale da segnalare alla Corte dei Conti (16.09.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso spese legali a dipendente pubblico nel caso di archiviazione per prescrizione da parte del G.I.P. (parere 04.06.2014 n. 240745 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulle procedure concorsuali nella p.A. (parere 15.04.2014 n. 169698 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2014).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Sulla quantificazione del danno all'immagine della P.A. per reato di concussione.
1. L’art. 1, comma 1-sexies della L. n. 20/1994, introdotto dall’art. 1, comma 62, della L. n. 190/2012, il quale prevede che il danno all’immagine si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale o di altra utilità percepita dal dipendente, è norma sostanziale e, pertanto, non può trovare applicazione per i danni erariali realizzatisi prima dell'entrata in vigore di quest'ultima legge.
2. Qualora, in caso di concussione, l’Amministrazione abbia rimosso il dipendente dalle sue funzioni entro pochi giorni dalla notizia del reato, lo strepitus fori causativo di danno all’immagine è stato limitato e circoscritto; pertanto esso va quantificato equitativamente nella metà della somma illecitamente percepita dal dipendente
(massima tratta da www.lexitalia.it).
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3. Fondata –ma, come si vedrà nel prosieguo, priva di effetti pratici– è la deduzione difensiva secondo la quale, mentre potrebbe essere causativa di danno all’immagine la condotta criminosa di cui all’art. 317 c.p. (concussione) non altrettanto potrebbe dirsi dell’imputazione di cui all’art. 615-ter, comma 2, n. 1 c.p. (accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico). In effetti, l’art. 30-ter del citato D.L. n. 78/2009, nel ridefinire l’ipotesi del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, ha stabilito che “le Procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27.03.2001, n. 97”.
Tale ultima disposizione normativa stabilisce che “la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’art. 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro 30 giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato”. Si tratta di norma che, peraltro, ha superato il vaglio della Corte Costituzionale la quale, con sentenza n. 355/2010, ha dichiarato inammissibili le relative questioni di costituzionalità.
Alla stregua di siffatto quadro normativo
deve essere disattesa la giurisprudenza minoritaria di questa Corte (Sez. Toscana, n. 332/2012) che ha continuato ad ammettere il danno all’immagine anche per i reati non contemplati nel citato art. 7, non solo perché in contrasto con l’interpretazione che del citato art. 17, comma 30-ter, del D.L. n. 78/2009 ha dato il giudice delle leggi, ma anche per il chiaro dettato normativo della stessa disposizione, alla quale non potrebbe essere attribuito alcun altro significato ragionevole.
Mentre dunque si deve inferire che la presente azione erariale può essere esperita unicamente in relazione alla condanna per l’art. 317 c.p. e non anche 615-ter, comma 2, n. 1, come già anticipato, la questione è sostanzialmente priva di effetto pratico in quanto, come emergerà più ampiamente in sede di disamina della prova e quantificazione del danno, il clamor fori conseguente ai fatti delittuosi di che trattasi è derivato essenzialmente dalla concussione, mentre l’illecita introduzione nei sistemi informatici da parte del M. è stata strumentale alla consumazione del primo reato ed intimamente connessa con esso.
4. Come è andato emergendo nella parte in “fatto”, la difesa del convenuto ha contestato i criteri di quantificazione del danno all’immagine, i quali sono stati tratti in applicazione dell’art. 1, comma 62, della L. n. 190/2012: tale norma non sarebbe, infatti, applicabile al caso concreto, giacché norma sostanziale, non applicabile per i fatti di causa occorsi prima della sua entrata in vigore.
L’eccezione è fondata. Infatti,
per “norma processuale” deve intendersi una disposizione che regoli le fasi processuali e che, entrando in vigore nel corso del processo medesimo, trovi immediata applicazione, nel senso che è destinata a regolare le fasi non ancora compiute, rimodulandole, implementandole o, addirittura, escludendole. Norme tipicamente processuali sono, dunque, quelle che attengono ai modi ed ai termini per l’assunzione delle prove (ad esempio, quelle contenute nel Libro II, Titolo I, Capo II, Sezione III del Codice di procedura civile e, segnatamente, quelle concernenti l’assunzione e l’esibizione delle prove di cui agli artt. 202 e ss. c.p.c.); per contro appartengono al diritto sostanziale quelle che attengono all’efficacia ed ai limiti della loro ammissibilità, ai vincoli inerenti alla loro disponibilità ed al loro eventuale valore legale (Cass. civ. Sez. III, n. 2879/1979).
Costituiscono pertanto norme sostanziali quelle che concernono la quantificazione del danno da inadempimento e da illecito (artt. 1223, 1226, 1227 e 2056 c.c.) non tanto perché ricomprese nel codice civile, quanto perché attinenti alla misura degli effetti dannosi dell’inadempimento o dell’illecito extracontrattuale e per le quali vige il principio generale dell’irretroattività della legge (art. 11, comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile).
Nello specifico, per quel che interessa, è sicuramente norma di diritto sostanziale l’art. 1226 c.c., in tema di valutazione equitativa del danno da inadempimento, di cui l’art. 1, comma 62, della L. n. 190/2012 –nello stabilire che il danno all’immagine si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale o di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente- costituisce un’applicazione.
Non soccorrendo dunque detto criterio di quantificazione del danno all’immagine –il quale, va detto incidentalmente, ha carattere di presunzione semplice–
non può che farsi ricorso ai criteri adottati dalla giurisprudenza di questa Corte, per determinare l’entità del clamor fori, tra i quali vanno principalmente annoverati: - la funzione rivestita dal convenuto in seno all’Amministrazione di appartenenza; l’ammontare della somma oggetto di concussione; - la sussistenza di uno strascico di ricorsi amministrativi o giurisdizionali contro eventuali provvedimenti sanzionatori; - le eventuali spese sostenute dall’Amministrazione per il ripristino della funzione lesa dall’atto delittuoso (Sez. I Appello, n. 976/2013 e n. 494/2010; Sez. II Appello, n. 461/2010; Sez. III Appello, n. 132/2011).
Peraltro, solo per tale ultima ipotesi di danno all’immagine, il risarcimento può essere puntualmente quantificato (ad esempio, nella misura delle spese sostenute dall’Amministrazione per un’inserzione pubblicitaria di rettifica di una notizia infondata), mentre negli altri casi esso è soggetto ad una necessaria valutazione equitativa.
Ebbene, riguardando i fatti di causa alla luce dai predetti indicatori, emerge che il danno all’immagine conseguito al reato di concussione consumato dal M., sebbene sicuramente sussistente, non ha assunto i caratteri di gravità individuati dal Pubblico Ministero.
Con riguardo, infatti, al clamor fori inteso come propagazione sociale del fatto illecito, risponde al vero il rilievo difensivo secondo il quale l’Amministrazione di appartenenza ha immediatamente sanzionato il convenuto col licenziamento (in data 20.11.2011, sedici giorni dopo il suo arresto), dandone tempestiva comunicazione alla stampa e limitando così gli effetti della negativa risonanza sociale che l’episodio delittuoso aveva sollevato. Né, a tale riguardo, può rilevare che siffatto effetto riduttivo del danno all’immagine sia da attribuirsi proprio all’Amministrazione danneggiata e non ad un’azione del convenuto: ciò in ragione della natura risarcitoria e non sanzionatoria del danno di cui si discute, del quale deve essere quantificata l’effettiva portata lesiva.
A ciò aggiungasi –come correttamente rilevato dalla difesa convenuta– che il M. ha mostrato acquiescenza ai provvedimenti sanzionatori inflittigli dall’Amministrazione, con ciò sicuramente contribuendo a sopìre il propagarsi della risonanza sociale del reato commesso.
Per quanto concerne, invece, la posizione funzionale del convenuto, la Procura regionale non ha contestato che egli non rivestisse alcuna posizione di rilievo in seno all’Amministrazione di appartenenza (dipendente di II area F3) e che egli abbia agito nell’ambito di un limitato segmento di competenza ed anzi travalicando i limiti stessi delle sue funzioni, giacché è riuscito a perpetrare il reato concussivo con l’ausilio dell’accesso abusivo agli strumenti informatici in dotazione all’Amministrazione finanziaria: sicché è stato scongiurato il sopravvenire del convincimento sociale che episodi criminosi di tale fatta fossero radicati o trovassero copertura negli alti vertici burocratici dell’apparato amministrativo.
In ordine, infine, al profitto conseguito dal convenuto, la somma che egli ha illecitamente conseguito con la propria attività delittuosa non è stata particolarmente rilevante (a fronte di analoghi episodi), ma nemmeno irrisoria o trascurabile, di talché si può ritenere che tale specifico elemento assuma valenza neutra nella determinazione del danno all’immagine.
In definitiva, dopo avere soppesato tutti i predetti fattori,
può trarsi la conclusione che la negatività dell’impatto sociale derivato dall’episodio criminoso occorso si sia in larga parte riversata proprio sulla persona del M. e solo parzialmente nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.
Alla stregua di tali considerazioni ed attingendo alla possibilità di quantificazione in via equitativa,
è di giustizia quantificare il danno all’immagine nella metà della somma oggetto del reato per cui è occorsa condanna penale; somma che va rivalutata sin dalla data in cui il M. è stato tratto in arresto, momento che segna l’esordio del clamor fori, alla stregua di quanto più sopra argomentato.
5. In via ulteriormente subordinata la difesa ha dedotto l’improcedibilità dell’azione per il principio del ne bis in idem, dal momento che il Tribunale di Cagliari, con ordinanza del 09.12.2013, ha confiscato al convenuto la somma di € 39.950,00 ai sensi dell’art. 322-ter c.p. Tale misura, infatti, avrebbe carattere prevalentemente sanzionatorio, al pari della condanna conseguente al danno all’immagine; per cui –laddove il presente giudizio si concludesse con una sentenza di condanna- vi sarebbe una duplicazione dell’effetto sanzionatorio già insito nella confisca.
La deduzione difensiva non può essere condivisa.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza della Cassazione,
la confisca per equivalente dei beni e del denaro che hanno costituito il profitto o il prezzo del reato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 322-ter e 640-quater c.p., costituisce una misura di sicurezza patrimoniale, che assume carattere preventivo e sanzionatorio: essa tende, infatti, a prevenire la commissione di nuovi reati mediante l’acquisizione a favore dello Stato di beni che perpetuerebbero la tendenza a delinquere (Cass. pen. Sez. III, n. 18311/2014 e Sez. II, n. 5553/2014).
E tale funzione eminentemente sanzionatoria è stata rilevata anche dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato come detto strumento non ha la natura risarcitoria tipica della condanna in sede amministrativo-contabile, non risolvendosi automaticamente in un risarcimento per l’Amministrazione danneggiata: tale misura può, infatti, assumere, come estrema finalità, una forma di ristoro del soggetto privato danneggiato, per il tramite di appositi fondi all’uopo costituiti (Sez. Lazio, n. 1463 del 2004; Sez. Umbria, n. 76 del 2008).
Ne consegue, dunque, che la presente sentenza di condanna non costituisce una duplicazione della disposta confisca (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna, sentenza 02.09.2014 n. 173).

INCENTIVO PROGETTAZIONELe Sezioni Riunite, pronunciandosi -oltre che sull’art. 92, comma 5, dlgs 163/2006- sul disposto dell’art. 1, comma 208, l. 266/2005 (a mente del quale le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali dovuti al personale dell’Avvocatura interna delle pubbliche amministrazioni sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro), hanno precisato che l’espressione “oneri riflessi”, contenuta nella disposizione, non comprende l’IRAP che costituisce un onere fiscale a carico esclusivo dell’amministrazione.
In particolare,
le Sezioni Riunite osservano che “…..anche l’interpretazione sistematica delle disposizioni all’esame è confermativa della soluzione che esclude la riconducibilità dell’IRAP nell’ambito degli “oneri riflessi”. Sia la Corte dei conti (nelle deliberazioni citate), che il Consiglio di Stato (adunanza plenaria sent. n. 32 del 1994) ritengono che i compensi professionali da corrispondere a titolo di onorari ai dipendenti comunali appartenenti all’Avvocatura interna, oltre che al personale tecnico, costituiscono parte della retribuzione; sicché, per detti soggetti, non si realizzano i presupposti per l’applicazione dell’IRAP, dato che tali soggetti sono privi di autonoma organizzazione….Infatti, il presupposto impositivo dell’IRAP si realizza in capo all’ente che eroga il compenso di lavoro dipendente, il quale rappresenta il soggetto passivo dell’imposta, cioè colui che, nella valutazione del legislatore, in quanto titolare di detta organizzazione è tenuto a concorrere alle spese pubbliche, ai fini di detto tributo; conseguentemente l’onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente in relazione a compensi di natura retributiva (Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 123/E del 02.04.2008) bensì unicamente sul datore di lavoro”.
Come osservato dalla Sezione regionale per il controllo per l’Umbria, “
Il principio di diritto affermato dalla SS.RR. comporta, pertanto, che l’inclusione dell’Irap nel fondo disponibile per il pagamento delle competenze all’avvocatura interna rappresenta un fatto puramente contabile che non incide assolutamente sulla liquidazione dei compensi professionali. Ciò nel senso che non vi è alcuna decurtazione dei compensi professionali degli avvocati interni, semmai una riduzione (a monte), e in proporzione all’ammontare Irap, delle risorse che, in base alla regolamentazione interna, sono distribuibili tra detti dipendenti a titolo di compensi professionali. E’ quanto stabilito dalle SS.RR nella deliberazione anzi citata, laddove si osserva che “le disponibilità di bilancio da destinare ai “fondi” da ripartire non possono che essere quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che gravano sull’amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto comma, Cost.)".
Di conseguenza: “
nel calcolo del fondo di incentivazione destinato (o destinabile) agli avvocati interni deve tenersi conto anche della relativa quota IRAP, il cui importo l’Amministrazione sarà tenuto ad accantonare per far fronte agli obblighi tributari…… Invero, il preventivo accantonamento, nell’ambito del fondo di incentivazione, delle somme dovute dall’ente datore di lavoro per far fronte agli obblighi tributari (ivi compresa l’Irap) relativi ai compensi professionali spettanti agli avvocati interni, comporta il divieto di operare qualsiasi trattenuta (per la quota dovuta dall’ente a titolo di Irap o di altri tributi) in sede di liquidazione dei compensi medesimi, avendo l’ente già garantito adeguata copertura finanziaria agli obblighi in questione, che pertanto gravano definitivamente sul bilancio dell’ente.”
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Il Sindaco del Comune di Bari formula un articolato parere in merito ai compensi professionali ed alle spese di trasferta spettanti agli avvocati civici, in applicazione delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 457, l. 147/2013 ed all’art. 6, comma 12, l. 78/2010 conv. in l. 122/2010, nonché in merito all’assoggettamento dei menzionati compensi ai vincoli di cui agli artt. 1, comma 557, l. 296/2006 e 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010.
In particolare, il Sindaco formula i seguenti quesiti:
1) se, in relazione alla disposizione di cui all’art. 1, comma 457, l. 147/2013 (a mente della quale “A decorrere dal 01.01.2014 e fino al 31.12.2016, i compensi professionali liquidati, esclusi, nella misura del 50 per cento, quelli a carico della controparte, a seguito di sentenza favorevole per le pubbliche amministrazioni ai sensi del regio decreto-legge 27.11.1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.01.1934, n. 36, o di altre analoghe disposizioni legislative o contrattuali, in favore dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti nella misura del 75 per cento. Le somme provenienti dalle riduzioni di spesa di cui al presente comma sono versate annualmente dagli enti e dalle amministrazioni dotate di autonomia finanziaria ad apposito capitolo di bilancio dello Stato. La disposizione di cui al precedente periodo non si applica agli enti territoriali e agli enti, di competenza regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano, del Servizio sanitario nazionale”) la decurtazione ivi prevista vada operata con il criterio della competenza finanziaria, sui compensi che, nel triennio 2014-2016, verranno a scadenza e saranno liquidati dall’amministrazione comunale con proprio atto deliberativo, in base ai presupposti di cui agli artt. 37 CCNL 23.12.1999 e 27 CCNL 14.09.2000 ed al Regolamento Comunale sui compensi professionali ai legali in servizio presso l’avvocatura (deliberazioni di G.C. n. 403 del 15.05.2003 e n. 86 del 09.02.2006) oppure se il termine “liquidati” contenuto nel testo normativo vada inteso con riferimento al provvedimento giudiziale, con la conseguenza che la norma si applicherebbe solo ai compensi liquidati dal giudice in base a sentenze depositate dopo il 01.01.2014.
Chiede, altresì, se le somme provenienti dalle riduzioni di spesa derivati dalla disposizione in esame possano confluire nel fondo per il trattamento accessorio per il personale dipendente, analogamente a quanto previsto dall’art. 61, co. 9, d.l. 112/2008 (collaudi ed arbitrati) oppure tali somme debbano essere acquisite al bilancio comunale, in analogia alla disciplina dettata per il bilancio dello Stato.
Chiede, infine, se l’onere per il pagamento dell’IRAP afferente ai compensi per gli avvocati interni debba essere finanziato a valere sui compensi liquidati dal giudice, non potendo costituire un onere aggiuntivo per l’ente, oppure debba calcolarsi sui compensi liquidati dal giudice e, quindi, con onere a carico dell’Ente;
2) se, in relazione al disposto dell’art. 6, comma 12, d.l. 78/2010 (“A decorrere dall'anno 2011 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, incluse le autorità indipendenti, non possono effettuare spese per missioni, anche all'estero, con esclusione delle missioni internazionali di pace e delle Forze armate, delle missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale di magistratura, nonché di quelle strettamente connesse ad accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare la partecipazione a riunioni presso enti e organismi internazionali o comunitari, nonché con investitori istituzionali necessari alla gestione del debito pubblico, per un ammontare superiore al 50 per cento della spesa sostenuta nell'anno 2009. Gli atti e i contratti posti in essere in violazione della disposizione contenuta nel primo periodo del presente comma costituiscono illecito disciplinare e determinano responsabilità erariale. Il limite di spesa stabilito dal presente comma può essere superato in casi eccezionali, previa adozione di un motivato provvedimento adottato dall'organo di vertice dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente”) le spese di trasferta degli avvocati civici per la difesa delle dell’amministrazione comunale presso i vari distretti di Corte d’Appello abbiano natura giuridica di “spese di missione” con assoggettamento al limite di cui all’art. 6, co. 12 oppure, trattandosi di spese obbligatorie da assumere per la regolare costituzione in giudizio e patrocinio dell’Ente, possano essere considerati oneri e spese accessorie per l’attività professionale svolta e, di conseguenza, suscettibili di essere disciplinate (sul piano di limiti, presupposti e modalità di liquidazione) dal Regolamento Comunale sui compensi professionali ai legali in servizio presso l’avvocatura con assimilazione contabile alle spese di lite;
3) se, in relazione al disposto dell’art. 1, comma 557, l. 296/2006 (“Ai fini del concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali, garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, con azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia e rivolte, in termini di principio, ai seguenti ambiti prioritari di intervento: a) riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti, attraverso parziale reintegrazione dei cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile; b) razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative, anche attraverso accorpamenti di uffici con l'obiettivo di ridurre l'incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali in organici; c) contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, tenuto anche conto delle corrispondenti disposizioni dettate per le amministrazioni statali”) gli incentivi professionali ex art. 27 CCNL 23.12.1999 e art. 37 CCNL 14.09.2000 siano da escludere totalmente dal computo ai fini del tetto di spesa del personale oppure, essendo spese autofinanziate solo quelle derivati da cause con vittoria di spese a carico della controparte, nel calcolo della spesa del personale vadano escluse solo queste ultime, mentre vi dovrebbero rientrare i compensi dovuti con riferimento a sentenze favorevoli con spese compensate, essendo queste a carico dell’Ente;
4) se, in relazione al disposto dell’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/10 conv. il l. 122/2010 (“A decorrere dal 01.01.2011 e sino al 31.12.2014 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio”) nel calcolo del limite del fondo per la contrattazione integrativa, siano da escludere totalmente i compensi dovuti all’avvocatura interna oppure l’esclusione vada circoscritta ai soli compensi derivati da cause con vittoria di spese a carico della controparte, trattandosi di spese eterofinanziate, mentre rimangono a carico del bilancio dell’Ente i compensi relativi a sentenze favorevoli con compensazione di spese.
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Passando al merito della richiesta, il Comune istante pone una serie di questioni relative all’interpretazione di alcune disposizioni che dettano vincoli e limiti in materia di compensi professionali spettanti all’avvocatura interna e, più in generale, vincoli e limiti in materia di spesa del personale.
Con il primo quesito, l’Ente chiede se la decurtazione prevista dall’art. 1, comma 457, l. 147/2013 (legge di stabilità 2014) operi con riferimento ai compensi che, nel triennio 2014-2016, verranno a scadenza e saranno liquidati dall’amministrazione comunale con proprio atto deliberativo -sulla base di quanto previsto dagli artt. 37 CCNL 23.12.1999 (area dirigenza) e 27 CCNL 14.09.2000 (personale del comparto) nonché dal regolamento comunale sui compensi professionali ai legali dell’avvocatura interna (deliberazioni di GC n. 403 del 15.03.2003 e n. 86 del 9.02.2006)- oppure operi con riferimento ai compensi liquidati dal giudice in base a sentenze depositate successivamente all’entrata in vigore della disposizione.
L’art. 1, comma 457, legge di stabilità 2014 prevede, in un’ottica di risparmio di spesa, che, per il triennio 2014-2016, le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. 165/2001, dotate di personale di avvocatura interna, corrispondano nella misura del 75% “i compensi professionali liquidati, esclusi, nella misura del 50%, quelli a carico della controparte, a seguito di sentenza favorevole per le pubbliche amministrazioni ai sensi del regio decreto-legge 27.11.1933 n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.01.1934 n. 36, o di altre analoghe disposizioni legislative o contrattuali”.
La disposizione prevede, altresì, che “Le somme provenienti dalle riduzioni di spesa di cui al presente comma sono versate annualmente dagli enti e dalle amministrazioni dotate di autonomia finanziaria ad apposito capitolo di bilancio dello Stato”. Quest’ultima disposizione ha un ambito si applicazione espressamente circoscritto alle sole amministrazioni statali, essendo previsto che “La disposizione di cui al precedente periodo non si applica agli enti territoriali e agli enti, di competenza regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano, del Servizio sanitario nazionale”.
Ciò posto, in via preliminare occorre precisare che il rinvio, contenuto nella disposizione in esame, alla legge 22.01.1934 n. 36 deve essere inteso come relativo alla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, introdotta con legge del 31.12.2012 n. 247, in vigore dall’01.02.2013 (a cui si affiancano l’abrogazione del sistema tariffario di determinazione dei compensi dell’avvocatura operata con d.l. 24.01.2012 n. 1 conv. in l. 24.03.2012 n. 27 nonché la previsione introdotta con d.m. 140/2012 di determinazione dei parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi), trattandosi di un rinvio c.d. “mobile” o “recettizio”, come si desume dal riferimento alle altre “analoghe disposizioni legislative e contrattuali” che appalesa l’intenzione del legislatore di richiamarsi non tanto e non solo al singolo testo di legge, ma all’intero corpus disciplinante l’ordinamento della professione forense.
Passando all’esame del quesito avanzato dal Comune, la disposizione in esame è suscettibile di due diverse interpretazioni, potendo il termine “liquidati” essere riferito sia ai compensi professionali pagati dall’amministrazione nel triennio di interesse (01.01.2014-31.12.2016), a prescindere dalla data di deposito della sentenza favorevole (e, quindi, anche in relazione a sentenze pubblicate prima dell’entrata in vigore della legge), sia ai compensi liquidati dal giudice nell’arco triennale di riferimento, con la conseguenza che- stante l’irretroattività della disposizione ai sensi dell’art. 11 disp. prel. c.c. - rimarrebbero esclusi dalla decurtazione le somme dovute in base a sentenza depositate prima del 01.01.2014.
A parere di questa Sezione, in assenza di espresse indicazioni legislative, l’interpretazione preferibile è quella che ancora il termine “liquidati” al provvedimento giudiziale, atteso che spetta al giudice il potere di liquidazione delle spese in sentenza, mentre l’amministrazione procede alla corresponsione delle somme già in precedenza liquidate. A norma dell’art 91 c.p.c., infatti, “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”, mentre, in base al disposto del successivo art. 92 c.p.c. “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.
La liquidazione delle spese processuali, così come la compensazione delle stesse, è espressione di un potere discrezionale del giudice, insindacabile in sede di legittimità, salvo i casi di violazione del principio della soccombenza (cfr., tra le altre, Cass., sez. VI, ord. 7654/2013, Cass., sez I, n. 14542/2011 e C.d.S, sez. VI ,n. 7581/2005, secondo cui la statuizione del giudice prime cure sulle spese sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisce espressione di un ampio potere discrezionale).
A conferma di quanto sopra, si osserva che sia l’art. 37 CCNL 23.12.1999 che l’art. 27 CCNL 14.09.2000, nel riferirsi alla disciplina dei compensi spettanti all’avvocatura interna, prevedono espressamente che gli enti locali procedano alla mera corresponsione dei compensi, già liquidati dal giudice in sentenza: “Gli enti provvisti di Avvocatura costituita secondo i rispettivi ordinamenti disciplinano la corresponsione dei compensi professionali, dovuti a seguito di sentenza favorevole all’ente, secondo i principi di cui al regio decreto legge 27.11.1933 n. 1578 valutando l’eventuale esclusione, totale o parziale, dei dirigenti interessati, dalla erogazione della retribuzione di risultato”.
Siffatta interpretazione risulta, inoltre, suffragata da quanto sancito dall’art. 152-bis disp. att c.p.c. (introdotto dall’art 4 comma 42 l. 183/11, legge di stabilità 2013) che, sotto la rubrica “liquidazione di spese processuali”, dispone: “Nelle liquidazioni delle spese di cui all'art. 91 del codice di procedura civile a favore delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, se assistite da propri dipendenti ai sensi dell'articolo 417-bis del codice di procedura civile, si applica la tariffa vigente per gli avvocati, con la riduzione del 20 per cento degli onorari di avvocato ivi previsti”, con ciò confermando che la liquidazione a favore della parte vittoriosa trova la propria base normativa nell’art. 91 c.p.c, che disciplina il potere giudiziale di liquidazione.
In assenza di precise indicazione ad opera del legislatore,
si deve, pertanto, preferire un’interpretazione della disposizione coerente con il sistema, con la conseguenza che, essendo la liquidazione delle spese un tipico potere/dovere che il giudice esercita in sentenza, deve ritenersi che la decurtazione riguardi solo i compensi liquidati con sentenze depositate dopo il 01.01.2014, mentre rimangono esclusi i compensi liquidati con sentenze antecedenti, anche se corrisposti dall’ente in epoca successiva al sopra menzionato termine.
Il quesito posto Comune di Bari in merito all’interpretazione dell’art. 1, comma 457, l. 147/2013 si articola, inoltre, in due ulteriori sotto-quesiti, essendo richiesto a questa Sezione:
a) se le somme provenienti dalle riduzioni di spesa possano confluire nel fondo per il trattamento accessorio per il personale dipendente, analogamente a quanto previsto dall’art. 61, comma 9, d.l. 112/2008 in materia di collaudi ed arbitrati oppure se tali somme debbano essere acquisite al bilancio comunale in analogia con la disciplina dettata per il bilancio dello Stato;
b) se l’onere per il pagamento dell’IRAP afferente ai compensi per gli avvocati interni debba essere finanziato a valere sui compensi liquidati dal giudice, non potendo costituire un onere aggiuntivo per l’Ente, oppure debba calcolarsi sui compensi liquidati dal giudice e, quindi, con onere a carico dell’Ente.
Quanto al profilo sub a), l’art. 1, comma 457, dopo aver previsto che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa così disposte debbano essere versate annualmente dagli enti e dalle amministrazioni dotate di autonomia finanziaria ad apposito capitolo di bilancio dello Stato, espressamente esclude siffatto obbligo con riferimento, tra l’altro, agli enti territoriali. L’esclusione deve essere intesa, logicamente, nel senso che le risorse di cui sopra vengono trattenute nel bilancio dell’Ente.
Per contro, non sembra possibile far confluire le risorse in questione nel fondo per il trattamento accessorio del personale dipendente poiché, contrariamente a quanto disposto dall’art. 61, co. 9, d.l. 112/2008 (ove si legge espressamente: “il predetto importo è riassegnato al fondo di amministrazione per il finanziamento del trattamento economico accessorio dei dirigenti”), siffatta finalizzazione non risulta prevista da alcuna disposizione di legge (cfr. art. 15, comma 1, lett. k, CCNL 01.04.1999 e Sezioni Riunite n. 51/CONTR/2011, paragrafo 3 della motivazione; in tal senso, anche l’Aran-Ral1047 orientamenti applicativi- che esclude dal campo di applicazione dell’art. 15, lett. k, del CCNL 01.04.1999 le risorse destinate al finanziamento del compenso in esame in quanto la norma contrattuale fa riferimento solo alle risorse che specifiche disposizioni di legge finalizzano alla incentivazione di prestazioni o di risultati del personale e nel caso di specie “non solo non vengono in considerazione risorse previste da specifiche fonti legislative e finalizzate all’incentivazione del personale, ma i compensi dei professionisti legali, di cui all’art. 27 del CCNL del 14.09.2000, non sono neppure oggetto di contrattazione né per l’individuazione dei destinatari né per ciò che attiene alla misura ed alle modalità di erogazione degli stessi”).
Passando alla soluzione del quesito sub b), si ricorda che sul punto sono intervenute le Sezioni Riunite, con una pronuncia di orientamento generale a cui tutte le Sezioni regionali sono tenute a conformarsi (deliberazione n. 33/CONTR/2010).
Più precisamente,
le Sezioni Riunite, pronunciandosi -oltre che sull’art. 92, comma 5, dlgs 163/2006- sul disposto dell’art. 1, comma 208, l. 266/2005 (a mente del quale le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali dovuti al personale dell’Avvocatura interna delle pubbliche amministrazioni sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro), hanno precisato che l’espressione “oneri riflessi”, contenuta nella disposizione, non comprende l’IRAP che costituisce un onere fiscale a carico esclusivo dell’amministrazione.
In particolare,
le Sezioni Riunite osservano che “…..anche l’interpretazione sistematica delle disposizioni all’esame è confermativa della soluzione che esclude la riconducibilità dell’IRAP nell’ambito degli “oneri riflessi”. Sia la Corte dei conti (nelle deliberazioni citate), che il Consiglio di Stato (adunanza plenaria sent. n. 32 del 1994) ritengono che i compensi professionali da corrispondere a titolo di onorari ai dipendenti comunali appartenenti all’Avvocatura interna, oltre che al personale tecnico, costituiscono parte della retribuzione; sicché, per detti soggetti, non si realizzano i presupposti per l’applicazione dell’IRAP, dato che tali soggetti sono privi di autonoma organizzazione….Infatti, il presupposto impositivo dell’IRAP si realizza in capo all’ente che eroga il compenso di lavoro dipendente, il quale rappresenta il soggetto passivo dell’imposta, cioè colui che, nella valutazione del legislatore, in quanto titolare di detta organizzazione è tenuto a concorrere alle spese pubbliche, ai fini di detto tributo; conseguentemente l’onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente in relazione a compensi di natura retributiva (Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 123/E del 02.04.2008) bensì unicamente sul datore di lavoro”.
Resta fermo, peraltro, che gli enti che corrispondono compensi professionali alle avvocature interne sono tenuti, sul piano contabile, a provvedere ed accantonare nei fondi gli importi necessari a fronteggiare il pagamento dell’IRAP, rendendoli indisponibili.
Come osservato dalla Sezione regionale per il controllo per l’Umbria, “
Il principio di diritto affermato dalla SS.RR. comporta, pertanto, che l’inclusione dell’Irap nel fondo disponibile per il pagamento delle competenze all’avvocatura interna rappresenta un fatto puramente contabile che non incide assolutamente sulla liquidazione dei compensi professionali. Ciò nel senso che non vi è alcuna decurtazione dei compensi professionali degli avvocati interni, semmai una riduzione (a monte), e in proporzione all’ammontare Irap, delle risorse che, in base alla regolamentazione interna, sono distribuibili tra detti dipendenti a titolo di compensi professionali. E’ quanto stabilito dalle SS.RR nella deliberazione anzi citata, laddove si osserva che “le disponibilità di bilancio da destinare ai “fondi” da ripartire non possono che essere quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che gravano sull’amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto comma, Cost.)” (Sezione regionale per il controllo Umbria, deliberazione n. 25/PAR/2014, nello stesso senso: Sezione regionale per il controllo Lombardia, deliberazione n. 73/PAR/2012, Sezione regionale per il controllo Basilicata, deliberazione n. 115/PAR/2013, Sezione regionale per il controllo Sardegna, deliberazione n. 18/PAR/2012 ).
Di conseguenza: “
nel calcolo del fondo di incentivazione destinato (o destinabile) agli avvocati interni deve tenersi conto anche della relativa quota IRAP, il cui importo l’Amministrazione sarà tenuto ad accantonare per far fronte agli obblighi tributari…… Invero, il preventivo accantonamento, nell’ambito del fondo di incentivazione, delle somme dovute dall’ente datore di lavoro per far fronte agli obblighi tributari (ivi compresa l’Irap) relativi ai compensi professionali spettanti agli avvocati interni, comporta il divieto di operare qualsiasi trattenuta (per la quota dovuta dall’ente a titolo di Irap o di altri tributi) in sede di liquidazione dei compensi medesimi, avendo l’ente già garantito adeguata copertura finanziaria agli obblighi in questione, che pertanto gravano definitivamente sul bilancio dell’ente.”
Le coordinate tracciate dalla giurisprudenza contabile sopra richiamata inducono ad affermare che l’Irap debba calcolarsi sui compensi liquidati dal giudice, stante l’obbligo di preventivo accantonamento nell’ambito del fondo di incentivazione.
Sotto altro profilo, si osserva che i compensi liquidati in sentenza non contemplano l’Irap, sicché una diversa interpretazione si tradurrebbe inevitabilmente in una traslazione del tributo in capo al lavoratore, in contrasto con quanto osservato dalle Sezioni Riunite,(sul presupposto dell’IRAP, cfr. Corte Cost. sent. 156/2001 “l’IRAP non è un’imposta sul reddito, bensì un’imposta di carattere reale che colpisce –come già si è osservato- il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate (……..) è evidente che nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione –il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto- risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, per l’appunto rappresentato, secondo l’art. 2, dall’"esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”, con la conseguente inapplicabilità dell’imposta stessa).
Passando all’esame del quesito n. 2, il Comune di Bari chiede se le spese di trasferta degli avvocati civici per la difesa dell’amministrazione comunale presso le Magistrature di ogni distretto di Corte d’Appello abbiano natura giuridica di spese di missione di dipendenti pubblici e siano soggette alla disciplina di cui all’art. 6, comma 12, d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010 oppure, trattandosi di spese obbligatorie da assumere per la regolare costituzione in giudizio e patrocinio dell’Ente, possano considerarsi oneri e spese accessorie per l’attività professionale svolta che potrebbero trovare disciplina nel Regolamento Comunale sui compensi professionali ai legali in servizio presso l’avvocatura ed assimilate contabilmente alle spese di lite.
Il quesito attiene all’interpretazione dell’espressione “spese di missione” contenuta nell’art. 6, comma 12, d.l. 78/2010. Siffatta disposizione si colloca nel quadro delle norme vincolistiche e restrittive con cui il legislatore, nell’ambito di una più ampia procedura di risanamento dei conti pubblici, ha cercato di ridurre le spese degli apparati politici ed amministrativi.
In particolare, l’art. 6, rubricato “Riduzione dei costi degli apparati amministrativi”, prevede che, a decorrere dall’anno 2011, le amministrazione pubbliche inserite nel conto consolidato della pubblica amministrazione di cui all’art. 1, comma 3, della l. 196/2009 (comprensivo degli enti territoriali) non possono effettuare spese per missioni in misura superiore al 50% di quella sostenuta nell’anno 2009.
La stessa disposizione, nell’introdurre il limite de quo, prevede espressamente l’esclusione per talune tipologie di spesa (missioni internazionali di pace e delle Forze armate, missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale di magistratura, quelle strettamente connesse ad accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare la partecipazione a riunioni presso enti e organismi internazionali o comunitari, nonché con investitori istituzionali necessaria alla gestione del debito pubblico) ed una deroga generale con riferimento a “casi eccezionali” (la cui individuazione in concreto spetterà all’Ente: cfr., sul punto, Sezione regionale controllo della Toscana deliberazioni n. 185/PAR/2011 e n. 249/PAR/2012, secondo cui “i casi per i quali derogare al limite di spesa non possono che essere situazioni fuori dall’ordinaria attività amministrativa ed istituzionale dell’ente che giustifichino, appunto, l’eccezionalità dello sforamento. In assenza di norme o interpretazioni in merito può essere considerata eccezionale, ad esempio, anche una spesa per una missione non sostenuta in passato e che si ritiene, in ragione della sua natura, possa essere sostenuta una tantum…..” ) a cui si accompagna l’indicazione dell’iter da seguire per l’autorizzazione al superamento (adozione di un motivato provvedimento adottato dall’organo di vertice dell’amministrazione, da comunicare preventivamente agli organi di controllo ed agli organi di revisione dell’ente).
Tale iter procedimentale per l’autorizzazione allo sforamento del tetto è strumentale a consentire un vaglio del requisito dell’eccezionalità, anche alla luce delle responsabilità disciplinare ed erariale scaturenti dalla violazione ingiustificata del limite, come previsto dal medesimo art. 6, comma 12 (“Gli atti e i contratti posti in essere in violazione della disposizione contenuta nel primo periodo del presente comma costituiscono illecito disciplinare e determinano responsabilità erariale”).
In materia di spese di missione sono intervenute a più riprese le Sezioni Riunite con deliberazioni n. 8/CONTR/2011, 9/CONTR/2011 e 21/CONTR/2011 le quali hanno, da un lato chiarito, come l’art. 6 in esame abbia limitato le spese connesse al trattamento di missione, “ossia ai trasferimenti effettuati per conto dell’amministrazione di appartenenza per l’espletamento di funzioni ed attività da compiere fuori sede” (deliberazione n. 9/CONTR/2011) e, dall’altro lato, precisato- con riferimento all’uso del mezzo proprio da parte del dipendente- che ”
il dipendente che intenda avvalersi del mezzo proprio, al fine di rendere più agevole il proprio spostamento, potrà comunque conseguire l’autorizzazione da parte dell’amministrazione, con il limitato effetto di ottenere la copertura assicurativa dovuta in base alle disposizioni vigenti. Le disposizioni interne delle singole amministrazioni potranno prevedere, in caso di autorizzazione all’uso del mezzo proprio, un indennizzo corrispondente alla somma che il dipendente avrebbe speso se fosse ricorso ai mezzi pubblici, ove ciò determini un più efficace espletamento dell’attività, garantendo, ad esempio, un più rapido rientro in servizio, risparmi del pernottamento, l’espletamento di un numero maggiore di interventi” (deliberazione n. 8/CONTR/2011).
Le Sezioni Riunite nella successiva deliberazione n. 21/CONTR/2011 hanno, inoltre, osservato che ”
va affermata l’impossibilità per l’amministrazione di reintrodurre, attraverso una regolamentazione interna, il rimborso delle spese sostenute dal dipendente sulla base delle indicazioni fornite dal disapplicato art. 8 della legge n. 417 del 1988. Tale modo di operare, infatti, costituirebbe una chiara elusione del dettato e della ratio del disposto del richiamato art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78 del 2010.” La giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo si è successivamente conformata alle statuizioni appena richiamate: Sezione regionale controllo Toscana deliberazioni n. 183/PAR/2011 e n. 249/PAR/2012, Sezione regionale controllo Veneto deliberazione n. 392/PAR/2011, Sezione regionale controllo Campania deliberazione n. 21/PAR/2013 Sezione regionale controllo Piemonte deliberazioni n. 390/PAR/2013 e 400/PAR/2013.
Le coordinate ermeneutiche appena esposte si attagliano anche alle spese di trasferta degli avvocati dell’Ente per il patrocinio presso i vari distretti di Corte d’Appello, trattandosi di esborsi che rientrano nel concetto di “spese di missione”, secondo la definizione fornita dalle Sezioni Riunite nella deliberazione n. 9 del 2011, sopra richiamata (“trasferimenti effettuati per conto dell’amministrazione di appartenenza per l’espletamento di funzioni ed attività da compiere fuori sede”), sicché risulta applicabile, in prima battuta, anche alle trasferte dei legali la disciplina contenuta nell’art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010.
Tuttavia, la Sezione osserva come, nel caso dell’avvocatura interna, la missione del dipendente assuma una valenza particolare, trattandosi di attività strumentale e prodromica all’esplicazione della difesa in giudizio dell’Ente ed afferendo all’esercizio di un diritto di rilievo costituzionale, al pari degli interessi alla cui tutela sono funzionalizzate le missioni espressamente escluse dalla disciplina in esame (le missioni internazionali di pace e delle Forze armate, strumentali all’attuazione dei disposti di cui agli artt. 10 e 11 Cost., le missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco strumentali alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, le missioni della magistratura, strumentali all’esercizio della funzione giurisdizionale ecc).
L’’interpretazione letterale della disposizione in esame, pertanto, si tradurrebbe in una compressione di un diritto di rilievo costituzionale (sia pure ai fini della tutela di un altro interesse di pari rango, quello degli equilibri di bilancio), sicché è necessario accedere ad una interpretazione che, oltre ad essere costituzionalmente orientata, consenta un equo contemperamento degli interessi in gioco.
D’altra parte, un’applicazione rigorosa del limite rischierebbe, in siffatta ipotesi, di radicare situazioni contrastanti con la ratio di contenimento di spesa sottesa alla disposizione in esame, costringendo l’ente a ricorrere a professionisti esterni con conseguente aggravio di costi.
Il medesimo legislatore ha ammesso una deroga al limite in presenza di situazioni eccezionali, prevedendo, come già chiarito, un iter procedimentale di approvazione tale da consentire il vaglio del presupposto dell’eccezionalità, anche al fine di valutare un’eventuale responsabilità disciplinare o erariale in caso di autorizzazione di assenza dei presupposto richiesto.
La trasferta dell’avvocato dell’Ente per patrocinare presso diversi distretti di Corte d’Appello, se non rientra nel concetto di eccezionalità previsto dalla disposizione in esame (non essendo eccezionale il patrocinio presso un’Autorità Giudiziaria situata in un distretto diverso da quello in cui è la sede dell’Ente: cfr. le conclusioni cui è pervenuta la Sezione regionale di controllo della Toscana in merito al requisito dell’eccezionalità con deliberazioni n. 185/PAR/2011 e n. 249/PAR/2012, sopra richiamate), tuttavia risponde alla medesima ratio di evitare che il formale rispetto del limite si traduca di fatto in un aggravamento di spesa per fronteggiare la situazione, finalità a cui anche la deroga prevista sul piano normativo evidentemente si ispira.
Una interpretazione formalistica, quindi, potrebbe determinare l’effetto paradossale di una moltiplicazione dei costi, laddove l’ente fosse costretto a ricorrere a professionisti esterni.
Ad identiche conclusioni, sia pure con riferimento alla diversa problematica del rispetto del limite di cui all’art. 9 comma 2-bis d.l. 78/2010, ma con argomentazioni che conservano validità anche in relazione alla questione oggetto di esame, sono pervenute le Sezioni Riunite nella deliberazione n. 51/CONTR/2011, sancendo che
sono escluse dal limite di cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 (a mente del quale l’ammontare complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale non può superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed è automaticamente ridotto in misura proporzionale alla risoluzione del personale in servizio) quelle risorse destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che, peraltro, potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno dell’amministrazione pubblica, con possibili costi aggiuntivi per i bilanci dei singoli enti. Nell’ambito delle prestazioni escluse, le Sezioni Riunite menzionano espressamente le risorse destinate a remunerare le prestazioni professionali dell’avvocatura interna.
Sotto altro profilo, si osserva che, anche in relazione alla problematica- più strettamente afferente al quesito in esame- relativa all’utilizzo del mezzo proprio, le Sezioni Riunite hanno sottolineato che occorre evitare il rischio di interpretazione applicative le quali, pur formalmente rispettose della norma, si pongano, in realtà, in contrasto con lo scopo di riduzione dei costi degli apparati amministrativi, determinando addirittura un incremento dei medesimi. In questo caso, infatti, per l’Ente è possibile “
il ricorso a regolamentazioni interne volte a disciplinare, per i soli casi in cui l’utilizzo del mezzo proprio risulti economicamente più conveniente, forme di ristoro del dipendente dei costi dallo stesso sostenuti che, però, dovranno tenere conto delle finalità di contenimento della spesa introdotte con la manovra estiva e degli oneri che in concreto avrebbe sostenuto l’ente per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto” (deliberazione n. 21/CONTR/2011)
Alla luce di quanto statuito dalla giurisprudenza contabile sopra richiamata, questa Sezione ritiene che le spese di trasferta degli avvocati civici per il patrocinio dell’Ente presso diversi distretti di Corte d’Appello abbiano natura giuridica di spese di missione e, in quanto tali, soggette al vincolo di cui all’art. 6, comma 12, d.l. 78/2010.
Tuttavia, atteso il carattere non assoluto del vincolo per le ragioni sopra esposte, si ritiene che il limite possa essere derogato allorché la missione risulti necessaria per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio e l’osservanza dello stesso determini la necessità del ricorso a professionisti esterni con aggravio di costi per il bilancio dell’Ente.
In altri termini,
solo nel caso in cui sia accertato che il rispetto limite si tradurrebbe in un effettivo aumento di costi per il bilancio dell’ente (anche in considerazione della necessità di ricorso a professionisti esterni) è consentito lo sforamento, venendo altrimenti frustrata la finalità di risparmio di spesa.
La deroga deve, infine, come correttamente osservato dalle Sezioni Riunite, “tenere conto delle finalità di contenimento della spesa introdotte con la manovra estiva” sia con riferimento alle spese di trasporto (cfr. deliberazione Sezioni Riunite n. 21/CONTR/2011, già richiamata, in relazione alla necessità per l’Ente di tenere conto degli oneri che in concreto l’ente avrebbe sostenuto per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo di mezzi di trasporto pubblici) sia con riferimento alle eventuali spese di vitto e pernottamento, la cui autorizzazione dovrà essere adottata con provvedimento rigorosamente motivato anche ai fini della valutazione dell’eventuale responsabilità disciplinare ed erariale.
Passando all’esame dei quesiti n. 3 e 4, il Comune di Bari chiede se gli incentivi professionali spettanti all’avvocatura interna ai sensi degli artt. 37 del CCNL 23.12.1999 e 27 del CCNL 14.09.2000 siano da escludere totalmente dal computo del tetto di spesa del personale previsto dall’art. 1, comma 557, della l. 296/2006 e dal vincolo previsto dall’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 oppure debbano considerarsi esclusi solo i compensi derivati da sentenze favorevoli con vittoria di spese a carico della controparte, rivestendo solo questi ultimi i caratteri di spese eterofinanziate (mentre i compensi derivanti da sentenze favorevoli con compensazioni di spese rimangono a carico del bilancio dell’Ente).
L’art. 1, comma 557, l. 296/2006 (finanziaria 2007) introduce l’obiettivo di riduzione della spesa del personale, garantendo il contenimento della dinamica retributiva ed occupazionale ed indicando espressamente gli ambiti prioritari di intervento al fine del raggiungimento dell’obiettivo del contenimento (riduzione dell’incidenza percentuale delle spese del personale rispetto al complesso delle spese correnti, razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative, contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, sul punto cfr. Sezioni Riunite deliberazione n. 27/CONTR/2011).
Le voci escluse dal computo ai fini della determinazione dell’aggregato “spesa del personale”, rilevante ai sensi dell’art. 1, comma 557, sono indicate nella tabella n. 6.3 dei questionari (quanto ai comuni sopra i 5.000 abitanti) per gli organi di revisione economico finanziaria degli enti locali relativi al rendiconto 2013 ed approvati con deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 11/SEZAUT/2014/ INPR. Nell’elenco delle voci da sottrarre all’ammontare della spesa in questione non sono compresi gli incentivi professionali spettanti all’avvocatura interna, a prescindere dalla circostanza che si tratti di somme derivanti da sentenze favorevoli con vittoria di spese a carico della controparte o di somme derivanti da sentenze favorevoli con spese compensate.
Per tali ragioni,
i compensi in questione rientrano nel computo del tetto di spesa del personale di cui all’art. 1, comma 557, l. 266/2005, a prescindere dalle statuizioni contenute in sentenza in merito alla condanna o meno alle spese di parte soccombente.
Venendo all’esame dell’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010, si osserva preliminarmente come la disposizione, da ultimo modificata dall’art. 1, comma 456, l. 147/2013, si ponga l’obiettivo di riduzione della spesa del personale, sancendo che “a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31.12.2014 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio. A decorrere dal 01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo”.
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, nella già citata deliberazione n. 51/CONTR/2011, hanno precisato che la ratio dell’art. 9 comma 2-bis, è quella di cristallizzare al 2010 il tetto di spesa relativo all’ammontare complessivo delle risorse presenti nei fondi unici che dovrebbero tendenzialmente essere destinate al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche ed, alla luce di tale ratio, non sembra possa ammettere deroghe ed esclusioni, in quanto la regola generale voluta dal legislatore è quella di porre un limite alla crescita dei fondi della contrattazione integrativa destinati alla generalità dei dipendenti dell’ente pubblico.
Tra le risorse incentivanti solo quelle destinate a remunerare prestazioni professionali per la progettazione di opere pubbliche e quelle dell’avvocatura interna devono, secondo la Sezioni Riunite, ritenersi escluse dall’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, del DL n. 78/2010 poiché trattasi di prestazioni professionali tipiche la cui provvista all’esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche, mentre le risorse che alimentano il fondo derivanti dal recupero dell’ICI o da contratti di sponsorizzazione non si sottraggono alla regola generale e devono essere computate ai fini della determinazione del tetto di spesa posto al fondo per la contrattazione integrativa dall’art. 9, comma 2 bis in quanto potenzialmente destinabili alla generalità dei dipendenti dell’ente attraverso lo svolgimento della contrattazione integrativa.
Con la successiva deliberazione n. 56/CONTR/11 del 2/11/2011, le Sezioni Riunite hanno ulteriormente precisato che “qualunque sia la fonte di finanziamento del fondo per la contrattazione, in particolare le risorse per sostenere le iniziative rivolte a migliorare la produttività, l’efficienza e l’efficacia dei servizi, non sono consentite deroghe a quanto disposto dall’art. 9, comma 2-bis” , in quanto è “chiara è l’intenzione del legislatore di ridurre la spesa di personale, anche attraverso il blocco delle risorse decentrate, blocco che non ammette in via generale alcuna deroga”.
Ciò posto, in tema di assoggettamento dei compensi professionali, derivanti da sentenze favorevoli all’Ente, al vincolo di cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 si sono espresse le Sezioni regionali di controllo di questa Corte.
Ad una prima pronuncia della Sezione regionale di controllo per l’Umbria, secondo cui rimangono assoggettati all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 i compensi a favore dell’avvocato non derivanti da condanna alle spese della controparte (deliberazione n. 3/PAR/2012, nello stesso senso Ragioneria Generale dello Stato, parere prot. 72010 del 04.09.2013), è seguita una successiva deliberazione della Sezione regionale di controllo della Liguria (deliberazione n. 86/PAR/2013) che ha incentrato la soluzione alla questione, più che sul carattere eterofinanziato dei compensi a carico della parte soccombente, sulla natura di retribuzione principale e non accessoria dei compensi professionali spettanti agli avvocati interni.
La Sezione ligure ha, infatti, osservato che “la norma citata fissa un tetto di spesa al trattamento accessorio del personale in servizio presso le pubbliche amministrazioni, ma i compensi all’esame di questo Collegio non costituiscono trattamento accessorio alla retribuzione degli avvocati alle dipendenze degli enti locali bensì rappresentano essi stessi retribuzione per l’attività professionale espletata in favore dell’ente pubblico, e pertanto è del tutto irrilevante la derivazione dei compensi dalla condanna di controparte alle spese del giudizio piuttosto che dalla loro compensazione tra le parti…….pertanto, i compensi non hanno valenza incentivante in quanto con essi non si mira ad aumentare la produttività del personale dell’avvocatura interna bensì a compensare il lavoro svolto”.
Questa Sezione ritiene che l’esclusione dei compensi professionali dell’avvocatura interna dal limite di cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2009 discenda direttamente da quanto osservato dalle Sezioni Riunite nella più volte citata deliberazione n. 51/CONTR/2011.
In quella sede, infatti, le Sezioni Riunite hanno statuito che “
ai fini del calcolo del tetto di spesa cui fa riferimento il citato vincolo, necessario a calcolare l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio, occorrerà sterilizzare, non includendole nel computo dell’importo 2010, le risorse destinate a remunerare le prestazioni di progettazione interna e le prestazioni professionali dell’avvocatura interna, stante la loro natura “professionale” che le rende non destinabili alla generalità dei dipendenti dell’Ente attraverso lo svolgimento della contrattazione integrativa.” Ciò in quanto si tratta di risorse “destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che peraltro potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno dell’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti (nello stesso senso, di recente, Sezione regionale controllo Veneto deliberazione n. 200/PAR/2014).
Trattandosi di somme destinate alla remunerazione di prestazioni professionali tipiche, suscettibili di essere acquisite tramite esternalizzazione con conseguente aggravio di costi per l’Ente, devono ritenersi sottratte al limite di cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010, a prescindere dalla natura eterofinanziata (in quanto gravanti su controparte soccombente) o meno (in quanto compensate dal giudice).
In conclusione
i compensi professionali all’avvocatura interna rimangono interamente assoggettati al limite di cui all’art. 1, comma 557, l. 296/2006, mentre sono esclusi dal computo del tetto di cui all’art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010, a prescindere dalla circostanza che derivino da sentenza favorevole con vittoria di spese a carico della controparte o da sentenza favorevole con spese compensate (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 07.07.2014 n. 127).

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EDILIZIA PRIVATA: Sulle caldaie controlli senza standard. Alle regole europee, statali e regionali si aggiungono le indicazioni di Comuni e Province.
Impianti. Gli enti locali scelgono le apparecchiature da ispezionare, le società a cui affidare il servizio e persino i modelli da compilare.

Non bastano le norme europee, quelle statali e quelle regionali: sui controlli per gli impianti termici, di fatto, sono Province e Comuni a "dettare" legge, sia sotto il profilo della frequenza che sotto quello delle tariffe. Con il risultato di un fai-da-te senza limiti.
C'è chi, come Civitanova Marche, ha affidato i controlli, anziché a un'agenzia per l'energia, al centro di ecologia e climatologia dell'Osservatorio geofisico sperimentale. Chi ha stabilito, come Sanremo e Castellammare di Stabia, importi diversi per il bollino, a seconda che si tratti di una prima o una seconda casa. Chi preleva la tariffa delle verifiche, come Scandicci o Sesto Fiorentino, dalla bolletta del gas e senza attendere l'effettivo controllo e l'invio dell'autodichiarazione.
Lo spaccato emerge da un monitoraggio realizzato per il Sole 24 Ore del lunedì, dalla società di consulenza e formazione tecnico-normativa «E-training». Ciò che emerge è allarmante: nonostante il controllo delle caldaie a gas naturale (cioè il 95% degli impianti installati nelle case e negli uffici d'Italia) sia regolato da una norma comunitaria (Direttiva 2010/31/UE) e da una legge nazionale (Dlgs 192/2005 attuato dal recente Dpr 74/2013), nei fatti le regole sono differenti, città per città.
Le Regioni
Tolta l'Unione europea e lo Stato, le Regioni sarebbero le uniche - secondo la clausola di cedevolezza del titolo V della Costituzione - ad avere facoltà di varare norme, per recepire senza stravolgimenti le leggi nazionali e comunitarie adattandole al contesto locale. Tuttavia solo quattro di loro (Lombardia, Umbria, Emilia Romagna e Veneto) hanno recepito la direttiva 2010/31/Ue. Nove governi regionali e province autonome sono ancora ferme alla Direttiva precedente 2002/91/CE, mentre in otto territori nulla è mai stato approvato.
In compenso, a scendere in campo ci hanno pensato le Province o addirittura i Comuni: questi enti, sopra i 40mila abitanti, dovrebbero avere l'unico compito di organizzare i controlli, non di scrivere leggi. Tanto più che spesso le regole varate risultano in contrasto con quanto deciso da Roma e da Bruxelles.
Ma procediamo per esempi. La direttiva europea prescrive controlli obbligatori per le caldaie sopra i 20 kW in caso di riscaldamento e i 12kW in caso di condizionamento. Già di suo, il Dpr 74/2013 ha allargato in Italia la platea degli impianti soggetti a verifiche, fissando per il riscaldamento l'obbligo sopra i 10 kW. Ma ancora più in là si è spinta la Lombardia, dove le ispezioni scattano sopra i 5 kW. Che, di fatto, significa far partire ispezioni su 3,5 milioni di impianti, altrove esonerati.
Altro caso. Secondo la recente norma di attuazione - Dm 10.02.2014 -(la cui entrata in vigore è stata prorogata al 15 ottobre) caldaie e impianti di climatizzazione dovranno essere dotati di un libretto e, se soggetti a controlli, di un rapporto di verifica, stilati secondo un preciso modello, uguale per tutti. Nella pratica non è così. In Lombardia e in Veneto, infatti, la modulistica da utilizzare è differente.
L'Europa e lo Stato prevedono, poi, controlli sia per gli impianti invernali che estivi. Tuttavia, in Provincia di Matera, ad esempio, il regolamento, modificato dopo l'entrata in vigore del Dpr 74/2013, contiene un'interpretazione "fantasiosa": sono infatti esclusi dall'accertamento gli impianti di condizionamento. Al contrario, vanno a rapporto le caldaie per uso sanitario superiori ai 10 kW (cioè la quasi totalità), nonostante queste siano esplicitamente escluse a livello nazionale.
Chi esegue i controlli
In genere, il compito spetta ad agenzie per l'energia o società in house. Ma non mancano eccezioni. La Provincia e il Comune di Isernia hanno affidato l'attività, senza alcuna gara, a una società misto pubblico-privata che vede all'interno della compagine anche tecnici manutentori (cioè coloro il cui operato dovrebbe essere oggetto di verifica). Il Comune di Fasano -che non arriva a 40mila abitanti- ha affidato i controlli ad una società privata, dimenticandosi che il compito spetterebbe alla Provincia di Brindisi. Quest'ultima, a sua volta, ha provveduto a dare l'incarico a un proprio ente. Risultato: in due sono sullo stesso bacino.
Estremo e finale paradosso: quando si parla di controlli d'impianto in Italia ci si riferisce a verifiche attuate per il solo rendimento energetico. Giocoforza i tecnici dell'ente locale che entrano nelle case, finiscono con il riscontrare e correggere eventuali problemi anche sul fronte della sicurezza. Compito che però non sarebbe loro richiesto, visto che su questo fronte si è ancora in attesa della pubblicazione di un decreto, previsto già da dicembre 2007. Non è mai arrivato.
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Anche le tariffe per il «bollino» sono diverse da città a città. I costi. Il prezzo può variare per la seconda casa o in base alla periodicità.
Il quadro frammentato di norme si traduce in un puzzle di tariffe diverse a carico dei cittadini, che, in materia di ispezione del rendimento energetico degli impianti, devono far fronte a due tipologie di "oneri" differenti. Il primo chiamato anche «bollino», scatta nel momento in cui l'utente, rispettando la legge, chiama un tecnico per far verificare i propri impianti e trasmette all'ente preposto l'autodichiarazione al termine della procedura. Il secondo corrisponde all'equivalente di una tariffa per il servizio, che è dovuta se, a fronte di un accertamento, solitamente effettuato a campione dall'ente preposto ai controlli, emerge che l'impianto è sprovvisto di autocertificazione o addirittura non è autocertificabile.
Il compito di stabilire importi e modalità di erogazione di bollini e tariffe per le ispezioni sugli impianti è stato lasciato, dallo Stato, agli enti locali. Il risultato è uno spaccato di prezzi -rilevato attraverso un puntuale censimento diretto da e-training per il Sole 24 Ore- estremamente eterogeneo. Non solo fra una Regione e l'altra, ma anche all'interno di uno stesso territorio regionale o provinciale.
Gli importi
In Piemonte, ad esempio, o nelle Province autonome per depositare l'autodichiarazione nulla è dovuto (oltre la spesa da sostenere per pagare il lavoro della ditta o del tecnico che effettua il controllo). In Puglia, per una caldaia sotto i 35 kW, si arriva a spendere anche 25 euro a biennio: solo per comunicare che l'ispezione è stata effettuata. Ben più alte, ma ugualmente discordanti, le cifre per le ispezioni onerose: si va dai 40 euro della Puglia per gli impianti sotto i 35 kW ai 200 del Lazio o dell'Abruzzo. In genere il costo sale insieme alla taglia dell'impianto.
Cifre difformi anche in una stessa Regione. Prendiamo l'Emilia Romagna. A Ferrara è previsto un bollino unico per tutte le potenze a cadenza biennale di importo pari a 5 euro. Viceversa a Parma e Ravenna si arriva a tariffe biennali pari a 140 euro, per impianti sopra i 600 kW. Così anche per le ispezioni: a Modena la massima tariffa è pari a 145 euro mentre a Ravenna e Forlì si arriva a 600 euro. Ma il paradosso si raggiunge in Provincia di Roma: qui su uno stesso territorio vigono dieci tariffe diverse per il bollino e l'ispezione a seconda di dieci fasce di potenza degli impianti predeterminate.
Sanremo e Castellammare di Stabia hanno fissato importi diversi per le caldaie installate in una prima o in una seconda casa o per quelle di un'attività commerciale.
Il Comune o la Provincia di Lecce così come quella di Pesaro-Urbino hanno imposto una somma anche per comunicare la messa a norma dell'impianto in seguito a un'ispezione per irregolarità. Una cifra che normalmente, in altri territori, è inclusa nella lauta "ammenda" che già scatta in sede di verifica. La Provincia di Brindisi, al contrario, applica una sanzione se l'autodichiarazione non è trasmessa in modo corretto mentre la Provincia di Lecce ha previsto un bollino ad hoc in caso di dismissione di impianto.
Ma forse il caso più eclatante è quello della Provincia di Savona che chiede, peraltro con cadenza annuale, un bollino persino per gli split domestici
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2014).

SICUREZZA LAVORO: La sicurezza nei cantieri boccia i piani «fotocopia». I modelli sintetici devono essere specifici e adattati a ogni struttura. Prevenzione infortuni. Come si tutela l'impresa che adotta la forma semplificata.
La semplificazione dei documenti per la sicurezza sui luoghi di lavoro arriva anche nei cantieri temporanei o mobili regolati dal Titolo IV del decreto legislativo 81/2008, il Testo unico delle norme sulla salute e sicurezza sul lavoro.
Il decreto interministeriale del 09.09.2014 (pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 212 del 12 settembre), dando attuazione alle disposizioni dell'articolo 104-bis del Dlgs 81/2008, con i suoi quattro allegati tecnici, disciplina le modalità di redazione in forma semplificata del piano operativo di sicurezza (Pos), del piano di sicurezza e coordinamento (Psc), del piano di sicurezza sostitutivo (Pss) e del fascicolo dell'opera.
Su questi documenti si fonda la traduzione in pratica delle norme di sicurezza nei cantieri e della sicurezza post lavori per quanto riguarda il fascicolo dell'opera. Vediamo dunque, in che cosa consiste la semplificazione.
Modelli già utilizzabili
La parte descrittiva del decreto è sintetica, ma contiene alcune disposizioni attuative da tenere in considerazione: in primo luogo, a prescindere dal contenuto del modelli semplificati, rimane ferma l'integrale applicazione di quanto previsto nel titolo IV del Dlgs 81/2008. Questo significa che se i modelli ministeriali dovessero rivelarsi insufficienti o carenti, chi predispone il documento non è esonerato dal completarlo con le informazioni mancanti comunque previste dalla normativa vigente.
L'adozione dei modelli semplificati si presenta peraltro come facoltativa, perché nel decreto è specificato che le diverse figure responsabili (imprese affidatarie, imprese esecutrici, coordinatori, committenti, appaltatori o concessionari) possono predisporre i documenti di sicurezza usando il modello semplificato. Al contrario di quanto era accaduto per il decreto che aveva introdotto i modelli di valutazione dei rischi standardizzati per le imprese che occupano fino a dieci lavoratori, il decreto interministeriale del 9 settembre non prevede una presunzione legale di conformità a quanto previsto dalla legge per i piani di sicurezza dei cantieri in forma semplificata.
Questo significa che chi predispone il documento ha la piena responsabilità di verificarne la rispondenza con quanto previsto dalle disposizioni del Titolo IV del Dlgs 81/2008. Infine, non è previsto alcun periodo transitorio, per cui i documenti sono già legalmente utilizzabili.
La compilazione
In realtà i modelli allegati al decreto non rappresentano una rivoluzione: i datori di lavoro delle imprese esecutrici e affidatarie dovranno probabilmente continuare ad avvalersi di esperti della materia per predisporre i Pos (per i Psc, Pss e fascicolo dell'opera è già previsto che a occuparsene sia un tecnico specializzato), a meno che non si tratti di cantieri con fattori di rischio davvero minimi e immediatamente percepibili.
La compilazione è solo in parte guidata da schemi esemplificativi e da campi da riempire con informazioni essenziali. L'essenza dei diversi documenti –cioè la valutazione dei rischi del cantiere e le misure per prevenire o ridurre al minimo il rischio di infortuni– continua a essere una valutazione tecnica e descrittiva che non può in alcun modo essere affidata a schemi prestabiliti, a meno di non voler correre il rischio di redigere documenti sostanzialmente inutili.
Bisogna infatti ricordare che, ad esempio, i piani operativi di sicurezza devono essere documenti unici, cioè riferiti al cantiere specifico, e non valutazioni dei rischi di carattere generale e generico, riferite all'attività edile o di ingegneria civile. Non dovrebbero perciò esistere Pos "fotocopia", documenti identici utilizzati indistintamente per diversi cantieri, perché ogni luogo di lavoro ha le sue peculiari fonti di rischio, non standardizzabili e quindi da valutare di volta in volta.
Si tratta in sostanza di piani che per la loro natura sono dinamici, da adattare alla singola realtà lavorativa. L'uso, come purtroppo spesso accade, di Pos identici in diversi cantieri, espone il titolare dell'impresa esecutrice (ma anche il coordinatore e il committente, che ben può essere un imprenditore) a rischi enormi, poiché attesta in modo inequivocabile che in realtà non è stata fatta alcuna valutazione dei rischi riferita a quello specifico luogo di lavoro, e pertanto –soprattutto in caso di infortunio– la difesa rispetto all'imputazione di lesioni colpose o omicidio colposo conseguenti alla omessa valutazione del rischio, sarebbe estremamente complessa.
I modelli semplificati possono guidare chi li compila a predisporre i piani senza «dimenticanze», poiché contengono i campi da riempire in modo guidato e le norme di riferimento. È evidente, comunque, che la redazione degli allegati al decreto non può essere sufficiente per chi intende predisporre piani di sicurezza esaustivi: nel Pos, ad esempio, deve essere specificamente indicata la predisposizione di eventuali misure di prevenzione integrative rispetto a quanto previsto nel Psc, per cui sarà indispensabile integrare il Pos con il piano di sicurezza e coordinamento, che nessun modello semplificato può standardizzare. Dunque semplificazione sì, ma con attenzione
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVOROSe manca il fascicolo sanzioni penali per il coordinatore. Le ricadute. Arresto e ammenda.
Il modello che risponde maggiormente alle esigenze di semplificazione e chiarezza, tra quelli allegati al decreto interministeriale del 09.09.2014, è probabilmente quello relativo al fascicolo dell'opera, previsto come adempimento obbligatorio a carico del coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione (articolo 91 del Dlgs 81/2008).
Il modello deve avere, in primo luogo, i contenuti elencati dall'allegato XVI del Testo unico sulla sicurezza. Si tratta in sostanza della «carta di identità» dell'opera, che deve contenere tutte le informazioni relative alla vita di un fabbricato o di un'altra opera, con l'indicazione delle misure preventive in dotazione (ad esempio la presenza di linee vita sul tetto), i punti di accesso, gli impianti di alimentazione e il riferimento alla documentazione di supporto e alle schede tecniche.
Questo per consentire che successivi interventi di manutenzione siano svolti nella massima sicurezza, poiché con un fascicolo dell'opera ben strutturato l'impresa esecutrice o l'artigiano incaricato, saranno a piena conoscenza dei fattori di rischio ambientali che troveranno sul luogo di lavoro e potranno adeguare le misure di prevenzione con efficacia.
La cura del fascicolo
Il fascicolo dell'opera è un documento al quale il legislatore ha attribuito la massima importanza, tanto che l'articolo 90, comma 10 del Testo unico sicurezza prevede espressamente che in assenza del fascicolo del fabbricato sia sospesa l'efficacia del titolo abilitativo per la realizzazione dell'opera. Una volta predisposto il fascicolo –sempre a cura del coordinatore in fase di progettazione– questo deve essere aggiornato a cura del committente a ogni intervento che non si risolva in opere di manutenzione ordinaria.
È comunque il coordinatore della sicurezza il vero regista di questo documento, ed è a lui che il legislatore rivolge l'attenzione in termini sanzionatori. È previsto infatti l' arresto da tre a sei mesi o l' ammenda da 2.740 euro a 7.014,40 euro per il coordinatore in fase di progettazione che ometta gli adempimenti relativi al fascicolo. Il documento dovrà poi essere conservato e successivamente utilizzato dal committente-proprietario in occasione delle opere di manutenzione future.
Già nell'allegato XVI del Dlgs 81/2008 erano contenute una serie di schede esemplificative suddivise per caratteristiche dell'opera: il modello semplificato adottato con il decreto racchiude queste schede in un unico documento, rendendolo più fruibile e di immediato utilizzo e compilazione.
Come già accaduto per Pos, Psc e Pss in forma semplificata, anche per quanto riguarda il fascicolo dell'opera, il legislatore ha inteso lasciare al coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione la scelta se avvalersi del modello semplificato allegato al decreto, o se predisporre il fascicolo in autonomia, pur rispettando sempre le prescrizioni dell'articolo 91 e dell'allegato XVI del Dlgs 81/2008 (il riferimento normativo da seguire per determinare la conformità dell'elaborato alla legge)
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFondi decentrati, tagli «flessibili» per il turn over. Personale. Possibili più criteri di calcolo.
Nella costituzione del fondo per le risorse decentrate del 2014 Regioni ed enti locali devono verificare il puntuale rispetto dei vincoli dettati dai contratti nazionali, disponendo l'eventuale recupero. A tal fine possono utilizzare i nuovi strumenti previsti dal D 16/2014.
Lo ricorda la circolare con cui i ministri di Economia, Affari regionali e Pa hanno ufficializzato il documento approvato dalla Conferenza Unificata lo scorso luglio sull'applicazione della "sanatoria" dei contratti decentrati illegittimi.
La costituzione del fondo del 2014 è un adempimento assai rilevante: la legge di stabilità ne ha fatto la base (analogamente a quanto i contratti nazionali hanno disposto per i fondi del 1999 e poi del 2004) su cui determinare gli importi degli anni successivi.
La maggioranza degli enti sta procedendo solo ora alla costituzione del fondo in quanto, erroneamente, si subordina l'operazione all'approvazione dei preventivi. Il che non è previsto da alcuna legge o contratto, ed è inopportuno poiché determina ritardi nell'avvio della contrattazione decentrata.
L'attenzione deve essere dedicata al rispetto dei vincoli dettati dai contratto nazionale per l'incremento dei fondi, sempre nel tetto del 2010. L'ente deve avere rispettato il patto e i vincoli alla spesa del personale. Inoltre, per incrementare il fondo, entro il tetto dell'1,2% del monte salari 1997, deve assumere una specifica deliberazione, da motivare in relazione a risparmi conseguiti o al miglioramento dei servizi, e acquisire l'attestazione dell'organismo di valutazione. Per incrementarlo in relazione all'attivazione di nuovi servizi o al loro miglioramento occorre adottare una deliberazione nella fase iniziale dell'anno, in cui si dimostri la finalizzazione dell'incremento al miglioramento delle attività.
L'aumento deve essere quantificato con criteri oggettivi, di regola non va ripetuto nel corso degli anni e va erogato dopo il conseguimento dell'obiettivo. Altro errore da evitare, che depaupera il fondo, è la mancata inclusione delle risorse utilizzate per l'adeguamento ai miglioramenti contrattuali degli importi delle progressioni orizzontali dei dipendenti cessati. Sulla base delle indicazioni contenute nella circolare non c'è un unico criterio da utilizzare per la quantificazione dei tagli al fondo a seguito della diminuzione del personale.
Di conseguenza, non maturano responsabilità se non si utilizza quello della media aritmetica del personale in servizio scelto dalla Ragioneria dello Stato, preferendo quello delle diminuzioni effettive suggerito dalla Corte dei conti della Lombardia e dalla Conferenza dei presidenti delle regioni.
Si deve infine sottolineare la condizione di pesante incertezza che grava sull'applicazione della "sanatoria", che sta portando i singoli enti a cercare soluzioni in ordine sparso o a restare fermi: conseguenza pressoché obbligata della mancanza di indicazioni applicative univoche. Proprio il rischio che si voleva evitare delegando la soluzione dei dubbi alla Conferenza Unificata
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi gratuiti e rimborsi tassati. Partecipate. Le nomine dopo il Dl Pa.
L'articolo 16 del decreto di riforma della Pa impone ai dipendenti delle amministrazioni nominati in società partecipate di riversare i compensi all'ente di appartenenza, fatto salvo il diritto al rimborso delle spese documentate.
Il trattamento fiscale dei rimborsi spese nell'ambito del reddito di lavoro dipendente è regolato dall'articolo 51, comma 5, del Tuir, che stabilisce che non concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente i rimborsi spese relativi a trasferte effettuate fuori dal territorio del Comune in cui si trova la sede di lavoro del dipendente nei limiti previsti dall'articolo stesso. Quando la trasferta si realizza nel territorio del Comune, si applica l'ultimo periodo del comma 5, che fa rientrare queste somme nel reddito.
Anche la prassi, con la risoluzione n. 10/816 del 27.06.1975, ha ribadito che «nessuna esclusione dall'imposizione è consentita per le eventuali somme corrisposte dal datore di lavoro ai propri dipendenti a titolo di rimborso delle spese di viaggio, anche sotto forma di indennità chilometriche, per l'attività lavorativa esplicata nell'ambito del Comune in cui si trova la sede di lavoro» precisando che nel caso di attività svolta nel Comune sede di lavoro, le somme sono considerate integrazioni della retribuzione e assoggettate ad Irpef cumulandole con la retribuzione.
Di conseguenza la nomina conferita dall'amministrazione per un incarico da svolgersi nel Comune sede di lavoro del dipendente comporterà degli oneri per quest'ultimo, in quanto oltre a dover riversare il compenso erogato dalla partecipata, egli riceverà un rimborso spese inferiore a quanto effettivamente speso, posto che le spese diverse da quelle di trasporto documentate dal vettore, vitto e alloggio tipicamente, si cumulano con la retribuzione e subiscono le vigenti ritenute previdenziali ed erariali, tanto più elevate quanto maggiore è l'aliquota marginale del dipendente
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti, caos sanzioni sugli errori delle imprese. Gare. Dichiarazioni.
Le stazioni appaltanti non possono più escludere le imprese da una gara per una dichiarazione sostitutiva mancante o irregolare, ma devono sanzionarle e chiedere la regolarizzazione, con un procedimento che presenta vari problemi.

Le nuove norme introdotte nel Codice appalti dalla legge 114/2014 mirano a garantire la massima partecipazione, evitando che la dimenticanza di una dichiarazione, magari per semplice distrazione di chi ha preparato l'istanza, comporti l'esclusione dalla gara.
Nel Dlgs 163/2006 è stato quindi introdotto all'articolo 38 il comma 2-bis, il quale prevede che la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive relative al possesso dei requisiti generali obbliga il concorrente al pagamento, in favore della stazione appaltante, di una sanzione pecuniaria, che deve essere stabilita dall'amministrazione aggiudicatrice nel bando. Il range della sanzione è individuato tra l'uno per mille e l'uno per cento del valore della gara (quindi con riferimento alla base d'asta), ma con un massimale di 50mila euro.
La prima criticità rilevante deriva proprio dall'applicazione della sanzione, in quanto la disposizione individua fattispecie differenti di violazioni delle regole di gara: la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive, per cui necessiterebbe, in base al principio della gradualità, un'articolazione in base alla diversa gravità delle infrazioni. Nei primi bandi di gara emanati con la nuova norma, tuttavia, la scelta effettuata da molte stazioni appaltanti si è concretizzata nella definizione di una sanzione unica.
La norma richiede inoltre che il versamento della sanzione sia garantito dalla cauzione provvisoria, quindi con possibilità di escussione parziale solo quando il concorrente non paghi. Tuttavia molte Pa hanno scelto di prevedere nel bando anche un'integrazione supplementare del valore della garanzia provvisoria, corrispondente alla sanzione, determinando un maggior onere per le imprese.
Il nuovo comma 2-bis prevede che la stazione appaltante richieda al concorrente di rendere la dichiarazione mancante, di completarla o di regolarizzarla, dando un termine massimo di 10 giorni. Solo se l'operatore non provvede, l'amministrazione potrà escluderlo.
La regolarizzazione, peraltro, non è correlata al pagamento della sanzione, quindi le imprese che abbiano reso o completato le dichiarazioni insufficienti sono ammessi alla gara, indipendentemente dall'assolvimento della sanzione.
Problemi altrettanto rilevanti sono determinate dal nuovo articolo 46, comma 1-ter, del Codice appalti, introdotto anch'esso dalla legge 114, il quale prevede che le disposizioni del comma 2-bis si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara.
Proprio il riferimento agli elementi che devono essere prodotti in gara induce a ritenere che questi non siano riferiti tanto al contenuto delle dichiarazioni sostitutive, quanto ai documenti che devono essere presentati in gara. Questa lettura ha portato molte Pa a disciplinare nel bando la sottoposizione alla sanzione e alla regolarizzazione anche di situazioni come la mancata presentazione della cauzione provvisoria o dell'attestazione di pagamento del contributo gare, che sono invece obblighi per la partecipazione alla gara
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOAmministratori condominiali, la formazione non è un optional. Pubblicato sulla G.U. n. 222 il regolamento che disciplina le competenze dei professionisti.
Gli amministratori condominiali tornano sui banchi di scuola. Con la pubblicazione sulla G.U. n. 222 del 24 settembre scorso del regolamento del ministero della giustizia e che entrerà in vigore il prossimo 9 ottobre si è finalmente completato il percorso normativo che stabilisce regole certe per l'accesso al mercato di amministratori professionali e tecnicamente preparati e aggiornati.
La legge n. 220/2012 di riforma del condominio, oltre a rafforzare prerogative e obblighi dell'amministratore, ha, infatti, inteso restringere le modalità di accesso allo svolgimento di detta attività. È infatti da decenni che si parlava della necessità di rendere maggiormente professionale la categoria degli amministratori di condominio, garantendone la formazione e l'aggiornamento. D'altra parte nel corso degli anni, l'attività si è pian piano arricchita di nuove attribuzioni e responsabilità che hanno reso sempre più necessario per i condomini rivolgersi a soggetti in grado di svolgere questo compito con professionalità e competenza.
In mancanza di norme che disciplinassero questo specifico aspetto, sono state le associazioni di categoria ad assumersi l'onere di formare e aggiornare i propri iscritti, in certo qual modo certificandone il possesso di una serie di competenze di base.
Il nuovo art. 71-bis disp. att. c.c. ha quindi previsto che possano svolgere per la prima volta l'attività di amministratore condominiale soltanto quei soggetti che siano in possesso di una serie di specifici requisiti di serietà e professionalità. Fra di essi spiccano i requisiti di carattere per così dire culturale e di istruzione, ovvero il conseguimento del diploma di scuola secondaria di secondo grado e lo svolgimento di appositi corsi di formazione iniziale e di aggiornamento periodico.
È stata comunque opportunamente prevista anche una norma di salvaguardia per quanti già svolgessero detta attività. Infatti, per coloro che possano dimostrare di avere esercitato per almeno un anno nell'arco dei tre anni precedenti alla data di entrata in vigore della legge di riforma del condominio (dunque dal 18.06.2010 al 18.06.2013), lo svolgimento dell'attività è consentito anche in assenza dei predetti requisiti (anche in questi casi rimane però l'obbligo di aggiornamento periodico).
Dette disposizioni erano però sostanzialmente rimaste sulla carta, perché non era stato chiarito come dovessero essere organizzati i predetti corsi di formazione (su quali materie dovessero vertere, quale fosse il monte ore minimo da rispettare, chi potesse organizzarli ecc.). Successivamente, con la c.d. mini-riforma del condominio operata dal dl n. 145/2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 9/2014, il ministero della giustizia era stato delegato a emanare il regolamento che avrebbe dato concreta attuazione a quanto previsto dall'art. 71-bis, comma 1, lett. g), delle disposizioni di attuazione del codice civile. Dopo una serie di continui rinvii che hanno messo più volte in fibrillazione la categoria degli amministratori (e dei fornitori di servizi di formazione professionale) si è quindi giunti alla pubblicazione in G.U. del tanto agognato decreto ministeriale che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe fissare dei paletti certi per l'organizzazione e la gestione dei corsi di formazione iniziale e di aggiornamento periodico.
Il regolamento è molto snello ed essenziale nei contenuti e si compone di soli 5 articoli. Dopo aver sinteticamente indicato oggetto e finalità del decreto, il ministero ha, infatti, disciplinato i requisiti dei formatori (art. 3) e del responsabile scientifico del corso (art. 4), per poi giungere alla definizione dei contenuti dei corsi di formazione iniziale e di aggiornamento periodico (art. 5).
Nel rimandare agli altri articoli in pagina per una compiuta illustrazione di questi ultimi tre fondamentali aspetti della disciplina della formazione degli amministratori condominiali, si può sin d'ora affermare che il regolamento licenziato dal ministero della giustizia, contrariamente a quanto molti temevano, si mostra alquanto liberale nell'individuazione dei requisiti dei formatori (è stata per esempio evitata la riserva del servizio di formazione in capo alle associazioni degli amministratori condominiali) e delle modalità di gestione e organizzazione dei corsi (questi ultimi potranno essere svolti anche interamente online, salvo però l'esame finale, da tenersi presso la sede individuata dal responsabile scientifico, previsione che dovrebbe circoscrivere i rischi legati alla promozione di corsi a costi eccessivamente bassi e, quindi, di contenuto poco professionale).
Quanto alla spinosa questione della spendibilità dei corsi svolti dagli aspiranti amministratori di condominio nel periodo intercorrente tra la data di entrata in vigore della legge di riforma del condominio (18.06.2013) che, come detto, ha introdotto l'obbligo della formazione iniziale, e quella di efficacia del regolamento ministeriale (09.10.2014), occorre evidenziare come il decreto non contenga alcuna norma transitoria e come, quindi, sia ragionevole ritenere che quanti abbiano seguito fino a oggi corsi inferiori alle 72 ore previste dal decreto ministeriale possano tranquillamente continuare a svolgere la propria attività.
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Da dimostrare i requisiti di onorabilità e professionalità.
Per poter svolgere l'attività di formatore è necessario provare al responsabile scientifico, con apposita documentazione, il possesso di requisiti di onorabilità e professionalità. I formatori, quindi, dovranno essere selezionati in base a elevati criteri di competenza e onorabilità, senza tralasciare il requisito di possedere una fedina penale trasparente per ciò che riguarda un'ampia serie di reati. In relazione alle qualità morali e civili dei formatori si richiede il godimento dei diritti civili, la mancanza di condanne per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commini la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni, e, nel massimo, a cinque anni, il non essere stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione, nonché il non essere interdetti o inabilitati.
Sono poi previsti requisiti relativi alla qualificazione professionale del formatore e alla sua preparazione tecnica specifica. In particolare gli stessi devono aver maturato una congrua competenza in materia di amministrazione condominiale o di sicurezza degli edifici e aver conseguito, alternativamente, una laurea anche triennale, l'abilitazione alla libera professione, la docenza in materie giuridiche, tecniche ed economiche presso università, istituti e scuole pubbliche o private riconosciute. Peraltro i docenti in materie giuridiche, tecniche o economiche potranno dimostrare la loro specifica competenza in materia condominiale (e quindi svolgere attività di formazione e aggiornamento) anche qualora possano vantare pubblicazioni in materia di diritto condominiale o di sicurezza degli edifici, dotate di codice identificativo internazionale (Isbn).
Un particolare caso di esenzione dai titoli di studio (ma non dalla competenza specifica) riguarda coloro che abbiano già svolto attività di formazione in materia di diritto condominiale o di sicurezza degli edifici in corsi della durata di almeno 40 ore ciascuno, per almeno sei anni consecutivi prima della data di entrata in vigore del regolamento. A tale proposito merita di essere segnalato come il decreto non precisi le modalità con cui si può dimostrare l'attività di formazione per almeno sei anni. In mancanza di precise indicazioni si può pensare che sia sufficiente una dichiarazione dell'ente formatore accompagnata da idonea documentazione.
In ogni caso non sono previsti registri ad hoc dei formatori e dei responsabili scientifici né uno specifico sistema di controlli sui corsi di formazione e sul possesso dei richiesti requisiti da parte dei soggetti chiamati a svolgere la predetta attività formativa. Quanto sopra, come si legge nel parere del Consiglio di stato del 04.06.2014 n. 1802, è dovuto semplicemente al fatto che nell'ambito della discrezionalità riservata al ministero dalla normativa di riferimento, si è preferito non far gravare sul bilancio del dicastero gli ulteriori oneri che deriverebbero dall'espletamento delle predette incombenze.
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È d'obbligo l'aggiornamento.
Per accedere all'attività di amministratore condominiale occorrerà aver frequentato un corso di formazione iniziale di almeno 72 ore e per mantenersi aggiornati si avrà l'obbligo di frequentare ogni anno un corso di almeno 15 ore.
I corsi potranno essere svolti anche online, ma occorrerà sempre un esame finale da svolgersi nella sede individuata dal responsabile scientifico.
Mentre in tempi meno recenti l'incarico di amministratore veniva spesso conferito a uno dei condomini che avesse del tempo a disposizione (lavoratori part-time, pensionati ecc.), negli ultimi anni si è reso necessario affidare la gestione dei caseggiati a professionisti esperti in materia di condominio e in grado di assolvere alle numerose e gravi responsabilità ascritte all'amministratore dalle leggi speciali (per tutte, le norme in materia edilizia, di sicurezza degli impianti, di obblighi tributari come sostituto d'imposta ecc.). Si può quindi affermare che l'obbligatorietà di un corso di formazione iniziale e di aggiornamento annuale (che richiedono l'intervento di soggetti competenti e di adeguate modalità attuative) siano espressione dell'evoluzione della figura dell'amministratore di condominio, i cui compiti, anche a seguito della recente riforma, sono andati incrementandosi.
L'art. 5 del decreto ministeriale, che fissa i criteri, le modalità e i contenuti dei corsi di formazione per gli amministratori condominiali, conferma la volontà del legislatore di consentire l'esercizio di detta attività solo a soggetti con adeguate conoscenze tecniche, giuridiche, contabili e fiscali (che rappresentano la base dalla quale deve partire chi vuole svolgere questa funzione). Per conseguire tale risultato il corso di formazione iniziale (che può anche essere svolto anche on line) non può avere durata inferiore a 72 ore e si dovrà articolare, nella misura di un terzo della sua durata effettiva, secondo moduli che prevedano anche necessarie esercitazioni pratiche. Naturalmente il programma, che è predisposto dal responsabile scientifico, sarà costituito da moduli didattici relativi a tutte le materie di interesse dell'amministratore.
Per una preparazione completa sarà quindi necessario conoscere i compiti e i poteri dell'amministratore previsti dalla legge, ma anche tutte le problematiche relative al corretto uso degli spazi comuni, ai regolamenti condominiali, alla ripartizione delle spese condominiali sulla base delle tabelle millesimali (ma anche alla riparto delle spese per la manutenzione del lastrico solare di uso esclusivo, per la manutenzione e la ricostruzione delle scale, per i solai interpiano, balconi ecc.), alla gestione dei diversi impianti e servizi condominiali (impianto di riscaldamento e di condizionamento, impianti idrico, elettrico, ascensori e montacarichi ecc.).
Nell'ambito dei temi da trattare nel corso iniziale non potranno certo mancare le fondamentali materie della sicurezza degli edifici e della prevenzione incendi (nulla osta, collaudi, ispezioni ecc.), dei diritti reali (con particolare riguardo al condominio degli edifici e alla proprietà edilizia), della normativa urbanistica (con particolare riguardo ai regolamenti edilizi, alla legislazione speciale delle zone territoriali di interesse per l'esercizio della professione ecc.), delle disposizioni sulle barriere architettoniche (in particolare la legge n. 13/89 e le problematiche per l'installazione dell'ascensore a cura e spese del singolo condomino, l'installazione dell'ascensore in forza di delibera assembleare ecc.), del risparmio energetico (si pensi alla termoregolazione e alla contabilizzazione di calore), delle nozioni per la verifica e la manutenzione delle strutture degli edifici.
In ogni caso, oltre a una competenza specifica, si rende necessaria anche una preparazione generale di base, che richiede la conoscenza della disciplina dei principali contratti utilizzati in condominio (appalto, sub-appalto, locazione, contratto di lavoro subordinato ecc.), delle tecniche di risoluzione dei conflitti, nonché dell'utilizzo degli strumenti informatici.
Inoltre bisogna considerare che con l'entrata in vigore della riforma del condominio, le nuove disposizioni in materia di contabilità e rendicontazione comportano l'acquisizione di alcuni concetti di contabilità generale indispensabili alla corretta rendicontazione del condominio, come previsto dal codice civile.
Da segnalare che è necessario un esame finale, che si svolgerà nella sede individuata dal responsabile scientifico anche in caso di corso on line e fungerà da verifica complessiva delle conoscenze acquisite dai partecipanti al corso: il responsabile scientifico sarà tenuto ad attestare il superamento del suddetto esame da parte del futuro amministratore.
Per quanto riguarda gli obblighi formativi di aggiornamento, che hanno una cadenza annuale, l'art. 5 del decreto stabilisce una durata minima di almeno 15 ore. I corsi riguarderanno elementi in materia di amministrazione condominiale in relazione all'evoluzione normativa, giurisprudenziale e alla risoluzione di casi teorico-pratici.
In ogni caso l'inizio di ciascun corso, le modalità di svolgimento, i nominativi dei formatori e dei responsabili scientifici dovranno ogni volta essere comunicati al ministero della giustizia non oltre la data di inizio del corso, tramite posta elettronica certificata, all'indirizzo che verrà tempestivamente indicato sul sito del dicastero.
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In primo piano il responsabile scientifico.
Nel nuovo sistema di formazione e aggiornamento obbligatori disegnato dal ministero della giustizia per gli amministratori condominiali riveste un ruolo fondamentale il responsabile scientifico del corso, ovvero il soggetto che, in mancanza di controlli puntuali da parte del dicastero (si veda l'articolo sui formatori), avrà l'onere di attestare la rispondenza dei corsi alle direttive regolamentari, il possesso dei necessari requisiti in capo ai formatori e lo svolgimento di un serio esame finale da svolgersi in una sede appositamente individuata (anche per i corsi online).
Il decreto ministeriale prevede che la funzione di responsabile scientifico possa essere svolta alternativamente da un docente in materie giuridiche, tecniche o economiche (ricercatore universitario a tempo determinato o a tempo indeterminato, professore di prima o di seconda fascia, docente di scuole secondarie di secondo grado), un avvocato o un magistrato, un professionista dell'area tecnica.
I soggetti in questione dovranno comunque essere in possesso dei requisiti di onorabilità e professionalità previsti per i formatori e indicati all'art. 3 del medesimo regolamento (si veda l'articolo sui formatori).
Come anticipato, il responsabile scientifico è chiamato a verificare il possesso dei requisiti di onorabilità e professionalità dei formatori tramite riscontro documentale, a sovrintendere al rispetto dei contenuti minimi dei corsi di formazione e aggiornamento di cui al medesimo regolamento (si veda l'altro articolo in pagina), a stabilire le modalità di partecipazione degli iscritti ai corsi e di rilevamento delle presenze, anche in caso di svolgimento dei corsi in via telematica (in questo caso viene lasciata ampia discrezionalità tecnica agli organizzatori dei corsi).
Il responsabile scientifico, infine, è chiamato ad attestare il superamento con profitto di un esame finale sui contenuti del corso di formazione e di aggiornamento seguito dai partecipanti (articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014).

APPALTIAppalti, è l'ora delle liti light. Tre norme del dl 90 vogliono accelerare il processo amministrativo. Facendo scrivere meno.
Correre, correre. E scrivere poco! Anche per la giustizia amministrativa, così come per quella civile, la parola d'ordine è: sbrigarsi. Il contenzioso in materia di appalti pubblici, in particolare, è stato di recente sottoposto a un «mini restyling» che ha esattamente questo obiettivo.
Tre le misure principali adottate dal dl 90/2014, cosiddetto decreto semplificazioni: la prima, l'introduzione nel processo davanti a Tar e Cds della Pec; la seconda, la condanna alle spese per la parte soccombente in caso di «abuso del processo» (l'importo della sanzione pecuniaria per lite temeraria può essere elevato fino all'1% del valore del contratto); la terza, e forse più curiosa, è stata introdotta in fase di conversione del dl, attraverso l'art. 40 della legge 114/2014.
Eccone il testo: «Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all'art. 3, comma 2, le parti contengono le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti».
Scrivere di meno, insomma, per facilitare il compito al giudice che deve decidere (naturalmente, l'art. 40 prevede una deroga nel caso di particolare complessità tecnica del giudizio...). La domanda che spesso ci facciamo davanti alle scelte del legislatore è: funzioneranno queste norme? Questa settimana, su Affari Legali, l'abbiamo chiesto agli amministrativisti, e ci sembrano abbastanza perplessi. Noi vogliamo proprio vedere che effetto produrrà lo scrivere di meno... (articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014).

APPALTILe appaltanti al setaccio. Tavolo tecnico per la sforbiciata alle stazioni. Al via il comitato che dovrà definire il modello per i piani di acquisto.
Al via il tavolo tecnico delle centrali di committenza; fra gli obiettivi da realizzare nel 2014 la pianificazione e armonizzazione dei programmi e la definizione del modello base per i piani di acquisto aggregato.

È quanto prevede lo schema di dpcm messo a punto dal governo e trasmesso a comuni e regioni, che definisce la composizione e le funzioni della struttura operativa e di coordinamento dei diversi soggetti aggregatori della domanda per gli appalti di lavori, forniture e servizi.
È questo un ulteriore passo verso la completa attuazione della legge 89/2014 di conversione del decreto 66/2014 che, si è posta l'obiettivo di concentrare in un numero massimo di 35 soggetti (centrali di committenza) la maggior parte degli acquisiti di beni e servizi. Lo schema di decreto (che segue quello della scorsa settimana in cui si definivano i requisiti per potere svolgere le funzioni di «soggetto aggregatore della domanda»), prevede che al tavolo tecnico, siano affiancati un comitato guida e una segreteria tecnica.
Al tavolo, che avrà il compito di assicurare l'efficace realizzazione dell'attività di razionalizzazione della spesa per beni e servizi, potranno sedere un rappresentante del ministero dell'economia, cui farà capo il coordinamento, uno della presidenza del consiglio e un membro per ciascun soggetto aggregatore iscritto nell'elenco tenuto dall'Anac (Autorità nazionale anticorruzione).
I compiti affidati dal provvedimento al tavolo tecnico saranno principalmente di istruttoria sui fabbisogni, attraverso la raccolta dei dati e la previsione dei fabbisogni di beni e servizi, oltre che di programmazione integrata delle attività dei diversi soggetti e controllo su come il processo di aggregazione viene portato avanti.
Oltre a tutto ciò sarà fondamentale anche la predisposizione di «metodologie e linguaggi comuni» applicabili da tutti i soggetti aggregatori della domanda. Il comitato guida sarà invece più operativo e sarà composto, oltre che dai nuovi soggetti aggregatori in possesso dei requisiti previsti dal dpcm della scorsa settimana, anche da quelli esistenti (Consip, le poche centrali regionali costituite).
Entro il 30 settembre di ogni anno, il comitato guida dovrà indicare «gli indirizzi strategici di gestione delle attività». Infine saranno dieci i componenti della segreteria tecnica (articolo ItaliaOggi del 27.09.2014).

APPALTIDebiti Pa, si riapre la compensazione. Firmato il decreto per il 2014: cartelle esattoriali «ridotte» dai crediti commerciali.
Si aggiunge un nuovo tassello all'operazione pagamenti della Pa. Stavolta a intervenire è un decreto attuativo atteso ormai da diversi mesi: era previsto dal decreto legge Destinazione Italia del dicembre 2013.
Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha infatti controfirmato nei giorni scorsi il decreto del ministero dell'Economia che sblocca per il 2014 la compensazione di cartelle esattoriali, ovvero gli atti di accertamento, a favore di imprese titolari di crediti commerciali nei confronti di tutte le Pubbliche amministrazioni.
La compensazione sarà possibile per cartelle esattoriali notificate fino al 31.03.2014. Si riapre, in sostanza, una possibilità che era stata riattualizzata dal decreto 35/2013 del governo Monti, ma con un preciso limite temporale: solo per cartelle notificate entro il 31.12.2012.
Il decreto Padoan-Guidi consente ora la compensazione, «nell'anno 2014, delle cartelle esattoriali notificate entro il 31.03.2014, in favore delle imprese titolari di crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, per somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali» maturati nei confronti della Pa. Ci sono alcune condizioni da rispettare, ovvero i crediti devono essere certificati e la somma iscritta a ruolo deve essere inferiore o pari al credito vantato.
I crediti che hanno queste caratteristiche possono essere portati in compensazione secondo le modalità previste da precedenti decreti ministeriali del 2012. In sostanza, il titolare del credito, acquisita la certificazione, la presenta all'agente della riscossione competente. Se la regione, l'ente locale o l'ente del Servizio sanitario nazionale non versa all'agente della riscossione l'importo oggetto della certificazione entro 60 giorni dal termine indicato, l'agente può procedere, sulla base del ruolo emesso, alla riscossione coattiva nei confronti dell'ente.
Sul tema della compensazione restano in campo anche altre proposte, spesso di complessa praticabilità. Dalla compensazione universale –per tutte le tipologie di debiti con la Pa senza distinzioni– (un'idea da sempre sostenuta da Rete Imprese), alla recente proposta di legge Ncd portata avanti da Nunzia De Girolamo.
In quest'ultimo caso (l'esame in Aula della Camera non è stato ancora fissato) si punta a corrispondere all'imprenditore il 50% di quanto dovuto dall'amministrazione pubblica a fronte dell'impegno di chiedere la rateizzazione del debito fiscale, superata questa procedura verrebbe liquidato l'altro 50%
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Gare, antimafia solo se serve. Il procedimento pendente non blocca l'attestazione. Una determina dell'Anac, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, fissa i paletti alle Soa.
Il divieto per le Soa (Società organismi di attestazione) di rilasciare l'attestazione all'impresa di costruzioni scatta soltanto se i soggetti censiti a fini antimafia hanno a loro carico un provvedimento espresso del giudice che ordina l'esecutività della misura di prevenzione antimafia; non è quindi sufficiente la mera pendenza del procedimento; obbligo di verifiche antimafia anche nei confronti dei sindaci della società e dei soggetti che svolgono funzioni di vigilanza ai sensi del decreto 231/2001.

È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con la determinazione 02.09.2014 n. 2 relativa all'applicazione dell'articolo 38, comma 1, lett. b) del decreto 163/2006 (codice dei contratti pubblici) e dell'articolo 78 del regolamento attuativo del codice, le cui prescrizioni hanno necessitato un coordinamento con le novità apportate dal Codice antimafia, il decreto legislativo 06.09.2011, n. 159.
Nella determina, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 223 di ieri, si osserva come il Codice antimafia -pur non prevedendo l'abrogazione espressa dell'articolo 38, il quale continua quindi ad esplicare i propri effetti- abbia senz'altro innovato la disciplina dettata dalla norma del codice dei contratti pubblici, per quanto riguarda i controlli antimafia ai fini del rilascio delle attestazioni Soa alle imprese di costruzioni.
In particolare secondo l'Anac, la verifica circa l'assenza delle cause ostative antimafia ex art. 38, comma 1, lettera b), del Codice dei contratti (richiamato dall'art. 78 del Regolamento ai fini del conseguimento dell'attestato di qualificazione) «deve essere effettuata anche nei confronti dei soggetti indicati dal comma 2-bis dell'art. 85 del Codice antimafia, quale ulteriore garanzia dell'affidabilità morale dell'impresa che intende ottenere l'attestato di qualificazione».
Pertanto, oltre ai soggetti già contemplati fino ad oggi, gli organismi di attestazione dovranno effettuare le verifiche antimafia anche nei confronti del sindaco della società, nonché dei soggetti che svolgono i compiti di vigilanza ai sensi del decreto 231/2001. Tutto ciò partendo dalla assimilazione delle Soa alle amministrazioni pubbliche, «seppur nel senso di soggetti preposti all'esercizio di pubbliche funzioni».
Nella determina si precisa inoltre che il divieto di rilascio dell'attestazione Soa non opera più sulla base della mera pendenza del procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione - ma sulla base di un provvedimento espresso del giudice con il quale sia disposta in via provvisoria l'operatività del divieto stesso durante il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione.
Sarà infine possibile procedere all'emissione dell'attestato Soa ove siano decorsi infruttuosamente i termini per il rilascio della comunicazione antimafia, fatta salva la facoltà di revoca del documento in caso di successiva documentazione antimafia dalla quale emerga, a carico dei soggetti censiti, la sussistenza di cause di decadenza di cui all'art. 67 del Codice antimafia (articolo ItaliaOggi del 26.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Gestioni associate, anche il termine del 30/9 è a rischio.
Si avvicina la scadenza del 30 settembre sulle gestioni associate. Entro tale data, i piccoli comuni dovranno cedere altre tre delle proprie funzioni fondamentali. Il termine è stato fissato dall'art. 23, comma 1-quinquies, della legge 114/2014 (di conversione del dl 90), concedendo un'ulteriore proroga di tre mesi rispetto alla precedente dead line del 30 giugno.
Ricordiamo che l'obbligo di gestire a livello sovracomunale le funzioni fondamentali, previsto dall'art. 14 del decreto n. 78/2010, interessa tutti i comuni inferiori a 5.000 abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuta a comunità montane.
Le funzioni da associare sono quelle identificate come fondamentali dalla legge statale: al momento, il relativo elenco è dettato dall'art. 14, comma 27, del dl 78 (come sostituito dall'art. 19, comma 1, del dl 95/2012), che ne enumera 10. Di queste solo una (anagrafe, stato civile e servizi elettorali) può continuare a essere gestita singolarmente, mentre le altre vanno obbligatoriamente conferite a una unione di comuni ovvero esercitate tramite una convenzione.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue proroghe: al momento, delle nove funzioni obbligatorie, tre sono state associate entro il 31.12.2012, altre dovrebbero esserlo, come detto, entro il 30 settembre, mentre per le restanti tre la scadenza è fissata al prossimo 31 dicembre.
I nodi, però stanno venendo al pettine solo ora, dato che funzioni già devolute a livello sovracomunale o erano già gestite in forma associata (per esempio, servizi sociali) o sono piuttosto «leggere» (per esempio, protezione civile o catasto). Il vero «core business» include le funzioni «pesanti» (come, per esempio, amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed è ancora tutto da trasferire.
La maggior parte delle amministrazioni interessate è ancora impreparata a questo passaggio, complice anche la recente tornata elettorale e le numerose novità introdotte in materia dalla recente legge 56/2014 (legge Delrio).
Essa, fra l'altro, ha modificato la soglia demografica minima che le forme associative devono raggiungere, che rimane fissata in 10.000 abitanti, ma che ora vale anche per le convenzioni, oltre che per le unioni. Fanno eccezione le unioni già costituite, alle quali tale limite non si applica. Per i comuni montani, la soglia è 3.000 abitanti, ma le eventuali unioni devono essere formate da almeno tre comuni.
Restano salvi, tuttavia, il diverso limite demografico ed eventuali deroghe in ragione di particolari condizioni territoriali, individuati dalla regione. Ciò, si ritiene (contrariamente a quanto sostenuto da alcune regioni) anche rispetto alle leggi regionali anteriori alla legge Delrio.
Il risultato è che il termine intermedio del 30 giugno è stato quasi ovunque ignorato, costringendo il legislatore a concedere l'ennesimo extra time. Ma la sensazione è che anche la scadenza del 30 settembre non verrà rispettata.
Di ciò è consapevole la stessa Anci, che per voce del suo presidente, Piero Fassino, ha puntato il dito contro l'attuale quadro legislativo, «che non incoraggia lo sviluppo delle gestioni associate e delle unioni di comuni». Secondo Anci, «la battaglia da fare per rilanciare le gestioni associate è quella di arrivare a un nuovo strumento normativo che renda più semplice e più vantaggioso ai comuni associarsi».
Nel frattempo, però gli obblighi rimangono e molte prefetture hanno pronte le lettere di messa in mora dei sindaci: il mancato adempimento, infatti, è sanzionato con il possibile esercizio del potere sostitutivo del governo attraverso il commissariamento degli enti che non si adeguano (articolo ItaliaOggi del 26.09.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., la mobilità può attendere. Precedenza ai lavoratori in disponibilità o demansionati. Prima di procedere con i trasferimenti bisogna verificare la presenza di lavoratori in esubero.
Obbligatorio verificare la presenza di dipendenti in lista di disponibilità o demansionati, prima di indire non solo i concorsi, ma anche la procedura di mobilità volontaria che deve precedere i concorsi.

La riforma della mobilità volontaria contenuta nel dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, dovrebbe eliminare ogni residuo dubbio sull'eventualità che occorra applicare le disposizioni dell'articolo 34-bis del dlgs 165/2001 anche alla disciplina della mobilità volontaria.
Occorre superare quanto sancito, in un regime giuridico molto diverso, dalla Funzione pubblica col parere 198/2005 e ritenere obbligatorio per le amministrazioni di verificare se nelle liste di disponibilità siano presenti lavoratori in esubero, prima di effettuare qualsiasi assunzione a qualsiasi titolo, compresa la mobilità.
Non vi è da dubitare che la nuova formulazione normativa configuri la mobilità volontaria come una vera e propria procedura selettiva, tanto da rendere obbligatoria la pubblicazione per trenta giorni di un bando di reclutamento vero e proprio. Non solo: il nuovo comma 1 dell'articolo 30 del dlgs 165/2001 impone a Palazzo Vidoni di agevolare le procedure di mobilità istituendo un portale finalizzato all'incontro tra la domanda e l'offerta di mobilità.
Risulta evidente che l'interesse prioritario al detto incontro domanda/offerta per la mobilità ricade sui dipendenti pubblici in esubero, collocati nelle liste di disponibilità e, dunque, alle soglie del licenziamento. Proprio attraverso la mobilità verso un altro ente, questi dipendenti potrebbero evitare la risoluzione del rapporto di lavoro.
Il dl 90/2014 ha anche apportato due importanti modifiche all'articolo 34 del dlgs 165/2001, finalizzate proprio a rafforzare le tutele nel mercato del lavoro per i dipendenti in esubero. Il comma 4 è stato arricchito dalla precisazione secondo cui nei sei mesi anteriori alla data di scadenza del termine di permanenza nelle liste di disponibilità, i dipendenti possono chiedere di transitare in mobilità presso altre amministrazioni anche con un demansionamento di una categoria o di un livello. Non solo: questi dipendenti mantengono il diritto di essere successivamente ricollocati nella propria originaria qualifica e categoria di inquadramento, anche attraverso le procedure di mobilità volontaria. In secondo luogo, il comma 6 novellato dispone che nell'ambito della programmazione triennale del personale sia «l'avvio di procedure concorsuali» sia «le nuove assunzioni a tempo indeterminato o determinato per un periodo superiore a dodici mesi», debbono essere precedute dalla «verificata impossibilità di ricollocare il personale in disponibilità iscritto nell'apposito elenco».
L'accezione «nuove assunzioni» indubbiamente si estende a reclutamenti diversi da quelli tramite concorsi, tra i quali rientrano di conseguenza quelli mediante mobilità volontaria. Del resto, se le amministrazioni sono chiamate a prevedere nella programmazione triennale delle assunzioni la verifica dell'esistenza di personale in disponibilità come condizione per attivare i concorsi e, comunque, assumere, ciò significa che occorre applicare l'articolo 34-bis del dlgs 165/2001 a qualsiasi forma di reclutamento, ivi compresa la mobilità volontaria. La quale, per altro, in un regime di vincoli e restrizioni alle assunzioni per concorso, costituisce una chiave d'ingresso fondamentale negli enti per il personale in disponibilità (articolo ItaliaOggi del 26.09.2014).

CONDOMINIO: Rate condominiali in contanti. Al di sotto di mille euro non è obbligatorio il bonifico. Il chiarimento del Mineconomia dato in risposta a un'interrogazione parlamentare.
Rate condominiali pagabili in contanti. Purché inferiori a mille euro e purché il versamento sia assistito da pezze giustificative chiare.

Questa l'interpretazione del ministero dell'economia e finanze, chiamato a interpretare la norma della riforma del condominio, che ha obbligato all'apertura del conto corrente del fabbricato (risposta a interrogazione fornita ieri in commissione finanze alla camera dal viceministro Luigi Casero).
La legge 220/2012 ha preteso che ogni condominio abbia il suo conto, ma il problema riguarda la possibilità di versamento o prelevamento del contante.
Nella prassi molti amministratori hanno informato i proprietari della impossibilità di accettare pagamenti in contanti (per rate della gestione o per il riscaldamento), contemporaneamente richiedendo il pagamento a mezzo di bonifico.
Da questo scenario, è partita l''interrogazione 23.09.2014 a risposta immediata in Commissione n. 5-03617 (Pisano e altri), cui il Mef ha risposto aprendo all'uso del contante, ma con operazioni sempre tracciate con documentazione giustificativa. Ma partiamo dall'interrogazione.
In essa si ricorda che dal 18.06.2013 è in vigore la riforma del condominio (legge 220/2012) e che tra i nuovi adempimenti amministrativi e contabili spicca l'obbligo, imposto all'amministratore, di aprire e usare il conto corrente bancario o postale intestato al condominio: sul conto devono transitare tutte le somme percepite dai condòmini o da terzi, nonché quelle a chiunque erogate per conto del condominio (è il nuovo articolo 1129, comma 7, codice civile.
Il legislatore vuole, dunque, rendere tracciabili le somme della gestione condominiale. Questo giova, innanzitutto ai comproprietari, che possono controllare analiticamente tutte le operazioni e serve anche per far emergere tutte le transazioni fatte dal condomino con terzi fornitori. Tuttavia, si rileva nella interrogazione, i nuovi obblighi a carico degli amministratori hanno creato non poche preoccupazioni tra gli addetti al settore. E, secondo alcuni, si rischia di paralizzare la gestione condominiale, imponendo un divieto assoluto all'amministratore di prelevare o depositare dei contanti dal conto corrente.
Per arginare lo stallo, qualche interprete propone di consentire le operazioni per cassa, consentendo all'amministratore di versare o prelevare contante dal conto corrente, anche mediante l'indicazione di una generica causale (per esempio, fondo cassa), purché della gestione del denaro vi sia dettagliato riscontro nella contabilità condominiale: per i versamenti, mediante la specificazione della provenienza e del titolo del pagamento; per i prelievi, mediante l'annotazione analitica delle spese effettuate nel registro di contabilità e nel rendiconto condominiale. Ma questa strada è incompatibile con l'esigenza di rendere tracciabile tutte le operazioni, sia per il condomino, ma anche per il fisco.
Il dilemma è quindi che cosa voglia dire l'articolo 1129, comma 7 del codice civile quando dice che le somme devono necessariamente transitare sul conto. La risposta del Mef lascia spazi all'uso del contante, ma strettamente tracciato. Il ministero richiama una circolare sulla tracciabilità dei canoni di locazione (circolare 05.02.2014), che si è occupata del problema analogo dell'uso del contante per pagare gli affitti. Il Mef in quella circolare, ai fini dell'irrogazione delle sanzioni antiriciclaggio ha stabilito che sono da prendere in considerazione solo i pagamenti pari o superiori a mille euro e, conseguentemente, ha ritenuto pericolose unicamente le movimentazioni di contante eccedenti la soglia fissata dalla legge.
La circolare conclude nel senso che, sotto la soglia dei mille euro, la finalità di conservare traccia delle transazioni in contante può ritenersi soddisfatta fornendo una prova documentale, comunque formata, ma chiara e idonea ad attestare la destinazione di una determinata somma di denaro contante al pagamento del canone di locazione. Questa interpretazione, dice ora il Mef, può essere estesa al pagamento delle rate condominiali. E, quindi, le operazioni sotto soglia non comportano rischio di sanzioni antiriciclaggio, ma bisogna avere una pezza d'appoggio precisa sulla provenienza e sulla destinazione dei fondi (articolo ItaliaOggi del 25.09.2014).

PATRIMONIOAlienabili gli immobili non abitativi. Nota anci.
Solo gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo, e non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali dei comuni, potranno essere alienati dagli enti che vorranno aderire al programma straordinario di cessione di asset immobiliari previsto dalla legge di stabilità 2014 (legge 147/2013).
Anche gli enti territoriali possono infatti essere ricompresi nel programma da cui il governo si attende 500 milioni di introiti l'anno. I comuni interessati dovranno con delibera consiliare individuare i beni da dismettere e dare mandato al Mef affinché vengano inseriti nel decreto dirigenziale che autorizza il trasferimento.
A quel punto sarà l'Agenzia del Demanio a vendere i beni secondo le modalità della trattativa privata (articolo ItaliaOggi del 25.09.2014).

SICUREZZA LAVOROSicurezza, arrivano i modelli semplificati per i piani operativi.
È stato pubblicato nella G.U. n. 212 il Decreto interministeriale del 09/09/2014 relativo a «Modelli semplificati per la redazione del piano operativo di sicurezza (Pos), del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e del fascicolo dell'opera (Fo) nonché del piano di sicurezza sostitutivo (Pss)».
La scelta del legislatore di allegare al testo del decreto gli schemi di redazione dei modelli semplificati (il cui utilizzo da parte delle imprese affidatarie ed esecutrici o dei coordinatori è facoltativa) consente di esprimere un primo giudizio nel merito di un provvedimento da tempo richiesto alle sedi competenti.
È apprezzabile la volontà del legislatore di condurre la redazione a criteri di semplicità, brevità e immediata comprensione, pur senza mettere in discussione la doverosa completezza: il rischio da evitare, soprattutto quando si parla di sicurezza, è che «modello semplificato» diventi sinonimo di «modello poco rilevante».
Sorprende, invece, la mancata rivisitazione del titolo IV del dlgs 81/2008, in particolare per ciò che concerne i compiti del coordinatore in fase di progettazione e di esecuzione dei lavori; a causa delle responsabilità dirette a lui attribuite, è obbligato a dover prevedere l'imprevedibile, con l'esposizione di casistiche di rischio talmente vasta da rendere molto difficile la razionalizzazione della documentazione.
L'auspicio è che si possa andare nella direzione in cui al coordinatore sia consentito di concentrare la propria attività nella progettazione e programmazione delle opere secondo canoni di salute e sicurezza, intervenendo nella gestione dei soli rischi da interferenza e lasciando a terzi quelli propri d'impresa (articolo ItaliaOggi del 25.09.2014).

APPALTIAppalti in deroga, stretta sulle varianti. L'Anac: obbligo di comunicazione anche se i lavori sono stati affidati senza gara.
Opere pubbliche. L'Autorità anticorruzione dà una nuova interpretazione della norma contenuta nel decreto legge 90.

Dall'Anac di Raffaele Cantone arriva un nuovo giro di vite sulle varianti, le modifiche ai progetti decise a cantieri già aperti, da cui in un caso su due dipendono gli aumenti di costo delle grandi opere pubbliche.
D'ora in avanti anche le correzioni apportate ai che godono di procedure in deroga dovranno passare sotto il vaglio dell'Anticorruzione. Dunque non potranno sfuggire ai controlli neppure le opere affidate a commissari o appaltate senza gara. E soprattutto non sarà possibile tentare di sfuggire ai controlli "frazionando" artificiosamente l'importo delle variazioni al progetto, perché saranno sottoposte a verifica anche le varianti plurime relative allo stesso appalto, se l'importo cumulativo porta a superare la soglia del 10% che fa scattare i controlli.
Il chiarimento arriva con
il comunicato 17.09.2014 firmato da Cantone.
La nota serve a chiarire nel dettaglio quando scattano i controlli sulle varianti introdotte dal decreto Pa (Decreto legge n. 90/2014, articolo 37) indicando anche quali documenti vanno inviati all'Autorità, in che modo e con quali responsabilità.
Il decreto impone di trasmettere all'Anac tutte le varianti (che comportano aumenti di costo superiori al 10% delle opere di importo superiore alla soglia europea di 5,186 milioni), con l'esclusione di quelle dovute a evoluzioni normative o errori progettuali.
Nei casi previsti dal decreto, spiega l'Anac, le stazioni appaltanti dovranno inviare all'Anac l'atto di validazione della variante con la relazione del funzionario pubblico che segue l'appalto (il Rup) insieme alla perizia di variante e al progetto esecutivo. In particolare, tra i documenti dovranno essere «inderogabilmente» compresi un computo metrico-estimativo di raffronto dei costi, l'atto aggiuntivo e «i verbali di concordamento dei nuovi prezzi, se presenti».
Il comunicato spiega nel dettaglio anche i contenuti cui dovrà attenersi la relazione del Rup e specifica che la documentazione dovrà essere inviata tramite un Cd. Nella nota vengono date anche alcune indicazioni di coordinamento tra i precedenti metodi di comunicazione delle varianti alla vecchia Avcp e la nuova disciplina. Vanno comunicate solo le varianti relative ad appalti superiori a 40mila euro, ma cambia il termine massimo della comunicazione che scende a 30 giorni dopo l'approvazione, dai precedenti 60 giorni.
Cantone precisa che l'obbligo di comunicazione da parte della stazione appaltante sussiste anche in alcuni casi che avrebbero potuto far sporgere dubbi restando alla lettera del decreto. La novità più importante riguarda l'obbligo di comunicazione delle varianti di opere affidate tramite procedure speciali. Saranno soggetti ai controlli anche gli appalti che godono di corsie preferenziali rispetto ai controlli ordinari.
Infine, si specifica che il controllo scatta anche quando la soglia del 10% del valore dell'appalto viene superata attraverso più varianti relative allo stesso contratto. Dunque, strada sbarrata ai frazionamenti artificiosi allo scopo di aggirare i controlli. In tal caso -è questa l'ulteriore precisazione- il termine di 30 giorni per la comunicazione parte dall'approvazione della variante che ha determinato il superamento della soglia del 10%. Infine, l'Anac ricorda che tocca al Rup adempiere agli obblighi di trasmissione delle varianti.
E le inadempienze si pagano a caro prezzo. Le multe possono arrivare a 25.822 euro per mancata trasmissione e fino a 51.545 euro per false comunicazioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PATRIMONIOImmobili dei comuni in vendita. Il Demanio potrà cedere i beni non più funzionali. Nota Anci: anche gli enti locali possono partecipare al programma di dismissione
Immobili dei comuni in vendita. Anche i municipi possono partecipare al programma straordinario di cessione di asset immobiliari pubblici rilanciato dalla legge di stabilità 2014 che dalle dismissioni si aspetta introiti non inferiori a 500 milioni di euro l'anno per il triennio 2014-2016.
A chiarirlo è l'Anci che in una nota tecnica ha voluto richiamare l'attenzione delle amministrazioni locali sull'opportunità di cogliere la chance offerta dal comma 391 della legge 147/2013. L'estensione agli enti territoriali della possibilità di aderire al programma straordinario di cessione è stabilita dal decreto legge 30.11.2013 n. 133 (il cosiddetto dl Imu che l'anno scorso cancellò la seconda rata dell'imposta municipale). Alla base dell'operazione di dismissione, «obiettivi di finanza pubblica» (fare cassa per abbattere il debito) ma anche ambientali («prevenire nuove urbanizzazioni e ridurre il consumo di suolo»).
Gli enti interessati dovranno individuare con delibera consiliare i beni da dismettere. Nella stessa delibera dovrà essere conferito mandato al ministero dell'economia per inserire la lista degli immobili da cedere nel decreto dirigenziale che ne dovrà autorizzare il trasferimento.
Potranno essere alienati a titolo oneroso beni ad uso prevalentemente abitativo che l'ente ritenga non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali. Il dl 133 vieta l'alienazione di immobili a società la cui struttura non consenta l'identificazione delle persone fisiche o giuridiche che ne detengono la proprietà.
Per questo genere di operazioni, dunque, non potranno essere utilizzate società anonime con sede all'estero e un eventuale atto di trasferimento a società di questo tipo sarà nullo.
Sarà l'Agenzia del demanio a vendere, con trattativa privata, gli immobili per i quali sia stata espressamente autorizzata con decreto del Mef. Dalla trattativa privata dovranno essere esclusi i soggetti che siano stati condannati, con sentenza irrevocabile, per reati fiscali o tributari.
Le amministrazioni cedenti, chiarisce l'Anci, saranno esonerate dall'obbligo di rendere le dichiarazioni urbanistiche richieste dalla legge per la validità degli atti e dall'obbligo di allegare il certificato di destinazione urbanistica contenente le prescrizioni riguardanti le aree interessate dal trasferimento.
Nessuna indicazione invece sulle modalità di determinazione del valore dell'immobile oggetto di dismissione (articolo ItaliaOggi del 24.09.2014).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing solo quando c'è causa-effetto. Cassazione. Deve essere dimostrata la connessione tra azioni vessatorie e danno alla dignità o alla salute personale.
La Corte di Cassazione, con sentenza 25.09.2014 n. 20230, nell'ambito del giudizio promosso da un dipendente che affermava la nullità del licenziamento irrogato dal datore di lavoro quale culmine di un comportamento ritorsivo e vessatorio, ha precisato i tratti distintivi e peculiari del mobbing nello specifico contesto lavorativo.
Si qualifica come mobbing il comportamento ostile e persecutorio che la vittima subisce da parte dei componenti del gruppo in cui è inserito o da parte del suo responsabile con l'intento di ottenere la sua espulsione dall'ambiente di lavoro. Si tratta di una fattispecie a formazione progressiva, precisa la Suprema corte, che richiede per la sua configurazione una serie ripetuta e protratta nel tempo di atti e di comportamenti vessatori che, valutati complessivamente, risultano diretti a perseguitare la vittima con l'obiettivo primario di emarginarla.
La Cassazione si affida a questa definizione di mobbing in ambito lavorativo riprendendo le valutazioni che, a tale proposito, sono state espresse dalla Corte costituzionale e fatte proprie dalla giurisprudenza di legittimità. Tali valutazioni hanno qualificato il mobbing come una condotta vessatoria nei confronti di una vittima ascrivibile a uno o più colleghi, protratta nel tempo e consistente nella ripetizione di azioni ostili, che assumono la forma di persecuzione nei confronti del lavoratore e da cui discendono la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetti pregiudizievoli per la sua personalità e integrità psicofisica.
Nel quadro di questa più generale qualificazione si osserva nella sentenza 20230 che, ai fini dell'effettiva configurabilità del mobbing, devono essere contemporaneamente presenti una serie di essenziali e insostituibili condizioni. Il primo requisito consiste in azioni e comportamenti di carattere persecutorio –che sono generalmente illeciti, ma possono essere anche leciti se considerati singolarmente– posti in essere in modo sistematico e prolungato nel tempo con una precisa finalità vessatoria da parte di uno o più dipendenti o responsabili aziendali o anche da parte dello stesso datore di lavoro. Deve quindi derivare da queste condotte persecutorie la lesione del bene salute, ovvero una compromissione dell'integrità psicofisica del lavoratore e la mortificazione del dipendente sul piano della personalità o della dignità.
La Corte prosegue evidenziando che, ai fini dell'insorgenza del mobbing, è necessario che tra azioni vessatorie e lesione della dignità personale e/o della salute del lavoratore vi sia un nesso eziologico di causa ed effetto, cui si deve, infine, aggiungere la sussistenza di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Conclude la Cassazione affermando che, data la complessità e specificità della fattispecie, va esclusa la possibilità di ritenere il mobbing implicitamente dedotto dalla parte che ricorre al giudice del lavoro, atteso che è invece necessario allegare e dimostrare con dovizia e precisione gli specifici elementi di fatto e le circostanze da cui si possa risalire ai molteplici elementi che qualificano la figura del mobbing.
È stata, quindi, confermata la sentenza della Corte d'appello impugnata dal lavoratore proprio sul presupposto che nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio non era presente alcuna allegazione specifica in merito al fatto che il licenziamento fosse diretta conseguenza di una condotta vessatoria e ritorsiva del datore di lavoro
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2014).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: Rientra tra gli ordinari poteri gestori del dirigente adottare il provvedimento di proroga del termine di pubblica utilità dell’opera pubblica ai fini dell’espropriazione.
Con riferimento alla dedotta incompetenza del dirigente a disporre la proroga, anche in disparte la disposizione attributiva di competenza, invocata dal Comune appellante, di cui all'art. 6, comma 7, del d.P.R. n. 327/2001 (che radica la competenza del dirigente dell'ufficio espropriazioni ove istituito a emanare "...ogni provvedimento conclusivo del procedimento o di singole fasi di esso..."), deve ritenersi che l'adozione dell'atto non esula dagli ordinari poteri gestori ex art. 107, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, tenuto conto che ai medesimi è riconducibile addirittura l'emanazione di atti ablativi con immediata e diretta efficacia nella sfera giuridica dei destinatari quali ad esempio l'emanazione del decreto di occupazione d'urgenza.
... per la riforma della sentenza del TAR per il Lazio, Sezione staccata di Latina, n. 564 del 17.06.2013, notificata il 31.07.2013, resa tra le parti, con cui, in accoglimento del ricorso in primo grado n.r. 5/2013, sono stati annullati il decreto dirigenziale di esproprio n. 3 del 18.04.2009 e il presupposto decreto dirigenziale n. 2 del 06.04.2007, di proroga della dichiarazione di pubblica utilità, con declaratoria dell'obbligo del Comune di Frosinone di emanare provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001 e contestuale determinazione del risarcimento dovuto, con condanna al pagamento delle spese del giudizio liquidate in complessivi € 1.500,00
...
Da ultimo, e con riferimento alla dedotta incompetenza del dirigente a disporre la proroga, anche in disparte la disposizione attributiva di competenza, invocata dal Comune appellante, di cui all'art. 6, comma 7, del d.P.R. n. 327/2001 (che radica la competenza del dirigente dell'ufficio espropriazioni ove istituito a emanare "...ogni provvedimento conclusivo del procedimento o di singole fasi di esso..."), deve ritenersi che l'adozione dell'atto non esula dagli ordinari poteri gestori ex art. 107, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, tenuto conto che ai medesimi è riconducibile addirittura l'emanazione di atti ablativi con immediata e diretta efficacia nella sfera giuridica dei destinatari (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25/11/2008, n. 5816) quali ad esempio l'emanazione del decreto di occupazione d'urgenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04/04/2011, n. 2107, 18/03/2010, n. 161) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.09.2014 n. 4825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La dichiarazione di pubblica utilità é implicita nell’approvazione del progetto esecutivo di un’opera pubblica.
Per la dichiarazione di pubblica utilità non è necessaria una particolare motivazione, essendo questa conseguenza ex lege dell'approvazione del progetto definitivo.
Inoltre, la volontà di realizzare un'opera pubblica deve esplicitarsi in provvedimenti tipici, dichiarativi della pubblica utilità, come evincibili dall'art. 12 del d.P.R. n. 327 del 2001, in sostanziale continuità con quanto in precedenza previsto dall'art. 14 comma 13, l. 11.02.1994 n. 109.

In questo senso, la giurisprudenza successiva a tale decreto (differentemente dall’unico precedente di questo Consiglio indicato dalla difesa della parte appellata, dato nel 1987) ha chiarito come, per la dichiarazione di pubblica utilità, non sia necessaria una particolare motivazione, essendo questa conseguenza ex lege dell'approvazione del progetto definitivo (vedi Consiglio di Stato, sez. IV, 09.12.2011 n. 6468); e che la volontà di realizzare un'opera pubblica deve esplicitarsi in provvedimenti tipici, dichiarativi della pubblica utilità, come evincibili dall'art. 12 del d.P.R. n. 327 del 2001, in sostanziale continuità con quanto in precedenza previsto dall'art. 14 comma 13, l. 11.02.1994 n. 109 (Consiglio di Stato, sez. VI, 24.11.2011 n. 6207) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.09.2014 n. 4824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
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Secondo una tesi sostenuta dalla giurisprudenza di primo grado <<è possibile procedere a condono senza il consenso ed anche contro la volontà del proprietario del bene oggetto del procedimento di sanatoria>>.
Una tesi intermedia, invece, ritiene che alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere, non solo «coloro che hanno titolo, ai sensi della l. 28.01.1977 n. 10, a richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione» (oggi i soggetti indicati dall’art. 11 t.u. edilizia), ma anche, «salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria, quindi, sarebbe fungibile ratione personarum, ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
In quest’ottica:
a) è stata considerata sufficiente l'avvenuta sottoscrizione, da parte di un soggetto, di un atto di impegno ad acquistare il locale interessato alla sanatoria;
b) è stato ritenuto indispensabile, in caso di dissidio fra proprietari perché le opere di cui si chiede il condono incidono sul diritto di alcuni di essi, che l’istruttoria della pratica ed il provvedimento finale diano conto della verifica della legittimazione del soggetto richiedente;
c) è stato considerato inapplicabile l’istituto del condono, laddove l’abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente opinando, l’amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati all’eliminazione dell’abuso anche in via amministrativa e non solo con azioni privatistiche.
A tale tesi intermedia aderisce il Collegio.
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L'autocertificazione della qualità di proprietario, ancorché resa nelle forme di legge, non è sufficiente ad accertare l'esistenza in capo al soggetto richiedente la sanatoria edilizia di un valido titolo di disponibilità giuridica dell’immobile (nel caso di specie era stata resa un'autocertificazione ai sensi dell’art. 2 della L. n. 15 del 1968 e art. 1 del DPR n. 403/1998).

L’appello è infondato.
Occorre premettere che, in base all’art. 11, comma primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
Secondo una tesi sostenuta dalla giurisprudenza di primo grado (cfr. Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.07.2011, n. 1057), <<è possibile procedere a condono senza il consenso ed anche contro la volontà del proprietario del bene oggetto del procedimento di sanatoria>>.
Una tesi intermedia, invece, ritiene che alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere, non solo «coloro che hanno titolo, ai sensi della l. 28.01.1977 n. 10, a richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione» (oggi i soggetti indicati dall’art. 11 t.u. edilizia), ma anche, «salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria, quindi, sarebbe fungibile ratione personarum, ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario (cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.2009, n. 437; sez. IV, 22.06.2000, n. 3520, secondo la quale, però, la riduzione della misura dell’oblazione prevista dall’art. 34 l. n. 47 cit., essendo calcolata in base al solo criterio funzionale della destinazione economica delle opere, opererebbe esclusivamente ratione rei).
In quest’ottica:
a) è stata considerata sufficiente l'avvenuta sottoscrizione, da parte di un soggetto, di un atto di impegno ad acquistare il locale interessato alla sanatoria (cfr. Cons. St., sez. VI, 27.06.2008, n. 3282);
b) è stato ritenuto indispensabile, in caso di dissidio fra proprietari perché le opere di cui si chiede il condono incidono sul diritto di alcuni di essi, che l’istruttoria della pratica ed il provvedimento finale diano conto della verifica della legittimazione del soggetto richiedente (cfr. Cons. giust. amm. 03.06.2009, n. 84/2009);
c) è stato considerato inapplicabile l’istituto del condono, laddove l’abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente opinando, l’amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati all’eliminazione dell’abuso anche in via amministrativa e non solo con azioni privatistiche (cfr. Cons. St., sez. VI, 27.06.2008, n. 3282).
A tale tesi intermedia aderisce il Collegio (cfr. Cons. St, sez. V, 08.11.2011, n. 5894).
Nel caso di specie la richiesta del controinteressato non è stata preceduta da alcuna manifestazione di volontà dei comproprietari avente carattere autorizzatorio; sicché deve ritenersi, conformemente a quanto sostenuto dalla ricorrente in prime cure, che questi fosse privo di legittimazione a richiedere il titolo edilizio.
Il Comune di San Pietro Vernotico, invero, ha omesso l’accertamento relativo all’esistenza in capo al sig. Daniele Bagordo di un valido titolo di disponibilità giuridica dell’immobile, ritenendo idonea prova del diritto di proprietà semplicemente un’autocertificazione resa ai sensi dell’art. 2 della L. n. 15 del 1968 e art. 1 del DPR n. 403/1998.
Tale dovere di accertamento l’amministrazione avrebbe dovuto compiere avendo il sig. Bagordo Daniele rappresentato ed asserito che il lastrico solare sul quale era stata edificata l’opera abusiva fosse in comproprietà tra i sigg.ri Bagordo Stefano, Bagordo Daniele e Foscarini Giuseppa, e quindi avrebbe dovuto prendere in considerazione l’insussistente consenso del comproprietario, il quale, anzi, aveva più volte manifestato il proprio dissenso, rispetto al rilascio del titolo volto a legalizzare il manufatto abusivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.09.2014 n. 4818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il procedimento di riconoscimento di debito fuori bilancio, di cui all'art. 194 del TUEL, presuppone che il creditore possa vantare, a fondamento della propria pretesa, l’esistenza di un titolo valido ed efficace.
La giurisprudenza sul punto è univoca essendo pacifico che detto procedimento “rispondendo all'interesse pubblico alla regolarità della gestione finanziaria dell'ente, è diretto esclusivamente a sanare irregolarità di tipo contabile dell'ente locale e non può sopperire alla mancanza di un'obbligazione validamente sorta”.

Passando ad esaminare nel merito la domanda di parte ricorrente, se ne rileva l’infondatezza per le ragioni che seguono.
Il procedimento di riconoscimento di debito fuori bilancio, di cui all'art. 194 del TUEL, presuppone che il creditore possa vantare, a fondamento della propria pretesa, l’esistenza di un titolo valido ed efficace.
La giurisprudenza sul punto è univoca essendo pacifico che detto procedimento “rispondendo all'interesse pubblico alla regolarità della gestione finanziaria dell'ente, è diretto esclusivamente a sanare irregolarità di tipo contabile dell'ente locale e non può sopperire alla mancanza di un'obbligazione validamente sorta” (cfr. Cons. Stato Sez. V, 29.12.2009, n. 8953).
Orbene, nella fattispecie sottoposta all’esame di questo Tribunale, difetta proprio il presupposto dato dall’esistenza in capo ai professionisti di un valido ed efficace titolo fonte di obbligazioni per il Comune intimato.
Non è controverso, infatti, che, come esposto nelle premesse in fatto, il Tribunale di Enna (con sentenza n. 185/2011) ha statuito che “il provvedimento di conferimento dell’incarico sarebbe stato nullo per mancanza di copertura finanziaria e, di riflesso, la nullità avrebbe reso tale anche il disciplinare stipulato tra le parti”.
Ne consegue che, poiché l’esistenza del credito di cui parte ricorrente ha chiesto il riconoscimento fuori bilancio era, al memento di proposizione dell’istanza ex art. 194 del D.lgs. 267/2000 dalla stessa formulata, sub judice, stante l’impugnazione della citata sentenza del Tribunale di Enna, in maniera legittima il Comune di Valguarnera, lungi dal rimanere inerte alla suddetta istanza, con la nota sindacale del 06.12.2013, l’ha respinta per insussistenza dei presupposti di legge.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 24.09.2014 n. 2458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn materia di gare pubbliche per l'affidamento di appalti di servizi, il ricorso all'avvalimento avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa è legittimo, atteso che la disciplina dell'art. 49 del D.Lgs. n. 163 del 2006 non pone alcuna limitazione, se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 dello stesso Codice degli appalti.
In punto di fatto va premesso:
a) che il contestato contratto di avvalimento riguarda esclusivamente il possesso del fatturato e dell’esperienza pregressa, non anche la messa a disposizioni di mezzi e risorse necessari per l’esecuzione del servizio, di cui la società controinteressata era già in possesso (circostanza questa non contestata dalla ricorrente);
b) che l’accordo di avvalimento reca un’analitica ed esaustiva elencazione del fatturato globale degli ultimi tre esercizi (distinto per singolo anno), del fatturato specifico nel settore oggetto della gara e dell’elenco dei principali servizi, prestati negli ultimi tre anni, con l’espressa indicazione degli importi e dei destinatari.
Sulla base di tali elementi e della natura dei requisiti messi a disposizione dall’ausiliaria, l’avvalimento appare sufficientemente determinato e idoneo ad assicurare la serietà e l'affidabilità dell'offerta tecnica, poiché dal contratto di avvalimento si evince con esattezza e precisione la natura dell'impegno assunto (riguardante la messa a disposizione del fatturato e dell’esperienza pregressa) e la sua concreta portata (coincidente con il rispetto degli importi minimi fissati dalla lex specialis), tenuto anche conto che, nel caso di specie, i requisiti prestati dall’ausiliaria servono essenzialmente ad accedere alla gara, non già ad incrementare i mezzi e gli strumenti operativi della Eurogroup che già possiede gli altri requisiti di partecipazione.
A tal riguardo, va richiamata la consolidata giurisprudenza amministrativa in base alla quale il ricorso all'avvalimento, avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa, è legittimo, atteso che la disciplina dell'art. 49 del D.Lgs. n. 163 del 2006 non pone alcuna limitazione, se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 dello stesso Codice degli appalti (cfr. ex multis, Cons. Stato Sez. III, 06.02.2014, n. 584 e 25.02.2014, n. 895; sez. V, 14.02.2013, n. 911) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 24.09.2014 n. 2449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di verifica dell'anomalia dell'offerta, la consolidata giurisprudenza ritiene:
a) che il giudizio della stazione appaltante costituisce esplicazione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità, irrazionalità o erroneità che rendano palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta;
b) che, pertanto, il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, cosa che rappresenterebbe invece un'inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione;
c) che anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica dell'amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può intervenire; fermo restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell'amministrazione;
d) che la valutazione di congruità debba essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, giacché l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono, e che il solo scostamento dagli importi fissati nelle tabelle ministeriale del costo del lavoro non costituisce ex se fattore di anomalia.

Il Collegio premette che in tema di verifica dell'anomalia dell'offerta, la consolidata giurisprudenza ritiene:
a) che il giudizio della stazione appaltante costituisce esplicazione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità, irrazionalità o erroneità che rendano palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26.06.2012, n. 3737; 22.02.2011, n. 1090);
b) che, pertanto, il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, cosa che rappresenterebbe invece un'inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732);
c) che anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica dell'amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può intervenire; fermo restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell'amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 06.06.2012, n. 3340; 29.02.2012, n. 1183);
d) che la valutazione di congruità debba essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, giacché l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono (Cons. Stato, sez. V, 27.08.2012, n. 4600; sez, V, 16.08.2011, n. 4785), e che il solo scostamento dagli importi fissati nelle tabelle ministeriale del costo del lavoro non costituisce ex se fattore di anomalia (Cons. Stato, sez. III, 28.05.2012, n. 3134) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 24.09.2014 n. 2449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl principio della necessità della motivazione in caso di reiterazione del vincolo (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, del D.P.R. n. 327 del 2001) è stato affermato dalla giurisprudenza quale temperamento dell'altro principio per il quale un atto di pianificazione generale -tranne i casi di incidenza su posizioni consolidate da giudicati o da convenzioni di lottizzazione- non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri posti a sua base.
In base a tale temperamento, poiché l'art. 2 della legge n. 1187 del 1968 aveva previsto la decadenza del vincolo preordinato all'esproprio per il decorso del quinquennio in assenza della dichiarazione della pubblica utilità, si è ammesso che l'esercizio del potere di reiterazione del vincolo possa essere esercitato solo sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che faccia escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti, occorrendo l'effettiva cura di un pubblico interesse.
Infatti, “l'Amministrazione deve indicare la ragione che la induce a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era appuntata: la reiterazione del vincolo espropriativo, sic et simpliciter, non è dunque consentita, dovendo l'Amministrazione evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, in quanto si va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio".

La censura merita condivisione in virtù di quanto statuito su tale questione giuridica con decisione 24.05.2007 n. 7 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato le cui essenziali argomentazioni qui di seguito si riportano (in termini Cfr. Tar Sicilia-Palermo, II Sez, 05/12/2008-15/01/2009 n. 80).
Il nuovo quadro normativo risultante dal testo unico approvato con il D.P.R. n. 327 del 2001 (come successivamente modificato), si caratterizza oggi per una espressa ed unitaria disciplina del procedimento volto alla espropriazione per pubblica utilità, al cui interno si inserisce la fase della apposizione del vincolo preordinato all'esproprio (ovvero quella della sua reiterazione, a seguito della sua scadenza). In particolare, il legislatore ha previsto:
- sul piano procedimentale e sostanziale, l’abrogazione (con l'art. 58, comma 1, n. 96) dell'art. 2 della legge n. 1187 del 1968, da cui la giurisprudenza traeva la regola della decadenza del vincolo preordinato all'esproprio per il decorso del termine di cinque anni dalla sua imposizione, e (con l'art. 9, commi 3 e 4) ha esplicitato con una diversa terminologia la regola della durata quinquennale, disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e della reiterazione;
- per quanto riguarda l'indennità, con l'art. 39 ha fissato alcune regole riguardanti l'an e il quantum, nonché il procedimento avente ad un tempo natura di presupposto processuale per la proponibilità della domanda e la funzione di determinare gli elementi rilevanti per la fattispecie.
Tale normativa trova applicazione nella specie, in quanto è entrata in vigore prima della data di emanazione del decreto dirigenziale impugnato.
Il testo unico si è ispirato –come ha osservato l’Adunanza Plenaria- ad un tempo al criterio della tabula rasa (disciplinando un unico modello procedimentale, per la reductio ad unum del sistema) e a quello -indispensabile per ravvisare il rispetto della delega legislativa- della esplicitazione dei principi desumibili dal precedente complesso quadro normativo (caratterizzato dalla coesistenza di regulae iuris derivanti da leggi, regolamenti e da sentenze interpretative o di incostituzionalità della Corte Costituzionale).
Ciò premesso, va osservato che il principio della necessità della motivazione in caso di reiterazione del vincolo (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, del D.P.R. n. 327 del 2001) è stato affermato dalla giurisprudenza quale temperamento dell'altro principio per il quale un atto di pianificazione generale -tranne i casi di incidenza su posizioni consolidate da giudicati o da convenzioni di lottizzazione- non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri posti a sua base.
In base a tale temperamento, poiché l'art. 2 della legge n. 1187 del 1968 aveva previsto la decadenza del vincolo preordinato all'esproprio per il decorso del quinquennio in assenza della dichiarazione della pubblica utilità, si è ammesso che l'esercizio del potere di reiterazione del vincolo possa essere esercitato solo sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che faccia escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti, occorrendo l'effettiva cura di un pubblico interesse.
Infatti, “l'Amministrazione deve indicare la ragione che la induce a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era appuntata: la reiterazione del vincolo espropriativo, sic et simpliciter, non è dunque consentita, dovendo l'Amministrazione evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, in quanto si va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio" (Cons. Stato Sez. IV, dec. n. 159 del 1994, cit., § 11) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.09.2014 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività di vigilanza. Esercizio di poteri repressivi. Ricorso in sede giurisdizionale. Contointeressati in senso formale. Proprietari di fondo limitrofo. Esclusione.
Ove siano gravati in sede giurisdizionale provvedimenti repressivi di abusi edilizi, i proprietari confinanti con il terreno interessato dall'abuso non hanno la posizione di controinteressati in senso giuridico formale in rapporto agli atti impugnati.
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In applicazione del c.d. criterio della vicinitas, i proprietari di immobile limitrofo a quello interessato da attività edilizia sono titolari di un interesse protetto alla regolare edificazione sul fondo vicino, con possibilità di sollecitare interventi repressivi dell’Amministrazione e di impugnare titoli abilitativi rilasciati con riferimento a quest’ultimo, se ritenuti illegittimi; l’Amministrazione, tuttavia, è tenuta ad adottare i provvedimenti ritenuti necessari nei confronti del solo proprietario dell’area, direttamente interessata dall’intervento edilizio ritenuto irregolare, senza che l’atto rechi alcuna indicazione riguardo ai soggetti, che abbiano eventualmente sollecitato le iniziative comunali e senza pertanto che tali soggetti possano ritenersi controinteressati, se non in via di mero fatto, con conseguente ininfluenza dell’eventuale notifica del ricorso agli stessi.
L’art. 41, comma 2 del Codice del processo amministrativo (approvato con d.lgs. n. 104 del 2010) è del resto chiaro nell’indicare quale “controinteressato” alla conservazione dell’atto il soggetto “che sia individuato nell’atto stesso”.

Sono pure da respingere alcune eccezioni preliminari contenute nell’appello incidentale dei signori Sodano e Di Giorgio (da ritenere, in primo luogo, strumento non idoneo per contestare l’originario permesso di costruire, in quanto possibile oggetto di tempestiva impugnazione solo in via principale): irrilevante, in primo luogo, risulta la prospettata tardività della notifica del ricorso di primo grado a detti appellanti incidentali, non avendo questi ultimi la posizione di controinteressati in senso giuridico formale in rapporto agli atti, impugnati dal signor Montone.
Detti appellanti incidentali infatti, in quanto proprietari di un immobile limitrofo a quello di cui si discute, sono titolari di un interesse protetto alla regolare edificazione sul fondo vicino, con possibilità di sollecitare interventi repressivi dell’Amministrazione e di impugnare titoli abilitativi rilasciati con riferimento a quest’ultimo, se ritenuti illegittimi; l’Amministrazione, tuttavia, è tenuta ad adottare i provvedimenti ritenuti necessari nei confronti del solo proprietario dell’area, direttamente interessata dall’intervento edilizio ritenuto irregolare, senza che l’atto rechi alcuna indicazione riguardo ai soggetti, che abbiano eventualmente sollecitato le iniziative comunali e senza pertanto che tali soggetti possano ritenersi controinteressati, se non in via di mero fatto, con conseguente ininfluenza dell’eventuale notifica del ricorso agli stessi (notifica da ritenersi effettuata, nel caso di specie, per mero tuziorismo).
A maggior ragione tale posizione di controinteresse non può essere invocata per l’ordine di cessazione dell’attività, in rapporto al quale viene meno anche il criterio della vicinitas e a cui i signori Sodano e Di Giorgio possono ritenersi interessati solo in via indiretta, ovvero con esclusivo riferimento ad una destinazione d’uso dell’edificio di cui trattasi, conforme a quella prevista dalla vigente disciplina urbanistica.
L’art. 41, comma 2, del Codice del processo amministrativo (approvato con d.lgs. n. 104 del 2010) è del resto chiaro nell’indicare quale “controinteressato” alla conservazione dell’atto il soggetto “che sia individuato nell’atto stesso”. Quanto all’eccezione di omessa notifica al Sindaco quale “Ufficiale di Governo”, la circostanza è stata smentita in fatto, con richiamo all’intervenuta notifica di copia dell’atto di appello all’Avvocatura Generale dello Stato.
L’eccezione di improcedibilità, infine, appare a sua volta da respingere, in quanto riferita ad omessa impugnazione di un provvedimento (revoca di parere favorevole della Soprintendenza n. prot. 9917 del 04.04.2012), che appare riferibile alle difformità rilevate rispetto al progetto assentito e non –come viene rappresentato– all’originario titolo abilitativo, rilasciato nel 2002 e ampiamente consolidato, senza che emergano precise ragioni per ritenere che –in contrasto con quanto previsto dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 in tema di autotutela, in particolare sotto il profilo dei tempi ragionevolmente rapidi di esercizio– la Soprintendenza intendesse eliminare il presupposto del titolo abilitativo originario.
Detta revoca, pertanto, non può che essere riferita alle difformità riscontrate e ritenute non sanabili, senza coinvolgere la richiesta valutazione di legittimità delle misure repressive e ripristinatorie, previste dall’ordinanza n. 45 del 17.11.2012, la cui esecuzione avrebbe dovuto non regolarizzare dette difformità, ma ripristinare la conformità dell’edificio al progetto assentito, sia pure con modifica –ritenuta non incompatibile con la normativa urbanistica– dei livelli altimetrici del suolo a valle dell’edificio stesso.
Analoghe considerazioni vanno riferite all’appello incidentale del Comune, concernente la medesima revoca della Soprintendenza (mentre altre considerazioni investono solo l’impugnazione con motivi aggiunti –ritenuti tardivi– di atti endoprocedimentali, conseguenti a quelli impugnati in via principale)
Nella citata ordinanza n. 45/2012 –rilevate diverse difformità di quanto realizzato, in rapporto al permesso di costruire n. 1931 (prot. 2872) del 04.03.2002– si imponeva di riportare l’immobile costruito allo stato originario previsto in progetto, con limitate demolizioni e adeguamenti, ripristinando “plano-altimetricamente il piano di campagna che circonda l’immobile” e chiudendo “le finestre a servizio del piano interrato, che danno sul prospetto che sporge per circa un metro dall’attuale piano di campagna”. Detta ordinanza è stata resa oggetto di comunicazione di avvio del procedimento e, successivamente, di revoca in autotutela, con contestuale ordine di demolizione, per ragioni che il Collegio intende esaminare sotto i fondamentali profili di stretta legittimità, che appaiono assorbenti rispetto alle ipotesi di sviamento e incompetenza, prospettate dalla difesa dell’appellante in modo diffuso e, per certi aspetti, disorganico.
Deve quindi essere sottolineato come l’originario permesso di costruire del 04.03.2002, nonché l’autorizzazione unica del 10.08.2006, consentissero l’installazione sull’area di cui trattasi di un edificio di tre piani, uno dei quali completamente interrato, da adibire alla lavorazione artigianale del ferro e dell’alluminio. Dopo alcuni anni l’immobile realizzato è stato oggetto di contestazioni, sul piano sia strettamente edilizio che della destinazione d’uso.
Sotto il primo profilo, i rilievi riguardavano alcune difformità minori e, soprattutto, la parziale fuoriuscita del piano interrato per un dislivello naturale del terreno, con conseguente superamento dei limiti volumetrici e di altezza, come calcolati nel progetto approvato.
In rapporto a quanto sopra –escluse ipotesi di sanatoria, che non costituiscono oggetto del presente giudizio– la citata ordinanza n. 45 del 2012 disponeva la rimessa in pristino dell’immobile in base a detto progetto, anche tramite un riporto di terreno, tale da rendere nuovamente interrato il piano, parzialmente emergente a causa del predetto dislivello. Non è contestato che tale ordinanza sia stata eseguita dall’interessato, né che il livellamento fosse compatibile con la vigente normativa urbanistica.
In tale situazione, il Collegio ritiene che le successive contestazioni, inerenti ad altezza e volumetria dell’edificio (calcolate come se la parziale fuoriuscita dal terreno non fosse stata eliminata), nonché allo stesso livellamento del terreno (intervenuto in esecuzione dell’ordinanza comunale e al fine di eliminare le difformità anzidette) non possano ritenersi legittime, in quanto frutto di erronea applicazione delle norme, dettate in materia di difformità essenziale dell’edificio rispetto al relativo titolo abilitativo (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.09.2014 n. 4790 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire. Interventi eseguiti con variazioni essenziali. Rimozione difformità. Residue difformità. Valutazione loro rilevanza in base ai principi di proporzionalità e ragionevolezza. Necessità.
L’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui prevede la “rimozione” delle difformità essenziali rilevate, rispetto al progetto assentito, deve trovare lettura, seppure con le dovute cautele, conforme ai principi di proporzionalità e ragionevolezza.
In base a tali principi, ove, successivamente all'intervento di ripristino, emergano assai modeste difformità rispetto al progetto assentito dall'Amministrazione comunale, l’interesse pubblico al rispetto dei parametri urbanistici può essere perseguito senza necessaria e, a tal punto, sproporzionata compromissione degli interessi del proprietario dell’immobile, se costretto ad una demolizione dell’edificio inevitabilmente totale, poiché riferita a parti strutturali (nella specie si trattava del piano seminterrato di sostegno).

L’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui prevede la “rimozione” delle difformità essenziali rilevate, rispetto al progetto assentito, deve infatti trovare lettura, seppure con le dovute cautele, conforme ai principi di proporzionalità e ragionevolezza.
In base a tali principi, ove un assai modesto eccesso di altezza e di volumetria fossero conseguenza –come viene rappresentato nel caso di specie– di un mero dislivello del terreno e ove quest’ultimo potesse venire corretto con un riporto di terreno, se non incompatibile con la normativa vigente in tema di calcolo delle volumetrie interrate, l’interesse pubblico al rispetto dei parametri urbanistici avrebbe potuto essere perseguito (come in un primo tempo avvenuto) senza necessaria e, a tal punto, sproporzionata compromissione degli interessi del proprietario dell’immobile (se costretto ad una demolizione dell’edificio inevitabilmente totale, poiché riferita al piano seminterrato di sostegno) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.09.2014 n. 4790 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano regolatore. Destinazione di zona. Insediamenti produttivi a supporto dello sviluppo turistico. Limite dimensionale e non tipologico. Destinazione artigianale. Compatibilità.
In un'area che, secondo il vigente strumento urbanistico comunale, ha destinazione a "Insediamenti produttivi a supporto dello sviluppo turistico”, va ritenuto che la previsione urbanistica imponga limiti di dimensioni più che di tipologia degli insediamenti stessi, potendo questi ultimi supportare lo sviluppo turistico dell’area solo se a carattere di esercizio commerciale o artigianale, in settori utili anche per le esigenze di turisti e viaggiatori (soggiornanti, o in transito con autovetture, imbarcazioni, caravan o roulottes), senza quella compromissione delle caratteristiche funzionali al turismo, che potrebbe ravvisarsi in presenza di insediamenti di livello industriale, o comunque inidonei a soddisfare esigenze contingenti dell’utenza.
Quanto alla destinazione dell’immobile di cui trattasi, il Collegio ugualmente non concorda con quanto rappresentato nell’atto di revoca, risultando ancora una volta irragionevole un’interpretazione restrittiva della destinazione dell’area (D2: “Insediamenti produttivi a supporto dello sviluppo turistico”), dovendo ritenersi che la norma imponga limiti di dimensioni più che di tipologia degli insediamenti stessi, potendo questi ultimi supportare lo sviluppo turistico dell’area solo se a carattere di esercizio commerciale o artigianale, in settori utili anche per le esigenze di turisti e viaggiatori (soggiornanti, o in transito con autovetture, imbarcazioni, caravan o roulottes), senza quella compromissione delle caratteristiche funzionali al turismo, che potrebbe ravvisarsi in presenza di insediamenti di livello industriale, o comunque inidonei a soddisfare esigenze contingenti dell’utenza (cfr. in senso sostanzialmente conforme Cons. Stato, V, 23.10.2013, n. 5132, citata dalla appellante) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.09.2014 n. 4790 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Opere realizzare in assenza di titolo abilitativo. Area soggetta a vincolo ex art. 142 d.lgs. 42/2004. Repressione dell'abuso. Proporzionalità della sanzione. Individuazione del pregiudizio concreto. Occorre. Scarso impatto delle opere realizzate. Demolizione. Illegittimità.
1.1. Qualora siano realizzate opere edilizie senza titolo abilitativo in zona gravata da vincolo paesaggistico, queste non violano la disciplina sostanziale delle area di sedime come disciplinata dagli strumenti urbanistici se non danno vita a nuovi volumi non incidendo, quindi, sul carico insediativo.
In questa ipotesi le opere realizzate rappresentano al più violazioni di natura formale in quanto realizzate senza titolo abilitativo ovvero senza previa presentazione della SCIA (nel caso di specie le opere in questione consistevano nell'installazione di una nuova recinzione di un immobile abitativo in proprietà, una diversa pavimentazione delle aree esterne rispetto a quella preesistente nonché la sistemazione del terreno).
1.2. Qualora siano realizzate alcune opere in assenza di titolo abilitativo, purché non violino in maniera sostanziale la normativa urbanistica, anche qualora ricadano in un'area tutelata ex art. 142 d.lgs. n. 42/2004 –ma non soggetta a vincolo specifico ex art. 136 d.lgs. n. 42/2004– non è giustificabile la sanzione della demolizione a meno che non venga individuato il concreto pregiudizio recato da dette opere.

2. (segue): ordinanza di demolizione. Accertamento di conformità in sanatoria. Obbligo di definizione del procedimento prima di adottare la sanzione irrogata. Necessità.
Qualora le opere realizzate sine titulo abbiano scarso o nullo (sostanziale) rilievo urbanistico-edilizio, una volta presentata la domanda d’accertamento di conformità delle opere realizzate senza titolo edilizio, il Comune deve necessariamente definire il procedimento di sanatoria prima di adottare la sanzione irrogata.
Tulle le censure denunciate colgono nel segno.
Nell’ordine.
Effettivamente le opere oggetto dell’ordinanza impugnata non violano la disciplina sostanziale delle area di sedime come disciplinata dagli strumenti urbanistici.
Tant’e che né la comunicazione d’avvio del procedimento né l’ordine di demolizione indicano le norme del PRG o del regolamento edilizio violate. La contestazione degli abusi dal punto di vista urbanistico-edilizio rappresenta piuttosto violazioni di natura formale: le opere sono state realizzate senza titolo abilitativo ovvero senza previa presentazione della SCIA.
Nulla si dice in ordine al pregiudizio recata all’assetto urbano.
Il fatto che incidano su area tutelata ex lege (ex art. 142 t.u. bb. cc.) –e non da vincolo specifico (ex art. 136 bb. cc.)– non giustifica affatto la sanzione della demolizione: occorre(va) individuare il concreto pregiudizio recato al paesaggio dalla recinzione e da una diversa pavimentazione, rispetto a quella preesistente, del terreno circostante la casa.
In considerazione dello scarso o nullo (sostanziale) rilievo urbanistico-edilizio delle opere, va altresì ribadito l’orientamento giurisprudenziale (cfr., TAR Campania, Napoli, sez. IV, 14.07.2008 n. 8769; Cons. St., sez. IV, 27.09.2005 n. 4473) che, una volta presentata la domanda d’accertamento di conformità delle opere realizzate senza titolo edilizio, onera il Comune a definire il procedimento di sanatoria prima di adottare la sanzione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Liguria, Sez. I, sentenza 23.09.2014 n. 1361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Dichiarazione di inizio attività. Non legittima. Esercizio dei poteri inibitori repressivi da parte dell’Amministrazione. Esercizio dei c.d. poteri di autotutela decisoria.
La dichiarazione di inizio attività si consolida nel momento in cui l’Amministrazione omette di esercitare sia il potere inibitorio-repressivo ad essa spettante in caso di carenza dei presupposti per la d.i.a., nel termine perentorio previsto dall’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001, sia i c.d. poteri di autotutela decisoria, espressamente richiamati dal secondo periodo del comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
2. (segue): esercizio dei poteri di autotutela oltre i termini perentori ex art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380/2001. Limiti ex art. 21-nonies legge n. 241/1990. Osservanza. Necessità. Motivazione. Bilanciamento tra interesse pubblico e affidamento del privato per effetto del decorso del tempo.
2.1. In presenza di una d.i.a. ritenuta illegittima, è certamente consentito all’Amministrazione Comunale di intervenire anche oltre il termine perentorio di cui all’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge subordina il potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
2.2. La d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria. È dunque illegittimo il provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
2.3. È illegittimo il modus procedendi dell’Amministrazione Comunale che, decorso il termine ex art. 23, comma 5, d.P.R. n. 380/2001 invece di procedere all’annullamento d’ufficio, ai sensi dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990, di d.i.a. ritenuta illegittima, provveda direttamente, senza alcuna motivazione ulteriore rispetto alla ritenuta illegittimità delle opere eseguite, ad ordinare la sospensione dei lavori e la rimozione degli interventi realizzati.

7. L’appello merita accoglimento.
8. Anche a prescindere dai profili di ambiguità presenti nella sentenza appellata (che effettivamente, in motivazione, sembra fare riferimento, per sostenere la legittimità del provvedimento impugnato, a lavori di ristrutturazione concernenti un diverso immobile ed un diverso procedimento di d.i.a.) risulta, nel caso di specie, dirimente la circostanza (non contestata) secondo cui il provvedimento di demolizione impugnato ha ad oggetto lavori regolarmente assentiti in base alla d.i.a. del 19.06.2008, n. 41741.
Risulta, in particolare, che l’Amministrazione comunale non solo ha lasciato che la menzionata d.i.a. si consolidasse, omettendo di esercitare, nel termine perentorio previsto dall’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001, il potere inibitorio-repressivo ad essa spettante in caso di carenza dei presupposti per la d.i.a., ma ha omesso anche l’esercizio dei c.d. poteri di autotutela decisoria, espressamente richiamati dal secondo periodo del comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
L’Amministrazione comunale, in altri termini, anziché procedere, come avrebbe dovuto, all’annullamento d’ufficio, ai sensi dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990, della d.i.a. ritenuta illegittima, ha provveduto direttamente, senza alcuna motivazione ulteriore rispetto alla ritenuta illegittimità delle opere eseguite, ad ordinare la sospensione dei lavori e la rimozione degli interventi realizzati.
In tal modo ha violato le garanzie previste dall’art. 19 legge n. 241 del 1990 che, in presenza di una d.i.a. illegittima, consente certamente all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di cui all’art. 23, comma 6, d.P.r. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge subordina il potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
Il modus procedendi seguito dall’Amministrazione comunale –tradottosi nella diretta adozione di un provvedimento repressivo-inibitorio, oltre il termine perentorio di sessanta giorni dalla presentazione della d.i.a. e senza le garanzie e i presupposti previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio– si appalesa, pertanto, senz’altro illegittimo.
La d.i.a, infatti, una volta perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria. Ne consegue l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
10. L’appello va, dunque, accolto e, per l’effetto in riforma della sentenza impugnata, deve essere annullato il provvedimento impugnato in primo grado (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.09.2014 n. 4780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ illegittimo il diniego del parere paesaggistico espresso dalla Sopraintendenza allorché la motivazione risulta generica, soprattutto nella fattispecie in cui l’intervento da realizzare é in sintonia con una zona tipizzata.
La Soprintendenza ha motivato il proprio diniego sulla base della seguente motivazione: “l’intervento, se realizzato, a causa delle linee architettoniche adottate e per la sopraelevazione proposta, per la caratterizzazione dell’area, dove le costruzioni esistenti sono di semplice fattura ed ad un unico livello, di fatto costituirebbe una alterazione agli stati cognitivi dello stato dei luoghi”.
Si tratta, come appare evidente, di una motivazione quasi tautologica, la quale, anziché evidenziare nello specifico i profili di pregiudizio che la realizzazione dell’intervento proposto arrecherebbe al bene paesaggistico tutelato, si limita, in maniera del tutto generica, a rilevare che le caratteristiche dell’intervento oggetto dell’istanza (ambiguamente richiamate con il riferimento alle “linee architettoniche adottate” e alla “sopraelevazione proposta”) lederebbero l’interesse tutelato, determinando, in particolare, una non meglio precisata “alterazione agli stati cognitivi dello stato dei luoghi”.
Dalla citata motivazione non è dato comprendere né quali siano in concreto gli aspetti dell’opera proposta la cui realizzazione contrasterebbe con il vincolo paesistico (in altri termini, non è dato comprendere in che senso e in che modo le linee architettoniche adottate e la sopraelevazione proposta arrecherebbero tale pregiudizio), né, tantomeno, la reale consistenza del paventato pregiudizio al bene paesaggio, essendo tutt’altro che perspicuo l’ambiguo riferimento alla “alterazione agli stati cognitivi dello stato dei luoghi”.

6. L’appello non merita accoglimento.
7. Il Collegio condivide le conclusioni cui è giunta la sentenza di primo grado in merito alla riscontrata carenza motivazionale che inficia il parere negativo espresso dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Lecce.
Nel caso in esame, infatti, la Soprintendenza ha motivato il proprio diniego sulla base della seguente motivazione: “l’intervento, se realizzato, a causa delle linee architettoniche adottate e per la sopraelevazione proposta, per la caratterizzazione dell’area, dove le costruzioni esistenti sono di semplice fattura ed ad un unico livello, di fatto costituirebbe una alterazione agli stati cognitivi dello stato dei luoghi”.
8. Si tratta, come appare evidente, di una motivazione quasi tautologica, la quale, anziché evidenziare nello specifico i profili di pregiudizio che la realizzazione dell’intervento proposto arrecherebbe al bene paesaggistico tutelato, si limita, in maniera del tutto generica, a rilevare che le caratteristiche dell’intervento oggetto dell’istanza (ambiguamente richiamate con il riferimento alle “linee architettoniche adottate” e alla “sopraelevazione proposta”) lederebbero l’interesse tutelato, determinando, in particolare, una non meglio precisata “alterazione agli stati cognitivi dello stato dei luoghi”.
Dalla citata motivazione non è dato comprendere né quali siano in concreto gli aspetti dell’opera proposta la cui realizzazione contrasterebbe con il vincolo paesistico (in altri termini, non è dato comprendere in che senso e in che modo le linee architettoniche adottate e la sopraelevazione proposta arrecherebbero tale pregiudizio), né, tantomeno, la reale consistenza del paventato pregiudizio al bene paesaggio, essendo tutt’altro che perspicuo l’ambiguo riferimento alla “alterazione agli stati cognitivi dello stato dei luoghi”.
Le suddette carenze motivazionali sono nel caso di specie aggravate dal fatto che, come evidenzia la sentenza appellata, l’intervento proposto è destinato a collocarsi in un’area (tipizzata dal PRG quale “zona BT turistico-residenziali edificate e di completamento”) nella quale è, peraltro, consentita la realizzazione di fabbricati articolati in piano terra e primo piano e che, nella stessa zona, risultano già presenti diversi fabbricati con sviluppo del primo piano. A ciò deve aggiungersi che, nella specie, il fabbricato proposto presenta un primo piano arretrato rispetto alla quinta stradale e, per la sua dimensione, poco visibile dalla strada.
9. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello del Ministero per i Beni e le Attività Culturali deve, pertanto, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.09.2014 n. 4778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Compatibilità paesaggistica e compatibilità edilizia. Autonomia dei procedimenti. Connessione. Sussiste.
Il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il nulla osta di compatibilità paesaggistica dell’intervento, sebbene procedimenti ontologicamente e logicamente distinti, avendo a oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di competenze diverse, sono strettamente connessi tra di loro.
2.2. Qualora la competente Soprintendenza non rilasci il nulla osta paesaggistico, il diniego di permesso di costruire pronunciato dall'amministrazione comunale è un atto dovuto e ben può essere adottato con il semplice richiamo al diniego di nulla osta paesaggistico.
2. Con il secondo motivo di appello vengono reiterati tutti i motivi aggiunti diretti avverso il diniego di permesso di costruire successivo al diniego di nulla osta paesaggistico dal competente ufficio del Comune introdotti in primo grado, che la sentenza non li avrebbe compiutamente esaminati.
I motivi devono poi essere disattesi nell’ordine che segue.
2.1. In conseguenza delle considerazioni che precedono circa la ritenuta legittimità del provvedimento della Soprintendenza deve esser respinto il terzo motivo con cui si assume l’illegittimità del diniego del Comune che sarebbe derivata dall’illegittimità del diniego del nulla osta della Soprintendenza.
Come è noto, il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il nulla osta di compatibilità paesaggistica dell’intervento, sebbene procedimenti ontologicamente e logicamente distinti, avendo a oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di competenze diverse, sono strettamente connessi tra di loro (cfr. ex multis CdS sez. VI, n. 6878/2011, CdS sez. IV, 4312/2012, CdS sez. IV n. 2513/2013).
In definitiva dunque il diniego di permesso di costruire pronunciato dal Comune era un atto dovuto e ben poteva essere adottato con il semplice richiamo al diniego di nulla osta paesaggistico
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.09.2014 n. 4759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire. Strumenti urbanistici sopravvenuti. Lavori assentiti e cominciati: irrilevanza. Attrezzature balneari stagionali: rilevanza.
L'art. 15, comma 4, del T.U. n. 380/2001 detta una deroga alla regola generale della decadenza del titolo edilizio in contrasto con un nuovo piano regolatore, prevedendo la continuazione di lavori precedentemente assentiti, pur in contrasto col piano sopravvenuto in vigore, se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio).
Con riferimento all'installazione di attrezzature balneari aventi carattere stagionale, va escluso che l’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 possa applicarsi ai permessi in precario e temporanei assentiti per il solo periodo estivo in quanto esse oltre il termine del periodo stagionale per il quale sono funzionalmente installate non possono considerarsi strutture integrate nel contesto edilizio-urbanistico. In tale ipotesi, qualora sopravvenga uno strumento urbanistico contrastante con l'installazione di manufatti precari stagionali, assume carattere prevalente l'esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche trovino indefettibile applicazione poiché finalizzate ad un più razionale assetto del territorio.

2.3. Infondato è poi anche il primo motivo con cui la società assume che sarebbe stata titolare di un permesso temporaneo n. 24247/2007 che legittimerebbe il posizionamento tra il 15 giugno al 15 settembre del 24.05.2007. Tale permesso essendo precedente il provvedimento di approvazione definitiva del PRG di Gallipoli avvenuta il 09.10.2007 con G.R. n. 1613 , ai sensi dell’art. 15 del T.U. n. 380/2001 sarebbe restato valido in quanto i suoi lavori sarebbero stati iniziati nel triennio precedente alla sua approvazione. Pertanto la richiesta del 03.12.2007 non sarebbe stata la richiesta di un nuovo permesso, ma una variante ad un permesso esistente.
L’assunto va respinto.
In primo luogo, sotto altro profilo, deve comunque escludersi in linea di principio che l’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, possa applicarsi ai permessi in precario e temporanei assentiti per il solo periodo estivo in quanto esse oltre il termine del periodo stagionale per il quale sono funzionalmente installate non possono considerarsi strutture integrate nel contesto edilizio-urbanistico.
Infatti la deroga alla regola generale della decadenza del titolo edilizio in contrasto con un nuovo piano regolatore di cui all'art. 15, comma 4, del T.U. n. 380/2001, che prevede la continuazione di lavori precedentemente assentiti, pur in contrasto col piano sopravvenuto in vigore, se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio) in tale ipotesi non ricorre e assume carattere prevalente l'esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche trovino indefettibile applicazione poiché finalizzate ad un più razionale assetto del territorio.
Ma è risolvente al riguardo la circostanza per cui l’invocato permesso n. 24247 è stato oggetto di revoca con un provvedimento, la cui legittimità è stata riconosciuta in esito all’appello n. 3213/2012 deciso in pari data.
Per questo del tutto inconferente è l’assunto per cui il dicembre 2007 la Praia avrebbe prodotto una domanda di variante al precedente permesso
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.09.2014 n. 4759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: La Sezione non si discosta dalla stessa giurisprudenza di questo Consesso la quale conferma la competenza del geometra nella progettazione in cemento armato di dimensioni minori, tra le quali, alla luce della disposizione citata, non sembra proprio potersi iscrivere un fabbricato-villino di abitazione che consta di sei piani e livelli.
Quanto poi alla sostenuta esistenza del limite dei 5000 mc., sino al quale il geometra potrebbe progettare opere in cemento armato, il Collegio non rileva nell’argomentazione dell’appellante la fonte normativa recante detto parametro. Il limite compare invece in una datata pronunzia di questo Consiglio (sez. V, n. 25/1999), peraltro assolutamente ignorata dalla successiva e prevalente giurisprudenza.

Entrando nei profili sostanziali della controversia, il secondo motivo argomenta in sintesi che la normativa non vieta in assoluto al geometra la progettazione di costruzioni in cemento armato, consentendogli in tale modalità le piccole costruzioni; tale precisazione della competenza è del resto stata evidenziata dalla giurisprudenza amministrativa ed in particolare il limite dimensionale sarebbe da individuarsi nei 5000 mc., sicché presentando il progetto assentito un volume di mc. 479 rientrava pienamente nelle competenze del tecnico che lo ha redatto. La tesi accolta dal TAR, infine, contrasterebbe con il dettato dell’art. 2, c. 14, della legge n. 1086/1971, che riconosce la competenza in questione con riferimento alle opere in conglomerato cementizio. Al riguardo il Collegio osserva quanto segue.
Non v’è dubbio che il divieto non deriva “tout court” dalla tipologia costruttiva nel materiale previsto dal progetto (per la competenza in generale a progettare in cemento armato vedasi ad es. Cons. di Stato, sez. Sez. IV, sent. n. 784/1997), ma la questione in controversia si correla diversamente a complessità e natura funzionale dell’edificio nella fattispecie concreta progettato ed assentito; la tesi che il geometra poteva progettare la costruzione in esame è smentita dal dato letterale dell’art. 16 del r.d. n 274/1929, rapportato alle caratteristiche della costruzione, quali emergono dagli atti; la norma, alla lettera “l”, dispone che la competenza riguarda “progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone”.
Nell’applicare alla fattispecie questo orientamento, la Sezione, peraltro, non si discosta dalla stessa giurisprudenza di questo Consesso citata dall’appellante (cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 7121/2003), la quale conferma la competenza del geometra nella progettazione in cemento armato di dimensioni minori, tra le quali, alla luce della disposizione citata, non sembra proprio potersi iscrivere un fabbricato-villino di abitazione che (come riferisce a p. 14 la documentata consulenza tecnica in atti a firma dell’arch. Remo Colonna) consta di sei piani e livelli.
Quanto poi alla sostenuta esistenza del limite dei 5000 mc., sino al quale il geometra potrebbe progettare opere in cemento armato, il Collegio non rileva nell’argomentazione dell’appellante la fonte normativa recante detto parametro. Il limite compare invece in una datata pronunzia di questo Consiglio (sez. V, n. 25/1999), peraltro assolutamente ignorata dalla successiva e prevalente giurisprudenza.
Infine sulla portata del citato art. 2 legge n. 1086/1971, basti considerare il fatto noto che le opere in conglomerato cementizio e quelle in cemento armato costituiscono nozioni diverse
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.09.2014 n. 4751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Accesso agli atti. Diritto di cronaca e diritto di difesa. Limiti oggettivi e soggettivi ex legge n. 241/1990. Operatività.
1. In tema di rapporto tra diritto di cronaca nell’esercizio dell’attività giornalistica e diritto di accesso ai documenti detenuti dall’amministrazione, assumendo valore la libertà di informazione, parte della giurisprudenza riconosce una posizione qualificata e differenziata della stampa in relazione alla conoscenza degli atti detenuti dalla pubblica Amministrazione, rilevando inoltre -sempre in linea di principio- i nuovi approdi dell’ordinamento comunitario in subjecta materia circa una compiuta evoluzione verso una società dell’informazione e della conoscenza (cfr. Direttiva 2003/98/CE).
2. In relazione alla domanda di accesso formulata da giornalista in relazione ad atti detenuti dalla P.A., al fine di vagliarne la fondatezza, occorre tener presente l’ambito soggettivo e quello oggettivo prescritti dalla legge entro i quali va riconosciuta la tutela sottesa all’accesso, presupponendo, un siffatto diritto (art.22 della legge n. 241/1990 -legge sul procedimento amministrativo e art. 2, comma 1, del DPR n. 352/1992- regolamento di attuazione) un interesse personale e concreto, strumentale all’accesso, in quanto volto alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti.
Infatti, in linea di principio non si può equiparare la posizione di una testata giornalistica o di un operatore della stampa a quella di un qualunque soggetto giuridico per quanto attiene al diritto di accesso ai documenti amministrativi, nondimeno, non è consentito dilatare l’ambito applicativo della normativa di tipo garantista di cui all'art. 22 della legge n. 241/1990.
3. Nel valutare l'istanza di accesso agli atti proposta da un giornalista il quale, a seguito di querela avanzata nei suoi confronti da un funzionario appartenente alla stessa amministrazione a cui si chiede l'ostensione della documentazione debba difendersi nel conseguente processo penale e, pertanto, motivi l'istanza ex art. 22 legge n. 241/1990 adducendo la necessità di ristabilire tanto la verità giudiziaria quanto quella giornalistica (richiamando, quindi, sia il diritto di cronaca sia il diritto di difesa), occorre procedere alle seguenti considerazioni:
   a) qualora il numero dei documenti di cui si domanda l'ostensione sia elevato e la loro individuazione risulti del tutto generica, la richiesta potrebbe risolversi nell'intento di esercitare un controllo generalizzato sull'attività della P.A., il che equivarrebbe a introdurre una inammissibile azione popolare sulla trasparenza dell’azione amministrativa che si pone al di fuori della portata della norma di cui all'art. 22 legge n. 241/1990;
   b) una richiesta formulata in maniera troppo generica, nel senso di richiedere atti e documenti riguardanti l’organizzazione, le attività, le competenze e le attribuzioni delle Autorità coinvolte in una determinata vicenda, si estenderebbe indiscriminatamente ad atti e documenti che possono essere del tutto indifferenti ai fini della richiesta, con un conseguente aggravio ingiustificato dell’attività amministrativa;
   c) qualora l’esercizio del diritto di cronaca venga in rilievo non in quanto tale oggettivamente, ma nella misura in cui è strumentale ad altra finalità, quale quella di reperire materiale documentale utile alla difesa in un giudizio penale, il diritto d’accesso non può non essere limitato a quei documenti correlati direttamente alla situazione giuridicamente rilevante (il diritto di difesa) e per la quale sussiste l’esigenza concreta ed attuale di accordare la relativa tutela, senza che possa parlarsi di quale che sia la lesione al diritto di informazione;
   d) occorre valutare se il soggetto che richiede l'accesso agli atti possa attingere conoscenza della documentazione non strettamente funzionale al diritto di difesa e rientrante nel concetto di informazioni da rendersi all’opinione pubblica attraverso lo strumento informatico di consultazione di dati e notizie presenti sui siti istituzionali esistenti;
4. Nel caso in cui un soggetto proponga istanza ex art. 22 legge n. 241/1990 al fine di ottenere l'ostensione di un documento per cui vale l'esclusione dal diritto di accesso in quanto riguardante un'attività della P.A. diretta all'emanazione di atti normativi, adducendo un interesse circostanziato sia in relazione al diritto di cronaca, sia in relazione al diritto alla difesa ex art. 24, comma 7, legge n. 241/1990, qualora non sia possibile individuare la correlazione logica tra il contenuto dell'atto di cui si richiede l'ostensione e il processo penale da cui origina il diritto alla difesa, l'esercizio del diritto di accesso incontra comunque il limite di cui all'art. 24, comma 1, lett. c), legge n. 241/1990.
5. L'istanza di accesso agli atti proposta da un giornalista il quale, a seguito di querela avanzata nei suoi confronti da un funzionario di una delle amministrazioni che detengono la documentazione di cui si ordina l'ostensione, adduce un interesse circostanziato sia in relazione al diritto di cronaca, sia in relazione al diritto alla difesa può essere accolta –qualora vengano in rilevo aspetti di riservatezza e di sicurezza pubblica– solo in relazione a quei documenti direttamente ancorati, quanto al loro contenuto, alle controverse contestazioni oggetto del procedimento penale (nella specie era stato negato l'accesso alla certificazione antimafia di un'impresa nonché agli elenchi delle imprese non soggette a rischio d’inquinamento mafioso, in quanto nulla avevano a che vedere con l'oggetto del processo che interessava l'istante). 

In linea generale, ferma restando la delicatezza della questione riguardante il rapporto tra diritto di cronaca nell’esercizio dell’attività giornalistica e diritto di accesso ai documenti detenuti dall’amministrazione, la Sezione è ben consapevole del particolare valore che assume la libertà di informazione (Corte Costituzionale nn. 126/1995; idem 225/1077 e 105/1972), così come è ben a conoscenza di un preciso orientamento giurisprudenziale di questo stesso consesso (sentenza Sez. VI 05 marzo-06.05.1996 n. 570) circa la posizione qualificata e differenziata della stampa in relazione alla conoscenza degli atti detenuti dalla pubblica Amministrazione.
Parimenti, sempre in linea di principio, vanno rammentati i nuovi approdi dell’ordinamento comunitario in subjecta materia circa una compiuta evoluzione verso una società dell’informazione e della conoscenza (cfr. Direttiva 2003/98/CE) .
Ciò preliminarmente precisato, occorre però pur sempre tener presente l’ambito soggettivo e quello oggettivo prescritti dalla legge entro i quali va riconosciuta la tutela sottesa all’accesso, presupponendo, un siffatto diritto (art. 22 della legge n. 241/1990 -legge sul procedimento amministrativo e art. 2, comma 1, del DPR n. 352/1992- regolamento di attuazione) un interesse personale e concreto, strumentale all’accesso, in quanto volto alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti (in tal senso Cons. Stato VI 13/07/2000 n. 2109; idem 22/05/1998 n. 820).
Ora, se in linea di principio non si può equiparare la posizione di una testata giornalistica o di un operatore della stampa a quella di un qualunque soggetto giuridico per quanto attiene al diritto di accesso ai documenti amministrativi, nondimeno,nella specie non è consentito dilatare l’ambito applicativo della normativa di tipo garantista di cui al citato art. 22 della legge n. 241/1990 nei confronti del sig. V. ove si consideri che:
a) il numero dei documenti variamente chiesti di conoscere nonché la genericità della richiesta avanzata alle Amministrazioni complessivamente coinvolte nella vicenda lasciano intravvedere un intento che si pone al di fuori della portata della norma di cui al citato art. 22, e cioè quello di esercitare un controllo generalizzato sull’attività della P.A. il che equivale a introdurre una inammissibile azione popolare sulla trasparenza dell’azione amministrativa;
b) chiedere genericamente atti e documenti riguardanti “l’organizzazione, le attività, le competenze e le attribuzioni delle Autorità coinvolte” vuol dire formulare istanze che, in definitiva si estendono indiscriminatamente ad atti e documenti che possono essere del tutto indifferenti ai fini della richiesta, tramutandosi la domanda di conoscenza in un aggravamento dell’attività amministrativa, senza che possa essere non consentito, tenuto conto agli interessi (pubblici e privati) coinvolti;
c) nella specie l’esercizio del diritto di cronaca viene in rilievo non in quanto tale oggettivamente, ma nella misura in cui è strumentale ad altra finalità, quella di reperire materiale documentale utile alla difesa in giudizio e se così è, il diritto d’accesso non può non essere limitato a quei documenti (esattamente individuati dal Tar in sede di accoglimento parziale) correlati direttamente alla situazione giuridicamente rilevante (il diritto di difesa) e per la quale sussiste l’esigenza concreta ed attuale di accordare la relativa tutela (Cons. Stato Sez. VI 02/03/2003 n. 1122), senza che possa parlarsi di quale che sia la lesione al diritto di informazione;
d) il giornalista-pubblicista sig. V. può attingere conoscenza degli atti e documenti non strettamente funzionali al diritto di difesa e rientranti nel concetto di informazioni da rendersi all’opinione pubblica attraverso lo strumento informatico di consultazione di dati e notizie presenti sui siti istituzionali esistenti.
Col secondo e terzo motivo di gravame (da trattarsi congiuntamente per ragioni di connessione) l’appellante critica la sentenza del Tar nella parte in cui viene nega la possibilità di ostensione della OPCM n. 3820 del 12/11/2009 e degli atti ad essa connessi sul rilievo che detta ordinanza reca determinazioni amministrative per le quali non sussistono ragioni tali da escluderla dall’accesso.
La statuizione impugnata si rivela immune dal vizio dedotto a suo carico.
L’OPCM in parola reca “ulteriori interventi urgenti diretti fronteggiare gli eventi sismici verificatisi nella regione Abruzzo il giorno 06.04.2009 e altre disposizioni di protezione civile” e avuto riguardo al contenuto delle disposizioni in essa contenute, ha natura di atto sostanzialmente normativo, come tale sottratto all’accesso ai sensi dell’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241/1990 che esclude espressamente l’accesso per “gli atti normativi/amministrativi generali, di pianificazione e programmazione per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”.
Il sig. Venti poi, con altri profili di doglianza rivendica il diritto a conoscere gli atti e documenti che hanno condotto alla formulazione dell’art. 2 di detta OPCM recante una clausola sanante per i subappalti, quelli riguardanti la gestione dei rifiuti liquidi, nonché gli atti di costituzione del “Gruppo interforze centrale per l’emergenza e la ricostruzione - GICER-".
Ora, con riferimento ai primi atti, gli stessi hanno una funzione meramente ancillare rispetto alla disposizione normativa di che trattasi (l’art. 2 dell’OPCM) senza assumere una rilevanza esterna, sicché la richiesta di accedere agli stessi è del tutto inammissibile.
Quanto agli altri atti e documenti richiesti, non è dato in ogni caso conoscere in concreto la necessaria, stretta correlazione logica tra il contenuto di tali determinazioni di carattere organizzativo e il processo penale da cui si origina la vicenda all’esame.
In altri termini, anche in questo caso le ragioni dell’accesso appaiono strumentali alla finalità di rendere informazioni al pubblico, nell’esercizio dell’attività di pubblicista e le stesse si sovrappongono a quelle inerenti strettamente l’esercizio del diritto di difesa: la richiesta di accesso va ad interessare indiscriminatamente atti di tipo organizzativo la cui conoscenza appare finalizzata all’esercizio del diritto di cronaca che qui però, come già sopra esposto, non può essere fatto valere.
Né, d’altra parte per i profili meritevoli di tutela è stata data dimostrazione alcuna della correlazione logico-funzionale tra la cognizione di detti atti e la tutela delle esigenze difensive.
Le censure di cui al quarto motivo d’appello investono le statuizioni con cui il primo giudice con riferimento agli atti e documenti indicati alla lettera B della sentenza impugnata ha ritenuto fondata la richiesta di accesso solo per alcuni di detti documenti, negandola per il resto.
Ritiene il Collegio che la decisione del Tar sul punto sia ineccepibile.
Rimanendo nell’ ambito soggettivo ed oggettivo dell’istituto dell’accesso come applicabile al caso di specie, occorre prendere le mosse dal concreto e attuale interesse dell’appellante suscettibile di far insorgere il diritto alla conoscenza degli atti detenuti dalla pubblica amministrazione, quello esattamente coincidente con le esigenze di pieno esercizio del diritto di difesa dell’appellante nel giudizio penale instauratosi a suo carico.
Ebbene, se è vero che l’aspetto fondamentale che viene in rilievo nel giudizio penale è quello consistente in una presunta inerzia del dr. G. nello svolgimento delle funzioni di controllo sull’attività di ricostruzione circa l’assegnazione degli appalti e il regolare svolgimento delle attività nei cantieri, correttamente il primo giudice ha limitato il riconoscimento del diritto di accesso in favore del sig. V. a quegli atti e documenti, precipuamente indicati ai paragrafi 3.6.3 e 3.6.5 che sono direttamente ancorati, quanto al loro contenuto, alle controverse contestazioni oggetto del procedimento penale.
I restanti atti di cui è stata chiesta l’ostensione non ineriscono la posizione legittimante vantata dal sig. V., proprio perché, non esiste correlazione alcuna tra detti documenti e il giudizio penale: così dicasi per gli atti inerenti gli elenchi delle imprese non soggette a rischio d’inquinamento mafioso e così ancora per gli atti riguardanti il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica dell’11.11.2009.
Relativamente poi agli atti e documenti inerenti la certificazione antimafia della Impresa Di Marco s.r.l., al di là degli aspetti di riservatezza e di sicurezza pubblica pure sussistenti, il diniego di accesso appare giustificato in assenza di un interesse concretamente dimostrato circa la necessità di conoscere detta documentazione ai fini dell’esercizio di difesa.
Col quinto ed ultimo motivo parte appellante lamenta la mancata pronuncia del TAR in ordine alla richiesta di accedere agli atti di costituzione e attivazione della Direzione di Comando e Controllo (DI.COMA.C).
Sul punto la difesa dell’Amministrazione resistente eccepisce la inammissibilità del motivo, posto che al Venti sarebbe stata rilasciata detta documentazione e su tale eccezione parte appellante nulla obietta.
Ora, a prescindere dalla esattezza o meno del rilievo mosso da parte resistente circa l’avvenuta insorgenza di una causa di improcedibilità del mezzo d’impugnazione, va osservato come la censura dedotta con il motivo de quo sia stata introdotta in termini del tutto generici, senza essere accompagnata da minimi elementi di fatto e di diritto volti ad evidenziare la correlazione di tali documenti con la propria posizione legittimante: anche sotto tale profilo la doglianza deve considerarsi inammissibile.
Conclusivamente, l’appello all’esame, in quanto infondato, va respinto, con la precisazione che ogni altro motivo dedotto o adombrato deve ritenersi assorbito o comunque inidoneo a mutare l’esito delle prese conclusioni (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.09.2014 n. 4748 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1. Aggiudicazione definitiva. Annullamento in via di autotutela. Ricorso in sede giurisdizionale limitatamente all'incameramento della cauzione. Accoglimento del ricorso. Scadenza del termine di validità della polizza fideiussoria. Appello. Interesse a ricorrere. Sussiste.
1.1. Laddove la sentenza di I grado escluda –sia pure ai limitati e conseguenti fini dell’incameramento della cauzione– la legittimità del provvedimento di revoca dell’aggiudicazione definitiva della gara, sussiste l’interesse all’impugnazione da parte della stazione appaltante, ancorché la polizza fideiussoria possa essere venuta medio tempore a scadenza.
1.2. La circostanza che possa essere scaduto il termine di validità della polizza fideiussoria e, dunque, non sia possibile, tramite l’escussione del fideiussore, l’incameramento della cauzione, non esclude ex se l’interesse alla verifica, innanzi al giudice amministrativo, della legittimità del provvedimento sul quale si fonda il diritto di credito dell’amministrazione alla riscossione di un importo pari a quello della somma da offrire a garanzia in sede di gara e che l’art. 75 d.lgs. n. 163/2006 consente che venga assicurata (anche) per il tramite di fideiussione bancaria o assicurativa.

2. Cauzione provvisoria. Incameramento. Limiti. Ragionevolezza. Presupposti. Esclusione dalla gara di appalto. Atti di incameramento. Illegittimità derivata.
2.1. Nel quadro delle sanzioni conseguenti all’esclusione, l’istituto della cauzione provvisoria si profila come garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche, ed il suo incameramento, sussistendone i presupposti, risulta coerente con tale finalità, avendo esso la funzione di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta, sanzionando la violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente, mediante l'anticipata liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante.
E ciò tenuto conto del fatto che, con la domanda di partecipazione alla gara, l’operatore economico sottoscrive e si impegna ad osservare le regole della relativa procedura, delle quali ha, dunque, contezza.
2.2. L’incameramento della cauzione provvisoria costituisce una scelta del legislatore ordinario, scelta che, considerate la natura e le finalità della detta cauzione, non può essere giudicata frutto di un uso distorto ed arbitrario della discrezionalità allo stesso spettante e contrastante con il canone della ragionevolezza.
2.3. L’esclusione dalla gara di appalto costituisce il presupposto perché si faccia luogo alle due ipotesi sanzionatorie previste dall’art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006 di modo che, mentre l’impresa ben può dolersi della legittimità dell’esclusione, in relazione alle ragioni che la giustificano, al contrario non costituisce oggetto di sindacato giurisdizionale –sotto il profilo dell’eccesso di potere- la successiva determinazione dell’amministrazione di incameramento della cauzione e di segnalazione all’Autorità garante, posto che esse costituiscono conseguenze del tutto automatiche del provvedimento di esclusione, come tali non suscettibili di alcuna valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione, con riguardo ai singoli casi concreti e/o alle possibili differenti ragioni poste a giustificazione dell'esclusione medesima.
2.4. Ai fini dell'applicazione delle sanzioni previste dall’art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, il presupposto determinante (e dunque assorbente) è rappresentato dall'esclusione dell'impresa concorrente dalla gara pubblica. Ciò che è quindi possibile censurare, innanzi al giudice amministrativo, è la legittimità dell’esclusione, non –una volta che questa sia intervenuta (e sia ritenuta legittima)– l’adozione dei conseguenti atti di incameramento della cauzione e di segnalazione, essendo questi conseguenze automatiche, previste ex lege.
Soltanto nell'ipotesi in cui l’esclusione disposta ex art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006 venisse ritenuta illegittima in sede giurisdizionale, difetterebbe il presupposto per l’adozione degli atti di incameramento e segnalazione, che risulterebbero illegittimi in via derivata.

3. Dichiarazione sulla c.d. moralità professionale. Individuazione dei soggetti tenuti a renderla. Amministratori muniti dei poteri di rappresentanza.
3.1. Al fine di individuare la persona fisica, rispetto alla quale, nell'ambito del rapporto societario, assume rilievo la causa di esclusione ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006, e, dunque, il soggetto tenuto alla dichiarazione sostitutiva, richiesta, a pena di decadenza, dal bando di gara, il criterio interpretativo da seguire consiste nel ricercare, nello statuto della persona giuridica, quali siano i soggetti dotati di poteri di rappresentanza.
3.2. La verifica del possesso dei requisiti, ex art. 38 d. lgs. n. 163/2006, non è solo da riferirsi, formalisticamente, al soggetto che riveste la qualifica di amministratore ed è dotato di poteri di rappresentanza, ma a tutti quei soggetti che, per l’ampiezza dei poteri e la capacità di rappresentare la società nei confronti dei terzi, sono in grado di instaurare per essa rapporti giuridici e per essa assumere obbligazioni.
3.3. Con la locuzione di “amministratori muniti del potere di rappresentanza” l’art. 38 lett. c) cod. contratti ha inteso, riferirsi ad un’individuata cerchia di persone fisiche che, in base alla disciplina codicistica e dello statuto sociale, sono abilitate ad agire per l’attuazione degli scopi societari e che, proprio in tale veste qualificano in via ordinaria, quanto ai requisiti di moralità e di affidabilità, l’intera compagine sociale.

4. (segue): procuratori ad negotia. Esclusione dal novero dei soggetti tenuti a rendere le dichiarazioni sulla c.d. moralità professionale. Procuratori muniti di poteri decisionali particolarmente ampi. Amministratori di fatto. Sono tenuti a rendere le dichiarazioni ex art. 39 cod. contratti.
4.1. Il procuratore ad negotia è una figura eventuale e non necessaria nell’assetto istituzionale delle società di capitali. Elemento differenziale fra gli amministratori ed i procuratori ad negotia è che ai primi è, di norma, affidata l’attività gestoria dell’impresa con potere di rappresentanza generale, mentre i secondi, oltre a derivare il proprio potere dalla volontà (di regola) degli amministratori, operano di massima nell’interesse societario per oggetto limitato e soggiacciono al controllo di chi ha conferito la procura.
4.2. Nella modulazione degli assetti societari, la prassi mostra l’emersione, in talune ipotesi, di figure di procuratori muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti così che, per sommatoria, possano configurarsi omologhi, se non di spessore superiore, a quelli che lo statuto assegna agli amministratori.
In questo caso si pone l’esigenza di evitare, nell’ottica garantista dell’art. 38, comma 1, lett. c), che l’amministrazione contratti con persone giuridiche governate in sostanza, per scelte organizzative interne, da persone fisiche sprovviste dei necessari requisiti di onorabilità ed affidabilità morale e professionale, che si giovino dello schermo di chi per statuto riveste la qualifica formale di amministratore con potere di rappresentanza.
4.3. Ove risulti che il procuratore speciale sia munito di poteri di rappresentanza particolarmente ampi, il procuratore speciale finisce col rientrare a pieno titolo nella figura cui si richiama l’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006, poiché da un lato si connota come amministratore di fatto ai sensi dell’art. 2639, comma 1, cod. civ. e, d’altro lato, in forza della procura rilasciatagli, assomma in sé anche il ruolo di rappresentante della società, sia pure eventualmente solo per una serie determinata di atti.
Detta conclusione non è smentita dall’art. 45 Direttiva 2004/18/CE, il quale anzi, facendo riferimento a “qualsiasi persona” che “eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo” dell’impresa, sembra mirare, conformemente del resto all’orientamento generale del diritto dell’Unione, ad una interpretazione sostanzialista della figura.

5. (segue): omessa dichiarazione ex art. 38 cod. contratti da parte di procuratori speciali. Assenza di specifica comminatoria di esclusione nella lex specialis. Soccorso istruttorio. Occorre. Clausola di esclusione. Legittimità.
5.1. A causa della non univocità della norma circa l’onere dichiarativo da parte del procuratore speciale, deve intendersi che, qualora la lex specialis non contenga al riguardo una specifica comminatoria di esclusione, quest’ultima potrà essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione ex art. 38 cit., ma soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l’assenza del requisito in questione.
5.2. Ove la lex specialis di gara contenga una specifica comminatoria di esclusione per le imprese che non rendano le dichiarazioni ex art. 38, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006, anche per i procuratori speciali, la clausola del bando non viola l'art. 46 D.Lgs. n. 163/2006, poiché non crea una nuova clausola di esclusione, bensì l'applicazione di una norma del codice dei contratti, resa esplicita dalla Stazione appaltante per il tramite della puntuale previsione del bando. 

2. Preliminarmente, il Collegio deve rigettare l’eccezione di inammissibilità dell’appello, per difetto di interesse.
Ed infatti, la circostanza che possa essere scaduto il termine di validità della polizza e, dunque, non sia possibile, tramite l’escussione del fideiussore, l’incameramento della cauzione, non esclude ex se l’interesse alla verifica, innanzi al giudice amministrativo, della legittimità del provvedimento sul quale si fonda il diritto di credito dell’amministrazione alla riscossione di un importo pari a quello della somma da offrire a garanzia in sede di gara e che l’art. 75 d.lgs. n. 163/2006 consente che venga assicurata (anche) per il tramite di fideiussione bancaria o assicurativa.
Ne consegue che, laddove la sentenza di I grado esclude –sia pure ai limitati e conseguenti fini dell’incameramento della cauzione– la legittimità del provvedimento di revoca dell’aggiudicazione definitiva della gara, sussiste l’interesse all’impugnazione da parte della stazione appaltante, ancorché la polizza fideiussoria possa essere venuta medio tempore a scadenza.
3. Nel merito, l’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Giova, innanzi tutto, ricordare che, nel quadro delle sanzioni conseguenti all’esclusione, l’istituto della cauzione provvisoria si profila come garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche, ed il suo incameramento, sussistendone i presupposti, risulta coerente con tale finalità, avendo esso la funzione di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta, sanzionando la violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente, mediante l'anticipata liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante. E ciò tenuto conto del fatto che, con la domanda di partecipazione alla gara, l’operatore economico sottoscrive e si impegna ad osservare le regole della relativa procedura, delle quali ha, dunque, contezza.
Come ha osservato la Corte Costituzionale (sent. 13.07.2011 n.211), l’incameramento della cauzione provvisoria costituisce una scelta del legislatore ordinario, scelta che, considerate la natura e le finalità della detta cauzione, non può essere giudicata frutto di un uso distorto ed arbitrario della discrezionalità allo stesso spettante e contrastante con il canone della ragionevolezza.
Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV, 16.02.2012 n. 810): “l’esclusione dalla gara costituisce, dunque, il presupposto perché si faccia luogo alle due ipotesi sanzionatorie previste dall’art. 48, comma 1, di modo che, mentre l’impresa ben può dolersi della legittimità dell’esclusione, in relazione alle ragioni che la giustificano, al contrario non costituisce oggetto di sindacato giurisdizionale –sotto il profilo dell’eccesso di potere- la successiva determinazione dell’amministrazione di incameramento della cauzione e di segnalazione all’Autorità garante, posto che esse, come la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. V, 01.10.2010 n. 7263), costituiscono conseguenze del tutto automatiche del provvedimento di esclusione, come tali non suscettibili di alcuna valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione, con riguardo ai singoli casi concreti e/o alle possibili differenti ragioni poste a giustificazione dell'esclusione medesima.
In sostanza, ai fini dell'applicazione delle sanzioni previste, il presupposto determinante (e dunque assorbente) è rappresentato dall'esclusione. Ciò che è quindi possibile censurare, innanzi al giudice amministrativo, è la legittimità dell’esclusione, non –una volta che questa sia intervenuta (e sia ritenuta legittima)– l’adozione dei conseguenti atti di incameramento della cauzione e di segnalazione, essendo questi conseguenze automatiche, previste ex lege.
Ovviamente, laddove l’esclusione disposta venisse ritenuta illegittima, difetterebbe il presupposto per l’adozione degli atti di incameramento e segnalazione, che risulterebbero illegittimi in via derivat
a”.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha accertato che la disciplina di gara prevedeva l’esclusione in caso di dichiarazione incompleta, anche con riferimento alla precisazione in base alla quale le dichiarazioni di cui all’art. 38, co. 1, d.lgs. n. 163/2006, limitatamente alle lettere b), c) ed m-ter) “devono essere rese anche dai soggetti previsti dall’art. 38, comma 1, lett. b) e c) del codice dei contratti e da procuratori speciali, institori e comunque da tutti i soggetti aventi poteri di rappresentanza” (v. pagg. 8 – 9 sent.).
E proprio per questo tale sentenza ha ritenuto che il bando di gara, in violazione dell’art. 46 d.lgs. n. 163/2006 (nel suo nuovo testo introdotto dal d.lgs. n. 70/2011), “ha finito per creare una nuova clausola di esclusione non prevista dalla legge”.
Orbene, alla luce di quanto esposto, il Collegio non deve, dunque, accertare se la disciplina di gara prevedesse (più o meno chiaramente) la sanzione dell’esclusione per documentazione incompleta anche nel caso dei procuratori speciali (come avvenuto in specie), poiché la sentenza di I grado non è stata oggetto di impugnazione per questa parte.
Deve, invece, porsi il diverso problema della ammissibilità della causa di esclusione prevista dalla lex specialis di gara, successiva (sia pure di pochi giorni) all’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 46, co. 1-bis, d.lgs. n. 163/2006, al fine di verificare se tale causa sia riconducibile alle ipotesi già previste dall’art. 38, ovvero costituisca una previsione ulteriore della amministrazione appaltante, come tale non consentita dall’art. 46 del Codice dei contratti.
4. Sul punto, questa Sezione (sent. 01.04.2011 n. 2068) ha già avuto modo di osservare che “come già affermato da Cons. Stato, sez. V, 20.09.2005 n. 4856, il criterio interpretativo da seguire (al fine di individuare la persona fisica, rispetto alla quale, nell'ambito del rapporto societario, assume rilievo la causa di esclusione, e, dunque, il soggetto tenuto alla dichiarazione sostitutiva, richiesta, a pena di decadenza, dal bando di gara) consiste nel ricercare, nello statuto della persona giuridica, quali siano i soggetti dotati di poteri di rappresentanza (sul punto, anche sent. 21.12.2012 n. 6664)".
In sostanza, la verifica del possesso dei requisiti, ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006, non è solo da riferirsi, formalisticamente, al soggetto che riveste la qualifica di amministratore ed è dotato di poteri di rappresentanza, ma a tutti quei soggetti che, per l’ampiezza dei poteri e la capacità di rappresentare la società nei confronti dei terzi, sono in grado di instaurare per essa rapporti giuridici e per essa assumere obbligazioni.
Tale interpretazione della locuzione “amministratori muniti del potere di rappresentanza”, di cui al citato art. 38, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellata (v. pag. 4 memoria del 29.05.2014), appare condivisa anche dall’Adunanza Plenaria, la quale, con sentenza 16.10.2013 n. 23, ha affermato: “Con la locuzione di “amministratori muniti del potere di rappresentanza” l’art. 38, lett. c), ha inteso, quindi, riferirsi ad un’individuata cerchia di persone fisiche che, in base alla disciplina codicistica e dello statuto sociale, sono abilitate ad agire per l’attuazione degli scopi societari e che, proprio in tale veste qualificano in via ordinaria, quanto ai requisiti di moralità e di affidabilità, l’intera compagine sociale.
In diverso modo si atteggia la posizione del procuratore ad negotia.
Questa figura è eventuale e non necessaria nell’assetto istituzionale delle società di capitali. Elemento differenziale fra gli amministratori ed i procuratori ad negotia è che ai primi è, di norma, affidata l’attività gestoria dell’impresa con potere di rappresentanza generale, mentre i secondi, oltre a derivare il proprio potere dalla volontà (di regola) degli amministratori, operano di massima nell’interesse societario per oggetto limitato e soggiacciono al controllo di chi ha conferito la procura.
Nella modulazione degli assetti societari la prassi mostra tuttavia l’emersione, in talune ipotesi, di figure di procuratori muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti così che, per sommatoria, possano configurarsi omologhi, se non di spessore superiore, a quelli che lo statuto assegna agli amministratori. Anche in questo caso .... si pone l’esigenza di evitare, nell’ottica garantista dell’art. 38, comma 1, lett. c), che l’amministrazione contratti con persone giuridiche governate in sostanza, per scelte organizzative interne, da persone fisiche sprovviste dei necessari requisiti di onorabilità ed affidabilità morale e professionale, che si giovino dello schermo di chi per statuto riveste la qualifica formale di amministratore con potere di rappresentanza.
A ben vedere, in altre parole, in tal caso il procuratore speciale finisce col rientrare a pieno titolo nella figura cui si richiama l’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006, poiché da un lato si connota come amministratore di fatto ai sensi dell’art. 2639, comma 1, cod. civ. e, d’altro lato, in forza della procura rilasciatagli, assomma in sé anche il ruolo di rappresentante della società, sia pure eventualmente solo per una serie determinata di atti.
Detta conclusione non è smentita dal menzionato art. 45 della direttiva U.E., il quale anzi, facendo riferimento ... a “qualsiasi persona” che “eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo” dell’impresa, sembra mirare, conformemente del resto all’orientamento generale del diritto dell’Unione, ad una interpretazione sostanzialista della figura.
Naturalmente, in aderenza a quanto affermato da questa medesima Adunanza plenaria con sentenza n. 10 del 2012 .... stante la non univocità della norma circa l’onere dichiarativo dell’impresa nelle ipotesi in esame (cui va aggiunta, per il passato, l’incertezza degli indirizzi giurisprudenziali) deve intendersi che, qualora la lex specialis non contenga al riguardo una specifica comminatoria di esclusione, quest’ultima potrà essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione ex art. 38 cit., ma soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l’assenza del requisito in questione
.”.
Nel caso di specie, come innanzi riportato, il bando contiene una specifica comminatoria di esclusione per le imprese che non rendano le dichiarazioni ex art. 38, lett. c) d.lgs. n. 163/2006, anche per i procuratori speciali, con ciò rispondendo –nel quadro di una interpretazione “sostanzialistica” della locuzione “amministratori muniti del potere di rappresentanza”– a quel requisito richiesto dalla surriportata giurisprudenza amministrativa.
In definitiva, come appare evidente, non ricorre alcuna violazione dell’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, poiché non vi è stata –così come invece sostenuto dalla sentenza impugnata– la creazione di una nuova clausola di esclusione, bensì la applicazione di una norma del codice dei contratti, come innanzi interpretata, resa esplicita dall’amministrazione per il tramite della puntuale previsione del bando.
La riconosciuta legittimità del provvedimento di revoca della aggiudicazione definitiva dei lavori, in riforma della sentenza impugnata, comporta la reiezione del ricorso anche nei limiti del richiesto annullamento dell’incameramento della cauzione.
Pertanto, alla luce delle ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, in relazione al secondo motivo proposto (sub b) dell’esposizione in fatto), con assorbimento del primo motivo e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere rigettato il ricorso instaurativo del giudizio di I grado (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.09.2014 n. 4733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La pianificazione urbanistica non si limita ad individuare le destinazioni delle zone del territorio comunale, ma é diretta anche a realizzare le finalità economico-sociali della comunità locale nel rispetto dei valori tutelati dalla Costituzione.
Il potere di pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
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Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, occorre ricordare che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”.
Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare, con considerazioni che devono intendersi riconfermate nella presente sede: “le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.

Questa Sezione, con sentenza 10.05.2012 n. 2710, ha già avuto modo di osservare che il potere di pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, occorre ricordare che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478).
Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. IV, 08.06.2011 n. 3497), con considerazioni che devono intendersi riconfermate nella presente sede: “le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute
” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.09.2014 n. 4731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIP.a. lenta, indennizzo solo se c'è stato un danno. Lo ha affermato il tribunale amministrativo regionale per la Campania.
È necessario dimostrare che la situazione d'incertezza ingenerata dall'inosservanza del termine di durata del procedimento da parte della pubblica amministrazione abbia prodotto un danno, patrimoniale o non patrimoniale.

Lo hanno sottolineato i giudici della V Sez. del TAR Campania-Napoli, con sentenza 19.09.2014 n. 4988.
Secondo un recente orientamento giurisprudenziale «la risarcibilità del cosiddetto danno da ritardo “puro”, vale a dire del pregiudizio derivante dal solo fatto dell'inerzia dell'amministrazione e a prescindere dalla spettanza del “bene della vita”, oggetto del procedimento (ovvero a prescindere dalla conclusione della procedura concorsuale e dall'effettivo inquadramento quali vincitori), implica l'allegazione e prova di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità, compresa l'esistenza del danno, che non è in re ipsa (Tar Toscana, Firenze, sez. I, 22.01.2014, n. 138)».
Già il Consiglio di stato con una recente sentenza ebbe modo di osservare che «se è vero che l'art. 2-bis della legge n. 241/1990 rafforza la tutela risarcitoria del privato nei confronti dei ritardi delle pubbliche amministrazioni, stabilendo che esse e i soggetti equiparati sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, tuttavia, la richiesta di accertamento del danno da ritardo ovvero del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento legittimo e favorevole, se, da un lato, deve essere ricondotta al danno da lesione di interessi legittimi pretensivi per l'ontologica natura delle posizioni fatte valere, dall'altro, in ossequio al principio dell'atipicità dell'illecito civile, costituisce una fattispecie «sui generis», di natura del tutto specifica e peculiare, che deve essere ricondotta nell'alveo dell'art. 2043 c.c. per l'identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità.
Di conseguenza l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi «iuris tantum», in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al silenzio nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) (Cons. di St., sez. V, 13.01.2014, n. 63)
»
Ciò significa che, «l'art. 2-bis, comma 1, legge 07.08.1990, n. 241, nel prevedere il danno per l'inosservanza del termine di conclusione del procedimento, non collega, però, l'ipotesi risarcitoria al mero superamento del termine procedimentale (senza che sia intervenuta l'emanazione del provvedimento finale), ma pone l'inosservanza del termine normativamente previsto come presupposto causale del danno ingiusto eventualmente cagionato «in conseguenza» dell'inosservanza dolosa o colposa di detto termine» (Cons. di st., sez. IV, 20.05.2014, n. 2543).
In pratica, osservano i giudici amministrativi campani, la sola violazione del termine di durata del procedimento, di per sé, non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità delle attività prescritte o il sopraggiungere di evenienza non imputabili all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa (articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014).

ATTI AMMINISTRATIVIE' inammissibile l’integrazione postuma della motivazione di un atto amministrativo, realizzata mediante atti procedimentali successivi e/o scritti difensivi predisposti dall’amministrazione resistente, e ciò anche dopo le modifiche apportate alla legge n. 241/1990 dalla legge n. 15/2005, rimanendo sempre valido il principio secondo cui la motivazione del provvedimento non può essere integrata in un secondo momento, anche in corso di causa, con la specificazione di elementi di fatto in origine non presi in considerazione, dovendo la motivazione precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario.
Invero, la norma contenuta nell’art. 3 della legge n. 241/1990, che prescrive che ogni provvedimento amministrativo sia motivato, non è riconducibile a quelle “sul procedimento o sulla forma degli atti”, poiché la motivazione non ha alcuna attinenza né con lo svolgimento del procedimento né con la forma degli atti in senso stretto, riguardando, più precisamente, l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”; tant’è che nella stessa giurisprudenza comunitaria la motivazione viene configurata come requisito di “forma sostanziale”.

Merita di essere disattesa anche l’eccezione, opposta dalla difesa comunale, mediante la quale si sostiene che l’istanza di riduzione della ricorrente doveva essere rigettata, oltre che per i motivi indicati nel provvedimento di diniego, anche perché non era stata presentata prima che fosse deliberata la tariffa con riferimento agli anni 2011 e 2012.
A prescindere dalla scarsa fondatezza dell’argomentazione utilizzata, non prevedendo la legge che la riduzione proporzionale della TIA sia subordinata alla tempestività della domanda rispetto alla deliberazione della tariffa, è sufficiente replicare che l’eccezione in parola si risolve in un’indebita integrazione postuma della motivazione.
Infatti, è inammissibile l’integrazione postuma della motivazione di un atto amministrativo, realizzata mediante atti procedimentali successivi e/o scritti difensivi predisposti dall’amministrazione resistente, e ciò anche dopo le modifiche apportate alla legge n. 241/1990 dalla legge n. 15/2005, rimanendo sempre valido il principio secondo cui la motivazione del provvedimento non può essere integrata in un secondo momento, anche in corso di causa, con la specificazione di elementi di fatto in origine non presi in considerazione, dovendo la motivazione precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario (orientamento consolidato: cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sez. VI, 18.10.2011 n. 5598 e 30.06.2011 n. 3882; TAR Campania Salerno, Sez. II, 15.02.2012 n. 218; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 10.06.2011 n. 3081).
Invero, la norma contenuta nell’art. 3 della legge n. 241/1990, che prescrive che ogni provvedimento amministrativo sia motivato, non è riconducibile a quelle “sul procedimento o sulla forma degli atti”, poiché la motivazione non ha alcuna attinenza né con lo svolgimento del procedimento né con la forma degli atti in senso stretto, riguardando, più precisamente, l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”; tant’è che nella stessa giurisprudenza comunitaria la motivazione viene configurata come requisito di “forma sostanziale” (cfr. TAR Sicilia Catania, Sez. IV, 29.03.2012 n. 900) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 19.09.2014 n. 4978 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Indicazione del termine e dell'autorità cui ricorrere. Omissione. Mera irregolarità.
Ancorché l'art. 3, comma 4, legge n. 241/1990 preveda, in termini generali, che i provvedimenti amministrativi rechino l'indicazione del termine e dell’autorità cui ricorrere, l'omissione di tale indicazione non determina l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ma solo una mera irregolarità. La previsione dell’art. 3 comma 4, della l. n. 241 del 1990, infatti, tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, per cui la segnalata omissione potrebbe dar luogo, nel concorso di significative ulteriori circostanze, alla sola concessione del beneficio della rimessione in termini per proporre impugnazione.
Quanto alla violazione della L. 241/1990 ed all’eccesso di potere per disparità di trattamento, è sufficiente richiamare l’orientamento per il quale:
- [ì] “L’omessa indicazione del termine e dell’autorità cui ricorrere non determina l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ma solo una mera irregolarità. La previsione dell’art. 3, comma 4, della l. n. 241 del 1990, infatti, tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, per cui la segnalata omissione potrebbe dar luogo, nel concorso di significative ulteriori circostanze, alla sola concessione del beneficio della rimessione in termini per proporre impugnazione.” (TAR Catanzaro Calabria sez. II, 24.05.2012, n. 515; Consiglio di Stato sez. VI, 05.03.2013, n. 1297)
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Lazio-Latina, sentenza 19.09.2014 n. 720 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 2. Condono edilizio. Rilascio previo accertamento dei presupposti. Diniego. Discrezionalità della PA. Non sussiste. Disparità di trattamento. Irrilevanza.
Il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione, con la conseguenza che in ordine al medesimo non possono venire in rilievo profili di eccesso di potere quali la disparità di trattamento, propri dell’esercizio del potere discrezionale, atteso che il rilascio del condono registratosi in analoghi casi di abusi non condonabili, e quindi suscettibili di annullamento giurisdizionale o amministrativo, non può “ex se” legittimare la fattispecie provvedimentale “sub iudice”, che resta regolata dall’insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il rilascio del condono richiesto.
3. (segue): data di ultimazione dei manufatti suscettibili di sanatoria. Onere della prova. È a carico del privato. Rilievi aerofotogrammetrici. Sufficienza.
3.1. In tema di sanatoria edilizia straordinaria, l’onere della prova dell’ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria; ciò perché mentre l’amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualche documentazione da cui si desuma che l’abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali ecc.
Pertanto colui che ha commesso l’abuso non può trasferire il suddetto onere in capo all’Amministrazione, qualora non sia in grado di fornire elementi e documenti atti a sostenere la richiesta legittima di condono edilizio.
3.2. Legittimamente l'Amministrazione Comunale nega il rilascio di condono edilizio ex art. 32, comma 25, della legge 326/2003 e art. 2, comma 1°, L.R. Lazio n. 12/2004, laddove risulti da aerofotogrammetria che l'immobile oggetto della domanda di sanatoria non fosse nemmeno presente al 31.03.2003.
Il provvedimento di diniego deve infatti ritenersi sufficientemente giustificato dal richiamo alla mancanza della condizione posta dalle legge per beneficiare del condono edilizio, vale a dire dell’ultimazione dei lavori entro il 31.03.2003.  

Quanto alla violazione della L. 241/1990 ed all’eccesso di potere per disparità di trattamento, è sufficiente richiamare l’orientamento per il quale:
- [ìì] “Il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione, con la conseguenza che in ordine al medesimo non possono venire in rilievo profili di eccesso di potere quali la disparità di trattamento, propri dell’esercizio del potere discrezionale, atteso che il rilascio del condono registratosi in analoghi casi di abusi non condonabili, e quindi suscettibili di annullamento giurisdizionale o amministrativo, non può “ex se” legittimare la fattispecie provvedimentale “sub iudice”, che resta regolata dall’insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il rilascio del condono richiesto.” (TAR Latina Lazio sez. I, 06.12.2010, n. 1935; Consiglio di Stato sez. IV, 24.02.2011. n. 1235).
L’esame dei restanti motivi implica un sintetico richiamo alle ragioni poste a supporto del diniego sì come illustrate dalla relazione e dalla documentazione depositate il 14.11.2006.
Il provvedimento di diniego ha escluso di poter riscontrare positivamente la dichiarazione sostitutiva di atto notorio allegata all’istanza di condono edilizio perché “Dall’aerofoto relativa al volo del 24/1/2004 effettuato dalla soc. LAMCO srl, al fotogramma 1117, strisciata 90, l’immobile in oggetto non risulta ancora realizzato, in tale data e pertanto in contrasto con quanto previsto dall’art. 2, comma 1, della predetta legge regionale n. 12/04 che definisce suscettibili di sanatoria gli immobili ultimati entro il 31/03/2003;”.
Dalla documentazione versata dal comune si ricava:
- il rapporto della polizia locale prot. n. 757 del 12.05.2005 con allegato rilievo fotografico, di accertamento della recente realizzazione di un fabbricato per civile abitazione oggetto di lavori, in corso, di riquadratura dei telai delle finestre;
- la copia della ripresa aerofotogrammetrica del 24.01.2004, rappresentativa di una superficie ripartita in tre appezzamenti, delimitata da vegetazione di basso fusto ed interessata dalla presenza di un solo albero posto sul vertice basso ed in prossimità della strada; in particolare poi l’area di interesse del ricorrente, cerchiata e segnata sull’acquisito rilievo è priva di costruzioni;
- la descritta, da ultimo, situazione emerge anche dalle riprese effettuate dalla soc. Lamco nell’anno 2002 ed impresse nel quadro 414103.
Tutto ciò premesso il motivo con il quale il ricorrente lamenta il difetto di istruttoria, il travisamento ed il difetto di motivazione va respinto. Secondo l’articolo 32, comma 25, della legge 326/2003, “Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.03.2003 …”; in termini analoghi si esprime l’articolo 2, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2004.
Ciò posto, diversamente da quanto prospettato, il provvedimento deve ritenersi sufficientemente giustificato dal richiamo alla mancanza della condizione posta dalle legge per beneficiare del condono edilizio, vale a dire dell’ultimazione dei lavori entro il 31.03.2003. Ed, infatti, per come è dato evincere dalla documentazione ed in particolare dai rilievi aerofotogrammetrici, a quelle date non era presente alcun manufatto. In argomento è poi irrilevante quanto dedotto dal ricorrente che, con l’ausilio di relazioni di parte, ha tentato di sostenere l’inattendibilità di tali ultimi rilevi; lo stesso, infatti, pur se onerato non ha dato prova della data di ultimazione dei lavori nei termini di legge.
Come chiarito dal costante orientamento giurisprudenziale “l’onere della prova dell’ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria; ciò perché mentre l’amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualche documentazione da cui si desuma che l’abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali ecc. Pertanto colui che ha commesso l’abuso non può trasferire il suddetto onere in capo all’Amministrazione, qualora non sia in grado di fornire elementi e documenti atti a sostenere la richiesta legittima di condono edilizio.” (Consiglio di Stato sez. VI, 15.10.2013, n. 5007; Consiglio Stato, sez. IV, 02.02.2011, n. 752; 12.02.2010, n. 772; 13.01.2010, n. 45).
In definitiva il provvedimento resiste alle censure mosse tese a contestare, soprattutto, gli elementi supportanti il diniego i quali trovano ulteriore conferma, il che va ribadito anche per disattendere la reiterata istanza di accesso ad una consulenza tecnica d’ufficio, non solo per via dell’inesistenza di una vegetazione folta e di alto fusto sotto la quale sarebbe stata allocato il fabbricato ma anche in ragione dell’esecuzione di lavori all’11.05.2005, relativi non alla sola riquadratura delle finestre, per come certificato dal rilievo fotografico di cui al rapporto della polizia municipale prot. n. 757 del 12.05.2005
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Lazio-Latina, sentenza 19.09.2014 n. 720 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al fine di definire e meglio individuare gli “interventi di manutenzione straordinaria”, distinti –come evidente- dagli “interventi di ristrutturazione edilizia”, la giurisprudenza ha avuto poi modo di affermare che:
- gli interventi in questione “sono qualificati dal duplice aspetto della finalità dei lavori, diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parte del fabbricato e dal divieto di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutarne la destinazione”;
- più in particolare, gli interventi di manutenzione straordinaria “non implicano modifiche tali da alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari, né comportano una diversa destinazione d’uso, questa essendo la linea di demarcazione tra manutenzione straordinaria e vera e propria ristrutturazione edilizia che … si risolve nella creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso da quello preesistente agli interventi di recupero posti in essere, richiedendo il rilascio di un titolo concessorio”, con l’ulteriore precisazione che –ai fini della conformità urbanistica- solo l’osservanza di tutti i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, da intendere come volumetria, sagoma, area di sedime ma anche numero delle unità immobiliari, comporta la possibilità di tenere a riferimento la normativa vigente all’epoca di realizzazione del manufatto, perché –ove tale condizione non ricorra– l’intervento è da qualificare in termini di ristrutturazione edilizia, richiedente la conformità dell’intervento stesso alla disciplina urbanistica applicabile al momento dell’esecuzione dei lavori.
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La realizzazione di un intervento edilizio consistente nella “riduzione di unità immobiliari da n. 2 negozi ad un unico locale destinato a negozio” non può essere ricondotto nell’ambito di quelli di manutenzione straordinaria -atteso che chiara si profila l’alterazione dei “volumi” e delle “superfici delle singole unità immobiliari”- e, dunque, debba essere correttamente qualificato come intervento di “ristrutturazione edilizia”, subordinato a permesso di costruire.

Al fine del decidere, appare opportuno ricordare che:
- ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 –c.d. TUE– si intendono per interventi di manutenzione straordinaria, “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso” (lett. b), mentre si intendono per interventi di ristrutturazione edilizia, “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente” (lett. d);
- ai sensi del successivo art. 6, comma 2, del medesimo D.P.R., così come sostituito dalla legge n. 73 del 2010 (o, meglio, dall’art. 5 del d.l. 25.03.2010, n. 40, in seguito convertito da tale legge), invocata dalla ricorrente, possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo ma esclusivamente previa comunicazione dell’inizio dei lavori, tra gli altri, “gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici”, con l’ulteriore prescrizione –al comma 7– che "la mancata comunicazione dell’inizio dei lavori ovvero la mancata trasmissione della relazione tecnica, di cui ai commi 2 e 4 del presente articolo, comportano la sanzione pecuniaria pari a 258 euro…”;
- l’art. 10, comma 1, del medesimo D.P.R. prevede, ancora, che “costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: …….. c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili ricompresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni”.
Al fine di definire e meglio individuare gli “interventi di manutenzione straordinaria”, distinti –come evidente- dagli “interventi di ristrutturazione edilizia”, la giurisprudenza ha avuto poi modo di affermare che:
- gli interventi in questione “sono qualificati dal duplice aspetto della finalità dei lavori, diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parte del fabbricato e dal divieto di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutarne la destinazione” (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. V, 06.02.2003, n. 617; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 14.03.2007, n. 2076);
- più in particolare, gli interventi di manutenzione straordinarianon implicano modifiche tali da alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari, né comportano una diversa destinazione d’uso, questa essendo la linea di demarcazione tra manutenzione straordinaria e vera e propria ristrutturazione edilizia che … si risolve nella creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso da quello preesistente agli interventi di recupero posti in essere, richiedendo il rilascio di un titolo concessorio” (TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 24.01.2007, n. 222), con l’ulteriore precisazione che –ai fini della conformità urbanistica- solo l’osservanza di tutti i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, da intendere come volumetria, sagoma, area di sedime ma anche numero delle unità immobiliari, comporta la possibilità di tenere a riferimento la normativa vigente all’epoca di realizzazione del manufatto, perché –ove tale condizione non ricorra– l’intervento è da qualificare in termini di ristrutturazione edilizia, richiedente la conformità dell’intervento stesso alla disciplina urbanistica applicabile al momento dell’esecuzione dei lavori (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 27.04.2006, n. 2341).
Tutto ciò premesso, è da considerare che, nel caso di specie, la società ricorrente ha realizzato un intervento edilizio consistente nella “riduzione di unità immobiliari da n. 2 negozi ad un unico locale destinato a negozio” (cfr. “relazione tecnica asseverata”, allegata al ricorso).
Ciò detto e tenuto conto di quanto sopra riportato, il Collegio ritiene che tale intervento non possa essere ricondotto nell’ambito di quelli di manutenzione straordinaria -atteso che chiara si profila l’alterazione dei “volumi” e delle “superfici delle singole unità immobiliari”- e, dunque, debba essere correttamente qualificato come intervento di “ristrutturazione edilizia”, subordinato a permesso di costruire (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 17.09.2014 n. 9773 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare svolte con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, l'eventuale articolazione dei criteri valutativi previsti dal bando in sub-criteri deve essere stabilita dalla stazione appaltante ed indicata nel bando.
Ai sensi dell'art. 83 del D.Lgs. n. 163/2006, nelle gare svolte con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, l'eventuale articolazione dei criteri valutativi previsti dal bando in sub-criteri, cui assegnare sub-pesi o sub-punteggi, deve essere stabilita dalla stazione appaltante ed indicata nel bando, mentre non può essere stabilita dalla Commissione di gara dopo la presentazione delle offerte. Lo stesso art. 83 stabilisce, poi, che "ove necessario" il bando può prevedere, per ciascun criterio di valutazione prescelto, anche i sub-criteri e i sub-pesi o i sub-punteggi, definendo così una griglia di valutazione ancora più analitica (c.4).
Ora, l'opportunità, o la necessità, di definire anche i sub-criteri o i subpunteggi va valutata in relazione all'analiticità dei criteri principali (o primari) ed all'idoneità di questi ad assicurare, per un verso, un'adeguata e compiuta valutazione delle offerte e, per altro verso, il rispetto del principio di trasparenza ed efficacia. Pertanto, nel caso di specie, proprio in relazione al particolare e limitato oggetto della fornitura in questione, i criteri primari indicati dal bando di gara, sopra menzionati, nella loro ampia e compiuta configurazione, sono sufficienti a garantire il raggiungimento delle finalità appena ricordate (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 17.09.2014 n. 1219 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Congedo al padre ampio.
Sì ai congedi parentali al lavoratore anche se la madre del bambino è casalinga. Non solo il lavoro domestico è assimilabile all'attività autonoma, ma implica un'attività più intensa e carica di responsabilità rispetto ai compiti svolti dal prestatore d'opera dipendente: deve dunque essere dichiarato illegittimo il rifiuto opposto dal Ministero alla domanda di riposi giornalieri presentata dal dipendente in base all'articolo 40 del decreto legislativo 151/2001.

È quanto emerge dal Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 10.09.2014 n. 4618, che tra l'altro smentisce l'interpretazione della norma offerta dagli stessi magistrati di Palazzo Spada, però in sede consultiva.
Il punto della questione sta nella disposizione che consente la fruizione del riposo giornaliero al lavoratore padre «nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente».
È stata la giurisprudenza di legittimità ad assimilare le giornate della casalinga fra pavimenti, lavatrici e fornelli a un vero e proprio lavoro autonomo quando si è trattato di risarcire la perdita di capacità di lavoro, facendo riferimento agli articoli 4, 36, 37 della Costituzione (Cassazione 20324/2005). E il fatto che la legge escluda l'ipotesi in cui la madre è lavoratrice dipendente consente di ritenere che invece il beneficio possa essere riconosciuto in tutti gli altri casi, anche quando la mamma del bambino non lavora (fuori casa): la legge, infatti, indica in modo puntiglioso le varie ipotesi e, dunque, le indicazioni fornite devono ritenersi tassative (diversamente il legislatore avrebbe scritto «nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente»).
Di più. Il fatto che l'attività domestica debba essere considerata un vero lavoro a favore della famiglia non esclude ma anzi comprende le cure parentali: la giurisprudenza amministrativa si rifà a un dato di esperienza, secondo cui quando in una casa nasce un bambino si ricorre a un aiuto, sia colf o baby sitter.
Ecco allora che le famiglie monoreddito, conclude la sentenza, possono farne a meno grazie ai permessi fruibili dall'altro genitore lavoratore dipendente. Che se avesse portato le prove dei soldi spesi ad hoc forse sarebbe stato pure risarcito (articolo ItaliaOggi del 27.09.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel processo amministrativo è controinteressato colui che è portatore di un interesse qualificato alla conservazione dell’assetto recato dal provvedimento impugnato e di natura uguale e contrario a quello del richiedente (controinteressato in senso sostanziale) e che inoltre sia stato nominativamente indicato nel provvedimento o sia facilmente individuabile (controinteressato in senso formale).
... deve rilevarsi che nel processo amministrativo è controinteressato colui che è portatore di un interesse qualificato alla conservazione dell’assetto recato dal provvedimento impugnato e di natura uguale e contrario a quello del richiedente (controinteressato in senso sostanziale) e che inoltre sia stato nominativamente indicato nel provvedimento o sia facilmente individuabile (controinteressato in senso formale) (tra le più recenti Con. Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1862; 24.03.2014, n. 1448; 09.10.2007, n. 5241)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4525 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi, i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all’esercizio delle loro funzioni, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell’ente locale ai fini della tutela degli interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle funzioni del consigliere comunale; è stato osservato d’altra parte che dal termine “utili”, contenuto nell’articolo 43 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni.
Deve anche aggiungersi che il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le informazioni utili all’espletamento delle funzioni non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio.
In definitiva gli unici limiti all’esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso.

Sotto altro profilo, deve altresì ricordarsi che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi (Cons. Stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all’esercizio delle loro funzioni, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell’ente locale (Cons. Stato, sez. IV, 21.08.2006, n. 4855) ai fini della tutela degli interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (Cons. Stato, sez. V, 08.09.1994, n. 976).
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle funzioni del consigliere comunale (Cons. Stato, sez. V, 22.02.2007, n. 929; 09.12.2004, n. 7900); è stato osservato d’altra parte che dal termine “utili”, contenuto nell’articolo 43 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni (Cons. Stato, sez. V, 20.10.2005, n. 5879).
Deve anche aggiungersi che il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le informazioni utili all’espletamento delle funzioni non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio (Cons. Stato, sez. V, 29.08.2011, n. 4829; 04.05.2004, n. 2716).
In definitiva gli unici limiti all’esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4525 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce jus receptum che la c.d. "vicinitas", cioè la situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento edilizio assentito, è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere dei confinanti, non essendo necessario che la parte ricorrente debba anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo, atteso che la realizzazione di consistenti interventi che comportino contra legem l’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio deve ritenersi pregiudizievole in re ipsa.
Quanto al primo profilo, costituisce jus receptum che la c.d. "vicinitas", cioè la situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento edilizio assentito, è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere dei confinanti, non essendo necessario che la parte ricorrente debba anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (Cons. Stato, sez. IV, 18.12.2013, n. 6082), atteso che la realizzazione di consistenti interventi che comportino contra legem l’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio deve ritenersi pregiudizievole in re ipsa
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte Costituzionale, con la ordinanza n. 167 del 16.05.1995, ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, primo comma, e 3 della legge regionale della Lombardia 07.06.1980, n. 93 (in riferimento agli artt. 3, 5, 117 e 128 della Costituzione), osservando tra l’altro che:
quelle norme “…sono frutto di un’insindacabile scelta del legislatore regionale, diretta a limitare l’utilizzazione edilizia dei territori agricoli e a frenare il processo di erosione dello spazio destinato alle colture, scelta che ha il suo fondamento della Costituzione…il quale facoltizza il legislatore, anche regionale, a predisporre aiuti e sostegni all’impresa agricola e alla proprietà coltivatrice” e che
sotto tale profilo esso “…non può essere affatto considerata un’irragionevole discriminazione, lesiva dell’art. 3 della Costituzione, la subordinazione del rilascio della concessione edilizia sia al possesso della qualità di imprenditore agricolo o di altra figura assimilata, sia all’accertamento del collegamento funzionale dell’opera con l’attività agricola, essendo elementi volti a denotare la destinazione effettiva delle opere alla conduzione del fondo o, in genere, alla attività di agricoltura”.

La legge regionale della Lombardia 07.06.1980, n. 93, recante “Norme in materia di edificazione nelle zone agricole”, vigente all’epoca dell’emanazione dell’impugnata concessione edilizia (essendo poi stata abrogata dall’art. 104, comma 1, lett. h), della legge regionale 11.03.2005, n. 12), dopo aver stabilito all’articolo 1, tra l’altro, che “I piani regolatori generali dei comuni, al fine di valorizzare e recuperare il patrimonio agricolo, assicurare la tutela e la efficienza delle unità produttive anche mediante il soddisfacimento delle esigenze degli imprenditori e dei lavoratori agricoli, individuano: a) le zone a destinate ad attività agricola, ai sensi del D.M. 02.04.1968...”, al successivo articolo 2, primo comma stabiliva il principio secondo cui “In tutte le aree destinate dagli strumenti urbanistici generali a zona agricola sono ammesse esclusivamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residente dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti dell’azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive, quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la lavorazione e la conservazione e la vendita dei prodotti agricoli secondo i criteri e le modalità previsti dal successivo art. 3”.
Quest’ultimo al primo comma prevedeva poi che “In tutte le aree previste dagli strumenti urbanistici generali come zone agricole, la concessione edilizia può essere rilasciata esclusivamente: a) all’imprenditore agricolo singolo o associato, iscritto all’albo di cui alla legge regionale 13.04.1974, n. 18, per tutti gli interventi di cui al precedente art. 2 comma 1°, a titolo gratuito ai sensi dell’art. 9, lett. a) della legge 28.01.1977, n. 10; b) al titolare o al legale rappresentante dell’impresa agricola per la realizzazione delle sole attrezzature ed infrastrutture produttive e delle sole abitazioni per i salariati agricoli, subordinatamente al versamento dei contributi di concessione; c) limitatamente ai territori dei comuni indicati nella tabella allegata alla legge regionale 19.11.1976, n. 51, ai soggetti aventi i requisiti di cui all’art. 8 della legge 10.05.1976, n. 352 e all’art. 8 punto 4) della legge regionale sopraccitata, subordinatamente al pagamento dei contributi di concessione, per tutti gli interventi di cui al precedente art. 2, comma 1°”.
L’attività cinotecnica è regolata dalla legge 23.08.1993, n. 349, per essa intendendosi, ai sensi dell’articolo 1, “l’attività volta all’allevamento, alla selezione e all’addestramento delle razze canine”.
Secondo quanto disposto dall’articolo 2 della medesima legge “1. L’attività cinotecnica è considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto. 2. I soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’attività cinotecnica di cui al comma 1 sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2135 del codice civile. 3. Non sono comunque imprenditori agricoli gli allevatori che producono nell’arco di un anno un numero di canoni inferiori a quello determinato, per tipi o per razze, con decreto del Ministro dell’agricoltura e delle foreste…”.
Ai sensi di tale decreto, emanato il 28.01.1994, “Non sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che annualmente producono un numero di cuccioli inferiori alle trenta unità”.
Secondo le sopra riportate disposizioni normative regionali, vigenti all’epoca del rilascio della contestata concessione edilizia, gli interventi edilizi in zona a destinazione agricola erano ammissibili solo se funzionali alla conduzione del fondo e destinate alle residenze dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti dell’azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive (Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2041).
Il rilascio della concessione edilizia in tal senso costituiva un’ipotesi residuale ed eccezionale, sottoposta ad una specifica e puntuale istruttoria volta ad accertare con assoluta certezza ed inequivocità non solo il vincolo funzionale tra le costruzioni per le quali si richiedeva il titolo e la loro effettiva ed obiettiva connessione con l’attività agricola (in tal senso Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4472), ma anche la stessa qualità di imprenditore agricolo del richiedente.
La Corte Costituzionale, con la ordinanza n. 167 del 16.05.1995, ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, primo comma, e 3 della legge regionale della Lombardia 07.06.1980, n. 93 (in riferimento agli artt. 3, 5, 117 e 128 della Costituzione), osservando tra l’altro che quelle norme “…sono frutto di un’insindacabile scelta del legislatore regionale, diretta a limitare l’utilizzazione edilizia dei territori agricoli e a frenare il processo di erosione dello spazio destinato alle colture, scelta che ha il suo fondamento della Costituzione…il quale facoltizza il legislatore, anche regionale, a predisporre aiuti e sostegni all’impresa agricola e alla proprietà coltivatrice” e che sotto tale profilo esso “…non può essere affatto considerata un’irragionevole discriminazione, lesiva dell’art. 3 della Costituzione, la subordinazione del rilascio della concessione edilizia sia al possesso della qualità di imprenditore agricolo o di altra figura assimilata, sia all’accertamento del collegamento funzionale dell’opera con l’attività agricola, essendo elementi volti a denotare la destinazione effettiva delle opere alla conduzione del fondo o, in genere, alla attività di agricoltura
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITUREForniture al 100% in Cina: via l'appalto. Tar Campania. Per legge nelle gare pubbliche non si può superare il 50%.
Sì all'annullamento dell'appalto pubblico per la fornitura di materiale per la rete idrica anche all'impresa con sede legale e amministrativa in Italia ma con produzione delocalizzata interamente in Cina. La marcia indietro è possibile poiché per le offerte nell'ambito dei settori speciali quali acqua, gas, energia termica, elettricità, trasporti, servizi postali e sfruttamento di area geografica, la parte dei prodotti originari di Paesi terzi non può superare il 50% del valore totale fissato dal Codice dei contratti pubblici (articolo 234, Dlgs n.163/2006) in linea con le norme comunitarie sull'import-export da e verso tali zone (regolamento Cee n. 2913/92, Codice doganale comunitario).
L'ha stabilito il TAR Campania-Napoli, Sez. V, con la sentenza 03.09.2014 n. 4695, dando ragione ad un'azienda speciale locale nel revocare a una società di prodotti in ghisa l'affidamento della fornitura di chiusini per un acquedotto perché tutti realizzati in Cina.
I giudici hanno chiarito la ratio della disciplina speciale per gli appalti di forniture, merci o prodotti, e la natura di "Paese terzo" per la materia. La lex specialis si fonda sull'adesione ad accordi internazionali di reciprocità e garantisce «non tanto la qualità dei prodotti quanto parità di accesso alle imprese che producono in ambito comunitario rispetto alle imprese che producono, delocalizzando, in territori non compresi nell'Unione europea, che non garantiscono determinate condizioni (es. rispetto degli 'standards' in termini di sicurezza e tutela dei lavoratori)».
Per il Tar la Cina è così "Paese terzo"perché pur aderendo all'Organizzazione mondiale del commercio, non ha mai firmato il collegato Accordo sugli appalti pubblici che fissa le condizioni eque per le gare internazionali basate sulla concorrenza: per i giudici solo quell'ulteriore passo ulteriore passo poteva consentire «l'apertura del proprio mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e dignità giuridica nei confronti delle imprese Ue».
Quanto al prodotto -integralmente made in Cina contro il limite del 50% e senza riferimenti ai siti operativi in Ue dell'impresa italiana- «acquista rilievo la sede dello stabilimento in cui esso viene realizzato». La natura italiana dell'impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove anche se la produzione è effettuata in proprio
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2014).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: Risultano in capo alla Giunta Comunale le funzioni inerenti l’approvazione del progetto definitivo di un’opera pubblica comunale, residuando alle attribuzioni dirigenziali, invece, la sola approvazione del relativo progetto esecutivo
E’ da respingere, in primo luogo, la censura di incompetenza della Giunta comunale ad adottare la deliberazione principalmente impugnata dai ricorrenti. Risultano infatti attribuite a tale organo le funzioni inerenti l’approvazione del progetto definitivo di un’opera pubblica comunale, residuando alle attribuzioni dirigenziali, invece, la sola approvazione del relativo progetto esecutivo (v. in termini: TAR Emilia Romagna–BO- sez. II, n. 409 del 2004) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 02.09.2014 n. 828 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Circa la scelta progettuale del percorso della strada, con specifico riferimento alle modalità di attuazione dell’ampliamento della sede stradale, il Collegio osserva che tali scelte della P.A. costituiscono esercizio di poteri ampiamente discrezionali, con conseguente limitazione del sindacato giurisdizionale di legittimità ai casi in cui il provvedimento risulti manifestamente irragionevole, contraddittorio, o il risultato di palese travisamento dei fatti o di evidente carenza di attività istruttoria.
Per quanto concerne la scelta del percorso della strada, con specifico riferimento alle modalità di attuazione dell’ampliamento della sede stradale, il Collegio osserva che –per costante giurisprudenza del giudice amministrativo– tali scelte della P.A. costituiscono esercizio di poteri ampiamente discrezionali, con conseguente limitazione del sindacato giurisdizionale di legittimità ai casi in cui il provvedimento risulti manifestamente irragionevole, contraddittorio, o il risultato di palese travisamento dei fatti o di evidente carenza di attività istruttoria.
Di qui, invece, la piena legittimità della deliberazione impugnata, dagli atti di causa risultando trattarsi di scelta non manifestamente illogica, come si evince dalle circostanziate motivazioni rese dall’amministrazione comunale agli odierni ricorrenti in sede di controdeduzioni alle osservazioni dagli stessi presentate, nelle quali era proposto un allargamento delle sede stradale dalla parte opposta a quella in cui si trova la loro abitazione.
Secondo l’amministrazione, infatti, il percorso alternativo proposto dai ricorrenti non poteva essere attuato, in quanto avrebbe comportato un maggiore consumo di nuovo territorio rispetto al percorso scelto, con conseguente contrasto con quanto disposto, in materia urbanistica, dall’art. 2 della L.R. Emilia Romagna n. 20 del 2000, ove si prescrive di “…prevedere il consumo di nuovo territorio, solo quando non sussistano alternative derivanti dalla sostituzione di tessuti insediativi esistenti…”.
Nel caso in esame, quindi, la scelta del Comune risulta oltre che non manifestamente illogica, anche coerente con la disciplina urbanistica regionale, con particolare riferimento ad un ulteriore profilo, parimenti emergente dagli atti di causa, che evidenzia come, in realtà, il nuovo tracciato nel suo complesso non comporti un avvicinamento della sede stradale all’area di proprietà dei ricorrenti rispetto all’originario tracciato (v. doc. n. 2 all. C del Comune).
Quanto, poi, alla asserita mancata partecipazione procedimentale, il Collegio rileva che la censura è palesemente infondata, avendo i ricorrenti ricevuto in data 09/10/2006 l’avviso di avvio del procedimento relativo al progetto in parola (successivamente approvato con la deliberazione di Giunta impugnata) contenente le modifiche apportate dal Comune in esecuzione delle osservazioni della Provincia di Bologna ed avendo i medesimi preso visione dei relativi atti in data 28/10/2006, con conseguente oggettiva possibilità di partecipare al relativo procedimento, come del resto è dimostrato dalla presentazione di osservazioni e dalle controdeduzioni rese dal Comune a riscontro delle stesse
   (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 02.09.2014 n. 828 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIMafia, l'interdittiva dovuta a subappalto va proporzionata. Tar Friuli. Sentenza sulle grandi imprese.
I provvedimenti antimafia devono considerare dimensioni e contesto aziendale: lo sottolinea il TAR Friuli Venezia Giulia con sentenza 29.08.2014 n. 457, importante perché riguarda un'impresa attiva a livello europeo coinvolta in indagini a causa di subappaltatori in vari cantieri.
A giugno la Prefettura aveva emesso un'interdittiva antimafia, con revoca dell'affidamento di lavori autostradali perché il legale rappresentante di un'impresa subappaltatrice era la figlia del genero di un presunto mafioso. Il Tar chiarisce che l'informativa, pur basata su condivisibili intenzioni e apprezzabile volontà, poteva ritenersi effetto di generico "contagio", frutto di un metodo di vago sospetto e indimostrate illazioni, costituzionalmente scorretto perché potenzialmente idoneo a estendere il rischio d'infiltrazione mafiosa a tutte le grandi imprese, per il sol fatto di operare in un territorio o di utilizzare massicciamente il subappalto.
Nel caso deciso, l'impresa era stata autorizzata a gestire ben 237 subappalti, tra cui quello che generava dubbi di infiltrazione era di importo particolarmente modesto (50.000 euro, su lavori per oltre un milione). La subappaltatrice contaminata, poi, aveva superato seri controlli di Carabinieri e militari Usa: eseguiva lavori in una base aerea con armi nucleari. Già questi elementi avrebbero reso labile la credibilità dell'informativa, ma il Tar aggiunge che l'impresa risultava avere un portafoglio lavori di oltre 2.300 milioni di euro e diverse migliaia di dipendenti.
Osserva il Tar che il laborioso e zelante lavoro investigativo non aveva fornito un quadro logico, coerente e convincente sulle possibilità di infiltrazione mafiosa. Di qui l'annullamento dell'interdittiva, ferma restando la necessità di attenta e continua vigilanza, con monitoraggio sui subappaltatori e i loro dipendenti, attuando un principio di leale collaborazione tra soggetti privati e pubblici per combattere la criminalità organizzata.
La lotta alla mafia –si sottolinea– va condotta nell'ambito della legalità costituzionale, e il fine non può giustificare tutto: il mezzo giuridico utilizzato deve sempre rimanere nell'alveo dei valori democratici costituzionali che la mafia vuol corrodere alla radice. In tale quadro, l'utilizzo prudente, bilanciato ed equilibrato dell'informativa prefettizia antimafia è essenziale per evitare ogni tipo d'influenza mafiosa nelle scelte strategiche delle imprese. Ma va correlativamente evitato che, seppur involontariamente, le ditte "sane" siano espulse dal mercato, con possibile vantaggio indiretto per le società più o meno colluse con la mafia, ottenendo un risultato opposto a quello voluto dall'ordinamento.
La sentenza dà quindi alle informative un peso diverso secondo il calibro delle imprese che potrebbero risultarne travolte. Lo stesso Dlgs. 159/2011 (codice antimafia) prevede controlli diversificati in proporzione alla tipologia della società: per le spa l'articolo 85 impone verifiche aggiuntive, su amministratori e collegio sindacale. Per tutte le imprese l'articolo 91 ammette accertamenti su chi (anche non amministratore) risulti poter determinare in qualsiasi modo scelte o indirizzi aziendali, indipendentemente dalla presenza (Dlgs. 231/2001) di un organismo di vigilanza
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti verdi, è infrazione bruciare quelli abbandonati. Sentenza della Cassazione sulla combustione illecita di residui urbani.
Appiccare il fuoco a rifiuti urbani vegetali provenienti da aree verdi costa meno, in termini sanzionatori, se l'abbruciamento riguarda sfalci e potature abbandonati o depositati in modo incontrollato piuttosto che residui verdi preventivamente raccolti e trasportati senza autorizzazione al fine di sottoporli a tale smaltimento. Nel primo caso la sanzione è quella amministrativa pecuniaria da 300 euro a 3 mila euro, mentre nel secondo caso è quella penale della reclusione da 2 a 5 anni.

A far luce tra le pieghe della complessa disciplina che punisce la «Combustione illecita di rifiuti» è la Corte di Cassazione, Sez. III penale, che con sentenza 01.08.2014 n. 34098 ha tracciato i confini tra le diverse fattispecie incriminatrici previste dall'articolo 256-bis del dlgs 152/2006.
Il contesto normativo. La pronuncia interviene su un testo normativo (quello recato dall'articolo 256-bis del «Codice ambientale») che punisce lo smaltimento dei residui tramite combustione attraverso tre distinte fattispecie: il delitto di «combustione illecita» di rifiuti propriamente detta (coincidente, ex comma 1 dell'articolo in parola, nell'appiccare il fuoco a rifiuti di qualsiasi genere e provenienza, abbandonati o depositati in modo incontrollato), il delitto di gestione illecita di rifiuti in funzione della loro successiva combustione (coincidente con la conduzione di operazioni non autorizzate sui residui al fine di disfarsene tramite abbruciamento; comma 2); la residuale fattispecie punitiva di natura amministrativa (comma 6) che colpisce la combustione illecita dei (soli) «rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali» (ossia di quelli classificati come rifiuti urbani dall'articolo 184, comma 2, lettera e) del dlgs 152/2006).
La pronuncia della Corte. Come ora chiarito dalla Cassazione affinché la combustione illecita di rifiuti vegetali possa essere inquadrata come mera infrazione amministrativa (ex comma 6, articolo 256-bis citato) occorre non solo che abbia a oggetto esclusivamente rifiuti di provenienza urbana ma altresì che detti residui versino in stato di abbandono o deposito incontrollato, poiché laddove gli stessi siano stati preventivamente e illecitamente raccolti e trasportati al fine di porre in essere la medesima modalità di smaltimento a essere configurata sarebbe la diversa figura di reato penale ex comma 2 dell'articolo (dunque, la stessa ipotesi delittuosa applicabile all'abbruciamento degli altri rifiuti vegetali, ossia di quelli provenienti da attività agricole o agroindustriali, classificati dall'articolo 184, comma 3, del dlgs 152/2006 come rifiuti speciali).
Ciò, motiva il giudice nella sentenza, per il fatto che la stessa struttura dell'illecito amministrativo ex comma 6, articolo 256-bis del «Codice ambientale» prevede tra i suoi elementi costitutivi (tramite puntuale richiamo normativo) quello della «condotta» ex comma 1 stesso articolo, ossia la combustione di residui in condizione di «abbandono o deposito incontrollato» (articolo ItaliaOggi Sette del 29.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Combustione illecita.
A seguito dell'introduzione del delitto di cui all'art. 256-bis, comma 2, d.lgs. 152/2006, la combustione non autorizzata, quale modalità di smaltimento dei rifiuti dolosamente perseguita all'esito dell'attività di raccolta, trasporto e spedizione, qualifica le corrispondenti condotte previste dagli artt. 256 e 259, d.lgs. 152/2006, facendole assurgere a fattispecie autonoma di reato, ancorché a tali fasi di gestione del rifiuto, prodromiche alla combustione, non segua la combustione stessa.
Il residuo illecito amministrativo di cui all'art. 256-bis, comma 6, d.lgs. 152/2006, ha invece ad oggetto i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali di cui all'art. 184, lett. e), non dunque la paglia, gli sfalci, le potature e il materiale agricolo o forestale non pericoloso di cui all'art. 185, comma 1, lett. f).
La condotta, però, deve avere ad oggetto rifiuti vegetali abbandonati o depositati in modo incontrollato (tale il senso del richiamo al comma 1°), non anche raccolti e trasportati dallo stesso autore della combustione, poiché, in tal caso, la condotta ricadrebbe nella previsione di cui al comma 2° dello stesso art. 256-bis, d.lgs. cit.; ne consegue che la condotta di autosmaltimento mediante combustione illecita di rifiuti continua ad avere penale rilevanza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.08.2014 n. 34098 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: No alla cauzione per chi vuole bloccare l'appalto.
Non si può imporre una cauzione a chi vuole bloccare un appalto, anche se oggi il versamento della somma di denaro risulta prescritto dal decreto semplificazioni entrato in vigore a giugno per evitare lungaggini burocratiche nei contratti pubblici. Possibile? Sì, perché la nuova disposizione risulta contraria alle direttive comunitarie che prevedono procedure accessibili a tutti, senza discriminazioni di ordine finanziario in ogni Paese Ue. Risultato: la norma di cui all'articolo 40, comma 1, lettera b) del decreto legge 90/2014 deve essere disapplicata perché contraria ai principi comunitari.

È quanto emerge dall'ordinanza 30.07.2014 n. 1070, pubblicata dalla IV Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Stop all'aggiudicazione della gara senza che l'impresa esclusa debba sborsare un euro: sussistono i presupposti per la concessione della misura cautelare di cui all'articolo 119, comma 3, del codice del processo amministrativo nell'ambito della controversia sull'affidamento della gestione di una farmacia comunale. E ciò perché risulta fondata la censura che lamenta l'errata applicazione della formula matematica prevista per il calcolo del punteggio dell'offerta economica: di conseguenza la commissione di gara non ha applicato il criterio di proporzionalità nella valutazione di questa componente dell'offerta.
Attenzione, però: il dl 90/2014 ha tentato di scoraggiare le sospensive degli appalti introducendo una cauzione fino allo 0,5% del valore della gara alla quale il giudice può subordinare l'efficacia della misura cautelare richiesta. La prestazione pecuniaria può essere imposta anche quando dalla decisione non derivano effetti irreversibili: la somma va poi sbloccata dopo sessanta giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza.
Ma Palazzo Chigi, a quanto pare, ha fatto i conti senza le autorità Bruxelles: i paletti in soldoni posti allo stop degli appalti risultano in contrasto con le direttive 2004/18/Ce e 2004/17/Ce e il giudice amministrativo lombardo decide di dribblarli, nonostante accolga le richieste di annullamento degli atti adottati dal Comune, che è la stazione appaltante.
Tra gli atti dei quali l'azienda chiede e ottiene la sospensione, nella specie, ci sono anche le formule che attribuiscono i punteggi economici contenute nel bando di gara, «ove mai dovessero interpretarsi nel senso che gli elementi d'offerta da inserirsi nelle medesime debbano ricomprendere i valori economici a base d'asta». L'udienza pubblica è fissata al 13 novembre, le spese della fase cautelare compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 26.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).
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massima
V'è l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione di una cauzione, in quanto l’art. 40, comma 1, lett. b), del d.l. n. 90/2014 deve essere disapplicato per incompatibilità comunitaria, nella parte in cui stabilisce l’obbligo di subordinare necessariamente l’efficacia della misura cautelare alla prestazione di una cauzione, atteso che tale previsione risulta contrastante con gli artt. 1 e 2 della direttiva comunitaria 2007, n. 66, che impongono agli Stati membri l’adozione di misure idonee a garantire, per quanto riguarda gli appalti disciplinati dalle direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE, procedure di ricorso accessibili ed efficaci, senza alcuna discriminazione tra i vari operatori in dipendenza della loro diversa capacità finanziaria.

EDILIZIA PRIVATA: Per costruire non basta la Pec.
Galeotta fu la Pec: il messaggio incompleto di posta elettronica certificata mandato dal tecnico di fiducia fa sfumare per la società committente l'opportunità di ottenere il permesso di costruire con le premialità del decreto sviluppo. Il punto è che il silenzio-assenso del comune non può formarsi quando all'e-mail con valore legale non sono allegati l'atto di conferimento dell'incarico al professionista e la copia del documento di identità della società richiedente: valgono i principi dell'autoresponsabilità e dell'autocertificazione e senza le carte che diano certezze sulla provenienza, le dichiarazioni contenute nel messaggio di posta elettronica non hanno valore.

È quanto emerge dalla sentenza 15.07.2014 n. 347, pubblicata dalla I Sez. del TAR Abruzzo-Pescara.
Niente da fare, dunque, per l'azienda, anche se il comune ha fatto di tutto per «boicottare» il ricorso al digitale, facendosi mandare tutti i documenti in formato cartaceo per «l'impossibilità» di gestire il materiale in formato elettronico. In effetti si scopre che la Pec spedita dal tecnico è insufficiente: intendiamoci, il permesso di costruire ben può essere richiesto con l'e-mail col «bollino blu», ma servono riferimenti certi sui soggetti in campo. Altrimenti fa bene l'ente a disporre l'archiviazione della pratica, come in questo caso.
L'azienda dovrà probabilmente rivalersi sul tecnico: l'atto non risulta in grado di dispiegare gli effetti di certificazione previsti perché manca una forma essenziale prescritta dalla legge e non sanabile in altro modo. Il silenzio-assenso, spiegano i giudici, non può infatti formarsi senza la documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio: l'eventuale inerzia della p.a. nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che non potrebbero mai conseguire con un provvedimento espresso.
Il professionista, fra l'altro, manca di apporre la sua firma digitale su alcuni atti (articolo ItaliaOggi del 24.09.2014
- tratto da www.centrostudicni.it).

AGGIORNAMENTO AL 24.09.2014

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     State pensando a come integrare agevolmente la misera pensione, sempre che lo Stato non fallisca prima?? Non vi sovviene nulla??
     Vi diamo una dritta: l'ultimo anno di lavoro (prima della pensione) prendete l'aspettativa e fatevi assumere da un un sindacato (uno vale l'altro) con uno stipendio mensile di 2, 4 o 7mila euro ... ed il gioco è fatto: avrete una pensione integrativa (a quella di tecnico comunale) da far invidia pure ad un Onorevole o Senatore che dir si voglia.

NON CI CREDETE??

     Guardate questo servizio de LE IENE, andato in onda su Italia Uno lo scorso 17.09.2014 ... semplicemente VOMITEVOLE!!
    
Ed i sindacalisti sarebbero quelli che dovrebbero tutelare gli interessi dei lavoratori?? O tutelano (non tutti, per la verità) il proprio portafoglio!!

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Gavioli, Il cottimo fiduciario è una trattativa privata: giusto il ricorso dell’impresa (19.09.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: D. Tramutoli, La duplice natura dell'azione avverso il silenzio” (cfr. TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 29.08.2014 n. 2233) (17.09.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: D. Minussi, Prescrizione e decadenza dell'azione dell'appaltatore ed eccepibilità della garanzia per i vizi dell'opera (15.09.2014 - link a www.e-glossa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: C. Cataldi, Le nuove figure amministrative locali: Consiglieri Comunali Delegati, Consiglieri Comunali Collaboratori, Consiglieri Comunali Aggiunti, etc. (12.09.2014 - tratto da www.diritto.it).

VARI: D. Minussi, Contratto preliminare e menzioni urbanistiche (04.08.2014 - link a www.e-glossa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA  -EDILIZIA PRIVATA: G.U. 18.09.2014 n. 217 "Abrogazione del decreto 19.06.2009 e contestuale pubblicazione dell’Elenco delle Zone di Protezione Speciale (ZPS) nel sito internet del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 08.08.2014).
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L’elenco delle ZPS istituite ai sensi dell’ art. 3, comma 3, del decreto ministeriale 17.10.2007, con i relativi formulari e cartografie, è pubblicato nel sito internet del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare: http://www.minambiente.it/pagina/rete-natura-2000 ed è tenuto aggiornato con le eventuali modifiche apportate nel rispetto delle procedure comunitarie.

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 18.09.2014 n. 217 "Approvazione delle delibere dell’Albo nazionale gestori ambientali nn. 1 del 23.07.2014, 2, 3, 4 e 5 del 03.09.2014 e 6 del 09.09.2014" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, comunicato).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: forestazione; competenze professionali degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati. Legge 11.08.2014 n. 116, art. 1-bis, comma 16 (Consiglio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati, nota 17.09.2014 n. 3475 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVIOggetto: Modalità di pagamento in via telematica dell'imposta di bollo dovuta per le istanze e per i relativi atti e provvedimenti trasmessi in via telematica ai sensi dell'art. 1, comma 596, della legge 27.12.2013 n. 147 - servizio @e.bollo (Agenzia delle Entrate e Dipartimento della Funzione Pubblica, provvedimento 19.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: D.P.R. 151/2011. Attività n. 2 e n. 6 dell'Allegato I. Attestazioni di rinnovo periodico di conformità antincendio. Chiarimenti (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 05.09.2014 n. 10694).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Indicazioni applicative in materia di trattamento retributivo accessorio del personale di regioni ed enti locali. Articolo 4 del decreto-legge 06.03.2014, n. 16 "Misure urgenti conseguenti al mancato rispetto di vincoli finanziari posti alla contrattazione integrativa e all'utilizzo dei relativi fondi" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, nota 12.08.2014 n. 10946 di prot.).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Modalità di riscossione della contribuzione dovuta dalle stazioni appaltanti ed enti aggiudicatori, dagli operatori economici e dalle società organismo di attestazione (avviso 12.09.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 06.09.2011, n. 159 (determinazione 02.09.2014 n. 2 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Qualificazione - Emanata una Determinazione sulla verifica dei requisiti per la partecipazione alle procedure di affidamento.
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MASSIMA
Le disposizioni dettate dal d.lgs. 06.09.2011 n. 159, cd. Codice antimafia, comportano l’esigenza di effettuare un coordinamento delle stesse con quanto disposto dall’art. 38, comma 1, lett. b), del d.lgs. 163/2006 e dall’art. 78 del d.p.r. 05.10.2010 n. 207.
Ai fini del rilascio dell’attestato di qualificazione, la verifica sull’assenza delle cause ostative antimafia ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. b), del d. lgs. 163/2006, richiamato dall’art. 78, del d.p.r. 207/2010, va effettuata anche nei riguardi dei soggetti indicati dall’art. 85, comma 2-bis, del Codice antimafia, come ulteriore garanzia dell’affidabilità morale dell’impresa che volesse ottenere l’attestato di qualificazione.
Il divieto di cui all’art. 38, comma 1, lett. b), del d.lgs. 163/2006, in relazione al rilascio dell’attestato di qualificazione, non opera più in base alla mera pendenza del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, bensì in forza di un provvedimento espresso del giudice che dispone espressamente l’operatività del divieto durante il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione.
Nelle more del rilascio della certificazione antimafia, vi è la possibilità di procedere all’emissione dell’attestato di qualificazione, ferma restando la facoltà di revocare detto attestato ai sensi dell’art. 40, comma 9-ter, del d.lgs. 163/2006, nel caso in cui dalla documentazione antimafia emerga, a carico dei soggetti censiti, la sussistenza di cause di decadenza di cui all’art. 67 del Codice antimafia.

APPALTI: Problematiche in ordine all’uso della cauzione provvisoria e definitiva (artt. 75 e 113 del Codice) (determinazione 29.07.2014 n. 1 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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MASSIMA
Le disposizioni normative in tema di cauzioni negli appalti pubblici non rientrano tra le norme di diretta applicazione ai settori speciali, tuttavia quando gli enti aggiudicatori decidono di richiedere una cauzione, provvisoria o definitiva, necessariamente devono trovare applicazione i principi stabiliti all’art. 2 del Codice, di cui gli artt. 75 e 113, non trovando spazio alcuno l’introduzione di regole più stringenti o limitative della concorrenza.
La normativa relativa agli intermediari finanziari offre adeguati strumenti per la valutazione e il controllo dell’affidabilità dei soggetti che operano sul mercato, e pertanto non si rilevano ostacoli all’applicazione dell’art. 127 del d.P.R. 207/2010, che ammette la possibilità che la cauzione definitiva possa essere rilasciata dagli intermediari anche per gli appalti ricadenti nei settori speciali.
La richiesta di rating ai garanti inserita nei bandi di gara appare clausola discriminante, perché determina disparità tra i soggetti che operano nel mercato creditizio/finanziario (intermediari, banche, assicurazioni) e potrebbe limitare la partecipazione alle gare delle imprese che segnalano difficoltà a reperire le garanzie necessarie per accedere alla gara d’appalto.
Le previsioni concernenti il progressivo svincolo della cauzione definitiva, espressamente dettate per gli appalti di lavori, sono direttamente applicabili anche agli appalti di servizi e forniture.

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONENessun contrasto di pronunce giurisprudenziali si ritiene sussistente tra quanto statuito sia dalla deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione delle Autonomie sia dalla deliberazione 28.06.2013 n. 2 di queste Sezioni Riunite per la Regione siciliana.
Con la nota in epigrafe indicata, il Sindaco del Comune di Solarino (SR), dopo aver operato un ampio excursus sugli orientamenti giurisprudenziali formatisi in tema di presupposti per la riconoscibilità del compenso incentivante di cui all’art. 92, comma 6, del d.lgs. 163/2006 e ss.mm.ii, recepito in Sicilia con legge regionale n. 12/2011, chiede di conoscere se <<risulta maggiormente coerente con lo Statuto regionale attenersi all’interpretazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. 163/2006 e s.m.i., come recepito in Sicilia dalla legge regionale n. 12/2001, data, in sede consultiva, dalle Sezioni Riunite per la Regione siciliana di codesta Corte con deliberazione n. 2/2013/SS.RR./PAR>>.
La richiesta di parere avanzata muove dal presupposto di un contrasto di giurisprudenza in ordine alle condizioni per il riconoscimento del compenso incentivante tra la citata deliberazione n. 2/2013/SS.RR./PAR delle Sezioni Riunite per la Regione siciliana e quella, successiva, della Sezione delle Autonomie (deliberazione n. 7/SEZAUT/2014/QMIG).
...
Passando al merito della questione, la stessa riguarda la corretta interpretazione della normativa di cui all’art. 92, comma 6, del d.lgs. 163/2006 e ss.mm.ii, recepito in Sicilia con legge regionale n. 12/2011, a norma del quale <<il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5, tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto>>.
In proposito
la Sezione rileva come entrambe le deliberazioni citate in premessa -relative alla definizione dei presupposti per il riconoscimento del suddetto compenso incentivante e per le quali si presume l’esistenza di un non meglio specificato contrasto- convergano in realtà nella medesima direzione ermeneutica. Entrambe, infatti, espressamente subordinano la concessione dell’incentivo ad un’attività progettuale, legata alla realizzazione di un’opera pubblica o di pubblico interesse, ulteriore rispetto alla mera attività di pianificazione urbanistica generale.
Tale condizione è infatti rinvenibile sia nella
deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione delle Autonomie, laddove si subordina la riconoscibilità del compenso incentivante al contenuto specifico dell’atto di pianificazione <<che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica>>, attraverso un’attività ulteriore e specifica di progettualità interna, sia nella deliberazione n. 2/2013/SS.RR./PAR di queste Sezioni Riunite per la Regione siciliana, laddove si afferma che <<l’attività di pianificazione, ai fini dell’incentivabilità delle prestazioni tecniche del personale dipendente, si ritiene, infatti, che debba prevedere una localizzazione di interventi pubblici o di opere di pubblico interesse, in relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione appaltante, nei termini previsti dal Codice dei contratti e dalle direttive n. 2004/17/CE e 2004/18/CE>>.
Ancora più chiaramente,
nella citata deliberazione, si rileva come <<l’attività di pianificazione debba essere contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di progettazione di opere pubbliche>>.
Tanto fermo restando l’imprescindibile rispetto delle condizioni, fissate dalla legislazione vigente, per il riconoscimento dei compensi incentivanti al personale dipendente.
Nessun contrasto di pronunce giurisprudenziali si ritiene pertanto sussistente ed ogni altra questione posta, anche di natura preliminare, si ritiene conseguentemente assorbita (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 30.07.2014 n. 91).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: La festa di Natale può essere «illegittima». Controlli. No alla spesa di rappresentanza.
Niente festeggiamenti natalizi per gli anziani con le spese di rappresentanza, perché non accrescono il prestigio dell'ente verso l'esterno.
La Corte dei conti, sezione Lombardia, con il parere 20.11.2013 n. 495 ha dichiarato non conformi le spese sostenute per una festa di scambio degli auguri natalizi con gli anziani.
L'ente aveva organizzato un evento per lo scambio di auguri natalizi con in cittadini ultrasettantenni, accompagnato da un buffet (con costi limitati). La Corte ha evidenziato che esulano dall'attività di rappresentanza le spese non strettamente finalizzate a mantenere o accrescere il prestigio dell'ente verso l'esterno nel rispetto della diretta inerenza ai propri fini istituzionali.
Il Comune si è giustificato specificando che con l'organizzazione dell'evento intendeva perseguire una finalità assistenziale. Nella delibera, però, la Corte rileva come il fatto che l'evento sia destinato ai cittadini «ultrasettantenni» non giustifichi in sé la sussistenza della finalità «assistenziale»; piuttosto, l'amministrazione comunale ha il dovere di palesare in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento quali sono le ragioni per le quali intende far fronte alle necessità di categorie sociali bisognose
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.12.2013).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Nel Decreto sblocca Italia si dispongono novità in materia di gestione delle terre e rocce da scavo?
Il DECRETO-LEGGE 12.09.2014, n. 133 recante “Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle cattività produttive” (G.U. n. 212 del 12.09.2014) all’art. 8 prevede “Disciplina semplificata del deposito preliminare alla raccolta e della cessazione della qualifica di rifiuto delle terre e rocce da scavo che non soddisfano i requisiti per la qualifica di sottoprodotto. Disciplina della gestione delle terre e rocce da scavo con presenza di materiali di riporto e delle procedure di bonifica di aree con presenza di materiali di riporto”.
Nel medesimo si dispone che al fine di rendere più agevole la realizzazione degli interventi che comportano la gestione delle terre e rocce da scavo, con decreto del Presidente della Repubblica, saranno adottate entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le disposizioni di riordino e di semplificazione della materia secondo i seguenti principi e criteri direttivi:
a) coordinamento formale e sostanziale delle disposizioni vigenti, apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo;
b) indicazione esplicita delle norme abrogate, fatta salva l'applicazione dell'articolo 15 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile;
c) proporzionalità della disciplina all'entità degli interventi da realizzare;
d) divieto di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli minimi previsti dall'ordinamento europeo ed, in particolare, dalla direttiva 2008/98/UE (22.09.2014 - link a www.ambientelegale.it).

APPALTI: Gara telematica offerta illeggibile.
Domanda
Una stazione appaltante ha indetto una procedura di gara telematica attraverso una piattaforma informatica. Può essere escluso il concorrente nel caso in cui il file dell'offerta risulti illeggibile?
Risposta
Il «caricamento» del file contenente l'offerta presenta fasi di competenza del privato e fasi di competenza del gestore del sistema. Il rischio connesso al malfunzionamento del sistema deve essere attribuito alla parte che, rispetto alla singola fase, è competente a gestire l'operazione di caricamento.
In particolare il Consiglio di stato, sez. III, sentenza 02/07/2014 n. 3329 ha precisato che: «Stante la netta distinzione delle fasi di competenza del mittente e di Sintel, ognuno di tali soggetti assume su di sé il solo rischio afferente al segmento di sua propria e precipua spettanza, senza poterlo riversare sull'altro».
Questo criterio, in base alla motivazione riportata nella sentenza del Consiglio di stato, sarebbe perfettamente compatibile con il principio del favor partecipationis in quanto «la gestione interamente informatizzata della procedura di gara ben può implicare l'esclusione dalla gara della domanda che risulti illeggibile per un guasto non dei comandi di trasmissione, ma dell'originazione del relativo file» (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI - VARI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Riprese, ok dal presidente. Niente via libera solo se la seduta è riservata. Spetta al regolamento disciplinare i casi in cui ammettere la registrazione.
Un cittadino può filmare i lavori del consiglio comunale e diffondere i contenuti delle riprese video se, come nel caso di specie, il regolamento comunale affida al presidente del consiglio comunale il potere di autorizzare l'ingresso in Aula dei fotografi e dei teleoperatori, di emanare apposite direttive e di decidere la diffusione radiofonica, televisiva e telematica dei lavori, sentita la «Conferenza dei presidenti di gruppo» e informandone i consiglieri?

Ai sensi dell'art. 38, comma 7, del Tuel, le sedute del consiglio comunale sono pubbliche, salvo i casi previsti dal regolamento. La disposizione va letta nel senso che, in linea generale, deve essere consentito al pubblico di assistere alle sedute consiliari dalle apposite postazioni riservate.
A fronte di detto principio, il successivo art. 39, comma 1, attribuisce al presidente del consiglio i poteri di direzione dei lavori e delle attività del consiglio, ove è compresa ogni facoltà strumentale alla garanzia del regolare svolgimento delle sedute e a tutela delle prerogative dell'organo assembleare medesimo. Peraltro, il consiglio, ai sensi del comma 3 del richiamato articolo 38, ha potestà di disciplinare, con apposite norme regolamentari, ogni aspetto attinente al funzionamento dell'assemblea.
È, pertanto, nell'ambito delle norme interne all'ente locale, che dovrebbero rinvenirsi anche disposizioni sulla possibilità di registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale (art. 97, comma 4, lett. a del Tuel) che da parte dei consiglieri comunali, nonché dei cittadini ammessi ad assistere alla seduta e degli organi di informazione radiotelevisiva. In assenza di esplicita previsione regolamentare l'ammissione alla registrazione potrebbe essere regolata caso per caso dal presidente del consiglio proprio nell'esercizio dei richiamati poteri di direzione dei lavori dell'assemblea, in stretta correlazione alle esigenze di ordinato svolgimento dell'attività consiliare.
Tuttavia, occorre osservare che il Tribunale amministrativo regionale del Veneto, con la sentenza n. 826/2010, ha negato il potere in parola in capo al sindaco-presidente del consiglio comunale il quale in carenza di apposita fonte regolamentare di competenza consiliare non può procedere ad estemporanei assensi alla videoregistrazione. A margine di tale potere regolamentare e, nell'ambito del citato principio di pubblicità della seduta, l'amministrazione può legittimamente riservarsi il compito di registrazione con mezzi audiovisivi, anche escludendo che altri soggetti e il pubblico in aula possano procedervi.
In questo senso, la pubblicità della seduta non implica la facoltà di registrazione ma la libera presenza di chi abbia interesse ad assistere alle sedute. Tale posizione trova conforto nella giurisprudenza che non ha rilevato profili di illegittimità in un regolamento che poneva il divieto di introdurre nella sala del consiglio apparecchi di riproduzione audiovisiva, se non previa autorizzazione (Corte di cassazione, sez. I n. 5128/2001).
Di uguale tenore è la pronuncia n. 44094 del 17.03.2002 del Garante per la protezione dei dati personali nella quale si afferma la necessità di regolamentare la materia che scaturisce dall'obbligo di informare i partecipanti alla seduta dell'esistenza delle telecamere. Sempre il Garante, con nota del 03.01.2008, ha riaffermato che l'ente, con apposita norma regolamentare, può porre limiti al regime di pubblicità degli atti e delle sedute del consiglio comunale. Tale regolamento può costituire fonte idonea a disciplinare i limiti e le modalità di pubblicità delle sedute consiliari, ivi compresi eventuali divieti di registrazione e di diffusione di immagini relative alle riunioni di consiglio da parte di terzi. Sono previsti, altresì, a carico dell'amministrazione, l'onere della preventiva informazione dei presenti in aula circa le riprese con le telecamere.
Peraltro, le limitazioni alle riprese potrebbero essere correlate anche alla mancata attivazione, da parte dell'amministrazione comunale, di un autonomo sistema di registrazione, stante l'esigenza di escludere che l'unico supporto audiovisivo di documentazione dello svolgimento dei lavori consiliari resti nella disponibilità esclusiva di soggetti estranei all'amministrazione, fuori dalle necessarie garanzie di autenticità.
Pertanto, tenendo presente che la normativa tende ormai a evolvere verso la più totale trasparenza della p.a. (dlgs 14.03.2013, n. 33), nel caso in esame, in presenza di apposita disciplina regolamentare, al di fuori dei casi in cui il consiglio si riunisca in seduta riservata, spetta presidente del consiglio comunale la possibilità di valutare di volta in volta se ammettere la videoregistrazione in relazione all'oggetto dei lavori (articolo ItaliaOggi del 19.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: I rifiuti sanitari possono essere sottoposti indistintamente a processo di sterilizzazione?
I rifiuti sanitari sono attualmente disciplinati dalla normativa speciale contenuta nel D.P.R. del 15.07.2003, n. 254 “Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell'articolo 24 della legge 31.07.2002, n. 179”.
All’art. 2, lett. m), del citato regolamento si definisce “sterilizzazione”: “l’abbattimento della carica microbica tale da garantire un S.A.L. (Sterility Assurance Level) non inferiore a 10-6. E si precisa che la stessa deve effettuarsi “secondo le norme UNI 10384/94, parte prima, mediante procedimento che comprenda anche la triturazione e l'essiccamento ai fini della non riconoscibilità e maggiore efficacia del trattamento, nonché della diminuzione di volume e di peso dei rifiuti stessi”.
Viene, inoltre stabilito, che possono essere sterilizzati unicamente i rifiuti sanitari pericolosi a solo rischio infettivo. L'efficacia della sterilizzazione viene verificata secondo quanto indicato nell'Allegato III del predetto regolamento.
La sterilizzazione dei rifiuti sanitari a rischio infettivo risulta essere una facoltà esercitabile ai fini della semplificazione delle modalità di gestione dei rifiuti stessi.
All’art. 10 del regolamento, inoltre, si precisa che “i rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo devono essere smaltiti mediante termodistruzione in impianti autorizzati ai sensi del decreto legislativo 05.02.1997, n. 22, con le modalità di cui ai commi 2 e 3”.
All’art. 11 - Smaltimento dei rifiuti sanitari sterilizzati – si prevede che “i rifiuti sanitari sterilizzati possano essere avviati in impianti di produzione di CDR o direttamente utilizzati come mezzo per produrre energia; oppure smaltiti in impianti di incenerimento di rifiuti urbani o in impianti di incenerimento di rifiuti speciali alle stesse condizioni economiche adottate per i rifiuti urbani” (15.09.2014 - link a www.ambientelegale.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Eccedenza di personale e procedura conseguente.
L'art. 33, comma 1, del d.lgs. 165/2001 prevede che le pubbliche amministrazioni che hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria, anche in sede di ricognizione annuale prevista dall'articolo 6, comma 1, terzo e quarto periodo del medesimo decreto, sono tenute ad osservare le procedure previste dallo stesso articolo dandone immediata comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica.
Al riguardo il giudice del lavoro ha affermato il principio secondo cui i dipendenti e i dirigenti pubblici da collocare in esubero devono essere scelti sulla base di criteri oggettivi e predeterminati dalle singole amministrazioni, al fine di scongiurare ogni forma di arbitrarietà.

Il Comune illustra l'intenzione di riorganizzare gli uffici e servizi, per conseguire una maggiore efficienza e una maggiore economia di spesa, mediante la gestione associata con un altro comune limitrofo dei servizi tributi e finanziari, creando all'uopo un ufficio unico dotato del personale di entrambi i Comuni aderenti. Di conseguenza diverrebbe inutile -sostiene l'Amministrazione istante- mantenere in organico la figura professionale di un istruttore direttivo di categoria D dell'Area commercio-tributi. L'Ente chiede, pertanto, se sia possibile, in tale circostanza, dichiarare in esubero la predetta figura professionale e, in caso affermativo, gradirebbe conoscere la corretta procedura da seguire.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione e relazioni sindacali della Direzione generale, si ritiene utile richiamare la disciplina vigente in materia di dichiarazione di esubero di personale e attivazione della procedura di eccedenza e mobilità collettiva, nei termini di seguito riportati.
Com' è noto, l'art. 33, comma 1, del d.lgs. 165/2001 prevede che le pubbliche amministrazioni che hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria, anche in sede di ricognizione annuale prevista dall'articolo 6, comma 1, terzo e quarto periodo del medesimo decreto, sono tenute ad osservare le procedure previste dallo stesso articolo dandone immediata comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica.
In tali ipotesi, a mente del citato articolo 33, dette amministrazioni sono tenute prioritariamente a dare un'informativa preventiva alle rappresentanze unitarie del personale e alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo di comparto.
In virtù di quanto disposto dal comma 5 dell'art. 33, dopo la richiamata comunicazione, l'amministrazione verifica la ricollocazione totale o parziale del personale in situazione di soprannumero o di eccedenza nell'ambito della stessa amministrazione, ovvero presso altre amministrazioni, previo accordo con le stesse, nell'ambito della regione.
Trascorsi novanta giorni dalla comunicazione di cui sopra, l'amministrazione colloca in disponibilità il personale che non sia possibile impiegare diversamente nell'ambito della medesima amministrazione e che non possa essere ricollocato presso altre amministrazioni nell'ambito regionale, ovvero che non abbia preso servizio presso la diversa amministrazione secondo gli accordi di mobilità.
Si osserva comunque che, nella fattispecie prospettata, in cui l'Ente istante ha manifestato la volontà di svolgere il servizio tributi-finanziario mediante convenzione con altro comune, la ricognizione dell'effettivo fabbisogno di personale non potrà essere riferita alla singola Amministrazione, ma alle globali necessità del servizio associato.
Potrebbe infatti apparire illogico che l'ente si privi di personale nel caso in cui lo stesso potrebbe essere utilmente collocato nella gestione associata del servizio, o per diverse esigenze dell'Amministrazione, per soddisfare i bisogni della collettività.
Si osserva, a tal proposito, come il giudice del lavoro di Padova
[1] abbia affermato il principio secondo cui i dipendenti e i dirigenti pubblici da collocare in esubero devono essere scelti sulla base di criteri oggettivi e predeterminati delle singole amministrazioni, al fine di scongiurare ogni forma di arbitrarietà. E' da evitare, infatti, qualsiasi individuazione di tipo mirato, contraria alla garanzia di oggettività che deve presiedere alla procedura di collocamento in disponibilità, considerate le pesanti conseguenze che ricadono sul lavoratore interessato.
Ad ogni buon conto, evidenziato un tanto, l'individuazione del personale in eccedenza, in applicazione di criteri obiettivi e previamente determinati in fonte regolamentare, è rimessa all'Ente istante, dotato di autonomia organizzativa che, proprio in relazione alle proprie concrete esigenze, si esplica mediante l'assunzione di opportune determinazioni, volte a garantire l'ottimale raggiungimento degli interessi pubblici perseguiti.
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[1] Cfr. 'Per gli esuberi criteri oggettivi e predeterminati', Il Sole24Ore, Norme e tributi, del 17.12.2012 (12.09.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Si può ritenere corretta la prassi in base alla quale in tema di tracciabilità cartacea gli operatori effettuano la registrazione di carico dopo l'invio a recupero/smaltimento del rifiuto?
Ai sensi dell’art. 190 1-quater (così come introdotto dall'art. 11, comma 12-bis, legge n. 125 del 2013) nel registro di carico e scarico devono essere annotate le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti prodotti o soggetti alle diverse attività di trattamento disciplinate dalla Parte quarta del TUA.
Tali annotazioni, nello specifico, devono essere effettuate:
a) per gli enti e le imprese produttori iniziali, entro dieci giorni lavorativi dalla produzione e dallo scarico;
b) per gli enti e le imprese che effettuano operazioni di preparazione per il riutilizzo, entro dieci giorni lavorativi dalla presa in carico dei rifiuti e dallo scarico dei rifiuti originati da detta attività;
c) per gli enti e le imprese che effettuano operazioni di trattamento, entro due giorni lavorativi dalla presa in carico e dalla conclusione dell'operazione di trattamento;
d) per gli intermediari e i commercianti, almeno due giorni lavorativi prima dell'avvio dell'operazione ed entro dieci giorni lavorativi dalla conclusione dell'operazione.
Ebbene, dalla normativa in analisi, non si evince alcuna prescrizione ad effettuare il carico sul registro prima dell’inizio del trasporto, come invece si riscontra per i rifiuti pericolosi gestiti con il SISTRI, in ordine ai quali il carico deve essere obbligatoriamente annotato prima dell’inizio dell’operazione di trasporto del rifiuto .
Ciò ha, quindi, sollecitato l’instaurazione di una prassi in base alla quale le società si avvalgono dei 10 gg. di tempo per fare il carico, attendendo l'accettazione del rifiuto a destinazione e la verifica del peso a destinazione finale, potendo così riportare lo stesso dato sia nell’operazione di carico che in quella di scarico, atteso che non vi è alcun divieto espresso dalla norma che inibisca il produttore dal tardare volontariamente a caricare i rifiuti prodotti, posticipando tale annotazione a viaggio avvenuto e nello specifico al momento in cui conosce il peso a destinazione.
Tale prassi, tuttavia, presenta delle criticità.
Vero è, infatti, che nella delicata (e spesso maggiormente controllata) fase del trasporto, il produttore risulterebbe –secondo tale modalità di compilazione- sprovvisto di qualsivoglia annotazione che attesti la qualità, la quantità e le altre caratteristiche del proprio rifiuto.
Ciò determina che in caso di manomissione da parte del trasportatore del FIR o –ancor più grave– manomissione del carico dei rifiuti avviato al trasporto e di eventuali controlli, il produttore non avrebbe la documentazione idonea a comprovare il proprio (buon) operato, con un evidente svantaggio negli strumenti procedurali e processuali volti a dimostrare la propria buona fede (08.09.2014 - link a www.ambientelegale.it).

APPALTI: Artt. 56 e 57. D.Lgs. n. 163/2006. Procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando di gara.
L'art. 56, comma 1, lett. a), D.Lgs. n . 163/2006, disciplina la procedura negoziata previa pubblicazione di un bando di gara alla quale è possibile ricorrere quando, in esito all'esperimento di una procedura aperta o ristretta o di un dialogo competitivo, tutte le offerte presentate siano risultate irregolari ovvero inammissibili, secondo quanto disposto dal D.Lgs. 163 in relazione ai requisiti degli offerenti e delle offerte.
La disposizione in argomento consente, inoltre, che le stazioni appaltanti possano omettere la pubblicazione del bando di gara a condizione che alla procedura negoziata siano invitati tutti i concorrenti in possesso dei requisiti di qualificazione di cui agli articoli da 35 a 45 del D.Lgs. n.163/2006, i quali, nella procedura precedente, hanno presentato offerte rispondenti ai requisiti formali della procedura medesima.
L'art. 57, comma 2, lett. a), D.Lgs. 163, prevede che possa farsi ricorso a procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando qualora non sia stata presentata 'nessuna offerta appropriata', oltre che in caso di presentazione di nessuna offerta.

Il Comune riferisce di aver indetto una procedura di gara aperta per l'affidamento di un appalto, assistito da finanziamento regionale da rendicontare entro il 31.12.2016, conclusasi con una prima aggiudicazione provvisoria alla ditta risultata prima in graduatoria e poi esclusa ai sensi dell'art. 38, comma 2, D.Lgs. n. 163/2006, ed una seconda aggiudicazione provvisoria alla ditta seconda classificata, allo stesso modo successivamente esclusa ai sensi dell'art. 38, c. 2, richiamato
[1]. L'Ente riferisce inoltre che le altre 6 ditte partecipanti sono state escluse per non aver raggiunto il punteggio minimo per accedere alle fasi di apertura dell'offerta economica.
Nel quadro rappresentato il Comune prospetta tre ipotesi di ricorso alla procedura negoziata
[2] senza pubblicazione del bando, in relazione alle quali chiede un parere di percorribilità:
a) applicazione dell'art. 56, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 163/2006, con invito rivolto a tutte le 8 ditte già partecipanti
[3];
b) applicazione dell'art. 57, comma 2, lett. a), sempre estendendo l'invito agli ex partecipanti;
c) applicazione dell'art. 57, comma 2, lett. c), per 'estrema urgenza non imputabile alla stazione appaltante'.
L'art. 56 disciplina le ipotesi di procedura negoziata previa pubblicazione di un bando di gara nei casi ivi elencati; in particolare la fattispecie di cui al comma 1, lett. a), si verifica quando in esito all'esperimento di una procedura aperta o ristretta o di un dialogo competitivo, tutte le offerte presentate siano risultate irregolari ovvero inammissibili, secondo quanto disposto dal D.Lgs. n. 163/2006 in relazione ai requisiti degli offerenti e delle offerte. La disposizione in argomento consente, inoltre, che le stazioni appaltanti possano omettere la pubblicazione del bando di gara a condizione che alla procedura negoziata siano invitati tutti i concorrenti in possesso dei requisiti di qualificazione di cui agli articoli da 35 a 45 del D.Lgs. n. 163/2006, i quali, nella procedura precedente, hanno presentato offerte rispondenti ai requisiti formali della procedura medesima. In questa procedura negoziata non possono essere modificate in modo sostanziale le condizioni iniziali del contratto.
Posto che nel caso di specie l'Ente istante riferisce di volere estendere l'invito a tutti i partecipanti alla gara aperta, il ricorso alla procedura negoziata di cui all'art. 56 richiamato da un lato è subordinato alla circostanza che le offerte presentate in sede di gara aperta siano tutte irregolari o inammissibili, e dall'altro lato non consente modifiche sostanziali delle condizioni iniziali del contratto.
La norma non fornisce alcuna definizione di irregolarità ed inammissibilità, per cui si può muovere in via interpretativa, anche dal confronto con l'art. 57, co. 2, lett. a), il quale prevede che possa farsi ricorso a procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando qualora non sia stata presentata 'nessuna offerta appropriata', oltre che in caso di presentazione di nessuna offerta. Anche in questo caso non possono essere modificate in modo sostanziale le condizioni iniziali del contratto.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che l'offerta è irregolare quando manchi o risulti incompleto od irregolare uno dei documenti richiesti
[4], ed ha specificato l'inammissibilità delle offerte carenti dei requisiti tecnici per la partecipazione alla gara o inadeguate dal punto di vista tecnico [5].
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ha affermato che presupposto per l'applicabilità dell'art. 56, comma 1, lett. a) è che vi siano state offerte presentate in gara ma che tutte siano state irregolari o inammissibili, avuto riguardo, rispettivamente, ai requisiti prescritti per le offerte (requisiti di forma e di validità delle stesse, posti a tutela della par condicio dei concorrenti) e per gli offerenti; presupposto di applicabilità, invece, dell'art. 57, comma 2, lett. a) (procedura negoziata senza bando), è che non sia stata presentata alcuna offerta o che tutte le offerte presentate siano state giudicate inappropriate, intendendosi per tali le offerte formalmente valide ma irrilevanti sul piano economico, assimilate dal legislatore alle offerte non presentate
[6].
In questi stessi termini è tracciata la distinzione tra la fattispecie di cui all'art. 56, comma 1, lett. a), e quella di cui all'art. 57, comma 2, lett. a), dalla giurisprudenza
[7] e dalla dottrina [8], nel senso di ritenere che le offerte inappropriate sono quelle che, sebbene formalmente valide, non sono state considerate convenienti dalla stazione appaltante sotto il profilo tecnico o economico, vale a dire che non sono state valutate come idonee a soddisfare le esigenze per le quali l'amministrazione si è determinata a bandire la gara [9].
Nel caso di specie, le offerte delle ditte risultate prima e seconda in graduatoria, dunque reputate adeguate sul piano tecnico ed economico, sono state escluse per omessa indicazione di una condanna penale che è d'obbligo dichiarare ai sensi dell'art. 38, comma 2, D.Lgs. n. 163/2006, mentre le altre (sei) offerte presentate sono state escluse per non aver raggiunto il punteggio minimo previsto dal disciplinare di gara.
Si tratta di casi di esclusione che paiono riconducibili alle ipotesi di offerte irregolari ed inammissibili, e che sembrano dunque poter legittimare il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, ai sensi dell'art. 56, comma 1, lett. a), richiamato. Un tanto, tenuto conto dell'intenzione manifestata dall'Ente di invitare alla (eventuale) procedura negoziata tutte le ditte che nella precedente gara hanno presentato offerte rispondenti ai requisiti formali richiesti e fermo restando il divieto di apportare modifiche sostanziali alle condizione iniziali del contratto.
Mentre non sembrano ravvisarsi, nel caso di specie, le condizioni legittimanti il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara ai sensi dell'art. 57, comma 2, lett. a), che presuppone che la gara sia andata deserta o che tutte le offerte siano non appropriate, avuto riguardo all'interpretazione delle offerte inappropriate, che sembra avere maggior seguito, nel senso di offerte formalmente valide, ma inadeguate sul piano tecnico ed economico.
Un tanto osservato, si sottolinea la previsione già ricordata secondo cui nelle ipotesi di procedura negoziata di cui agli artt. 56, comma 1, lett. a) e 57, comma 2, lett. a), non possono essere modificate in modo sostanziale le condizioni iniziali del contratto
[10].
Ciò significa, osserva il Giudice amministrativo
[11], che l'amministrazione non può stabilire una diversa base d'asta né può modificare le altre condizioni del contratto che influiscono sul sinallagma perché la norma mira ad evitare una elusione delle disposizioni sulla concorrenza, volendo impedire che un'amministrazione possa avvalersi della procedura negoziata proponendo condizioni più favorevoli rispetto alla procedura aperta non andata a buon fine.
Si tratta di una disposizione molto significativa a garanzia della reale parità di condizioni tra i concorrenti, finalizzata a garantire parità di trattamento tra gli operatori economici ammessi alla nuova gara rispetto a quelli che hanno partecipato alla prima procedura di gara
[12].
Al riguardo, anche la dottrina
[13] osserva che, a fronte di condizioni contrattuali sostanzialmente diverse e più favorevoli, non è affatto da escludere, da un lato, che altri imprenditori sarebbero potuti essere interessati all'aggiudicazione dell'appalto, dall'altro, che sarebbero state presentate offerte di tenore diverso da quelle in presenza delle quali si sono verificati i presupposti della procedura negoziata. Di talché, ove si intenda modificare in modo sostanziale le condizioni iniziali del contratto (ad esempio, per quanto attiene al prezzo [14], alla durata, alla prestazione da fornire), il presupposto previsto dalla legge per poter legittimamente ricorrere alla procedura negoziata non sussiste e la stazione appaltante è tenuta ad espletare una ordinaria procedura aperta o ristretta in modo da consentire ad ogni operatore economico del settore di valutare, in presenza delle mutate condizioni, la propria convenienza a partecipare alla gara, nel rispetto dei principi di par condicio tra le imprese, di libertà di concorrenza, di trasparenza e buon andamento dell'azione amministrativa [15].
La lett. c) del comma 2 dell'art. 57 prevede la possibilità di ricorrere alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando, nella misura strettamente necessaria, quando l'estrema urgenza, risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile con i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette o negoziate previa pubblicazione di un bando di gara, sempreché le circostanze invocate a giustificazione della estrema urgenza non siano imputabili alle stazioni appaltanti.
La fattispecie giuridica appena descritta, in quanto eccezione al principio generale della pubblicità e della massima concorsualità, è subordinata all'accertamento con il massimo rigore dei suoi presupposti, insuscettibili di interpretazione estensiva e, in particolare, per quanto riguarda l'urgenza di provvedere, essa non deve essere addebitabile in alcun modo all'amministrazione per carenza di adeguata organizzazione o programmazione ovvero per sua inerzia o responsabilità
[16]. Si tratta, inoltre, di un sistema di scelta del contraente ammissibile solo in funzione meramente strumentale all'espletamento di una gara pubblica e nella misura temporale strettamente necessaria [17].
Dalla casistica giurisprudenziale emerge che l'urgenza deve essere correlata all'oggetto del contratto di appalto. In particolare, è stata ritenuta legittima l'applicazione della norma in argomento per far fronte all'urgenza di assicurare la continuità di servizi essenziali improrogabili, causata da eventi imprevedibili e non addebitabili alla stazione appaltante (gara deserta; contenzioso sviluppatosi sulla gara)
[18].
Nel caso in esame, se da un lato si può affermare che l'esito infruttuoso della gara aperta non è addebitabile alla stazione appaltante, compete all'Ente accertare l'urgenza di esecuzione dei lavori oggetto dell'appalto, tale da renderne indifferibile l'affidamento e, quindi, da non consentire assolutamente di attendere i tempi necessari allo svolgimento di una delle procedure ordinarie o anche di una procedura negoziata previa pubblicazione di un bando
[19].
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[1] In entrambi i casi, il certificato del casellario giudiziale ha fatto emergere a carico di un legale rappresentante della ditta una sentenza di condanna, non dichiarata in sede di gara, non rientrante tra le fattispecie di reato depenalizzato ovvero di reato estinto dopo la condanna ovvero di revoca della condanna medesima.
[2] Ai sensi dell'art. 3, comma 40, D.Lgs. n. 163/2006, le 'procedure negoziate' sono le procedure in cui le stazioni appaltanti consultano gli operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell'appalto.
[3] Il Comune specifica che i reati non dichiarati riguardavano casistiche minimali, per le quali la commissione di gara non avrebbe assunto provvedimenti di esclusione.
[4] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 02.04.2002, n. 1798, con riferimento ad un appalto di lavori ai sensi dell'(abrogata) L. n. 109/1994. Per il Supremo Giudice amministrativo, in una procedura improntata al rigore formale il rispetto delle modalità di presentazione delle domande e delle offerte è garanzia di affidabilità delle stesse e la correttezza e completezza della documentazione nonché la carenza di errori od omissioni costituisce un elemento di confronto tra i partecipanti.
[5] TAR Roma, sez. II, 09.10.2002, n. 8442, che richiama Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1513/1998.
[6] AVCP, deliberazione n. 7 del 28.01.2009.
[7] Cfr. Consiglio di Stato sez. V, 29 maggio 2006, n. 3245, con riferimento all'art. 7 del D.Lgs. n. 157/1995 (oggi trasfuso negli artt. 56 e 57 del D.Lgs. n. 163/2006) disciplinante -negli appalti di servizi- la procedura negoziata previa (comma 1) e senza (comma 2) preliminare pubblicazione di un bando di gara. Ebbene, per il Supremo Giudice amministrativo la distinzione fra le due fattispecie si basa sulla differenza sostanziale, che viene evidenziata, nella procedura aperta che precede la procedura negoziata, tra la presentazione di offerte irregolari e la presentazione di offerte inappropriate.
Nel primo caso, infatti, la presentazione di offerte irregolari lascia supporre che il prezzo massimo indicato dall'amministrazione sia congruo rispetto ai prezzi di mercato effettivamente esistenti, per cui è utile sollecitare la presentazione di nuove offerte e che, quindi, vi sia spazio per un nuovo confronto concorrenziale. Nel secondo caso, invece, la mancanza di offerte appropriate lascia supporre che il prezzo indicato dall'amministrazione sia troppo basso rispetto alla realtà del mercato e che quindi sarebbe inutile un ulteriore appello pubblico per la presentazione di nuove offerte.
Per completezza espositiva, si segnalano, in senso differente, due pronunce della giurisprudenza amministrativa riferite all'art. 13, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 158/1995 (oggi abrogato dal D.Lgs. n. 163/2006), in materia di appalti nei settori esclusi. Per il Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1513/1998, l'espressione 'offerta non appropriata' va intesa in una accezione lata, comprensiva sia della offerta irregolare, cioè quella viziata nella forma, sia quella inammissibile, cioè quella in cui vi sia carenza dei requisiti sostanziali per la partecipazione alla gara.
Si osserva, però, che il Consiglio di Stato specifica di ricavare questa interpretazione da una ricostruzione sistematica interna alla disciplina dei settori esclusi. Nello stesso senso, sempre con riferimento ai settori esclusi, il TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.10.2002, n. 8442, afferma che il requisito della mancanza di offerte appropriate è da reputarsi integrato sia nella ipotesi di mancanza assoluta di offerte (cioè di gara andata deserta) sia in ipotesi di offerte irregolari, viziate cioè nella forma, sia infine in caso di offerte inammissibili, ossia carenti dei requisiti tecnici per la partecipazione alla gara o inadeguate dal punto di vista tecnico.
[8] Cfr. Salvatore Alberto Romano, L'affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 100-101). L'autore rileva che la differenza tra la procedura negoziata previa pubblicazione di un bando, di cui all'art. 56, e quella senza previa pubblicazione di un bando, di cui all'art. 57, consiste nel fatto che nella prima (art. 56) sono state presentate offerte, anche se irregolari o inammissibili, e quindi vi è la possibilità, almeno potenziale, di un ampliamento della competizione negoziale attraverso la previa pubblicazione di un bando, ovvero direttamente invitando alla negoziazione tutti gli operatori formalmente idonei. Mentre nel secondo caso (art. 57), la gara si è conclusa senza che siano state presentate offerte o candidature (cioè richieste di partecipazione di sorta), ovvero quelle presentate sono tutte inappropriate in quanto non convenienti o inidonee in relazione all'oggetto del contratto.
[9] Stefano Baccarini, Codice dell'appalto pubblico, Giuffrè, Milano, 2011, p. 693.
[10] Cfr. Autorità Nazionale Anticorruzione, determinazione n. 8 del 14.12.2011.
[11] TAR Aosta, sez. I, 28.04.2009, n. 37.
[12] Consiglio di Stato, n. 1090/2011, cit..
[13] Cfr. Stefano Baccarini, op. cit., p. 688.
[14] Si osserva, peraltro, che con riferimento all'(abrogato) art. 7 , D.Lgs. n. 157/1995 (appalti di servizi), e specificamente in ordine alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara (comma 2), il Consiglio di Stato ha affermato che in questa ipotesi (che non sembra ricorrere nel caso in esame, ove risultano essere state presentate due offerte congrue sul piano tecnico), sarebbe illogico far rientrare il prezzo massimo indicato nel bando di gara tra le condizioni iniziali dell'appalto non modificabili, perché proprio la mancanza di offerte appropriate dimostra come tale prezzo sia inadeguato rispetto alla realtà effettiva del mercato. (Cfr. Consiglio di Stato n. 3245/2006, cit.).
[15] La giurisprudenza (TAR Sardegna, sez. I, 23.12.2005, n. 2445) ha ritenuto legittima una modifica riguardante il maggior peso attribuito, in termini di punteggio, al profilo tecnico del progetto a scapito del peso originariamente riconosciuto all'offerta economica, in quanto mera modifica di dettaglio che non comporta un'alterazione dell'oggetto dell'appalto e del suo contenuto ed è dunque insuscettibile di incidere sulla ratio della disposizione, volta ad evitare l'arbitrario ricorso alla trattativa privata rispetto alla gara pubblica. (La pronuncia è riferita, invero, all'(abrogato) art. 7, D.Lgs. n. 157/1995, ma si rivela utile anche nel caso di specie, poiché postula, allo stesso modo dei vigenti art. 56 e 57, il mantenimento delle condizioni sostanziali iniziali del contratto).
[16] TAR Campania Napoli, sez. I, 29.05.2012, n. 2528; Consiglio di Stato, sez. V, 10.11.2010, n. 8006.
[17] TAR Veneto, sez. I, 06.03.2013, n. 350; TAR Campania, Napoli, sez. I, 29.05.2012, n. 2528; Consiglio di Stato, sez. V, 10.11.2010, n. 8006.
[18] Cfr. TAR Campania Napoli, sez. I, 11.07.2007, n. 6654, che ha riconosciuto l'urgenza di provvedere all'affidamento del servizio improrogabile di trasporto scolastico per alunni di scuola materna e dell'obbligo senza che l'amministrazione ne avesse colpa, non potendosi prevedere che la gara precedente sarebbe andata deserta; TAR Campania Napoli, sez. I, 29.05.2012, n. 2528, che, in presenza di un contenzioso sviluppatosi su una gara per l'affidamento del servizio triennale di gestione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle apparecchiature elettromedicali di un'azienda sanitaria, ha riconosciuto i presupposti dell'urgenza di assicurare la continuità del servizio e dell'imprevedibilità della complessa vicenda giurisdizionale; TAR Catania, sez. III, 01.03.2011, n. 524, che ha riconosciuto l'urgenza di affidare, a mezzo trattativa privata, il servizio di raccolta dei rifiuti nelle more dell'espletamento della gara pubblica.
[19] Cfr. TAR Veneto, sez. I, 06.03.2013, n. 350. In dottrina, v. Stefano Baccarini, op. cit., pp. 695-696.
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L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha affermato che presupposto per l'applicabilità dell'art. 56, comma 1, lett. a) è che vi siano state offerte presentate in gara ma che tutte siano state irregolari o inammissibili, avuto riguardo, rispettivamente, ai requisiti prescritti per le offerte (requisiti di forma e di validità delle stesse, posti a tutela della par condicio dei concorrenti) e per gli offerenti; presupposto di applicabilità, invece, dell'art. 57, comma 2, lett. a) (procedura negoziata senza bando), è che non sia stata presentata alcuna offerta o che tutte le offerte presentate siano state giudicate inappropriate, intendendosi per tali le offerte formalmente valide ma irrilevanti sul piano economico, assimilate dal legislatore alle offerte non presentate.
In entrambe le ipotesi di procedura negoziata richiamate non possono essere modificate in modo sostanziale le condizioni iniziali del contratto
(14.08.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Ammissibilità della corresponsione del gettone di presenza ai componenti di una commissione comunale.
La normativa regionale non prevede espressamente un'indennità per i componenti delle commissioni comunali diverse da quelle consiliari. Rientra, quindi, nella discrezionalità dell'Amministrazione stabilire con regolamento se attribuire i gettoni di presenza, ed il conseguente importo, ai componenti delle commissioni comunali.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all'ammissibilità della corresponsione di un gettone di presenza ai componenti, sia interni che esterni, della commissione per le pari opportunità fra uomo e donna per la partecipazione alle sedute della stessa, sulla scorta di quanto avviene per la partecipazione, da parte dei consiglieri comunali, alle sedute delle commissioni consiliari.
L'Ente precisa, al riguardo, di avere istituito, con propria delibera consiliare, una Commissione permanente per le pari opportunità fra uomo e donna composta sia da consiglieri comunali che da componenti esterni.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si ritiene necessario operare una distinzione tra le commissioni consiliari e le altre commissioni comunali.
Al riguardo si osserva che l'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 stabilisce che, quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni consiliari costituite nel proprio seno con criterio proporzionale, demandando al regolamento la determinazione dei poteri delle commissioni e la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori delle stesse.
Quanto alla composizione delle commissioni consiliari, dal dettato dell'articolo 38, comma 6, sopra citato, deriva che le stesse devono essere formate da soli consiglieri, atteso che la norma espressamente dispone che il consiglio le possa costituire 'nel proprio seno'.
[1]
Fanno, invece, riferimento ad un diverso istituto giuridico quelle commissioni comunali miste che prevedono la partecipazione, accanto a soggetti politici, di rappresentanti degli interessi della collettività, le quali rientrano tra gli organismi di partecipazione popolare previsti dall'articolo 12, comma 2, della legge regionale 09.01.2006, n. 1
[2] e dall'articolo 8 del D.Lgs. 267/2000. In particolare, l'ultima norma citata precisa le opportunità consentite al Comune per favorire la partecipazione popolare ai vari aspetti dell'attività della civica amministrazione. Il comma 3 dell'indicata norma individua nello statuto l'atto normativo nel quale devono essere previste forme di consultazione della popolazione: queste possono concretizzarsi anche attraverso l'istituzione di commissioni comunali miste che esprimono pareri o proposte su atti e provvedimenti di competenza dell'amministrazione stessa.
Con riferimento specifico alla Commissione per le pari opportunità si osserva che, nell'ambito della normativa di rango legislativo, non sussiste una specifica disciplina in relazione alla stessa.
L'articolo 12, comma 2, della legge regionale 1/2006, si limita, infatti, a prevedere che lo statuto stabilisce 'le condizioni per assicurare pari opportunità tra uomo e donna anche in ordine alla presenza negli organi collegiali dell'ente'.
La scelta delle modalità con le quali il comune intende garantire le pari opportunità è, pertanto, demandata dalla legge all'autonomia normativa dell'ente, il quale può liberamente decidere di utilizzare gli strumenti ritenuti più idonei, tra i quali la istituzione di una commissione consiliare o di una commissione comunale mista, intesa quale 'organismo di pari opportunità' (assimilabile alle commissioni comunali intese quali 'organismi di partecipazione popolare').
Nel caso in esame, attesa la composizione della commissione in oggetto (formata da quattro consiglieri comunali e sei membri esterni), segue che il consiglio comunale, nell'esercizio della propria autonomia, ha manifestato la volontà di costituire una commissione comunale di carattere misto.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, e passando a trattare lo specifico aspetto dell'ammissibilità della corresponsione dei gettoni di presenza per la partecipazione alle sedute della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna come costituita dal Comune, si osserva, preliminarmente, che la normativa regionale non prevede espressamente un'indennità per i componenti delle commissioni comunali diverse da quelle consiliari. Infatti, la materia relativa alla misura delle indennità di presenza degli amministratori degli enti locali è regolata dalla deliberazione di Giunta regionale n. 1193 del 24.06.2011.
[3] Il punto sette dell'atto deliberativo citato fissa gli importi dell'indennità giornaliera di presenza da corrispondere ai consiglieri comunali e provinciali per l'effettiva partecipazione ad ogni seduta del consiglio o delle commissioni consiliari previste dalla legge o dallo statuto, nulla disponendo in ordine alle commissioni comunali diverse dalle consiliari.
Alla luce di tali considerazioni, si ritiene, quindi, che rientri nella discrezionalità dell'Amministrazione stabilire se attribuire i gettoni di presenza, ed il conseguente importo, ai componenti delle commissioni comunali, quale è quella in riferimento. Atteso il tenore della norma di cui all'articolo 8 del vigente regolamento dell'Ente per l'istituzione della commissione per le pari opportunità fra uomini e donne, ai sensi del quale 'Non è dovuto alcun compenso per la partecipazione alla Commissione', pare non ammissibile la corresponsione di alcun gettone di presenza ai componenti, sia interni che esterni, della Commissione in riferimento, ferma rimanendo la possibilità per il Comune di modificare il proprio regolamento comunale.
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[1] In questo senso si veda il parere dell'ANCI del 10.10.2006, nel quale si precisa come 'il primo requisito ineludibile, quindi, è la composizione che deve essere riservata ai consiglieri comunali, in quanto destinatari delle condizioni contenute nello status proprio degli amministratori degli enti locali, e che non è estensibile ad elementi ad essi estranei'.
[2] Tale disposizione, che nella nostra Regione si applica in luogo dell'articolo 6 TUEL, prevede che lo statuto stabilisca, tra l'altro, le forme della partecipazione popolare.
[3] L'indicata delibera reca, più precisamente, la disciplina relativa alle indennità ed ai gettoni di presenza, nonché ai rimborsi delle spese di viaggio, vitto ed alloggio per gli amministratori degli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia
(11.08.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli di quartiere ko. Non più istituibili. Come le circoscrizioni. Al consiglio comunale le modifiche statutarie e regolamentari.
Quesito. Sono compatibili le elezioni dei consigli di quartiere della città congiuntamente all'elezione degli organi di governo del Comune, il cui mandato scadrà prossimamente?

Il legislatore statale, nell'ambito di un più generale e complesso intervento rivolto alla riduzione della spesa pubblica, è più volte intervenuto, nel corso degli ultimi anni, con successive disposizioni volte a ridimensionare gli organi degli enti locali al fine di contenerne i costi di funzionamento.
A tale proposito si richiama l'art. 2, comma 186, della legge 191 del 23.12.2009, che ha modificato la disciplina delle circoscrizioni comunali, la legge n. 42 del 26.03.2010, e la legge n. 148 del 14.09.2011, di conversione del dl n. 138 del 13.08.2011, che hanno previsto, tra l'altro, anche la riduzione dei componenti degli organi collegiali degli enti locali.
Va considerato, inoltre, quale ulteriore elemento di valutazione, che la grave congiuntura economica, che perdura da un ampio arco temporale, imporrebbe ai vari enti costitutivi della Repubblica un dovere di comportamento, coerente con le esigenze superiori della Comunità nazionale; un dovere di concorso al pubblico bene e interesse, che trova fondamento nei principi della stessa Costituzione.
Ciò posto, in linea generale, gli istituti di partecipazione popolare disciplinati dall'art. 8 del dlgs n. 267/2000 rientrano, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del citato decreto, nell'ambito del contenuto obbligatorio dello statuto dei comuni e delle province.
Generalmente essi vengono declinati dai vari ordinamenti locali nella forma di proposte di iniziativa popolare, interrogazioni e petizioni popolari, iniziativa referendaria ecc. In particolare, il citato articolo 8 del dlgs n. 267/2000, al comma 3 prevede, tra l'altro, forme di consultazione popolare e referendum che non sembrano assimilabili alle procedure di elezione dei componenti dei consigli di quartiere.
Premesso che il comune in questione ha una popolazione complessiva che si aggira sui 47 mila abitanti, dall'esame dello Statuto e dal regolamento dell'Ente si evince che i consigli di quartiere -i cui membri sono eletti a suffragio universale da parte dei cittadini iscritti nelle liste elettorali delle sezioni comprese nei confini stabiliti per i quartieri- risultano configurati, più che come istituti di partecipazione popolare -nei termini suindicati- quali ulteriori organi istituzionali alla stregua delle circoscrizioni di cui all'art. 17 del dlgs n. 267, che in base alla previsione del citato art. 2, comma 186, lett. b), della legge n. 191/2009 non sono più istituibili nei comuni con popolazione inferiore ai 250.000 abitanti.
Ricordando, peraltro, che la Costituzione, all'art. 117, comma 2, lett. p), prevede la competenza esclusiva dello Stato in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane», le considerazioni svolte non possono che costituire elementi di riflessione per l'Ente locale, fermo restando che spetta al consiglio comunale -nella sua sovranità ed in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui uniformarsi- procedere, ove ritenuto necessario, alle conseguenti modifiche statutarie e regolamentari (articolo ItaliaOggi del 27.12.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Facoltà del Vicesindaco.
Quesito. Il vicesindaco, assessore esterno, privo dello status di componente del consiglio comunale, può prendere la parola in consiglio comunale, anche in assenza di appositi atti di sindacato ispettivo che richiedano un suo intervento?

Risposta. La tematica inerente il perimetro dei poteri del vicesindaco ha costituito oggetto dell'attività consultiva del Consiglio di stato (pareri n. 94/96 del 21/02/1996 e n. 501, del 14/06/2001), che ha ritenuto di riconoscere il diritto dovere del vicesindaco e di tutti i componenti della giunta, pur non facenti parte del consiglio comunale, di intervenire alle adunanze di quest'ultimo per riferire sulle questioni messe all'ordine del giorno, sostenere le proposte della giunta, rispondere alle interrogazioni e alle richieste di chiarimenti.
Infatti questa facoltà, pur non essendo esplicitata dalla legge, è da ritenersi insita nel sistema anche in analogia alle regole che consentono ai membri dell'Esecutivo di intervenire alle discussioni delle camere, ancorché non ne facciano parte (articolo ItaliaOggi del 27.12.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Presidenti per anzianità. Ma il consiglio può fissare criteri ad hoc. Le regole da seguire in commissione nel caso di una parità di voti.
In caso di parità di voti tra due consiglieri, quale criterio occorre adottare per l'elezione del presidente di una commissione consiliare permanente?
Nella fattispecie, le commissioni consiliari permanenti, previste dallo statuto comunale, sono disciplinate dal regolamento del consiglio comunale. Ogni commissione è formata da cinque componenti.
Ai sensi della citata fonte regolamentare, è disposto che, nella prima seduta, la commissione procede, con un'unica votazione e a scrutinio segreto, all'elezione del presidente e del vice presidente tra i suoi componenti e che i candidati che ottengono più voti vengono eletti presidente e vice presidente.
Il regolamento prevede, inoltre, che «salvo che sia diversamente previsto dal presente regolamento, per le discussioni nelle commissioni si osservano le disposizioni previste per la discussione e la votazione in consiglio.»
Relativamente alle modalità di votazione nell'ambito delle sedute del consiglio comunale, la citata fonte normativa comunale dispone che «non si può procedere a elezione di ballottaggio, salvo che la legge disponga altrimenti».
Dal combinato disposto delle norme regolamentari si deve, pertanto, evincere che non è consentito, in caso di parità dei voti, il ricorso alla votazione di ballottaggio per determinare la elezione del presidente della commissione consiliare.
In via generale, quindi, ove, come nel caso in esame, non sia stato previsto, nell'ambito delle fonti normative locali, il criterio da adottarsi in caso di parità di voti, appare opportuno accedere al parametro della maggiore età anagrafica.
Tale criterio, infatti, risulta richiamato in diverse disposizioni del dlgs n. 267 del 2000 (cfr art. 71, comma 6, e art. 72, comma 9, art. 74, commi 7 e 11).
Ad abundantiam, si aggiunge che in alcune pronunce giurisprudenziali si è osservato che, in caso di parità di voti, deve ritenersi doveroso, in difetto di apposita previsione normativa di matrice statale e/o comunale, il ricorso al criterio dell'anzianità, in analogia con le situazioni che si verificano nelle elezioni dei comuni con il sistema maggioritario. (cfr. Tar Campania, sez. I, n. 1428 del 2011, il Tar Campania, sez. I, n. 2841 del 2012).
Nella sentenza Tar Campania n. 2841 del 2012 si legge, inoltre, che il criterio generale di anzianità risulta «immanente» su tutto il sistema elettorale comunale.
Spetta comunque alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, una disciplina puntuale in materia di elezione del presidente delle commissioni consiliari al fine di individuare un criterio da seguire in caso di parità di voti tra più candidati (articolo ItaliaOggi del 20.12.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazione del consiglio.
Qual è la corretta applicazione dell'art. 39, comma 2, del dlgs n. 267/2000 che prevede, tra l'altro, la facoltà di richiedere la convocazione del consiglio comunale da parte di un quinto dei consiglieri comunali?

Il legislatore, nello stabilire l'obbligo di convocazione del consiglio su richiesta del quinto dei consiglieri, non ha chiarito se, per il calcolo del quinto dei consiglieri, debba adottarsi il criterio dell'arrotondamento della cifra decimale per eccesso o per difetto, né si è formato un orientamento giurisprudenziale in materia. In tale contesto, si ritiene che sia di competenza dell'ente locale disciplinare, con apposito regolamento, il criterio da applicare in caso di cifra decimale.
Ove nel regolamento non vi sia una esplicita previsione, è opportuno applicare il criterio dell'arrotondamento per difetto, in quanto maggiormente armonizzato con la ratio della disposizione volta a tutelare la posizione della minoranza.
Nel caso di specie, tenuto conto che la consistenza complessiva del consiglio comunale prevede la presenza di sette consiglieri, compreso il sindaco, e che, secondo una pregressa nota interpretativa ministeriale era ammesso il criterio dell'arrotondamento per difetto, che, per il comune in questione, implicherebbe la possibilità anche solo per un singolo consigliere di poter richiedere la convocazione, considerando che un quinto dei consiglieri del comune corrisponde al numero 1,4, è sufficiente la sottoscrizione di un solo consigliere comunale (articolo ItaliaOggi del 20.12.2013).

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APPALTI: Gare, varianti super documentate.
Il responsabile del procedimento di un appalto pubblico dovrà trasmettere all'ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) la perizia di variante di un'opera, nella sua interezza senza frazionamenti; trasmissione obbligatoria anche per i settori speciali (acqua, energia e trasporti) e per gli appalti in deroga; previste sanzioni fino a 51.545 euro in caso di mancato adempimento.

È quanto afferma, con il comunicato 17.09.2014, il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, in attuazione dell'articolo 37 del decreto legge 90/2014 (legge 114/2014) che ha previsto l'obbligo per le stazioni appaltanti di comunicare le varianti in corso d'opera (per contratti oltre la soglia comunitaria e oltre il 10% di importo).
Il comunicato richiede al responsabile del procedimento (R.U.P.) dall'appalto –destinatario dell'obbligo– di «provvedere alla trasmissione integrale della perizia di variante, del progetto esecutivo», degli atti di validazione del progetto e di una relazione del R.U.P. stesso, oltre al provvedimento di approvazione della variante.
Il comunicato chiarisce che l'obbligo vige anche se il superamento del 10% del valore del contratto deriva dalla «concorrenza di più tipologie di variante, purché almeno una sia riconducibile a quelle individuate dal primo comma dell'articolo 37 della legge 114» (cause impreviste e imprevedibili, eventi legati alla specificità dei beni oggetto di appalto o «rinvenimenti imprevisti o imprevedibili nella fase progettuale» e «difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti».
Per le altre varianti, il comunicato specifica che rimane sempre fermo l'obbligo di inviare all'Osservatorio dell'Anac, le varianti non contemplate dalla legge 114 (modifiche legislative, errori progettuali e varianti migliorative del progetto entro il 5%). Previste sanzioni, in caso di inadempimento o false comunicazioni, a carico del R.U.P. da 25.822 a 51.545 euro (articolo ItaliaOggi del 23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI  -VARI: Sono fuori legge due siti su tre. Assenza di idonea informativa e mancanza del consenso. PRIVACY/ Un'indagine di Federprivacy condotta su 2.500 pagine pubbliche e private.
Due terzi dei siti web italiani violano la privacy. Su un campione di 2.500 siti, il 67% non è in regola con il dlgs 196/2003 (codice della privacy). Tra le violazioni più frequenti l'assenza di idonea informativa e la mancata raccolta del consenso.

La denuncia parte da Federprivacy, che ha inviato un dettagliato dossier al Garante.
Federprivacy ha stimato anche il possibile valore delle sanzioni per gli illeciti riscontrati: si parla di 24 milioni al mese.
A parte la valutazione della cifra, emerge in maniera oggettiva la diffusione della disapplicazione della normativa a protezione dei dati personali.
E le violazioni toccano trasversalmente sia il settore privato sia il settore pubblico.
Vediamo il dettaglio della ricerca.
Su 2.500 siti web di enti e imprese italiane, in 1.690 casi non è rispettato l'obbligo di informare l'interessato su come saranno trattati i suoi dati personali (violazione dell'articolo 13 del Codice della Privacy) e in molti casi non è rispettata neppure la richiesta di consenso al trattamento dei dati (violazione dell'articolo 23 del Codice della Privacy). Nel 55% dei casi, a non dare idonea informativa all'interessato, sono piccole e medie imprese, mentre il 17% dei siti web che omettono di dare l'informativa svolge attività in settori legati alla salute, che quindi trattano dati sensibili, come per esempio, ospedali, cliniche, laboratori di analisi, studi medici, dentisti, chirurghi ecc.
Nel 7% dei casi a commettere tali violazioni sono anche le aziende informatiche, come web agency o società di consulenza nel settori di internet, che spesso sviluppano esse stesse numerosi altri siti web per i loro clienti. Risulta inoltre che il 6% dei contravventori sono soggetti di condizioni economiche e dimensionali notevoli, come grandi aziende, multinazionali, enti pubblici, e anche personalità come artisti, politici e altri vip.
Pubbliche amministrazioni ed enti pubblici alimentano la graduatoria dei siti senza idonea informativa nel 3% dei casi, mentre raggiunge il 4% di questa classifica negativa il gruppo dei partiti, associazioni ed enti non profit.
In materia va ricordato che le prescrizioni del codice della privacy vanno adottate, per esempio, ogni volta che si chiede all'utente di compilare form di contatto, fornendo le loro informazioni personali. Il codice della privacy assegna all'interessato il diritto di ricevere un'idonea informativa sul trattamento dei dati personali per poter essere in grado di scegliere se prestare o meno il proprio consenso. Tra l'altro l'informativa riguarda trasversalmente tutti i settori, compresi gli enti pubblici e i siti internet istituzionali.
Sul versante sanzionatorio, l'articolo 161 del dlgs 196/2003 punisce le infrazioni a tale prescrizione con sanzioni pesantissime che vanno dai 6 mila ai 36 mila euro, cifre che possono essere anche raddoppiate se tali violazioni coinvolgono numerosi interessati, come nel caso di siti internet accessibili al pubblico, o addirittura quadruplicate se il contravventore è un soggetto facoltoso.
«L'ammontare delle violazioni rilevate nell'arco di un solo mese è stimata, codice alla mano, intorno ai 24 milioni di euro -spiega il presidente di Federprivacy, Nicola Bernardi- ma la portata del fenomeno è molto più estesa perché i domini registrati presso il Registro.it del Cnr sono a oggi circa 2,5 milioni, e questo significa che il campione analizzato equivale ad appena un millesimo dei siti italiani. L'entità di queste infrazioni, che sono pure alla bella vista di tutti su internet, è quindi potenzialmente calcolabile in alcuni miliardi di euro» (articolo ItaliaOggi del 23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attestati energetici al setaccio. Controlli condotti da Entrate e Sviluppo economico. SEMPLIFICAZIONI FISCALI/ Il decreto disciplina le modalità di collaborazione.
Collaborazione tra Agenzia delle entrate e Ministero dello sviluppo economico per scoprire le irregolarità negli attestati di prestazione energetica (Ape). Abolizione della comunicazione all'Agenzia delle entrate per i lavori di riqualificazione energetica degli edifici che usufruiscono del 65% e che proseguono per più periodi di imposta.

Queste alcune delle novità contenute nel decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali, attuativo dell'articolo 7 della delega di cui alla legge n. 23 dell'11.03.2014.
Il provvedimento esaminato venerdì scorso (19 settembre 2014) dal Consiglio dei ministri (in secondo esame preliminare), torna al vaglio delle commissioni parlamentari competenti per il prescritto parere, per poi ritornare all'esame del consiglio dei ministri per l'approvazione definitiva.
Bonus per riqualificazione. Attualmente il dl n. 185/2008 convertito nella legge n. 2/2009 prevede che i contribuenti interessati alla detrazione Irpef delle spese sostenute per la riqualificazione energetica degli edifici, i cui lavori proseguono oltre il periodo di imposta, debbano inviare all'Agenzia delle entrate un'apposita comunicazione in cui sono elencati i dati delle spese sostenute nei periodi di imposta precedenti.
La mancata osservanza del termine entro cui inviare la comunicazione (90 giorni dal termine di ciascun periodo di imposta in cui sono state sostenute le spese oggetto di comunicazione), ovvero la sua omissione non comportano la decadenza dal beneficio fiscale, ma solo la irrogazione di una sanzione pecuniaria (da 256 euro a 2.065 euro). In un'ottica di semplificazione l'articolo 12 del decreto semplificazioni provvede ad abrogare il descritto adempimento.
Attestato di prestazione energetica. L'articolo 1, comma 7, del decreto-legge 23.12.2013, n. 145, convertito dalla legge 21.02.2014, n. 9, ha modificato l'articolo 6 del dlgs 19.08.2005, n. 192, sostituendo la nullità degli atti privi dell'Ape con sanzioni amministrative pecuniarie a carico delle parti. La stessa disposizione ha stabilito, inoltre, che l'accertamento e la contestazione delle violazioni sono svolte dalla guardia di finanza o, alla registrazione dell'atto, dall'agenzia delle entrate.
Il pagamento della sanzione amministrativa non esenta comunque dall'obbligo di presentare la dichiarazione o la copia dell'attestato di prestazione energetica entro 45 giorni. La normativa al momento vigente prevede che gli accertamenti devono essere condotti dall'Agenzia delle entrate e dalla guardia di finanza, ma, si legge nella relazione illustrativa del decreto, non si tengono in considerazione le modalità telematiche di registrazione dei contratti, che prevedono la registrazione automatica dell'atto al momento della ricezione del file telematico, non consentendo di allegare altri documenti.
L'articolo 34 del decreto semplificazione disciplina il rapporto di collaborazione tra agenzia entrate e sviluppo economico in materia di attestato di prestazione energetica (articolo ItaliaOggi del 23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Da metà ottobre cambia il libretto energetico. Per gli impianti termici e la certificazione degli edifici.
Dal 15 ottobre nuovi libretti per gli impianti termici e la certificazione energetica degli edifici. È impianto termico quello destinato ai servizi di climatizzazione invernale o estiva degli ambienti, con o senza produzione di acqua calda sanitaria, indipendentemente dal vettore energetico utilizzato, comprendente eventuali sistemi di produzione, distribuzione e utilizzazione del calore nonché gli organi di regolarizzazione e controllo.
Sono compresi negli impianti termici gli impianti individuali di riscaldamento.

Queste alcune delle risposte contenute nelle Faq del Ministero dello sviluppo economico in merito all'efficienza energetica degli impianti di climatizzazione invernale e estiva.
Non sono impianti termici i sistemi dedicati esclusivamente alla produzione di acqua calda sanitaria al servizio di singole unità immobiliari ad uso residenziale ed assimilate. Tra le singole unità immobiliari a uso residenziale e assimilate sono da intendersi comprese anche gli edifici residenziali monofamiliari, le singole unità immobiliari utilizzate come sedi di attività professionali (ad esempio studio medico o legale) o commerciale (ad esempio agenzia di assicurazioni) o associativa (ad esempio sindacato, patronato) che prevedono un uso di acqua calda sanitaria comparabile a quello tipico di una destinazione puramente residenziale.
Non sono considerati impianti termici apparecchi quali: stufe, caminetti, apparecchi di riscaldamento localizzato ad energia radiante; tali apparecchi, se fissi, sono tuttavia assimilati agli impianti termici quando la somma delle potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare è maggiore o uguale a 5 kW.
Non sono considerati impianti termici i sistemi dedicati esclusivamente alla produzione di acqua calda sanitaria al servizio di singole unità immobiliari ad uso residenziale e assimilate (articolo ItaliaOggi del 23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO: Amministratore con «diploma». Impegno di 72 ore di lezione e docenti con requisiti seri e documentati. Formazione. Il decreto della Giustizia con nuove regole dovrebbe approdare già domani in Gazzetta Ufficiale.
Tra pochi giorni non ci saranno più scuse: il neo amministratore dovrà possedere un titolo di formazione specifico, acquisito presso enti o associazioni che seguano le indicazioni del decreto del ministero della Giustizia che sarà pubblicato a giorni.
Come anticipato dal Sole 24 Ore sabato scorso, il testo ha passato l'ultimo esame, quello della Corte dei conti, e quindi forse già domani uscirà sulla Gazzetta Ufficiale.
La nuova norma prende le mosse dalla legge 220/2012, come modificata dal Dl 145/2014, che ha stabilito che la competenza per definire la formazione spetta alla Giustizia. Il ministero aveva un testo già cinque mesi fa (si veda Il Sole 24 Ore dell'8 aprile scorso) ma i vari passaggi al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti, e soprattutto la riscrittura di alcuni passaggi dopo un confronto con le associazioni di categoria degli amministratori, che avevano espresso perplessità anche sulle pagine del nostro giornale, hanno determinato dei ritardi.
Da quando la norma sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale passeranno 15 giorni, poi entrerà in vigore, e chi vorrà iniziare la professione dovrà fare il corso, a meno che non amministri il condominio in cui abita o non abbia amministrato condomìni per almeno un anno nel triennio 2010-2013 (si veda l'articolo qui sotto).
L'annuncio ufficiale dell'imminente pubblicazione è stato dato al convegno di Confedilizia di sabato scorso dal sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri (si veda anche l'intervista qui a fianco), che in questi mesi si è prodigato per portare a casa il risultato e consentire ai condòmini di avere la garanzia di amministratori professionalizzati.
Vediamo, in sintesi, come funzioneranno i corsi, che dureranno almeno 72 ore per formazione iniziale (anche con e-learning), di cui 24 di pratica, e 15 ore annue per la formazione periodica.
Responsabili scientifici e formatori avranno sostanzialmente requisiti analoghi. Anzitutto quelli di "onorabilità": godimento dei diritti civili; non essere stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni, e, nel massimo, a cinque anni; non essere stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione; non essere interdetti o inabilitati.
Ci sono poi i requisiti "culturali": per i responsabili scientifici (che dovranno poi verificare i requisiti dei formatori e organizzare i corsi) dovranno essere docenti universitari o di scuola superiore di materie giuridiche, economiche o economiche, avvocati, magistrati o professionisti dell'area tecnica (anche in pensione). Devono poi avere una «competenza specifica» in materia condominiale, che è dimostrabile anche avendo pubblicato due libri in materia di diritto condominiale o di sicurezza degli edifici.
Per i formatori sono richieste le stesse qualifiche, ma possono svolgere la funzione anche dimostrando di possedere una laurea (quinquennale o triennale) o di essere iscritti a un albo professionale, sempre fatta salva la «competenza specifica». Un caso particolare di esenzione dai titoli di studio (sempre fatta salva la «competenza specifica») è quella di chi ha insegnato, per almeno sei anni precedentemente all'entrata in vigore del decreto stesso, in corsi di formazione, ciascuno della durata di almeno 40 ore.
Quanto ai contenuti minimi dei corsi di formazione, che potranno essere organizzati liberamente da qualunque ente e associazione che sia in grado di rispettare le indicazioni del decreto, sono previsti: amministrazione condominiale; sicurezza degli edifici (in particolare staticità, risparmio energetico, riscaldamento e di condizionamento, impianti idrici, elettrici e ascensori, manutenzione delle parti comuni e prevenzione incendi), spazi comuni, regolamenti condominiali, ripartizione spese e tabelle millesimali; diritti reali; contratti (con appalto e lavoro subordinato); tecniche di risoluzione dei conflitti; uso degli strumenti informatici.
Soddisfatte le prime reazioni: per Giovanni De Pasquale (Anaip) «L'obbligatorietà della frequentazione di corsi base e di aggiornamento servirà a mettere fine a quella giungla di amministratori improvvisati privi di ogni conoscenza tecnica, giuridica, contabile e fiscale». Luigi Ciannilli (Confai) avrebbe voluto l'obbligo formativo anche per chi amministra il proprio condomino: «C'è da chiedersi perché circa 1/3 dei condomini in Italia può avvalersi di un amministratore a cui non è fatto obbligo di tenersi aggiornato sulle evoluzioni normative e giurisprudenziali»
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATASemplificazioni e oneri ridotti spingono sulle ristrutturazioni. Le principali misure in edilizia previste dal dl 133/2014. Tempi accelerati per i permessi.
Spinta per manutenzioni e ristrutturazioni, con mano leggera sugli oneri edilizi. Mentre sul piano delle procedure si accelerano i tempi del permesso di costruire, la cui versione convenzionata fa il suo esordio nel Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), accanto ai permessi in deroga per le ristrutturazioni delle aree industriali dismesse; si manda in soffitta la Dia e la Comunicazione di inizio lavori è valida anche per gli aggiornamenti catastali.
Spinta anche a fare le opere di urbanizzazioni, che si cerca di accollare al privato (come per le trasformazioni urbane complesse).

Le novità per l'edilizia sono tante: accorpamenti e frazionamenti degradati a interventi di manutenzione straordinaria, la conservazione elevata a categoria autonoma, emancipazione della proroga dei permessi dalle strettoie del Testo unico per l'edilizia.
Il disegno è muovere l'economia e riqualificare il territorio con meno burocrazie. Con questo spirito il decreto Sblocca Italia n. 133/2014 (si veda ItaliaOggi del 02.09.2014) dedica l'articolo 17 alle semplificazioni in edilizia, soffermandosi sulla necessità di sburocratizzare alcuni passaggi e di creare ancora una volta occasioni per rivitalizzare il mercato.
Opere interne semplificate. Va nel senso della sburocratizzazione l'espansione del concetto di manutenzione straordinaria, che si affranca dalla necessità di rispettare volumi e superfici, bastando il rispetto della volumetria complessiva. Fermo l'ingombro dell'edificio, accorpamento o frazionamenti di unità vengono, dunque, declassati a manutenzioni straordinarie, con esclusione della necessità del permesso di costruire e benefici anche sul versante degli oneri dovuti al comune. La modifica del concetto trascina il rimodellamento delle disposizioni sui casi in cui è necessario il permesso di costruire e, a cascata, fa ampliare lo spazio d'azione dell'attività edilizia libera, realizzabile previa una semplice comunicazione di inizio lavori (Cil).
Non decisiva, ma apprezzabile, poi la pratica di accatastamento d'ufficio, utilizzando la stessa Cil. In dettaglio rientrano nel concetto di manutenzione straordinaria anche il frazionamento o l'accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportano la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari e la variazione del carico urbanistico, a condizione che non sia modificata la volumetria complessiva e si mantenga l'originaria destinazione di uso. Per questi interventi il contributo di costruzione è commisurato all'incidenza delle opere di urbanizzazione.
Gli interventi di manutenzione straordinaria, salvo che riguardino le parti strutturali dell'edificio, potranno essere eseguiti previa comunicazione dell'inizio lavori, anche per via telematica, all'amministrazione comunale.
La Cil deve essere asseverata da un tecnico abilitato, che attesta la conformità al piano regolatore e ai regolamenti edilizi. La comunicazione contiene i dati identificativi dell'impresa alla quale si intende affidare la realizzazione dei lavori. Quindi ci vuole l'asseverazione, ma non ci vuole la relazione tecnica e gli elaborati progettuali.
Le modalità semplificate di trasmissione della Cil riguardano anche le modifiche interne dei fabbricati d'impresa e le modifiche alla destinazione d'uso dei locali adibiti all'esercizio dell'impresa (salvo parti strutturali). La Cil diventa valida anche ai fini catastali, modificando la previgente disposizione che poneva a carico del privato di provvedere alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale.
Sarà il comune che deve provvede all'inoltro all'Agenzia delle entrate.
Interventi di conservazione. Un'alternativa all'esproprio. Il decreto prevede che i comuni possano favorire la riqualificazione delle aree in cui si trovano gli edifici esistenti non più compatibili con il piano regolatore. È un'alternativa all'esproprio perché l'amministrazione potrà trovare forme di compensazione. Nelle more dell'attuazione del piano il proprietario può eseguire tutti gli interventi conservativi, a eccezione della demolizione e successiva ricostruzione non giustificata da obiettive e improrogabili ragioni di ordine statico o igienico sanitario.
Permesso. Il procedimento del rilascio del permesso di costruire viene velocizzato: i termini dei rilasci non sono più raddoppiati sempre nei centri più grandi (oltre i 100 mila abitanti), ma solo per progetti particolarmente complessi secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento. E il titolo mantiene l'efficacia più a lungo. Si prevede, infatti, la proroga del permesso di costruire secondo valutazioni discrezionali: dà maggiore tempo alle imprese per la realizzazione dei progetti. Non occorre, poi, chiedere un nuovo permesso se il precedente è scaduto a causa di provvedimenti giudiziari o iniziative dell'amministrazione: i ritardi nella fase esecutiva non imputabili al privato non comportano la scadenza del titolo.
Permessi in deroga. Meno burocrazia, ma anche impulso al mercato dovrebbe arrivare dal permesso di costruire in deroga per gli interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica attuati anche in aree industriali dismesse: la deroga potrà riguardare anche i mutamenti di destinazione di uso. L'intervento è finalizzato a incentivare la riqualificazione e il rinnovo urbano, anche per contenere il consumo del suolo. Basta che il consiglio comunale dia il via libera.
La parola d'ordine è fare le urbanizzazioni. Così è vero che il comune, per esempio, non incassa oneri per gli interventi compresi in strumenti di pianificazione attuativa comunque denominati, ma è anche vero che sarà la convenzione con il privato a prevedere a carico di quest'ultimo le opere di urbanizzazione e infrastrutturali necessarie. Sulla stessa lunghezza d'onda l'alleggerimento degli oneri per le ristrutturazioni e gli interventi sull'esistente e anche il permesso di costruire convenzionato. Con il ricorso al permesso convenzionato, poi, si prevede che le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte dal privato, sotto il controllo del comune, con una modalità semplificata: con la convenzione si devono regolare utilizzo di cubature, caratteristiche degli interventi e realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale.
Identico discorso per le trasformazioni urbane complesse, per le quali si può prevedere l'assoggettamento al solo costo di costruzione, mentre le opere di urbanizzazione sono direttamente messe in carico all'operatore privato che ne resta proprietario.
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Meno vincoli ai mutamenti di destinazione.
Il decreto legge Sblocca Italia (n. 133/2014) introduce l'articolo 23-ter al Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001) e individua quattro categorie di destinazione urbanistica. Solo il passaggio da una categoria all'altra è mutamento di destinazione d'uso, mentre i cambi di uso all'interno della medesima categoria sono dequalificati. Questo salvo che le regioni stabiliscano diversamente. L'articolo 23-ter del Testo unico per l'edilizia individua quattro classi: a) residenziale e turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
La norma stabilisce che per la legge nazionale costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, anche se non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati a una diversa categoria funzionale. Il mutamento di destinazione di uso può essere con o senza opere. Nel secondo caso si parla di mutamento funzionale di destinazione di uso; nel primo caso si parla di mutamento strutturale di destinazione di uso.
Questo significa che il passaggio da destinazione residenziale a direzionale è mutamento di destinazione di uso (perché si passa da una categoria a una diversa); mentre il passaggio dalla destinazione direzionale a quella produttiva o dalla turistica a residenziale non è mutamento di destinazione di uso rilevante ai fini della legislazione edilizia. Quanto alla identificazione delle categorie, comunque, prevale la legge regionale. La norma si spinge a disposizioni di dettaglio. In particolare la destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare va determinata prendendo quella prevalente in termini di superficie utile: in caso di unità con uso promiscuo (casa e ufficio) prevale quella che occupa più superficie ed è questa categoria quella che deve essere presa in esame per valutare cambi d'uso.
L'articolo 23-ter si chiude con una norma di carattere generale e cioè che il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito. Anche qui, però, la legislazione regionale potrebbe disporre diversamente e in quel caso prevale sulla legge nazionale. Lo stesso va detto per i piani regolatori e in generale per gli strumenti urbanistici comunali, che possono vietare il mutamento di destinazione di uso anche all'interno della medesima categoria (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, l'aliquota Iva al 10% circoscrive il raggio d'azione. L'effetto della retrocessione a manutenzioni straordinarie degli interventi di rimodulazione.
Lo snellimento delle procedure edilizie, disposto dal dl «sblocca-Italia», restringe il raggio d'azione dell'aliquota Iva agevolata del 10%. Sembra questo, sul versante fiscale, l'effetto collaterale della «retrocessione» a manutenzioni straordinarie degli interventi di rimodulazione delle unità immobiliari degli edifici mediante frazionamento o accorpamento, ad opera dell'art. 17 del dl n. 133 del 12.09.2014 (in vigore dal giorno successivo). Ciò perché sulle opere di semplice manutenzione l'Iva agevolata si applica in maniera più selettiva che sui lavori di recupero edilizio più impegnativi.
Facciamo il punto della disciplina Iva degli interventi di recupero del patrimonio edilizio, che secondo la classificazione «gradata» fornita dall'art. 3, dpr n. 380/01 (già art. 31, legge n. 457/78), riportata nelle tabelle, si distinguono in: manutenzioni ordinarie (lett. a); manutenzioni straordinarie (b); restauro e risanamento conservativo (c); ristrutturazione edilizia (d); ristrutturazione urbanistica (f).
Iva agevolata ad ampio raggio. In relazione agli interventi di recupero edilizio di grado superiore, elencati nelle lettere c), d) ed f) dell'art. 3 dpr n. 380/01, le disposizioni della tabella A, parte III, allegata al dpr 633/72, prevedono l'Iva del 10% su:
- prestazioni di servizi dipendenti da contratti d'appalto relativi alla realizzazione degli interventi (n. 127-quaterdecies della tabella A/III)
- cessioni di beni, escluse le materie prime e semilavorate, forniti per la realizzazione degli interventi stessi (n. 127-terdecies, tabella A/III).
Sono inoltre soggette all'aliquota del 10% le cessioni di fabbricati o porzioni di fabbricato sui quali sono stati eseguiti i predetti interventi di recupero, se effettuate dalle stesse imprese che hanno eseguito gli interventi (n. 127-quinquiesdecies, tabella A/III).
In merito alle definizioni in tabella, l'amministrazione finanziaria ha chiarito che:
- gli interventi di restauro e risanamento conservativo, diretti, rispettivamente a restituire l'immobile alla configurazione originaria che si intende tutelare e ad adeguare ad una migliore esigenza d'uso attuale un edificio esistente, consistono, per esempio in modifiche tipologiche delle singole unità immobiliari per una più funzionale distribuzione, innovazione delle strutture verticali e orizzontali, ripristino dell'aspetto storico-architettonico di un edificio, anche tramite la demolizione di superfetazioni, adeguamento delle altezze dei solai, con il rispetto delle volumetrie esistenti, apertura di finestre per esigenze di aerazione dei locali;
- gli interventi di ristrutturazione edilizia, che sono interventi sistematici diretti alla trasformazione dell'organismo edilizio, con effetti tali da incidere sui parametri urbanistici, e possono portare ad un aumento della superficie, ma non del volume preesistente, comprendono la riorganizzazione distributiva degli edifici e delle unità immobiliari, del loro numero e delle loro dimensioni, la costruzione dei servizi igienici in ampliamento delle superfici e dei volumi esistenti, il mutamento di destinazione d'uso di edifici, secondo quanto disciplinato dalle leggi regionali e dalla normativa locale, la trasformazione dei locali accessori in locali residenziali, le modifiche agli elementi strutturali, con variazione delle quote d'imposta dei solai, l'ampliamento delle superfici.
Per quanto riguarda i presupposti per l'applicazione dell'aliquota Iva agevolata, in passato l'amministrazione aveva più volte precisato che l'agevolazione non poteva essere riconosciuta all'intervento che, pur qualificandosi oggettivamente come ristrutturazione edilizia, non mirasse a rimediare a una situazione di degrado dell'immobile, ma fosse realizzato soltanto per modificarne la destinazione d'uso, ad esempio da abitativa a commerciale (ris. min. n. 430791 del 03/03/1992).
Questo risalente orientamento è stato recentemente modificato. Nella circolare n. 8 del 13.03.2009, con riferimento alla disposizione del n. 8-bis) dell'art. 10, che esclude dal trattamento di esenzione dall'Iva le cessioni di fabbricati sottoposti a interventi di grado superiore effettuate entro cinque anni dalla fine dei lavori dalla stessa impresa di ripristino, l'agenzia delle entrate ha dichiarato che la norma non richiede che gli interventi di recupero siano collegati ad una condizione di degrado dell'immobile, per cui essa può trovare applicazione anche in ipotesi di cambio di destinazione d'uso non collegato a degrado del bene. Lo stato di degrado, ha precisato inoltre la circolare, non è necessario neppure ai fini della disposizione del n. 127-quinquiesdecies della tabella A/III, ai fini dell'aliquota agevolata.
Per quanto riguarda la portata oggettiva, l'aliquota del 10% si applica agli interventi di recupero effettuati su qualsiasi edificio esistente, quale che sia la destinazione d'uso (abitativa, commerciale ecc.); sono esclusi solo gli immobili che non rientrano nella nozione di edificio (es. monumenti, dighe); in via interpretativa, l'agevolazione è stata estesa anche agli interventi sulle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (circ. n. 1/1994).
A proposito della disciplina contrattuale degli interventi edilizi, anche se la norma parla di prestazioni di servizi dipendenti da contratti d'appalto, non vi è dubbio che l'aliquota ridotta sia applicabile anche quando la prestazione sia resa in base ad un contratto d'opera, stante la sostanziale identità funzionale di tali contratti, che si differenziano solo per la qualifica dell'appaltatore. Sono al di fuori del perimetro dell'agevolazione, invece, le prestazioni di natura diversa, ad esempio i servizi professionali, trasporti. Sotto il profilo formale, poi, sebbene sia consigliabile tanto ai fini civilistici che fiscali stipulare un contratto scritto, ciò non rappresenta una condizione di accesso al beneficio, non essendo la forma scritta imposta dalla legge né a fini costitutivi né a fini probatori.
La medesima portata oggettiva va attribuita all'agevolazione delle cessioni di beni, escluse le materie prime e semilavorate, destinati alla realizzazione degli interventi stessi. Riguardo alla previsione in esame, va ricordato che l'agevolazione spetta alle cessioni di «beni finiti», che secondo la prassi ministeriale sono quelli che conservano la loro individualità anche quando vengono incorporati nella costruzione: es. ascensori, sanitari, caldaie, termosifoni, tubazioni, interruttori, quadri elettrici, porte, finestre ecc. (circolari n. 25/1979 e n. 14/1981). Non sono tali, invece, quei beni che, pur rappresentando prodotti finiti per chi li vende, costituiscono materie prime o semilavorati per li chi acquista: mattoni, piastrelle, calce, sabbia, chiodi ecc.
L'aliquota ridotta compete solo se i beni sono destinati all'esecuzione degli interventi di recupero e non quando formano oggetto di commercializzazione (per esempio dal grossista al dettagliante).
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Manutenzioni, sconto ad hoc. I lavori esclusi dalla disciplina agevolativa fruiscono di un beneficio più contenuto.
Gli interventi definiti nelle lettere a) e b) dell'art. 3 del dpr n. 380/2001, ossia i lavori di manutenzione, sono esclusi dalla disciplina agevolativa prevista dalla tabella A/III (fanno eccezione le manutenzioni straordinarie di edifici residenziali pubblici).
Tali interventi fruiscono comunque di una più limitata agevolazione, prevista dall'art. 7 della legge n. 488/1999, che assoggetta all'aliquota del 10% le prestazioni aventi ad oggetto gli interventi di recupero del patrimonio edilizio di cui all'art. 31, primo comma, lettere a), b), c) e d), della legge n. 457/78, realizzati su fabbricati a prevalente destinazione abitativa privata. In sostanza, tale disposizione riguarda gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria di cui alle lettere a) e b) dell'art. 3 del dpr 380/2001.
Come si diceva in apertura, l'art. 17 del dl n. 133/2014 (decreto «sblocca-Italia»), al fine di semplificare il procedimento edilizio, ha modificato e integrato la lett. b) dell'art. 3 del dpr 380/2001, riconducendo tra gli interventi di manutenzione anche:
- quelli comportanti modifiche alle superfici delle singole unità immobiliari, fermo il rispetto della volumetria complessiva dell'edificio
- quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari, ancorché comportanti variazioni delle superfici.
Dovrà essere inoltre valutata la portata dell'art. 23-ter del dpr 380/2001, aggiunto dal dl n. 133/2014, secondo cui è mutamento urbanisticamente rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile diversa da quella originaria, se tale da comportare l'assegnazione dell'immobile ad una diversa categoria funzionale fra le seguenti:
a) residenziale e turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale.
per cui non è invece rilevante, salvo diversa previsione delle leggi regionali, il mutamento di destinazione all'interno delle suddette categorie funzionali.
Tornando all'accorpamento e al frazionamento, a tali interventi, prima classificabili fra le ristrutturazioni ed ora tra le manutenzioni straordinarie, ai fini dell'Iva non si applica la disciplina agevolativa prevista per gli interventi di grado superiore, illustrata nell'altra pagina, ma quella prevista dall'art. 7 della legge n. 488/1999, la cui portata è più circoscritta (si veda la tabella di raffronto).
Infatti, in primo luogo l'agevolazione accordata alle manutenzioni non si applica ai lavori eseguiti su qualsiasi fabbricato, ma solo a quelli eseguiti su fabbricati «a prevalente destinazione abitativa privata»; sono pertanto escluse dall'agevolazione le manutenzioni eseguite sulle unità immobiliari non abitative (negozi, uffici ecc.), anche se situate in edifici a prevalente destinazione abitativa.
In secondo luogo, oggetto dell'agevolazione sono le «prestazioni» aventi ad oggetto interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria: deve quindi trattarsi di prestazioni di servizi, come definite dall'art. 3 del dpr 633/1972, sicché sono escluse le operazioni consistenti in cessioni di beni. Non è pertanto possibile applicare l'aliquota del 10% alle cessioni dei beni occorrenti per l'esecuzione delle manutenzioni, mentre qualche margine vi è, come si dirà oltre, quando alla cessione del bene si accompagna la posa in opera.
E ancora, nella circolare n. 71/2000 è stato precisato che l'aliquota agevolata non è applicabile nei rapporti tra imprese, in quanto ne può beneficiare solo il committente del contratto principale (il quale, beninteso, non deve essere necessariamente un consumatore finale: potrebbe anche trattarsi, infatti, della società immobiliare proprietaria del fabbricato abitativo); in deroga al principio interpretativo di carattere generale, negli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, in considerazione del particolare meccanismo previsto per i «beni significativi», descritto a parte, l'amministrazione ritiene che l'aliquota del 10% non sia estensibile alle prestazioni eseguite in dipendenza di subappalti. Restano comunque escluse dall'agevolazione le prestazioni di natura professionale.
La fornitura con posa in opera. Si è detto che la norma agevola soltanto le prestazioni di servizi, per cui l'aliquota ridotta non è applicabile alle operazioni che si qualificano come «cessioni di beni». Questo dovrebbe valere, a rigore, anche nell'ipotesi in cui alla cessione del bene si accompagni, in funzione complementare, una prestazione di servizi accessoria all'operazione principale di vendita, ad esempio la posa in opera del bene venduto. Nella citata circolare n. 71/2000, tuttavia, è stato affermato che «in considerazione della ratio dell'agevolazione deve ritenersi che l'aliquota Iva ridotta competa anche nell'ipotesi in cui l'intervento di recupero si realizzi mediante cessione con posa in opera di un bene, poiché l'apporto della manodopera assume un particolare rilievo ai fini della qualificazione dell'operazione.
L'oggetto della norma agevolativa è infatti costituito dalla realizzazione dell'intervento di recupero, a prescindere dalle modalità utilizzate per raggiungere tale risultato. L'applicazione dell'aliquota agevolata non è preclusa dalla circostanza che la fornitura del bene assuma un valore prevalente rispetto a quello della prestazione. Ciò si evince dal fatto che lo stesso legislatore, disciplinando l'applicazione dell'agevolazione in relazione ad alcuni beni cosiddetti di valore significativo, ha contemplato l'ipotesi in cui il valore dei beni forniti nell'ambito dell'intervento sia prevalente rispetto a quello della prestazione. La circostanza, inoltre, che soltanto in relazione ad alcuni di tali beni la legge ponga dei limiti per l'applicazione dell'agevolazione, comporta che l'aliquota del 10% si applica agli altri beni forniti dal prestatore (dovendosi ritenere tale, ai fini della agevolazione in esame, anche colui che effettua la semplice posa in opera), a prescindere dal loro valore. Ad esempio, la sostituzione degli infissi interni ed esterni consiste in un lavoro edile che, a seconda che venga o meno mutato il materiale rispetto a quello degli infissi preesistenti, configura una prestazione di manutenzione straordinaria o ordinaria e quindi un intervento di recupero agevolato.
Conseguentemente, gli infissi che vengano forniti dal soggetto che esegue la relativa prestazione di sostituzione rientrano nell'ambito della previsione agevolativa entro i limiti previsti per i beni di valore cosiddetto significativo. L'aliquota del 10%, invece, non si rende applicabile se i beni, anche se finalizzati ad essere impiegati in un intervento di manutenzione ordinaria o straordinaria, vengono forniti da un soggetto diverso da quello che esegue la prestazione, o vengano acquistati direttamente dal committente dei lavori».
Questa posizione sembrava essere stata ridimensionata dalla circolare n. 36 del 31.05.2007, nella quale viene ricordato che l'aliquota agevolata della legge 488/1999 si applica soltanto alle prestazioni di servizi, mentre le cessioni di beni sono sottoposte all'aliquota ridotta «solo se la relativa fornitura è posta in essere nell'ambito del contratto d'appalto». La recente nota del 22.05.2014, n. 954-31/2014, ha riaperto la porta, chiarendo che alle «cessioni con posa in opera» di stufe a pellet, effettuate nell'ambito di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria su immobili abitativi, si applica l'aliquota del 10% (con le limitazioni per i beni significativi, se la stufa non si limita a riscaldare l'ambiente, ma è qualificabile come caldaia in quanto genera calore da utilizzare per riscaldare l'acqua che alimenta il sistema di riscaldamento, oltre che per produrre acqua sanitaria) (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATATerre da scavo, riutilizzo facile. Nel decreto 133 norme più tolleranti sulle sostanze inquinanti in aree da bonificare.
Terre e rocce da scavo riutilizzabili nel sito oggetto di bonifica anche se caratterizzate da alta presenza di sostanze inquinanti, purché reimmesse nella stessa area di provenienza e con specifico placet dell'Autorità competente.

Ad alzare il livello di contaminazione tollerata nel reimpiego dei materiali prodotti da lavori di escavazione è il decreto legge c.d. «Sblocca Italia» (dl 12.09.2014, n. 133, pubblicato sulla G.U. del 12.09.2014 n. 212).
I nuovi limiti. Il decreto legge consente dal 13 settembre scorso (data della sua entrata in vigore) il reimpiego «in situ» dei materiali prodotti dagli scavi durante interventi di bonifica o messa in sicurezza anche qualora superino le «concentrazioni soglia di contaminazione» (c.d. «Csc») fino ad oggi poste dal dlgs 152/2006 come generale limite al loro riutilizzo diretto, portando il livello di accettabilità fino al più elevato grado di potenziale inquinante individuato dalle «concentrazioni soglia di rischio» (cd. Csr»).
E dunque, secondo la definizione delle due soglie recate dal «Codice ambientale», da livelli di inquinamento (quelli delle «Csc») ritenuti (in base a parametri oggettivi di misurazione) al di sotto dei rischi sanitari e ambientali a valori (i «Csr») da individuare caso per caso in base allo stato dei luoghi e che, se oltrepassati, impongono (ex articolo 240, dlgs 152/2006, cd. «Codice ambientale») la classificazione del sito interessato come «contaminato» (facendo scattare obblighi di bonifica o messa in sicurezza).
Le nuove regole operative. In base alle nuove disposizioni dello «Sblocca Italia», destinate ad incidere sull'intera disciplina relativa alle terre e rocce da scavo dettata dal «Codice ambientale», potranno essere riutilizzati nello stesso sito i terreni escavati nel corso degli interventi di bonifica con valori superiori alle «concentrazioni soglia di contaminazione» a condizione che: presentino livelli di inquinanti comunque inferiori alle citate (e più elevate) «concentrazioni soglie di rischio»; dette «concentrazioni di rischio» siano state preventivamente approvate dall'Autorità pubblica competente mediante convocazione di apposita Conferenza di Servizi; i terreni inquinati siano reimpiegati nella medesima area assoggettata all'analisi di rischio; siano altresì presenti nella stessa area, qualora l'analisi non abbia avuto ad oggetto il «percorso di lisciviazione» (ossia di migrazione) in falda degli inquinanti, sistemi di barrieramento fisico o idraulico di comprovata efficienza ed efficacia.
Le ricadute sul sistema. Le nuove norme rimodulano, come accennato, l'intero equilibrio della disciplina prevista da «Codice ambientale» e provvedimenti satellite sui materiali da scavo. Sia in base all'articolo 184-bis (sui «sottoprodotti», ossia sui residui fin dalla loro produzione esclusi dal regime dei rifiuti) che all'articolo 184-ter (sulla «cessazione della qualifica di rifiuto», ossia sui residui riabilitati a beni dopo operazioni di recupero) del Dlgs 152/2006 il riutilizzo dei residui (terre da scavo comprese) è a monte ritenuto lecito solo ove non comporti impatti negativi sull'ambiente e sulla salute umana. A declinare i valori massimi di inquinanti tollerabili nei materiali da riutilizzare sono poi specifiche norme dettate, per i sottoprodotti, dal dm Ambiente 161/2012 e dall'articolo 41-bis del dl 69/2013 e, per le «materie prime secondarie» (nelle more dei nuovi regolamenti sull'«end of waste»), dal dm 05.02.1998.
In relazione, in particolare, al riutilizzo dei residui come «sottoprodotti» (fattispecie nella quale ordinariamente viene inquadrato il reimpiego in situ delle terre e rocce escavate durante lavori di cantiere) sia il dm Ambiente 161/2012 (relativo alle terre provenienti da impianti sottoposti a disciplina di «valutazione di impatto ambientale o «autorizzazione integrata ambientale» ex dlgs 152/2006) che l'articolo 41-bis del dl 69/2013 (relativo alle terre provenienti da altri impianti) stabiliscono che i requisiti di qualità ambientale previsti dal citato articolo 184-bis del «Codice ambientale» risultano soddisfatti quando il contenuto di sostanze inquinanti dei materiali da scavo sia inferiore alle «concentrazioni soglia di contaminazione (Csc)», previste dalle colonne A e B tabella 1 allegato 5, al Titolo V Parte IV del dlgs 152/2006 (con riferimento alla specifica destinazione d'uso urbanistica o ai valori di fondo naturali).
Ma con lo «Sblocca Italia» i binari normativi sul riutilizzo delle terre e rocce da scavo inquinate si arricchiscono di scambi: se prodotte nel corso di attività di bonifica o messa in sicurezza, il loro reimpiego diretto potrà essere condotto secondo le nuove e descritte regole dettate dal Dl 133/2014; in tutti gli altri casi (ossia, terre escavate durante bonifica ma destinate ad essere portate fuori sito, oppure prodotte nell'ambito di attività diverse dalla bonifica e destinate indifferentemente da restare in sito o ad essere spostate in altro luogo geografico) si dovrà continuare ad osservare l'originaria (e più restrittiva) disciplina del dlgs 152/2006 e provvedimenti connessi.
E il «drafting normativo». Lungi dall'esser inserite direttamente nei citati e preesistenti atti normativi a tutela dell'eco-sistema, le nuove disposizioni in materia sono dallo «Sblocca Italia» introdotte nell'Ordinamento giuridico tramite una novella al dlgs 163/2006 (il noto «Codice appalti»).
Se tale scelta può apparire giustificata dalle finalità del nuovo dl (recante «Misure urgenti», tra le altre, «per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche», tanto che proprio in relazione alle opere di bonifica prevede delle deroghe alle ordinarie regole di affidamento ex «Codice appalti») la stessa scelta sembra meno opportuna dal più generale punto di vista sistematico, portando ad una ulteriore atomizzazione del già complesso quadro normativo sulla gestione ambientalmente sostenibile dei materiali da scavo: oltre alle citate disposizioni del «Codice ambientale», del dm 05.02.1998, del dm 161/2012, del dl 69/2013, occorrerà ora far riferimento anche a quelle ora presenti nel dlgs 163/2006, senza dimenticare le norme recate dal dl 2/2012 (a mente del quale le regole relative al suolo, dunque anche a quello escavato, si applicano altresì ai «materiali di riporto», ossia quelli caratterizzati da presenza di elementi antropici, ivi contenuti) e le disposizioni di altri due atti essenziali per la corretta lettura delle stesse norme di settore: la Nota Minambiente 14.05.2014 n. 1338 (sulle metodiche di analisi da utilizzare per sondare il potere inquinante dei materiali da scavo) e la sentenza Tar Lazio 10.06.2014 n. 6187 (sulla non più applicabilità del limite del 20% massimo di componente antropica imposto dal dm 161/2012 per il legittimo riutilizzo delle terre escavate che la contengono) (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

APPALTIP.a.-imprese, l'Anac mette pace. Priorità alle istanze congiunte o di importi rilevanti. Gli effetti del regolamento sul precontenzioso dell'Autorità nazionale anticorruzione.
L'Anac in pista per la risoluzione dei precontenziosi tra imprese e pubbliche amministrazioni. Priorità alle istanze congiunte e a quelle innovative che presentano questioni di particolare impatto per il settore degli appalti pubblici. Legittimati a presentare l'istanza sono i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti sotto forma di associazioni o di comitati. La stazione appaltante o una parte interessata ovvero più parti interessate possono, singolarmente o congiuntamente, rivolgere all'autorità un'istanza di parere per la formulazione di una ipotesi di soluzione della questione insorta durante lo svolgimento delle procedure di gara degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture. La priorità è data alle richieste congiunte o di importo rilevante o di particolare impatto per il settore. L'Anac rilascia il parere entro 90 giorni.
È con il nuovo regolamento approvato lo scorso 2 settembre dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) che è stato istituito un ufficio ad hoc dedicato al precontenzioso. Il regolamento è operativo dal 13 settembre e cioè dal giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (provvedimento 02.09.2014, pubblicato sulla G.U. ufficiale del 12.09.2014 n. 212).
Le istanze devono essere redatte utilizzando la modulistica allegata al regolamento, che va trasmessa preferibilmente tramite posta elettronica certificata. Nella predisposizione dell'istanza, le parti possono chiedere che, in sede di pubblicazione del parere, vengano esclusi eventuali dati sensibili espressamente segnalati. Le richieste dichiarate inammissibili, se riguardano, comunque, questioni giuridiche ritenute rilevanti, sono trattate ai fini dell'adozione di una pronuncia dell'Autorità anche a carattere generale. Le istanze diventano improcedibili in caso di sopravvenienza di una pronuncia giurisdizionale di primo grado sulla medesima questione oggetto del parere, di sopravvenuta carenza di interesse delle parti, di rinuncia al parere.
Sono trattate in via prioritaria le istanze di parere presentate congiuntamente dalla stazione appaltante e da almeno un partecipante alla procedura di gara. In caso di istanze presentate singolarmente, si dà la precedenza alle istanze presentate dalla stazione appaltante e alle istanze concernenti appalti di rilevante importo economico (lavori: importo superiore a 1.000.000 di euro, servizi e forniture: importo superiore alla soglia comunitaria) e infine alle istanze che sottopongono questioni originali di particolare impatto per il settore dei contratti pubblici.
Le archiviazioni delle istanze per inammissibilità e/o improcedibilità sono approvate dal consiglio dell'autorità e comunicate alle parti interessate.
Istruttoria dell'istanza. L'ufficio comunica alle parti l'avvio dell'istruttoria concedendo il termine di dieci giorni per la presentazione di memorie e ulteriori documenti. Valuta, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite, la necessità di procedere all'audizione delle parti interessate.
Il parere, redatto dall'ufficio con la collaborazione del consigliere relatore e che contiene anche l'indicazione dei principi di diritto ivi espressi, viene sottoposto all'approvazione del consiglio. L'attività di massimazione dei pareri è di competenza dell'ufficio.
Il parere può essere reso in forma semplificata nei casi in cui la questione oggetto dell'istanza risulti di pacifica risoluzione, tenuto conto del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Inammissibilità. Non sono ammissibili le istanze: in assenza di una controversia insorta tra le parti interessate; incomplete delle informazioni indicate come obbligatorie e della documentazione di cui al modulo allegato; non sottoscritte dalla persona fisica legittimata a esprimere all'esterno la volontà del soggetto richiedente.
Le richieste dichiarate inammissibili, se riguardano, comunque, questioni giuridiche ritenute rilevanti, sono trattate ai fini dell'adozione di una pronuncia dell'Autorità anche a carattere generale. Le istanze divengono improcedibili in caso di sopravvenienza di una pronuncia giurisdizionale di primo grado sulla medesima questione oggetto del parere, di sopravvenuta carenza di interesse delle parti, di rinuncia al parere. Sono trattate in via prioritaria le istanze di parere presentate congiuntamente dalla stazione appaltante e da almeno un partecipante alla procedura di gara. Non è ammissibile l'istanza avente a oggetto il riesame di una questione controversa già definita con parere di precontenzioso o per la quale sia stata disposta l'archiviazione, fatta salva l'ipotesi in cui vengano dedotte e documentate sopravvenute ragioni di fatto e/o di diritto.
Contenuto dell'istanza. L'istanza presentata dalla stazione appaltante, congiuntamente o singolarmente, deve contenere l'impegno a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione, fino al rilascio del parere. Quando l'istanza è presentata da una parte diversa dalla stazione appaltante, con la comunicazione di avvio dell'istruttoria, l'Autorità formula alla stazione appaltante l'invito a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione, fino al rilascio del parere. Con cadenza quindicinale, le istanze di parere sono assegnate dal presidente ai singoli consiglieri relatori, previa esclusione di quelle ritenute manifestamente inammissibili o improcedibili. Individuato il consigliere relatore, l'istanza è trasmessa all'ufficio per la relativa attività istruttoria.
Cauzione definitiva e provvisoria. La cauzione definitiva ha lo scopo di garantire la corretta esecuzione dell'appalto, imponendo all'esecutore del contratto la costituzione di una garanzia fideiussoria pari al 10% dell'importo contrattuale con cui il fideiussore si impegna a risarcire la stazione appaltante del mancato o inesatto adempimento del contraente. La cauzione provvisoria, nella misura pari al 2% dell'importo indicato nel bando di gara o nella lettera d'invito, ha la finalità di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta stessa. Queste alcune delle indicazioni operative necessarie per chiarire alcune criticità riscontrate nell'applicazione dell'istituto della cauzione. È con la determinazione dell'Anac n. 1 del 29/07/2014 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 88/2014) che vengono affrontate le problematiche sull'uso della cauzione provvisoria e definitiva (artt. 75 e 113, dlgs n. 163/2006). La cauzione provvisoria può essere costituita, in contanti ovvero in titoli del debito pubblico garantiti dallo stato oppure sotto forma di fideiussione. Quest'ultima può essere bancaria o assicurativa o rilasciata da intermediari finanziari che svolgono in via esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie e che sono sottoposti a revisione contabile da parte di una società di revisione .
Svincolo cauzione. Con la determinazione n. 1 del 29/07/2014 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 88/2014) l'Anac ha precisato che la cauzione definitiva viene progressivamente svincolata in base al combinato disposto di cui agli articoli 123, comma 1 del regolamento e 113 del codice dei contratti. La cauzione garantisce l'esecuzione del contratto, e potrà essere escussa nei limiti del danno effettivo e delle ulteriori voci previste dal citato articolo 123 del regolamento, ferma restando la possibilità di agire per il maggior danno, ove la somma accantonata non sia sufficiente. Lo svincolo della cauzione è legato allo stato di avanzamento dei lavori nei limiti dell'80% dell'importo garantito e alla consegna al garante del certificato relativo allo stato di avanzamento lavori. È rimessa, invece, alla stazione appaltante la decisione circa l'importo da svincolare, nonché con riguardo alla fase temporale in cui svincolare (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze variabili. Antincendio con doppio criterio. Concentrazione di persone e numero degli edifici.
La distanza minima di 100 metri dalle condotte di trasporto dei gas infiammabili deve intendersi in riferimento ai luoghi di concentrazione di almeno 100 persone. Ma in caso di più edifici il dato numerico non è determinato dalla somma degli affollamenti.

Lo ha chiarito il Dipartimento dei vigili del fuoco con la nota 05.09.2014 n. 10694.
Le disposizioni in materia di prevenzione incendi sono molto dettagliate e per questo una società specializzata nel trasporto in rete del gas naturale ha richiesto chiarimenti in merito alla sua rete di trasporto e agli impianti di compressione.
Con particolare riferimento al dm 17.04.2008 recante la regola tecnica per gli impianti di trasporto del pregiato combustibile con densità non superiore a 0,8 mpa, specifica la nota centrale, si chiarisce che per luoghi di concentrazione delle persone per i quali è prescritta una distanza minima di 100 metri dalle condotte di 1ª specie occorre fare riferimento a quei luoghi in cui sia prevista «la presenza di pubblico con un affollamento presumibile superiore a 100 persone, con esclusione, pertanto, delle attività produttive che non presentino tale condizione». Nel caso di più edifici, fisicamente separati, la distanza dovrà calcolarsi rispetto al singolo edificio più vicino senza sommare le persone degli altri stabili.
Si ritiene poi di escludere dalle distanze di sicurezza i manufatti monopiano privi di serramenti destinati a un impiego occasionale (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - VARI: Pubblici o privati Sempre ascensori. Un decreto elimina le distinzioni.
Eliminazione della distinzione tra gli ascensori in relazione al servizio (privato o pubblico) svolto. Competenza della direzione generale del trasporto pubblico locale a svolgere le verifiche periodiche prescritte al fine del mantenimento in esercizio degli ascensori di pubblico trasporto.

Lo prevede lo schema di schema di dpr (regolamento del ministero delle infrastrutture e dei trasporti) recante modifiche al dpr n. 162 del 30.04.1999 (Norme di attuazione della direttiva 95/16/Ce sugli ascensori) su cui il Consiglio di stato ha dato il proprio responso positivo (parere 01.09.2014 n. 2821).
Le modifiche proposte con il provvedimento in esame -rese necessarie dall'esigenza di superare una procedura di infrazione nei confronti dell' Italia per la distinzione che viene fatta nei regolamenti interni tra ascensori -in servizio privato e in servizio pubblico-, perseguono la finalità di adeguare il più possibile correttamente ed integralmente il contenuto del testo che si va a modificare, con riferimento agli artt. 11, 12 e 13, alle disposizioni della direttiva 95/16, in via preliminare eliminando ogni distinzione tra ascensori privati e ascensori in servizio pubblico, non prevista nella direttiva in questione.
Il provvedimento fa rinvio ad un decreto del ministero per l'individuazione delle procedure inerenti alle verifiche e prove periodiche per il funzionamento in sicurezza degli ascensori adibiti al servizio pubblico (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori in casa a corto di semplificazioni. I moduli unici per Scia e permesso di costruire operativi solo in quattro Regioni.
In teoria i modelli unici per i lavori in casa sono pronti da giugno in due versioni: la segnalazione certificata di inizio attività (per gli interventi minori) e il permesso di costruire per le nuove costruzioni e gli ampliamenti. Adottati prima con l'intesa Stato–Città-Regioni e poi «rafforzati» e resi obbligatori per legge (Dl 90/2014).
Lo scopo è chiaro: abolire gli 8mila formulari, variegati e personalizzati, per far sì che moduli, documenti e carte da allegare per spostare un tramezzo o per costruire una villetta siano uguali da Torino a Palermo.
Peccato che oggi, a più di tre mesi dall'annuncio, l'unificazione non sia neanche a metà strada: solo quattro Regioni (Piemonte, Emilia Romagna, Lazio e Marche) hanno iniziato il percorso per recepire i modelli. Nel resto d'Italia i tecnici sono più o meno tutti all'opera, ma tra tavoli di coordinamento, passaggi burocratici e svariati atti regionali e comunali nessuno può dire con certezza quando il lavoro sarà completato.
Infatti, anche una volta raggiunto l'accordo con gli enti locali, difficilmente la Regione se la sente di imporre scadenze e lascia alla buona volontà comunale i tempi dell'adeguamento. Complice anche la scarsa chiarezza della legge. In teoria il Dl 90 prevede una scadenza unica per l'entrata in vigore dei modelli unici in tutti i Comuni: «30 giorni» dal termine indicato nell'intesa Stato–Regioni. Peccato però che lì di termini non c'è traccia.
«Il processo di adeguamento sul territorio va accelerato -riconosce Silvia Paparo, a capo dell'unità di semplificazione della Funzione pubblica-, ma la normativa cambia da Regione a Regione e quello che si può fare da una parte con un titolo abilitativo non si può fare da un'altra». E promette: «Noi non molleremo: il nostro obiettivo è arrivare a un'adozione al 100% e lo verificheremo con un monitoraggio costante».
Le prime
A far da apripista per il modello unico per i lavori edili è stato il Piemonte. La prima Scia inviata online risale al 2013 e da allora sono ormai 72.559 le istanze presentate con i modelli unici e in via telematica. Di queste, quasi la metà sono quelle legate alla ricostruzione post terremoto in Emilia Romagna, regione alla quale il Piemonte ha "offerto" il servizio dopo il sisma. Un'esperienza pilota (114 su 1.206 i Comuni aderenti) che è servita anche al tavolo tecnico nazionale. Ora la Regione è di fatto allineata in modo automatico. «Completeremo il lavoro a ottobre con il nuovo modello di permesso di costruire», spiega Livio Dezzani, a capo della Direzione edilizia regionale.
In Emilia Romagna c'è anche una data certa (il 5 gennaio 2015) in cui, volenti o nolenti, tutti i Comuni dovranno accettare i nuovi standard, perché, per legge, i vecchi decadranno. Qui l'allineamento del Comune è addirittura premiato con priorità sui finanziamenti regionali. Il Lazio ha recepito con delibera i modelli ed entro ottobre offrirà ai Comuni una versione adattata, in un portale dedicato. Proprio da oggi anche le Marche forniscono i due modelli e invitano i Comuni ad adottarli.
In arrivo
Farà presto la Puglia, che ha già unificato i modelli nel 2013 e ora deve solo adattarli. A breve potrebbero arrivare Toscana, Veneto, Liguria, Campania e Calabria. Ma anche allora sarà tutto da avviare l'adeguamento dei singoli Comuni. Un aiuto alla diffusione di questa semplificazione arriva dagli architetti. Il Consiglio nazionale ha lanciato la campagna «Adotta il modulo», chiedendo agli iscritti di diffonderne l'utilizzo.
Ma è il punto di partenza a essere diverso: oggi esistono venti leggi regionali sull'edilizia, più un regolamento edilizio per ogni Comune. E il primo tentativo di avviare la semplificazione con un regolamento tipo è fallito: la norma non c'è più nella versione definitiva dello Sblocca-Italia.
Una delusione per Ance e professionisti: «È la vera riforma -commenta il presidente degli architetti, Leopoldo Freyrie-, perché rende uguali definizioni e metodi di calcolo e speriamo si possa inserire di nuovo nel decreto». Già, ma se così fosse, anche il regolamento edilizio unico rischierebbe di restare sulla carta per anni
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIDagli acquisti ai servizi, così le aggregazioni locali. Centrali uniche, l'obbligo non è limitato alla fase di gara. Piccoli enti. Entro il 30 settembre vanno associate altre tre funzioni fondamentali.
Comincia un periodo ricchissimo di scadenze per i piccoli Comuni, per gli obblighi di gestione associata che la legge da tempo certa con difficoltà di imporre agli enti di minore dimensione. Entro il 30 settembre, secondo il calendario ufficiale, i Comuni fino a 5mila abitanti (3mila in montagna) dovrebbero far confluire nelle gestioni associate altre tre funzioni fondamentali, ma sulle prospettive concrete di questa evoluzione i dubbi sono molti. Dal 1° gennaio, poi, scatteranno in due tappe gli obblighi relativi agli acquisti per tutti i Comuni non capoluogo di Provincia.
L'Unione dei comuni rappresenta una delle opzioni a disposizione, ma quali sono esattamente le funzioni da conferire all'Unione? Quali gli obiettivi da raggiungere?
L'articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti dispone che gli enti debbano avvalersi della centrale unica di committenza (Cuc). In base al comma 3, la centrale può assumere anche le funzioni di stazione unica appaltante (Sua) e gestire le gare per conto degli enti. Pertanto, non sembra più accoglibile la tesi che delimita l'applicabilità dell'obbligo alla sola fase della gara (Corte dei conti sez. Piemonte, parere 271/2012). In realtà la nuova disciplina è orientata al tema dell'aggregazione della domanda, come può evincersi anche dall'inserimento nella nuova formulazione dell'obbligo di centralizzare le spese di limitato importo effettuate dai Comuni con popolazione fino a 10mila abitanti (per le quali non serve alcuna gara). Occorre evidenziare la duplice ratio delle prescrizioni: obbligo di aggregazione degli acquisti per contenere la spesa pubblica, e possibilità di centralizzare le gare per assicurare trasparenza ai contratti.
In questo quadro, si pone il problema delle spese di limitato importo, che un ente potrebbe acquisire rapidamente in base all'articolo 125 Codice dei contratti e che invece la norma in esame intende accentrare presso l'Unione; per questa ragione è auspicabile che il legislatore consideri nuovamente la richiesta di Anci di esentare tutti gli enti dall'obbligo di accentrare tali spese, per ragioni di snellimento amministrativo e di razionalità gestionale, e non solo i Comuni con più di 10mila abitanti.?
Ma il nodo essenziale è un altro. L'obbligo di centralizzazione è poco compatibile con alcune forniture o servizi, di competenza di quei specifici settori che non sono stati unificati e rispetto ai quali l'Unione non dispone quindi di adeguate competenze. Ad esempio, l'acquisto di libri per la biblioteca o l'affidamento in gestione della stessa, con appalto o concessione, non sono spese utilmente accentrabili se non è stata conferita la funzione «cultura».
Si potrebbe quindi sostenere che l'obbligo riguardi solo i principali acquisti di beni e servizi di natura "trasversale" e che non possa riguardare tutti gli acquisti dei singoli settori. Gli enti in particolare devono associare l'ufficio acquisti, grazie al quale è possibile ad esempio ridurre i costi di fornitura della cancelleria; un'applicazione letterale della disposizione, con riferimento a ogni possibile voce di spesa, determinerebbe una burocratizzazione eccessiva delle procedure e una fusione strisciante degli enti locali, al di là di quelle che sono le scelte di tipo associativo.
In attesa di un autorevole chiarimento in materia, occorre sottolineare come questa ricostruzione sia del tutto coerente con quelli che sono gli obblighi associativi vigenti per i piccoli Comuni, nella convinzione che in un'epoca come questa sia necessario non rimandarne ulteriormente l'avvio.
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Possibile il ricorso alle Province
Le soluzioni. Sono quattro le scelte previste dalla legge.
Si è determinato in questi ultimi mesi un intreccio assai complesso di norme e interpretazioni in materia di acquisti, che rischia di seminare il caos negli enti locali a partire dal 01.01.2015.
In base all'articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti, i Comuni non capoluogo di provincia devono procedere all'acquisizione di lavori, beni e servizi mediante una delle seguenti opzioni:
- le unioni dei Comuni (articolo 32 del Tuel);
- un apposito accordo consortile tra i comuni (tale locuzione sembra riconducibile allo schema della convenzione ex articolo 30 del Tuel);
- un soggetto aggregatore;
- le Province (articolo 1, comma 88, della legge 56/2014).
In alternativa, gli stessi Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip o da altro soggetto aggregatore (ad esempio, regionale). L'Anac non rilascerà il codice identificativo gara (Cig) ai Comuni non capoluogo di provincia che procedano all'acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione di questi adempimenti.
In base all'articolo 23-ter della legge 114/2014, la norma si applica per le gare bandite dal 01.01.2015 per i servizi e le forniture e dal 01.07.2015 per i lavori. In forza del comma 3 della stessa norma, i Comuni con popolazione superiore a 10mila abitanti possono procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a 40mila euro.
Si pone il problema di predisporre soluzioni organizzative adeguate per gestire le spese superiori a tale soglia, e, negli enti minori, tutte le spese indipendentemente dall'importo. Nella consapevolezza che si tratta di un nodo dirimente per la funzionalità degli enti locali, chiamati a contemperare esigenze di autonomia e di semplificazione amministrativa, da un lato, e di drastica riduzione della spesa, dall'altro
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOAmministratori dietro i banchi. Formazione di 75 ore per chi aspira a gestire condomini. In arrivo in Gazzetta Ufficiale il regolamento che disciplina le competenze dei professionisti.
Anche gli amministratori di condominio dovranno andare a scuola. Sia prima di iniziare l'attività che per aggiornarsi mentre la svolgono. D'ora in poi, infatti, chi vorrà iniziare la professione dovrà fare un corso specifico, a meno che già non amministri un condominio. In quel caso sarà, comunque, tenuto a seguire ogni anno un corso di aggiornamento professionale.
A stabilirlo il decreto sulla formazione degli amministratori che sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 settembre.
Il regolamento, snello e composto di soli 5 articoli, dà attuazione a una parte del decreto legge n. 145/2013, il cosiddetto Destinazione Italia, che ha previsto una specifica normativa di disciplina della formazione professionale degli amministratori di condominio. Il decreto-legge e la precedente legge 220/2012, come ha spiegato il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri, «hanno sancito la necessità di garantire che coloro che svolgono l'attività di amministratori di condominio abbiano le necessarie competenze tecniche indispensabili per assolvere a tutti i compiti che la legge impone agli amministratori di condominio».
La parola chiave quindi è competenza. Attraverso due strumenti: la selezione di responsabili scientifici e formatori e le materie che dovranno essere oggetto dei corsi, di 72 ore quelli per la formazione iniziale degli aspiranti, di cui almeno un terzo secondo moduli che prevedono esercitazioni pratiche, di 15 ore quelli di aggiornamento periodico per chi già è in attività. I corsi di formazione e di aggiornamento contengono moduli didattici attinenti le materie di interesse dell'amministratore tra cui la sicurezza degli edifici, le problematiche in tema di spazi comuni, regolamenti condominiali, i diritti reali con particolare riguardo al condominio degli edifici e alla proprietà edilizia e ancora materie inerenti la normativa urbanistica, l'utilizzo degli strumenti informatici e la contabilità. L'inizio di ciascun corso, le modalità di svolgimento, i nominativi dei formatori e dei responsabili scientifici sono comunicati al ministero di giustizia non oltre la data di inizio del corso.
Responsabili scientifici e formatori hanno requisiti analoghi. Innanzitutto quelli di onorabilità e professionalità. Passando ai requisiti culturali, invece, come si legge nel regolamento, i formatori devono aver conseguito uno di questi titoli: laurea anche triennale, abilitazione alla libera professione, oppure docenza in materie giuridiche, tecniche ed economiche nelle università. Possono svolgere l'attività di formazione i docenti che abbiano elaborato almeno due pubblicazioni in tema di diritto condominiale o di sicurezza degli edifici o chi ha già svolto attività di formazione su queste materie.
Per quanto riguarda, invece, i responsabili scientifici (che dovranno poi verificare i requisiti dei formatori e organizzare i corsi) è previsto che siano docenti universitari o di scuola superiore di materie giuridiche, economiche o economiche, ma anche avvocati, magistrati o professionisti dell'area tecnica (anche in pensione). È il responsabile scientifico che attesta il superamento, con profitto, di un esame finale sui contenuti del corso seguito dai partecipanti (articolo ItaliaOggi del 20.09.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: La marca da bollo con @bollo si acquisterà online.
Le marche da bollo diventano digitali. Nei prossimi mesi i contribuenti avranno la possibilità di acquistarle online pagando con carta di credito o bancomat e di «applicarle» alle richieste telematiche trasmesse alle p.a..

Il progetto si chiama «@e.bollo» ed è stato lanciato ieri dall'Agenzia delle entrate. Un provvedimento, emanato d'intesa con il capo dipartimento della Funzione pubblica, ha infatti stabilito le modalità per il pagamento in via telematica dell'imposta di bollo dovuta per istanze, atti e provvedimenti inviate a un ente pubblico. Possibilità, questa, che è stata prevista dall'articolo 1, comma 596 della legge n. 147/2013.
La marca da bollo digitale viene definita come il documento informatico che costituisce la ricevuta di versamento dell'imposta. L'obbligo tributario sarà assolto grazie all'abbinamento dell'identificativo unico di bollo digitale (Iubd) con l'impronta informatica del documento correlato.
All'inizio «@e.bollo» sarà disponibile esclusivamente sui siti web delle p.a. che offrono servizi interattivi di dialogo con gli utenti per la richiesta e il rilascio dei documenti elettronici. A poco a poco il progetto prevede l'estensione anche alle richieste e ai relativi atti scambiati tra cittadini ed enti via posta elettronica. L'elenco delle amministrazioni che forniscono tale servizio sarà reso noto prossimamente dalle Entrate e dall'Agenzia per l'Italia digitale. Sul sito delle Entrate a breve arriverà pure una guida operativa dedicata ai contribuenti.
Il provvedimento varato ieri definisce i requisiti e gli adempimenti a carico degli intermediari della riscossione. Potranno erogare il servizio «@e.bollo» i prestatori di servizi di pagamento previsti dall'articolo 114-sexies del testo unico bancario (banche, Poste, istituti di moneta elettronica), i quali dovranno sottoscrivere un'apposita convenzione con le Entrate. Sarà quest'ultima a fornire agli operatori finanziari i codici univoci (Iubd) per la formazione dei contrassegni digitali. Previsto l'utilizzo della firma elettronica avanzata per attestare la validità delle marche.
«La possibilità di associare il pagamento dell'imposta di bollo agli atti trasmessi in via telematica tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione rappresenta un nuovo impulso alla digitalizzazione dei procedimenti amministrativi e alla dematerializzazione dei documenti», spiegano le Entrate in una nota, «l'introduzione di @e.bollo costituisce inoltre un incentivo allo sviluppo di procedure online per la gestione delle istanze o per il rilascio di atti e documenti, in un quadro di semplificazione degli adempimenti a favore dei contribuenti» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2014).

ATTI AMMINISTRATIVIPer le istanze imposta di bollo in via digitale. «Pa» e contribuenti. Il provvedimento.
Con l'emanazione del provvedimento 19.09.2014 del direttore dell'agenzia delle Entrate sono state fissate le modalità di pagamento in via telematica dell'imposta di bollo dovuta per le istanze ed altri atti trasmessi in via telematica da cittadini ed imprese alla pubblica amministrazione e viceversa.
Il nuovo servizio, denominato "@e.bollo", sarà effettivamente operativo una volta che gli intermediari finanziari e le pubbliche amministrazioni, che offriranno servizi interattivi di dialogo con gli utenti per la richiesta e lo scambio di documenti elettronici, avranno implementato le proprie procedure informatiche. Nel caso in cui una Pubblica amministrazione che intenda offrire servizi interattivi per lo scambio di documenti non renda disponibile tale nuova modalità di pagamento attraverso il proprio sito istituzionale, il cittadino o l'impresa potranno effettuare il pagamento dell'imposta di bollo in via telematica attraverso gli intermediari finanziari che saranno abilitati alla prestazione di tale servizio.
In ogni caso, le amministrazioni saranno responsabili della verifica del corretto assolvimento dell'imposta di bollo. Il controllo dovrà avvenire attraverso un software che sarà reso disponibile sul sito dell'agenzia delle Entrate e su quello dell'Agenzia per l'Italia Digitale. Qualora tale verifica abbia esito negativo, l'amministrazione pubblica sarà tenuta ad inviare un'immediata comunicazione telematica al contribuente per permettere a quest'ultimo di regolarizzare la propria posizione entro dieci giorni.
In caso contrario, l'amministrazione dovrà inviare il documento all'agenzia delle Entrate per la sua regolarizzazione fiscale e per l'applicazione delle sanzioni amministrative in materia di imposta bollo. Il punto 2.4 del Provvedimento direttoriale prevede che in nessun caso è ammesso il rimborso della Marca da bollo digitale.
Il provvedimento fissa anche i requisiti della Convenzione che gli intermediari finanziari che intenderanno prestare tale servizio dovranno stipulare con l'agenzia delle Entrate. A tal proposito viene previsto, tra le altre cose, che il compenso spettante agli intermediari a fronte della prestazione del servizio "@e.bollo" dovrà essere comunque inferiore a quello previsto per i contrassegni sostitutivi delle marche da bollo utilizzati sui documenti cartacei.
Infine, il provvedimento diffuso ieri dalle Entrate prevede che sono fatte salve le specifiche previsioni del Dpr n. 642/1972 che stabiliscono modalità di pagamento particolari, come ad esempio il cosiddetto "bollo virtuale" previsto dall'articolo 15 dello stesso Dpr n. 642/1972
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.09.2014).

CONDOMINIOCondomìni amministrati da professionisti «titolati». Immobili. Pronto il Dm sui corsi di formazione.
Amministratori condominiali doc: la formazione diventa obbligatoria con i criteri del decreto ministeriale che verrà pubblicato la prossima settimana sulla Gazzetta Ufficiale. L'ultimo step, l'esame della Corte dei conti, è stato superato senza intoppi (del resto la norma non ha alcun effetto sulle casse pubbliche).
Il regolamento è previsto dalla legge 220/2012, in vigore dal 18.06.2013: il ministero della Giustizia doveva dettare le regole su criteri e modalità di svolgimento dei corsi. Un passaggio importante perché, tra i requisiti indispensabili per poter esercitare la professione, c'è proprio quello di aver frequentato un corso di formazione iniziale e di frequentare regolarmente quelli di formazione periodica.
Sono esentati solo coloro che amministrano il condomino in cui possiedono un'unità immobiliare e (ma solo per la formazione iniziale) chi ha svolto la professione per almeno un anno nell'ultimo triennio precedente all'entrata in vigore della legge 220/2012 (cioè tra il 18.06.2010 e il 18.06.2013).
I corsi dovranno avere, i sintesi, questi requisiti:
- 72 ore di lezione per la formazione iniziale (di cui 48 di teoria e 24 di pratica) e 15 per la periodica;
- i responsabili scientifici e formatori devono avere anzitutto i requisiti di "onorabilità": godimento dei diritti civili; non essere stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni, e, nel massimo, a cinque anni; non essere stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione; non essere interdetti o inabilitati.
Poi, per quanto riguarda i responsabili scientifici (che dovranno poi verificare i requisiti dei formatori e organizzare i corsi) è previsto che siano docenti universitari o di scuola superiore di materie giuridiche, o economiche, avvocati, magistrati o professionisti dell'area tecnica (anche in pensione). Devono poi avere una «competenza specifica» in materia condominiale, che va dimostrata. Per i formatori sono richieste le stesse qualità ma possono svolgere la funzione anche solo dimostrando di possedere una laurea (anche triennale) o di essere iscritti a un albo professionale, sempre fatta salva la «competenza specifica». I formatori che, prima dell'entrata in vigore del decreto, abbiano svolto l'attività di formatori per almeno sei anni in corsi della durata di almeno 40 ore sono esentati dal possesso dei titoli di studio o professionali.
I contenuti indicati nel Dm della Giustizia non sono esaustivi, nel senso che ciascun corso potrà svolgersi con durata anche superiore. Ma i temi prescritti andranno comunque rispettati come contenuti minimi
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.09.2014).

APPALTIGare, meno limiti alle varianti. Semplificati anche i progetti per le opere di bonifica. DECRETO SBLOCCA ITALIA/Prevista un'accelerazione per i termini degli appalti.
Meno limiti alle varianti, accelerazione sui termini di gara e semplificazione sui progetti per le opere di bonifica e di messa in sicurezza dei siti inquinati. Sono queste le linee seguite con le diverse modifiche al codice dei contratti pubblici inserite nel decreto legge 133/2014 (Sblocca Italia).

Accanto alle modifiche si collocano, però anche diverse norme derogatorie tese ad accelerare i lavori per gli interventi per scuole, per la mitigazione del rischio idrogeologico e per la prevenzione antisismica. In questi ultimi settori si prevedono infatti meccanismi di affidamento diretto alle imprese di costruzioni fino a 200.000 euro di lavori e trattative private fino a 1 milione di euro, senza pubblicità.
Altra deroga, in tema di avvalimento (il «prestito» -da una impresa ad un'altra- dei requisiti necessari per accedere alle gare), riguarda l'iscrizione all'albo dei gestori ambientali, che il decreto 133 non prevede possa essere oggetto di avvalimento.
Per quel che invece concerne le modifiche vere e proprie del decreto 163/2006, il decreto legge interviene in primo luogo a favore degli interventi di bonifica e/o messa in sicurezza di siti inquinati. Balza agli occhi la modifica sulla disciplina delle varianti, che potranno essere sempre ammesse dal direttore dei lavori (sentito il progettista) nei casi di bonifica e/o messa in sicurezza di siti contaminati se superano il valore del 20% (limite più elevato rispetto agli ordinari interventi, per i quali vige la soglia del 10%).
Ciò significa che viene raddoppiato il limite entro il quale eventuali lavori resi necessari in corso d'opera possono essere direttamente disposti dal direttore dei lavori, senza la necessità di attivare la procedura di approvazione della variante. Il decreto prevede inoltre -sempre per le bonifiche- la possibilità di richiedere di comprovare il possesso dei requisiti di partecipazione richiesti nel bando di gara, presentando direttamente in sede di offerta, la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito in originale o copia conforme.
Altra modifica concerne la disciplina della trattativa privata senza previa pubblicazione del bando di gara: si ammette che per gli interventi di bonifica, in presenza di condizioni di urgenza si possa sempre (e non soltanto «nella misura strettamente necessaria») utilizzare l'affidamento a trattativa privata senza pubblicità preventiva. Corsia preferenziale, sempre per gli interventi di bonifica, si prevede per i termini di ricezione delle domande e delle offerte: si potranno sempre applicare i termini di 15 giorni per le domande e di 10 (in caso di procedura ristretta) per le offerte (che diventano 30 se si affida anche la progettazione esecutiva).
Si interviene, sempre per le bonifiche, sui livelli progettuali stabilendo l'applicazione delle stesse regole che disciplinano i progetti per il settore dei beni culturali e cioè consentendo al responsabile del procedimento di graduare -in relazione alla complessità dell'intervento- i livelli progettuali quando si procede all'affidamento dell'appalto di lavori e di progettazione (il cosiddetto appalto integrato). Non necessariamente sarà quindi sempre effettuata la progettazione su tre livelli (preliminare, definitivo ed esecutivo).
Infine diverse norme integrano la disciplina del Codice per la finanza di progetto e le concessioni con la finalità di rendere maggiormente utilizzabili i project bond e il credito di imposta per riequilibrare i piani economico-finanziari e di promuovere investimenti da parte dei concessionari autostradali (articolo ItaliaOggi del 19.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOPaga per l'incidente l'inquilino che crea un passaggio abusivo. Lastrico solare. Esclusa la responsabilità del proprietario.
L'inquilino che crea un accesso abusivo sul lastrico solare, non compreso nel contratto d'affitto benché di proprietà del locatore, risponde in prima persona dei danni derivanti dall'uso improprio.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 19657/2014, esclude la corresponsabilità del proprietario dell'appartamento per un incidente capitato alla figlia della domestica dell'affittuaria, precipitata nel locale sottostante perché una parte del lucernario, che si trovava sulla terrazza, dove era andata per annaffiare i fiori, aveva ceduto.
Il Tribunale di primo grado, aveva escluso la responsabilità del proprietario, affermata invece dalla Corte d'appello in solido con l'affittuario. La Cassazione è d'accordo con il giudice di primo grado. In linea generale, chiarisce la Suprema corte, il proprietario dell'appartamento non si spoglia dei suoi poteri-doveri di custodia sul lastrico con il contratto di locazione. A lui incombe, infatti, l'onere di un generico dovere di conservazione, di controllo e di intervento sulla manutenzione del terrazzo. Allo stesso modo conserva il potere di interdire l'accesso al lastrico solare alle persone non autorizzate per impedire il transito nelle parti pericolose o non transitabili.
Nel caso esaminato, però, esistevano circostanze particolari che hanno portato i giudici a escludere la corresponsabilità del padrone di casa. La collocazione del lastrico era tale da renderlo accessibile solo attraverso l'appartamento affittato e questo aveva fatto sì che l'inquilina avesse conseguito –anche se attraverso la creazione di una porta finestra realizzata abusivamente– non la custodia di fatto del lastrico in tutte le sue parti, ma certamente il controllo sulla possibilità di entrare nel terrazzo, sottraendo di fatto la possibilità di impedire l'ingresso al proprietario.
Al locatario era dunque impossibile, dal punto di vista materiale e giuridico, prevenire ed evitare il conseguente rischio di danni. La perdita del potere di controllo rende illegittimo e immotivato il giudizio di responsabilità formulato dalla Corte d'appello a carico del proprietario per l'evento che si era verificato e che quest'ultimo non poteva prevenire.
Il proprietario dal canto suo aveva messo nero su bianco nel contratto che il lastrico non era compreso nell'affitto e che ne era precluso l'accesso, disponendo l'appartamento di una sola veduta sul lastrico. L'affittuaria aveva senza alcun permesso aperto una porta finestra trasformando il lastrico in un terrazzo "privato". E non c'era prova che il proprietario fosse a conoscenza della sua iniziativa
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2014).

APPALTIElenco Anac delle centrali di committenza aperto a città metropolitane e unioni.
Elenco Anac delle centrali di committenza aperto a città metropolitane e unioni o consorzi di comuni che, negli ultimi tre anni hanno avviato appalti per almeno 260 milioni di euro, con un minimo di 50.000 euro l'anno.

È questo il requisito previsto nella bozza di dpcm che detta le regole per l'iscrizione all'elenco dei «soggetti aggregatori», istituito dalla legge 89/2014 presso l'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti, gestita dall'Anac (l'Autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone).
Il provvedimento, sul quale sarà necessario acquisire la delibera preliminare da parte del consiglio dei ministri e poi l'intesa con la Conferenza unificata, non riguarda la Consip e le centrali costituite da ogni regione, bensì le città metropolitane (che dal 01.01.2015 subentreranno alle province, ai sensi della legge 56/2014) e i soggetti aggregatori costituiti dagli enti locali. Lo schema di decreto, datato 15.09.2014, stabilisce che potranno richiedere l'iscrizione all'elenco le città metropolitane, le province, le associazioni, le unioni e i consorzi di enti locali comunque denominati ai sensi del Tuel, oltre ai soggetti da loro costituiti o designati.
Questi soggetti dovranno svolgere attività di centrale di committenza ai sensi dell'articolo 33 del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006), con carattere di stabilità, mediante un'organizzazione dedicata allo svolgimento di tali prestazioni. La norma specifica che si deve trattare di attività di committenza finalizzata al soddisfacimento di tutti i fabbisogni di beni e servizi dei relativi enti locali.
Lo schema di decreto precisa inoltre i requisiti che devono possedere tali soggetti in relazione a quanto già svolto in passato; in particolare dovranno potere dimostrare di avere avviato, nei tre anni precedenti la richiesta, procedure per l'acquisizione di beni e servizi di importo a base di gara pari o superiore alla soglia comunitaria (200.000 per servizi e forniture, 5 milioni per lavori), il cui valore complessivo sia superiore a 260.000.000 euro nel triennio, con un valore minimo di 50.000.000 euro per ciascun anno. Per le procedure avviate dalle città metropolitane, verranno prese in considerazione anche quelle avviate dalla provincia.
Il provvedimento prevede che l'Anac, entro 30 giorni dall'entrata in vigore del presente decreto, con propria determinazione stabilisca le modalità di presentazione Per quel che attiene alla selezione delle richieste l'Anac procederà alla verifica del possesso dei requisiti, attraverso la consultazione della Banca dati nazionale dei contratti pubblici, e all'iscrizione all'elenco seguendo un ordine decrescente basato sul più alto valore complessivo delle procedure avviate dai soggetti richiedenti.
L'elenco sarà aggiornato entro il 30/09/2017 e successivamente ogni tre anni (articolo ItaliaOggi del 18.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALa cessione di cubatura o asservimento è un istituto utilizzabile in sede di rilascio di concessioni edilizie (oggi: permesso di costruire) e la giurisprudenza amministrativa, nonché quella penale, è concorde nel ritenere che essa sia utilizzabile, in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può avvenire solo tra fondi:
- compresi nella medesima zona urbanistica ed aventi la stessa destinazione urbanistica, in quanto, se così non fosse, nella zona in cui viene aggiunta cubatura potrebbe determinarsi un superamento della densità edilizia massima consentita dallo strumento urbanistico;
- contigui, nel senso che, anche qualora non si riscontri la continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, sussista pur sempre, comunque, una "effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti".
La pratica contrattuale conosce da tempo accordi fra privati proprietari (cd. "trasferimenti di cubatura") mediante i quali uno di essi "cede" ad un altro la facoltà di edificare, esistente sul suo terreno secondo le norme urbanistiche, affinché il cessionario possa avvalersi di tale facoltà per ottenere dal Comune, in sede di rilascio del permesso di costruire, l'autorizzazione a realizzare un volume edilizio maggiore di quello che gli spetterebbe, sul terreno di sua proprietà, secondo le previsioni della pianificazione vigente.
Tale pratica -considerata legittima dalla giurisprudenza amministrativa- è stata talora recepita e disciplinata in Leggi Regionali o in strumenti urbanistici, ma è opinione corrente che ad essa possa farsi ricorso anche a prescindere da un riconoscimento da parte di norme urbanistiche regionali e/o comunali.
Il fenomeno in esame invero non lede, di regola, alcun interesse pubblico in quanto generalmente non si riconnettono conseguenze negative al solo fatto che la densità edilizia massima fissata dallo strumento urbanistico venga sfruttata dal proprietario di un'ampia estensione di terreno, o da più proprietari associati o da uno dei proprietari che abbia ottenuto la cessione di facoltà edificatorie dei suoi vicini, purché comunque sia impedito il superamento, nella zona complessivamente considerata, degli standards consentiti dai piano.
Diverso è, però, il caso in cui lo strumento urbanistico contenga specifiche limitazioni in ordine a tipologie edilizie o alla densità abitativa, perché in presenza di limitazioni siffatte il trasferimento di cubatura deve ritenersi non consentito. Ciò significa che deve ritenersi inammissibile il trasferimento di cubatura a fronte di una norma di piano che per le zone agricole, non ammette costruzioni in lotti di dimensioni inferiori ad un limite minimo fissato dal piano medesimo, in quanto la ratio di una disposizione siffatta si connette al prefigurato regime di edificazione nelle zone agricole ed al nesso di funzionalità delle costruzioni ammissibili rispetto alla gestione di aziende agricole.

E’ pacifico in giurisprudenza che la cessione di cubatura o asservimento è un istituto utilizzabile in sede di rilascio di concessioni edilizie (oggi: permesso di costruire) e la giurisprudenza amministrativa, nonché quella penale, è concorde nel ritenere che essa sia utilizzabile, in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può avvenire solo tra fondi:
- compresi nella medesima zona urbanistica ed aventi la stessa destinazione urbanistica, in quanto, se così non fosse, nella zona in cui viene aggiunta cubatura potrebbe determinarsi un superamento della densità edilizia massima consentita dallo strumento urbanistico (vedi C. Stato, sez. 5^: 03.03.2003, n. 1172);
- contigui, nel senso che, anche qualora non si riscontri la continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, sussista pur sempre, comunque, una "effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti" (vedi C. Stato, sez. 5^: 30.10.2003, n. 6734; 01.04.1998, n. 400).
La pratica contrattuale conosce da tempo accordi fra privati proprietari (cd. "trasferimenti di cubatura") mediante i quali uno di essi "cede" ad un altro la facoltà di edificare, esistente sul suo terreno secondo le norme urbanistiche, affinché il cessionario possa avvalersi di tale facoltà per ottenere dal Comune, in sede di rilascio del permesso di costruire, l'autorizzazione a realizzare un volume edilizio maggiore di quello che gli spetterebbe, sul terreno di sua proprietà, secondo le previsioni della pianificazione vigente.
Tale pratica -considerata legittima dalla giurisprudenza amministrativa- è stata talora recepita e disciplinata in Leggi Regionali o in strumenti urbanistici, ma è opinione corrente che ad essa possa farsi ricorso anche a prescindere da un riconoscimento da parte di norme urbanistiche regionali e/o comunali. Il fenomeno in esame invero non lede, di regola, alcun interesse pubblico in quanto generalmente non si riconnettono conseguenze negative al solo fatto che la densità edilizia massima fissata dallo strumento urbanistico venga sfruttata dal proprietario di un'ampia estensione di terreno, o da più proprietari associati o da uno dei proprietari che abbia ottenuto la cessione di facoltà edificatorie dei suoi vicini, purché comunque sia impedito il superamento, nella zona complessivamente considerata, degli standards consentiti dai piano.
Diverso è, però, il caso in cui lo strumento urbanistico contenga specifiche limitazioni in ordine a tipologie edilizie o alla densità abitativa, perché in presenza di limitazioni siffatte il trasferimento di cubatura deve ritenersi non consentito. Ciò significa che deve ritenersi inammissibile il trasferimento di cubatura a fronte di una norma di piano che per le zone agricole, non ammette costruzioni in lotti di dimensioni inferiori ad un limite minimo fissato dal piano medesimo, in quanto la ratio di una disposizione siffatta si connette al prefigurato regime di edificazione nelle zone agricole ed al nesso di funzionalità delle costruzioni ammissibili rispetto alla gestione di aziende agricole (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 19.09.2014 n. 1657 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' noto che “una ristrutturazione edilizia postula necessariamente la presenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e come tale è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione”.
Sicché “la ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, che non può essere equiparata al recupero edilizio non essendoci nulla da recuperare o mantenere come entità edilizia esistente e quale unità abitativa, per simile attività, perciò, deve essere richiesta apposita concessione edilizia”.

Di là da ogni altro rilievo, è noto che “una ristrutturazione edilizia postula necessariamente la presenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e come tale è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione”, di guisa che “la ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, che non può essere equiparata al recupero edilizio non essendoci nulla da recuperare o mantenere come entità edilizia esistente e quale unità abitativa, per simile attività, perciò, deve essere richiesta apposita concessione edilizia” (così, in conformità ad orientamento consolidato, TAR Sicilia, Palermo, 04.01.2012 n. 1; TAR Campania, Salerno, sez. I, n. 608/2012; Cons. Stato, sez. V, 15.04.2004, n. 2142) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 19.09.2014 n. 1617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINegli appalti no a salari minimi. Sentenza Corte di giustizia europea.
Vietato imporre salari minimi negli appalti. Il bando che preveda che la gara possa essere aggiudicata solo alle imprese che s'impegnano, nella loro offerta, a retribuire il loro personale con una retribuzione minima, è contrario alle norme Ue sulla libera prestazione di servizi. Ciò perché la condizione (salario minimo) non la stessa valenza in tutti gli stati membri e quello che l'ha imposta può così determinare a suo favore un vantaggio concorrenziale.

L'ha stabilito ieri la Corte di giustizia Ue nella sentenza 18.09.2014 causa C-549/13.
La vicenda riguarda il diritto della Germania che prevede che taluni appalti pubblici di servizi possano essere aggiudicati solo a imprese che, al momento della presentazione dell'offerta, si siano impegnate a versare al loro personale una retribuzione oraria minima (euro 8,62), per evitare il fenomeno c.d. di «dumping sociale». Nell'ambito di un bando di gara di tale genere, la condizione è stata pretesa nei riguardi di un subappaltatore stabilito in un altro stato membro (Polonia); nutrendo dubbi sulla compatibilità della normativa tedesca con il diritto dell'Ue, la questione è finita alla corte di giustizia Ue.
Nella sentenza, la Corte afferma che, nel caso in cui un offerente intenda eseguire un appalto pubblico avvalendosi esclusivamente di lavoratori impiegati da un subappaltatore stabilito in uno stato membro diverso da quello cui appartiene l'amministrazione aggiudicatrice, la libera prestazione dei servizi non ammette che si obblighi il subappaltatore a erogare ai lavoratori un salario minimo. Non si ammette perché ciò comporta la restrizione alla libera prestazione dei servizi sotto forma di «onere economico supplementare» (una sorte di «dazio»), capace di impedire, ostacolare o rendere meno attraente l'esecuzione delle prestazioni in questo stato membro.
Imporre un salario minimo, aggiunge infine la corte, potrebbe arrecare un vantaggio concorrenziale allo stato membro per il quale tale retribuzione è congrua con riferimento al proprio costo della vita, ma che non ha alcun rapporto con il costo della vita negli altri stati membri (articolo ItaliaOggi del 19.09.2014).

APPALTI: Il salario minimo prescritto fra i requisiti di un appalto pubblico non può essere esteso ai lavoratori di un subappaltatore stabilito in un altro Stato membro, nel caso in cui questi eseguono l'appalto soltanto in tale altro Stato.
L'imposizione, in virtù di una normativa nazionale, di una retribuzione minima ai subappaltatori di un offerente stabiliti in uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l'amministrazione aggiudicatrice e in cui le tariffe minime salariali sono inferiori costituisce un onere economico supplementare, atto ad impedire, ostacolare o rendere meno attraenti le loro prestazioni nello Stato ospitante. Pertanto, un provvedimento quale quello in discussione è tale da costituire una restrizione ai sensi dell'articolo 56 TFUE.
In una situazione nella quale un offerente intende eseguire un appalto pubblico avvalendosi esclusivamente di lavoratori impiegati da un subappaltatore stabilito in uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l'amministrazione aggiudicatrice, l'articolo 56 TFUE osta all'applicazione di una normativa dello Stato membro a cui appartiene tale amministrazione aggiudicatrice che obblighi detto subappaltatore a versare ai lavoratori in parola un salario minimo fissato da tale normativa (Corte di Giustizia Europea, Sez. IX, sentenza 18.09.2014 n. C-549/13 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Il vice presidente che risulti titolare, a norma dello statuto, di poteri di rappresentanza è tenuto a produrre le dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, pena l'esclusione dalla gara.
Il vice presidente che risulti titolare, a norma dello statuto, di poteri di rappresentanza è tenuto a produrre le dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, pena l'esclusione dalla gara.
In tal senso depongono, nel caso di specie, anche le argomentazione dell'Amministrazione e la giurisprudenza dalla stessa richiamata, la quale ammettendo la possibilità per terzi di assolvere l'obbligo di rendere le dichiarazioni prescritte dalla legge e, precipuamente, la possibilità per il rappresentante legale di produrre le dichiarazioni del citato art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 anche avuto riguardo "ad altri soggetti in carica, muniti di rappresentanza" implicitamente afferma e riconosce l'obbligo di tali soggetti di rendere le dichiarazioni richieste dall'art. 38, lett. b), c) e m-ter) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 16.09.2014 n. 9733 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: I cantieri non si fermano. L'estromissione degli indagati salva l'appalto. Il Consiglio di stato sconfessa il Tar Lombardia sul caso Expo-Maltauro.
Il dl semplificazioni basta e avanza per far continuare i lavori di Expo 2015. Il Consiglio di stato smentisce il Tar Lombardia: la norma del decreto legge 90/2014 conta eccome, il commissariamento straordinario dell'impresa che prima ha vinto l'appalto e poi è finita al centro delle indagini penali consente di non revocare l'aggiudicazione anche se l'inchiesta in corso ipotizza la consumazione di gravi reati.
E ciò perché proprio il meccanismo entrato in gioco grazie alla novella in oggetto ha in sostanza escluso dalla gestione dell'impresa, e dunque dalla percezione dei profitti, i soggetti sospettati di illeciti. Risultato: l'estromissione degli indagati consente di perseguire l'interesse pubblico costituito dalla rapida esecuzione dell'opera.

È quanto emerge dall'ordinanza 16.09.2014 n. 4089, Sez. IV, del Consiglio di Stato.
Il provvedimento annulla la decisione del Tar che stoppava l'appalto integrato per la progettazione esecutiva e la realizzazione delle architetture di servizio del sito individuato per lo svolgimento dell'Esposizione Universale. E fissa al 18 dicembre l'udienza per l'esame nel merito.
Non è vero che il dl 90/2014 sia irrilevante nella causa in corso: per palazzo Spada costituisce una conferma ex post che le indagini penali in corso non hanno incidenza automatica sulla legittimità degli atti di gara: il legislatore si è infatti posto il problema del rimedio esperibile quando sulla procedura pubblica si apre un'inchiesta della procura della Repubblica. E il rimedio è il commissariamento straordinario.
Non resta che aspettare dicembre. Spese compensate (articolo ItaliaOggi del 18.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Sull'accertamento del pericolo di infiltrazione e condizionamento mafioso.
L'Autorità prefettizia gode della più ampia sfera di discrezionalità nel selezionare e valorizzare fatti, circostanze ed accadimenti cui possa ricondursi, anche in via indiziaria, sintomatica e presuntiva il collegamento e/o il pericolo di condizionamento mafioso dell' attività di impresa.
Fra le circostanze e fatti indizianti si riconducono anche i contatti e le frequentazioni con pregiudicati o soggetti in rapporto di contiguità alla criminalità organizzata che possono essere elevati a presupposto per l'adozione della misura la vita di relazione dell'imprenditore che, proprio in quanto ripetutisi nel tempo, di per sé assumono significativo valore indiziario dell'esposizione al pericolo di condizionamento mafioso, indipendentemente dal concorso di altri ed ulteriori elementi.
Il biennio di c.d. decantazione e discontinuità da ogni rapporto di contiguità con soggetti con pregiudizi di polizia (unitamente al mutamento del luogo di residenza e di sede aziendale) non è di per sé idoneo ad inficiare, sul piano della logicità e della proporzionalità al fine perseguito, la scelta del Prefetto di anticipare la soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata.
L'accertamento del pericolo di infiltrazione e condizionamento mafioso ai sensi degli artt. 4 del d.lgs. n. 490 del 1994 e 10 del d.P.R. (ora artt. 90 e segg. del d.lgs. 159/2011 cit.) è invece preceduto, di volta in volta, da apposita istruttoria, che si caratterizza come autonoma per contesto temporale e geografico, elementi acquisiti e spessore dell'indagine rispetto ad ogni altro provvedimento avente il medesimo oggetto (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.09.2014 n. 4701 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'onere di immediata impugnazione del bando di gara. Sulla non necessità d'impugnazione dell'atto finale.
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Sulla valutazioni delle offerte da parte della commissione di gara espresse mediante attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica.

L'onere di immediata impugnazione del bando è circoscritto al caso della contestazione di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione, che siano ex se ostative all'ammissione dell'interessato, o, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, dovendo le altre clausole essere ritenute lesive ed impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva; a fronte di una clausola illegittima della lex specialis di gara, ma non impeditiva della partecipazione, il concorrente non è ancora titolare di un interesse attuale all' impugnazione, poiché non sa ancora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da tale esito può derivare.
La non necessità d'impugnazione dell'atto finale, quando sia stato già contestato quello preparatorio, sussiste solo quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione/conseguenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l'atto successivo si pone quale inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove ed autonome valutazioni di interessi da parte dei soggetti a ciò preposti; diversamente, quando l'atto finale, pur partecipando alla medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile, perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, l'immediata impugnazione dell'atto preparatorio non fa venir meno la necessità d'impugnare l'atto finale.
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La giurisprudenza è ferma nel richiedere, ai fini della legittimità delle valutazioni delle offerte da parte della commissione di gara espresse mediante attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica, una adeguata articolazione -per specificità dei parametri e limitatezza del range dei punteggi a ciascuno di essi attribuibili- dei criteri di valutazione da parte della lex specialis, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione dei singoli punteggi attribuiti.
Per valutare l'idoneità, allo scopo di ridurre in un ambito fisiologico la discrezionalità tecnica valutativa esercitabile dalla Commissione, della griglia prefissata, non può essere ritenuto adeguato (come sembra ritenere l'A.V.C.P.) soltanto un sistema binario, basato cioè su punteggi 0/1, o comunque conseguenti ad accertamenti di inesistenza/esistenza di elementi oggettivamente definiti. La stessa discrezionalità tecnica implica un margine di apprezzamento, sindacabile sotto il profilo della logicità e rispondenza alle regole tecniche ed ai fatti, ma non eliminabile.
Quel che deve sussistere è invece una griglia (e delle eventuali motivazioni) che rendano possibile ricondurre l'attribuzione dei punteggi alla griglia, con approssimazione logica accettabile, e quindi sindacabile attraverso le diverse figure dell'eccesso di potere (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.09.2014 n. 4698 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATACogenerazione, conta il risparmio di energia primaria. I chiarimenti del tribunale amministrativo regionale della Lombardia.
Ai fini della qualificazione di unità di produzione di cogenerazione ad alto rendimento, ciò che rileva è il risparmio di produzione di energia primaria (c.d. Pes), e non già la quantità di energia prodotta mediante cogenerazione.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del TAR Lombardia-Milano, con sentenza 11.09.2014 n. 2347.
È noto che per cogenerazione si intende la conversione della c.d. energia primaria di un qualsiasi combustibile nella produzione congiunta di energia elettrica e di energia termica (calore): la cogenerazione utilizza sistemi di generazione tradizionali (ad es. motori a combustione interna, turbine a vapore, turbine a gas, cicli combinati) dove l'energia termica prodotta viene recuperata e riutilizzata per usi diversi dalla generazione elettrica (ad es. usi industriali, teleriscaldamento ecc.).
Per quanto riguarda il riconoscimento di incentivi economici alla relativa produzione, i giudici lombardi, hanno evidenziato come in considerazione della sua particolare efficienza la cogenerazione rispondente a determinati parametri di rendimento è stata equiparata alle fonti energetiche rinnovabili (cfr. L 9/1991 e Provvedimenti Cip n. 34/1990 e n. 6/1992).
Infatti il Tar ha ricordato che «il dlgs 79/1999 -di attuazione della direttiva 96/92/Ce recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica- ha disposto, fra l'altro, all'art. 3, comma 3, che, nel garantire agli utenti della rete elettrica l'accesso al servizio di trasmissione e dispacciamento, l'Autorità per l'energia elettrica e il gas preveda “l'obbligo di utilizzazione prioritaria dell'energia elettrica prodotta a mezzo di fonti energetiche rinnovabili e di quella prodotta mediante cogenerazione”».
Nel 2004, hanno poi sottolineato i giudici amministrativi, è stata emanata la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2004/8/Ce circa la promozione della cogenerazione basata su una domanda di calore utile nel mercato interno dell'energia. Tale direttiva (cfr. art. 1) ha innanzitutto l'obiettivo di creare un «quadro per la promozione e lo sviluppo della cogenerazione ad alto rendimento di calore ed energia» (c.d. Car).
L'art. 7 della Direttiva stabilisce che «gli Stati membri assicurano che il sostegno alla cogenerazione -unità esistenti e future- sia basato sulla domanda di calore utile e sui risparmi di energia primaria, alla luce delle opportunità disponibili per ridurre la domanda energetica tramite altre misure economicamente realizzabili o vantaggiose dal punto di vista ambientale, come altre misure relative all'efficienza energetica».
La Direttiva è stata recepita nell'ordinamento interno con il dlgs 08.02.2007, n. 20, che, all'art. 2, definisce la cogenerazione ad alto rendimento come la cogenerazione avente caratteristiche conformi ai criteri indicati nell'allegato III (di identico contenuto, per quanto qui rileva, all'allegato III della Direttiva 2004/8).
Tale Allegato stabilisce che la cogenerazione ad alto rendimento deve rispondere ai seguenti due criteri:
a) la produzione mediante cogenerazione delle unità di cogenerazione fornisce un risparmio di energia primaria, calcolato in conformità al punto 3, pari almeno al 10%;
b) la produzione mediante unità di piccola cogenerazione e di micro-cogenerazione che forniscono un risparmio di energia primaria è assimilata alla cogenerazione ad alto rendimento.
Ai sensi dell'art. 2 per unità di piccola cogenerazione si intende un'unità di cogenerazione con una capacità di generazione installata inferiore a 1 MWe, mentre l'unità di micro cogenerazione è definita come un'unità di cogenerazione con una capacità di generazione massima inferiore a 50 kWe.
I criteri relativi agli impianti di cogenerazione ad alto rendimento, sopra indicati, sono stati confermati dall'allegato III al dm 04.08.2011 (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sulle parcelle la parola va al Tar.
Spetta al giudice amministrativo la giurisdizione circa le controversie aventi ad oggetto i pareri di congruità sulle parcelle professionali degli avvocati.

Lo hanno sostenuto i giudici della III Sez. del TAR Lombardia-Milano, con sentenza 11.09.2014 n. 2345.
Appare opportuno precisare che in relazione alle controversie aventi ad oggetto i pareri di congruità sulle parcelle professionali si sono registrati orientamenti contrastanti: un parte della giurisprudenza (si vedano Tar Venezia sez. I n. 183/2014 e n. 1110/2014; Cons. stato sez. VI n. 4942/2013; Tar Milano sez. III n. 1047/2012; Tar Roma sez. III-quater n. 196/2012; Cons. Stato sez. IV n. 9352/2010) –che, sottolineano i giudici amministrativi lombardi, appare maggioritaria– ritiene la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla controversia instaurata da un privato nei confronti del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati in relazione al parere dal medesimo rilasciato sulla liquidazione degli onorari di un proprio iscritto, stante la natura di ente pubblico non economico del medesimo Consiglio e il carattere di tale parere, da ritenere un atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, emesso nell'esercizio di poteri autoritativi, che non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale ma implica la valutazione di congruità del quantum (si vedano Cass. ss.uu. n. 6534/2008; n. 1874/2009; n. 14812/2009).
Altra parte della giurisprudenza invece (si vedano Tar Venezia sez. I n. 113/2013; idem n. 1801/2011; Tar Napoli sez. VIII n. 3496/2009) risulta essere incline a ritenere la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario.
Il Tar ha aderito al primo orientamento.
Appare opportuno in questa sede sottolineare che, ai sensi di legge, le prestazioni professionali forensi sono distinte in attività stragiudiziale e attività giudiziale: le attività giudiziali sono distinte in attività penale e attività civile, amministrativa e tributaria. L'attività giudiziale civile, amministrativa e tributaria è distinta nelle seguenti fasi: fase di studio della controversia; fase di introduzione del procedimento; fase istruttoria; fase decisoria; fase esecutiva.
L'attività stragiudiziale, invece, viene liquidata tenendo conto del valore e della natura dell'affare, del numero e dell'importanza delle questioni trattate, del pregio dell'opera prestata, dei risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti dal cliente, dell'eventuale urgenza della prestazione (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Schiamazzi notturni: quando il gestore non è responsabile.
Non risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore del locale che abbia esercitato correttamente i poteri di controllo e, ciononostante, non sia riuscito ad impedire gli schiamazzi avvenuti all'esterno dell'esercizio commerciale (nella specie era stato soltanto accertato che, all'esterno dei locali, stazionavano numerosi giovani che si trattenevano a consumare bevande, dando luogo a "schiamazzi, urla e risate" e il Tribunale evidenziava che i gestori non avevano alcun potere per impedire siffatti schiamazzi sulla pubblica via o almeno per persuadere i soggetti "a tenere un tono di voce più moderato", essendo essi "sforniti di qualsiasi potere coercitivo in caso di rifiuto".)
Il gestore del locale che esercita correttamente il proprio potere di controllo non è responsabile degli schiamazzi notturni.
E' quanto emerge dalla sentenza 05.09.2014 n. 37196 della III Sez. penale della Corte di Cassazione.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, affinché sussista la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, è richiesta l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori debbono avere una tale diffusività che l'evento disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare (Cass. pen., Sez. I, n. 47298 del 29.11.2011).
La medesima giurisprudenza ha, in più occasioni, affermato che il gestore di un esercizio commerciale è responsabile del reato di cui all'art. 659, comma 1, c.p., per i continui schiamazzi e rumori provocati dagli avventori dello stesso, con disturbo delle persone. Infatti la qualità di titolare della gestione dell'esercizio pubblico comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di sicurezza (Cass. pen., Sez. I, n. 16886 del 28.02.2003; Cass. pen., Sez. I, n. 17779 del 27.03.2008; Cass. pen., Sez. I, n. 40004 del 30.09.2009). Perché l'evento possa essere addebitato al gestore del locale è però necessario che esso sia riconducibile al mancato esercizio del potere di controllo e sia quindi collegato da nesso di causalità con tale omissione.
Nel caso in cui gli schiamazzi avvengano all'interno dell'esercizio non c'è dubbio che il gestore abbia la possibilità di assolvere l'obbligo di controllo degli avventori, impedendo loro comportamenti che si pongano in contrasto con le norme di polizia di sicurezza, ricorrendo, ove necessario, al c.d. ius excludendi. Come rilevato dagli ermellini, nella fattispecie in esame non è in discussione che gli schiamazzi, le urla e le risate dei soggetti che stazionavano all'esterno del locale, fossero tali da disturbare, in orario notturno, il riposo degli abitanti nella zona e quindi ad offendere la "quiete pubblica".
La particolarità della fattispecie è però rappresentata dal fatto che il reato non é stato ritenuto configurabile nei confronti dei soggetti autori degli schiamazzi e dei rumori, ma a carico del gestore il quale ha correttamente esercitato il potere di controllo e, conseguentemente, deve andare esente da responsabilità (link a www.altalex.com).

APPALTI: a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro, ciò implicando un giudizio meramente soggettivo inconciliabile con la ratio della norma;
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla semplificazione e all’economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l’interesse pubblico perseguito proprio con la gara di appalto, così che la sola mancata dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende legittima l’esclusione dalla gara;
c) anche in assenza di un’espressa comminatoria nella lex specialis, stante la eterointegrazione con la norma di legge, l’inosservanza dell’obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall’art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006 comporta l’esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l’integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale;
d) in caso di mancata dichiarazione di precedenti penali non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione, con la precisazione che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del bando non può determinarsi l’esclusione dalla gara per l’incompletezza della dichiarazione resa;
e) quanto all’estinzione del reato (che consente di non dichiarare l’emanazione del relativo provvedimento di condanna), essa sotto il profilo giuridico non è automatica per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione penale, che è l’unico soggetto al quale l’ordinamento attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente parlarsi di “reato estinto”.
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L’obbligo in capo ai concorrenti di dichiarare tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali si sia beneficiato della non menzione, discende direttamente dal secondo comma dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (come sostituito prima dall’art. 4 del D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito con modificazioni in legge 12.07.2011, n. 106, e poi modificato dall’art. 1 del D.L. 02.03.2012, n. 16 convertito in legge 26.04.2012, n. 44), il quale esclude dalla dichiarazione sole le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, nonché quelle revocate e quelle per le quali sia stata disposta la riabilitazione.

La Sezione osserva che in tema di dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare d’appalto, ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006, possono ritenersi consolidati i seguenti principi:
a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro, ciò implicando un giudizio meramente soggettivo inconciliabile con la ratio della norma (ex pluribus, Cons. St., sez. V, 17.06.2014, n. 3092; 24.03.2014, n. 1428; 27.01.2014, n. 400; 06.03.2013, n. 1378; sez. IV, 22.03.2012, n. 1646; 19.02.2009, n. 740);
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla semplificazione e all’economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l’interesse pubblico perseguito proprio con la gara di appalto (Cons. St., sez. V, 1378 del 06.03.2013; sez. VI, 10.12.2012, n. 6291; sez. III, 17.08.2011, n. 4792), così che la sola mancata dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende legittima l’esclusione dalla gara (Cons. St., sez. IV, 28.03.2012, n. 1646; sez. VI, 02.05.2012, n. 2597);
c) anche in assenza di un’espressa comminatoria nella lex specialis, stante la eterointegrazione con la norma di legge, l’inosservanza dell’obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall’art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006 comporta l’esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l’integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale (Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569);
d) in caso di mancata dichiarazione di precedenti penali non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione (Cons. St., sez. V, 27.12.2013, n. 6271), con la precisazione che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del bando non può determinarsi l’esclusione dalla gara per l’incompletezza della dichiarazione resa (Cons. St., sez, III, 04.02.2014, n. 507);
e) quanto all’estinzione del reato (che consente di non dichiarare l’emanazione del relativo provvedimento di condanna), essa sotto il profilo giuridico non è automatica per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione penale, che è l’unico soggetto al quale l’ordinamento attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente parlarsi di “reato estinto” (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3092; 13.12.2012, n. 6393; 24.03.2011, n. 1800).
Deve ancora aggiungersi che l’obbligo in capo ai concorrenti di dichiarare tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali si sia beneficiato della non menzione, discende direttamente dal secondo comma dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (come sostituito prima dall’art. 4 del D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito con modificazioni in legge 12.07.2011, n. 106, e poi modificato dall’art. 1 del D.L. 02.03.2012, n. 16 convertito in legge 26.04.2012, n. 44), il quale esclude dalla dichiarazione sole le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, nonché quelle revocate e quelle per le quali sia stata disposta la riabilitazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4528 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o risanamento conservativo), ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia, che è pertanto ravvisabile nella modificazione della distribuzione della superficie interna e dei volumi e dell’ordine in cui sono disposte le diverse porzioni dell’edificio anche per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: infatti anche in questi casi si configura il rinnovo di elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
E’ stato anche rilevato che costituisce intervento di ristrutturazione e non di manutenzione edilizia, ed è come tale soggetto a contribuzione, quello concretatosi in un insieme sistematico di opere con la conseguente realizzazione di un nuovo organismo del tutto diverso dal precedente; peraltro, sebbene sia stato considerato come manutenzione straordinaria (e non come ristrutturazione edilizia) l’intervento volto ad ampliare un’attività commerciale, già in precedente esercitata, mediante il semplice spostamento interno di tramezzi, idoneo a realizzare una differente ripartizione interna dei locali (con rilascio gratuito del relativo titolo autorizzatoria), sono stati considerati interventi di ristrutturazione edilizia quelli non destinati esclusivamente ad assicurare la funzionalità dell’organismo edilizio esistente, ma diretti a realizzare un quid novi nel rapporto tra le parti dell’edificio.
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Per definire come manutenzione straordinaria un intervento edilizio non è sufficiente che esso miri alla conservazione della destinazione d’uso dell’edificio, occorrendo che esso, sotto il profilo funzionale, sia diretto alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell’edificio, mentre, sotto il profilo strutturale, non comporti modifiche alla consistenza fisica, interna ed esterna, delle preesistenze.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o risanamento conservativo), ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia (Cons. St., sez. V, 17.12.1996, n. 1551), che è pertanto ravvisabile nella modificazione della distribuzione della superficie interna e dei volumi e dell’ordine in cui sono disposte le diverse porzioni dell’edificio anche per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: infatti anche in questi casi si configura il rinnovo di elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie (Cons. St., sez. V, 17.03.2014, n. 1326; 18.10.2002, n. 5775; 23.05.2000, n. 2988).
E’ stato anche rilevato che costituisce intervento di ristrutturazione e non di manutenzione edilizia, ed è come tale soggetto a contribuzione, quello concretatosi in un insieme sistematico di opere con la conseguente realizzazione di un nuovo organismo del tutto diverso dal precedente (Cons. St., sez. V, 25.11.1999, n. 1971); peraltro, sebbene sia stato considerato come manutenzione straordinaria (e non come ristrutturazione edilizia) l’intervento volto ad ampliare un’attività commerciale, già in precedente esercitata, mediante il semplice spostamento interno di tramezzi, idoneo a realizzare una differente ripartizione interna dei locali (con rilascio gratuito del relativo titolo autorizzatoria, Cons. St., sez. V, 19.07.2005, n. 3827), sono stati considerati interventi di ristrutturazione edilizia quelli non destinati esclusivamente ad assicurare la funzionalità dell’organismo edilizio esistente, ma diretti a realizzare un quid novi nel rapporto tra le parti dell’edificio (Cons. St., sez. V, 02.12.1998, n. 1176).
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Per definire come manutenzione straordinaria un intervento edilizio non è sufficiente che esso miri alla conservazione della destinazione d’uso dell’edificio, occorrendo che esso, sotto il profilo funzionale, sia diretto alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell’edificio, mentre, sotto il profilo strutturale, non comporti modifiche alla consistenza fisica, interna ed esterna, delle preesistenze (Cons. St., sez. V, 18.10.2002, n. 5775), condizioni che non si rinvengono nel caso di specie  (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4523 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il programma costruttivo di edilizia residenziale inerente alla localizzazione di cui all’art. 51 della legge n. 865 del 1971, non è equiparabile al piano di zona, rispetto al quale è alternativo e autonomo, essendo soggetto ad un procedimento semplificato ed accelerato d’individuazione ed acquisizione delle aree destinate ad iniziative di edilizia residenziale pubblica, non assimilabile alla procedura di formazione del p.e.e.p., con il quale condivide solo l’efficacia; tale localizzazione, che può avere luogo proprio qualora non possano essere adottate tempestivamente le complesse procedure di urbanizzazione previste dalla legge 18.04.1962, n. 167, impone che nel relativo provvedimento, o al più tardi in quello di assegnazione delle aree, siano fissati i termini di cui all’art. 13 della legge 25.06.1865, n, 2359.
L’inosservanza, poi, dei termini d’inizio della procedura espropriativa e dei lavori, ai quali è riconosciuta natura ordinatoria, non comporta di per sé la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, poiché l’inefficacia di cui all’art. 13, terzo comma, della legge n. 2359 del 1865 consegue non soltanto all’inutile decorso del termine fissato per il compimento delle operazioni di esproprio, ma alla scadenza anche dell’altro termine fissato per il compimento dell’opera, con la conseguenza che fin quando questo non è spirato ben può l’amministrazione emanare il decreto ablativo.

Al riguardo la Sezione osserva che, come già rilevato nell’esposizione in fatto, con la delibera consiliare n. 44 del 09.07.1984 il Comune di Amantea ha disposto la localizzazione, ai sensi dell’art. 51 della legge 22.10.1971, n. 865, del programma costruttivo per la realizzazione di n. 24 e di n. 12 alloggi, per i quali rispettivamente le Cooperative Casa 79 ed Elettra avevano ottenuto un finanziamento regionale, nell’ambito di un piano di zona, adottato, ma non ancora approvato dall’ente regionale, assegnando alle cooperative le aree necessarie in diritto di superficie, dichiarando inoltre la pubblica utilità delle opere previste nelle aree assegnate, nonché l’indifferibilità e l’urgenza dei lavori ai sensi dell’art. 3 della legge 27.06.1974, n. 247, e stabilendo altresì che le cooperative avrebbero dovuto iniziare le procedure espropriative entro un anno e completarle entro cinque anni dalla delibera stessa ed inoltre avrebbero dovuto iniziare i lavori entro un anno e completarli entro quattro anni, sempre dalla stessa deliberazione.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione per discostarsi, il programma costruttivo di edilizia residenziale inerente alla localizzazione di cui all’art. 51 della legge n. 865 del 1971, non è equiparabile al piano di zona, rispetto al quale è alternativo e autonomo, essendo soggetto ad un procedimento semplificato ed accelerato d’individuazione ed acquisizione delle aree destinate ad iniziative di edilizia residenziale pubblica, non assimilabile alla procedura di formazione del p.e.e.p., con il quale condivide solo l’efficacia; tale localizzazione, che può avere luogo proprio qualora non possano essere adottate tempestivamente le complesse procedure di urbanizzazione previste dalla legge 18.04.1962, n. 167, impone che nel relativo provvedimento, o al più tardi in quello di assegnazione delle aree, siano fissati i termini di cui all’art. 13 della legge 25.06.1865, n, 2359 (ex pluribus, Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2012, n. 3269; Cass. civ, sez. I, 23.06.2009, n. 14606).
L’inosservanza, poi, dei termini d’inizio della procedura espropriativa e dei lavori, ai quali è riconosciuta natura ordinatoria, non comporta di per sé la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, poiché l’inefficacia di cui all’art. 13, terzo comma, della legge n. 2359 del 1865 consegue non soltanto all’inutile decorso del termine fissato per il compimento delle operazioni di esproprio, ma alla scadenza anche dell’altro termine fissato per il compimento dell’opera, con la conseguenza che fin quando questo non è spirato ben può l’amministrazione emanare il decreto ablativo (Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, n. 5094; 27.04.2012, n. 2481) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl «chi inquina paga» presuppone un danno.
In materia ambientale il principio chi «inquina paga» presuppone che sia stato cagionato un danno da riparare i cui costi devono gravare sul responsabile.

Lo hanno sostenuto i giudici della I Sez. del TAR Liguria, con sentenza 05.09.2014 n. 1346.
La domanda d'accertamento sottoposta al tribunale amministrativo muoveva dalla supposta responsabilità del Comune al fine di affermare l'obbligo di messa in sicurezza: misura che, per come è congegnata nell'ordinamento di settore, incombe direttamente ed in primo luogo sullo stesso soggetto ricorrente, quale attuale proprietario e detentore del sito.
Secondo i giudici amministrativi liguri, «il principio “chi inquina paga” persegue una finalità repressivo riparatoria (o più specificamente ripristinatoria) secondo la logica della internalizzazione delle esternalità negative. Ed è –va sottolineato– norma di chiusura: entra in gioco laddove le misure atte a prevenire i danni, che devono trovare prioritaria applicazione, non siano state efficaci, sì da non avere impedito alla fonte i fatti dannosi all'ambiente».
Hanno altresì affermato, i giudici genovesi, che, viceversa, la messa in sicurezza di un sito «è misura di correzione di (diffusione o propagazione dei) danni».
Rientra, infatti, nel genus delle precauzioni, insieme al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva. Pertanto, in ossequio con quanto affermato dal Tar stesso nella sentenza in commento, la responsabilità grava sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente, e, non avendo finalità sanzionatoria e/o risarcitoria, non presuppone affatto l'individuazione del(l'eventuale) responsabile.
Aggiungasi che l'azione proposta non è nemmeno suscettibile ex art. 32, comma 2, c.p.a., di diversa qualificazione e conversione in quelle d'accertamento e condanna al risarcimento di danni in forma specifica ex artt. 30, comma 2, c.p.a. e 2058 c.c. Si osserva, infine, che secondo un autorevole indirizzo dottrinario il criterio dell'interesse o vantaggio è irrilevante nei reati ambientali previsti dal Tua e ricompresi nell'art. 25-undecies, dlgs 231/2001 che sono contravvenzioni per lo più di condotta e di pericolo astratto punite indifferentemente a titolo di dolo o di colpa (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Stato di malattia.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella sentenza 05.08.2014 n. 17625, torna ad occuparsi della compatibilità dello svolgimento di altra attività durante lo stato di malattia.
Nel caso scrutinato il dipendente in malattia aveva svolto attività sportiva. Si conferma che
lo svolgimento di attività lavorativa od extralavorativa, in costanza dell'evento morboso, è comportamento illegittimo ed in violazione dei doveri contrattuali di correttezza e buona fede, atto anche a giustificare il recesso del datore di lavoro, ma solo nel caso in cui si riscontri che l'attività espletata costituisce un indice di scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione (tratto da www.publika.it).

APPALTI: La condanna non ferma la gara. Consiglio di Stato. Precedenti penali dell'amministratore.
In una gara d'appalto, non è legittima l'esclusione di un'impresa per il fatto che grava su un ex amministratore una sentenza di condanna in materia di sicurezza sul lavoro, nella misura in cui tale condanna sia stata dichiarata e valutata dalla stazione appaltante. Nemmeno può essere preso in considerazione per l'esclusione il fatto che l'amministratore abbia mantenuto la titolarità di una consistente quota (26,66%) della società, in quanto la stessa non è determinante e l'amministratore revocato non ha conservato alcun potere gestionale.
Così i giudici della Sezione V del Consiglio di Stato nella sentenza 28.07.2014 n. 3992.
La questione riguarda una condanna per reati in materia di sicurezza e salute sul luogo di lavoro a carico di un amministratore di una società partecipante ad una gara d'appalto, che di per sé (per la gravità del fatto) avrebbe dovuto - secondo l'appellante - comportare l'automatica esclusione della società.
In realtà anche un reato del genere non sempre determina l'esclusione, come evidenziato dalla Sezione. Alcune iniziative, assunte dalla società dopo la condanna del proprio amministratore, possono essere positivamente valutate dalla stazione appaltante, ai fini del via libera alla partecipazione alla gara della società. Tra queste, la revoca, da parte dell'assemblea, dei poteri dell'amministratore, peraltro avvenuta oltre un anno prima dalla pubblicazione del bando. Né può rilevare in senso negativo il ritardo con cui il registro imprese ha iscritto la deliberazione. E neppure il fatto che l'amministratore abbia mantenuto la titolarità di una quota -di minoranza- della società può risultare pregiudizievole.
Infine, l'appellante ha sostenuto che la serietà della dissociazione doveva risultare dalla proposizione di un' azione di risarcimento danni da parte della società nei confronti dell'amministratore. La sezione ha invece respinto anche questa affermazione in quanto l'azione di responsabilità può essere proposta se la Società abbia in concreto subito un danno dal comportamento sanzionato dell'amministratore.
Ma nel caso di specie, non sussistendo alcun effettivo pregiudizio, l'azione di responsabilità avrebbe costituito un mero adempimento formale, posto in essere al solo scopo di dimostrare la dissociazione dalle responsabilità del condannato. Anche perché, in difetto di una ragione sostanziale per promuovere detta azione giurisdizionale, viene meno per la società interessata, anche il relativo onere (articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: La Corte dei Conti non può accertare vizi di legittimità di atti amministrativi.
L’accertamento degli eventuali vizi di legittimità dei quali possano essere affetti gli atti amministrativi esula dalla sfera giurisdizionale della Corte dei conti, giacché non è riconducibile alla previsione di giurisdizione esclusiva di all’art. 243-quater del Tuel, né alcuna altra disposizione di legge prevede al riguardo la giurisdizione contabile, onde quell’accertamento non può che ricadere di necessità nell’alveo delle attribuzioni del giudice amministrativo, secondo i principi generali della materia (Corte di Cassazione, Sezz. Unite civile, ordinanza 22.07.2014 n. 16631 - tratto da www.litis.it).

INCARICHI PROFESSIONALIPec, costa caro non controllare. L'avvocato è il responsabile della gestione dell'utenza. Per la Cassazione il legale non può farsi schermo della mancata apertura della posta.
Non verificare il contenuto della propria casella di posta elettronica certificata può costare caro. Infatti, dal momento in cui il legale riceve l'abilitazione all'utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, diventa responsabile della gestione della propria utenza, nel senso che ha l'onere di procedere alla verifica delle comunicazioni regolarmente inviategli dagli uffici giudiziari e non può far valere la circostanza della mancata apertura della posta per ottenere la concessione di nuovi termini per compiere attività processuali.

È quanto ha statuito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nel testo della sentenza 02.07.2014 n. 15070, con cui ha respinto la doglianza di un legale il quale lamentava che nel giudizio di secondo grado non aveva potuto conoscere l'emissione di un decreto di fissazione udienza in quanto trasmesso esclusivamente al proprio indirizzo di posta elettronica certificata indicato nel ricorso.
Casella di posta inaccessibile allo stesso avvocato che non aveva potuto accedervi in quanto sprovvisto, al momento, della password di accesso. A detta del professionista, infatti, in questi casi la comunicazione avrebbe dovuto essere accompagnata da un successivo inoltro a mezzo fax o per il tramite di un ufficiale giudiziario.
Per la Corte, la motivazione di cui sopra non regge e deve essere disattesa. Con le novità introdotte in materia di notificazioni via Pec (valga su tutti il decreto del ministro della Giustizia 21/02/2011), si stabilisce che i cancellieri sono tenuti a trasmettere le comunicazioni alle parti costituite in giudizio a mezzo dello strumento della posta certificata, all'indirizzo che il professionista deve obbligatoriamente indicare nel ricorso. In pratica, una volta ottenuta da parte dell'ufficio giudiziario interessato l'abilitazione alla Pec, ogni avvocato diventa responsabile della gestione della propria casella di posta certificata.
Questo comporta che l'eventuale negligenza che consiste nella mancata apertura della casella e la successiva lettura delle comunicazioni ivi contenute, non può costituire mezzo per richiedere una declaratoria di nullità dei documenti correttamente trasmessi da parte degli uffici giudiziari. Né può invocarsi il mancato inoltro delle comunicazioni a mezzo fax o ufficiale giudiziario, in quanto tali modalità di notifica, in base all'articolo 136, terzo comma del codice di procedura civile, sono efficaci soltanto quando non è possibile procedere a mezzo Pec e non quando dipendono da problemi di gestione della Pec da parte del relativo titolare (articolo ItaliaOggi Sette del 22.09.2014).

URBANISTICA: VINCOLI PAESAGGISTICI.
Artt. 1497 e 1489 cod.civ.
Piano regolatore, vincoli paesaggistici, prescrizione di ordine generale a contenuto normativo.
I vincoli paesaggistici inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste, hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia erga omnes e quindi non sono invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto.

Veniva sottoscritto un contratto preliminare per l’acquisto di un immobile in costruzione, con contestuale versamento di caparra confirmatoria.
Agiva in giudizio il promissario acquirente deducendo che, sebbene il promittente venditore aveva dichiarato di avere sanato l’illiceità dell’immobile, costruito senza licenza edilizia, avendo richiesto il condono ex legge n. 47 del 1985, l’immobile non era stato condonato e non era condonabile, in quanto sottoposto a vincolo paesaggistico ai sensi della legge n. 1497 del 1939.
L’attore affermava quindi che l’immobile risultava carente delle qualità essenziali per l’uso al quale era stato destinato, chiedendo dunque la risoluzione del contratto per inadempimento del promittente venditore, oltre al risarcimento dei danni e, in subordine, la declaratoria di legittimità del suo recesso con la condanna del convenuto ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. alla restituzione del doppio della caparra.
Il promittente venditore, di contro, sosteneva che il vincolo paesaggistico non avrebbe impedito la concessione del condono.
La questione giunge innanzi alla Corte di Cassazione la quale, innanzitutto, ricorda che le qualità promesse (nella specie la sanatoria dell’abuso edilizio) devono sussistere al momento della conclusione del contratto definitivo, difatti:
– l’obbligazione assunta con il preliminare di vendita consiste nell’obbligo di stipulare il successivo contratto di vendita;
– il trasferimento si realizza solo al momento della conclusione del definitivo.
I Giudici di legittimità, poi, confermano che il vincolo paesaggistico in questione doveva in ogni caso essere conosciuto dal promissario acquirente.
Difatti, illustra la pronuncia in commento, «i vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia erga omnes, come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari». Da ciò discende che detti vincoli, a differenza di quelli inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 cod. civ., e quindi (si veda al riguardo anche Cass. n. 2737/2012), non sono invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto.
Ciò considerato, la Cassazione precisa anche che la clausola (di stile) inserita nel contratto preliminare in questione, con la quale il promittente venditore garantisce la libertà del suolo in questione da «iscrizioni, trascrizioni pregiudizievoli, vincoli ed oneri in genere», si riferisce agli oneri e vincoli non apparenti, «rilevabili dal compratore solo attraverso particolari indagini»; tale clausola, invece, non poteva certo riferirsi «ai vincoli imposti da atti aventi forza di legge, assistiti da una presunzione legale di conoscenza da parte di tutti i cittadini».
Da ultimo, la pronuncia in parola osserva anche che, nel caso di specie, il contratto preliminare in questione, e la causa con la quale i contraenti chiedevano la risoluzione del medesimo, erano antecedenti ai decreti-legge sul condono edilizio (D.L. 24.01.1996, n. 30; D.L. 25.03.1996, n. 154) che hanno stabilito che, ai fini della commerciabilità del bene abusivamente costruito, occorre che nell’atto risulti, a pena di nullità, «il parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela dei vincoli per le opere di cui alla legge 28.02.1985, n. 47, art. 32, comma 3» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 24.04.2014 n. 9278 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA:  SUPERAMENTO DELLA SOGLIA DI NORMALE TOLLERABILITA'.
Immissioni, soglia di normale tollerabilità, superamento, inibitoria delle immissioni, risarcimento del danno
Quando sia accertato il superamento della soglia di normale tollerabilità delle immissioni si versa in una situazione di illiceità che esclude il ricorso al giudizio di bilanciamento e quindi all’indennizzo di cui all’art. 844, comma 2, cod. civ. e che introduce il diverso tema della inibitoria delle immissioni e dell’eventuale risarcimento del danno.

La pronuncia in commento assume rilievo in quanto definisce i limiti di applicazione dell’art. 844 cod. civ. ed, in particolare, del secondo comma del medesimo articolo il quale, come noto, consente di imporre al proprietario che subisce le immissioni (eventualmente previa corresponsione di indennizzo) l’obbligo di sopportare le medesime ove ciò sia funzionale alle esigenze della produzione.
Nel caso di specie l’attore domandava la conferma del provvedimento d’urgenza che aveva accertato la provenienza di immissioni intollerabili (di fumo, rumore e odori) dai locali del convenuto, nonché l’inibitoria della sua attività ed il risarcimento dei danni patiti.
La società convenuta deduceva di avere ottemperato alle prescrizioni contenute nel provvedimento d’urgenza, ma di non aver potuto procedere alla installazione di una canna fumaria che convogliasse i fumi -unica soluzione che, secondo quanto suggerito dal CTU, avrebbe risolto l’inconveniente- perché l’attrice non aveva prestato il consenso all’appoggio della canna fumaria al muro esterno dell’immobile di sua proprietà.
Il Tribunale, pur avendo accertato l’intollerabilità delle immissioni in questione, riteneva prevalenti le esigenze della produzione su quelle della proprietà e, quindi, riconosceva all’attore un indennizzo, ma rigettava le sue domande di inibitoria di risarcimento dei danni. Tale decisione veniva confermata in appello.
L’originario attore, pertanto, ricorreva in cassazione deducendo la non corretta interpretazione e applicazione della norma che disciplina le immissioni, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità sul tema (si veda al riguardo, ex plurimis, Cass. n. 4963/2001 e Cass., sez. un. n. 10186/ 1998): in particolare il ricorrente contesta la sentenza d’appello nella parte in cui, dopo aver accertato l’intollerabilità delle immissioni, ha operato la comparazione tra le opposte esigenze della proprietà e della produzione, tenendo peraltro conto, all’interno di tale giudizio, della soluzione proposta dal CTU (consistente, in sostanza, nell’obbligare l’attore a prestare il proprio consenso alla installazione della canna fumaria - dunque alla costituzione di una servitù - o a subire le immissioni).
La Cassazione giudica il motivo fondato, illustrando, in linea con la giurisprudenza di legittimità (si veda al riguardo, ex plurimis, Cass. n. 939/2011, Cass. n. 5844/2007 e Cass. n. 25820/2009), che:
– a fronte di accertate immissioni ai limiti della normale tollerabilità, l’art. 844, comma 2, cod. civ. prevede il giudizio di comparazione (in tal caso, precisa la Cassazione, «il legislatore consente di imporre al proprietario l’obbligo di sopportare le immissioni, ove ciò sia funzionale alle esigenze della produzione, eventualmente previa corresponsione di indennizzo»);
– viceversa, quando sia accertato il superamento della soglia di normale tollerabilità delle immissioni si versa in una «situazione di illiceità che, evidentemente, esclude il ricorso al giudizio di bilanciamento e quindi all’indennizzo, e introduce il diverso tema della inibitoria delle immissioni e dell’eventuale risarcimento del danno».
Nel caso in esame, la Corte d’appello non si è attenuta a tali principi in quanto:
a) ha ritenuto di poter effettuare il giudizio di bilanciamento, pur in presenza dell’accertamento di immissioni intollerabili;
b) ha affermato, sia pure indirettamente, che il proprietario il quale lamenti -a ragione- il superamento della normale tollerabilità delle immissioni provenienti dal fondo del vicino è tenuto a prestare il consenso alla costituzione di servitù, ove necessaria alla eliminazione dell’inconveniente, in caso contrario rimanendo assoggettato alle immissioni (ciò in quanto i giudici d’appello avevano giudicato pretestuosa l’opposizione dell’originario attore all’installazione della canna fumaria -unico rimedio individuato nel corso dell’istruttoria per evitare le immissioni- consentendo, al contempo, la prosecuzione dell’attività commerciale della convenuta).
In conclusione, quindi, è erronea la pronuncia che abbia proceduto al contemperamento delle opposte esigenze delle parti ex art. 844, comma 2, cod. civ. pur avendo accertato l’intollerabilità delle immissioni, che, invece, concretizza una situazione di illecito extracontrattuale (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 07.04.2014 n. 8094 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: TERRE E ROCCE DA SCAVO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Gestione irregolare - Reato - Natura transitoria
Artt. 186, 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 2, cod. pen.
L’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006, a seguito dell’abrogazione disposta dall’art. 39, comma 4, D.Lgs. n. 205/2010, ha assunto la natura di norma temporanea, destinata ad applicarsi ai fatti commessi fino all’entrata in vigore del decreto ministeriale di attuazione.
Dovendo infatti il sottoprodotto corrispondere ai requisiti qualitativi o quantitativi stabiliti da tali provvedimenti, la natura di norma temporanea comporta, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., l’applicazione della relativa disciplina ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia di terre e rocce da scavo, non essendo possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di disposizioni amministrative inesistenti all’epoca della loro produzione.

Nel pervenire alla conclusione che i legali rappresentanti della società Rossi Marmi s.n.c. di Rossi Bruno & C. fossero responsabili del reato di cui all’art. 256, comma 4, D.Lgs. n. 152/ 2006, per aver disatteso le prescrizioni nella lavorazione della pietra piasentina, il Tribunale aveva, tra l’altro, escluso che ricorresse il fenomeno dell’abolitio criminis in ordine all’attività espletata.
Avverso tale decisione, i ricorrenti avevano dedotto che erroneamente si era ritenuto che il mutamento normativo, intervenuto in materia di qualificazione dei residui di rocce e di lavorazione della pietra, non avesse nel caso concreto operato una abolitio criminis.
Il ricorso e` stato respinto, ma la Corte ha proceduto a una parziale rettifica in iure della motivazione contenuta nella sentenza impugnata.
Ha rilevato, infatti, la Cassazione che l’assunto dei ricorrenti si fondava sulla circostanza che, al fine di valutare se il residuo della lavorazione della pietra piasentina costituisse sottoprodotto e non rifiuto, il Giudice del merito avrebbe dovuto valutare se fossero stati osservati o meno i requisiti previsti dall’art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006 e non invece verificare il rispetto dei requisiti necessari per il trattamento dei rifiuti.
Si sosteneva che, a seguito dello ius superveniens, l’attività di estrazione e lavorazione della pietra piasentina, pur nel rispetto della normativa ambientale, non dovesse sottostare al regime autorizzatorio e regolamentare previsto in materia di rifiuti, con la conseguenza che, in applicazione del principio dettato dall’art. 2, comma 2, cod. pen., la nuova normativa in materia di scarti derivanti dalla lavorazione della pietra avrebbe dovuto trovare applicazione retroattiva e quindi si sarebbe dovuta applicare sin dal momento dell’accertamento posto in essere dai tecnici della Provincia di Udine giacché l’intervento normativo aveva comportato una vera e propria parziale abolitio criminis mediante la sottrazione dal campo di applicazione dell’art. 256, comma 4, di tutte quelle condotte di «gestione» dei materiali di risulta derivanti dalla lavorazione di marmi e rocce, aventi le caratteristiche previste dall’art. 184-bis.
Per confutare questa tesi, la sentenza ha precisato quanto segue. Ha premesso che l’attività di lavorazione di pietre e marmi è stata assoggettata, nel tempo, a una peculiare disciplina, sino ad essere equiparata a quella dettata dall’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 per le terre e le rocce da scavo, e ciò sull’ovvio rilievo che, trattandosi di materiali di provenienza naturale, per entrambe si può presumere un’intrinseca non pericolosità, senza giustificare un esonero dal rispetto della normativa che disciplina i rifiuti, implicando esse comunque un’attività dalla quale consegue o può conseguire un residuo di lavorazione di cui disfarsi.
Come ritenuto dal tribunale, al momento dell’accertamento dei fatti di causa, i residui di rocce derivanti dalla lavorazione di estrazione in cave autorizzate erano, ai sensi degli artt. 214 e ss. D.Lgs. n. 152/2006 e del D.M. 05.02.1998, classificati rifiuti non pericolosi, soggetti a procedura semplificata e regolati da tale normativa.
Con il D.L. 30.12.2008, n. 208 conv. in legge 27.02.2009, n. 13 (e non, come invece ritenuto in sentenza ex D.L. n. 78/2010 conv. in legge n. 122/2010), la disciplina prevista per le terre e le rocce da scavo è stata estesa, con l’aggiunta del comma 7-ter all’art. 186, D.Lgs. n. 152/2006, anche ai residui provenienti dall’estrazione di marmi e pietre e a quelli di lavorazione degli stessi.
La disciplina ha subito un ulteriore mutamento con l’entrata in vigore del D.M. del 10.08.2012, n. 161, avendo trovato attuazione il secondo comma dell’art. 184-bis che ha regolato la nozione di sottoprodotto, con la conseguenza che le fattispecie prima contenute nell’art. 186 (ora abrogato) sono confluite nella generale categoria del sottoprodotto (estranea al regime dei rifiuti) qualora gestite nei termini di cui al D.M. n. 161/2012.
Attraverso una ritenuta continuità normativa tra disciplina in vigore al momento del fatto e disciplina sopravvenuta, il tribunale era giunto alla conclusione che, in ogni caso, gli imputati, violando le disposizioni regolanti la materia, avessero integrato, con la loro condotta, la fattispecie di reato contestata, non operando pertanto la disciplina ex art. 2 cod. pen. invocata in ricorso.
La Corte ha poi precisato che il rilevo per cui la sostanziale continuità della normativa non aveva prodotto nella specie l’invocata abolitio criminis, non era tuttavia completamente esatto, essendo interdetta l’applicazione della disciplina, in ipotesi più favorevole sopravvenuta, non tanto e non solo dalla continuità del tipo di illecito, che comunque rileverebbe nella fase del passaggio tra la data dell’accertamento del fatto (epoca in cui l’attività era regolamentata dal D.M. 05.02.1998) alla data in cui la disciplina prevista per le terre e le rocce da scavo è stata estesa anche ai residui provenienti dall’estrazione di marmi e pietre e a quelli di lavorazione degli stessi, quanto per il fatto che, sino alla data dell’entrata in vigore dei decreti ministeriali previsti dall’art. 184-bis, comma 2, l’art. 186 ha assunto la natura di norma temporanea e, come tale, insuscettibile di innescare, ai sensi dell’art. 2, comma 5, cod. pen., il meccanismo di cui ai precedenti commi dell’art. 2 cod. pen. (e del comma 4 in particolare).
A questo punto la Corte ha riconosciuto il diverso avviso reiteratamente espresso in dottrina, ma ha ribadito un principio già affermato e cioè che l’art. 186, a seguito dell’abrogazione disposta dall’art. 39, comma 4, D.Lgs. n. 205/2010, abbia assunto la natura di norma temporanea, destinata ad applicarsi ai fatti commessi fino all’entrata in vigore del prescritto decreto ministeriale di attuazione.
Dovendo infatti corrispondere il sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi stabiliti da tali provvedimenti, la natura di norma temporanea, assunta dall’art. 186 comporta, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., l’applicazione della relativa disciplina ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia di terre e rocce da scavo, non essendo possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di disposizioni amministrative inesistenti all’epoca della loro produzione.
Tale indirizzo, secondo il supremo Collegio, non era smentito neppure dall’art. 15, D.M. 10.08.2012 n. 161 nella parte in cui ha previsto (con apposita disposizione transitoria) che, decorso il termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del Regolamento, i progetti per i quali era corso una procedura ai sensi e per gli effetti dell’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006, potevano essere assoggettati alla nuova disciplina, con la presentazione di un piano di utilizzo ai sensi e per gli effetti dell’art. 5, oppure, in mancanza, potevano essere portati a termine secondo la procedura prevista dall’art. 186 cit.
L’art. 15 del decreto, lungi dal convalidare la tesi di una abolitio crimins differita, che implicherebbe l’applicazione dell’art. 2, comma 4, cod. pen. ai fatti pregressi, ha permesso, al fine di consentire, mediante conferimento di una facoltà, a coloro che avessero in corso l’attività alla data di entrata in vigore del regolamento, e che nel frattempo si fossero uniformati alla normativa vigente regolata dalla disposizione temporanea, di proseguire ("portare a termine") l’attività stessa nell’osservanza della dismessa procedura, alle cui disposizioni è stata dunque attribuita una limitata ultrattività.
La sentenza ha colto l’occasione per svolgere un discorso più ampio sul tema.
Ha infatti rilevato che il fenomeno dell’abrogazione differita delle norme trova frequente applicazione proprio della materia di cui all’art. 17, comma 3, legge n. 400/1988 al fine di consentire il formale rispetto del principio delle fonti del diritto (nel senso cioè che l’effetto abrogativo delle norme primarie sarebbe già determinato dalla legge attributiva della competenza all’esercizio della potestà regolamentare, a partire dal momento dell’entrata in vigore dei regolamenti dalla legge autorizzati, i quali costituirebbero solo il fatto dalla cui esistenza risulta condizionata l’abrogazione, già potenzialmente disposta dalla legge cd. formale).
Ha poi osservato che non sempre vi è totale sovrapposizione tra abrogazione differita e condizionata delle norme giuridiche e disciplina penalistica dell’abrogatio criminis e tanto sul presupposto che la natura temporanea di una norma non necessariamente richiede che la temporaneità sia stabilita in via genetica potendo essere attribuita (fenomeno ricorrente proprio in materia di cd. norme integratrici temporanee ex post) per determinazione successiva.
Ciò che rileva, secondo la sentenza, ai fini della successione nel tempo delle norme integratrici temporanee è la precisa determinazione della natura di esse e non il momento in cui tale necessaria determinazione intervenga (ex ante o ex post). Rileva cioè la riconoscibilità della norma come temporanea e non il momento in cui l’ordinamento le attribuisca tale natura. Tanto chiarito, la Cassazione ha ritenuto che correttamente il tribunale avesse ritenuto che il precedente quadro normativo non consentisse di poter ravvisare una abrogatio criminis anche sul presupposto che la disciplina di favore fosse rimasta subordinata ad una serie di condizioni che l’esercente l’attività doveva preventivamente possedere, incombendo sullo stesso anche l’onere di provare la perdurante osservanza di esse.
Posto che, per l’originario sistema, l’attività di gestione di questi rifiuti era soggetta alle norme tecniche dettate dal D.M. 05.02.1998 sicché la loro violazione era sanzionata dall’art. 256, a sua volta, anche l’art. 186 richiedeva, per esonerare l’attività de qua dalla disciplina propria dei gestori di rifiuti, che fossero osservate le condizioni elencati alle lettere da a) a g), dovendo il possesso dei requisiti risultare da apposito progetto approvato dall’autorità titolare del relativo procedimento e prevedendosi una autocertificazione del rispetto dei predetti requisiti e, qualora la gestione non rispettasse queste condizioni, si richiedeva che le materie fossero sottoposte alla disciplina dei rifiuti.
L’art. 4, comma 1, D.M. n. 161/2012 prevedeva, in applicazione dell’articolo 184-bis, comma 1, che fosse considerato sottoprodotto di cui all’art. 183, comma 1, lett. qq), il materiale da scavo che rispondesse ai requisiti indicati dalle lettere da a) a d) della medesima disposizione (che il materiale da scavo fosse generato durante la realizzazione di un’opera, di cui costituisse parte integrante, e il cui scopo primario non fosse la produzione di tale materiale; che il materiale da scavo fosse utilizzato, in conformità al Piano di Utilizzo; che il materiale da scavo fosse idoneo ad essere utilizzato direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale secondo i criteri di cui all’Allegato 3; che il materiale da scavo, per le modalità di utilizzo specifico soddisfacesse i requisiti di qualità ambientale di cui all’Allegato 4).
Al comma 2, poi, l’art. 4 D.M. cit. stabiliva che la sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 dovesse essere comprovata dal proponente tramite il Piano di Utilizzo (che prendeva il posto del progetto di cui all’art. 186). Infine, ai sensi dell’art. 5, comma 8, D.M. 161 «in caso di violazione degli obblighi assunti nel Piano di Utilizzo, viene meno la qualifica di sottoprodotto del materiale da scavo con conseguente obbligo di gestire il predetto materiale come rifiuto ai sensi e per gli effetti dell’articolo 183, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 152/2006 e successive modificazioni».
Ne consegue che lo ius superveniens non ha comportato alcuna abolitio crimins perché le fattispecie che costituivano reato hanno continuato, sebbene in un quadro amministrativo mutato, ad essere penalmente sanzionate, sussistendo una sostanziale continuità normativa tra vecchia e nuova disciplina e permanendo il medesimo disvalore delle condotte, in quanto i requisiti richiesti a tutela dell’ambiente e della salute sono rimasti, nel tempo e per quanto qui interessa, analoghi. Al definitivo, il ricorso è stato rigettato perché il tribunale aveva accertato come non fosse risultato certo l’utilizzo del materiale trattato in considerazione che la stessa R. m. s.n.c. aveva indicato utilizzi alternativi di esso (quali la vendita a terzi del cocciame per fare fondi stradali); come, in mancanza dei test di cessione completi, non fosse stata provata la natura non inquinante dei residui derivanti dalla lavorazione della pietra piasentina; come, in presenza delle riscontrate irregolarità, non vi fosse neppure la certezza circa la non contaminazione della sostanza per effetto del ciclo produttivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.03.2014 n. 12229 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: NORMALE TOLLERABILITA' DELLE IMMISSIONI RUMOROSE.
Art. 844 cod. civ.; D.P.C.M. 14.11.1997.
Immissioni rumorose, limite di tollerabilità, condizioni del luogo in cui vengano percepite le immissioni.
Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona; pertanto ben può il giudice discostarsi dalle conclusioni del CTU in merito al rispetto dei limiti fissati dal D.P.C.M. 14.11.1997, facendo riferimento alla condizioni del luogo in cui vengano percepite le immissioni.
Domanda relativa all’accertamento della non normale tollerabilità delle immissioni provenienti da un parcheggio.
In particolare, il proprietario di una casa posta davanti all’arenile demaniale, ed in particolare di fronte allo stabilimento balneare gestito dal convenuto che aveva abusivamente realizzato un parcheggio nello spazio compreso tra il predetto stabilimento ed il giardino dell’abitazione dell’attore, otteneva un provvedimento ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. per l’immediata chiusura del parcheggio.
Domandava quindi al Giudice che venisse ordinato al convenuto di astenersi dal parcheggiare o far parcheggiare le auto in tale area, con contestuale condanna a risarcire i danni cagionati.
Il Giudice adito respingeva la domanda attrice, revocando l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. ma il giudice dell’appello, riformava la pronuncia di primo grado e, quindi, ordinava al gestore dello stabilimento balneare l’immediata chiusura dello spazio utilizzato per il parcheggio delle autovetture, inibendo l’accesso in detta area a qualsiasi veicolo a motore.
La Cassazione conferma la pronuncia impugnata osservando innanzitutto che «i parametri minimali fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente non sono necessariamente vincolanti per il giudice civile che, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene ai fini del giudizio di tollerabilità ex art. 844 cod.civ.».
Con riferimento al caso di specie, poi, i Giudici osservano che la CTU:
a. aveva evidenziato un innalzamento dei livelli di inquinamento, seppure assai modesto, determinato dall’ingresso e dall’uscita dei veicoli dal parcheggio;
b. con riferimento alle immissioni acustiche, aveva determinato presuntivamente una rumorosità pari a 51,5 Decibel, ovvero un livello inferiore ai minimi fissati dal D.P.C.M. 14.11.1997.
Sul punto la Cassazione conferma l’argomentazione del giudice d’appello (in quanto accertamento di fatto sorretto da logica e congrua motivazione) secondo cui tale valore, anche se inferiore ai minimi fissati dal D.P.C.M. 14.11.1997, non poteva essere qualificato come modesto, soprattutto in considerazione:
– del luogo in cui veniva percepito (area pertinenziale destinata al riposo di una famiglia ed in particolare dei propri figli);
– del fatto che tale livello di rumorosità parrebbe venir raggiunto per tutta la giornata ed in tutti i giorni di apertura dello stabilimento balneare.
Difatti, in merito all’applicazione del criterio comparativo previsto dall’art. 844 cod. civ. per accertare il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose va confermato che:
– detto limite non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona;
– non può quindi prescindersi dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi.
Va pertanto confermato che «la valutazione ex art. 844 c.c., diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita da un lato alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale» (in senso conforme si veda Cass. n. 17051/2011).
Ciò posto, la Suprema Corte conclude illustrando come il giudice d’appello abbia sufficientemente espresso le ragioni per le quali si è discostato dalle conclusioni del CTU, facendo in particolare riferimento alla condizioni del luogo in cui venivano percepite le immissioni in oggetto. Ciò alla luce del principio secondo cui l’eventuale rispetto dei limiti massimi di tollerabilità «non può far considerare senz’altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi alla stregua dei principi di cui all’art. 844 cod. civ., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza dei luoghi ed i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni» (in tal senso si veda Cass. n. 1418/2006 e Cass. n. 939/2011)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.02.2014 n. 3714 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 6/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: DEPOSITO TEMPORANEO.
Rifiuti - Deposito temporaneo - Collocazione «alla rinfusa» - Illiceità - Discarica - Sussistenza.
Artt. 183, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L’abbandono di rifiuti «alla rinfusa» e non per categorie omogenee, come previsto dall’art. 183, D.Lgs. n. 152/2006, esclude la configurabilità del cosiddetto deposito temporaneo o regolare ed integra il reato di gestione di discarica abusiva.
L’amministratore di una società che si occupa di impianti di frantumazione e di inerti destinati alla produzione di materiali per l’edilizia veniva condannato per aver realizzato una discarica non autorizzata di rifiuti speciali in quanto il NOE aveva rinvenuto un’area, adiacente a quella di frantumazione, in cui giacevano rifiuti ammassati alla rinfusa su un terreno non impermeabilizzato.
Nel proposto ricorso, il prevenuto sosteneva che il fatto era da ricondurre nell’alveo dei commi primo e quarto dell’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 e non nel comma 3 (come contestato).
Non si era, infatti, al cospetto di una gestione di discarica, bensì, di inosservanza delle prescrizioni.
Il ricorrente, tenendo conto dei requisiti richiesti dalla norma perché si abbia esercizio di una discarica abusiva, obiettava che la tesi dei giudici circa la «definitività» dell’abbandono era smentita dall’esistenza stessa dei formulari e dalla presentazione di una richiesta di autorizzazione per riciclare i rifiuti. Inoltre, il fatto che i materiali fossero posti in prossimità di una delle piste di accesso era dimostrazione che fossero destinati a una lavorazione e non al loro abbandono.
La Corte ha respinto il ricorso perché motivatamente era stata confutata la tesi dello stoccaggio provvisorio: il fatto che i rifiuti fossero ammassati tutti entro un’area ben definita di 800 m., accanto a quella utilizzata dalla società per il deposito dei materiali finiti, «non serve affatto a dimostrare, come vorrebbe la difesa, la temporaneità del deposito (che potrebbe riguardare esclusivamente il deposito di rifiuti alle condizioni previste dalla legge e nel luogo della loro produzione) né la possibilità di un’agevole individuazione dei rifiuti e del successivo recupero per la lavorazione nel ciclo produttivo di sabbia e ghiaia».
Significativamente, poi, i giudici di merito avevano evidenziato che era prevista la realizzazione di un piazzale pavimentato e impermeabilizzato per impedire rischi di inquinamento delle falde profonde, ma «all’atto dell’ispezione, i rifiuti erano a contatto con la nuda terra».
Queste circostanze legittimavano ampiamente la conclusione dei giudici di merito secondo cui la tesi difensiva andava disattesa perché, per poter definire controllato un deposito di rifiuti, non basta che rimanga sotto gli occhi del gestore, ma esso deve essere anche temporaneo, vale a dire, vi deve essere un rigoroso controllo dei tempi di giacenza e, anche in caso di regime semplificato, le prescrizioni e le cautele devono coincidere con  quelle previste per l’iscrizione nel registro delle imprese che effettuano il recupero di rifiuti non pericolosi.
In ogni caso, a dispetto di quanto sosteneva il ricorrente, nel caso in esame i rifiuti erano «di eterogenea natura e provenienza»: in base a principi ormai acquisiti nella giurisprudenza, l’abbandono di rifiuti «alla rinfusa» e non per categorie omogenee, come previsto dall’art. 183, «esclude la configurabilità del cosiddetto deposito temporaneo o regolare e integra il fatto criminoso di gestione di discarica abusiva» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.02.2014 n. 6985 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: DEPOSITO INCONTROLLATO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Deposito incontrollato di rifiuti - Consumazione - Durata - Conseguenze in caso di subentro di amministratori societari.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti, dando luogo a una forma di gestione preventiva rispetto al recupero o allo smaltimento, ha una consumazione che perdura sino allo smaltimento o al recupero dei rifiuti perciò dell’illecito risponde anche l’amministratore in carica al momento dell’accertamento del fatto, pur se diverso da quelli precedenti che avevano effettuato lo stoccaggio irregolare.
Il procuratore speciale Acea Ato 2 S.p.a. (gestore dell’impianto dal 18 luglio al 31.12.2007), condannato per aver effettuato lo stoccaggio dei fanghi di depurazione dell’impianto, si rivolgeva alla Cassazione eccependo che il giudice, rimproverando all’imputata di non avere smaltito i fanghi, avesse finito per configurare a carico dell’imputata una condotta omissiva (quella di non avere rimosso gli accumuli di fanghi creati dai predecessori) sicché l’accusa iniziale di avere «effettuato lo stoccaggio dei rifiuti senza la prescritta autorizzazione» doveva ritenersi essere venuta meno per il solo fatto di essere stato dimostrato che gli accumuli erano stati creati dai gestori precedenti.
Oltretutto, la norma non prevede alcun obbligo di smaltimento la cui omissione era stata addebitata alla ricorrente. Infine, il reato ascritto era sicuramente di tipo commissivo, mentre dalla sentenza impugnata, emergeva che alla prevenuta veniva rimproverata una omissione. La Corte, pur dando atto che il reato era ormai prescritto, ha ritenuto che non ricorrevano i presupposti per un proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. perché la contravvenzione di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti è reato commissivo eventualmente permanente, la cui antigiuridicità cessa o con il sequestro del bene o con l’ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con la sentenza di primo grado.
La Corte ha poi sostenuto che il reato di deposito incontrollato di rifiuti, dando luogo a una forma di gestione del rifiuto preventiva rispetto al recupero o allo smaltimento, ha una consumazione che perdura sino allo smaltimento o al recupero (che sicuramente non erano avvenuti al subentro della ricorrente) perciò , non si poteva distinguere la responsabilità dell’amministratore in carica al momento dell’accertamento del reato, rispetto a quella degli amministratori precedenti che avevano effettuato lo stoccaggio irregolare dei rifiuti presenti nell’impianto al sopraggiungere dell’ing. Vasta.
E' stato anche affermato che, se è vero che il reato di deposito incontrollato di rifiuti (così come quello di realizzazione e gestione di una discarica abusiva) ha indubbia natura commissiva, è altrettanto vero che l’affermazione di colpevolezza dell’imputata -contrariamente a quanto sostenuto dalla stessa- non era fondata sull’accertamento dell’"omesso intervento" per impedire la realizzazione di una discarica ovvero la prosecuzione della sua attività, bensì sul fatto che, essendo responsabile e legale rappresentante della società, aveva i doveri di controllo ad essa inerenti, riferiti all’operato della società medesima, e non a quello di terzi (cui, peraltro, per parte loro, il reato era già stato ascritto, salvo dichiararne l’estinzione per prescrizione) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.02.2014 n. 6984 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATASul permesso di costruire decisioni in contraddittorio
Non può dichiararsi la decadenza di un permesso di costruire per mancato inizio dei lavori nel termine annuale di legge dal rilascio del titolo edilizio se a monte è mancata la comunicazione di avvio del relativo procedimento.

L'importante chiarimento arriva dal TAR Toscana (III Sezione), che nella sentenza 12.12.2013 n. 1714 ha accolto il ricorso presentato da una società di costruzioni nei confronti di un comune.
Quest'ultimo, con ordinanza dirigenziale, aveva dichiarato decaduto il permesso di costruire ai sensi dell'art. 15, comma 2, del dpr 380/2001 (Testo unico dell'edilizia).
Il Tar, tuttavia, non è neppure entrato nel merito di tale questione, ma ha fondato la pronuncia di annullamento sul fatto che il provvedimento dichiarativo della decadenza non era stato preceduto da una regolare comunicazione dell'avvio del procedimento ex art. 7 della legge 241/1990.
Secondo i giudici amministrativi, infatti, in simili contesti, è obbligatorio il contraddittorio procedimentale tra le parti. È stata, quindi, respinta la tesi dell'amministrazione resistente, secondo cui il contraddittorio non risulta utile poiché tale provvedimento (cioè la decadenza) non fa altro che dare atto di un effetto già determinatosi per legge.
Al contrario, afferma la sentenza, «il contraddittorio procedimentale risulta utile, e necessario per legge, in ipotesi come la presente in cui ci sia contestazione e diversa valutazione dei presupposti fattuali e giuridici idonei a integrare i presupposti per l'esercizio del potere» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.12.2013).

ATTI AMMINISTRATIVILegittimo negare l'accesso a un parere legale.
È legittimo il diniego di accesso ad un parere legale da parte della p.a. -nel caso specifico fornito da un avvocato del libero foro- qualora tale parere sia stato richiesto dall'amministrazione al fine di definire la propria strategia difensiva.

Lo ha sancito il TAR Veneto, Sez. II con la sentenza 28.11.2013 n. 1330.
Nel caso in esame una società, al fine di conoscere la propria posizione giuridica in ordine a una convenzione urbanistica che la vedeva interessata, specie per quanto riguarda l'attuazione delle opere di urbanizzazione e il pagamento dei relativi oneri, aveva formulato al Comune di Trezze sul Brenta richiesta di accesso ex art. 22 e ss. della legge n. 241/1990, avente ad oggetto il parere pro veritate reso da un avvocato in merito alla convenzione relativa alla variante per l'attuazione delle opere di urbanizzazione di un piano attuativo.
Dal momento che l'amministrazione comunale non aveva provveduto nel termine di legge sull'istanza di accesso, la società aveva presentato ricorso.
Il Tar lo rigetta.
Infatti, secondo il Collegio, è evidente che il ricorso da parte del Comune alla consulenza legale esterna, non si va ad inserire nell'ambito di un'apposita istruttoria procedimentale, ipotesi nella quale il parere sarebbe soggetto all'accesso perché oggettivamente correlato ad un procedimento amministrativo; la consulenza, invece, è stata richiesta dall'amministrazione dopo l'inizio di una fase precontenziosa, al fine di definire la propria strategia difensiva.
Pertanto, è evidente che nel caso di specie il parere legale in questione non è affatto destinato a sfociare in una determinazione amministrativa finale, ma mira a fornire all'Ente pubblico tutti gli elementi tecnico-giuridici utili per tutelare i propri interessi. In questo caso, per pacifica giurisprudenza, le consulenze legali restano caratterizzate dalla riservatezza, che mira a tutelare non solo l'opera intellettuale del legale, ma anche la stessa posizione dell'amministrazione, la quale, esercitando il proprio diritto di difesa, protetto costituzionalmente, deve poter fruire di una tutela non inferiore a quella di qualsiasi altro soggetto dell'ordinamento (articolo ItaliaOggi Sette del 23.12.2013).

EDILIZIA PRIVATAServitù. Se si deve costruire sul terreno. Via l'elettrodotto a spese del gestore.
Il gestore dell'energia elettrica deve spostare a sue spese l'elettrodotto quando il proprietario del fondo servente deve costruire sul proprio terreno.
Lo ricorda il TRIBUNALE di Catania (giudice Arena) con sentenza 11.11.2013.
Nei fatti, una cooperativa edilizia aveva ottenuto l'approvazione di un programma per la realizzazione di 24 alloggi su un terreno in cui insisteva una linea di elettrodotto. E poiché non aveva avuto esecuzione un accordo concluso tra le parti per la ripartizione degli oneri connessi allo spostamento della linea, la cooperativa aveva chiesto al giudice la condanna della società alla rimozione della servitù e al risarcimento dei danni causati dal blocco dei lavori.
Il tribunale si sofferma sull'articolo 122 del Rd 1775/1933, che, per il caso in cui il proprietario intenda «eseguire sul suo fondo qualunque innovazione, costruzione o impianto», attribuisce al titolare del fondo servente un diritto soggettivo allo spostamento della servitù di elettrodotto, con la giurisdizione del giudice ordinario per la decisione delle controversie (Consiglio di Stato, sentenza 190/94).
La sentenza del tribunale di Catania richiama inoltre la giurisprudenza della Cassazione, per la quale sono inamovibili le linee «installate con modalità tali da renderne impossibile la modificazione o lo spostamento» (sentenza 7883/1994): in questo caso il proprietario del fondo ha diritto solo al risarcimento del danno per l'asservimento del suo immobile all'elettrodotto.
Il giudice osserva poi che l'articolo 122 dispone, al comma 5, che il proprietario dell'immobile che chiede di rimuovere la linea deve «offrire all'esercente, in quanto sia possibile, altro luogo adatto all'esercizio della servitù»; ciò a differenza della più rigorosa previsione dell'articolo 1068 del Codice civile, che ammette, in generale, il trasferimento della servitù in luogo diverso solo se «l'esercizio di essa riesca egualmente agevole al proprietario del fondo dominante».
In ogni caso –si legge ancora nella sentenza– l'articolo 122 consente lo spostamento della servitù anche se il titolare del fondo servente non sia in grado di indicare un altro sito idoneo, e, in questa ipotesi, la servitù originaria si estingue e il gestore del servizio potrà chiedere che ne sia costituita un'altra anche su un fondo diverso.
Il tribunale rileva quindi che dalla consulenza tecnica d'ufficio risultava che il lotto di proprietà della cooperativa era stato interamente edificato, tranne il pezzo di terreno su cui insisteva l'elettrodotto, sicché la cooperativa era nell'impossibilità oggettiva di proporre un sito alternativo. In applicazione dell'articolo 122 del Rd 1775/1933, il tribunale condanna allora il gestore a rimuovere i cavi elettrici a sue cure e spese, mentre esonera la cooperativa dall'obbligo di offrire un altro luogo adatto all'esercizio della servitù.
 La sentenza accoglie anche la domanda di risarcimento dei danni, quantificati in 92mila euro, subiti dalla cooperativa per il ritardo nell'esecuzione dei lavori e conseguenti all'aumento dei costi per ultimare gli immobili.
È invece escluso l'indennizzo per il mancato utile d'impresa, trattandosi di voce che grava non sulla cooperativa committente, ma sull'impresa appaltatrice, tenuta «a proprio rischio» (articolo 1655 del Codice civile) a gestire il cantiere e a sopportare gli oneri economici per realizzare l'opera
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.12.2013).

AGGIORNAMENTO AL 18.09.2014

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SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, luglio-agosto 2014).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Riduzione delle prerogative sindacali nelle Pubbliche Amministrazioni. Circolare n. 5 del 20.08.2014 (nota 12.09.2014 n. 50793 di prot.)

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – congedo per assistenza disabili in situazione di gravità – fruizione del congedo da parte dei genitori del disabile in presenza di convivente del disabile – art. 42, D.Lgs. n. 151/2001 (Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali, interpello 15.09.2014 n. 23/2014).

INCARICHI PROGETTUALI: OGGETTO: Primi chiarimenti sull'applicazione del DM n. 143/2013 (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 04.09.2014 n. 417).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: G.U. 12.09.2014 n. 212 "Individuazione dei modelli semplificati per la redazione del piano operativo di sicurezza, del piano di sicurezza e di coordinamento e del fascicolo dell’opera nonché del piano di sicurezza sostitutivo" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, decreto 09.09.2014).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTurn over, «ratei» nel piano assunzioni. Corte dei conti. I calcoli sui risparmi.
La Corte dei Conti, sezione controllo della Lombardia (parere 15.07.2014 n. 214) chiarisce le regole procedimentali e di calcolo a proposito del cumulo dei "ratei" in materia di assunzioni: in particolare in merito alla possibilità di utilizzo dei ratei delle facoltà assunzionali non utilizzati anno per anno.
Il parere si sofferma sulla necessità di «impegnare contabilmente la quota delle risorse inerenti alle facoltà assunzionali che di anno in anno si liberano» oppure se sia a tal fine sufficiente una qualche forma di "prenotazione".
Preliminarmente la sezione lombarda, ricorda «il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, con azioni varie dalla parziale reintegrazione dei cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile alla razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative, al contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, tenuto anche conto delle corrispondenti disposizioni dettate per le amministrazioni statali».
Ritiene, poi, che «a tali fini non sia necessario che l'ente locale proceda, anno per anno, ad uno specifico impegno delle somme liberate dal mancato impiego delle facoltà assunzionali residue determinate dalla disciplina vincolistica del turn-over (cfr. deliberazione n. 2/2012/Par della Sezione regionale di controllo per la Basilicata)».
La Corte ritiene che l'impegno costituisca la prima fase del procedimento di spesa, mentre in virtù del blocco del turn-over l'assunzione potrebbe intervenire anche a distanza di tempo rispetto al momento in cui le risorse si liberano o, al limite, potrebbe anche non intervenire del tutto.
Per la Corte, la minore spesa per il personale verificatasi nell'anno è un'economia che va a migliorare i saldi di finanza pubblica, e secondo i giudici contabili, una volta verificatasi la vacanza d'organico non rimpiazzata secondo il coefficiente di turn over dell'anno, «l'ente locale dovrà programmare in termini amministrativi la futura assunzione, che potrà però realizzarsi, nel rispetto della disciplina vincolistica delle assunzioni a quel momento vigente, laddove nell'anno dell'assunzione sia possibile iscrivere nel relativo bilancio la spesa»; sarà sufficiente, quindi, che l'ente locale "preveda" la spesa nel bilancio riferito all'anno in cui avverrà l'assunzione.
Programmare in termini amministrativi non può che significare inserire la valutazione sui "ratei" nel piano annuale e triennale delle assunzioni.
Per quel che riguarda la possibilità di cumulare i ratei delle facoltà assunzionali non utilizzate anno per anno, la sezione lombarda ricorda che «a decorrere dall'anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile» (legge 114/2014. )
Spetta al Comune interessato, sulla base dei principi espressi dalla giurisprudenza contabile, oltre che del parere in esame, «valutare la fattispecie concreta al fine di addivenire, nel caso di specie, al migliore esercizio possibile del proprio potere di autodeterminazione in riferimento alle spese per il personale nell'anno 2015, sempre nel rispetto dei vincoli di legge a quel momento vigenti»
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2014).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Le regole di invio della fattura elettronica.
Domanda
Quali sono le regole procedurali che devono essere osservate per inviare la fattura elettronica? È proprio un obbligo l'accordo preventivo tra l'emittente e il destinatario?
Risposta
La circolare 24.06.2014, n. 18/E, dell'Agenzia delle entrate ha fornito opportuni chiarimenti.
L'emittente (o il suo delegato) mette a disposizione del destinatario la fattura elettronica «tramite accesso a un sito internet, server o altro supporto informatico, ove la stessa è reperibile, nonché tramite messaggio (e-mail) contenente un protocollo di comunicazione e un link di collegamento che permetta, previo accordo delle parti di effettuare in qualsiasi momento il download della fattura. È possibile individuare ulteriori strumenti idonei alla trasmissione».
La norma non richiede l'obbligatoria presenza di un «previo accordo» con il destinatario per cui per avvalersi della trasmissione elettronica «è sufficiente l'accettazione da parte del destinatario del mezzo di trasmissione utilizzato», cioè l'utilizzazione di procedure informatizzate (ad esempio, sistema di trasmissione Edi, posta elettronica, posta elettronica certificata, telefax o via modem).
L'accordo preventivo tra le parti non è un requisito indispensabile.
Se il cedente i beni (o il prestatore del servizio) conferisce ad un soggetto terzo (outsourcer) l'incarico di trasmissione della fattura elettronica, è necessaria la presenza del preventivo accordo «in tale senso, che potrà essere desunto, indirettamente, anche dal tipo di incarico conferito da ciascuna di esse al terzo» (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

APPALTI: Il lotto di fatture elettroniche.
Domanda
Vorrei sapere se è possibile effettuare l'invio di più fatture elettroniche in un unico lotto o se, invece, è necessario inviare distintamente ciascuna fattura.
Risposta
La circolare 24.06.2014, n. 18/E, ha precisato che è possibile eseguire la trasmissione di più fatture elettroniche raccolte in un unico lotto, avendo cura affinché i requisiti richiesti e le procedure siano riferiti non ad ogni singola fattura ma al lotto.
In altri termini, la norma permette «di inserire una sola vota le informazioni comuni (come, ad esempio, le generalità dell'emittente e del ricevente, la partita Iva, la residenza o il domicilio, la data di emissione, l'annotazione che la fattura è completata dal cliente o da un terzo per conto del cedente), purché per ogni fattura sia possibile accedere alla generalità delle informazioni» (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

APPALTI: Fattura elettronica.
Domanda
Quali sono le regole procedurali che devono essere seguite per procedere alla conservazione della fattura elettronica?
Risposta
Le fatture elettroniche devono essere conservate in modalità elettronica attenendosi a quanto è indicato nel Dm 17.06.2014 (e, in precedenza, dal Dm 23.01.2004).
Le fatture create in formato elettronico e le fatture cartacee possono essere conservate elettronicamente (art. 39, ultimo comma, del Dpr 26.10.1972, n. 633).
In pratica, l'operatore che emette una fattura elettronica ha l'obbligo di garantire l'origine informatica e l'integrità del contenuto del documento e deve procedere alla sua conservazione elettronica.
La posizione del destinatario, invece, è differente poiché egli può scegliere tra le seguenti alternative:
a) «non accettare» la procedura, procedendo alla conservazione della fattura su supporto cartaceo, quindi procedendo alla materializzazione del documento;
b) «accettare» la procedura mediante la stampa e la conservazione analogica del documento ricevuto elettronicamente; in pratica, il suo comportamento concludente concretizza l'avvenuta accettazione della fattura con il requisito di «fattura elettronica» (pur effettuandone la registrazione e il pagamento).
Il destinatario che non accetta il documento elettronico, non preclude all'emittente di integrare la procedura di fatturazione elettronica con quella di conservazione elettronica.
«Anche al fine di non creare vincoli alla diffusione della fatturazione elettronica, si ritiene che tale processo non debba mantenere un obbligo di simmetria tra emittente e destinatario della fattura» (circolare 24.06.2014, n. 18/E).
Va osservato che l'emittente ha l'obbligo di conservare elettronicamente le fatture emesse nei confronti della Pubblica amministrazione. Questa regola deve essere osservata anche dall'ufficio che riceve la fattura elettronica (art. 1, comma 209, della L. 24.12.2007, n. 244) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

TRIBUTI: Riclassamento con motivazione.
Domanda
Come deve essere corredato l'atto di rilassamento catastale di un immobile affinché possa ritenersi legittimo?
Risposta
La giurisprudenza della Corte di cassazione in questi ultimi anni ha chiarito in molte pronunce che anche gli atti relativi al riclassamento catastale devono essere compiutamente motivati al fine di delimitare l'ambito della dialettica processuale e di porre il contribuente nella condizione di potersi difendere. L'Amministrazione finanziaria (in ciò sbagliando gravemente) molto spesso, invece, non ottempera a tale basilare precetto.
Merita di essere citata, tra le più recenti, la sentenza n. 16476 del 18.07.2014 nella quale la Suprema corte, confermando le decisioni della Ctp di Napoli e della Ctr della Campania, ha negato che l'onere della motivazione dell'atto di variazione di classamento possa esaurirsi nell'enunciare i soli dati della consistenza, categoria e classe acclarati dall'Ufficio.
Questo il principio di diritto enunciato: «In tema di revisione del classamento catastale di immobili urbani, la motivazione non può, in conformità alla legge n. 662/1996 (art. 3, c. 58), limitarsi a contenere l'indicazione della consistenza, categoria e classe attribuite dall'Agenzia, ma deve specificare, ai sensi dello Statuto del contribuente (legge 212/2000, art. 7, c. 1), a pena di nullità, a quale presupposto (il non aggiornamento del classamento o la palese incongruità rispetto a fabbricati similari) la modifica debba essere associata e laddove si tratti della constatata manifesta incongruenza tra il precedente classamento dell'unità immobiliare e il classamento di fabbricati similari aventi caratteristiche analoghe, l'atto impositivo dovrà recare la specifica individuazione di tali fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare oggetto di riclassamento, così rispondendo alla funzione di delimitare l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio nella successiva fase contenziosa, nella quale il contribuente, nell'esercizio del proprio diritto di difesa, può chiedere la verifica dell'effettiva correttezza della riclassificazione».
La sentenza ha anche precisato che «il divieto dei motivi aggiunti, fuori dei ristretti casi stabiliti dall'art. 24 del Dlgs n. 546/1992, è ragionevole solo nel presupposto che all'Ufficio sia in corrispondenza proibito di allegare i ridetti fatti in corso di processo. Pertanto, l'avviso di classamento è nullo per difetto di motivazione non solo quando manchi d'indicare gli immobili serviti da comparazione, ma altresì quando non siano indicate quali siano le caratteristiche analoghe degli immobili comparati, ciò che è all'evidenza indispensabile a mettere il contribuente in grado di contraddire il fatto allegato a mezzo di specifico motivo (Cass. sez. trib. n. 21532 del 2013; Cass. sez. 6 n. 10489 del 2013)» (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO - VARINo alla malattia fai-da-te. Per tornare prima al lavoro serve il certificato. L'Inps sottolinea l'obbligo dei datori in tema di sicurezza e salute.
No alla malattia fai-da-te. La prognosi del medico curante è vincolante sia per il lavoratore che per il datore di lavoro. Quest'ultimo, pertanto, non può riammettere al lavoro il dipendente assente per malattia che, considerandosi guarito, voglia rientrare anticipatamente rispetto al giorno indicato nel certificato medico.
Il rientro anticipato è possibile soltanto in presenza di un certificato medico di rettifica dell'originaria prognosi.

A spiegarlo è l'Inps nel messaggio 12.09.2014 n. 6973. La regola, sebbene sia illustrata solo per i dipendenti dell'istituto, vale in generale per tutti i lavoratori.
Certificati medici online. I chiarimenti, spiega l'Inps, si sono resi necessari per i numerosi quesiti formulati in materia di assenza per malattia e casistica del rientro anticipato nel luogo di lavoro. Come prima cosa, l'istituto ricorda che l'assenza per malattia dei dipendenti pubblici e privati è oggi attestata da certificati medici inviati telematicamente. I medici in particolare effettuano la predisposizione dei certificati entro le successive 24 ore alle visite dei propri assistiti, lavoratori dipendenti, e li inviano al datore di lavoro tramite il «sistema di accoglienza centrale» (Sac), disponibile sul sito del ministero dell'economia.
Gli stessi medici, poi, durante tutto il periodo di prognosi, possono inviare certificati che annullano i precedenti o li rettificano (per esempio in caso di evidenti errori o refusi). La rettifica è l'eventualità nel caso in cui abbiano modo di riscontrare nel paziente un decorso più favorevole della malattia, tale da poter ridurre la prognosi.
Dovere di sicurezza e salute. In secondo luogo l'Inps, richiamando l'art. 2087 del codice civile, spiega che il datore di lavoro è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro; e aggiunge che l'art. 20 del dlgs n. 81/2008 (T.u. sulla sicurezza) obbliga il lavoratore a prendersi cura della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro.
No alla malattia fai-da-te. Come terza cosa l'Inps ricorda che il datore di lavoro dispone solo dell'attestato di malattia, in quanto non è legittimato a ricevere i certificati completi, cioè recanti anche l'indicazione della diagnosi oltre a quella dei giorni di assenza accordati dal medico. Pertanto, si chiede l'Inps, non sapendo né diagnosi né malattia, potrebbe il datore di lavoro valutare adeguatamente se e in che misura il dipendente che intenda rientrare prima in servizio abbia effettivamente recuperato le proprie energie psicofisiche?
Se la risposta è negativa, ne deriva l'impossibilità per il datore di lavoro di assolvere agli obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ed è quanto ritiene l'Inps che, in conclusione, precisa: ogni dipendente assente per malattia che, considerandosi guarito, voglia riprendere anticipatamente il lavoro rispetto alla prognosi del proprio medico curante, potrà essere riammesso in servizio solo in presenza di un altro certificato medico di rettifica dell'originaria prognosi (articolo ItaliaOggi del 17.09.2014).

PUBBLICO IMPIEGOLa mobilità. Trasferimenti senza vincoli fino a 50 chilometri. Serve il consenso del dipendente solo per chi ha figli sotto i tre anni o disabili.
L'introduzione della mobilità obbligatoria, cioè della possibilità per gli enti di assegnare i dipendenti ad altre sedi, la limitazione della mobilità volontaria al solo personale contrattualizzato, la conferma che il passaggio dei dipendenti ad altra Pa è subordinato al consenso dell'ente da cui dipendono e la formalizzazione del vincolo della pubblicità preventiva all'avvio delle procedure di mobilità volontaria sono le principali novità introdotte in questa materia dal Dl 90/2014, per come convertito dalla legge 114/2014.
Esse vanno nella direzione di ampliare gli spazi di flessibilità offerti alle amministrazioni, impegnando le stesse ad utilizzarli con criteri predeterminati e pubblicizzati.
La novità di maggiore rilievo è senza dubbio l'istituzione della mobilità obbligatoria.
I criteri
Con mobilità obbligatoria si intende la possibilità di trasferire di sede i dipendenti pubblici, senza che sia necessario il loro consenso. Essi possono essere trasferiti nello stesso Comune o in un altro centro che non deve però essere più lontano di 50 km dalla sede in cui sono utilizzati. Da sottolineare che questo trasferimento può essere disposto nell'ambito della stessa amministrazione, nonché tra diverse Pa se le stesse hanno raggiunto uno specifico accordo o nell'ambito dei criteri dettati dal ministro della Semplificazione e della Pa. L'intesa non è necessaria solo se il trasferimento garantisce lo svolgimento dei compiti istituzionali in amministrazioni con gravi carenze di organico.
Il consenso
Non è necessario il consenso del dipendente e non occorre dimostrare la presenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive», cioè dei requisiti previsti in via ordinaria dal codice civile per il trasferimento. La norma prevede che il consenso sia comunque necessario per i dipendenti di tutti i sessi che hanno figli di età inferiore a 3 anni e/o che assistono dei congiunti gravemente disabili e che non sono ricoverati a tempo pieno in istituti specializzati.
Il decreto
I criteri del ministro della semplificazione e della Pa devono essere contenuti in un suo specifico decreto per la cui adozione è richiesta l'intesa della Conferenza unificata, cosicché diventerà applicabile anche a Regioni ed enti locali, mentre è sufficiente la semplice consultazione con i soggetti sindacali.
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Spostamenti volontari con bando. Le riorganizzazioni. Devono essere indicati requisiti e competenze professionali richieste.
La mobilità volontaria è stata oggetto di un attento restyling. Essa può essere svolta tra Pa che appartengono a comparti diversi, ma non può più interessare il personale non contrattualizzato, cioè le categorie a cui non si applica la privatizzazione del rapporto di lavoro. Ricordiamo che i principali ambiti in cui non opera la contrattualizzazione sono: forze armate e dell'ordine, ruoli diplomatici e prefettizi, magistrati, docenti universitari. Per cui tale personale non potrà più essere trasferito in mobilità presso Pa in cui si applicano i contratti privatistici, quali ministeri, enti locali, sanità, eccetera.
Il via libera dell'amministrazione
Chiarendo le incertezze presenti nella precedente disciplina, è stato precisato che per la realizzazione della mobilità volontaria occorre il consenso dell'amministrazione da cui si dipende. Tale consenso non è necessario per i passaggi tra sedi centrali di ministeri ed enti pubblici nazionali se l'amministrazione ricevente ha una percentuale di posti vacanti superiore a quella cedente. Il consenso deve essere dato dall'amministrazione: nella nuova disposizione non è più previsto il parere dei dirigenti.
Il che pone il dubbio se questa scelta sia di competenza dell'organo di governo o dei dirigenti. Si può ritenere che il primo debba dare dei criteri di carattere generale, mentre la competenza gestionale appartiene ai dirigenti, per cui spetta ad essi l'adozione degli atti.
L'esame delle domande
Sulla scorta delle indicazioni espresse dalla giurisprudenza, è stato formalizzato che tutte le Pa devono preventivamente fissare i criteri per l'esame delle domande e devono garantire una adeguata pubblicità alla volontà di assumere in mobilità. Viene stabilito che lo specifico bando debba essere pubblicato per almeno 30 giorni: fino ad oggi, in assenza di un vincolo legislativo, la pubblicità veniva effettuata generalmente per non più di 15 giorni. In tale bando l'ente deve rendere noti i «requisiti e le competenze professionali» che devono essere possedute dal personale che si intende assumere in mobilità; si deve ritenere che essi non possano essere comunque radicalmente diversi rispetto a quelli previsti per l'accesso dall'esterno. La disposizione lascia un'ampia autonomia alle singole amministrazioni sulle procedure selettive da adottare: esse possono spaziare dalla presentazione dei curricula, allo svolgimento di un colloquio motivazionale o di una prova selettiva.
Il provvedimento ha infine impegnato il Governo ad adottare rapidamente un decreto con cui sono fissate le equiparazioni tra le categorie ed i profili dei vari comparti, così da rendere più facile la mobilità volontaria tra i vari comparti.
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mobilità obbligatoria
APPLICAZIONE
I dipendenti pubblici possono essere assegnati ad una sede diversa della stessa amministrazione o ad un'altra, con cui sia stata raggiunta una specifica intesa. Al fine di garantire lo svolgimento dei compiti istituzionali in amministrazioni con gravi carenze di organico, anche senza l'intesa
ESCLUSIONI
La mobilità obbligatoria non si applica ai dipendenti non contrattualizzati
SEDE
La nuova sede deve trovarsi nello stesso Comune o a non più di 50 km rispetto a quello di partenza
MOTIVAZIONE
Non è richiesta la motivazione delle gravi esigenze di servizio
CONSENSO
Non serve. Fa eccezione chi ha figli sotto ai 3 anni e/o assiste un congiunto gravemente disabile, non ricoverato a tempo pieno
DECRETO
Un decreto del ministro della Pa definirà i criteri applicativi. La norma è comunque già operativa
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mobilità volontaria
SOGGETTI COINVOLTI
Può riguardare solo il personale pubblico contrattualizzato. Ambasciatori, prefetti, magistrati, docenti universitari, forze dell'ordine e militari non possono essere trasferiti alle dipendenze di Regioni, enti locali, enti del servizio sanitario, altri ministeri, enti pubblici
BANDI
Le amministrazioni devono pubblicare sul sito per almeno 30 giorni i bandi di mobilità con i requisiti e le competenze del personale che intendono assumere ed i criteri per l'esame delle domande
CONSENSO DELL'ENTE
Occorre, salvo sperimentalmente che per i passaggi tra alcune amministrazioni statali, il consenso dell'ente da cui si dipende
PARERI DEI DIRIGENTI
Non vengono più richiesti i pareri dei dirigenti da cui si dipende ed alla cui dipendenza si va
RIQUALIFICAZIONE
L'ente che riceve il dipendente in mobilità deve provvedere, con oneri a proprio carico, alla sua eventuale riqualificazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2014).

APPALTIAnac rivede la banca dati sulle gare. L'Authority aumenterà gli interventi di indirizzo e di vigilanza. Contratti pubblici. Per Corradino il sistema non funziona, da semplificare gli obblighi per le imprese.
È sopravvissuta allo Sblocca Italia, ma il destino della banca dati dei requisiti messa in piedi dall'Autorità contratti pubblici, soppressa e sostituita dall'Anac guidata da Raffaele Cantone, sembra comunque segnato. Nella prima versione del decreto 133/2014 era previsto un nuovo slittamento (il quarto) dell'obbligo di verificare i requisiti dei partecipanti alle gare attraverso il sistema Avcpass, entrato in vigore il primo luglio.
Una misura eliminata dal testo andato in Gazzetta il 12 settembre che però potrebbe riemergere durante l'esame parlamentare del decreto. A riconoscere che il sistema non è esente dalla criticità segnalate a più riprese dalle stazioni appaltanti e dalle imprese sono infatti ormai anche i nuovi vertici dell'Anac. «Bisogna assolutamente rimetterci mano -dice Michele Corradino, consigliere Anac con delega sugli appalti-. Dobbiamo capire perché non sta funzionando e andare verso un obiettivo chiaro. L'Avcpass è buono nella sua filosofia, cioè la semplificazione delle procedure. Ma la sua realizzazione concreta non va. Se dobbiamo costringere le imprese a chiamare un consulente per capire come partecipare alla gare, facciamo un danno al mercato».
Per Corradino, che ha preso in mano anche la riorganizzazione della vecchia Autorità, la revisione dell'Avcpass, mai decollato tanto che l'obbligo è spesso disatteso, è uno dei passaggi necessari a costruire il ruolo dell'Anac nel campo degli appalti. Con due direttrici.
Primo, appunto, la semplificazione. «Vessiamo ancora gli imprenditori e le Pa con una serie di vincoli e richieste inutili. Non possiamo più chiedere dati e autorizzazioni per questioni non produttive». Secondo, la lotta alla corruzione. «Vogliamo fare da guida al mercato, ma senza dimenticare che ci chiamiamo Autorità nazionale anticorruzione.». L'idea è di valorizzare l'enorme patrimonio di dati sul sistema degli appalti, mai sfruttato a fondo dall'organo di vigilanza. «Bisogna creare dei modelli, anche statistici, capaci di far emergere i punti in cui si annidano le anomalie del mercato, anche sfruttando la nuova norma che impone di comunicare le varianti».
E agendo anche sulla Pa. «Nella lotta alla corruzione -segnala Corradino- non possiamo fermarci agli appalti. La discrezionalità è la base del sistema corruttivo. Anche qui si possono creare strumenti per evidenziare le anomalie, segnalando ad esempio gli uffici che a un esame statistico risultano in cronico ritardo sul rilascio dei provvedimenti, pur senza soffrire di problemi di organico».
L'Anac punta a recuperare un ruolo anche nel processo di riforma del codice, quantomeno sugli aspetti che la riguardano più da vicino come la vigilanza. Sul punto è stata istituita una commissione ad hoc, insediata proprio in questi giorni.
E si riapre il tema della qualificazione al mercato dei lavori pubblici, ora gestito tramite società private. «È una scelta che spetta al legislatore -chiude Corradino- Sappiamo però qual è l'opinione del presidente Cantone, espressa in sedi ufficiali. Io posso dire da magistrato che i controlli privati non hanno mai funzionato. La terzietà è essenziale e può darla solo lo Stato»
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICentrali di appalto, pronto il decreto per il «club dei 35». Spending review. I requisiti degli aggregatori.
Il Governo ha definito i criteri operativi per attuare una delle più rivoluzionarie iniziative di riforma sistemica degli appalti pubblici: la sostituzione delle decine di migliaia di stazioni appaltanti esistenti con solo 35 grandi centrali di committenza.
In questi giorni è stato trasmesso a Regioni e Comuni la bozza di Dpcm (di concerto con l'Economia) con i criteri per selezionare le stazioni appaltanti, in attuazione del Dl n. 66/2914 (cosiddetto Irpef). Solo chi ha mandato in gara beni e servizi soprasoglia per almeno 260 milioni nell'ultimo triennio, e per almeno 50 milioni per ciascun anno del triennio, potrà concorrere per entrare nella lista dei 35 «soggetti aggregatori».
L'iscrizione andrà fatta in base a una procedura a cura dell'Anac, l'assegnazione sarà in base ai valori di appalto.
Tra i soggetti ammessi a fare ingresso in questo "club" il Dpcm ammette le due seguenti categorie di enti: le «città metropolitane istituite ai sensi del legge 07.04.2014, n. 56 e del decreto legislativo 17.09.2010, n. 156 e le province» e le «associazioni, unioni e consorzi di enti locali comunque denominati» (ai sensi del Dlgs 267/2000).
Più esattamente, ai fini del calcolo dell'ammontare, i predetti soggetti «devono avere avviato, nei tre anni solari precedenti la richiesta procedure per l'acquisizione di beni e servizi di importo a base di gara pari o superiore alla soglia comunitaria, il cui valore complessivo sia superiore a 260.000.000 euro nel triennio e comunque con un valore minimo di 50.000.000 euro per ciascun anno».
Il bacino di riferimento per le città metropolitane include tutti gli enti locali entro il perimetro della provincia. Per quanto riguarda gli enti locali in forma aggregata pesa il valore di ciascun ente che fa parte dell'associazione (o unione o consorzio).
La valutazione ricorda una vera e propria gara, preceduta da una fase istruttoria di due mesi, che si contano dall'entrata in vigore del Dpcm: entro i primi 30 giorni l'Anac dovrà deliberare le procedure per l'iscrizione; entro i successivi 30 giorni i soggetti interessati chiedono l'iscrizione applicando in base alle indicazioni dell'Anac. Nel caso delle città metropolitane non formalmente costituite la richiesta di iscrizione viene trasmessa dalla Provincia.
Segue la “gara”. L'Anac verifica i requisiti interrogando la banca dati nazionale dei contratti pubblici. Poi stila una graduatoria in base al valore degli importi mandati in gara: la lista avrà un «ordine decrescente basato sul più alto valore complessivo delle procedure avviate (...) fino al raggiungimento del numero massimo complessivo dei soggetti aggregatori». La "graduatoria" si riapre ogni tre anni, con la verifica dei soggetti inclusi nell'elenco e di quelli esclusi
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, cambio d'uso semplice. Un albergo può trasformarsi con facilità in una residenza. Più semplice il cambio di destinazione d'uso in edilizia. DL SBLOCCA ITALIA/ Il dl 133 prevede solo quattro categorie di destinazione urbanistica.
Il decreto legge sblocca Italia (n. 133/2014) introduce l'articolo 23-ter al Testo Unico per l'edilizia (dpr 380/2001) e individua quattro categorie di destinazione urbanistica. Solo il passaggio da una categoria all'altra è mutamento di destinazione d'uso, mentre i cambi di uso all'interno della medesima categoria sono dequalificati.
Così se un albergo diventa residenza non sarà un mutamento di destinazione di uso. Questo salvo che le regioni stabiliscano diversamente.
Ma vediamo il dettaglio della nuova disposizione.
L'articolo 23-ter del Testo Unico per l'edilizia individua quattro classi: a) residenziale e turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
La norma stabilisce che per la legge nazionale costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, anche se non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati a una diversa categoria funzionale.
Il mutamento di destinazione di uso può essere con o senza opere. Nel secondo caso si parla di mutamento funzionale di destinazione di uso; nel primo caso si parla di mutamento strutturale di destinazione di uso.
Questo significa che il passaggio da destinazione residenziale a direzionale è mutamento di destinazione di uso (perché si passa da una categoria a una diversa); mentre il passaggio dalla destinazione direzionale a quella produttiva o dalla turistica a residenziale non è mutamento di destinazione di uso rilevante ai fini della legislazione edilizia.
Quanto alla identificazione delle categorie, comunque, prevale la legge regionale.
Alcune regioni hanno già una regolamentazione normativa dei cambi d'uso, con categorie diverse da quelle del decreto Sblocca Italia. Per esempio vi sono regioni in cui la destinazione turistico-ricettiva è considerata a sé stante e non associata alla destinazione residenziale oppure in cui la destinazione direzionale è autonoma rispetto alla destinazione produttiva.
La rilevanza di un cambio di utilizzo come formale variazione della destinazione d'uso implica dover ottenere permessi e pagare oneri. La non rilevanza significa, di regola, meno casi in cui bisogna conseguire un titolo edilizio e meno spese per contributi di costruzione.
Ad esempio in alcune leggi regionali si prevede che solo sono onerosi i mutamenti delle destinazioni d'uso, anche in assenza di opere edilizie, solo nei casi in cui si verifichi il passaggio dall'una all'altra delle categorie censite.
L'onerosità, di regola, è commisurata alla differenza tra gli oneri dovuti per la classe della nuova destinazione d'uso e quelli dovuti per la destinazione in atto, con obbligo di versamento del conguaglio.
La norma si spinge a disposizioni di dettaglio. In particolare la destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare va determinata prendendo quella prevalente in termini di superficie utile: in caso di unità con uso promiscuo (casa e ufficio, ad esempio) prevale quella che occupa più superficie ed è questa categoria quella che deve essere presa in esame per valutare cambi d'uso.
L'articolo 23-ter si chiude con una norma di carattere generale e cioè che il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito. Anche qui, però, la legislazione regionale potrebbe disporre diversamente e in quel caso prevale sulla legge nazionale.
Lo stesso va detto per i piani regolatori e in generale per gli strumenti urbanistici comunali, che possono vietare il mutamento di destinazione di uso anche all'interno della medesima categoria (articolo ItaliaOggi del 16.09.2014).

PUBBLICO IMPIEGONiente congedo al convivente. Il permesso al genitore del disabile.
Il convivente non ha diritto al congedo per l'assistenza del proprio partner disabile; pertanto, ne può fruire il genitore (del disabile), anche se non convivente.

Lo precisa il Ministero del lavoro nell'interpello 15.09.2014 n. 23/2014, rispondendo all'Anci che ha chiesto di sapere proprio se sia possibile concedere la fruizione del congedo al genitore del disabile, pur in presenza di convivente non coniugato di quest'ultimo.
Il congedo, previsto dall'art. 42, comma 5, del T.u. maternità (dlgs n. 151/2001), è riconosciuto al coniuge convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità, per un periodo non superiore a due anni. In mancanza, per decesso o patologie del coniuge convivente, il congedo spetta ai seguenti soggetti (con ordine di priorità): padre o madre anche adottivi; uno dei figli conviventi; uno dei fratelli o sorelle conviventi.
L'Inps (circolare n. 41/2009) ha precisato che i genitori naturali o adottivi e affidatari hanno diritto al congedo solo nella misura in cui si verifichi una delle seguenti condizioni: il figlio (disabile) non sia coniugato o non conviva con il coniuge; il coniuge (del figlio disabile) non lavori o sia lavoratore autonomo o abbia espressamente rinunciato al congedo. La corte costituzionale, inoltre, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, nella parte in cui non include tra i soggetti beneficiari il parente o affine entro il terzo grado convivente, in caso di mancanza, decesso o patologie invalidanti degli altri soggetti (sentenza n. 203/2013).
Da tanto, spiega il ministero, ne deriva che l'individuazione dei soggetti con diritto al congedo non è suscettibile d'interpretazione analogica, ma risulta tassativa anche in ragione del fatto che durante la fruizione del congedo il richiedente ha diritto a un'indennità.
Pertanto, ritiene in conclusione che, nell'ipotesi in cui il disabile non risulti coniugato o non conviva con il coniuge, ovvero quest'ultimo abbia effettuato espressa rinuncia al congedo, l'art. 42, comma 5, del T.u. maternità «consenta al genitore non convivente di beneficiare del periodo di congedo, anche laddove possa essere garantita idonea assistenza da parte di un convivente more uxorio, non essendo tale soggetto legittimato a fruire del diritto» (articolo ItaliaOggi del 16.09.2014).

EDILIZIA PRIVATADL SBLOCCA ITALIA/ Per l'edilizia meno vincoli e disciplina più semplice. Riqualificazione aree industriali dismesse in deroga ai piani urbanistici.
Con il Dl 133/2014, entrato in vigore il 12 settembre, si allarga il novero degli interventi di manutenzione straordinaria: ne fanno da ora ugualmente parte il frazionamento e l'accorpamento delle unità immobiliari, anche mediante la variazione delle relative superfici e del carico urbanistico purché non muti la volumetria complessiva e l'originaria destinazione.
Si noti che il carattere gratuito delle opere di manutenzione viene posto in dubbio dal nuovo articolo 17, comma 4, del Testo unico edilizia dove, al pari delle opere sul patrimonio statale, anche la manutenzione straordinaria sconterebbe il contribuito commisurato agli oneri di urbanizzazione restando esentata dalla quota relativa al costo di costruzione. In sede di conversione il punto merita di essere chiarito.
Riqualificazione urbana
I regolamenti locali potranno individuare gli edifici da espropriare, mediante il riconoscimento di forme compensative, per procedere alla riqualificazione urbana.
Deroga alle regole urbanistiche
Nuova fattispecie per i permessi di costruire in deroga agli strumenti urbanistici territoriali: finora ammessi in caso di edifici pubblici, oggi possibili anche per gli interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica anche in aree industriali dismesse. In tali casi, l'interesse pubblico dovrà essere attestato con delibera del consiglio comunale.
Il permesso di costruire convenzionato, strumento finora noto solo alle esperienze regionali e locali, potrà far luogo degli strumenti di pianificazione attuativa, che hanno procedimenti di approvazione notevolmente più lunghi. Il permesso convenzionato varrà quando le esigenze di urbanizzazione di una determinata area potranno essere soddisfatte mediante modalità semplificate.
Quanto ai termini per il rilascio, ora tutti i comuni devono rispettare i termini «ordinari» (60 giorni per l'istruttoria, l'acquisizione dei pareri e la formulazione del provvedimento con possibilità di interruzione nei primi 30 giorni per richiesta di integrazioni). La possibilità di raddoppio sussiste solo per i progetti particolarmente complessi.
Proroga dei termini edilizi
Quando l'inizio o la fine dei lavori sono impediti da iniziative della Pa o dell'autorità giudiziaria che si rivelano poi infondate, la relativa proroga è un atto dovuto.
Contributo di costruzione
Gli strumenti di trasformazione urbana complessi scontano un regime agevolato del costo di costruzione: i relativi atti di pianificazione attuativa (piani di recupero, piani particolareggiati) potranno infatti prevedere che il contributo di costruzione sia commisurato unicamente al costo di costruzione e non anche all'incidenza degli oneri di urbanizzazione. Dovrà in ogni caso essere garantita la corretta urbanizzazione, l'infrastrutturazione e l'insediabilità degli interventi.
Inoltre, i Comuni possono deliberare i contributi di costruzione per gli interventi di ristrutturazione in misura inferiore ai valori determinati per le nuove costruzioni. Per gli immobili dismessi o in via di dismissione, il contributo di costruzione per gli interventi di ristrutturazione, recupero e riuso potrà essere ridotto in misura superiore al 20 per cento.
Addio Dia
Dopo più di quattro anni dalla sua introduzione nell'ordinamento giuridico, la Scia sostituisce a tutti gli effetti la Dia edilizia, che sopravvive solo ove prevista in sostituzione del permesso di costruire (ex Super Dia). Scia anche per le varianti minori a permessi di costruire, a condizione che gli interventi siano conformi alle prescrizioni urbanistico-edilizie e siano attuati dopo l'acquisizione degli eventuali atti di assenso prescritti dalla normativa sui vincoli.
Cambio d'uso
Si amplia la maglia del mutamento di destinazione d'uso: è rilevante solo la modifica che comporta l'assegnazione dell'immobile o dell'unità a una differente categoria funzionale tra (a) residenziale e turistico-recettiva (b) produttiva e direzionale, (c) commerciale, (d) rurale. È fatta salva la possibilità per le Regioni di disciplinare differentemente la materia.
Lottizzazione per stralci funzionali
Modifiche anche alla legge Urbanistica (1150/1942) il cui articolo 28 oggi concede la possibilità di procedere per stralci funzionali, per fasi e tempi distinti. Per ogni stralcio funzionale dovranno essere quantificati gli oneri di urbanizzazione o le opere di urbanizzazione da realizzare e le relative garanzie; l'attuazione parziale dovrà risultare coerente con l'intera area oggetto d'intervento.
Permessi in conferenza di servizi
Si allinea la validità dei termini dei permessi endoprocedimentali che si formano in seno ad una conferenza di servizi: tutti decorreranno a far data dall'adozione del provvedimento finale.
Autorizzazione paesaggista
Scompare di nuovo il ricorso alla conferenza di servizi nell'ambito del procedimento di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica: prima abolita dal Dl 84/2014, poi reintrodotta con la legge di conversione, oggi scompare di nuovo con il Dl 133. Di conseguenza, decorsi 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVOROIn edilizia «sicurezza» standard. I modelli semplificati possono essere adottati dai committenti e dalle imprese. Prevenzione. In «Gazzetta Ufficiale» il decreto interministeriale che rende operativa la normativa introdotta con il Dl del fare.
È finalmente operativa la semplificazione dei modelli obbligatori previsti in materia di sicurezza sul lavoro nel settore dell'edilizia.
L'operazione è stata regolamentata dal decreto 09.09.2014 (pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» 212 del 12 settembre) dei ministri del Lavoro, delle Infrastrutture e della Sanità, in attuazione dell'articolo 104-bis del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro), introdotto dall'articolo 32 del Dl 69/2013, convertito dalla legge 98/2013 (cosiddetto Decreto del fare).
Il decreto ministeriale contiene quattro allegati i quali riguardano, rispettivamente, il modello semplificato del piano operativo di sicurezza (Pos) di cui agli articoli 89, comma 1, lettera h) e 96, comma 1, lettera g); del Tu (all. I), del piano di sicurezza e coordinamento (Psc), di cui agli articoli 91 e 100 del Testo unico (all. II); del piano di sicurezza sostitutivo (Pss), di cui all'articolo 131, comma 2, lettera b), del Dlgs 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) (all. III) e del fascicolo dell'opera di cui all'articolo 91, comma 1, lettera b), del Testo unico (all. IV).
I modelli semplificati, il cui utilizzo non è obbligatorio, fornisce ai committenti e ai datori di lavoro delle imprese esecutrici di opere pubbliche e private un valido indirizzo standardizzato ai fini della redazione dei documenti. L'alternativa, per gli interessati, è di seguire un proprio criterio che affronta il rischio, nel qual caso il modello potrebbe essere considerato incompleto o non rispondente alle previsioni della legge da parte dell'organo di vigilanza, con l'applicazione dei conseguenti provvedimenti sanzionatori.
Nel merito dei singoli modelli si evidenzia che non sempre, obiettivamente, questi possono ritenersi semplificati. In particolare questa osservazione vale per il Pos e il Pss, dove vengono richieste notizie sulle mansioni di alcuni soggetti con posizioni di responsabilità, già previste dalla legge, e sui nominativi di lavoratori impegnati in determinate funzioni o circostanze, non previsto dalla legge.
Questi modelli prevedono, tra l'altro, una tabella riepilogativa dei livelli di esposizione al rumore e, per ciascun lavoratore, l'indicazione della erogata informazione, dell'avvenuta formazione riguardante i rischi specifici e di mansioni, nonché l'eventuale addestramento previsto per particolari dispositivi di protezione individuale.
È evidente che con tali registrazioni ed altre similari viene a costituirsi un documento il quale deve essere di volta in volta completato con le variazioni che intervengono nel tempo. Poiché dovranno essere conservate le precedenti registrazioni, si avranno, pertanto, più documenti per lo stesso cantiere.
L'annotazione vale ovviamente anche per il Pss, che va redatto quando –per la natura dell'opera pubblica e per la sua durata– non sia previsto il Psc. Il Pos, come il Pss, vanno redatti dal datore di lavoro dell'impresa esecutrice.
Il modello relativo al Psc, redatto dalla coordinatore per la progettazione, prevede, tra l'altro, l'elaborazione dell'organigramma per l'appalto dell'opera che, partendo dal committente, individua i vari soggetti i quali sono chiamati alla sua realizzazione, dall'impresa affidataria, a quella esecutrice, fino ai lavoratori autonomi. Il modello del Psc si interessa della valutazione dei rischi non solo dell'istituendo cantiere, ma anche dell'area esterna alla quale è interessato il cantiere stesso, nonché dei rischi da interferenza tra le lavorazioni.
Il modello riguardante il fascicolo dell'opera (redatto dal coordinatore per la progettazione), il quale accompagna nel tempo la vita dell'opera stessa, sintetizza quanto già prescritto dall'allegato XVI del Testo unico e pone in particolare rilievo le misure preventive e protettive che andranno in dotazione all'opera e ausiliarie, prevedendo, nel tempo, sia il tipo di probabile intervento manutentivo, sia l'individuazione degli eventuali rischi
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2014).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo al genitore al posto del convivente. Disabili. L'interpretazione del ministero.
Il genitore non convivente può beneficiare del periodo di congedo previsto dall'articolo 42, comma 5, del Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (Dlgs 151/2001) anche quando al disabile in situazione di gravità può essere garantita idonea assistenza da parte di un convivente, non essendo questi legittimato a fruire del diritto.
Lo ha affermato il ministero del Lavoro in risposta all'interpello 15.09.2014 n. 23/2014 dell'Anci, che si era avvalsa della possibilità offerta dall'articolo 9 del Dlgs 124/2004 per chiedere un parere sulla possibilità di concedere la fruizione del congedo al genitore del disabile, pur in presenza di convivente non coniugato di quest'ultimo.
Prendendo spunto dalla tassatività dei soggetti che possono avere titolo al periodo di congedo accompagnato dalla relativa indennità a carico dell'Inps, i tecnici si sono espressi positivamente. Ciò anche in relazione alla impossibilità di un'estensione per via analogica degli aventi diritto al congedo.
Con altra risposta a interpello (22/2014) il ministero ha affrontato, poi, una problematica connessa alla computabilità delle altre categorie diverse dai disabili, tutelate dalla legge 68/1999, in caso di cambio d'appalto. È stato chiesto, se, nelle ipotesi di cambio d'appalto e di conseguente obbligo contrattuale di assunzione del personale già in forza ai sensi dell'articolo 4 del Ccnl per i dipendenti di imprese di pulizia/multiservizi, l'azienda subentrante debba procedere ad una assunzione ex novo di un altro soggetto orfano o possa ritenersi riconosciuto ai fini degli obblighi di legge il soggetto orfano già in forza ma non riconosciuto come tale ex lege 68/1999.
Per i tecnici l datore di lavoro subentrante potrà computare nella quota di riserva ex articolo 18, comma 2, il personale orfano assunto in applicazione dell'obbligo contrattuale di cui all'articolo 4 del Ccnl citato
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2014).

APPALTIAppalti, poteri forti per l'Anac. L'Autorità può proporre di commissariare l'appaltatore. Le novità sull'anticorruzione introdotte dalla l. 114/2014 di conversione del dl p.a..
Più poteri all'Anac contro la corruzione negli appalti pubblici con il commissariamento dell'appaltatore, del concessionario e del contraente generale. I pagamenti all'impresa potranno essere sospesi e l'utile di impresa accantonato in un fondo. Infine, l'unità operativa per Expo 2015 resterà in carica fino a tutto il 2016.

Sono alcuni dei punti principali contenuti nell'articolo 32 del decreto-legge 90/2014 convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114.
La disposizione, nell'ambito dell'attività di prevenzione della corruzione scatta quando in relazione al singolo appalto emergano rilevanti anomalie o comunque situazioni sintomatiche di condotte illecite, ovvero vi siano fatti gravi e accertati, anche in seguito a denunce di illeciti da parte di dipendenti della pubblica amministrazione. In tali ipotesi, il presidente dell'Anac (Autorità nazionale anti corruzione) può proporre al prefetto competente di assumere direttamente il controllo dell'impresa attraverso un'amministrazione straordinaria temporanea (fino all'esecuzione del contratto), oppure di imporre all'impresa di rinnovare gli organi sociali.
In commissione due le principali novità rispetto al testo governativo: è stato introdotto l'obbligo per il presidente dell'Anac di informare il procuratore della repubblica e soprattutto è stata estesa la disciplina dell'amministrazione straordinaria temporanea anche ai concessionari di lavori pubblici e ai contraenti generali. La modifica potrà consentire all'Anac di applicare i poteri conferiti dalla norma anche a casi come il Mose, oggetto di una concessione affidata nel 1984 o ad affidamenti a contraenti generali (grandi infrastrutture) per i quali dovessero emergere elementi di condotte illecite. Viene anche chiarito che la competenza del prefetto è in relazione al luogo in cui ha sede la stazione appaltante e quindi non rileva la sede legale dell'impresa oggetto di accertamenti.
Il prefetto, fatte le proprie valutazioni, provvede con decreto alla rinnovazione degli organi sociali se l'impresa non si adegua spontaneamente entro trenta giorni; nei casi più gravi, entro dieci giorni nomina fino a un massimo di tre amministratori in possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità previsti dalla legge. In fase di esame parlamentare, rispetto al testo iniziale del decreto legge, è stato introdotto, come novità, un limite di durata al provvedimento di amministrazione straordinaria temporanea che è stato individuato nella emissione del certificato di collaudo dell'opera.
L'amministrazione straordinaria temporanea viene qualificata dalla norma come attività di pubblica utilità con la conseguenza che gli amministratori rispondono per eventuali diseconomie soltanto in caso di dolo o colpa grave. Ipotesi di revoca del decreto di nomina degli amministratori sono l'adozione di provvedimento di sequestro, confisca o amministrazione giudiziaria dell'impresa aggiudicatrice dell'appalto, ipotesi alle quali si aggiunge anche l'archiviazione del procedimento e che l'autorità giudiziaria conferma, ove possibile, gli amministratori nominati dal prefetto.
Durante l'amministrazione straordinaria, i pagamenti all'impresa non sono sospesi, ma l'utile d'impresa derivante dal contratto di appalto pubblico (determinato dagli amministratori in via presuntiva) deve essere accantonato in un apposito fondo; quindi non può essere distribuito, oltre che fino all'esito del giudizio penale, fino all'esito dei giudizi sull'informazione antimafia interdittiva. Possibile nominare tre esperti da parte del prefetto per svolgere funzioni di sostegno e monitoraggio dell'impresa, se le indagini penali riguardano membri di organi societari diversi da quelli dell'impresa aggiudicataria dell'appalto.
Le misure di amministrazione, sostegno e monitoraggio si applicano anche se l'impresa è oggetto di informazione antimafia interdittiva da parte del prefetto; quest'ultimo informa dell'adozione delle misure il presidente dell'Anac. Le misure sono comunque revocate o cessano di produrre effetti all'esito di procedimenti penali e di prevenzione.
Per quel che riguarda l'unità operativa con compiti di vigilanza e di alta sorveglianza su Expo 2015, la norma, modificata in commissione, prevede che la sua operatività duri fino «alla completa esecuzione dei contratti di appalto di lavori, servizi e forniture per la realizzazione delle opere e delle attività connesse allo svolgimento del grande evento» e comunque, non «oltre il 31.12.2016» (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Tetto massimo agli incentivi acquisibili dai tecnici p.a.
Con il nuovo Fondo per la progettazione e l'innovazione previsto un tetto massimo agli incentivi acquisibili da ogni tecnico della p.a. Ed è eliminato il premio per gli atti di pianificazione.

Sono gli effetti della riscrittura della disciplina premiale che riguarda i professionisti degli uffici tecnici delle amministrazioni, dopo che l'articolo 13-bis del decreto legge 90, convertito nella legge 114/2014, ha sostituito i commi 5 e 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici.
Non cambia l'entità complessiva dell'incentivo, fissata al 2% degli importi posti a base di gara di un'opera pubblica; si crea però un fondo ad hoc, presso ogni amministrazione («Fondo per la progettazione e l'innovazione») che servirà a incentivare le attività di progettazione, di direzione dei lavori, di verifica dei progetti, di collaudo e altre attività tecniche.
Per un 20%, invece, le risorse del Fondo dovranno essere destinate all'acquisto, da parte dell'ente, di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali alla realizzazione di progetti di innovazione, di banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di ammodernamento o efficientamento dell'ente e dei servizi ai cittadini.
Le risorse inutilizzate potranno essere usate nei tre anni successivi. Si potrà graduare l'incentivo in base all'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti nel progetto esecutivo; sulla stessa linea la norma prevede che si possano ridurre le risorse destinate al Fondo in caso di mancato rispetto dei costi e dei tempi previsti nel quadro economico del progetto esecutivo, depurato del ribasso d'asta.
Un'altra novità significativa è rappresentata dal fatto che il tetto all'incentivo non è più individuato singolarmente: si passa infatti da un tetto, applicabile a ogni incentivo, pari al trattamento economico complessivo annuo lordo (per il personale non dirigenziale), a un tetto, che non solo scende dal 100% al 50% del trattamento (25% per i dirigenti), ma viene applicato alla somma di tutti gli incentivi corrisposti al dipendente nel corso dell'anno (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

APPALTI: Aggregazione domanda, meno vincoli ai piccoli comuni.
Meno vincoli per i piccoli comuni alla centralizzazione degli appalti: slitta a fine anno (a metà 2015 per i lavori) l'obbligo di aggregazione della domanda; possibili affidamenti fino a 40 mila euro.

È quanto si desume dall'articolo 23-bis del testo del decreto-legge 90 convertito in legge 11.08.2014, n. 114 che prevede un intervento di proroga del termine dell'entrata in vigore, in origine fissato al 1° luglio, della nuova disciplina sulla centralizzazione delle procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture, da parte di tutti i comuni non capoluogo di provincia, attraverso modalità di aggregazione.
L'articolo 33-bis del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) prevede che i piccoli comuni procedano all'acquisizione di lavori, beni e servizi: nell'ambito delle unioni dei comuni, ove esistenti; mediante un apposito accordo consortile tra comuni, avvalendosi dei competenti uffici; ricorrendo a un soggetto aggregatore; ricorrendo alla province o alla Consip o ancora alle centrali di committenza regionali.
L'articolo modificativo dispone che, per i comuni istituiti a seguito di fusione, l'obbligo decorre dal terzo anno successivo a quello di istituzione. Con l'articolo 23-ter si fissano poi nuovi termini per l'entrata in vigore della disciplina per tutti i comuni non capoluogo di provincia che non abbiano adottato procedure di fusione. Il termine del 1° luglio viene così differito al 01.01.2015, quanto all'acquisizione di beni e servizi; al 01.07.2015 quanto all'acquisizione di lavori.
Viene poi disposta la non applicazione della disciplina medesima agli enti pubblici impegnati nella ricostruzione delle località dell'Abruzzo danneggiate dal sisma dell'aprile 2009 (dl 39/2009); delle località dell'Emilia-Romagna danneggiate dal sisma del maggio 2012 (dl 74/2012); ai comuni con popolazione superiore a 10 mila abitanti, limitatamente agli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore ai 40 mila euro, possibilità che con la legge 89/2014 era stata esclusa espressamente e adesso viene ripristinata (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

ENTI LOCALI - VARI: CIRCOLAZIONE/1 Sosta in città. Una tolleranza di 15 minuti
L'automobilista che tarda a recuperare il veicolo parcheggiato sulle strisce blu non incorrerà in nessuna multa entro 15 minuti dalla scadenza del ticket purché abbia regolarmente pagato almeno un'ora di sosta continuativa. Ma se non espone nulla sono 41 euro di sanzione.

Lo ha chiarito la polizia municipale di Torino con la circolare/informativa 04.08.2014.
La questione della sosta dei veicoli nelle zone a pagamento oltre al termine consentito è salita alla ribalta nei mesi scorsi dopo le dichiarazioni del ministro Lupi immediatamente contraddette, di fatto, dall'Anci.
A parere del ministro dei trasporti per chi sfora l'orario concordato non devono scattare sanzioni ma solo recuperi tariffari. Per l'Associazione dei comuni, invece, il codice stradale prevede una sanzione ad hoc oltre al possibile recupero. Con la delibera torinese l'interpretazione dell'Anci viene tradotta in regole operative introducendo però un nuovo margine di tolleranza per i ritardatari.
Per agevolare l'utente che non riesce a rispettare il termine fissato con il pagamento viene introdotta una franchigia fissa di 15 minuti. Purché l'interessato abbia pagato regolarmente almeno un ora di sosta continuativa. Solo dal 16° minuto scatterà la multa che sarà più salata per chi non paga nulla oppure, se ha pagato il ticket, omette di esporlo sul cruscotto del proprio veicolo (41 euro).
Si conferma infatti, conclude la nota, l'equiparazione della mancata esposizione alla mancata titolarità del biglietto (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

PUBBLICO IMPIEGOMobilità volontaria in cerca del «consenso». Non è chiaro chi deve dare il via libera al trasferimento. Decreto Pa. Molti i dubbi applicativi sollevati dalle nuove regole sul personale.
Inclusione o meno degli oneri dei dipendenti delle società nella base di calcolo dell'incidenza della spesa del personale sulle spese correnti, compiti dei dirigenti nella mobilità, diritti di rogito dei segretari, ambiti di applicazione delle limitazioni ai compensi accessori per gli avvocati ed il personale degli uffici tecnici: sono questi i principali dubbi applicativi sollevati dal Dl 90/2014.
Nelle procedure di mobilità volontaria è scomparso il vincolo dei pareri espressi dai dirigenti del settore in cui il dipendente è impegnato e di quello in cui sarà impegnato, e ha formalizzato la necessità del consenso dell'amministrazione cedente. Da qui la domanda: la competenza ad esprimere il consenso è dei dirigenti? E quale è il ruolo dell'organo di governo? Solamente di indirizzo, come sembrano suggerire i principi generali?
Prima delle assunzioni a tempo determinato di durata superiore le amministrazioni devono verificare l'«impossibilità di ricollocare il personale in disponibilità iscritto nell'apposito elenco». Come si accerta questa impossibilità? Con le procedure previste per le assunzioni a tempo indeterminato dall'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001, che non è richiamato? E vi sono sanzioni in caso di inosservanza? Questo vincolo si applica anche alle assunzioni di dirigenti e responsabili ex articolo 110 Tuel e a quelle degli uffici di staff degli organi politici? Possono essere conferiti ai pensionati incarichi professionali o di componenti di organismi obbligatori, quali i revisori dei conti? E costoro possono essere nominati commissari negli enti locali sciolti?
La disposizione vieta il conferimento di incarichi dirigenziali, di consulenza e di componenti gli organi di governo, con esclusione degli assessori. La risposta dovrebbe essere negativa in base al divieto di interpretazioni estensive o analogiche delle disposizioni che limitano le prerogative individuali.
E chi sono i segretari non dirigenti che possono continuare a percepire i diritti di rogito (la cui base di calcolo è stata peraltro ampliata, mentre è stato abbassato il tetto massimo individuale, per cui la misura del compenso percepito in molti piccoli Comuni crescerà), visto che né il contratto né la legislazione lo stabiliscono? Solo quelli di prima nomina? E i segretari che sono in convenzione tra comuni con e senza dirigenti?
Le nuove limitazioni alla incentivazione dei dipendenti degli uffici tecnici si applicano anche nelle Regioni a statuto speciale? In questi compensi devono essere compresi anche gli oneri per l'Irap? E il divieto di percezione si estende, ma non sembra, ai titolari di posizione organizzativa che svolgono compiti dirigenziali?
E come conciliare la nuova volontà legislativa di collegare la erogazione dei compensi accessori per il personale degli uffici tecnici e gli avvocati alla valutazione delle loro attività?
Finora solo uno dei molti dubbi ha trovato una risposta "istituzionale", peraltro prevedibile: la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti dell'Emilia, con il parere n. 172/2014, ha chiarito che l'abrogazione del divieto di effettuare assunzioni negli enti in cui il rapporto tra spesa del personale e corrente supera il 50% trascina la eliminazione della inclusione degli oneri del personale delle società nella determinazione di tale rapporto
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2014).

ENTI LOCALIAmbiti ottimali obbligatori anche per il servizio idrico. Sblocca-Italia. Rilancio sulle gestioni «associate».
I Comuni devono partecipare obbligatoriamente agli enti di governo dei rispettivi ambiti territoriali per il servizio idrico, che non possono comunque essere inferiori al dimensionamento su base provinciale e devono essere gestiti in forma unitaria.
Il decreto «Sblocca-Italia» prevede una revisione complessiva degli elementi di riferimento per l'ottimizzazione della gestione del ciclo dell'acqua, modificando le disposizioni del Dlgs 152/2006 sull'assetto a rete dei servizi e sui possibili modelli gestionali.
Correlandosi all'impostazione generale definita dall'articolo 3-bis della legge 148/2011, sviluppata in questi anni da alcune Regioni, la nuova prefigurazione normativa conferma la competenza del legislatore regionale in ordine alla definizione degli ambiti territoriali ottimali, chiarendo che se questi corrispondono con il territorio regionale (gli "ambiti unici"), qualora sia necessario per ragioni di efficienza, possono essere ripartiti un sub-ambiti, ma con dimensioni non inferiori a quelle delle province o delle città metropolitane.
Il nuovo quadro normativo ribadisce il ruolo fondamentale dell'ente di governo dell'Ato, al quale hanno l'obbligo di aderire i Comuni che fanno parte dello stesso ambito: in caso di mancata adesione la Regione esercita il potere sostitutivo.
L'ente di governo è chiamato a esercitare tutte le competenze sul servizio idrico, comprese la programmazione delle infrastrutture strategiche e, soprattutto, la scelta della forma di gestione, tra quelle previste dall'ordinamento comunitario: le nuove disposizioni non prefigurano peraltro alcun modello vincolante, consentendo all'ente affidante la scelta più adatta al contesto tra affidamento in house, società mista con socio privato operativo o gara. Il percorso di affidamento deve comunque avvenire nel rispetto delle regole sui servizi pubblici locali a rete, e in questa linea di sviluppo è esplicitato il principio di unicità della gestione per ciascun ambito, per cui al fine di assicurare l'efficienza, l'efficacia e la continuità del servizio idrico integrato, l'ente di governo dell'ambito dispone l'affidamento a un gestore unico di ambito, e questo deve gestire il servizio idrico integrato su tutto il territorio degli enti locali ricadenti nell'ambito territoriale ottimale.
La regolazione del rapporto tra l'ente di governo e il gestore è ricondotta a una convenzione predisposta sulla base dei disciplinari-tipo elaborati dall'Autorità per l'energia: questi modelli devono essere assunti a riferimento anche per i contratti di servizio eventualmente ricondotti a procedure di gara e per la revisione delle convenzioni relative alle gestioni in essere.
Il pacchetto di revisione della disciplina del servizio idrico focalizza l'attenzione anche sulle infrastrutture, definendo una migliore regolamentazione dell'affidamento in concessione d'uso gratuita previsto dall'articolo 153 del Dlgs 152/2006, peraltro correlando questo aspetto al piano d'ambito.
L'approvazione da parte dell'ente di governo dei progetti definitivi delle opere per la realizzazione degli investimenti sulle infrastrutture del servizio idrico viene configurata inoltre come dichiarazione di pubblica utilità, e costituisce titolo abilitativo e, ove occorra, variante agli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale, esclusi i piani paesaggistici
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici, più facile cambiare l'uso. Categorie ridotte a quattro - I bed and breakfast trattati come le abitazioni. «Gazzetta Ufficiale». Le novità introdotte dal decreto legge 133/2014 per il rilancio dei cantieri - La Scia al posto della Dia.
Da ieri sono in vigore le modifiche alla normativa edilizia, sintetizzabili in accelerazioni e rettifiche. La norma che contiene il mosaico di novità è l'articolo 17 del decreto legge 133/2014 («Sblocca–Italia), pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 212 del 13 settembre, con l'intenzione di voler attuare uno sviluppo sostenibile, da un lato recuperando il patrimonio edilizio e dall'altro riducendo il consumo di suolo.
Questa premessa è utile per sovrapporre la nuova norma statale a quelle regionali, dando cioè caratteristiche di generalità e di semplificazione alle innovazioni introdotte, tali da potersi applicare immediatamente anche a livello locale, pur in presenza di norme di dettaglio difformi.
Recupero agevolato
Il recupero del patrimonio edilizio è agevolato con disposizione tecniche di dettaglio e con nuove previsioni. Nuovi sono ad esempio gli «interventi di conservazione», che gli strumenti urbanistici locali possono prevedere individuando edifici «non più compatibili» e che possono essere qualificati con meccanismi misti (compensazioni) e accordi. Accanto al meccanismo di esproprio, strumento troppo rigido e che esige liquidità dell'ente locale, il legislatore prevede la riqualificazione attraverso forme di compensazione, quindi con premi di volumetria e un generale sistema di accordi.
Ciò si legge nell'articolo 3-bis del Dpr 380/2001 inserito dall'articolo 17, comma 1, del decreto 133/2014. I rapporti con i privati sono rimessi alla contrattazione, nel rispetto del pubblico interesse e al fine di garantire imparzialità e buon andamento dell'amministrazione: ciò significa che saranno necessarie pubblicità, consultazione e contraddittorio con le parti interessate (compresi gli imprenditori con progetti in concorrenza). Nell'attesa che parta la riqualificazione, gli edifici non compatibili e incongrui possono solo essere conservati con opere di manutenzione e ristrutturazione, evitandone le demolizioni non giustificate da ragioni di ordine statico o igienico sanitario. In altri termini, non saranno possibili interventi singoli e limitati, ma occorrerà confrontarsi con l'ente locale per riqualificare più ampie aree.
La stessa logica si legge nell'articolo 17, comma 1, lettera e, che amplia le possibilità di interventi in deroga anche in aree industriali dismesse, interventi ora possibili con una delibera del consiglio comunale che attesti l'interesse pubblico a singole, localizzate modifiche di pianificazione. L'innovazione consiste nell'estendere la deroga anche a ristrutturazioni edilizie e urbanistiche, cioè anche a interventi di particolare consistenza come appunto quelli che possono interessare le aree industriali dismesse. Inoltre, le deroghe possono riguardare non solo volume, altezze e distanze, ma anche le destinazioni d'uso, con un'ampia capacità di modificare la pianificazione sulla quale si interverrà con delibera del consiglio comunale.
Ancora nell'ottica del recupero e della riduzione del consumo del territorio, vi sono incentivi attraverso riduzioni degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione (articolo 17, comma 1, lettera g, numero 3 del Dl 133/2014), con benefici per le ristrutturazioni.
Infine, è coniato un nuovo tipo di titolo edilizio, a metà strada tra il permesso di costruire e il piano di dettaglio: si tratta del «permesso di costruire convenzionato» (articolo 17, comma 1, lettera q, che inserisce l'articolo 28 bis nel Dpr 380/2001). Questo titolo edilizio avrà i tempi di istruttoria dell'usuale permesso di costruire, ma con uno spettro più ampio di attuazione, potendo soddisfare non solo esigenze di ampio raggio con cessione di aree e opere di urbanizzazione, ma includere anche interventi di edilizia residenziale sociale (piano casa). Come per i piani di lottizzazione, anche il permesso di costruire convenzionato potrà essere eseguito a stralci.
Le altre modifiche
Vi è poi una serie di modifiche di dettaglio al Dpr 380/2001 che possono collaborare ad agevolare il riuso e il recupero del patrimonio edilizio: in particolare vengono codificate quattro categorie funzionali di destinazione urbanistica (residenziale e turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale; rurale) al cui interno si può intervenire con procedure semplificate, soprattutto se non vi sono opere edilizie, e con oneri ridotti.
In dettaglio, l'articolo 17, comma 1, lettera n), unifica la categoria residenziale e quella turistico ricettiva, agevolando implicitamente i bad and breakfast, nonché le categorie produttive e direzionali, lasciando prevedere che singoli uffici privati possano considerarsi assimilati alle residenze. La destinazione d'uso sarà poi quella "prevalente" in termini di superficie utile, introducendo quindi una possibilità di destinazione mista purché la maggior superficie utile sia coerente a quella consentita
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2014).

APPALTI: Negli appalti. Dall'Anac la cauzione di garanzia.
La cauzione definitiva ha lo scopo di garantire la corretta esecuzione dell'appalto, imponendo all'esecutore del contratto la costituzione di una garanzia fideiussoria pari al 10% dell'importo contrattuale con cui il fideiussore si impegna a risarcire la stazione appaltante del mancato o inesatto adempimento del contraente. La cauzione provvisoria, nella misura pari al 2% dell'importo indicato nel bando di gara o nella lettera d'invito, ha la finalità di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta stessa. Queste alcune delle indicazioni operative necessarie per chiarire alcune criticità riscontrate nell'applicazione dell'istituto della cauzione.

È con la determinazione dell'Anac n. 1 del 29/07/2014 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 88/2014 ) che vengono affrontate le problematiche sull'uso della cauzione provvisoria e definitiva (articoli 75 e 113, dlgs. n. 163/2006).
La cauzione provvisoria può essere costituita, in contanti ovvero in titoli del debito pubblico garantiti dallo Stato oppure sotto forma di fideiussione. Quest'ultima può essere bancaria o assicurativa o rilasciata da intermediari finanziari che svolgono in via esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie e che sono sottoposti a revisione contabile da parte di una società di revisione. Per lo svincolo della cauzione l'Anac ha precisato che la cauzione definitiva viene progressivamente svincolata in base al combinato disposto di cui agli articoli 123, comma 1 del regolamento e 113 del codice dei contratti.
La cauzione garantisce l'esecuzione del contratto, e potrà essere escussa nei limiti del danno effettivo e delle ulteriori voci previste dal citato articolo 123 del regolamento, ferma restando la possibilità di agire per il maggior danno, ove la somma accantonata non sia sufficiente.
Lo svincolo della cauzione è legato allo stato di avanzamento dei lavori nei limiti dell'80% dell'importo garantito e alla consegna al garante del certificato relativo allo stato di avanzamento lavori. È rimessa, invece, alla stazione appaltante la decisione circa l'importo da svincolare, nonché con riguardo alla fase temporale in cui svincolare (articolo ItaliaOggi del 13.09.2014).

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVOROSicurezza con meno burocrazia. Modelli semplificati per la valutazione rischi nei cantieri. In G.U. il decreto previsto dal decreto Fare per la riduzione degli adempimenti formali.
Più facili le pratiche sulla sicurezza del lavoro negli appalti. In attuazione del decreto Fare (dl n. 69/2013), infatti, hanno ricevuto il via libera i modelli semplificati per la predisposizione del Pos (Piano operativo di sicurezza) da parte delle imprese, del Psc (Piano di sicurezza e di coordinamento) e del Fo (Fascicolo dell'opera) da parte dei coordinatori per la progettazione e, infine, del Pss (Piano di sicurezza sostitutivo del Psc) da parte dei committenti.

I nuovi modelli sono stati approvati dal decreto interministeriale 09.09.2014 (lavoro, trasporto e salute), pubblicato ieri sulla G.U. n. 212.
Cantieri temporanei o mobili. La semplificazione tocca gli adempimenti previsti dal T.u. sulla sicurezza (Titolo IV del dlgs n. 81/2008) con riferimento ai cantieri temporanei o mobili.
Per tali il T.u. intende «qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o d'ingegneria civile», vale a dire i lavori di costruzione, di manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o di equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali, comprese le parti strutturali delle linee elettriche e le parti strutturali degli impianti elettrici, le opere stradali, ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche e, solo per la parte che comporta lavori edili o di ingegneria civile, le opere di bonifica, di sistemazione forestale e di sterro; nonché i lavori di costruzione edile o di ingegneria civile gli scavi, e il montaggio e lo smontaggio di elementi prefabbricati utilizzati per la realizzazione di lavori edili o ingegneria civile.
Meno carte. La semplificazione è stata prevista dal decreto Fare (dl n. 69/2013 convertito dalla legge n. 98/2013) che, inserendo l'art. 104-bis al T.u. sicurezza, aveva demandato a specifico decreto interministeriale l'adozione di modelli semplificati relativi a:
a) Piano operativo di sicurezza (Pos);
b) Piano di sicurezza e coordinamento (Psc);
c) Fascicolo dell'opera.
Lo stesso decreto Fare, inoltre, con l'inserimento del comma 2-bis nell'art. 131 del Codice dei contratti pubblici (dlgs n. 163/2006) aveva demandato a specifico decreto interministeriale anche l'adozione di un modello semplificato relativo al piano di sicurezza sostitutivo del piano di sicurezza e coordinamento (Pss).
I modelli semplificati. Il primo modello semplificato è dunque il Pos, ossia il documento di valutazione dei rischi la cui redazione è obbligatoria da parte del datore di lavoro dell'impresa esecutrici dei lavori in un cantiere e con riferimento ad ogni singolo cantiere presso il quale presti l'opera. Il secondo modello semplificato è il Psc, che è parte integrante del contratto di appalto.
Tale piano è costituito da una relazione tecnica e da prescrizioni correlate alla complessità dell'opera da realizzare e alle eventuali fasi critiche del processo di costruzione, atte a prevenire o ridurre i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, nonché la stima dei costi. Il terzo modello è il Fo alla cui redazione è tenuto il coordinatore per la progettazione. Il fascicolo (la redazione è non obbligatoria per le opere di manutenzione ordinaria) deve contenere, tra l'altro, le informazioni utili ai fini della prevenzione e della protezione dai rischi cui sono esposti i lavoratori.
Ultimo modello semplificato è il Pss, cioè il piano di sicurezza sostitutivo del Psc, la cui redazione è obbligatoria da parte dell'appaltatore quando il Psc non sia previsto ai sensi del T.u. sicurezza (articolo ItaliaOggi del 13.09.2014).

GIURISPRUDENZA

VARI: Il notaio verificatore non solo in atti pubblici.
La Suprema corte responsabilizza i notai sulla procedura di autenticazione delle scritture private. Il professionista, così come indicato in una circolare del Consiglio nazionale sulla mediazione civile, è sempre tenuto a verificare il controllo di legalità e la volontà delle parti. Non può circoscrivere queste attività agli atti pubblici.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 12.09.2014 n. 19350.
La causa riguarda una richiesta di annullamento di un atto di compravendita, concluso per procura, da parte di una coppia che la cui figlia lamentava l'incapacità di intendere e volere. Il Tribunale aveva accolto l'istanza con decisione poi confermata dalla Corte d'appello e ora resa definitiva dalla Cassazione. In particolare per la seconda sezione civile l'attività di autentica del notaio non costituisce di per sé prova legale della capacità naturale del sottoscrittore.
Tuttavia, rimane comunque fermo che l'opera del notaio, sia esso rogante in senso proprio o certificante l'autenticità di una sottoscrizione, è comunque diretta ad assicurare che il contenuto dell'atto sia il prodotto di un'attività cosciente e volontaria del sottoscrittore. Fra l'altro, aggiunge ancora la Corte, anche nel caso della autenticazione della scrittura privata, il notaio non può considerarsi esentato dall'obbligo di effettuare le opportune visure e di, quantomeno, segnalare alle parti eventuali anomalie riscontrate.
Questa conclusione, spiega ancora Piazza Cavour, appare avallata da un recente contributo dottrinario che ha messo in rilievo, da un lato, come il Consiglio Nazionale, nell'aggiornare nel 2008 i principi di deontologia professionale, abbia esteso anche alla autenticazione delle firme nella scrittura privata la norma che impone al notaio di svolgere quelle numerose attività nelle quali si sostanzia l'indagine della volontà, originariamente riferita ai soli atti pubblici e, dall'altro, che con la circolare dell'11.10.2011 il Consiglio, nell'indicare le linee guida per dare attuazione all'art. 11 del dlgs 28/2010 in materia di mediazione civile, abbia richiamato il notaio non solo a svolgere il controllo di legalità sulla scrittura privata che si appresta ad autenticare, ma anche l'indagine della volontà delle parti (articolo ItaliaOggi del 13.09.2014).

URBANISTICAL’art. 18, comma 1, l. n. 47 del 1985, ratione temporis vigente ed ora riprodotto dall’art. 30, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, detta una duplice nozione di lottizzazione abusiva.
Si ha una lottizzazione abusiva sostanziale o materiale di terreni a scopo edificatorio “quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
E’ configurabile una lottizzazione abusiva giuridica o negoziale “quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
La condotta sottesa alla integrazione della fattispecie illecita –che integra un grave attentato alle potestà di Governo del territorio previste ed espressamente normate dall’art. 117 della Costituzione, incidendo sulla potestà programmatoria urbanistica e, insieme, sull’assetto del territorio– riposa, quindi, nella erezione di opere (c.d. lottizzazione materiale) ovvero nella intrapresa di iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione negoziale) che comportano una trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
A differenza della lottizzazione abusiva materiale –la quale rileva ex se in relazione al tipo di opere realizzate– la lottizzazione cd. “negoziale" o "cartolare" si fonda sulla presenza di "elementi indiziari", da cui risulti, in modo non equivoco, la destinazione a scopo edificatorio del terreno. Tali elementi indiziari (descritti con elencazione normativa non tassativa) non devono però essere presenti tutti in concorso fra di loro, in quanto è sufficiente anche la presenza di uno solo di essi, rilevante e idoneo a far configurare, con margine di plausibile veridicità, la volontà di procedere a lottizzazione.
Le due tipologie di attività illecite volte alla lottizzazione (lottizzazione materiale e negoziale) possono essere espletate anche congiuntamente (cosiddetta lottizzazione abusiva mista), in un "intreccio" di atti materiali e giuridici comunque finalizzati a realizzare una trasformazione urbanistica e/o edilizia dei terreni non autorizzata, oppure in violazione della pianificazione vigente.
Lo scopo edificatorio, peraltro, non è quello riposto in animo da ciascun proprietario che confidi nell’evoluzione della pianificazione urbanistica in senso a se favorevole, quanto piuttosto quello di colui che intende immediatamente ed in contrasto con la pianificazione vigente, trasformare o favorire la trasformazione urbanistica dell’area creando una nuova maglia urbana.
L’esistenza dello scopo può essere dedotto da una serie di indizi, secondo un’indicazione normativa non tassativa, e solo quando lo stesso è provato, sia pur indiziariamente, può ritenersi integrata la fattispecie che determina la sanzione penale, e quella amministrativa nella specie irrogata (acquisizione al patrimonio disponibile dell’amministrazione).

L’art. 18, comma 1, l. n. 47 del 1985, ratione temporis vigente ed ora riprodotto dall’art. 30, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, detta una duplice nozione di lottizzazione abusiva.
Si ha una lottizzazione abusiva sostanziale o materiale di terreni a scopo edificatorio “quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
E’ configurabile una lottizzazione abusiva giuridica o negozialequando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
La condotta sottesa alla integrazione della fattispecie illecita –che integra un grave attentato alle potestà di Governo del territorio previste ed espressamente normate dall’art. 117 della Costituzione, incidendo sulla potestà programmatoria urbanistica e, insieme, sull’assetto del territorio– riposa, quindi, nella erezione di opere (c.d. lottizzazione materiale) ovvero nella intrapresa di iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione negoziale) che comportano una trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche (cfr. Cons. Stato, V, 19.06.2014, n. 3115).
A differenza della lottizzazione abusiva materiale –la quale rileva ex se in relazione al tipo di opere realizzate– la lottizzazione cd. “negoziale" o "cartolare" si fonda sulla presenza di "elementi indiziari", da cui risulti, in modo non equivoco, la destinazione a scopo edificatorio del terreno. Tali elementi indiziari (descritti con elencazione normativa non tassativa) non devono però essere presenti tutti in concorso fra di loro, in quanto è sufficiente anche la presenza di uno solo di essi, rilevante e idoneo a far configurare, con margine di plausibile veridicità, la volontà di procedere a lottizzazione.
Le due tipologie di attività illecite volte alla lottizzazione (lottizzazione materiale e negoziale) possono essere espletate anche congiuntamente (cosiddetta lottizzazione abusiva mista), in un "intreccio" di atti materiali e giuridici comunque finalizzati a realizzare una trasformazione urbanistica e/o edilizia dei terreni non autorizzata, oppure in violazione della pianificazione vigente.
Lo scopo edificatorio, peraltro, non è quello riposto in animo da ciascun proprietario che confidi nell’evoluzione della pianificazione urbanistica in senso a se favorevole, quanto piuttosto quello di colui che intende immediatamente ed in contrasto con la pianificazione vigente, trasformare o favorire la trasformazione urbanistica dell’area creando una nuova maglia urbana (cfr. Cons. Stato, IV, 16.04.2014, n. 1904).
L’esistenza dello scopo può essere dedotto da una serie di indizi, secondo un’indicazione normativa non tassativa, e solo quando lo stesso è provato, sia pur indiziariamente, può ritenersi integrata la fattispecie che determina la sanzione penale, e quella amministrativa nella specie irrogata (acquisizione al patrimonio disponibile dell’amministrazione) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 12.09.2014 n. 9650 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’art. 38 prevede che, in presenza di società per azioni, la dichiarazione di assenza di pregiudizi debba essere resa dagli «amministratori muniti di potere di rappresentanza».
L’inosservanza di questo obbligo, avente natura cogente, comporta, ai sensi dell’art. 46 dello stesso decreto, l’esclusione dalla procedura.
Il Consiglio di Stato, Ad. plen., con sentenza 30.07.2014, n. 16, ha affermato che la dichiarazione resa da uno dei componenti del consiglio di amministrazione, ai sensi del dPR 445/2000, di insussistenza delle condizioni ostative previste dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 «non deve contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici». La presenza di una dichiarazione sostitutiva così resa, ha puntualizzato l’Adunanza plenaria, «non necessita di integrazioni o regolarizzazioni mediante l’uso dei poteri di soccorso istruttorio».
Tale interpretazione, basata su criteri non formalistici, si pone in linea –ha sottolineato l’Adunanza plenaria– con quanto previsto dall’art. 39 del decreto legge 24.06.2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari) per le gare indette successivamente alla sua entrata in vigore. La nuova disposizione prevede che persino la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive, pur comportamento l’obbligo di pagare una sanzione pecuniaria, impone alla stazione appaltante l’esercizio dei poteri di soccorso istruttorio mediante l’assegnazione di un termine perentorio per la integrazione o regolarizzazione. L’esclusione è prevista soltanto nel caso in cui il concorrente non adempia nel termine assegnato.
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Nel caso in cui la dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 sia stata resa dal legale rappresentate della società nella sua qualità e i singoli componenti del consiglio di amministrazione, identificabili mediante la visione del registro delle imprese, abbiano nel corso della procedura attestato individualmente l’assenza di pregiudizi penali, non è consentito alla stazione appaltante procedere alla loro esclusione.

Il motivo è fondato.
L’art. 38 prevede che, in presenza di società per azioni, la dichiarazione di assenza di pregiudizi debba essere resa dagli «amministratori muniti di potere di rappresentanza».
L’inosservanza di questo obbligo, avente natura cogente, comporta, ai sensi dell’art. 46 dello stesso decreto, l’esclusione dalla procedura.
Il Consiglio di Stato, Ad. plen., con sentenza 30.07.2014, n. 16, ha affermato che la dichiarazione resa da uno dei componenti del consiglio di amministrazione, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445 (Disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa), di insussistenza delle condizioni ostative previste dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 «non deve contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici». La presenza di una dichiarazione sostitutiva così resa, ha puntualizzato l’Adunanza plenaria, «non necessita di integrazioni o regolarizzazioni mediante l’uso dei poteri di soccorso istruttorio».
Tale interpretazione, basata su criteri non formalistici, si pone in linea –ha sottolineato l’Adunanza plenaria– con quanto previsto dall’art. 39 del decreto legge 24.06.2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari) per le gare indette successivamente alla sua entrata in vigore. La nuova disposizione prevede che persino la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive, pur comportamento l’obbligo di pagare una sanzione pecuniaria, impone alla stazione appaltante l’esercizio dei poteri di soccorso istruttorio mediante l’assegnazione di un termine perentorio per la integrazione o regolarizzazione. L’esclusione è prevista soltanto nel caso in cui il concorrente non adempia nel termine assegnato.
Nella fattispecie in esame il Presidente del Consiglio di amministrazione della società ha reso, in qualità di legale rappresentante, una dichiarazione, ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000, attestante la sussistenza dei requisiti generali previsti dall’art. 38 mediante la loro specifica elencazione.
La particolarità della fattispecie in esame, rispetto a quella oggetto della decisione dell’Adunanza Plenaria, sta nel fatto che in questo caso il rappresentante legale non ha espressamente affermato che gli altri componenti del consiglio di amministrazione non abbiano pregiudizi penali.
Nondimeno la dichiarazione deve ritenersi conforme alle prescrizioni legali per le seguenti ragioni.
In primo luogo, perché la dichiarazione –resa dal Presidente del Consiglio di amministrazione, con funzioni di rappresentante legale– presenta un contenuto complessivo riferito all’ente: si afferma, infatti, che la società si trova in una situazione di conformità alla legge.
In secondo luogo, perché i dati identificativi degli amministratori risultano facilmente desumibili dal registro delle imprese.
Infine, perché, a seguito di accertamenti disposti dalla stazione appaltante (verbale 02.07.2010), i due componenti del consiglio di amministrazione hanno comunque reso nel corso della procedura la dichiarazione personale di mancanza di pregiudizi penali.
In definitiva, la Sezione ritiene che nel caso in cui la dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 sia stata resa dal legale rappresentate della società nella sua qualità e i singoli componenti del consiglio di amministrazione, identificabili mediante la visione del registro delle imprese, abbiano nel corso della procedura attestato individualmente l’assenza di pregiudizi penali, non è consentito alla stazione appaltante procedere alla loro esclusione.
Né per pervenire ad una diversa conclusione si possono richiamare, come fatto dalla società resistente, le circostanze, da un lato, che il bando di gara prevedesse che la mancanza dei documenti comprovanti le condizioni di partecipazione fosse causa di esclusione dalla gara, dall’altro, che lo schema di dichiarazione sostitutiva, allegato al bando, prevedesse che le dichiarazioni ex art. 38 dovessero essere rese da tutti i soggetti indicati dall’articolo stesso.
Tali prescrizioni amministrative devono, infatti, essere interpretate in modo conforme a quanto stabilito dalla legge, con la conseguenza che deve ritenersi giuridicamente equipollente, ricorrendo gli specifici presupposti sopra indicati, al requisito prescritto dalla lex specialis della dichiarazione resa “da tutti” la dichiarazione resa “per tutti” dal legale rappresentante (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.09.2014 n. 4666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel contesto dell’art. 125 del codice dei contratti pubblici il principio della “rotazione”, imposto con riferimento alla procedura di “cottimo fiduciario”, appare concepito dal legislatore come una contropartita, o un bilanciamento, del carattere sommario e “fiduciario” della scelta del contraente. Ed invero, il “cottimo fiduciario” è definito dallo stesso art. 125 come «una procedura negoziata... previa consultazione di almeno cinque operatori economici».
Nel pensiero del legislatore, dunque, il cottimo fiduciario non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata (si veda anche l’art. 3, comma 40, dello stesso codice, che contiene la definizione del termine “procedura negoziata”), quindi una scelta ampiamente discrezionale. Tale discrezionalità si esercita in (almeno) due momenti: primo, l’individuazione delle cinque ditte da “consultare”; secondo, la scelta del contraente fra le ditte consultate.
La discrezionalità è temperata, ma non eliminata, da alcuni princìpi, quali la “trasparenza” (che implica il dovere di una previa formulazione e comunicazione dei criteri della scelta, etc.) e, appunto, la “rotazione” (per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo).
Nel caso di specie, l'ente appaltante, pur avendo fatto richiamo al citato art. 125 del codice dei contratti, ha impostato la procedura come una gara vera e propria, da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, ai sensi dell'art. 82, c. 2, lett. (b), dello stesso codice, invitando ben 1771 ditte - vale a dire senza alcuna discrezionalità né alcuna negoziazione.

Conviene osservare che nel contesto dell’art. 125 del codice dei contratti pubblici il principio della “rotazione”, imposto con riferimento alla procedura di “cottimo fiduciario”, appare concepito dal legislatore come una contropartita, o un bilanciamento, del carattere sommario e “fiduciario” della scelta del contraente. Ed invero, il “cottimo fiduciario” è definito dallo stesso art. 125 come «una procedura negoziata... previa consultazione di almeno cinque operatori economici».
Nel pensiero del legislatore, dunque, il cottimo fiduciario non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata (si veda anche l’art. 3, comma 40, dello stesso codice, che contiene la definizione del termine “procedura negoziata”), quindi una scelta ampiamente discrezionale. Tale discrezionalità si esercita in (almeno) due momenti: primo, l’individuazione delle cinque ditte da “consultare”; secondo, la scelta del contraente fra le ditte consultate.
La discrezionalità è temperata, ma non eliminata, da alcuni princìpi, quali la “trasparenza” (che implica il dovere di una previa formulazione e comunicazione dei criteri della scelta, etc.) e, appunto, la “rotazione” (per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo).
Nel caso in esame, l’ente appaltante, pur avendo fatto richiamo all’art. 125 del codice dei contratti, ha impostato la procedura come una gara vera e propria, da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, ai sensi dell’art. 82, comma 2, lettera (b), dello stesso codice, invitando ben 1771 ditte – vale a dire senza alcuna discrezionalità né alcuna negoziazione.
Ma se questo è vero, il principio della “rotazione” –inteso come esclusione dall’invito di un operatore già interessato ad un rapporto contrattuale con la stessa Azienda- appare non pertinente e privo di ogni ragion d’essere.
Ed invero, in una gara siffatta –caratterizzata da un’amplissima apertura e dall’assenza di ogni discrezionalità ovvero fiduciarietà– non vi sono margini per supposti favoritismi (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.09.2014 n. 4661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la realizzazione di una tettoia aperta su tre lati non è, in linea di principio, richiesto il permesso di costruire, essendo sufficiente la presentazione di una denunzia di inizio attività (ora segnalazione certificata di inizio attività a seguito della novella introdotta con l’art. 49, comma 4-bis, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito dalla L. 30.07.2010, n. 122).
Quindi le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti –come quella in esame- costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono.
Tali opere possono ritenersi liberamente edificabili qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente la loro natura pertinenziale per una riconoscibile ed evidente finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza, possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono.
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Per le stesse ragioni, si è ritenuto che una simile struttura rientri tra gli interventi minori per i quali l’art. 167, quarto comma, del D.Lgs. 42/2004 ammette la valutazione della compatibilità paesaggistica postuma, in quanto essi non determinano creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.

Secondo consolidata giurisprudenza dalla quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, per la realizzazione di una tettoia aperta su tre lati non è, in linea di principio, richiesto il permesso di costruire, essendo sufficiente la presentazione di una denunzia di inizio attività (ora segnalazione certificata di inizio attività a seguito della novella introdotta con l’art. 49, comma 4-bis, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito dalla L. 30.07.2010, n. 122).
Quindi le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti –come quella in esame- costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 20.03.2012 n. 1371; TAR Umbria, 29.01.2014 n. 82; TAR Lazio, Latina, 03.03.2010 n. 205; TAR Puglia, Bari, 08.10.2009 n. 2375).
Tali opere possono ritenersi liberamente edificabili qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente la loro natura pertinenziale per una riconoscibile ed evidente finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza, possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono (TAR Campania, Napoli, Sezione III, 25.07.2011 n. 3947): per le stesse ragioni, si è ritenuto che una simile struttura rientri tra gli interventi minori per i quali l’art. 167, quarto comma, del D.Lgs. 42/2004 ammette la valutazione della compatibilità paesaggistica postuma, in quanto essi non determinano creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Tali caratteristiche sussistono nel caso in esame, controvertendosi per l’appunto di una tettoia di modeste dimensioni aperta su tre lati e aderente sul quarto lato a parte del fabbricato, onde la medesima non può ritenersi soggetta a preventivo titolo autorizzatorio edilizio, con conseguente illegittimità della impugnata sanzione demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.09.2014 n. 4869 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Stante la pacifica natura discrezionale degli atti di autotutela decisoria, in tali casi occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi pur sempre di attività di secondo grado incidente su situazioni giuridiche "medio tempore" consolidatesi ed astretta pertanto a stringenti limiti applicativi.
Di conseguenza, a meno che non sussistano ragioni di urgenza da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento, è necessario che l'Amministrazione dia preventivamente notizia all'interessato di voler emanare un atto di secondo grado (quali l'annullamento, la revoca, la decadenza), incidente su posizioni giuridiche originate da un precedente atto, oggetto della nuova determinazione amministrativa di rimozione, in quanto l'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241 consente all'interessato, già nel corso del procedimento, di formulare osservazioni e di proporre documenti, per rappresentare all'Amministrazione l'insussistenza dell'elemento di fatto e, dunque, per evitare l'emanazione di un atto affetto da eccesso di potere per erroneità nei presupposti.
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L’esercizio dell’autotutela investe potestà discrezionali di tal che non può ritenersi che il contraddittorio endoprocedimentale attivato non avrebbe variato il contenuto del provvedimento conclusivo.

... per l'annullamento del provvedimento del comune di Caserta n. 37239/2014 avente oggetto la revoca del nulla osta concesso alla ricorrente per l'abbattimento di un muro.
...
- Ritenuto che, non avendo l’amministrazione inviato alla società ricorrente la comunicazione di avvio del procedimento, nella fattispecie è stata omessa la garanzia procedimentale prevista dall’art. 7 L. 241/1990;
- Considerato, infatti, che, stante la pacifica natura discrezionale degli atti di autotutela decisoria, in tali casi occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi pur sempre di attività di secondo grado incidente su situazioni giuridiche "medio tempore" consolidatesi ed astretta pertanto a stringenti limiti applicativi (Consiglio di Stato sez. VI 20.09.2012 n. 4997);
- Che di conseguenza, a meno che non sussistano ragioni di urgenza da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento, è necessario che l'Amministrazione dia preventivamente notizia all'interessato di voler emanare un atto di secondo grado (quali l'annullamento, la revoca, la decadenza), incidente su posizioni giuridiche originate da un precedente atto, oggetto della nuova determinazione amministrativa di rimozione, in quanto l'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241 consente all'interessato, già nel corso del procedimento, di formulare osservazioni e di proporre documenti, per rappresentare all'Amministrazione l'insussistenza dell'elemento di fatto e, dunque, per evitare l'emanazione di un atto affetto da eccesso di potere per erroneità nei presupposti;
- Ritenuto che nella specie l’amministrazione comunale non ha consentito al ricorrente l’instaurazione del contraddittorio sulle ragioni poste a fondamento della revoca e, in particolare, sulla sussistenza di un presupposto provvedimento di sospensione dei lavori, mai notificato alla ricorrente;
- Ritenuto altresì che, nella presente fattispecie, non osta all’accoglimento del ricorso la previsione dell'articolo 21-octies della legge n. 241 del 1990, in quanto l’esercizio dell’autotutela investe potestà discrezionali e, nella fattispecie, il provvedimento presupposto concerneva una sospensione temporanea dei lavori, di tal che non può ritenersi che -alla stregua della documentazione agli atti- il contraddittorio endoprocedimentale attivato non avrebbe variato il contenuto del provvedimento conclusivo, stante la necessità di chiarire, in ogni caso con la partecipazione dell’interessato, la durata della sospensione e di porre in luce l’eventuale sproporzione, in tal caso, della revoca definitiva del nulla osta all’abbattimento del muro (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.09.2014 n. 4867 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGORiposi al padre se la madre è a casa. Tutela della meternità. Il Consiglio di Stato parifica la posizione della casalinga alla dipendente.
Spettano i riposi giornalieri al pubblico dipendente la cui moglie è casalinga: lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 10.09.2014 n. 4618, che decide una lite tra il ministero dell'Interno ed un assistente di polizia.
La norma applicata è l'articolo 40 del Dlgs 151/2001, il quale prevede riposi giornalieri con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio. La novità che emerge dalla sentenza consiste nella lettura di questo articolo 40, che regola i predetti riposi del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice ma fino ad oggi era interpretato distinguendo tra una casalinga e una lavoratrice dipendente.
Secondo il Consiglio di Stato, occorre dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale posta dall'articolo 31 della Costituzione, e quindi occorre garantire al padre il beneficio dei permessi per la cura del figlio anche quando la madre non abbia diritto ai permessi stessi perché casalinga, situazione che impegna la madre in attività che distolgono dalla cura del neonato.
In questo modo avanza l'assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice dipendente (Consiglio di Stato, 4293/2008), in continuità con la risarcibilità del danno da perdita della capacità di lavoro (Cassazione 20324/2005).
Il Dlgs 151/2001 precisa, infatti, che il beneficio dei permessi spetta al padre «nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente», prevedendo tutte le ipotesi d'inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente della madre, comprese quindi la situazione della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un'attività non retribuita da terzi (se a quest'ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga).
L'orientamento del Consiglio di Stato rispetta il principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura e all'educazione della prole, che ha radici nei precetti costituzionali contenuti negli articoli 3, 29, 30 e 31. Inoltre, il fondamento dell'istituto dei permessi giornalieri consiste nell'estrema difficoltà di cura della prole da parte anche della madre casalinga, specie se si tengono presenti le complesse esigenze di accudimento dei figli nel primo anno di vita, nel corso del quale spettano i predetti permessi.
Del resto, proprio perché i compiti esercitati dalla casalinga risultano di maggiore ampiezza, intensità e responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d'opera dipendente (Cassazione 22909/2012), sarebbe incongruo dedurne, come ha fatto il ministero dell'Interno, l'oggettiva possibilità per la lavoratrice casalinga di conciliare la delicate e impegnative attività di cura del figlio con le mansioni del lavoro domestico.
È, invece, di comune esperienza che l'attività esercitata in ambito familiare spesso necessita, alla nascita di un figlio, di aiuti esterni, utilmente surrogabili, nel caso delle famiglie mono-reddito proprio mediante ricorso al godimento dei permessi di cui all'articolo 40 citato da parte dell'altro genitore lavoratore dipendente.
Inoltre, i riposi giornalieri, una volta venuto meno il collegamento con le esigenze del neonato, hanno la funzione di soddisfare i bisogni affettivi e relazionali per un armonico e sereno sviluppo della sua personalità (Corte costituzionale 104/03), sviluppo al quale devono partecipare ambo i genitori e non solo quello che operi in lavoro casalingo
 (articolo Il Sole 24 Ore del 13.09.2014).

APPALTIIl principio di concentrazione e continuità delle operazioni di gara è un principio solo tendenziale, derogabile in presenza di ragioni oggettive quali la complessità delle operazioni di valutazione delle offerte, il numero delle offerte in gara, l’eventuale indisponibilità dei membri della commissione, la correlata necessità di nominare sostituti ecc. che giustifichino il ritardo anche in relazione al preminente interesse alla effettuazione di scelte ponderate.
Ed ancora, «…il prolungamento delle operazioni di gara, per un notevole lasso di tempo, o anche il cospicuo ritardo nella loro conclusione non è, in sé considerato, prova di un illegittimo svolgimento della gara e, quindi, non costituisce violazione in re ipsa delle regole che ne disciplinano il procedimento. La concentrazione delle sedute di gara è… corollario del più generale principio di imparzialità e di trasparenza. L’elemento temporale viene in rilievo, quindi, solo quale indice di un regolare e, se così può dirsi, “fluido” svolgersi delle operazioni di gara, ma non è un valore in sé, che debba essere tutelato sempre e comunque, indipendentemente dalla tipologia, dalle modalità e, soprattutto, dalle finalità che connotato in concreto la gara…».
Inoltre, la Sezione reputa sì che il fattore tempo concorra a qualificare l’azione amministrativa nei profili del buon andamento e della pronta soddisfazione degli interessi di rilievo pubblico cui è preordinata, ma assume valenza viziante dei provvedimenti adottati solo se siano violate specifiche norme che, al decorso del tempo, colleghino la decadenza della funzione o se il ritardo sia espressione, sul piano sintomatico, di evidenti vizi di eccesso di potere e, in tema procedure concorsuali, induca al sospetto di manomissioni dei plichi contenti le offerte delle ditte ammesse al concorso.
Su quest’ultimo aspetto, d’altronde e da ultimo, la Sezione, ribadisce che, nel caso d’una procedura di gara svoltasi in varie sedute e per un notevole lasso di tempo, si ha un vizio invalidante solo se sia positivamente provato, o quanto meno vi siano seri indizi, che i documenti di gara siano state manipolati negli intervalli fra un’operazione di verbalizzazione e l’altra.

Già la Sezione ha al riguardo affermato (Cons. St., III, 25.02.2013 n. 1169) che il principio di concentrazione e continuità delle operazioni di gara è un principio solo tendenziale, derogabile in presenza di ragioni oggettive quali la complessità delle operazioni di valutazione delle offerte, il numero delle offerte in gara, l’eventuale indisponibilità dei membri della commissione, la correlata necessità di nominare sostituti ecc. che giustifichino il ritardo anche in relazione al preminente interesse alla effettuazione di scelte ponderate.
Ribadisce poi la Sezione (cfr. Cons. St., III, 12.04.2013 n. 1985) che «…il prolungamento delle operazioni di gara, per un notevole lasso di tempo, o anche il cospicuo ritardo nella loro conclusione non è, in sé considerato, prova di un illegittimo svolgimento della gara e, quindi, non costituisce violazione in re ipsa delle regole che ne disciplinano il procedimento. La concentrazione delle sedute di gara è… corollario del più generale principio di imparzialità e di trasparenza. L’elemento temporale viene in rilievo, quindi, solo quale indice di un regolare e, se così può dirsi, “fluido” svolgersi delle operazioni di gara, ma non è un valore in sé, che debba essere tutelato sempre e comunque, indipendentemente dalla tipologia, dalle modalità e, soprattutto, dalle finalità che connotato in concreto la gara…».
Ancora la Sezione (cfr. Cons. St., III, 03.10.2013 n. 4884) reputa sì che il fattore tempo concorra a qualificare l’azione amministrativa nei profili del buon andamento e della pronta soddisfazione degli interessi di rilievo pubblico cui è preordinata, ma assume valenza viziante dei provvedimenti adottati solo se siano violate specifiche norme che, al decorso del tempo, colleghino la decadenza della funzione o se il ritardo sia espressione, sul piano sintomatico, di evidenti vizi di eccesso di potere e, in tema procedure concorsuali, induca al sospetto di manomissioni dei plichi contenti le offerte delle ditte ammesse al concorso.
Su quest’ultimo aspetto, d’altronde e da ultimo, la Sezione (cfr. Cons. St., III, 01.09.2014 n. 4449), ribadisce che, nel caso d’una procedura di gara svoltasi in varie sedute e per un notevole lasso di tempo, si ha un vizio invalidante solo se sia positivamente provato, o quanto meno vi siano seri indizi, che i documenti di gara siano state manipolati negli intervalli fra un’operazione di verbalizzazione e l’altra
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10.09.2014 n. 4605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non v’è una regola che definisce a priori chi debba pronunciarsi sull’istanza di autotutela di cui all'art. 243-bis codice dei contratti, ma giova notare che quest’ultima presuppone la definizione della procedura di gara e dell’aggiudicazione definitiva. In tal caso, la funzione decisoria si deve intendere posta in capo non più al seggio di gara, bensì alla stazione appaltante e per essa al responsabile del relativo procedimento.
Ciò ben s’evince dall’art. 11, c. 5, dall’art. 12 e dall’art. 84, commi 1 e 12 del Dlgs 163/2006, in virtù dei quali l’attività del seggio di gara è limitata al solo svolgimento delle operazioni di gara, tra cui quelle, eventuali, di riconvocazione a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione o dell’esclusione di un concorrente. Viceversa, spetta alla stazione appaltante il controllo finale degli atti di gara, la loro approvazione, l’aggiudicazione definitiva e le altre statuizioni successive alla conclusione della procedura, tra cui, appunto, la definizione dei procedimenti di secondo grado inerenti al riesame (spontaneo o su istanza) di quanto statuito con l’aggiudicazione stessa.
Non importa che, in tal procedimento di secondo grado, siano implicate questioni tecniche proprie della valutazione nel merito delle offerte, giacché ciò non sposta la competenza dal RUP all’ormai dissolto seggio di gara, ma al più ne comporta, come in tutti i casi in cui occorra acquisire un parere di natura tecnica, un mero apporto consultivo.

In primo luogo, non v’è una regola che definisce a priori chi debba pronunciarsi sull’istanza di autotutela di cui al citato art. 243-bis, ma giova notare che quest’ultima presuppone la definizione della procedura di gara e dell’aggiudicazione definitiva. In tal caso, la funzione decisoria si deve intendere posta in capo non più al seggio di gara, bensì alla stazione appaltante e per essa al responsabile del relativo procedimento.
Ciò ben s’evince dall’art. 11, c. 5, dall’art. 12 e dall’art. 84, commi 1 e 12 del Dlgs 163/2006, in virtù dei quali l’attività del seggio di gara è limitata al solo svolgimento delle operazioni di gara, tra cui quelle, eventuali, di riconvocazione a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione o dell’esclusione di un concorrente. Viceversa, spetta alla stazione appaltante il controllo finale degli atti di gara, la loro approvazione, l’aggiudicazione definitiva e le altre statuizioni successive alla conclusione della procedura, tra cui, appunto, la definizione dei procedimenti di secondo grado inerenti al riesame (spontaneo o su istanza) di quanto statuito con l’aggiudicazione stessa.
Non importa che, in tal procedimento di secondo grado, siano implicate questioni tecniche proprie della valutazione nel merito delle offerte, giacché ciò non sposta la competenza dal RUP all’ormai dissolto seggio di gara, ma al più ne comporta, come in tutti i casi in cui occorra acquisire un parere di natura tecnica, un mero apporto consultivo
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10.09.2014 n. 4605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: 1. Servizi pubblici locali di rilevanza economica. Modalità di gestione. Affidamento in house. Discrezionalità. Sindacato del G.A.. Limiti.
1.1. I servizi pubblici locali di rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando all’esito di una gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico–privato (ossia per mezzo di una società mista e quindi con una ‘gara a doppio oggetto’ per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio), ovvero attraverso l’affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall’ente, ma ne che sostituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo, ricorrendo in capo a quest’ultimo i requisiti della totale partecipazione pubblica, del controllo (sulla società affidataria) ‘analogo’ (a quello che l’ente affidante esercita sui propri servizi) e della realizzazione, da parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti che la controllano.
1.2. L’affidamento diretto, in house, costituisce una delle tre normali forme di gestione dei servizi pubblici locali, con la conseguenza che la decisione di un ente in ordine alla concreta gestione degli stessi, ivi compresa quella di avvalersi dell’affidamento diretto, in house -sempre che ne ricorrano tutti i requisiti delineatisi per effetto della normativa comunitaria e della relativa giurisprudenza (si veda sul punto la sentenza della Corte Costituzionale n. 199 del 20.07.2012)- costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e che, come tale, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti.

2. (segue): requisiti dell'affidamento in house cd. controllo analogo. Pluralità di enti pubblici associati. Gestione collegiale. Controllo effettivo sull'affidatario. Posizione del singolo ente. Irrilevante.
2.1. In tema di affidamento in house, il requisito del ‘controllo analogo’ (il controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici) deve intendersi sussistente anche se svolto non individualmente, ma congiuntamente dagli enti associati, deliberando se del caso anche a maggioranza, ma a condizione che il controllo sia effettivo, dovendo tale requisito essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull'ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente.
Occorre, in particolare, verificare che il consiglio di amministrazione del soggetto affidatario in house non abbia rilevanti poteri gestionali e che l'ente pubblico affidante (rispettivamente la totalità dei soci pubblici) eserciti(no), pur se con moduli su base statutaria, concreti ed effettivi poteri di ingerenza e di condizionamento, sicché risulta indispensabile che le decisioni più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante o, in caso di in house frazionato, della totalità degli enti pubblici soci.
2.2. Nel caso di un consorzio formato solo da enti locali e da enti pubblici è irrilevante che uno dei Comuni aderenti non abbia un proprio rappresentante nel Consiglio di Amministrazione, qualora i compiti statutari del Consorzio concernono l’attuazione degli indirizzi espressi dall’Assemblea, la proposta di atti di competenza di quest’ultima ed in via residuale il compimento di tutti gli atti che non siano espressamente riservati all’Assemblea stessa, che costituisce, per espressa definizione, “l’organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo”
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.09.2014 n. 4599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1. Dichiarazioni ex art. 38 cod. appalti. Amministratori cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando. Necessità. Prescrizione della lex specialis che estenda l'obbligo di dichiarazione a tutti gli amministratori cessati nel triennio antecedente. Nullità.
1.1. A seguito delle modifiche introdotte con il D.L. n. 70/2011, l'art. 38 cod. appalti prevede che la sussistenza di cause preclusive alla partecipazione alle procedure concorsuali possa operare esclusivamente con riferimento ai soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara e non più nel triennio antecedente detta data, come disposto in precedenza.
1.2. È nulla, ai sensi dell'art. 46, comma 1-bis, cod. appalti, la prescrizione della lex specialis di gara, bandita nella vigenza dell'art. 38 cod. appalti come novellato dal D.L. n. 70/2011, che preveda l'obbligo delle imprese concorrenti di allegare alle offerte le dichiarazioni circa i soggetti cessati dalla carica nel triennio antecedente la pubblicazione del bando. Trattasi infatti di una clausola che impone una causa di esclusione ulteriore rispetto a quelle normativamente prefissate.

2. Offerte. Sottoscrizione. Soltanto sul frontespizio. Sufficienza.
2.1. Laddove la normativa di gara non preveda in alcuna sua parte uno specifico onere di sottoscrizione degli elaborati compresi nelle offerte e non disponga l'esclusione dalla gara nel caso di inosservanza dello stesso, non va esclusa l'impresa che abbia firmato e timbrato l'offerta esclusivamente sui frontespizi e non anche in calce. Trattasi di un onere siffatto che non è previsto da alcuna specifica disposizione normativa vigente in materia di appalti pubblici.
Di talché va ritenuto che la mancata sottoscrizione “in calce” agli elaborati allegati all'offerta non sia automaticamente riconducibile ad alcuna specifica e testuale causa di esclusione, né ad una delle cause di esclusione previste in via generale dall'art. 46, comma 1-bis, del cod. appalti, il quale prevede l'esclusione dei concorrenti, per quanto qui interessa, nei seguenti casi tassativi:
   a) “incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta” a causa del “difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali”;
   b) “non integrità del plico contenente l'offerta…… o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere…….. che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte”.
2.2. Nelle gare pubbliche di affidamento di appalti, il difetto di sottoscrizione dell'offerta comporta la necessaria ed automatica esclusione del concorrente, soltanto ove determini l'incertezza assoluta sulla provenienza dell'offerta, risolvendosi altrimenti in una mancanza di natura formale inidonea a produrre l'effetto sanzionatorio disposto dalla norma.
2.3. Legittimamente la stazione appaltante non esclude il concorrente che abbia sottoscritto gli elaborati componenti l'offerta tecnica sul loro frontespizio, laddove l'offerta nel suo complesso sia pervenuta all'Amministrazione contenuta in un plico regolarmente sigillato ed incontrovertibilmente riconducibile al medesimo concorrente. In tale ipotesi non può ragionevolmente ritenersi che la sola mancata sottoscrizione in calce di una parte dell'offerta, possa oggettivamente determinare la incertezza assoluta sulla provenienza dell'offerta stessa, riguardata nel suo complesso.
2.4. La carenza di sottoscrizione in calce all'offerta non integra una ipotesi di difetto di altri elementi essenziali ex art. 46-bis cod. appalti, il quale distingue chiaramente le due diverse tipologie di “difetto” ("difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali"), sia sul piano letterale che su quello logico:
   i) sul piano letterale, l'incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta è ricondotta partitamente al difetto di sottoscrizione in modo specifico “o” al difetto di “altri” (e quindi diversi) elementi essenziali, in modo generico.
   ii) sul piano logico, poi, è di tutta evidenza come il primo costituisca parimenti una ipotesi di carenza di un elemento essenziale che il legislatore, però, ha ritenuto di richiamare in via autonoma e distinta rispetto alle altre ipotesi evocate, come già detto, in via generica. Infatti, ove la sottoscrizione cui si riferisce la norma non dovesse essere intesa come elemento essenziale per determinare la provenienza dell'offerta, non vi sarebbe ragione alcuna per comminare l'esclusione dell'offerta stessa in caso di suo difetto.
2.5. Dall'interpretazione letterale e logica dell'art. 46-bis cod. appalti si ricava che il difetto di “sottoscrizione in calce” di una parte dell'offerta complessivamente riguardata, non può di per sé essere ricondotto alla diversa ipotesi contemplata dalla normativa codicistica del difetto di altri elementi essenziali dell'offerta stessa.

3. Avvalimento. Contratto tra impresa ausiliaria e quella ausiliata. Specificità. Necessità a pena di esclusione.
3.1. Dall'art. 88 del d.p.r. 207 del 2010 sriespressamente disponga che “l'oggetto” del contratto di avvalimento di cui all'articolo 49 del Codice dei contratti debba, per quanto qui interessa, necessariamente “riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente……. le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico”.
3.2. In tema di avvalimento dei requisiti di partecipazione ex art. 49 cod. appalti e art. 88 d.P.R. n. 207/2010, l'esigenza di una puntuale individuazione dell'oggetto del contratto di avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico nella generale previsione codicistica che configura quale causa di nullità di ogni contratto l'indeterminatezza (ed indeterminabilità) giust’appunto del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure contrattuali del settore pubblico, nella necessità di non permettere -fin troppo- agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti d'ingresso alle gare pubbliche (requisiti pur solennemente prescritti e, di solito, attentamente verificati nei confronti dei concorrenti che se ne dichiarino titolari in proprio).
3.3. La pratica della mera riproduzione nel testo dei contratti di avvalimento della formula legislativa della messa a disposizione delle risorse necessarie di cui è carente il concorrente (o espressioni similari) si appalesa, oltre che tautologica (e, come tale, indeterminata per definizione), inidonea a permettere qualsivoglia sindacato da parte della Stazione appaltante sull'effettività della messa a disposizione dei requisiti.
3.4. Illegittimamente la stazione appaltante ho omesso di escludere dalla gara l'impresa concorrente che, nel ricorrere all'istituto dell'avvalimento, abbia allegato un contratto di avvalimento non rispettoso dei requisiti essenziali di determinatezza e specificità, prescritti dalla richiamata normativa e richiamati dagli anzidetti principi giurisprudenziali, laddove risulti che il contratto non riporti in modo compiuto ed esplicito le risorse ed i mezzi in concreto prestati e che l'ausiliaria assuma l'impegno assolutamente generico di mettere a disposizione in caso di aggiudicazione le risorse di cui l'ausiliato è carente.
In altri termini, il contratto in questione si sostanzia oggettivamente nella mera e pedissequa riproduzione dei requisiti indicati in maniera necessariamente generale ed astratta nella lex specialis di gara. Nessuna analitica e specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei mezzi in concreto prestati, è rinvenibile nel contratto il quale, di conseguenza, si appalesa generico e come tale non conforme allo schema normativo.

4. Cauzione. Importo. Deposito di cauzione di importo inferiore a quello prescritto dalla lex specialis. Esclusione. Necessità. Soccorso istruttorio. Esclusione.
4.1. Nelle gare pubbliche di affidamento di appalti, ove il disciplinare di gara, a pena espressa di esclusione, imponga ai concorrenti la costituzione di specifico deposito cauzionale nell'importo espressamente predefinito, nonché l'autenticazione notarile della firma del sottoscrittore di tutte le fideiussioni, illegittimamente la Stazione appaltante ha omesso di escludere l'impresa concorrente che abbia erroneamente costituito il richiesto deposito cauzionale in misura inferiore all'importo prescritto, ed abbia successivamente corretto detto errore con una polizza fideiussoria integrativa.
4.2. Ove risulti che un'impresa concorrente a gara pubblica di appalto abbia prestato una cauzione non conforme alle tassative prescrizioni del disciplinare di gara, questa deve con ciò essere esclusa dalla gara stessa. Infatti, in presenza della richiamata clausola del disciplinare assolutamente chiara e non ambigua per i partecipanti, non può esservi ragionevolmente spazio per riconoscere alcun dovere di soccorso istruttorio a carico della stazione appaltante.
Di talché, la successiva integrazione operata dalla concorrente del deposito cauzionale non è ammissibile attesa, da un lato, la natura essenziale dell'adempimento in questione richiesto, a pena di esclusione direttamente dalla lex specialis di gara e, dall'altro, la necessità per tale ragione di far prevalere il diritto dei concorrenti alla parità di trattamento e la tutela del loro interesse alla correttezza dell'intero procedimento.

5. (segue): autentica notarile della firma del sottoscrittore. Necessità.
Non è in ogni caso idonea a sanare l'errore, commesso dalla impresa concorrente a gara pubblica di appalto, che abbia allegato all'offerta un deposito cauzionale inferiore a quello prescritto dalla lex specialis di gara, una fideiussione postuma priva di autentica notarile della firma del sottoscrittore. L'autentica notarile, infatti, è richiesta sul piano formale dal disciplinare di gara a pena di esclusione, ma è altresì preordinata sul piano sostanziale ad evitare, nel caso di mancata conclusione del contratto per fatto dell'affidatario, il rischio di un disconoscimento della sottoscrizione, vanificando così il beneficio di cui al comma 4 dell'art. 75 cod. appalti, secondo cui l'operatività, entro 15 giorni della garanzia, è subordinata alla sola richiesta scritta della stazione appaltante.
6. Risarcimento del danno. In forma specifica. Appalto in corso di esecuzione. Esclusione.
Non può essere accolta la domanda di risarcimento in forma specifica, non ricorrendo i presupposti di cui all'art. 122 c.p.a. per dichiarare inefficace il contratto in essere e disporre il subentro del ricorrente vittorioso in sede giurisdizionale nel contratto di appalto di progettazione e esecuzione di lavori, laddove risulti che, oltre ad essere già stato sottoscritto il contratto, il progetto sia stato approvato e i relativi lavori siano in fase di esecuzione.
7. (segue): per equivalente monetario. Presupposti.
Nel caso in cui l'aggiudicazione di appalto venga annullata perché l'aggiudicatario non è stato escluso dalla gara per aver dichiarato di ricorrere all'istituto dell'avvalimento allegando un contratto generico e indeterminato, va accordata la tutela risarcitoria per equivalente a favore del ricorrente vittorioso in sede giurisdizionale sussistendone tutte le condizioni in quanto:
   i) la colpa è da rinvenirsi in re ipsa, alla stregua dell'univoco e consolidato insegnamento della giurisprudenza amministrativa in subiecta materia;
   ii) l'illegittimità dell'agire della Stazione appaltante è stata accertata in sede giurisdizionale;
   iii) il nesso di causalità emerge in tutta evidenza, avuto riguardo al fatto che l'appalto avrebbe dovuto aggiudicarsi a favore dell'impresa ricorrente in sede giurisdizionale;
iv) il danno è direttamente riconducibile alla mancata esecuzione del contratto.

8. (segue): criteri di liquidazione. Utile di impresa. Onere della prova.
8.1. Ove all'esito del giudizio dinanzi al GA venga annullata l'aggiudicazione della gara di appalto pubblica, va esclusa la pretesa del ricorrente vittorioso in sede giurisdizionale di ottenere direttamente l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, non essendo oggetto di applicazione automatica e indifferenziata.
8.2. È necessaria la prova, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, prova desumibile in primis dall'esibizione dell'offerta economica presentata al seggio di gara. Tale principio di prova, infatti, trova conferma nell'articolo 124 del codice del processo amministrativo che, nel rito degli appalti, prevede il risarcimento del danno per equivalente subito e provato.
Occorre, quindi, verificare se parte ricorrente ha rispettato il principio basilare sancito dall'articolo 2697 del codice civile, secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda: com'è noto, il diritto entra nel processo attraverso le prove, che devono avere ad oggetto circostanze di fatto precise, e si debbono disattendere le domande risarcitoria formulate in maniera del tutto generica, senza alcuna allegazione degli elementi presupposti.
8.3. Laddove gli elementi prodotti in giudizio siano sufficienti ad emettere una pronuncia che statuisca sul quantum spettante a titolo di riparazione pecuniaria a favore del concorrente vittorioso in sede giurisdizionale, ai fini della formulazione della proposta risarcitoria da parte del Comune e l'eventuale raggiungimento di un accordo con la ricorrente ex articolo 34, comma 4, del codice del processo amministrativo, la stazione appaltante deve:
   i) attenersi all'offerta economica presentata dall'appellante in sede di gara;
   ii) valorizzare sul punto l’elaborato contenente le giustificazioni delle voci di prezzo che concorrono a formare l'importo complessivo esibito;
   iii) determinare il margine di guadagno che residua dopo l'applicazione del ribasso indicato in sede di gara;
iv) tenere conto del danno curriculare, da liquidare in via equitativa in un importo non superiore ad un terzo di quanto riconosciuto a titolo di lucro cessante.
8.4. Nel caso di annullamento dell'aggiudicazione dell'appalto pubblico e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se si dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione.
In difetto di tale dimostrazione, che compete comunque al concorrente fornire, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e da qui la decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum, considerato anche che, ai sensi dell'articolo 1227 del codice civile, il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno.
Pertanto, è pienamente ragionevole stabilire una detrazione dal risarcimento del mancato utile nella misura del 30%, laddove l'appellante non fornisca la dimostrazione anzidetta
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.09.2014 n. 4595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Governo del territorio. Trasparenza. Pubblicità degli atti. Loro efficacia.
1.1. In forza dell’art. 39 (rubricato “Trasparenza dell’attività di pianificazione e governo del territorio”) del D.Lgs. 33/2013 (Decreto recante: “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusioni di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”), la P.A. deve pubblicare tutti gli atti di governo del territorio e le loro varianti (così la lettera “a” del primo comma), oltre che gli schemi di provvedimento degli atti stessi prima della loro approvazione (così la lettera “b” del primo comma). La pubblicità degli atti di cui alla lettera a) del primo comma è condizione per l’acquisto dell’efficacia degli atti medesimi (così il comma terzo dell’art. 39).
1.2. L’interpretazione corretta dell’art. 39 D.Lgs. 33/2013, fondata sul significato letterale dello stesso (ai sensi dell’art. 12 delle preleggi), è nel senso che costituisce condizione di efficacia degli atti di governo del territorio, la sola pubblicità di cui alla lettera a) del comma 1° del medesimo art. 39 (in questo senso, il comma terzo è molto chiaro), per cui l’omessa pubblicità degli schemi di provvedimento di cui alla lettera b) del primo comma non priva di efficacia gli atti di governo del territorio di cui alla più volte menzionata lettera a).

2. (segue): Regione Lombardia. Piano territoriale di coordinamento provinciale. Innovazioni al piano adottato in caso di recepimento di osservazioni. Nuova pubblicazione dello strumento urbanistico. Non occorre. Applicazione in via analogica dell'art. 13, comma 9°, L.R. Lombardia n. 12/2005.
2.1. Laddove risulti che le innovazioni apportate in sede di approvazione di Piano territoriale di coordinamento (PTCP) di cui alla L.R. Lombardia n. 12/2005 siano frutto delle controdeduzioni alle osservazioni svolte dagli Enti territoriali ricadenti nell'ambito applicativo del medesimo PTCP e del parere espresso dalla Giunta Regionale ai sensi dell'art. 17 L.R. Lombardia n. 12/2005, può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9°, della LR 12/2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT), vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al PTCP, quale atto di pianificazione generale in ambito però sovra comunale.
2.2. Il comma 9° dell’art. 13 L.R. Lombardia n. 12/2005, nell'escludere la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali, risulta coerente con il prevalente indirizzo giurisprudenziale, formatosi in relazione agli articoli 9 e 10 della legge urbanistica generale n. 1150/1942, secondo cui la pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti sovra ordinati non impone una nuova pubblicazione, salvo lo stravolgimento dei criteri di piano adottati o una sostanziale alterazione della pianificazione.

3. (segue): Rapporto tra livelli di pianificazione. Piano territoriale di coordinamento provinciale. Finalità e contenuto. Previsioni prescrittive. In particolare, tutela beni ambientali.
3.1. In tema di disciplina legislativa regionale lombarda sui PTCP e sul loro rapporto con la pianificazione comunale, in particolare con il Piano di Governo del Territorio (PGT), atto di pianificazione generale del Comune, ai sensi dell’art. 7 della LR Lombardia n. 12/2005, va osservato che il PTCP ha il contenuto di cui all’art. 15 della LR 12/2005 ed è approvato con le modalità procedimentali del successivo art. 17, il quale prevede –l’intervento della Giunta Regionale ai fini della valutazione della conformità alla legge e della compatibilità con gli atti di programmazione regionale (così il comma settimo dell’art. 17).
3.2. Quanto al contenuto, il PTCP ha in parte funzione di programmazione e indirizzo (art. 15, comma 2°, L.R. Lombardia n. 12/2005), e in parte efficacia vincolante e prevalente per i Comuni, che possono in tal caso apportare solo precisazioni e miglioramenti, dovendosi altrimenti conformarsi alla scelta provinciale (art. 15, comma 5°, L.R. Lombardia n. 12/2005).
3.3. Ai sensi dell'art. 18, comma 2°, della LR Lombardia n. 12/2005 hanno efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti del PGT le previsioni del PTCP sulla tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’art. 77 della medesima LR Lombardia 12/2005 (così il comma 2°, lettera a dell’art. 18) e di quelle sulla individuazione degli ambiti di cui all’art. 15, comma 4°, vale a dire gli ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico (così il comma 2°, lettera c, dell’art. 18 LR Lombardia n. 12/2005).
3.4. In tema di individuazione delle aree e delle zone sottoposte a tutela ambientale, per le quali le previsioni provinciali sono prevalenti su quelle dei Comuni, va riconosciuta agli enti locali ampia discrezionalità in sede di pianificazione urbanistica, salvo i casi di manifesta illogicità o irrazionalità.

4. (segue): Piano territoriale regionale. Finalità e contenuto.
4.1. L’art. 77 LR Lombardia n. 12/2005 attiene al coordinamento della pianificazione paesaggistica –di spettanza regionale– con gli altri strumenti di pianificazione, imponendo agli enti locali di adeguare i loro atti di piano agli obiettivi e alle misure generali di tutela dettati dal Piano Territoriale Regionale (PTR), quale piano paesaggistico ai sensi del precedente art. 76 e dell’art. 19 della medesima LR Lombardia n. 12/2005.
4.2. Quanto agli effetti del PTR ed ai rapporti del medesimo con gli altri atti di pianificazione; l’art. 20, comma 5°, della LR Lombardia n. 12/2005, stabilisce che le previsioni di piano regionale di cui al precedente quarto comma (riguardanti, fra l’altro, l’individuazione delle zone di preservazione e salvaguardia ambientale), hanno immediata prevalenza su ogni altra difforme previsione contenuta nel PTCP ovvero nel PGT.

5. Standard urbanistici. Finalità. Compensazione dello sviluppo urbano di zone di completamento. Prescrizioni del Piano Territoriale di coordinamento provinciale che impongano standard superiori a quelli previsti da fonti di rango primario. Illegittimità.
5.1. Al di là del nomen iuris non vi è distinzione tra standard urbanistici e misure di mitigazione ambientale e compensazione territoriale, contemplate dal PTCP, per i progetti di nuova edificazione e consistenti nell’assoggettamento a servitù di uso pubblico ovvero nella cessione gratuita al Comune di aree – non monetizzabili. Tale distinzione è meramente nominalistica, in quanto in concreto entrambe le nozioni si risolvono nel medesimo fenomeno, visto che si tratta di stabilire il rapporto fra spazi destinati all’abitazione o alla produzione e spazi destinati invece a servizi pubblici o a verde, finalizzati appunto a “compensare” lo sviluppo edilizio e urbanistico di altre zone.
5.2. L’attività edilizia e urbanistica impone sempre il reperimento di spazi destinati o a servizi pubblici e collettivi (si pensi alle scuole, ad esempio) oppure destinati al verde, allo svago e al tempo libero e tali spazi rientrano nella nozione comunemente intesa di “standard”.
5.3. Illegittimamente la Provincia, tramite il PTCP, impone ai Comuni il reperimento di standard. Tali standard provinciali si aggiungono a quelli previsti dal PGT e –in assenza di una diversa previsione di rango primario– potrebbero anche superare quelli minimi inderogabili previsti dal DM n. 1444/1968 (a tale proposito sussiste un onere di motivazione specifica in caso di superamento degli standard minimi). La previsione di piano provinciale sull’obbligo di reperimento di standard comunali appare lesiva del principio di legalità dell’azione amministrativa, non esistendo alcuna norma di legge che attribuisca alla Provincia una simile prerogativa.
5.4. La legge regolatrice del contenuto del PTCP (cfr. ancora gli articoli 15 e seguenti della LR Lombardia n. 12/2005), se consente senza dubbio alla Provincia di fissare limiti all’attività edilizia, mediante l’individuazione di aree e zone non edificabili (ponendo quindi a carico dei Comuni un obbligo di non fare, vale a dire un divieto di consentire un’attività di edificazione lesiva di superiori valori di tutela ambientale); non ammette però che la Provincia possa addossare ai Comuni specifici obblighi positivi di fare, vale a dire di reperire standard anche in misura eventualmente superiore a quella risultante dagli strumenti urbanistici comunali, con la conseguenza che le aree a standard, così come reperite, implicherebbero un incremento del patrimonio immobiliare del Comune, con inevitabile aumento dei costi di gestione e manutenzione, che resterebbero in capo al Comune stesso.
5.5. Le norme della LR Lombardia n. 12/2005, che disciplinano il contenuto del PGT e gli oneri di urbanizzazione, non consentono di riconoscere alle Amministrazioni provinciali la prerogative di introdurre standard urbanistici di livello provinciale. L’unico esplicito obbligo positivo da osservarsi in caso di costruzione su suolo libero è quello dell’art. 43, comma 2-bis, L.R. Lombardia n. 12/2005, sulla maggiorazione del contributo di costruzione in caso di interventi che sottraggono superfici agricole allo stato di fatto (norma, quest’ultima, che manifesta l’evidente volontà del legislatore regionale di contenere il consumo di suolo; tale finalità non può però –in mancanza di una superiore previsione di legge– giustificare l’imposizione ai Comuni da parte della Provincia di reperimento di maggiori standard per scopi di mitigazione ambientale e riforestazione).
5.6. La pretesa provinciale di introdurre standard urbanistici provinciali viola l’art. 23 della Costituzione che impone la riserva di legge per gli obblighi di prestazione personale o patrimoniale, oltre il già ricordato principio di legalità dell’azione amministrativa e quello della tipicità degli atti amministrativi.

6. Strumenti urbanistici. Partecipazione. Osservazioni. Loro confutazione. Motivazione specifica. Non occorre.
Le osservazioni presentate dai soggetti interessati ai piani urbanistici –anche quelli sovra comunali, come il PTCP– costituiscono apporti collaborativi, la cui confutazione non richiede una peculiare e specifica motivazione (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.09.2014 n. 2341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Risarcimento del danno per attività amministrativa illegittima. Onere della prova. Ctu. Inammissibilità se di carattere esplorativo.
Va rigetta la domanda di risarcimento del danno per attività amministrativa illegittima, laddove la parte che assume di essere stata danneggiata non abbia offerto in giudizio concreta ed idonea prova, in violazione del principio dell’onere probatorio di cui all’art. 64, comma 1°, del c.p.a. e dell’art. 2697 del codice civile.
In assenza della minima prova del danno, non può essere disposta consulenza tecnica d’ufficio (CTU), in quanto la stessa si risolverebbe in una inammissibile consulenza “esplorativa”.
La consulenza tecnica d'ufficio non costituisce un mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze; in conseguenza suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.09.2014 n. 2341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Atto amministrativo. Motivazione. Funzione. Per relationem. Sindacabilità in sede giurisdizionale della motivazione dell'atto richiamato.
1.1. La funzione della motivazione del provvedimento amministrativo è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l’iter logico-giuridico in base al quale l’amministrazione è pervenuta all’adozione di tale atto, nonché le ragioni ad esso sottese. Lo scopo perseguito è quello di consentire la verifica della correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell’atto considerato.
1.2. L’onere motivazionale, di cui l’art. 3 della L. 241/1990 costituisce norma di principio generale, può ritenersi assolto anche “per relationem”attraverso il richiamo ad elementi contenuti in un diverso atto, che diviene parte integrante del medesimo provvedimento amministrativo. Affinché la motivazione “per relationem” risulti legittima occorre, però, che essa sia completa e logica, proprio in virtù degli elementi contenuti nell’altro atto a cui si rinvia.
1.3. Nel caso di diniego di permesso di costruire è necessario che l'Amministrazione Comunale espliciti le ragioni di fatto poste alla base dell’atto di diniego, anche per rendere edotto il titolare dell’interesse legittimo di carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti.
1.4. Ove l'A.C. fondi il diniego di permesso di costruire sul parere di un organo consultivo integralmente richiamato, senza fornire alcuna ulteriore motivazione aggiuntiva, neanche al solo fine di rafforzare le risultanze istruttorie, ciò determina la necessità del sindacato da parte del Giudice Amministrativo del parere, non essendo stati forniti ulteriori elementi a sostegno dell’iter motivazionale della determinazione assunta dall'A.C..

2. Giusto procedimento. Soccorso istruttorio. Necessità.
Laddove le N.T.A. dello strumento urbanistico generale stabiliscano che gli interventi edilizi siano subordinati al preventivo rilascio di parere favorevole da parte della competente Soprintendenza, l'omessa allegazione all'istanza di p.d.c. di tale parere non è sufficiente a giustificare il diniego di p.d.c., essendo onere dell'Amministrazione Comunale di indicare gli atti istruttori idonei a consentire il reperimento del parere da ritenersi prodromico alla determinazione finale.
In altri termini, l'A.C., anziché rigettare l'istanza di p.d.c., avrebbe dovuto avviare l’istruttoria funzionale al rispetto delle prescrizioni delle N.T.A. e non considerarlo di per sé idoneo ad integrare le ragioni del diniego, senza peraltro evidenziare eventuali inadempienze dell'istante, tali da impedire o di fatto ostacolare, la necessaria integrazione in fase istruttoria. È, infatti, onere dell’Amministrazione indicare le specifiche ragioni in relazione alle quali le opere edilizie non si ritengono adeguate.

3. Permesso di costruire. Diniego per mancanza di strumenti urbanistici attuativi. Comparto già urbanizzato. Illegittimità del diniego.
3.1. Illegittimamente l'A.C. rigetta istanza di permesso di costruire sul presupposto che l'attività edificatoria nell'area interessata dall'intervento edilizio sia subordinata a piani-quadro di iniziativa comunale. In tale ipotesi viene semmai in rilievo un inadempimento dell’amministrazione, che non può riversarsi sul privato cittadino.
3.2. Laddove risulti che l'istanza di permesso di costruire riguardi un'area ricompresa in un comparto avente vocazione edificatoria residenziale e già ampiamente edificato, illegittimamente l'Amministrazione Comunale nega il richiesto p.d.c. sostenendo che un indiscriminato e disordinato rilascio di permessi di costruire porterebbe ad un risultato certamente negativo sotto l’aspetto della pianificazione urbanistica.
In tale contesto è impossibile per l’interessato comprendere le specifiche ragioni che giustificano la determinazione contraria al rilascio del p.d.c., non potendo la motivazione espressa in essa esaurirsi in richiami generici o mere locuzioni di stile.
Deve pertanto ritenersi che il diniego espresso in ordine alla domanda di permesso di costruire contenga una valutazione apodittica che non soddisfa i requisiti minimali della motivazione, non essendo di certo sufficiente il richiamo a degli atti prodromici da adottare, evidenziando essi piuttosto carenze istruttorie dell’amministrazione, che per di più si pongono in contrasto con il dato dell’avvenuta edificazione del comparto in questione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 10.09.2014 n. 1101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’amministrazione ha il potere–dovere di valutare tutti gli elementi richiesti dalla legge ai fini del legittimo rilascio della concessione edilizia, ma del tutto evidentemente essa non è posta in condizione di farlo se taluno di questi viene occultato in forza del comportamento mendace del richiedente.
La “ratio” di questa interpretazione costituisce in realtà un principio generale dell’ordinamento edilizio, se si osserva ad esempio che in materia di condono edilizio, l’art. 31 della legge n. 47/1985 preclude la formazione del silenzio-assenso (per inutile decorso di 24 mesi dall’istanza) in caso di dichiarazione mendace.
Il principio testé delineato vale sia in sede di valutazione dei presupposti per il rilascio del titolo edilizio (legittimando un provvedimento negativo sulla domanda edificatoria) che di quelli necessari per l’annullamento d’ufficio della concessione già rilasciata e che non poteva esserlo ove l’elemento ostativo non fosse stato occultato dal richiedente.

Il punto centrale della controversia verte sulla ragione per la quale il Comune ha emesso i provvedimenti gravati, risiedente nella mendacità, da parte della domanda edilizia dell’interessato, sulla esistenza nell’azienda agricola di fabbricato abitativo già prima dell’originaria domanda di concessione.
Tale situazione, ai sensi dell’art. 3, comma 1, punti 1, della l.r. veneto n. 24/1985, integrando una preclusione del rilascio di ulteriore concessione edilizia, è stata valutata dal Comune come motivo di annullamento della concessione già rilasciata. Contro tale determinazione il TAR ha ritenuto di accogliere il motivo che lamentava la omessa valutazione, da compiersi (ai sensi dell’art. 3, I comma, punto 1 della legge citata) prima dell’annullamento del titolo abilitativo rilasciato, dell’effettiva corrispondenza della costruzione esistente alle esigenze abitative e lavorative dell’imprenditore agricolo.
Contro questa motivazione, l’appellante, nell’ultima parte delle censure svolte, argomenta che illegittimamente il primo giudice avrebbe contestato al Comune la mancata valutazione di detto elemento, non considerando che questa non poteva essere effettuata proprio in ragione della carenza di ogni riferimento all’edificio preesistente. Il motivo è condivisibile, ed ha valenza assorbente.
L’amministrazione ha il potere–dovere di valutare tutti gli elementi richiesti dalla legge ai fini del legittimo rilascio della concessione edilizia, ma del tutto evidentemente essa non è posta in condizione di farlo se taluno di questi viene occultato in forza del comportamento mendace del richiedente. La “ratio” di questa interpretazione costituisce in realtà un principio generale dell’ordinamento edilizio, se si osserva ad esempio che in materia di condono edilizio, l’art. 31 della legge n. 47/1985 preclude la formazione del silenzio-assenso (per inutile decorso di 24 mesi dall’istanza) in caso di dichiarazione mendace.
Il principio testé delineato vale sia in sede di valutazione dei presupposti per il rilascio del titolo edilizio (legittimando un provvedimento negativo sulla domanda edificatoria) che di quelli necessari per l’annullamento d’ufficio della concessione già rilasciata e che non poteva esserlo ove l’elemento ostativo non fosse stato occultato dal richiedente.
Nella fattispecie, in altri termini, il ricorrente ha precluso all’amministrazione proprio l’adempimento del quale il TAR ha osservato la carenza, vale a dire la verifica dell’esistenza di se gli immobili adeguati alle esigenze dell’imprenditore agricolo istante, come indicato dalla citata norma di legge (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.09.2014 n. 4549 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1. Dichiarazioni ex art. 38 cod. contratti. Omissione ab initio. Esclusione. Necessità. Soccorso istruttorio. Impossibilità. Ratio. Valutazione del reato. È attività riservata alla Stazione appaltante.
1.1. Nelle gare di appalto, l’omissione delle dichiarazioni, prescritte in sede di partecipazione dall’art. 38 d.P.R. n. 163/2006, obbliga la Stazione Appaltante ad escludere il concorrente che non abbia prodotto, ai sensi degli artt. 46 e 38 d.P.R. n. 163/2006, le dichiarazioni attestanti l’assenza delle relative condizioni ostative, anche se inesistenti.
1.2. In caso di dichiarazioni incomplete in sede di partecipazione alla gara, la Stazione Appaltante non può ricorrere al cd. soccorso istruttorio, che è volto a chiarire e completare dichiarazioni, certificati o documenti comunque già esistenti, a rettificare errori materiali o refusi, ma non certo a consentire integrazioni o modifiche della domanda.
Il c.d. “soccorso istruttorio” sovviene quando la P.A. ha la disponibilità di intervenire su elementi e dati comunque forniti anche parzialmente e non invece quando non c’è alcunché su cui intervenire ab initio e quindi in presenza di dati per nulla conosciuti dalla Stazione Appaltante perché omessi (nella specie, la dichiarazione sulle precedenti condanne penali del rappresentante legale dell’impresa concorrente era stata del tutto omessa e non poteva quindi essere sanata o regolarizzata o integrata in concreto con la produzione ex novo di dichiarazione o certificazione dall’inizio mancante, rientrando fra i cd. adempimenti doverosi imposti comunque dalla norma e dal disciplinare, e anche a prescindere dalla previsione della disciplina di gara e da ogni visione “sostanzialistica” di tali adempimenti).
1.3. Le procedure concorsuali perseguono il rispetto rigoroso delle regole poste ad assicurare l’imparzialità e la parità di trattamento in tutte le loro fasi, per cui spetta al concorrente il dovere della diligenza nella osservanza delle disposizioni di legge e concorsuali proprio ai fini della tutela dell’interesse al concorso; né tale onere può essere posto a carico dell’Amministrazione, che altrimenti verrebbe a violare proprio quella parità di trattamento, che invece nella fattispecie prevale sul diverso principio del favor partecipationis, dovendosi assicurare certezza agli elementi dell’offerta.
1.4. Nelle gare pubbliche, in tema di dichiarazioni sulla c.d. moralità professionale, in merito alla rilevanza o meno del reato ai fini dell’obbligo dichiarativo, è compito dell’Amministrazione valutare la gravità o meno del reato, che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova, e quindi l’incidenza sulla moralità professionale, e non di certo al concorrente, che non può quindi operare alcun proprio “filtro” in sede di domanda di partecipazione e quindi di dichiarazione in proposito.

2. (segue): compatibilità con il diritto comunitario dell'art. 38 cod. contratti. Sussiste.
2.1. Non sussistono i presupposti per rimettere alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale di interpretazione dell’art. 38, c. 1, lett. b e c) del D.Lgs. n. 163/2006 in rapporto all'art. 45 direttiva 2004/18/CE, dal momento che l’obbligo del rinvio alla Corte di Giustizia richiede una valutazione di compatibilità che spetta anche al Consiglio di Stato, quale giudice nazionale di ultima istanza, laddove il medesimo GA ritenga necessario adottare una decisione tempestiva in linea con i precetti comunitari e che non dia adito con evidenza a ragionevoli dubbi interpretativi sulla corretta soluzione da dare e data alla questione sollevata.
2.2. In tema di dichiarazioni sulla c.d. moralità professionale, va evidenziata la chiarezza delle disposizioni del Codice (segnatamente dell'art. 38 cod. contratti), che attiene ai requisiti indispensabili per la partecipazione agli appalti pubblici, alla tutela della lealtà ed affidabilità delle imprese concorrenti e quindi al rispetto della par condicio e della corretta e leale concorrenza, così come dianzi argomentato estesamente.
Le disposizioni del Codice sono espressive di principi generali anche di derivazione europea e possono trovare, ai fini della ampiezza applicativa, la ratio nella tutela di valori immanenti al sistema della contrattualistica pubblica.
Anche alla direttiva europea sugli appalti pubblici n. 24 del 26.02.2014, non ancora recepita in Italia, impedisce la produzione di dichiarazioni che omettano tutte le informazioni indispensabili ad eseguire le verifiche di ufficio sulla loro veridicità e preclude l’esercizio del potere istruttorio (cfr. A.P. n. 7/2014).
In effetti le norme comunitarie tendono sì a semplificare e ad accelerare i procedimenti, ma non ad eliminare il sistema di attestazione dell’insussistenza delle situazioni ostative quale prova preliminare sostitutiva di certificazioni, che nella direttiva n. 24/2014 vengono ridotte ad un’unica autodichiarazione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 08.09.2014 n. 4543 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ipotesi di esecuzione di un intervento edilizio in assenza di permesso di costruire non ricorrono gli estremi della buona fede con efficacia esimente ex art. 5 c.p., nell’interpretazione datane dalla Corte Cost. con la sentenza n. 364/1988, allorquando l’imputato abbia male interpretato una pur chiara disposizione di legge e non si sia premurato di consultare il competente ufficio per conoscere quali adempimenti egli avrebbe dovuto compiere, erroneamente formandosi il convincimento soggettivo, sulla base di un provvedimento della pubblica amministrazione riguardante opera edilizia diversa da quella abusivamente realizzata, che non fosse necessario alcun titolo abilitativo per la realizzazione di quest’ultima.
Quanto, poi, alla presunta configurabilità, nel caso in esame, di un errore sul fatto che costituisce reato ex articolo 42 c.p., comma 4 (rectius, articolo 47 c.p.), detto errore non può essere utilmente invocato nel caso in esame, in quanto il convincimento soggettivo del ricorrente secondo cui, per la pavimentazione non occorresse il permesso di costruire, non seguiva ad una erronea comunicazione del Comune (che, invece, aveva rilasciato l’autorizzazione ad eseguire la sola recinzione), con conseguente esclusione dell’invocata buona fede del contravventore.
Sul punto, infatti, è stato già in precedenza affermato da questa Corte che, per trovare applicazione il principio enunciato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364 del 24.03.1988 (con la quale detta Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5 cod. pen. nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile) e’ necessario che dagli atti del processo risulti che l’agente abbia fatto tutto il possibile per uniformarsi alla legge, sicché nessun rimprovero, neppure di semplice leggerezza, gli possa essere mosso, e che, pertanto, la violazione della norma sia avvenuta per cause del tutto indipendenti dalla sua volontà (v., sul punto: Sez. 3, n. 2698 del 18/01/1991 – dep. 01/03/1991, Sina, Rv. 186513).
Ne consegue che nell’ipotesi di esecuzione di un intervento edilizio in assenza di permesso di costruire non ricorrono gli estremi dell’esimente suddetta allorquando l’imputato abbia male interpretato una pur chiara disposizione di legge e non si sia premurato di consultare il competente ufficio per conoscere quali adempimenti egli avrebbe dovuto compiere, erroneamente formandosi il convincimento soggettivo, sulla base di un provvedimento della pubblica amministrazione riguardante opera edilizia diversa da quella abusivamente realizzata, che non fosse necessario alcun titolo abilitativo per la realizzazione di quest’ultima.
Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: Nell’ipotesi di esecuzione di un intervento edilizio in assenza di permesso di costruire non ricorrono gli estremi della buona fede con efficacia esimente ex articolo 5 c.p., nell’interpretazione datane dalla Corte cost. con la sentenza n. 364/1988, allorquando l’imputato abbia male interpretato una pur chiara disposizione di legge e non si sia premurato di consultare il competente ufficio per conoscere quali adempimenti egli avrebbe dovuto compiere, erroneamente formandosi il convincimento soggettivo, sulla base di un provvedimento della pubblica amministrazione riguardante opera edilizia diversa da quella abusivamente realizzata, che non fosse necessario alcun titolo abilitativo per la realizzazione di quest’ultima (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2014 n. 36852 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico che per la realizzazione di una pavimentazione in cemento armato è necessario il massimo titolo abilitativo (permesso di costruire), a nulla rilevando la pretesa esiguità dell’intervento rispetto all’estensione complessiva del terreno.
E’ stato già affermato da questa Corte, infatti, che le opere di pavimentazione di un suolo con impiego di conglomerato cementizio importano una modificazione dello stato dei luoghi ottenuta con attività costruttiva che richiede la concessione edilizia.

Osserva il Collegio, quanto all’intervento edilizio in sé, che è pacifico che per la realizzazione di una pavimentazione in cemento armato è necessario il massimo titolo abilitativo (permesso di costruire), a nulla rilevando la pretesa esiguità dell’intervento rispetto all’estensione complessiva del terreno.
E’ stato già affermato da questa Corte, infatti, che le opere di pavimentazione di un suolo con impiego di conglomerato cementizio importano una modificazione dello stato dei luoghi ottenuta con attività costruttiva che richiede la concessione edilizia (Sez. 3, n. 10127 del 06/03/1978 – dep. 25/07/1978, Galletto, Rv. 139840) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2014 n. 36852 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: A causa della sua ratio e in virtù della stessa genericità della sua formulazione, l'autorizzazione ex artt. 7, 8 e 9 del R.D. 30.12.1923 n. 3267 riguarda ogni attività sottoposta a vincolo idrogeologico e immutazione totale o parziale dei luoghi della zona sottoposta a vincolo idrogeologico, ivi compresa in particolare l'attività edificatoria, con la precisazione che detta normativa non esclude che i terreni interessati da vincoli idrogeologici siano interessati dall'attività edificatoria, essendo invece consentito ai proprietari dei terreni vincolati di richiedere la rimozione del vincolo (o anche solo l'autorizzazione al taglio di alcuni alberi) nella misura necessaria a consentire la realizzazione della costruzione.
Il regime autorizzatorio de quo implica in sostanza un controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e dell'equilibrio geologico o idraulico per evitare che eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione dell'ambiente, pregiudicandone l'equilibrio idrogeologico

Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Il R.D. 30.12.1923, n. 3267 ("Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani"), dopo aver previsto all'art. 1 che "Sono sottoposti a vincolo per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi natura e destinazione che, per effetto di forme di utilizzazione contrastanti con le norme di cui agli artt. 7, 8 e 9 possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque", dispone all'art. 7 che "Per i terreni vincolati la trasformazione dei boschi in altre qualità di coltura e la trasformazione di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione sono subordinate ad autorizzazione del Comitato forestale e alle modalità da esso prescritte, caso per caso, allo scopo di prevenire i danni di cui all'art. 1".
La giurisprudenza ha già avuto modo di sottolineare che, a causa della sua ratio e in virtù della stessa genericità della sua formulazione, la autorizzazione in questione riguarda ogni attività sottoposta a vincolo idrogeologico e immutazione totale o parziale dei luoghi della zona sottoposta a vincolo idrogeologico, ivi compresa in particolare l'attività edificatoria (C.d.S., sez. VI, 31.12.1988, n. 1347; 29.03.1983, n. 161; 25.05.1979, n. 395), con la precisazione che detta normativa non esclude che i terreni interessati da vincoli idrogeologici siano interessati dall'attività edificatoria, essendo invece consentito ai proprietari dei terreni vincolati di richiedere la rimozione del vincolo (o anche solo l'autorizzazione al taglio di alcuni alberi) nella misura necessaria a consentire la realizzazione della costruzione (C.d.S., sez. V, 14.04.1993, n. 480).
Il regime autorizzatorio de quo implica in sostanza un controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e dell'equilibrio geologico o idraulico per evitare che eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione dell'ambiente, pregiudicandone l'equilibrio idrogeologico (C.d.S., sez. V, 03.01.1992, n. 4; sez. VI, 02.03.1987, n. 94).
Nella specie, facendo applicazione dei cennati principi giurisprudenziali merita accoglimento, con assorbimento degli altri motivi di ricorso, la censura con la quale si deduce il deficit istruttorio e motivazionale cui è incorsa l’A.R. nel negare il citato nulla–osta.
In particolare, la P.A. regionale ha espresso le seguenti considerazioni: “nota e riconosciuta ai boschi (dalla comunità scientifica), nella specie alle pinete di pino d’aleppo, la funzione di protezione del suolo e di regimentazione delle acque degli eventi idrometeorici critici. Funzioni svolte sia grazie all’apparato fogliare, ed epigeo, che tutela il terreno, ne migliorano la condizione strutturale e quindi sostanzialmente incrementano la capacità di immagazzinamento e di circolazione idrica, riducendo così notevolmente i fenomeni di ruscellamento e ristagno. Tali azioni hanno importantissimi effetti sugli eventi idrometeorici critici, che vanno da una consistente riduzione fino all’annullamento vero e proprio delle conseguenze dei ruscellamenti e dei ristagni superficiali di acque. Ritenuto che la realizzazione del fabbricato con le pertinenze d’uso ha comportato una riduzione della funzionalità del bosco per almeno tali superfici”.
Appare quindi evidente come le valutazioni della Regione siano del tutto scevre da una concreta e compiuta verifica dell’incidenza delle opere sul vincolo in questione; tale verifica non andava effettuata richiamando la notoria e generale funzione degli alberi di protezione del terreno e di regimentazione delle acque, quanto piuttosto analizzando i concreti ed effettivi rischi per la stabilità del suolo e dell'equilibrio geologico o idraulico nella situazione concreta, mediante un corretto bilanciato esame della compatibilità e sostenibilità delle opere edilizie in questione con i valori che il vincolo de quo intende tutelare (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 04.09.2014 n. 2291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO - SINDACATIAccesso sindacale ai referti medici. Tar Milano. L'interesse a valutare eventuali limitazioni alle mansioni del pubblico dipendente prevale sulla riservatezza.
Il sindacato ha diritto di accesso alla documentazione trasmessa al medico competente dal datore di lavoro pubblica amministrazione.
Lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con sentenza 01.09.2014 n. 2288 emessa nei confronti dell'agenzia delle Dogane e dei Monopoli.
Non c'è quindi riservatezza (verso il sindacato) per ciò che riguarda i documenti predisposti in occasione delle visite mediche periodiche dei lavoratori dipendenti, già effettuate e ancora da svolgersi, nell'ambito del Piano di sorveglianza sanitaria: sulla base di tali documenti, infatti, si verifica la permanenza in capo ai lavoratori stessi di limitazioni alle mansioni.
E, proprio per tale motivo, il sindacato può avere accesso, così come avviene per i documenti riguardanti l'organizzazione del lavoro e la materia della sicurezza dei lavoratori. Anche i documenti redatti dal medico competente appartengono, infatti, ad ambiti in cui l'interesse del sindacato è correlato alla finalità dell'organizzazione sindacale, che ha un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti richiesti con istanza di accesso.
Nel caso specifico, l'istanza d'accesso riguardava la permanenza delle limitazioni alle mansioni di 49 dipendenti nell'ambito del piano di sorveglianza sanitaria relativo ad un anno. Il sindacato, in particolare, chiedeva l'accesso alla descrizione delle mansioni svolte dai dipendenti, sulla cui base il medico competente avrebbe poi verificato la sussistenza dei presupposti per l'esclusione da determinate attività.
Si evidenzia che i principi generali in tema di accesso (legge 241/1990) spesso contrappongono sindacati a datore di lavoro pubblico: i risultati più significativi riguardano l'accesso (ottenuto) alla pianta organica della Consob di un determinato un anno e a documenti che esaminavano questioni in relazione alle quali il sindacato stesso aveva formulato osservazioni e rilievi (Cons. Stato 5511/2013); o anche l'accesso agli atti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato per verificare il rispetto della normativa vigente e degli accordi in materia di assunzione del personale con contratto a tempo determinato in assegnazione temporanea proveniente da altre pubbliche amministrazioni (Cons. Stato 1034/2012).
Anche i sindacati dei medici ospedalieri possono accedere agli atti di un ente ospedaliero relativi alla organizzazione dei servizi di guardia dei propri iscritti, agli orari ordinari e non ordinari di servizio, al piano annuale per assicurare le emergenze, e agli atti relativi alla concertazione per la predisposizione dei turni di guardia del Ccnl (Tar Napoli 4690/2012), mentre si è negato l'accesso sindacale (Cons. Stato 4321/2013) agli atti di una Regione (il Lazio) qualora si chiedano documenti per concertare la valorizzazione dei dirigenti interni in termini obiettivi e di retribuzione, con una domanda che non riguardi provvedimenti già individuati e singolarmente idonei a ledere la posizione soggettiva dell'organizzazione sindacale o degli iscritti, bensì riguardi la generalità della attività, le dotazioni organiche, la programmazione triennale ed annuale delle risorse umane e l'affidamento delle strutture dirigenziali
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati. Parcelle solo con la procura.
Circa le prestazioni svolte in giudizio dall'avvocato, al fine del riconoscimento dell'eventuale compenso spettante, è necessario accertare, anche d'ufficio, la validità della procura conferita.

Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione, con sentenza 29.08.2014 n. 18450.
Ne consegue che non può una eventuale invalidità della procura alle liti, da conferirsi nelle forme di legge, essere superata, ai fini del riconoscimento di detto compenso professionale, dal contratto di patrocinio che può riferirsi solo a un'attività extragiudiziaria, svolta dal professionista legale in favore del proprio cliente, sulla base di un rapporto interno, di natura extraprocessuale, con il cliente stesso, rapporto ben distinto, quindi, dal mandato «ad litem».
Inoltre sembra opportuno rammentare che, mentre la procura «ad litem» costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio con le forme previste dall'art. 83 c.p.c., il mandato sostanziale costituisce un negozio bilaterale (contratto di patrocinio) con cui il professionista viene incaricato di svolgere la sua opera professionale in favore della parte, secondo la schema proprio del mandato (Cass. n. 13963/2006; n. 10454/2002).
Va, innanzitutto, rammentato in via del tutto preliminare e in ossequio anche con la giurisprudenza della Cassazione stessa, che la procura alle liti costituisce il presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale e può essere conferita, con effetti retroattivi, solo nei limiti stabiliti dall'art. 125 c.p.c. il quale prevede che la procura al difensore può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell'atto, purché anteriormente alla costituzione della parte rappresentata (Cass. s.u. n. 10706/2006; Cass. n. 9464/2012).
Infine, in difetto di un conferimento di una procura alle liti per la rappresentanza e difesa in giudizio, non insorgendo un rapporto professionale tra patrono e cliente, non è neppure consentito determinare il contento economico del compenso professionale, secondo le norme inderogabili di cui alla legge n. 794/1942 in materia di prestazioni giudiziali degli avvocati in sede civile (Cass. n. 28718/2008) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.20.

VARIVisure, il notaio può respirare. Responsabilità nei limiti dei danni realmente prodotti. CASSAZIONE/ Una sentenza interviene sull'omessa effettuazione dell'adempimento.
Responsabilità del pubblico ufficiale per omessa effettuazione delle visure ipotecarie e catastali: ferma restando la negligenza professionale, il notaio risponde nei limiti del danno effettivamente prodotto.
È quanto stabilito nella sentenza 26.08.2014 n. 18244 della III Sez. civile della Corte di Cassazione, nella quale i giudici hanno chiarito i confini del quantum debeatur.
Il caso sul quale sono stati chiamati a intervenire aveva a oggetto la richiesta di condanna al risarcimento danni che un cliente aveva rivolto al professionista, responsabile per il fatto che «lo stesso non aveva effettuato con la necessaria diligenza le visure ipotecarie e catastali».
«Costituisce approdo esegetico pacifico nella giurisprudenza di questa Corte», spiega all'uopo il collegio giudicante, «che, per il notaio richiesto della preparazione e della stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei pubblici registri, attraverso la loro misura, rappresenta, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall'incarico conferitogli dal cliente, di talché l'inosservanza dello stesso dà luogo a responsabilità ex contractu del notaio medesimo per inadempimento della prestazione d'opera intellettuale demandatagli».
Da ciò scatterebbe l'azione di responsabilità contrattuale «se e nei limiti in cui il danno si sia effettivamente verificato» e il cui accertamento dipende dalla valutazione della situazione economica nella quale si sarebbe venuto a trovare il cliente «qualora il notaio avesse diligentemente adempiuto la propria prestazione».
Ora, dal momento che nel caso di specie il cliente aveva già versato buona parte del corrispettivo per l'acquisto dell'immobile gravato da iscrizioni pregiudizievoli agli alienanti (i quali, in sede di stipula, avevano garantito «la libertà dei cespiti da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli»), i giudici hanno ritenuto che dall'ammontare dei danni che il professionista era stato condannato a pagare venissero «detratte le somme corrisposte dall'acquirente prima della sottoscrizione dell'atto» (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARICIRCOLAZIONE/2 Poteri prefettizi. Autovelox fisso, tratti ritagliati.
Il prefetto ha facoltà di eliminare un tratto di strada dall'elenco di quelli ammessi alla rilevazione automatica della velocità. E il comune ha le mani legate sulla scelta discrezionale del rappresentante governativo.

Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 26.08.2014 n. 4321.
Un comune molisano ha proposto con successo ricorso al Tar contro la decisione del prefetto che ha eliminato dall'elenco autorizzato per i controlli autovelox automatici un tratto stradale di interesse municipale. Contro questa determinazione la prefettura ha avanzato censure ai giudici di palazzo Spada che hanno accolto le doglianze.
L'elenco delle strade sulle quali è possibile installare misuratori automatici di velocità ai sensi del dl 121/2002 può essere modificato dal prefetto senza problemi. Il decreto del rappresentante governativo, prosegue la sentenza, è infatti un atto ampiamente discrezionale ispirato a complessive valutazioni di opportunità. L'installazione dei controllori automatici della velocità sulle strade inoltre non è una regola ma una eccezione.
In buona sostanza la prefettura decide dove posizionare i vigili elettronici e all'occorrenza revocare l'autorizzazione all'uso dell'autovelox fisso per intervenute modifiche delle condizioni oggettive del tratto stradale interessato dal controllo. Oppure semplicemente per motivi di opportunità derivanti da un cattivo utilizzo del misuratore da parte della polizia locale (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

EDILIZIA PRIVATAL'occhio del comune sulle pizzerie. Possibile imporre le manutenzioni periodiche.
Niente pizza con la fuliggine. Il sindaco può ben bloccare il forno a legna del ristorante: il gestore non può tornare a usarlo se non fa pulire una buona volta la canna fumaria del locale, programmando poi la manutenzione periodica. L'ordinanza è legittima perché resta nel perimetro dei provvedimenti «contingibili e urgenti»: non impone infatti «interventi definitivi», invadendo il campo dell'azienda sanitaria locale e dei vigili del fuoco, ma si limita a prescrivere misure di buon senso di fronte agli inconvenienti di natura igienica e sanitaria rilevati dai tecnici Asl.

È quanto emerge dalla sentenza 17.06.2014 n. 3081, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Confinante scomodo
Riescono a stoppare lo scomodo vicino i residenti che si ritrovano la fuliggine in casa per colpa del locale sul corso che sforna pizze a ciclo continuo: il sopralluogo dell'Asl, avvenuto dopo l'esposto di un gruppo di vicini guidato da un architetto, rileva ben più di mere emissioni fastidiose ex articolo 844, primo comma c.c.: più del disagio c'è un vero e proprio rischio per la collettività. Il blocco al forno a legna è imposto al gestore dell'esercizio e al proprietario dei locali.
E il sindaco del comune ligure ha il potere-dovere di intervenire in base al testo unico degli enti locali: in effetti, osservano i giudici di palazzo Spada, l'amministrazione locale si limita a prescrivere misure anche a tutela della stessa clientela dell'esercizio pubblico: senza un'«accurata pulizia della canna fumaria» e una «periodica manutenzione» disposte dal primo cittadino aumentano i rischi di incendio nell'esercizio oltre che i problemi per i vicini. È vero: bloccando il forno a legna la pizzeria non può lavorare perché il prodotto non è lo stesso se cotto in un altro modo, ma chi intende proseguire la tradizione nella preparazione della pietanza non può ritenersi esonerato da interventi, anche onerosi, che ne garantiscano il risultato.
Né si può ritenere che il sindaco sia andato oltre i suoi poteri con il provvedimento laddove prescrive una «eventuale installazione di dispositivi atti a trattenere le particelle di fuliggine»: si tratta di un'imposizione soltanto ipotetica, vale a dire necessaria soltanto se la pulizia e la manutenzione della canna fumaria si rivelassero insufficienti per evitare gli inconvenienti. Il ristoratore paga le spese al comune (articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014).

ESPROPRIAZIONE: OPPOSIZIONE ALLA STIMA ESPROPRIATIVA, SUOI CRITERI DI COMPUTO, IMPOSSIBILITÀ DI CONFIGURARE LA FORMAZIONE DI GIUDICATO O ACQUIESCENZA SULLA STESSA.
Per effetto della declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 5, commi 1 e 2, D.L. n. 333/1992 (Corte cost. n. 348/2007) i criteri previsti, in via suppletiva, dall’art. 2, comma 89, L. n. 244/2007 si applicano -perché introdotti come modifica dell’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. n. 327/2001- alle sole procedure espropriative soggette a tale DPR, ossia a quelle in cui la dichiarazione di p.i. sia intervenuta dopo la sua entrata in vigore (30.06.2003) mentre per le procedure soggette al regime pregresso rivive l’art. 39 della L. n. 2359/1865.
Circa l’individuazione del criterio legale di stima, non è concepibile né la formazione d’un giudicato autonomo né acquiescenza allo stesso, poiché il bene della vita alla cui attribuzione tende colui che si oppone alla stima è l’indennità, liquidata nella misura di legge, non già l’indicato criterio legale.
La Corte di appello di Firenze condannò un Comune a corrispondere ad alcuni privati le somme dovute per indennità di espropriazione (comprensiva dell’indennità aggiuntiva per conduzione diretta) e indennità d’occupazione per un terreno di proprietà degli stessi, oltre a quanto già corrisposto in sede di cessione volontaria del medesimo terreno.
Questo, in ragione del fatto che l’area era di riconosciuta natura edificabile e il suo valore di mercato era stato determinato in conformità dell’art. 5-bis, commi 1 e 2, del D.L. n. 333/1992. In rapporto a ciò, l’indennità di occupazione era da corrispondersi in misura del 5% annuo dalla data d’immissione in possesso a quella dell’atto di cessione. Ancora, la Corte territoriale riconobbe agli attori l’indennità per la diretta conduzione del fondo. Rispetto a quanto corrisposto in sede cessione volontaria era quindi integrata la somma a credito degli attori, oltre a interessi in misura legale.
Avverso tale statuizione gli espropriati propongono ricorso per Cassazione, dolendosi che l’indennità di espropriazione -alla quale commisurare il conguaglio dovuto- sia stato determinato ai sensi dell’art. 5-bis, commi 1 e 2, D.L. n. 333/1992, costituzionalmente illegittimo giusta sentenza Corte cost. n. 348/2007. Si sarebbe dovuto, così, computare sulla base del valore venale del terreno, maggiorato del 10% come previsto dall’art. 2, commi 89 e 90, della L. n. 244/2007.
Il Comune ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, deducendo che, dopo la declaratoria d’incostituzionalità, tra le parti era intervenuta una transazione sul pagamento d’indennità e interessi riconosciuti dalla sentenza d’appello e che, in ogni caso, i ricorrenti avevano prestato acquiescenza alla sentenza qui gravata. La Corte rigetta l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, evidenziando che non vi fu acquiescenza ma la mera esecuzione della sentenza della Corte territoriale, sicché i ricorrenti si sono limitati a consentire il pagamento rateizzato di quanto statuito dal giudice di merito, senza che sia sopraggiunto alcun accordo transattivo tra le parti sull’ammontare dell’indennità d’esproprio. In ragione di che, tal condotta neppure può assumere rilevanza in termini di acquiescenza rispetto alla sentenza impugnata (sin da Cass. n. 1770/1971, n. 1770; n. 3460/1980).
Nel merito, la Corte ritiene fondato il motivo di gravame, nei limiti di seguito precisati.
La declaratoria d’incostituzionalità ha efficacia (art. 30, comma 3, L. n. 87/1953) con riguardo a tutti i giudizi pendenti alla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale restandone esclusi -salva la materia penale, in ossequio del favor rei- i soli rapporti esauriti in modo definitivo, per sopravvenienza di giudicato, preclusione, decadenza, prescrizione o per ogni altro istituto al cui verificarsi l’ordinamento faccia dipendere il consolidamento del rapporto.
Circostanze, nello specifico, mai verificatesi. Infatti, per l’individuazione del criterio legale di stima non è concepibile né la formazione d’un giudicato autonomo né acquiescenza allo stesso, poiché il bene della vita alla cui attribuzione tende chi si oppone alla stima è l’indennità, liquidata nella misura di legge, non già l’indicato criterio legale (Cass. civ. n. 10379/2012; n. 19345/2011; n. 18963/2011; n. 22409/2008; n. 21143/2007).
Nella determinazione dell’indennità di esproprio, per effetto della dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 5, commi 1 e 2, del D.L. n. 333/92 (sentenza Corte cost. n. 348/2007) i criteri previsti in via suppletiva dall’art. 2, comma 89, L. n. 244/2007, in quanto introdotti come modifica dell’art. 37, commi 1 e 2 del D.P.R. n. 327/2001, si applicano alle sole procedure espropriative soggette a tale DPR, ossia a quelle in cui la dichiarazione di p.i. sia intervenuta dopo la sua entrata in vigore, ossia il 30 giugno 2003, secondo le previsioni dell’art. 57 (come modificato dal D.Lgs. 27.12.2002, n. 302), mentre nelle procedure soggette al regime pregresso rivive l’art. 39 della cd “legge fondamentale sulle espropriazioni” ossia la L. n. 2359/1865.
Sicché va fatto riferimento al valore di mercato, in ragione del fatto che la norma intertemporale (art. 2, comma 90, L. n. 244/2007) prevede la retroattività della nuova disciplina di determinazione dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi (cfr. Cass. civ. n. 6798/2013; n. 11480/2008; n. 28431/2008).
Per l’effetto, il conguaglio da liquidare ai ricorrenti va determinato in misura pari alla differenza tra valore venale del bene e quanto già corrisposto (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 16.05.2014 n. 10788 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

ESPROPRIAZIONE: INCIDENZA DI UN VINCOLO CONFORMATIVO SULL’INDENNITÀ DI ESPROPRIO.
L’ammontare dell’indennità va determinato con riferimento alla data del provvedimento ablatorio e avuto conto del regime urbanistico vigente al momento del decreto di espropriazione: è quindi necessario, ai fini della valutazione indennitaria del bene, tener conto di tutti gli elementi a carattere conformativo e, tra questi, dell’esistenza d’un vincolo archeologico, che si sovrappone alla stessa disciplina urbanistica che a esso deve conformarsi, posto che la natura conformativa dei vincoli paesaggistici e storico-artistici non può considerarsi azzerata dai recenti interventi della Corte costituzionale che, nell’intento di assicurare il ristoro costituzionalmente garantito per la privazione autoritaria dei beni in proprietà, ha ristabilito il fondamentale criterio indennitario del valore venale.
La controversia origina da un’opposizione all’indennità di occupazione e alla stima espropriativa, proposta da alcuni privati contro un Comune, per un terreno di loro proprietà, assoggettato a procedura ablativa per opere di valorizzazione di un parco archeologico.
La Corte territoriale, ritenuto di qualificare il suolo, in larga parte, come edificabile secondo azzonamento evincibile dal PRGC, determinava le indennità per l’esproprio e per l’occupazione. Nel primo caso applicava il criterio del valore venale dimezzato del 50% (per la presenza di vincolo archeologico, che pur non determinando l’inedificabilità assoluta, incide sul valore) nel secondo caso il criterio del valore agricolo medio.
Il Comune ricorre per Cassazione, che accoglie il ricorso.
La Corte parte da una premessa, inerente alla natura e agli effetti del vincolo archeologico, rispetto alla quale la Corte territoriale, nella determinazione del valore dei beni, fa prevalere il regime urbanistico delle aree, considerate in larga parte e così commisurando le indennità da corrispondere.
Sussiste, invero, un indissolubile nesso fra indennità di espropriazione e momento del trasferimento della proprietà del bene: l’ammontare dell’indennità va determinato con riferimento alla data del provvedimento ablatorio, in relazione al regime urbanistico al momento del decreto di espropriazione.
È necessario, ai fini della valutazione indennitaria del bene, tener conto di tutti gli elementi a carattere conformativo e, tra questi, del vincolo archeologico, che si sovrappone alla stessa disciplina urbanistica che a esso deve conformarsi (Cass. civ. n. 18681/2005; n. 10102/2008). L’esistenza di un vincolo archeologico fa classificare il medesimo come non edificabile, rientrando tra le limitazioni legali della proprietà fissate in via generale, con conseguente incidenza negativa sul valore di mercato dei beni coinvolti, divenuti legalmente  inedificabili, e quindi sul calcolo dell’indennità di espropriazione (Cass. civ. n. 25721/2011).
Né, ad avviso della Corte, la natura conformativa dei vincoli paesaggistici e storico-artistici è da considerare azzerata dai recenti interventi della Corte costituzionale, che nell’intento di assicurare il ristoro costituzionalmente garantito per la privazione autoritaria dei beni in proprietà, ha ristabilito il fondamentale criterio indennitario del valore venale.
Del resto, occorre soffermarsi sulla prevalenza del regime ostativo all’esplicazione dello ius aedificandi al cospetto di esigenze che vanno oltre l’interesse all’ordinato sviluppo del territorio, cui sovrintendono gli strumenti urbanistici, che finiscono per prevalere sull’ordinaria esplicazione delle facoltà connesse all’esercizio del diritto dominicale. La stessa CEDU fa salvo il diritto degli Stati di disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale. Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si coglie il principio di una necessaria proporzionalità tra interesse pubblico perseguito e proprietà privata ma, di sicuro, non si esclude che alla proprietà possa venire imposto un particolare sacrificio per salvaguardare interessi culturali. La limitazione alla proprietà per superiori ragioni d’indole culturale è stata ricondotta dalla Corte di Strasburgo a ragioni d’interesse generale che, per l’art. 1, prot. 1, II parte, CEDU, giustificano l’apposizione del vincolo senza indennizzo.
La situazione non muta neppure con riguardo all’assetto costituzionale, ove il sistema di tutela del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico e artistico, giustificano l’affermazione di limitazioni all’uso della proprietà dei beni vincolati, senza ostacolarne peraltro la commerciabilità o una redditività diversa da quella dello sfruttamento edilizio, alla luce dell’equilibrio costituzionale tra interessi in gioco, che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte all’esigenza di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali (art. 9 Cost.), in attuazione della funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost., comma 2), come ritenuto  anche in sede di incidenza del vincolo archeologico sull’attività di impresa (Cass. civ. n. 2962/2014; n. 3670/2014) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 16.05.2014 n. 10785 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

ESPROPRIAZIONE: CONSEGUENZE DELL’OCCUPAZIONE DI UN FONDO DIVENUTA ILLEGITTIMA PER L’ANNULLAMENTO DEL DECRETO D’ESPROPRIO DA PARTE DEL G.A..
L’occupazione di un fondo privato, divenuta illegittima per effetto dell’annullamento da parte del g.a. del decreto di espropriazione, comporta per l’espropriante l’obbligo alla restituzione dell’immobile in capo al proprietario, non essendo configurabile una “occupazione espropriativa” il cui fondamento è nella conservazione alla mano pubblica di un’opera destinata a soddisfare un interesse della p.a. e, quindi, un’opera intrinsecamente pubblica.
Alcuni privati, espropriati, convennero in giudizio, avanti il Tribunale ordinario, un ente pubblico per ottenere - con risarcimento danni - la restituzione di un’area a loro espropriata, previa occupazione d’urgenza, in forza di un provvedimento amministrativo annullato dal g.a. con sentenza passata in giudicato. Le convenute amministrazioni resistevano alla domanda, sostenendo sussistere un’accessione invertita della quale chiedevano, in via riconvenzionale, declaratoria.
Il Tribunale accolse la domanda, compresa quella risarcitoria.
Sul proposto appello, la Corte territoriale dichiarava compiuta in favore dell’Ente l’accessione invertita del suolo, rigettando l’originaria domanda.
I privati ricorrono per Cassazione, che accoglie il ricorso, annullando con rinvio la sentenza gravata. Pur a fronte delle censure mosse contro la declaratoria di accessione invertita -sostenendo esserci un’occupazione usurpativa- la Cassazione richiama la propria costante giurisprudenza per cui l’illegittima occupazione d’un fondo privato in seguito all’annullamento, da parte del g.a., del decreto di espropriazione comporta l’obbligo dell’espropriante alla restituzione dell’immobile al proprietario, non essendo configurabile una vicenda di “occupazione espropriativa” il cui fondamento è nella conservazione alla mano pubblica di un’opera destinata a soddisfare un interesse della p.a. e, quindi, un’opera intrinsecamente pubblica (cfr. sin da Cass. n. 7514/2011).
Infatti, osserva la Corte, la realizzazione senza titolo di opere e manufatti di natura privata su terreno altrui, pur se  conformi agli strumenti urbanistici e autorizzati dall’autorità comunale, è disciplinata non dalla regola dell’occupazione appropriativa, ma dall’art. 934 c.c..
Esso, ponendo il principio dell’accessione, stabilisce che la costruzione si incorpora al suolo ed appartiene immediatamente al proprietario di questo, senza attribuire rilevanza alcuna alla sua consistenza o alla sua destinazione né alla coincidenza (o meno) degli interessi dell’esecutore con quelli della collettività, pur rivelati da una dichiarazione di pubblica utilità, conseguendo da ciò che la costruzione su fondo altrui di opere e manufatti appartenenti a privato, ma in assenza di provvedimenti di esproprio o asservimento, configura un fatto illecito  di natura permanente, che obbliga al risarcimento del danno non già il Comune che ha dato luogo all’occupazione (tenuto all’indennizzo relativo), bensì l’autore dell’illegittima detenzione del bene dopo la scadenza del periodo di occupazione, per non aver consentito al proprietario il pieno ed esclusivo godimento del fondo (Cass. n. 23798/2006) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 15.05.2014 n. 10680 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

ESPROPRIAZIONE: INSERIMENTO DI UN TERRENO IN AREA PEEP E INDENNITÀ D’ESPROPRIO.
Un piano di edilizia economica e popolare conferisce, per effetto della sua stessa approvazione, il requisito dell’edificabilità legale a tutte le aree in esso inserite restando irrilevante che -secondo le specifiche previsioni del piano- alcune di tali aree siano destinate alla costruzione di strade o riservate a parchi o giardini a servizio della zona.
Questo, perché tali specifiche previsioni non assumono carattere conformativo del territorio ma costituiscono veri e propri vincoli preordinati all’esproprio, perché limitati e funzionali all’interno di una zona urbanistica omogenea a diversa destinazione generale ed incidenti su beni determinati, sui quali si localizza la realizzazione dell’opera pubblica, e non possono pertanto comportare mutamento della classificazione legale dei terreni che ne sono oggetto.

Il Tribunale ordinario, accogliendo la domanda proposta da un’Opera Pia nei confronti di un Comune, condannò l’Ente convenuto a risarcire il danno subito dall’attrice per la perdita di un terreno di sua proprietà, occupato e irreversibilmente trasformato in difetto di emissione del decreto d’esproprio.
Ancora, in ragione della ritenuta natura edificabile del bene, ricadente interamente in area PEEP, liquidò a titolo risarcitorio, in applicazione dell’art. 5-bis, comma 7-bis, della L. n. 359/1992 una somma, attualizzata alla data della decisione, oltre a interessi.
La decisione, oggetto di reciproci appelli, fu riformata dalla Corte territoriale che ritenne il terreno - pur interamente inserito in area PEEP - privo di vocazione edificatoria perché destinato, nell’ambito di tale area, in parte a viabilità e in parte a verde pubblico, per l’effetto liquidando il danno in un minore importo calcolato con applicazione del valore agricolo medio (artt. 15 e 16 L. n. 865/1971), con rivalutazione monetaria e interessi.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, che accoglie il gravame con rinvio.
La Corte condivide la doglianza secondo la quale erroneamente la Corte d’appello avrebbe ritenuto che il terreno (oggetto di occupazione illegittima) benché interamente inserito in zona PEEP, fosse privo di vocazione edificatoria perché specificamente destinato, all’interno di tale zona, in parte a viabilità ed in parte a verde pubblico. A tale proposito, i Supremi Giudici richiamano il principio, consolidato, per cui il piano di edilizia economica e popolare conferisce, per la sua stessa approvazione, il requisito dell’edificabilità legale a tutte le aree in esso inserite (Cass. nn. 19501/2005, 4925/2003, 12705/2001), non essendo rilevante che, secondo le specifiche previsioni del piano, alcune di tali aree siano destinate alla costruzione di strade o riservate a parchi o giardini a servizio della zona (Cass. nn. 19501/05, 12966/04, 10555/2004).
Del resto, le stesse Sezioni Unite (sentenza n. 173/2001) affermano che tali specifiche previsioni non assumono carattere conformativo del territorio ma costituiscono veri e propri vincoli preordinati all’esproprio, perché limitati e funzionali all’interno di una zona urbanistica omogenea a diversa destinazione generale ed incidenti su beni determinati, sui quali si localizza la realizzazione dell’opera pubblica, e non possono pertanto comportare mutamento della classificazione legale dei terreni che ne sono oggetto.
La cassazione della sentenza concerne anche la necessaria conformazione, da parte del giudice di rinvio, alla sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 5-bis, comma 7-bis, della L. n. 359/1992 (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 12.05.2014 n. 10280 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

URBANISTICA: MOMENTO CONSUMATIVO DELLA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA “MISTA” E DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE.
Il momento consumativo del reato di lottizzazione abusiva "mista" si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano nel reato, nel compimento dell'ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione dei manufatti che compongono l'insediamento.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema, già più volte oggetto di attenzione nella giurisprudenza di legittimità, relativo all’individuazione del dies a quo del reato di lottizzazione abusiva, stavolta relativamente alla ipotesi di lottizzazione abusiva mista.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale del riesame rigettava l'appello cautelare reale relativamente al provvedimento di rigetto del GIP della richiesta di dissequestro; in particolare, il GIP aveva disposto il sequestro preventivo di un immobile, ritenendo sussistere i reati di abuso d'ufficio e di lottizzazione. Nello specifico, l'ipotesi di incolpazione prevedeva che, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, numerosi indagati, ciascuno consapevole delle altrui condotte, abbiano realizzato ville residenziali, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti (e comunque non disponendo la redazione di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione), così attuando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale ed un aggravio del carico urbanistico in zona agricola non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata.
Con riguardo ad alcuni interventi edilizi, la condotta contestata riguarda un'ipotesi di lottizzazione abusiva mista, negoziale e materiale, nell'ambito della quale la trasformazione del territorio è stata compiuta attraverso il frazionamento e la vendita dei lotti così ricavati e la realizzazione su di essi dei manufatti, eseguiti in base a permessi di costruire illegittimi in quanto rilasciati a soggetti privi dei requisiti soggettivi previsti. Ricorrendo in Cassazione, l’interessato si doleva del fatto che il tribunale del riesame non avesse rilevato l'intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, unico per il quale sia stata chiesta la misura del sequestro preventivo, prescrizione che era stata affermata con la produzione di una serie di documenti che attesterebbe la fine dei lavori a far data dal 2007.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’interessato e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ritenuto che la motivazione del tribunale circa l'ultimazione dei lavori, pur dando conto della ritenuta irrilevanza della documentazione prodotta dalla difesa (fatture attestanti l'avvenuta attivazione delle utenze, l'intonacatura, l'acquisto degli infissi, dichiarazione di conformità dell'impianto termoidraulico e certificato di collaudo, etc.), non fornisce alcuna spiegazione circa quanto emergerebbe ex actis, ossia che l'immobile risulterebbe ultimato nell’epoca indicata dalla difesa (in precedenza, sull’individuazione del dies a quo del reato di lottizzazione abusiva, v. Cass. pen., sez. III, 01.07.1998, n. 7640, in CED Cass., n. 210850, secondo cui, pur essendovi  distinzione fra il reato di lottizzazione abusiva a scopo edificatorio e quello di costruzione abusiva nell'area oggetto di detta lottizzazione, la permanenza del primo di detti reati (da qualificare come progressivo nell'evento), viene a cessare, qualora si sia dato luogo ad effettiva attività edificatoria, anche ad opera di soggetti diversi dal lottizzatore, solo con l'esaurimento della suindicata attività, per cui solo da tale momento inizia a decorrere il relativo termine prescrizionale) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2014 n. 18920 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE PER GLI INTERVENTI EDILIZI “PUBBLICI” ESEGUITI DAI PRIVATI CONCESSIONARI.
Solo per le opere eseguite dai Comuni non è richiesto il permesso di costruire, bensì -quale atto equipollente- la delibera del consiglio o della giunta comunale accompagnate da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie; diversamente, per le opere realizzate da privati concessionari, il predetto titolo abilitativo è invece necessario.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene all’applicabilità o meno della speciale disciplina della cd. validazione del progetto (ai sensi del D.P.R. 21.12.1999, n. 554, art. 47 prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7) alle opere edilizie di pubblico interesse ma eseguiti da concessionari privati.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il tribunale del riesame ha confermato il decreto di sequestro preventivo di 65 cappelle gentilizie, 44 edicole funerarie e 180 tumuli realizzati da una società privata, ipotizzando il fumus del reato di costruzione abusiva perché trattavasi di opere eseguite in assenza del permesso di costruire.
In particolare, il Tribunale ha ritenuto che tali opere erano soggette a permesso di costruire, trattandosi di nuove costruzioni modificative dell'assetto del territorio non rientranti nella previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7, lett. c), non trattandosi di "attività edilizia delle pubbliche amministrazioni" ma di opere realizzate da un privato concessionario. L’ordinanza veniva impugnata dall’amministratore della società privata concessionaria, sostenendo l’errata applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 31 e 44; in particolare, il tribunale avrebbe omesso di applicare il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7, lett. c).
La Cassazione ha, sul punto, respinto il motivo di ricorso, e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ritenuto corretto il ragionamento del tribunale che aveva ritenuto necessario il permesso di costruire, perché non ricorreva il presupposto soggettivo richiesto dalla norma del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7 trattandosi appunto non di attività edilizia realizzata dalle pubbliche amministrazioni, ma di opere realizzate da un privato concessionario sia pure nell'ambito della finanza di progetto, cioè di una metodologia attuativa del cd. partenariato pubblico-privato (in precedenza, nel senso che anche le opere eseguite dai Comuni sono soggette all'obbligo di conformarsi alle disposizioni urbanistiche vigenti e ai relativi controlli salvo restando che, per effetto dell'art. 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e della contestuale abrogazione del D.L. n. 398 del 1993 e successive modifiche,  per dette opere non è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire, cui deve ritenersi equipollente, infatti, la delibera del consiglio o della giunta comunale accompagnata da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie; fattispecie, analoga alla presente, di sequestro preventivo per il reato di cui all'art. 44, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001 relativamente a lavori di ampliamento di cimitero comunale in violazione della distanza minima rispetto al centro abitato: Cass. pen., sez. III, 09.05.2008, n. 18900 V. e altri, in CED Cass., n. 239918) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2014 n. 18907 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

URBANISTICA: LA TRASFORMAZIONE IN “ZONA BIANCA” NON CONSEGUE AUTOMATICAMENTE ALLA DECADENZA DEL VINCOLO PREORDINATO ALL’ESPROPRIO.
La decadenza del vincolo preordinato all'esproprio non comporta automaticamente la trasformazione dell'area in "zona bianca" ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 9, comma 2, occorrendo una preliminare verifica della mancanza dello strumento attuativo di urbanizzazione dell'area, ossia della insufficienza del regime dell'area stabilito nel PRG.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione, invero non molto approfondita nella giurisprudenza di legittimità, dei vincoli territoriali destinati all’espropriazione dell’area.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il tribunale ha rigettato la richiesta di riesame avverso decreto di sequestro preventivo di due fabbricati emesso dal GIP, nei confronti del legale rappresentante dell'impresa esecutrice dei lavori per lottizzazione abusiva a scopo edificatorio in un'area comunale.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo, per quanto qui di interesse, l’omessa motivazione sulla consulenza tecnica di parte del perito, asserendo che il tribunale non l’avrebbe neppure menzionata, pur avendo affermato che la difesa "nulla ha apportato per sconfessare il giudizio di insufficiente urbanizzazione", che invece era proprio lo scopo della suddetta consulenza. La Cassazione ha accolto il ricorso dell’interessato e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato come l'apparato motivazionale dell'impugnata ordinanza effettivamente venisse meno a proposito dell'urbanizzazione dell'area interessata, e ciò sotto due profili.
In primo luogo, perché il tribunale ha ritenuto che sull'area interessata dall'intervento assentito con permesso di costruire esisteva un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per non avere il Comune adottato il piano attuativo entro il termine quinquennale di efficacia: in altri termini, secondo il tribunale, la decadenza del vincolo avrebbe comportato l'assoggettamento dell'area nel regime delle c.d. zone bianche di cui alla L. n. 1977 del 2010, art. 4.
Affermazione, questa, come visto, disattesa dalla Cassazione con l’importante principio affermato (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 23.06.2011, n. 25235, in CED Cass., n. 250980) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2014 n. 18727 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: PERMESSO DI COSTRUIRE NECESSARIO ANCHE IN CASO DI OPERA “STAGIONALE”.
Il permesso di costruire è richiesto anche nel caso in cui l'opera abbia un carattere stagionale, ben potendo quest’ultima essere destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione relativa alla necessità o meno del permesso di costruire ove l’intervento edilizio sia finalizzato a soddisfare esigenze di carattere stagionale.
La vicenda processuale vede coinvolti C., quale progettista dei lavori e, G., committente, per violazione edilizia conseguente al fatto di avere realizzato un gazebo in assenza di permesso di costruire, senza la previa autorizzazione del servizio tecnico di bacino, e di averlo utilizzato prima del rilascio del certificato di collaudo, nonché di falsità ideologica per avere presentato -in allegato alla DIA effettuata ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 6- asseverazioni false (relativamente alla riconducibilità dell'opera al cd. IPRIPI - interventi privi di rilevanza per la pubblica incolumità ai fini sismici). Per tale ragione, il PM ha chiesto ed ottenuto dal GIP la convalida del decreto di sequestro preventivo disposto sul gazebo e la sottoposizione dell'opera a sequestro preventivo.
Il tribunale del riesame, ritenendo trattarsi di opera di carattere stagionale, e, dunque, sottratta al permesso di costruire, ha annullato il sequestro. Contro l’ordinanza ha ricorso per cassazione il PM in particolare, per quanto qui di interesse, soffermandosi sulla interpretazione dell'art. 6 D.P.R. n. 380/2001 e sui concetti di "temporaneità" e "contingenza" che -all'evidenza- non possono essere riferiti alle opere bensì alle esigenze. Inoltre, lo stesso P.M. fa notare che tali aggettivi non hanno significati sovrapponibili e che, in particolare, "contingente" significa accidentale e non attiene ad una esigenza propria dell'attività di chi installa l'opera.
Ciò vuol dire, esemplificando, che chi svolge l'attività di ristoratore può considerare contingente l'allestimento per consentire, allo scoperto, una mostra fotografica non certo l'esigenza in generale di svolgere il servizio esterno di ristorazione al riparo da pioggia vento e sole perché quest'ultima è esigenza "propria" dell'attività commerciale svolta, come nel caso di specie, - dal G.
La Cassazione ha accolto il ricorso del PM e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha evidenziato come sicuramente incisivi e convincenti sono i rilievi del PM circa il fatto che un insediamento come quello realizzato consenta la soddisfazione di esigenze valide per tutto l'anno (riparando, cioè, dal freddo, in inverno, e dal caldo, d'estate) sicché, anche il carattere di esigenza "temporanea" merita maggiore approfondimento da parte del Tribunale (in precedenza, nel senso che necessità di permesso di costruire anche l’opera stagionale: Cass. pen., sez. III, 26.09.2011, n. 34763, in CED Cass., n. 251243) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2014 n. 18718 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: CONDIZIONI PER LA SUSSISTENZA DELLA RESPONSABILITÀ PENALE DEL PROPRIETARIO DELL’AREA.
In materia edilizia, può essere attribuita al proprietario non formalmente committente dell'opera la responsabilità per la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, sulla base di valutazioni fattuali, quali l'accertamento che questi abiti nello stesso territorio comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul luogo, che sia destinatario finale dell'opera, che abbia presentato richieste di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella pratica giudiziaria, dell’individuazione delle condizioni in presenza delle quali il proprietario, non committente, di un terreno possa essere ritenuto responsabile degli abusi edilizi sullo stesso eseguiti.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza del tribunale con cui il proprietario di un terreno era stato condannato per la realizzazione, senza permesso di costruire e senza le necessarie autorizzazioni, di un manufatto allo stato grezzo di circa mq. 80 su di un basamento in cemento armato, in zona sismica e sottoposta a vincolo paesaggistico e cimiteriale.
In ordine alla sua posizione, rilevava la Corte di appello che l'affermazione di responsabilità non era fondata certo sulla sola circostanza di essere egli proprietario del suolo su cui insisteva una vecchia costruzione poi sostituita da quella di cui all'imputazione, ma anche sul fatto che, pur svolgendo attività lavorativa in luogo distante, risiedeva proprio all'indirizzo in cui era stata realizzata la costruzione e non era sostenibile che egli non vi avesse mai fatto ritorno e non fosse quindi a conoscenza dei lavori abusivi; l'imputato, in quanto destinatario dell'opera, aveva interesse alla sua esecuzione.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, in particolare sostenendo che l'affermazione di colpevolezza  fosse fondata sostanzialmente sulla mera titolarità del bene.
La Cassazione ha, però, respinto detto motivo di ricorso. In particolare, nell’affermare il principio di cui in massima, ha rilevato la correttezza delle argomentazioni dei giudici di merito i quali avevano evidenziato che l’imputato, oltre ad essere proprietario dell'immobile demolito e poi ricostruito, aveva la residenza anagrafica proprio nel luogo dove venivano eseguiti i lavori, che il soggetto trovato sul posto, al momento del sopralluogo, era il padre dell'imputato, che infine il proprietario aveva interesse all'esecuzione dell'opera in quanto destinatario finale della stessa (da ultimo, sulle condizioni per attribuire la responsabilità al proprietario non committente: Cass. pen., sez. III, 29 ottobre 2013, n. 44202, in CED Cass., n. 257625) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.05.2014 n. 18305 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: VIETATO DISPORRE LA DEMOLIZIONE DELL’ABUSO EDILIZIO SE LA CONDANNA RIGUARDA LA VIOLAZIONE DELLA LETT. A) DELL’ART. 44 T.U. EDILIZIA.
Il giudice, ove pronunci condanna per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), non può ordinare la demolizione delle opere abusive.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, delle condizioni in presenza delle quali può essere applicata la sanzione amministrativa accessoria della demolizione del manufatto abusivo.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui il Tribunale ha condannato alcuni soggetti, ordinando la demolizione delle opere abusive, per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), perché, C., quale proprietario committente, B. quale esecutore dei lavori, M.M. quale direttore dei lavori, eseguivano la costruzione di un fabbricato in difformità dal regolamento edilizio vigente e dal permesso di costruire; in particolare, realizzavano il fabbricato a distanza di circa 13,3 m anziché 20 m dalla strada comunale, come prescritto sia dal titolo autorizzatorio, sia dagli strumenti urbanistici vigenti, nonché realizzavano un'altezza di circa 2 m in corrispondenza dell'intradosso del solaio, laddove era stata autorizzata un'altezza di 0,80 m e, su tutti i lati, un balcone con uno sbalzo di circa 1,5 m, non previsto, con significativa alterazione del rapporto planivolumetrico.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per cassazione gli interessati sostenendo, per quanto qui  di interesse, che il giudice, pur avendo pronunciato condanna per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), avrebbe ordinato la demolizione delle opere, la quale può essere invece ordinata solo in relazione alla violazione dell'art. 44, comma 1, lett. b), dello stesso D.P.R..
La Cassazione ha accolto il ricorso degli interessanti e, affermando il principio di cui in massima, ha altresì escluso la possibilità di procedere d'ufficio ad una riqualificazione della fattispecie contestata riconducendola all'ambito di applicazione della richiamata lett. b), per di più in presenza di una motivazione della sentenza impugnata che sostanzialmente escludeva una tale riqualificazione (in precedenza, in senso conforme all’inapplicabilità dell’ordine di demolizione con riferimento alla lett. a): Cass. pen., sez. III, 29.09.2011, n. 41423, in CED Cass., n. 251326) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.04.2014 n. 17991 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: OMESSA DENUNCIA LAVORI IN CEMENTO ARMATO: È REATO PROPRIO DEL COSTRUTTORE?
Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo di denuncia.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla individuazione del soggetto responsabile del reato di omessa denuncia dei lavori in cemento armato.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui il Tribunale ha ritenuto responsabile di violazioni continuate della normativa sulle opere in conglomerato cementizio (art. 81 c.p., D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64 e 71, 65 e 72) e della normativa antisismica (art. 81 c.p., D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95) il proprietario e committente, cui è stato addebitato di aver realizzato su un capannone prefabbricato, una scala in cemento armato, un vano ascensore, un solaio in lamiera grecata, un manufatto in profilati di alluminio e vetri a copertura di una scala, in assenza di un progetto esecutivo e della direzione di un tecnico abilitato e senza la prescritta denunzia di inizio lavori all'Ufficio del Genio Civile, e senza l'attestazione di avvenuto deposito, trattandosi di opere in zona sismica.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo che, quanto alle opere in cemento armato, il reato di omessa denuncia non possa essere attribuito al committente.
La Cassazione, nel prendere atto dell’esistenza del contrasto giurisprudenziale, ha dichiarato estinti i reati contestati (nel senso che il reato in esame sarebbe reato proprio del costruttore: Cass. pen., sez. III, 07.05.2010, n. 17539, in CED Cass., n. 247168; diversamente, nel senso che il committente di lavori edilizi concorre, in qualità di "extraneus", nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato, pur trattandosi di reato omissivo proprio del costruttore, v. Cass. pen., sez. III, 31.05.2011, n. 21775, in CED Cass., n. 250377, peraltro precisando che il concorso è ipotizzabile, ad esempio, quando la denuncia sia omessa proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2014 n. 17281 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: LE OPERE DI SBANCAMENTO E LIVELLAMENTO DI TERRENO SONO SOGGETTE A PERMESSO DI COSTRUIRE.
Pure le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, se finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione relativa alla necessità o meno del permesso di costruire ove l’intervento edilizio sia finalizzato alla realizzazione di attività apparentemente non riconducibili alla nozione di costruzione edilizia.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d'appello ha ribadito la condanna inflitta ad alcuni soggetti per avere realizzato, a fini edilizi, uno scavo di 270 mc. adiacente ad un edificio esistente, ed avere ivi effettuato uno scarico di terreno vegetale, prelevato altrove, in quantità pari a circa 100 mc. Avverso tale decisione, i condannati hanno proposto ricorso, tramite difensore deducendo, per quanto qui di interesse, che non sarebbe esatto ricondurre la loro condotta alla fattispecie di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, visto che, in zona, non è stata realizzata alcuna opera edilizia. In realtà -si sostiene- si è trattato solo di uno spostamento del terreno che è stato rimosso più a valle, in una zona in pendio, per finalità di spianatura, come si evince agevolmente dalla documentazione fotografica.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, sul punto, hanno infatti dichiarato il ricorso inammissibile. In particolare, nell’enunciare il principio di cui in massima, hanno precisato che "opera edilizia" non è solo quella che implica una "costruzione" o "edificazione"; ed invero, a mente del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, necessitano di permesso di costruire: gli interventi di nuova costruzione, gli interventi di ristrutturazione urbanistica e gli interventi di ristrutturazione edilizia.
In altri termini, sono subordinati al preventivo rilascio del permesso di costruire, non soltanto, gli interventi edilizi in senso stretto, ma anche, quelli che comportano la trasformazione in via permanente del suolo in edificato, tra cui, appunto, le opere di sbancamento e livellamento di terreno a fini non agricoli (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 24.02.2009, n. 8064, in CED Cass., n. 242741) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2014 n. 17278 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: ABUSO EDILIZIO PER OPERE “AGGIUNTIVE” E CONSEGUENZE SUL CONTRATTO DI APPALTO.
Deve ritenersi nullo, per illiceità dell’oggetto, l’accordo per l’esecuzione di una variante della costruzione quando essa non è assentita dall’Autorità amministrativa in relazione ad un progetto approvato e costituente oggetto di un contratto d’appalto: peraltro tale nullità non si estende all’intero contratto ma alle sole parti difformi dall’assentito ed esclude la possibilità di far valere i diritti nascenti dall’accordo per l’esecuzione della variante che non era stata assentita.
Con originaria citazione, una società immobiliare conveniva in giudizio una propria impresa appaltatrice chiedendo la risoluzione del contratto d’appalto, tra esse intercorrente, per inadempimento della convenuta, con condanna al risarcimento dei danni. L’appaltatore si costituiva in giudizio chiedendo, in riconvenzionale, la condanna della committente al pagamento del prezzo per l’esecuzione dei lavori non previsti nel contratto originario. L’adito Tribunale rigettava la domanda attrice e, in accoglimento della riconvenzionale, condannava la committenza al pagamento delle somme residuali.
La sentenza era appellata dall’originario attore, sul presupposto che le opere realizzate dall’impresa, per cui era stata pronunciata condanna al pagamento, erano al momento della loro realizzazione illegittime sotto il profilo edilizio e urbanistico perché, in parte prive di titolo abilitativo (concessione edilizia) e, in altra parte, da esso difformi: sicché dovevano ritenersi nulle le pattuizioni successive al contratto d’appalto che tali opere avevano previste. A comprova di ciò, gli appellanti a corredo della domanda di nullità depositavano le ordinanze comunali di sospensione dei lavori e remissione in pristino nonché una sentenza penale passata in giudicato e una relazione tecnica riassuntiva.
L’adita Corte territoriale rigettava il gravame. Per quanto qui interessi, era reietto il motivo riguardante la dedotta nullità del contratto d’appalto in ragione dell’avvenuta realizzazione di opere abusive, perché questione non posta in primo grado. In ogni caso, osservava la Corte di merito, le asserite irregolarità (dedotte, in modo non ammissibile, solo in d’appello) non riguardavano l’intera e complessa costruzione ma solo elementi a essa marginali, sicché non incidevano sulla validità dell’opera (rectius: del contratto d’appalto). Del pari, non potendo essere rilevata d’ufficio la nullità del contratto o il difetto di titolo edilizio, non potevano ad avviso della Corte essere esaminati, a riprova della dedotta nullità, i documenti prodotti ex novo in violazione dell’art. 345 c.p.c..
Avverso la pronuncia reiettiva dell’appello il committente dell’opera, originario attore, ricorre per Cassazione deducendo otto motivi di doglianza.
La sentenza è annullata con rinvio, in accoglimento del primo motivo, con assorbimento degli altri ad eccezione dell’ultimo, respinto.
Con il primo motivo, accolto, era stata dedotto che contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la nullità può colpire anche singole opere estranee al contratto di appalto e per le quali manchi il titolo abilitativo edilizio o che siano state eseguite in sua difformità.
La Corte condivide la censura, ricordando che secondo i principi generali dell’ordinamento (art. 1418 c.c.), deve ritenersi nullo, per illiceità dell’oggetto, l’accordo per l’esecuzione di una variante dell’opera quando la stessa non è assentita dall’autorità amministrativa in relazione ad un progetto approvato costituente oggetto di un contratto d’appalto.
Peraltro tale nullità non si estende all’intero contratto d’appalto ma esclude la possibilità di far valere i diritti nascenti dall’accordo per l’esecuzione della variante che non era stata assentita. In proposito la Corte rileva che il contratto d’appalto avente a oggetto una costruzione abusiva -cioè non assentita da concessione edilizia o da altro provvedimento della p.a.- è nullo perché è illecito l’oggetto, contrario alle norme urbanistiche e edilizie da cui è vietato, potendo altresì costituire illecito penale.
Tale circostanza impedisce, sin dall’origine, al contratto di produrre gli effetti che gli sono propri, con la rilevante conseguenza che l’appaltatore non può pretendere, in forza di siffatto contratto nullo, il corrispettivo pattuito o dovuto ovvero dell’indennizzo ex art. 1671 c.c. Il principio conforma precedenti della stessa Corte, secondo i quali il contratto d’appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo (per gli artt. 1346 e 1418 c.c.), avendo oggetto illecito per violazione di norme imperative in materia urbanistica.
Siffatta nullità impedisce sin dall’origine al contratto di produrre i propri effetti tipici e ne impedisce anche la convalida ai sensi dell’art. 1423 del codice civile. Sicché l’appaltatore non può pretendere, in forza del contratto nullo, il corrispettivo dovuto, a nulla rilevando, in contrario, l’ignoranza del mancato rilascio della concessione edilizia, che non può ritenersi scusabile per la grave colpa del contraente, il quale, con l’ordinaria diligenza, ben avrebbe potuto avere conoscenza della reale situazione, incombendo anche sul costruttore (ex art. 6, L. n. 47/1985, allora in vigore) l’obbligo giuridico del rispetto della normativa sulle concessioni (Cass. civ., n. 4015/2007; n. 13969/2011; n. 21475/2013).
In dipendenza di questo canone, va ritenuta illecita ogni opera costruita non compresa nel contratto d’appalto e non assentita dall’atto amministrativo e per la quale l’appaltatore non può pretendere compenso o indennità alcuna.
Per effetto di questo principio, la Corte di legittimità ritiene assorbito il secondo mezzo di impugnazione, con cui era denunciata l’affermazione della Corte di merito per cui la nullità del contratto di appalto si riferirebbe alle sole ipotesi in cui l’opera realizzata sia completamente priva di licenza edilizia o quando l’edificio realizzato sia completamente diverso da quello per cui fu rilasciata la concessione edilizia.
La Corte conclude osservando che il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare -dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione- ogni forma di nullità del contratto stesso (Cass., Sez. Un., 04.09.2012, n. 14828) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.04.2014 n. 8890 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

AGGIORNAMENTO AL 13.09.2014

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GURI - GUUE - BURL ( e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 12.09.2014 n. 212 "Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive" (D.L. 12.09.2014 n. 133).
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 2 (Semplificazioni procedurali per le infrastrutture strategiche affidate in concessione)
Art. 4 (Misure di semplificazione per le opere incompiute segnalate dagli Enti Locali)
Art. 6 (Agevolazioni per la realizzazione di reti di comunicazione elettronica a banda ultralarga e norme di semplificazione per le procedure di scavo e di posa aerea dei cavi, nonché per la realizzazione delle reti di telecomunicazioni mobili)
Art. 7 (Norme in materia di gestione di risorse idriche. Modifiche urgenti al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, per il superamento delle procedure di infrazione 2014/2059, 2004/2034 e 2009/2034, sentenze C-565-0 del 19.07.2012 e C-85-13 del 10.04.2014; norme di accelerazione degli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico e per l’adeguamento dei sistemi di collettamento, fognatura e depurazione degli agglomerati urbani; finanziamento di opere urgenti di sistemazione idraulica dei corsi d’acqua nelle aree metropolitane interessate da fenomeni di esondazione e alluvione)
Art. 8 (Disciplina semplificata del deposito preliminare alla raccolta e della cessazione della qualifica di rifiuto delle terre e rocce da scavo che non soddisfano i requisiti per la qualifica di sottoprodotto. Disciplina della gestione delle terre e rocce da scavo con presenza di materiali di riporto e delle procedure di bonifica di aree con presenza di materiali di riporto)
Art. 9 (Interventi di estrema urgenza in materia di vincolo idrogeologico, di normativa antisismica e di messa in sicurezza degli edifici scolastici e dell’Alta formazione artistica, musicale e coreutica - AFAM)
Art. 13 (Misure a favore dei project bond)
Art. 14 (Norma overdesign)
Art. 17 (Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia)
Art. 24 (Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio)
Art. 25 (Misure urgenti di semplificazione amministrativa e di accelerazione delle procedure in materia di patrimonio culturale)
Art. 26 (Misure urgenti per la valorizzazione degli immobili demaniali inutilizzati)
Art. 32 (Misure per la riqualificazione degli esercizi alberghieri)
Art. 35 (Modifiche al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, per la semplificazione delle procedure in materia di bonifica e messa in sicurezza di siti contaminati. Misure urgenti per la realizzazione di opere lineari realizzate nel corso di attività di messa in sicurezza e di bonifica)
Art. 36 (Misure urgenti per l’individuazione e la realizzazione di impianti di recupero di energia, dai rifiuti urbani e speciali, costituenti infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale)

APPALTI: G.U. 12.09.2014 n. 212 "Regolamento sull’esercizio della funzione di componimento delle controversie di cui all’articolo 6, comma 7, lettera n) del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" (A.N.AC., provvedimento 02.09.2014).

ENTI LOCALI: G.U. 10.09.2014 n. 210 "Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 e ss.mm. (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: I proventi delle multe fifty-fifty tra enti e gestori
I proventi derivanti dall'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità, di cui all'articolo 142, comma 12-bis del codice della strada, vanno ripartiti a metà tra ente accertatore ed ente proprietario della strada, al netto degli oneri che il primo sostiene per le spese di riscossione e quelle connesse a un eventuale recupero coattivo della sanzione.

È quanto ha precisato la Sez. regionale di controllo della Corte dei conti per la Regione Umbria che, nel testo del parere 08.08.2014 n. 66, fa chiarezza sulle disposizioni in materia di riparto delle sanzioni derivanti da accertamenti con autovelox, nel silenzio del ministero delle infrastrutture e trasporti che, secondo l'art. 25, c. 2, della legge 120/2010, avrebbe dovuto emanare un apposito decreto su modalità e criteri di una corretta ripartizione tra i soggetti coinvolti.
Il comune di Ferentillo ha invocato l'intervento della magistratura contabile per conoscere se sia possibile, allo stato attuale, calcolare i proventi delle sanzioni in base agli introiti incassati e al netto delle spese sostenute per l'accertamento e la relativa riscossione. A maggior ragione, il quesito viene posto con riferimento all'indeterminatezza delle poste finali, tenuto conto che chi viola il codice della strada, oggi può pagare il 30% della sanzione entro cinque giorni, ovvero il minimo edittale entro due mesi dalla notifica del verbale di violazione.
La Corte ha rilevato che la norma sotto osservazione prevede una specifica destinazione dei proventi, tra cui il potenziamento delle attività di controllo e la manutenzione della segnaletica. Per cui, appare chiaro che l'intervento del legislatore, ancorché non espressamente indicato, sia da intendere al netto delle spese connesse ai procedimenti di accertamento ed esazione.
Sul versante della quantificazione, invece, la Corte umbra ha rilevato che le predette somme, in base ai principi di veridicità ed attendibilità delle entrate, siano accertate per una successiva ripartizione, «solo al momento dell'effettivo incasso».
Conforta questa tesi la conclusione del ministero delle infrastrutture che, nello schema di decreto ex art.25, comma 2, legge n. 120/2010 (ad oggi fermo presso la Conferenza Stato-città), rileva che per i proventi oggetto di ripartizione ci si dovrà riferire alle somme incassate e che le stesse siano devolute ai soggetti proprietari della strada «al netto delle spese sostenute per tutti i procedimenti amministrativi connessi» (articolo ItaliaOggi del 12.09.2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Legge n. 114 dell’11.08.2014: integrate le disposizioni del Codice dei contratti pubblici relativamente alle modalità di presentazione delle dichiarazioni sostitutive in fase di partecipazione alle procedure di gara. Problematiche (ANCE Bergamo, circolare 10.09.2014 n. 169).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIAppalti, si gioca d'anticipo. Pareri di precontenzioso richiedibili all'Anac. Nuovo regolamento dell'Autorità anticorruzione sui rapporti imprese-p.a..
Al via le nuove regole per la risoluzione delle controversie tra pubblica amministrazione e imprese. La stazione appaltante o una parte interessata ovvero più parti interessate potranno, singolarmente o congiuntamente, rivolgere all'autorità un'istanza di parere per la formulazione di un'ipotesi di soluzione della questione insorta durante lo svolgimento delle procedure di gara degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture. La priorità sarà data alle richieste congiunte o di importo rilevante o di particolare impatto per il settore. L'Anac rilascerà il parere entro 90 giorni.

È con il nuovo regolamento approvato con il provvedimento 02.09.2014 dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) (e in attesa di essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale) che è stato istituito un ufficio ad hoc dedicato al precontenzioso.
Il regolamento sarà operativo a partire dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta. Il compito di seguire l'istruttoria e di darne conto al consiglio sarà assegnato dal presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, ogni 15 giorni ai consiglieri. Le istanze dovranno essere redatte secondo il modulo allegato al regolamento del 02.09.2014 e saranno trasmesse preferibilmente tramite posta elettronica certificata.
Nella predisposizione dell'istanza, le parti potranno chiedere che, in sede di pubblicazione del parere, vengano esclusi eventuali dati sensibili espressamente segnalati. Le richieste dichiarate inammissibili, se riguardano, comunque, questioni giuridiche ritenute rilevanti, saranno trattate ai fini dell'adozione di una pronuncia dell'Autorità anche a carattere generale. Le istanze diverranno improcedibili in caso di sopravvenienza di una pronuncia giurisdizionale di primo grado sulla medesima questione oggetto del parere, di sopravvenuta carenza di interesse delle parti, di rinuncia al parere. Saranno trattate in via prioritaria le istanze di parere presentate congiuntamente dalla stazione appaltante e da almeno un partecipante alla procedura di gara.
In caso di istanze presentate singolarmente, si darà la precedenza alle istanze presentate dalla stazione appaltante e alle istanze concernenti appalti di rilevante importo economico (lavori: importo superiore a 1.000.000 di euro, servizi e forniture: importo superiore alla soglia comunitaria) e infine alle istanze che sottopongono questioni originali di particolare impatto per il settore dei contratti pubblici. Le archiviazioni delle istanze per inammissibilità e/o improcedibilità saranno approvate dal consiglio dell'autorità e comunicate alle parti interessate. L'istanza presentata dalla stazione appaltante, congiuntamente o singolarmente, dovrà contenere l'impegno a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione, fino al rilascio del parere.
Quando l'istanza sarà presentata da una parte diversa dalla stazione appaltante, con la comunicazione di avvio dell'istruttoria, l'autorità formulerà alla stazione appaltante l'invito a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione, fino al rilascio del parere (articolo ItaliaOggi del 12.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Polizia locale. Comandanti con le mani legate.
Il comandante dei vigili non può essere anche dirigente delle attività produttive e quindi rilasciare titoli su questioni potenzialmente oggetto del suo stesso potere di controllo.

Lo ha evidenziato l'Autorità nazionale anticorruzione con l'orientamento n. 57/2014.
Spesso al responsabile della polizia locale, specie nei piccoli enti, viene assegnata l'area attività produttive e di conseguenza al dirigente è richiesto di istruire pratiche complesse anche in materia di commercio e di pubblici esercizi. L'Authority ha però specificato che «colui che riveste il ruolo di comandante della polizia locale non può svolgere funzioni di responsabilità nell'esercizio di servizi di un comune per i quali è necessario emettere provvedimenti autorizzatori o concessori oggetto di attività di controllo in virtù della sua principale qualifica, sussistendo un'ipotesi di conflitto di interesse, anche potenziale».
Con questo parere sembra chiarito che la funzione di vigilanza non è compatibile con quella amministrativa in senso stretto. Ovvero con il rilascio di concessioni e licenze e tanti altri titoli che normalmente vengono rilasciati dagli sportelli comunali agli esercenti interessati. Al comandante della polizia locale anche il codice stradale assegna però delle competenze specifiche in materia di viabilità e circolazione.
È il caso del rilascio dei contrassegni invalidi, delle ordinanze di variazione della viabilità o delle occupazione del piano stradale per cantieri e per lavori. Anche queste abilitazioni aderendo a una lettura rigorosa del parere e dello spirito della legge dovrebbero essere firmate da un altro dirigente ma di fatto questa soluzione risulta complessa e difficilmente sostenibile.
In pratica dal tenore del parere sembra ragionevole ritenere presente un conflitto potenziale di interesse nel caso in cui il comandante dei vigili assuma la qualifica di responsabile dello sportello unico delle attività produttive. Ma nulla osta che lo stesso continui a rilasciare certificati come i contrassegni invalidi che non sottendono ad alcun interesse economico e sono carenti di discrezionalità procedurale (articolo ItaliaOggi del 12.09.2014).

DOTTRINA  E CONTRIBUTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: S. Chirico, I COMPENSI INCENTIVANTI AI PUBBLICI DIPENDENTI (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
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I compensi incentivanti ai dipendenti pubblici per la pianificazione urbana: una soluzione per ottimizzare i bilanci, coerente con la spending review.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Montanari, ACCESSO AI VERBALI ISPETTIVI: ETERNO CONTRASTO TRA DIRITTO ALLA DIFESA E DIRITTO ALLA RISERVATEZZA (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
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Il diritto di accesso nasce come diritto costituzionalmente garantito ma non incomprimibile a fronte di altri diritti di pari dignità quale quello alla riservatezza: il giudizio di bilanciamento deve operare caso per caso e non sulla base di aprioristici assunti.

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Grappelli, L’INQUINAMENTO ACUSTICO FERROVIARIO: INTERVENTI PER MITIGARE IL RUMORE ALLA LUCE DELLA DIRETTIVA 2014/38/UE, DELLA LEGGE QUADRO N. 447/95 E DELLA DECISIONE DEL CONSIGLIO DI STATO N. 35/2014 (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
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Con il presente commento si affronta, nei suoi aspetti generali, il tema dell’inquinamento acustico derivante dal utilizzo di reti ferroviarie. La normativa comunitaria di settore e quella nazionale intervengo al fine di garantire interoperatività del sistema ferroviario comunitario e nazionale.
Nel rispetto delle disposizioni contenute dalla legge quadro 447/1995 non è possibile per un sindaco di un Comune imporre o compiere atti inibitori, parziali o totali, seppur nella tutela della salute dei cittadini ed in urgenza,nei confronti dell’ente gestore, trattandosi di materia sottoposta alla competenza statale a norma dell’art. 9, co. 1, della legge quadro sull’inquinamento acustico.
Altro aspetto rilevante attiene alla necessità di intervenire con mezzi di mitigazione del rumore non soltanto in modo isolato, e quindi sull’immobile, ma anche sulla sorgente del rumore e ciò al fine di ampliare il raggio di azione della tutela dal rumore, estendendola anche alle aree pertinenziali del manufatto edilizio ed aree attigue esterne.

EDILIZIA PRIVATA: C. Zaccheo, RIFLESSIONI IN MERITO ALLA NATURA DEL SILENZIO DELLA P.A. SULLE ISTANZE DI ACCERTAMENTO DI CONFORMITÀ EX ART. 22 DELLA L.R. LAZIO N. 15/2008 (IL DECORSO DEL TERMINE PRESCRITTO DALLA LEGGE PER LA DEFINIZIONE DELL’ISTANZA DI SANATORIA INTEGRA UN’IPOTESI DI SILENZIO C.D. SIGNIFICATIVO O DI SILENZIO INADEMPIMENTO?) (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
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E’ attuale il dibattito giurisprudenziale sulla natura del silenzio serbato dalla p.a. sulle istanze di accertamento di conformità ex art. 22 della L.R. Lazio n. 15/2008. Tuttavia, un recente orientamento del giudice amministrativo ha conferito natura significativa, in termini di rigetto, al contegno inerte della p.a. sulle istanze in parola. Tanto ovviamente non incide il potere dell’amministrazione di determinarsi espressamente.

APPALTI: T. Molinaro, DICHIARAZIONE DEL PROCURATORE SPECIALE CIRCA IL REQUISITO DI MORALITÀ PROFESSIONALE: L’ADUNANZA PLENARIA DEFINISCE LE CONDIZIONI (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
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L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato definisce le condizioni per la dichiarazione del procuratore speciale circa il requisito di moralità professionale.

APPALTI: D. Tomassetti e I. De Col, L’ORDINE DI ESAME DEL RICORSO INCIDENTALE E DI QUELLO PRINCIPALE IN MATERIA DI APPALTI: LA SOLUZIONE DELL’ADUNANZA PLENARIA (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
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La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9/2014 consente l’esame del ricorso principale anche in presenza di un ricorso incidentale interdittivo ma solo in casi limitati.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: S. Napolitano, LA QUALIFICAZIONE DEGLI OPERATORI ECONOMICI PARTECIPANTI AD UN RAGGRUPPAMENTO TEMPORANEO TRA IMPRESE IN CASO DI APPALTI DI SERVIZI E FORNITURE? (Gazzetta Amministrativa n. 1/2014).
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Ancora contrasti interpretativi in ordine alla novella apportata all’art. 37, co. 13, del codice dei contratti pubblici che ha differenziato la disciplina della corrispondenza tra quote di partecipazione ad un Raggruppamento Temporaneo di Imprese e quote di esecuzione delle prestazioni, differenziando gli appalti aventi ad oggetto lavori dagli appalti aventi ad oggetto servizi e forniture.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso agli atti illimitato. Sempre meno i casi in cui la p.a. può rifiutarsi. Con il dlgs 33/2013 il legislatore ha rafforzato i poteri dei consiglieri.
Le richieste di accesso dei consiglieri comunali finalizzate a ottenere la documentazione di tutti i settori dell'amministrazione, apparentemente tendenti a compiere un sindacato generalizzato dell'attività degli organi decidenti, deliberanti e amministrativi dell'ente, sono compatibili con il principio di funzionalità del mandato, finalizzato ad un organico progetto conoscitivo in relazione a singole problematiche che di volta in volta interessino l'elettorato?
Nel caso di specie, l'ente ritiene legittimo il diniego opposto alla richiesta rivolta dai consiglieri comunali, diretta all'estrazione di atti, in assenza di motivazione in ordine all'esistenza dei presupposti del diritto di accesso. Ciò, in quanto tale diritto sarebbe limitabile anche alla luce della sentenza n. 846/2013, con la quale il Consiglio di stato ha specificato che la disposizione contenuta nell'art. 43 del Tuel, va coordinata con la modifica introdotta all'art. 22 della legge n. 241/1990, dalla legge n. 15/2005, secondo la quale anche il consigliere comunale deve essere portatore di un interesse diretto, concreto e attuale corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento per il quale si richiede l'accesso.
Le considerazioni contenute nella citata sentenza del Consiglio di Stato, devono però essere lette con riferimento alla specifica fattispecie esaminata in quell'occasione dal giudice, il quale deducendo conclusivamente che «il comune ha soddisfatto le richieste di accesso dei consiglieri comunali», ha respinto la richiesta «sulla base del principio secondo cui l'amministrazione non può essere condannata a costruire documenti allo stato non disponibili».
In merito al caso di specie, vale quanto affermato dal Tar Campania–Salerno con la recente sentenza n. 680 del 04.04.2014, secondo cui l'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 ha sicuro carattere derogatorio rispetto alla disciplina generale dell'accesso contenuta negli artt. 22 e seguenti della legge n. 241/1990, che comporta una dipendenza funzionale tra la conoscenza del documento e la coltivazione dell'interesse dedotto, da fare valere eventualmente in sede processuale.
L'accesso di cui all'art. 43 del Tuel ha l'obiettivo di mettere in condizione il consigliere comunale di esercitare il proprio mandato e di verificare il comportamento degli organi istituzionali decisionali del comune e del resto, lo stesso art. 22, al comma 2, rafforzando in particolare l'esigenza di trasparenza della p.a., stabilisce che «l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza».
Secondo tale giudice amministrativo le recenti scelte del legislatore sembrano anzi rafforzare il carattere di autonomia dell'accesso dei consiglieri comunali rispetto alla macro-categoria dell'accesso alla documentazione amministrativa. In particolare, il dlgs n. 33/2013 ha introdotto una disciplina organica relativa agli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, che intercetta un piano diverso rispetto a quello disciplinato dall'istituto dell'accesso, di cui alla legge n. 241/1990 e al decreto legislativo n. 267/2000.
L'accesso è di norma richiesto qualora non sia possibile reperire in altro modo i documenti amministrativi la cui conoscenza risponda a un interesse diretto, concreto e attuale. Può tuttavia accadere che l'interessato possa comunque risalire a quella stessa documentazione, grazie a forme di pubblicità delle informazioni, operate dalla pubblica amministrazione, con conseguente realizzazione, in via indiretta, dell'interesse posto a presupposto dell'accesso.
Il principio è, infatti, nel senso della trasparenza generalizzata, intesa come accessibilità totale delle informazioni, salvo i limiti imposti dall'art. 4 del decreto legislativo n. 33/2013. Quindi gli indirizzi di fondo del legislatore, in una visione sistematica dei principi di pubblicità e di trasparenza, peraltro espressamente declinati dall'art. 1, comma 1, della legge n. 241/1990, non possono che assottigliare ulteriormente le ragioni legittimanti un diniego all'accesso dei consiglieri comunali.
Pertanto, ai sensi del comma 3 del citato art. 43 del Tuel, i consiglieri hanno facoltà di presentare interrogazioni e ogni altra istanza di sindacato ispettivo e l'amministrazione comunale dovrà consentire l'accesso agli atti richiesti, non altrimenti reperibili, che siano in possesso dello stesso ente e che abbiano il requisito della determinatezza (articolo ItaliaOggi del 12.09.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

NEWS

LAVORI PUBBLICISpazio agli affidamenti diretti. Fino a 200 mila euro. Per scuole, alluvioni, terremoti. APPALTI/ Le disposizioni contenute nel decreto Sblocca Italia, ormai in dirittura.
Affidamenti diretti di lavori fino a 200 mila euro per scuole, rischio idrogeologico e anti-sismica; ricorso a società in house dello Stato per progettazione ed esecuzione di lavori; conferenze di servizi «sprint» per portare a termine le incompiute degli enti locali; concessioni autostradali prorogabili per effettuare nuovi investimenti; esclusione dal patto di stabilità per i pagamenti relativi a opere segnalate dagli enti locali entro giugno 2014.

Sono queste alcune delle novità contenute nella bozza del decreto-legge «Sblocca Italia» inviata alla Ragioneria generale dello Stato e ormai in procinto di pubblicazione in G.U.
Affidamenti diretti. L'articolo 9 considera come situazione di «estrema urgenza» ogni «fattispecie riconosciuta tale (previa ricognizione) da parte dell'Ente interessato, che quindi certifichi come indifferibile l'intervento». Tale qualifica di estrema urgenza consentirà all'ente competente di accedere ad una serie di semplificazioni ma limitatamente agli interventi di messa in sicurezza di edifici scolastici, a quelli di mitigazione dei rischi idraulici e geomorfologici e a quelli di adeguamento alla normativa antisismica.
La semplificazione e l'accelerazione procedurale (sempre nel rispetto dei principi Ue di tutela della concorrenza) consentirà, ad esempio, l'affidamento diretto, senza alcun confronto concorrenziale, da parte del responsabile del procedimento, di lavori fino a 200 mila euro (la stragrande maggioranza di interventi si colloca in questa fascia) e l'utilizzazione della gara informale con invito rivolto ad almeno cinque operatori per interventi da 200 mila a 5 milioni di euro.
Incompiute enti locali ed esclusione Patto stabilità interno. Per quel che riguarda le cosiddette «opere incompiute» segnalate dagli enti locali nel mese di giugno, il provvedimento -per risolvere problemi di mancato concerto fra le amministrazioni competenti- consente di riconvocare la Conferenza di servizi con una la riduzione del 50% dei termini ordinari.
Il decreto stabilisce anche che i pagamenti effettuati entro fine dicembre 2014, relativi alle opere (realizzate, in corso di esecuzione o «per le quali è possibile l'immediato avvio dei lavori») segnalate entro il 15.06.2014, saranno esclusi dal Patto di stabilità interno (con il limite di 250 milioni), previa istruttoria della stessa Presidenza. Una seconda norma opera l'esclusione per i pagamenti relativi a debiti certi, liquidi ed esigibili in conto capitale a carico degli enti territoriali per gli anni 2014/2015 (dopo l'entrata in vigore del decreto), per i quali è stata emessa fattura entro dicembre 2013. sarà necessario un ulteriore Dpcm per sapere quali enti territoriali saranno ammessi.
Concessioni autostradali. Viene confermato anche nell'ultima versione del testo la norma «proroga-concessioni». Dettata con la finalità di assicurare gli investimenti sulla rete, anche di miglioramento della sicurezza, e di arrivare a tariffe e condizioni di accesso più favorevoli per gli utenti, la norma consentirà ai concessionari di tratte autostradali nazionali di proporre modifiche del rapporto concessorio. Ciò dovrebbe portare alla gestione unitaria di tratte «interconnesse, contigue, ovvero tra loro complementari». Il nuovo piano economico porterà necessariamente a prorogare concessioni con scadenza ravvicinata. Per i lavori, le forniture e i servizi di importo superiore alla soglia comunitaria «ulteriori rispetto a quelli previsti dalle vigenti convenzioni», si richiama il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica previste dal codice dei contratti pubblici.
Interventi di mitigazione del rischio idrogeologico. Si definiscono le linee da seguire per utilizzare le risorse disponibili per gli interventi in tema di mitigazione del rischio idrogeologico: con la programmazione 2015 l'utilizzazione dei fondi avverrà soltanto a seguito di accordi di programma fra regione e Ministero dell'ambiente, che dovrà definire la quota di cofinanziamento regionale.
I presidenti della Regione, che opereranno con poteri derogatori e speciali, potranno utilizzare –attraverso i ministeri controllanti– le società in house delle amministrazioni centrali dello Stato, dotate di «specifica competenza», per le attività di progettazione ed esecuzione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico di cui agli accordi di programma; pertanto molta parte delle attività che verranno realizzate per questi interventi potrebbero non essere poste sul mercato. Previsti anche commissari ad acta per l'adeguamento di sistemi di fognatura e depurazione attraverso poteri sostituivi del Governo da esercitare entro il 30.09.2014 (
articolo ItaliaOggi del 10.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAlbo gestori ambientali, iscrizioni semplificate. Quattro delibere attuano il regolamento pubblicato in gazzetta ufficiale.
A disposizione delle imprese la nuova modulistica da utilizzare per le iscrizioni «ordinarie», le comunicazioni «semplificate» e le variazioni della dotazione dei veicoli nell'albo gestori ambientali.

Con quattro delibere attuative del nuovo regolamento (decreto ministeriale 03.06.2014 n. 120, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 23.08.2014 n. 195), datate 03.09.2014, il comitato nazionale dell'albo ha redatto i nuovi moduli per l'iscrizione.
Dal 7 settembre è entrato in vigore il nuovo regolamento che disciplina le modalità di organizzazione dell'albo nazionale dei gestori ambientali, i requisiti tecnici e finanziari delle imprese e dei responsabili tecnici, nonché i termini e le modalità di iscrizione i relativi diritti annuali.
La deliberazione 03.09.2014 n. 2 contiene la modulistica da utilizzare per l'iscrizione nelle categorie numero 1 (trasporto rifiuti urbani), 4 (trasporto rifiuti speciali non pericolosi), 5 (trasporto rifiuti speciali pericolosi), 8 (intermediazione e commercio senza detenzione), 9 (bonifica siti) e 10 (bonifica beni contenenti amianto).
La deliberazione 03.09.2014 n. 4 contiene il modulo per l'autocertificazione per il rinnovo delle iscrizioni con procedura ordinaria per le categorie numero 1 (trasporto rifiuti urbani), 4 (trasporto rifiuti speciali non pericolosi), 5 (trasporto rifiuti speciali pericolosi), 8 (intermediazione e commercio senza detenzione), 9 (bonifica siti) e 10 (bonifica beni contenenti amianto). Per il rinnovo dell'iscrizione, salvo contraria comunicazione della sezione regionale, il richiedente presenta la garanzia finanziaria 45 giorni prima della scadenza dell'iscrizione in corso di validità. Con il rinnovo delle iscrizioni, le sezioni regionali e provinciali, deliberano sulle comunicazioni di variazione dell'iscrizione e presentata successivamente alla domanda di rinnovo.
La deliberazione 03.09.2014 n. 3 contiene i moduli per l'iscrizione (e il rinnovo) in procedura semplificata, riservata solo alle aziende speciali, ai consorzi di comuni e alle società di gestione che gestiscono rifiuti urbani, ai produttori di rifiuti che trasportano i propri rifiuti (se pericolosi, nei limiti dei 30 kg/lt al giorno) e alle imprese che trasportano rifiuti elettrici ed elettronici (Raee - dm n. 65/2010).
La deliberazione 03.09.2014 n. 5, infine, contiene la dichiarazione (redatta nella forma della dichiarazione sostitutiva di atto notorio) relativa alla domanda di variazioni dell'iscrizione all'albo gestori ambientali della dotazione dei veicoli. Con allegato il modulo per l'accettazione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio. Il decreto del ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 03.06.2014, n. 120 abroga lo storico regolamento del 1998 (dm ambiente 28.04.1998, n. 406).
L'albo nazionale gestori ambientali è costituito dal comitato nazionale, dalle sezioni regionali e le due sezioni provinciali di Trento e di Bolzano. Le imprese e gli enti sono iscritti all'albo nella persona del titolare, nel caso di impresa individuale e nella persona del legale rappresentante nel caso di società (articolo ItaliaOggi del 10.09.2014).

APPALTISarà l'Authority a risolvere le liti tra le imprese e la Pa. Priorità alle istanze «congiunte», di valore rilevante o innovative. Appalti. L'Anac approva il nuovo regolamento per le istanze di precontenzioso.
Meno poltrone, più attenzione al ruolo di guida del mercato. In attesa del piano di riorganizzazione da presentare a Matteo Renzi entro fine anno, il cambio di rotta impresso da Raffaele Cantone agli uffici della vecchia Autorità di Vigilanza dei contratti pubblici è già visibile. L'obiettivo dichiarato è rafforzare le attività considerate come il "core business" della vecchia Avcp riuscendo allo stesso tempo a contenere i costi di funzionamento dell'ex Authority che, una volta messo a punto il piano di fusione e integrazione con l'Anac, dovrà garantire un taglio del 20% delle spese insieme a una sforbiciata della stessa entità del trattamento accessorio riservato al personale, dirigenti inclusi.
Una strategia che traspare dai primi provvedimenti approvati sotto la guida di Cantone. Tra questi quello di maggior impatto per il mercato è sicuramente il nuovo regolamento per la soluzione delle controversie tra stazioni appaltanti e imprese, prima che il conflitto giunga nell'aula già affollata di un tribunale amministrativo.
Nel disegno di Cantone anche la scelta di cancellare la direzione generale sul contenzioso non dovrebbe comportare contraccolpi sull'attività di interpretazione normativa a favore di imprese e Pa. Anzi. Con il provvedimento varato la scorsa settimana prende corpo l'intenzione di rilanciare l'attività di risoluzione dei conflitti sorti in gara (o in cantiere). Un'intenzione resa evidente dal fatto che il nuovo regolamento viene emanato a distanza di pochi mesi dall'ultima revisione effettuata solo a inizio anno dal vertice della vecchia Avcp.
La novità più rilevante è che l'ufficio che segue l'attività di risoluzione delle controversie entra a fare parte dello staff del presidente. Sarà dunque lo stesso Cantone ad assegnare (ogni 15 giorni) le richieste di parere ai consiglieri dell'Autorità, incaricati di seguire l'istruttoria e relazionare al consiglio sugli esiti. «L'obiettivo –si legge nella relazione che accompagna il nuovo regolamento– è garantire una piena assunzione di responsabilità del Consiglio dell'Anac verso il mercato nell'esprimere gli orientamenti interpretativi di riferimento». Per «cristallizzare» le decisioni i pareri rilasciati dal consiglio verranno trattati come sentenze: quindi sintetizzati con una «massima» e pubblicati sul sito.
Altra novità riguarda la decisione di esplicitare da subito i criteri di priorità con cui verranno trattate le istanze di parere. In primo luogo verranno vagliate quelle presentate insieme dalla stazione appaltante e da almeno un partecipante alla gara. Nel caso di richiesta "singola" verranno trattate prima quelle avanzate da una stazione appaltante, quelle di importo rilevante (un milione per i lavori, oltre la soglia comunitaria per servizi e forniture), oppure quelle che sottopongono all'Anac «questioni originali e di particolare impatto per il settore dei contratti pubblici».
Il provvedimento limita in 90 giorni il tempo massimo per il rilascio del parere, mantenendo la possibilità di contraddittorio tra le parti che potranno depositare memorie e documenti entro 10 giorni dall'avvio del procedimento, mentre sarà valutata caso per caso la necessita di procedere ad audizioni. Le comunicazioni tra Anac, imprese e Pa avverranno sempre tramite posta elettronica certificata. L'istanza deve contenere l'impegno «a non porre atti pregiudizievoli ai fini del rilascio del parere fino alla risoluzione della questione». Ovviamente, tutto si ferma se a istruttoria aperta arriva la sentenza di un giudice amministrativo.
Il nuovo regolamento introduce la possibilità di esprimere un parere in forma semplificata nei casi di più semplice trattazione e conferma la scelta di permettere l'intervento dell'Autorità anche in fase di esecuzione del contratto, dunque dopo la conclusione della gara «su iniziativa congiunta della stazione appaltante e dell'esecutore».
Anche in questo caso la linea interpretativa offerta dall'Autorità non sarà vincolante per le parti, che potranno anche decidere di disattendere il giudizio offerto dall'organo di vigilanza sul mercato. L'esperienza insegna però che nell'80% dei casi la scelta è quella di adeguarsi. Una percentuale forse destinata a salire con la svolta impressa da Cantone. Con il regolamento, che entrerà in vigore il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, viene approvato anche un nuovo modello di presentazione delle istanze
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTILa responsabilità solidale abbandona l'ambito tributario. Appalti. Niente più sanzioni al committente.
Al tramonto la responsabilità solidale tributaria sugli appalti. Dopo la semplificazione introdotta con il «decreto del fare» (articolo 50 del Dl 69/2013) riguardante l'eliminazione della responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore, nonché della sanzione per il committente, con riferimento all'Iva relativa alle prestazioni effettuate nel rapporto di appalto/subappalto, il decreto semplificazioni prevede la definitiva abrogazione dei commi da 28 a 28-ter dell'articolo 35 del Dl 223/2006.
Quindi, risulterà definitivamente superata la responsabilità solidale in ambito fiscale tra appaltatore e subappaltatore, con riferimento al versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente inerenti al rapporto di subappalto. Allo stesso tempo, il committente non sarà più soggetto alla sanzione amministrava pecuniaria da 5mila a 200mila euro, in caso di pagamento del corrispettivo senza previamente verificare il regolare versamento delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dipendente riguardanti l'intera filiera dell'appalto.
Pertanto, a seguito di questa semplificazione, committenti e appaltatori non dovranno più preoccuparsi di richiedere la prevista certificazione di regolarità dei versamenti delle ritenute, evitando così di "bloccare" i pagamenti alle imprese in attesa di ricevere l'attestazione prevista dalla norma.

Il legislatore, con l'eliminazione totale della solidarietà fiscale negli appalti, ha esaudito il desiderio di molte imprese italiane, le quali, negli ultimi anni, oltre all'appesantimento burocratico legato alla documentazione occorrente, hanno talvolta subito un peggioramento della propria situazione finanziaria. Infatti, le imprese subappaltatrici, in caso di omesso o ritardato versamento delle ritenute per carenza di liquidità, non incassavano i corrispettivi dai committenti/appaltatori ed erano sempre più in difficoltà ad adempiere ai successivi obblighi tributari.
Sul punto, si attendono i chiarimenti delle Entrate per comprendere gli effetti che l'eliminazione degli obblighi previsti dai commi da 28 a 28-ter dell'articolo 35 del Dl 223/2006 produrrà nei confronti delle violazioni già compiute e non ancora definitivamente accertate al momento dell'entrata in vigore del decreto semplificazioni.
Occorre, inoltre, tenere ben presente che, nei rapporti di appalto e subappalto, è ancora in vigore la solidarietà retributiva e contributiva tra committente, appaltatore e subappaltatori. In particolare, l'articolo 29, comma 2, del Dlgs 276/2003 prevede che il committente, nei limiti di due anni dalla cessazione del contratto di appalto, sia obbligato in solido con l'appaltatore e gli eventuali subappaltatori, in relazione ai trattamenti retributivi (comprese le quote di Tfr), ai contributi previdenziali e ai premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto.
È dunque importante che i committenti e gli appaltatori continuino a richiedere agli appaltatori/subappaltatori il rilascio del Durc, al fine di verificare la regolarità contributiva e retributiva ed evitare di rispondere in solido dei mancati versamenti. In ogni caso, nell'ambito di questa responsabilità, il committente può avvalersi del beneficio della preventiva escussione; in tal caso, l'azione esecutiva verrà esperita nei suoi confronti solo qualora sia risultata infruttuosa nei confronti di appaltatori e subappaltatori inadempienti.
L'eliminazione della responsabilità fiscale negli appalti, tuttavia, ha indirettamente comportato l'estensione della responsabilità di soci e amministratori per i cinque anni successivi alla cancellazione della società dal Registro imprese, nelle ipotesi in cui la medesima venga messa in liquidazione e sia destinataria di provvedimenti di accertamento e riscossione dei tributi da parte dell'agenzia delle Entrate
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.09.2014).

GIURISPRUDENZA

APPALTITrattativa privata forzata, l'appalto non perde valore
Un contratto di appalto affidato a trattativa privata, senza che ve ne fossero le condizioni di legge, non è automaticamente privo di effetti giuridici.

È quanto afferma la Corte di Giustizia nella sentenza 11.09.2014 causa C-19/13, rispetto alla compatibilità comunitaria di un affidamento, disposto con procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando (a favore di Telecom) motivato dall'esigenza di diritti di esclusiva a favore dell'aggiudicatario e dal fatto che il contratto poteva essere affidato unicamente a un operatore economico determinato.
Dopo avere individuato l'affidatario la stazione appaltante pubblicava un avviso di preinformazione e poi di aggiudicazione. L'aggiudicazione veniva impugnata al Tar (da Fastweb) che accoglieva il ricorso. Il Consiglio di stato ha confermato l'annullamento dell'aggiudicazione perché non erano state dimostrate le condizioni richieste per la procedura negoziata, ma ha comunque rimesso alla Corte la questione inerente la sorte del contratto stipulato.
La sentenza richiama la direttiva 89/665 nella parte in cui prevede che il giudice dichiari il contratto privo di effetti se è stato aggiudicato un appalto senza previa pubblicazione di un bando in assenza delle condizioni previste dalle norme in materia di appalti. La direttiva «ricorsi» ammette però come eccezione che, a seguito di annullamento, il giudice possa mantenere gli effetti del contratto (se è stata fatta la pre-informazione e la post-informazione e se il contratto è stato stipulato dopo dieci giorni dalla pubblicazione dell'aggiudicazione, come avvenuto nel caso esaminato).
La Corte precisa che la finalità della eccezione è di conciliare gli interessi dell'impresa lesa (che ha la possibilità di avviare un procedimento sommario precontrattuale e l'annullamento del contratto illegittimamente concluso), con quelli dell'amministrazione e dell'impresa selezionata (evitare l'incertezza giuridica che potrebbe derivare dalla privazione di effetti del contratto). Spetta al giudice effettuare tale temperamento di interessi.
Pertanto, un contratto affidato a procedura negoziata senza bando, quando ciò non fosse consentito, non è automaticamente dichiarabile privo di effetti, in presenza delle tre condizioni previste dalla direttiva (articolo ItaliaOggi del 12.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZIAppalti senza pubblicità: va provata la buona fede. Corte Ue. Il caso della gara sul ministero dell'Interno.
La Corte di giustizia Ue precisa i limiti entro i quali il ministero dell'Interno può dare in appalto i suoi servizi di telefonia fissa, mobile, videosorveglianza e altri servizi di comunicazioni elettroniche con «procedura negoziata» (cioè senza gara pubblica), richiamando concetti di buona fede e diligenza:
questo è il contenuto della sentenza 11.09.2014 causa C-19/13, in una lite che contrappone Telecom a Fastweb.
Oggetto del contendere è un contratto di sette anni, del valore di oltre cinquecento milioni di euro, assegnato a Telecom con una cronologia (che l'Avvocato generale definisce «sorprendente»), tra il 15 e il 31.12.2011. L'appalto è stato annullato dai giudici nazionali per carenza di pubblicità (Consiglio di Stato 26/2013), ma una volta annullata la procedura, è sorto il dubbio su come potesse riequilibrarsi la situazione tra i contendenti, se cioè si dovesse riattivare una gara oppure l'appalto potesse restare alla Telecom, avendo il ministero seguito il protocollo che può far evitare la pubblica competizione.
Per la Direttiva 89/665 (articolo 2-quinquies) e per il Dlgs 163/2006 (articolo 57), si può infatti adottare una procedura negoziata con singole imprese, se l'amministrazione: a) "ritiene" l'opportunità di una procedura con mera consultazione diretta; b) pubblica un avviso generico sulla Gazzetta dell'Unione; c) rispetta un intervallo minimo di 10 giorni tra detta pubblicazione e la stipula del contratto. I giudici del Tar Lazio e del Consiglio di Stato hanno già escluso l'esistenza di validi motivi per evitare la gara pubblica, annullando l'aggiudicazione a Telecom, ma gli stessi giudici nazionali non hanno ritenuto di azzerare il contrato in corso.
Di qui l'attuale ulteriore contenzioso, che ha coinvolto la Corte di giustizia, per accertare se (secondo un primo orientamento) all'indomani della sentenza il contratto stipulato senza gara potesse comunque essere dichiarato privo di effetti, oppure se (adottando un secondo indirizzo), il servizio affidato alla Telecom possa continuare, dando peso ai tre elementi predetti. Era in gioco, inoltre, la stessa credibilità del meccanismo giudiziario, cioè l'utilità e l'efficacia dei rimedi giudiziari offerti alle imprese in caso di violazione delle norme di procedura. Se infatti basta una procedura-lampo (10 giorni) e una generica dichiarazione di opportunità (l'amministrazione "ritiene" di fare a meno della pubblicazione del bando) per aggirare il meccanismo di pubblicità, verrebbe meno la fiducia verso i rimedi di giustizia statale e comunitaria.
La sentenza della Corte di giustizia si esprime, quindi, per la possibilità che il giudice statale possa dichiarare privo di effetti il contratto non preceduto da sufficiente pubblicità, valutando la diligenza e la buona fede dell'amministrazione che sia incorsa in errore nell'escludere la pubblicità. In concreto, quindi, i giudici comunitari hanno riconosciuto la possibilità che esigenze di sicurezza e difesa, i servizi di intelligence e di controspionaggio possano rendere opportuna una contrattazione diretta con fornitori di servizi telefonici, ma hanno sottolineato che il giudice nazionale deve sempre valutare lo spessore delle motivazioni che rendono eccezionalmente superabile la pubblica gara.
La valutazione del comportamento dell'amministrazione deve poi avvenire con parametri di buona fede e diligenza, perché solo un contratto stipulato in buona fede può superare l'annullamento disposto dal giudice e continuare a produrre propri effetti. I concetti di buona fede e diligenza, del resto, sono gli stessi che possono poi essere adottati dal giudice nazionale per riconoscere un eventuale risarcimento al concorrente che non abbia potuto partecipare alla gara.
La vicenda quindi torna ai giudici nazionali (Consiglio di Stato), cui spetterà la verifica sul comportamento dell'amministrazione dell'Interno e sulla buona fede che può aver ispirato, nel dicembre del 2011, la scelta senza gara di un fornitore dei servizi di fonia
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: In materia di gare pubbliche da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggioso, le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti: infatti le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, salva la immodificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione, mentre le seconde si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla Pubblica amministrazione.
E’ stato anche puntualizzato che le varianti progettuali migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, in materia di gare pubbliche da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggioso, le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti: infatti le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, salva la immodificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione, mentre le seconde si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla Pubblica amministrazione (Cons. St., sez. V, 20.02.2014, n. 814; 24.10.2013, n. 5160).
E’ stato anche puntualizzato che le varianti progettuali migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto (Cons. St., sez. V, 17.09.2012, n. 4916) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2014 n. 4578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In applicazione del criterio letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi), si osserva che locuzione “edifici circostanti” indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area oggetto del permesso; per contro, se il pianificatore avesse voluto riferirsi non solo agli edifici contornanti ma ad ulteriori e più distanti edifici, avrebbe associato il termine circostante ad ulteriori concetti come zona o fasce territoriale o comparto ecc…, indicando peraltro anche l’estensione del limite da prendere in considerazione, in assenza del quale, da un punto di vista geometrico, tutto può definirsi ad esso contornante rispetto al punto di riferimento.
Ma anche la “ratio” che la giurisprudenza ha individuato in norme del tipo in esame induce a privilegiare la tesi sostenuta dall’appello. Ed invero la Sezione, in analoga fattispecie, ha già affermato che “laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione”.

L’appello è fondato.
Come riferisce lo stesso giudice di prime cure, in tema di osservanza delle altezze il ricorso aveva sostenuto la violazione dell’art. 62 delle N.T.A. del P.R.G., in quanto tale norma prevedrebbe un’altezza massima degli edifici siti in zona B2, che deve essere “pari all’altezza media degli edifici esistenti al contorno e comunque non superiore a 13,50 ml.”. Poiché detta tale misura media è di ml. 8,44, il permesso di costruire impugnato avrebbe dovuto essere ritenuto illegittimo per aver assentito un fabbricato di altezza pari a ml. 11,88.
In altri termini, secondo questa tesi, il computo dell’altezza, deve prendere in considerazione gli edifici limitrofi. Sul punto il TAR ha invece ritenuto che detta disposizione “debba essere interpretata conformemente alla fonte normativa statale di riferimento: il D.M. n. 1444 del 1968, che, a sua volta, proprio in relazione al concetto di “altezza media degli edifici circostanti”, ha incluso, tra essi, non solo quelli effettivamente confinanti con quello la cui altezza è da misurare, ma anche quelli ubicati in prossimità dello stesso”.
Ad avviso del Collegio, l’orientamento qui riproposto dell’appellante, per cui nel conteggio in questione si debba invece tenere conto delle altezze unicamente degli edifici circostanti nel senso di limitrofi, è da ritenersi preferibile. In questo senso, anzitutto in applicazione del criterio letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi), si osserva che locuzione “edifici circostanti” indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area oggetto del permesso; per contro, se il pianificatore avesse voluto riferirsi non solo agli edifici contornanti ma ad ulteriori e più distanti edifici, avrebbe associato il termine circostante ad ulteriori concetti come zona o fasce territoriale o comparto ecc…, indicando peraltro anche l’estensione del limite da prendere in considerazione, in assenza del quale, da un punto di vista geometrico, tutto può definirsi ad esso contornante rispetto al punto di riferimento.
Ma anche la “ratio” che la giurisprudenza ha individuato in norme del tipo in esame (e dalla quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi) induce a privilegiare la tesi sostenuta dall’appello. Ed invero la Sezione, in analoga fattispecie, ha già affermato che “laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (così Consiglio Stato sez. V, 21.10.1995, n. 1448)” (Cons. di Stato, sez. IV, n. 3184/2013).
Né il Collegio reperisce nella sentenza impugnata, come negli scritti, delle parti appellati tracce apprezzabili di consistente giurisprudenza in senso contrario (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.09.2014 n. 4553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, è sufficiente a radicare la legittimazione ad causam del confinante; né è necessario accertare in concreto se i lavori comportano o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione, atteso che la realizzazione di consistenti interventi che comportano una rilevante e notevole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio deve ritenersi pregiudizievole in re ipsa, in quanto il nocumento consegue alla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica.
Ed invero, premesso che non è contestato in fatto che gli istanti risiedano in immobili limitrofi all’area interessata dal progetto di riqualificazione de quo, non si ravvisa ragione per discostarsi dalla più recente giurisprudenza in materia, secondo cui la vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, è sufficiente a radicare la legittimazione ad causam del confinante; né è necessario accertare in concreto se i lavori comportano o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione, atteso che la realizzazione di consistenti interventi che comportano una rilevante e notevole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio deve ritenersi pregiudizievole in re ipsa, in quanto il nocumento consegue alla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.04.2014, nr. 1995; id., 06.05.2013, nr. 2447) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.09.2014 n. 4547 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittima la revoca d'ufficio dell’autorizzazione per l'esposizione di mezzi pubblicitari, in precedenza rilasciata, laddove le insegne pubblicitarie luminose precedentemente autorizzate dal Comune indicavano l’esercizio della ricorrente quale “Medicina Estetica Solarium”, mentre il provvedimento di revoca riguarda unicamente la parola “Medicina”, in quanto l’attività medica indicata nelle suddette insegne non risulta autorizzata dal Comune in riferimento all’esercizio della ricorrente.
Invero, solo il rilascio di una specifica autorizzazione a tale delicata attività ai sensi della L.R. Emilia Romagna n. 34/1998 consente all’impresa interessata di pubblicizzarne l’esercizio.
Ciò premesso, è evidente che la fattispecie in esame rientri a pieno titolo tra i casi in cui il provvedimento adottato dalla P.A. è legittimo ex art. 21-octies L. n. 241 del 1990, poiché esso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso, anche se l’interessato avesse potuto partecipare al relativo procedimento perché destinatario dell’avviso ex art. 7 della L. n. 241 del 1990.

Con il presente ricorso, la legale rappresentante di una società operante nel settore dei servizi estetici per la persona chiede l’annullamento del provvedimento in data 12/03/2007, con il quale il Comune di Modena ha parzialmente revocato d'ufficio l’autorizzazione per l'esposizione di mezzi pubblicitari in precedenza rilasciata alla società. Le insegne pubblicitarie luminose precedentemente autorizzate dal Comune indicavano l’esercizio della ricorrente quale “Medicina Estetica Solarium”, mentre il provvedimento di revoca riguarda unicamente la parola “Medicina”, in quanto l’attività medica indicata nelle suddette insegne non risulta autorizzata dal Comune in riferimento all’esercizio della ricorrente.
La società ritiene illegittimo detto provvedimento per un unico articolato motivo rilevante violazione dell’art. 7 della L. n. 241 del 1990.
Il comune di Modena, costituitosi in giudizio, ritiene infondato il ricorso e ne chiede, conseguentemente, la reiezione.
Alla pubblica udienza del 29.05.2014 la causa è stata chiamata ed è stata quindi trattenuta per la decisione come da verbale.
Il Collegio osserva che il ricorso non è meritevole di accoglimento, stante che, nella specie, la parziale revoca dell’autorizzazione pubblicitaria (nella parte in cui indicava un’attività: quella medica -mai autorizzata dall’amministrazione comunale v. provv. impugnato doc. n. 1 della ricorrente), assume i connotati del provvedimento dovuto, stante che, appunto, solo il rilascio di una specifica autorizzazione a tale delicata attività ai sensi della L.R. Emilia Romagna n. 34 del 1998 consente all’impresa interessata di pubblicizzarne l’esercizio. Ciò premesso, è evidente che la fattispecie in esame rientri a pieno titolo tra i casi in cui il provvedimento adottato dalla P.A. è legittimo ex art. 21-octies L. n. 241 del 1990, poiché esso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso, anche se l’interessato avesse potuto partecipare al relativo procedimento perché destinatario dell’avviso ex art. 7 della L. n. 241 del 1990 (v. ex multis: TAR Campania –Na- sez. VI, 06/02/2014 n. 791; TAR Sardegna, sez. II, 27/11/2013 n. 758).
Per le suesposte ragioni, il ricorso è respinto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 08.09.2014 n. 838 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il legame sentimentale boccia il commissario. Tar Milano. Concorsi: chi ha avuto una storia, anche chiusa, con un candidato non lo giudica.
Le relazioni sentimentali non devono interferire con le procedure di concorso, nemmeno quando interrotte da lungo tempo: lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, nella sentenza 04.09.2014 n. 2307.
Il lungo intervallo (oltre 13 anni) che separava l'esame dalla interruzione della relazione, ha reso necessario un approfondimento sul dovere di imparzialità che incombe agli esaminatori. Nel caso specifico, si discuteva di un posto di ricercatore universitario e del provvedimento del rettore che aveva accolto una domanda di ricusazione del commissario, proveniente da un altro candidato che riteneva di poter subire una lesione. La revoca è stata impugnata dal docente-commissario, che faceva presente che la liason era risalente nel tempo. Il principio adottato dal Tribunale nel condividere l'operato del rettore, si basa sull'articolo 97 della Costituzione (che garantisce buon andamento e imparzialità) e, più di recente, sulla legge anticorruzione 190/2012.
Episodi analoghi sono quelli in cui l'obbligo di astensione deriva da una documentata ostilità tra candidato e il commissario (per denunce ed esposti penali), situazioni che rendono opportuna l'astensione del commissario a norma dell'articolo 149 del Tu 3/1957 (pubblico impiego), come sottolineano Consiglio di Stato 5041/2004 e Tar Milano 190/2005. Viceversa, una situazione più diluita e astratta, quale esempio l'appartenenza a una stessa scuola di pensiero (nei concorsi universitari) e il rapporto allieva/maestro non comporta di per sé l'obbligo di astensione (Tar Pescara 190/2005).
Il nodo delle relazioni sentimentali complica anche l'amministrazione della giustizia, facendo scattare l'obbligo di astensione (articoli 36, lettera h, Cpp e 51 Cpc) per rapporti del giudice con le parti o con alcuni legali che assistono le parti stesse. Ciò perché risulterebbero infatti intaccate la serenità e la capacità del giudice di essere imparziale o per ingenerare, sia pure ingiustificatamente, il sospetto che possa rendere una decisione ispirata a fini diversi da quelli istituzionali e intesa, per ragioni private e personali, a favorire o danneggiare gli eventuali destinatari (Cassazione 21947/2004).
In tutt'altro campo, uno stabile rapporto sentimentale può aver peso nel ritenere possibile un'infiltrazione mafiosa per i rapporti tra amministratori di società e soggetti penalmente compromessi (Tar Catanzaro 863/2012). Tutto ciò fino a oggi era affidato alla sensibilità della giurisprudenza, ma la legge anticorruzione 192/2012 potrebbe spingersi nell'individuare parametri specifici, in funzione di prevenzione e controllo
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.09.2014).

EDILIZIA PRIVATAI volumi destinati a parcheggi obbligatori ad uso privato di cui all’art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150, legati all’immobile principale da un nesso di inscindibilità in forza del quale di essi non possa disporsi separatamente, non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione.
Sicché, il rapporto tra superficie delle aree destinate a parcheggio e volumetria del fabbricato, così come richiesto dal citato art. 41-sexies, è verificato dalla P.A. e costituisce condizione essenziale per il rilascio del titolo edilizio, di modo che la rimozione del vincolo pertinenziale non può avvenire a piacimento del proprietario, ma soltanto attraverso una concessione in variante che lo trasferisca su altre zone riconosciute idonee.
Tuttavia, il vincolo così costituito dev’essere poi effettivamente trascritto nelle forme dovute.
Pertanto, alla stregua di quanto sopra, le aree gravate da vincolo di destinazione a parcheggio ai sensi dell’art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150 sulla base del titolo edificatorio non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione e, comunque, la P.A. ha titolo per pretendere, in relazione ad esse, la trascrizione del vincolo nelle forme di legge, anche in danno del privato resosi inadempiente.

- Premesso che la società ricorrente contesta la determinazione assunta dal comune di Vibo Valentia, di liquidare gli oneri concessori afferenti ad un intervento edilizio da realizzarsi, computando pure i volumi destinati a parcheggi obbligatori;
- Ritenuto che i volumi destinati a parcheggi obbligatori ad uso privato di cui all’art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150, legati all’immobile principale da un nesso di inscindibilità in forza del quale di essi non possa disporsi separatamente, non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione (cfr. Cons. Stato, 28.11.2012 n. 6033);
- Considerato che il rapporto tra superficie delle aree destinate a parcheggio e volumetria del fabbricato, così come richiesto dal citato art. 41-sexies, è verificato dalla P.A. e costituisce condizione essenziale per il rilascio del titolo edilizio, di modo che la rimozione del vincolo pertinenziale non può avvenire a piacimento del proprietario, ma soltanto attraverso una concessione in variante che lo trasferisca su altre zone riconosciute idonee (cfr. Cass. civ., Sez. II, 14.11.2000 n. 14731);
- Precisato, tuttavia, che il vincolo così costituito dev’essere poi effettivamente trascritto nelle forme dovute (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 02.12.2002 n. 11019);
- Ritenuto, pertanto, alla stregua di quanto sopra, che le aree gravate da vincolo di destinazione a parcheggio ai sensi dell’art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150 sulla base del titolo edificatorio non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione e che, comunque, la P.A. ha titolo per pretendere, in relazione ad esse, la trascrizione del vincolo nelle forme di legge, anche in danno del privato resosi inadempiente (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 04.09.2014 n. 1399 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Legittimità restrizioni alla facoltà di apportare modifiche agli impianti esistenti per il trattamento dei rifiuti.
L’introduzione di restrizioni alla facoltà di apportare modifiche agli impianti esistenti, limitandole agli interventi necessari a mantenerne la funzione in atto appare conforme al principio giurisprudenziale secondo cui deve ritenersi ammissibile una disciplina che produce effetti conformativi per il futuro.
In tal modo non vengono infatti messi in discussione né l’intangibilità delle attività e delle opere poste in essere in conformità della disciplina previgente che mantengono la loro precedente e legittima destinazione, né il correlato principio che la cessazione di attività in essere può essere disposta solo sulla base di atti a contenuto espropriativo, e si incentiva al contempo la delocalizzazione di un impianto, la cui presenza è giudicata incompatibile con la tutela di interessi pubblici ritenuti prevalenti.

Per quanto concerne gli impianti di trattamento dei rifiuti l’art. 49 del piano d’area, mediante apposite direttive, fissa degli obiettivi che devono essere raggiunti in sede di pianificazione provinciale e comunale, demandando agli enti locali di indicare i criteri o gli ambiti per la loro localizzazione e rilocalizzazione.
Con prescrizioni e vincoli immediatamente precettivi dispone inoltre che “nuovi impianti di trattamento e smaltimento dei rifiuti non possono essere ubicati in fregio e all’interno: a) degli ambiti di interesse naturalistico - ambientale; b) delle zone archeologiche; c) delle aree di risorgiva e dei punti di presa dell’acqua potabile; d) dell’ambito prioritario della protezione del suolo” facendo salvo “in ogni caso quanto già autorizzato alla data di adozione del presente piano” e con l’ulteriore specificazione che “eventuali ampliamenti delle discariche esistenti devono essere motivati e realizzati in modo tale che la sistemazione finale comporti un miglioramento significativo dell’ambiente circostante”.
Nel caso all’esame l’impianto ricade all’interno dell’ambito di protezione del suolo.
Si tratta di un ambito territoriale per il quale l’art. 51 del piano d’area pone forme particolari di tutela finalizzate ad evitare modificazioni della giacitura dei terreni e delle caratteristiche fisiche dei suoli e la loro impermeabilizzazione, a facilitare l’infiltrazione delle acque superficiali garantendone la massima permeabilità, e per le quali sono vietati l’impermeabilizzazione di estese superfici e l’uso, in linea di massima, di fitofarmaci e diserbanti nella manutenzione del verde, mentre sono consentiti lavori di miglioria fondiaria a condizione del rispetto delle suddette finalità.
Poste tali premesse, ed in mancanza di una definizione normativa di “nuovo impianto”, il Collegio ritiene condivisibili le conclusioni cui è giunta la Provincia circa la necessità di utilizzare un criterio di carattere sostanzialistico nel definire la tipologia di interventi che ricadono nel divieto.
Infatti tale criterio è quello che risulta coerente con le finalità di tutela dell’ambito di protezione del suolo dato che le modifiche agli impianti esistenti possono essere talmente importanti da costituire un nuovo progetto, e per la loro natura, dimensione o ubicazione, possono risultare idonei a produrre un impatto sull' ambiente del tutto equivalente ad un nuovo impianto, e sarebbe contrario agli obiettivi del piano sottrarre dal suo campo di applicazione queste modifiche.
Peraltro nella materia ambientale, per non frustrare il raggiungimento degli obiettivi di tutela, di norma le modifiche sostanziali ad un impianto sono equiparate ad un nuovo impianto.
Rispetto all’ordinamento comunitario, ad esempio, si è ritenuto in via interpretativa che la procedura di valutazione di impatto ambientale dovesse essere svolta anche rispetto a modifiche di opere esistenti, nonostante l’allegato II della direttiva 85/337 CEE nel testo originario non si riferisse esplicitamente anche alle modifiche dei progetti ivi elencati (cfr. CGCE sentenza resa nella causa C – 72/95 del 24.10.1996).
La normativa nazionale all’art. 208 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, assoggetta alle procedure per nuovi impianti le varianti sostanziali in corso d'opera o di esercizio che comportino modifiche a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all'autorizzazione rilasciata, e all’art. 5 definisce come modifica sostanziale di un progetto, di un’opera o di un impianto “la variazione delle caratteristiche o del funzionamento ovvero un potenziamento dell'impianto, dell'opera o dell'infrastruttura o del progetto che, secondo l'autorità competente, producano effetti negativi e significativi sull'ambiente”.
Allo stesso modo anche la legislazione regionale ricorre ad un criterio di carattere sostanzialistico quando, all’art. 23, comma 6, della legge regionale 21.01.2000, n. 3, assoggetta alla procedura prevista per nuovi impianti le varianti sostanziali in corso di esercizio che comportino modifiche per cui gli impianti non siano più conformi all’autorizzazione rilasciata, con la sola esclusione delle varianti che non riguardino il processo tecnologico e non comportino modifiche ai quantitativi di rifiuti recuperati o smaltiti.
Pertanto, poiché manca una definizione normativa di “nuovo impianto” o di “modifica di un impianto esistente” nel piano d’area, appare corretta l’interpretazione che ricorre al criterio sistematico e teleologico, secondo la quale restano assoggettate alla disciplina prevista per nuovi impianti, anche le modifiche di impianti esistenti che per la loro natura, dimensione o ubicazione producano effetti sull'ambiente equivalenti a quelli di un nuovo impianto, dato che altrimenti un qualsiasi impianto potrebbe, di modifica in modifica, espandersi senza limiti, vanificando la portata precettiva e le finalità di salvaguardia della norma del piano d’area.
In senso contrario non possono essere valorizzate le considerazioni svolte dalla parte ricorrente circa l’erroneità di un esito interpretativo il cui effetto le impedirebbe di realizzare interventi di sviluppo ed ampliamento della propria attività, da ritenersi connaturati ad ogni attività di impresa.
Infatti l’introduzione di restrizioni alla facoltà di apportare modifiche agli impianti esistenti, limitandole agli interventi necessari a mantenerne la funzione in atto (ed in effetti la Provincia ha autorizzato, non ritenendole incompatibili con l’art. 49 del piano, l’accorpamento delle tre diverse autorizzazioni, la realizzazione della raccolta e della gestione delle acque interne, e la realizzazione delle tettoie relative alla copertura dei rifiuti già autorizzati, contenuti in container), appare conforme al principio giurisprudenziale secondo cui deve ritenersi ammissibile una disciplina che produce effetti conformativi per il futuro.
In tal modo non vengono infatti messi in discussione né l’intangibilità delle attività e delle opere poste in essere in conformità della disciplina previgente che mantengono la loro precedente e legittima destinazione, né il correlato principio che la cessazione di attività in essere può essere disposta solo sulla base di atti a contenuto espropriativo (con riferimento alla disciplina urbanistica, ex pluribus, cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 21.06.2013, n. 3429), e si incentiva al contempo la delocalizzazione di un impianto, la cui presenza è giudicata incompatibile con la tutela di interessi pubblici ritenuti prevalenti (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Veneto, Sez. III, sentenza 18.06.2014 n. 863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. SRB non possono essere localizzate indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale
Occorre sottolineare che nonostante il riconoscimento del carattere di opere di pubblica utilità e malgrado l’assimilazione ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria, le stazioni radio base di un impianto di telefonia mobile non possono essere localizzate indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale perché, al cospetto di rilevanti interessi di natura pubblica, come nel caso della tutela dei beni ambientali e culturali, la realizzazione dell’opera di pubblica utilità può risultare cedevole.
Non a caso, il successivo comma 4 dello stesso art. 86 prescrive che "Restano ferme le disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, nonché le disposizioni a tutela delle servitù militari di cui al titolo VI, del libro II, del codice dell’ordinamento militare".

Nel merito, il ricorso è fondato.
Al riguardo il Collegio osserva quanto segue.
Il provvedimento di diniego per l'installazione dell'impianto si fonda sulla considerazione che “nell’immobile ad uso residenziale posto in Via Picardi, n. 124 individuato in progetto non è preventivata la possibilità di installare alcun impianto”.
Orbene, in linea con quanto già rilevato dalla Sezione in sede cautelare, è dirimente, ai fini dell'accoglimento della domanda di annullamento, constatare come la legislazione regionale, per gli impianti radio base per la telefonia mobile di potenza totale ai connettori di antenna non superiore a 300 W, stabilisce che essi non richiedono una specifica regolamentazione urbanistica (art. 4, comma 7, della L.r. Lombardia n. 11 del 2001).
Più in generale, va rilevato che la disciplina urbanistica impressa al territorio non si oppone affatto alla installazione della stazione radio base sul sito individuato dalla ricorrente (cfr. TAR Lombardia–Milano, sent. n. 398/2013).
Al riguardo sono necessari alcuni spunti ricostruttivi.
Il codice delle comunicazioni elettroniche, approvato con D.lgs. 01.08.2003, n. 259, con riferimento alle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, prevede la confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche rilevanti, con finale rilascio (in forma espressa o tacita) di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione. La fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica è considerata dal legislatore di preminente interesse generale, oltre che libera (artt. 3 e 86 del D.lgs. n. 259/2003). L'articolo 86, al comma 3 stabilisce che “Le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli articoli 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’articolo 16, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, pur restando di proprietà dei rispettivi operatori, e ad esse si applica la normativa vigente in materia”.
L'art. 90 dispone che gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno “carattere di pubblica utilità”, con possibilità, quindi, di essere ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche (residenziale, verde, agricola). Occorre, tuttavia, sottolineare che, nonostante il riconoscimento del carattere di opere di pubblica utilità e malgrado l’assimilazione ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria, le stazioni radio base di un impianto di telefonia mobile non possono essere localizzate indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale perché, al cospetto di rilevanti interessi di natura pubblica, come nel caso della tutela dei beni ambientali e culturali, la realizzazione dell’opera di pubblica utilità può risultare cedevole.
Non a caso, il successivo comma 4 dello stesso art. 86 prescrive che "Restano ferme le disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, nonché le disposizioni a tutela delle servitù militari di cui al titolo VI, del libro II, del codice dell’ordinamento militare".
Sotto altro profilo, sempre ai sensi dell’art. 86 del D.lgs. n. 259/2003, l’installazione di infrastrutture viene autorizzata dagli enti locali, previo accertamento, da parte dell’organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all’art. 14 della legge 22.02.2001, n. 36, della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale in relazione al disposto della legge 22.02.2001 n. 36 e dei relativi provvedimenti di attuazione.
Sul punto, occorre porre in evidenza che l’art. 8 della legge n. 36/2001 (il quale nel disciplinare il riparto di competenze tra Regioni, Province e Comuni in materia stabilisce che “i Comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”), è stato interpretato nel senso che l’ente locale può senz’altro disciplinare, con proprio regolamento, l’individuazione di siti del territorio comunale interdetti all’installazione di impianti del genere di cui si discute, ma ciò può avvenire senza che la facoltà di regolamentazione si traduca in un divieto generalizzato di installazione in identificate zone urbanistiche (la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 331/2003 ha, infatti, chiarito che nell’esercizio dei suoi poteri, il Comune non può rendere di fatto impossibile la realizzazione di una rete completa di infrastrutture per le telecomunicazioni, trasformando i criteri di individuazione, che pure il comune può fissare, in limitazioni alla localizzazione con prescrizioni aventi natura diversa da quella consentita dalla legge quadro n. 36 del 2001).
Del pari, i comuni non possono introdurre limitazioni alla localizzazione che, in quanto funzionali non al governo del territorio, ma alla tutela della salute dai rischi dell’elettromagnetismo, invaderebbero la competenza che l’art. 4 della legge n. 36/2001 riserva allo Stato.
Nel quadro così delineato, risulta del tutto coerente la disposizione, sopra richiamata, di cui all’art. 4, comma 7, della L.r. Lombardia n. 11 del 2001, in relazione alla quale il Collegio, quindi, non ritiene di poter ravvisare profili di incostituzionalità siccome prospettati dal Comune resistente (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 08.05.2014 n. 1213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo di asservimento e attività edilizia.
Il vincolo di asservimento si costituisce in virtù di un provvedimento formale (permesso di costruire, dichiarazione di assenso all’asservimento) nella specie va rilevato come non sia comunque aliunde evincibile una cessione di cubatura da parte dell’area in contestazione in favore dei fabbricati e neppure opere di urbanizzazione connesse al Piano di lottizzazione attuato nelle aree contermini la cui realizzazione avrebbe fatto esaurire la capacità dell’area prete semente servente.
Invero, il vincolo edilizio connesso al rapporto area-volume costituito dall’asservimento presuppone una già avvenuta totale o parziale utilizzazione a scopo edificatorio di un’area in relazione allo sviluppo volumetrico di aree solitamente contigue, di guisa che l’area stessa non può dirsi libera ancorché si presenti fisicamente libera da immobili.

Passando alla disamina concreta del caso, fermo restando che secondo un preciso orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato Sez. V 21.03.2000 n. 3637) per lo più il vincolo di asservimento si costituisce in virtù di un provvedimento formale (permesso di costruire, dichiarazione di assenso all’asservimento) nella specie va rilevato come non sia comunque aliunde evincibile una cessione di cubatura da parte dell’area in contestazione in favore dei fabbricati e neppure opere di urbanizzazione connesse al Piano di lottizzazione attuato nelle aree contermini la cui realizzazione avrebbe fatto esaurire la capacità dell’area prete semente servente.
Invero, il vincolo edilizio connesso al rapporto area-volume costituito dall’asservimento presuppone una già avvenuta totale o parziale utilizzazione a scopo edificatorio di un’area in relazione allo sviluppo volumetrico di aree solitamente contigue, di guisa che l’area stessa non può dirsi libera ancorché si presenti fisicamente libera da immobili (cfr Cons. Stato Sez. IV 09/07/2011 n. 4143; Cons. Stato Sez. V 07/11/2002 n. 6128), ma non è questa la situazione che qui ricorre (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.06.2013 n. 3106 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Insanabilità permanente degli edifici inseriti in una lottizzazione abusiva.
La connotazione dell’insanabilità permanente degli edifici facenti parte di una lottizzazione abusiva, è posta dalla legge a tutela della potestà programmatoria del Comune, e serve ad assicurare l'effettivo controllo del territorio da parte della predetta l'Amministrazione titolare della funzione di pianificazione al fine di garantire nel tempo un’ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibili con le esigenze di finanza pubblica e con il vivere civile.
L’assunto va respinto .
L’ordinanza del Giudice dell’esecuzione del tribunale di Bari nelle ordinanze di restituzione dei beni confiscati e di cancellazione della trascrizione della confisca nei confronti del Comune di Palo del Colle, non aveva un carattere propriamente decisorio, ma era stata emanata solamente in conseguenza del rilascio della concessione in sanatoria, per cui il venir meno in autotutela della stessa faceva venir meno il relativo loro presupposto.
In ogni caso non potevano formare “giudicato penale” idoneo a far stato tra le parti ed a precludere i provvedimenti di autotutela.
La motivazione degli atti impugnati in primo grado è congrua ed logica, anche solo con riferimento all’indubbia sussistenza di una lottizzazione abusiva, la quale nel caso di specie è stata ampiamente documentata nelle relazioni della Polizia Municipale del 24.06.2002 e del 06.07.2004, che ricostruivano la realizzazione progressiva tra il 1985 ed il 2002 di ben 15 fabbricati artigianali oltre ad un piazzale di 8000 mt., recinzioni, muri di cinta, strada ecc., la cui valutazione complessiva era tale da rendere evidente l’insuscettibilità delle opere di essere oggetto della sanatoria.
La connotazione dell’insanabilità permanente della lottizzazione è posta dalla legge a tutela della potestà programmatoria del Comune e serve ad assicurare l'effettivo controllo del territorio da parte della predetta l'Amministrazione titolare della funzione di pianificazione al fine di garantire nel tempo un’ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibili con le esigenze di finanza pubblica e con il vivere civile (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 07.06.2012 n. 3381).
In relazione alla totale abusività della loro realizzazione non è poi vero che i capannoni sarebbero stati sostanzialmente legittimi, perché avrebbero rispettato gli indici ed i parametri di riferimento della Zona di interventi introdotti, successivamente agli abusi, con le varianti al Regolamento edilizio di cui alla delibera del consiglio comunale n. 132/1975 e n. 15/1989 con cui la stessa amministrazione aveva elevato l’indice di fabbricabilità per realizzare “capannoni e manufatti connessi con l’agricoltura” .
A parte che non è stata fornita (nemmeno in questa sede) alcuna prova dell’assunto per cui i capannoni avrebbero realmente rispettato i nuovi indici di fabbricabilità, la notevole entità lottizzatoria degli abusi precedentemente realizzati faceva sì che la successiva modifica dell’indice fondiario risultasse essere una sopravvenienza giuridicamente irrilevante.
Gli appellanti peraltro non forniscono neanche riscontri della destinazione ad attività connessi con l’agricoltura delle costruzioni: al contrario, salvo forse per un frantoio e una vendita trattori, per tutti gli altri casi si tratta di utilizzi a fini artigianali e/o commerciali del tutto differenti (es. ditta di trasporti, officina di un fabbro, una tipografia, gabinetto fotografico, ditta di produzione di sacchi in PVC, negozio di divani, e di strumenti musicali, ecc.: cfr. allegato alla nota della Polizia Municipale del 06.07.2004).
Per questo, è infondata sia l’affermazione per cui nel caso non vi sarebbe stato alcuno stravolgimento del territorio in quanto i manufatti occuperebbero superficie minima dei relativi lotti e sia che il complesso degli interventi abusivi sarebbe stato compatibile con la regolamentazione prevista in zona agricola.
L’esame “ictu oculi” della cartina allegata al provvedimento, ed il riscontro con le mappe satellitari statunitensi, generalmente accessibili a tutti via web, dimostrano invece che vi è stata una pesante “trasformazione urbanistico edilizia dei terreni in totale spregio alle prescrizioni urbanistiche” (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.06.2013 n. 3086 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale alle esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del soggetto nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere, in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento.
Invero, le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente. Pertanto quando l'interessato sia venuto a conoscenza dell'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti, si deve dare prevalenza ai principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa. Quello che rileva procedimentalmente è che la comunicazione di avvio di cui all’art. 7, L. 07.08.1990 n. 241 vi sia stata concretamente effettuata al destinatario.

L'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale alle esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del soggetto nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere, in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento.
Come la Sezione ha più volte avuto modi di sottolineare, le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente. Pertanto quando l'interessato sia venuto a conoscenza dell'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti, si deve dare prevalenza ai principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa. Quello che rileva procedimentalmente è che la comunicazione di avvio di cui all’art. 7, L. 07.08.1990 n. 241 vi sia stata concretamente effettuata al destinatario (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 16.03.2012 n. 1497; Consiglio di Stato sez. IV 18.04.2012 n. 2286; Consiglio di Stato sez. IV 17.09.2012 n. 4925, Consiglio di Stato sez. IV 15.12.2011 n. 6618; ecc.)
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.06.2013 n. 3086 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego di autorizzazione all’installazione di una insegna pubblicitaria e ordine di rimozione della stessa. Limitazione perseguimento imprenditoriale.
E’ legittimo il diniego di autorizzazione e l’ordinanza di rimozione di una insegna nel caso in cui la motivazione è basata, oltre che su ragioni di estetica, anche sulle caratteristiche dell’insegna a cassonetto e sulle sue eccessive dimensioni.
Infatti, quando il contrasto di una struttura con l’estetica urbana è evidente, per le sue dimensioni e caratteristiche, in base a dati di comune esperienza, non sono necessarie particolari motivazioni circa le ragioni che inducono a ritenerlo sussistente. Quanto al contrasto con i principi di iniziativa privata e libertà di impresa, essi sono recessivi rispetto agli interessi pubblici che l’ordinamento tutela subordinando inderogabilmente la possibilità di erigere una insegna luminosa alla previa autorizzazione amministrativa dei competenti organi comunali.
Il perseguimento imprenditoriale dello scopo pubblicitario in relazione al quale è rilasciabile l'autorizzazione può essere infatti limitato dal perseguimento di preminenti interessi pubblici salvaguardati “ex lege”, in sintonia con l'art. 41, comma 2, della Costituzione, secondo il quale, anche se l'iniziativa economica privata è libera, essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza.

La Sezione ritiene che provvedimenti come quello di specie, per essere correttamente motivati, debbano contenere una esplicazione concreta della realtà dei fatti e delle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla pubblica amministrazione di ammettere l’intervento, tale da non risultare vaga e apodittica, ma riferita a specifici e concreti valori, in modo da permettere, sebbene sintetica, la ricostruzione dell'iter logico seguito dall'Amministrazione nell'effettuazione delle sue valutazioni.
Ovviamente essendo il provvedimento espresso nell'esercizio di valutazioni tecniche, è censurabile dal g.a. non in forma sostitutiva, ma soltanto per evidenti vizi di illogicità, irragionevolezza, travisamento dei fatti o per evidente difetto di motivazione.
Nel caso che occupa con il provvedimento impugnato è stato respinto dall’Amministrazione il ricorso contro il diniego di installazione di una insegna luminosa della “Cassa di Risparmio di Firenze” su un immobile sito in Piazza della Repubblica, perché, sentito nuovamente il parere espresso dalla Commissione edilizia, era stato deciso di non accogliere la richiesta “per motivi di estetica date le caratteristiche dell’insegna <<a cassonetto>> e le sue eccessive dimensioni”.
Ritiene la Sezione che le indicazioni contenute in detto provvedimento consentissero una adeguata ricostruzione dell’iter logico giuridico seguito dal Comune nel denegare la richiesta autorizzazione, non essendo stato fatto richiamo a mere ragioni estetiche, ma a circostanze di fatto concrete; era stato infatti specificato che la estetica era stata violata a causa delle caratteristiche della insegna, che era prevista “a cassonetto”, cioè composta da una “scatola” contenente all’interno lampade (solitamente tubi al neon), che per sua natura è di forte impatto visivo, nonché per le sue dimensioni (la parte appellante afferma, senza essere stata sul punto smentita, che essa occupava lo spazio di metri 16.05 per metri 4,50) perché eccessive, evidentemente in riferimento e in proporzione sia all’edificio su cui essa era stata apposta, oltre che al contesto urbano circostante.
Non può quindi condividere la Sezione la affermazione del Giudice di prime cure che l’affermazione contenuta nell’impugnato provvedimento fosse “del tutto apodittica” ed in contrasto con i princìpi della iniziativa privata e della libertà di impresa.
Invero quando il contrasto di una struttura con l’estetica urbana sia evidente, per le sue dimensioni e caratteristiche, in base a dati di comune esperienza, non sono necessarie particolari motivazioni circa le ragioni che inducono a ritenerlo sussistente.
Quanto al contrasto con i principi di iniziativa privata e libertà di impresa, essi sono recessivi rispetto agli interessi pubblici che l’ordinamento tutela subordinando inderogabilmente la possibilità di erigere una insegna luminosa alla previa autorizzazione amministrativa dei competenti organi comunali.
Il perseguimento imprenditoriale dello scopo pubblicitario in relazione al quale è rilasciabile l'autorizzazione può essere infatti limitato dal perseguimento di preminenti interessi pubblici salvaguardati “ex lege”, in sintonia con l'art. 41, comma 2, della Costituzione (secondo il quale, anche se l'iniziativa economica privata è libera, essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.06.2013 n. 3028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi obbligatori e oneri concessori.
Allo stato attuale, si deve ritenere che, ai sensi del coordinato disposto dell’art. 11, comma 1, L. n. 122 del 1989 e dell’art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, la realizzazione dei parcheggi obbligatori, nella misura richiesta dalla legge, è esonerata dall'onere di pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
Il ricorso è fondato, non essendovi motivi per discostarsi dal consolidato indirizzo in materia di questa Sezione, peraltro formatosi nei confronti del medesimo ente locale (cfr. sentenze n. 4632 del 19.11.2012, n. 2491 e n. 2404 del 28.05.2012).
Invero, ai sensi dell’art. 11, co. 1, della legge n. 122 del 1989 (c.d. legge Tognoli), «le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10».
Tale ultima norma, che prevedeva l’esonero dal pagamento del contributo di concessione «per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici», è stata abrogata dall’art. 136, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, ma è stata riprodotta integralmente dall’art. 17, comma 3, dello stesso D.P.R..
Allo stato attuale, pertanto, si deve ritenere che, ai sensi del coordinato disposto dell’art. 11, comma 1, L. n. 122 del 1989 e dell’art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, la realizzazione dei parcheggi obbligatori, nella misura richiesta dalla legge, è esonerata dall'onere di pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione (cfr., in termini, Consiglio di Stato, Sezione IV, 22.11.2011, n. 6154; TAR Lombardia, Milano, Sezione II, 17.04.2007, n. 1779; TAR Campania, Napoli, Sezione IV, 16.07.2004, n. 10364).
Alla luce di quanto precede, quindi, dalla volumetria complessiva computabile (pari a mc 1.694,95) occorre escludere le superfici destinate a parcheggi obbligatori (pari a 169,49 mq, ossia 1 mq per ogni 10 mc di costruzione).
Per queste ragioni la domanda va conclusivamente accolta (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.05.2013 n. 2745 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro di contenimento non è pertinenza.
Secondo giurisprudenza consolidata il muro di contenimento non può essere considerato pertinenza, mentre il muro di recinzione necessita del permesso di costruire quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica, o da opera muraria.
La realizzazione ex novo di un muro di recinzione in cemento armato di rilevanti dimensioni, con sovrastante ringhiera in ferro e un muro di contenimento, in quanto strutture autonome e indipendenti e, comunque, di rilevanti dimensioni non possono configurarsi come opere pertinenziali, né quale interventi di restauro e risanamento conservativo.
In particolare, secondo giurisprudenza, il muro di contenimento non può essere considerato pertinenza (TAR Lombardia Brescia Sez. II, 02.07.2012, n. 1265; TAR Liguria Genova Sez. I, 31.12.2009, n. 4131) mentre il muro di recinzione necessita del permesso di costruire quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica (TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897) o da opera muraria (Cassazione penale, sez. III, 13.12.2007, n. 4755) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.05.2013 n. 2677 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
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L'ordine di sospensione dei lavori non costituisce un necessario presupposto di legittimità dell'ingiunzione a demolire l'immobile abusivo, ben ponendo quest'ultima essere emanata immediatamente all'esito dell'accertamento della realizzazione di opere abusive.
Il potere di sospensione dei lavori in corso è, difatti, meramente cautelare, essendo finalizzato a evitare che la prosecuzione dei lavori stessi determini un aggravarsi del danno urbanistico, per cui non rappresenta un presupposto necessario all'ordinanza di demolizione.
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L'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e, per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e non necessita di alcuna puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.

1) Il ricorso si rivela infondato
Nel primo motivo di ricorso le parti ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art.7 della legge n. 241/1990 per aver l’Amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento che ha portato al provvedimento gravato.
La censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129).
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
1.1) Nel primo motivo di ricorso le parti ricorrenti hanno, inoltre, dedotto l’illegittimità del provvedimento gravato perché non preceduto dall’ordine di sospensione lavori di cui al comma 3, dell’art. 27 D.P.R. n. 380 del 2001.
La censura è infondata.
L'ordine di sospensione dei lavori non costituisce un necessario presupposto di legittimità dell'ingiunzione a demolire l'immobile abusivo, ben ponendo quest'ultima essere emanata immediatamente all'esito dell'accertamento della realizzazione di opere abusive (TAR Puglia Lecce, Sez. III, 11.03.2010, n. 709; TAR Campania Salerno, Sez. II, 13.10.2006, n. 1742).
Il potere di sospensione dei lavori in corso è, difatti, meramente cautelare, essendo finalizzato a evitare che la prosecuzione dei lavori stessi determini un aggravarsi del danno urbanistico, per cui non rappresenta un presupposto necessario all'ordinanza di demolizione.
2) Con il secondo motivo di ricorso le parti ricorrenti hanno lamentato la carenza di istruttoria e la mancata motivazione in ordine al profilo della sussistenza dell’interesse pubblico alla demolizione o della possibilità si adozione di una misura sanzionatoria di minore gravità, anche tenuto conto che le opere ricadono in area altamente urbanizzata.
Il motivo è infondato.
L’istruttoria del provvedimento sanzionatoria appare completa essendo stati acquisiti gli elementi che attestano la realizzazione delle opere e la loro abusività per assenza di titolo.
L'abusività di un'opera edilizia, inoltre, costituisce già di per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria (Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357) e, per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis, C.d.S., VI, 28.06.2004, n. 4743; C.d.S., sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e non necessita di alcuna puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702)
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.05.2013 n. 2677 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo cimiteriale.
La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie, che deve essere misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto di inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di PRG, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienicosanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Priva di pregio, innanzitutto, è la censura per la quale il vincolo cimiteriale non sarebbe applicabile per le opere realizzate al di fuori dei centri abitati, poiché il riferimento ai “centri abitati”, di cui all'art. 338 r.d. n. 1265/1934 rileva unicamente per la realizzazione e l’ampliamento dei cimiteri da parte del Comune e non invece per l’attività costruttiva del privato, che deve, comunque, rispettare le prescritte distanze dal cimitero anche se la costruzione dovesse essere edificata fuori dai centri abitati (cfr. C.d.S., sez. V, 29.03.2006, n. 1593; C.d.S., sez. IV, 20.07.2011, n. 4403, che ha anche escluso che la presenza, come nel caso ora in esame, di una strada possa “interrompere” la continuità del vincolo).
In secondo luogo, il vincolo in questione è di inedificabilità assoluta e, perciò, le opere realizzate in contrasto con lo stesso non sono suscettibili di sanatoria, ai sensi dell'art. 33 della legge 28.02.1985, n. 47, neppure per silentium.
Al riguardo, è sufficiente richiamare l'indirizzo del Giudice di appello, dal quale non si rinvengono ragioni per discostarsi, secondo cui «la fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie (e che deve essere misurata a partire dal muro di cinta del cimitero), costituisce un vincolo assoluto di inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di PRG, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienicosanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. IV, 16.03.2011 n. 1645 e 27.10.2009 n. 6547; sez. V, 14.09.2010 n. 6671)» (cfr. C.d.S., sez. sez. IV, 20.07.2011, n. 4403 cit.).
Sono, perciò, infondati anche il secondo ed il terzo motivo di ricorso, mentre, con riguardo al quarto ed ultimo motivo, basta osservare, per la sua reiezione, che sia il diniego di condono rispetto ad opere per legge non suscettibili di sanatoria, sia gli interventi repressivi degli abusi edilizi, sono espressione di un potere dell'amministrazione di natura vincolata e non discrezionale, che in quanto tale non è soggetto ad eccesso di potere, ma soltanto ad eventuali vizi di violazione di legge o di incompetenza (in materia di ordini di demolizione, cfr. TAR Campania Salerno, sez. I, 06.12.2011, n. 1926; TAR Sicilia Catania, sez. I, 20.09.2010, n. 3763) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.05.2013 n. 2496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Obbligo di adeguata motivazione permesso in sanatoria.
L’obbligo di adeguata motivazione non può che riguardare, nella formulazione dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, l’ipotesi in cui l’Amministrazione ritenga di accogliere la richiesta di accertamento di conformità, come si desume in modo chiaro dalla formulazione letterale del suo comma 3, secondo cui sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata, in coerenza con la ragione dell’istituto tenuto conto che trattandosi di sanare ex post un abuso edilizio l’Amministrazione non può sottrarsi, nell’interesse dell’intera collettività e degli eventuali proprietari confinanti, all’onere di specifica e puntuale esposizione delle ragioni, in fatto e in diritto, che consentono di legittimare l’opera realizzata sine titulo.
Il motivo è infondato.
La tesi della ricorrente è priva di pregio alla luce dell’orientamento giurisprudenziale di questa stessa Sezione (tra le molte, TAR Napoli, Campania sez. VI, 05.06.2012 n. 2644), secondo cui, in primo luogo, il silenzio serbato dall'Amministrazione sulla domanda di sanatoria ex art. 13 della legge n. 47/1985 (poi trasfuso nell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) è qualificabile come silenzio provvedimentale con contenuto di rigetto e non come silenzio inadempimento all'obbligo di provvedere, per cui nessuna violazione del termine posto dall’art. 2 della legge 241/1990 si è verificata nel caso di specie.
In secondo luogo, l’obbligo di adeguata motivazione non può che riguardare, nella formulazione dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, l’ipotesi in cui l’Amministrazione ritenga di accogliere la richiesta di accertamento di conformità, come si desume in modo chiaro dalla formulazione letterale del suo comma 3, secondo cui “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata” (tra le molte, Cons. Stato, sezione quarta, 03.04.2006, n. 1710), in coerenza con la ragione dell’istituto tenuto conto che “trattandosi di sanare ex post un abuso edilizio l’Amministrazione non può sottrarsi, nell’interesse dell’intera collettività e degli eventuali proprietari confinanti, all’onere di specifica e puntuale esposizione delle ragioni, in fatto e in diritto, che consentono di legittimare l’opera realizzata sine titulo” (così, in particolare, fra le altre, TAR Campania, Napoli, sezione ottava, 15.04.2010, n. 1981 cit.).
Nel caso di specie, trattandosi di un silenzio-diniego, non può predicarsi il difetto di motivazione dedotto dalla ricorrente né il privato, in queste condizioni, vede diminuito il proprio diritto di difesa per il fatto di non poterlo dedurre, in quanto ben avrebbe potuto allegare che l’istanza di sanatoria sia meritevole di accoglimento, per la sussistenza della prescritta doppia conformità delle opere abusive realizzate, adducendo un valido principio di prova, tutti elementi che però non sono stati portati all’attenzione del collegio nel caso in esame (tra le molte di questo Tribunale, sez. VI, 07.12.2011, n. 5716) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione.
L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto, anche silenzioso dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione.
A norma dell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta.

La censura è infondata in diritto poiché la giurisprudenza del Tribunale, espressa più volte anche dalla Sezione, predica che “L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia (in tal senso, da ultimo TAR Campania–Napoli, Sez. III, 28.01.2013 n. 651; ID, 05.12.2012, n. 4941), decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione".
Si è espressa in tal senso da ultimo la Sezione (TAR Campania–Napoli, III, 22.02.2013 n. 1069).
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.05.2013 n. 2421 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decadenza di una concessione edilizia (ed oggi di un permesso di costruire) per la mancata osservanza del termine di inizio o di completamento dei lavori (ovvero per sopravvenuta incompatibilità con lo strumento urbanistico sopravvenuto) opera "di diritto", con la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine.
Da ciò consegue che l'eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente motivato col richiamo alla norma applicata, senza che sia necessaria una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico, essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul primo, e che non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto che si verifica "ipso iure", senza che residui all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale.
Si è anche precisato che la pronunzia di decadenza del permesso di costruire per omesso rispetto dei termini fissati per l'inizio dei lavori o per il completamento degli stessi -in mancanza di apposita istanza di proroga entro la scadenza di tali termini- si qualifica come atto vincolato, a carattere meramente dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge, costituito dal mancato inizio o completamento dei lavori nel termine assegnato, con la conseguenza che la decadenza del titolo si verifica in modo automatico e non è subordinata alla sua previa dichiarazione con atto amministrativo, e che l’istituto della decadenza ha carattere oggettivo trovando fondamento nel mero decorso del termine previsto, fatta eccezione per i casi di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza maggiore o altre cause espressamente contemplate dalle legge non riferibili alla condotta del titolare del permesso e assolutamente ostative all’esecuzione dei lavori.
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Per quanto riguarda poi la tipologia delle opere che possono far ritenere iniziati i lavori la giurisprudenza ha chiarito che le opere realizzate devono essere finalizzate alla realizzazione del manufatto oltreché avere una certa consistenza, dovendosi così escludere che possano costituire inizio dei lavori quelle opere solo fittiziamente eseguite e che, perciò stesso, non evidenziano l'esistenza di una concreta "voluntas aedificandi" da parte del titolare del titolo edilizio.
In particolare si è affermato che, al fine di contestare la dichiarata decadenza della concessione edilizia (ed oggi di un permesso di costruire) per mancato inizio dei lavori nei termini non è sufficiente addurre l'avvenuta recinzione del cantiere, il posizionamento della baracca degli attrezzi, la pulizia dell'area, la realizzazione dell'impianto elettrico e di terra del cantiere, l'installazione della cartellonistica di cantiere, etc., trattandosi di circostanze che oltre ad esaurirsi in un brevissimo arco temporale non possono essere considerate significative di un effettivo inizio dei lavori di costruzione dell'edificio progettato e assentito.
Anche questa Sezione ha di recente affermato sul punto che l'esecuzione di mere attività preparatorie, quali il taglio degli alberi, l'apertura di un varco di accesso al terreno, la demolizione di parte di un muro di confine e la realizzazione di una nuova recinzione, non accompagnate dalla compiuta organizzazione del cantiere di lavoro, non costituiscono valido inizio dei lavori tale da impedire la decadenza del permesso di costruire per mancato rispetto del termine iniziale.

Al riguardo si deve preliminarmente ricordare che, come anche questa Sezione ha avuto modo di recente di affermare, la decadenza di una concessione edilizia (ed oggi di un permesso di costruire) per la mancata osservanza del termine di inizio o di completamento dei lavori (ovvero per sopravvenuta incompatibilità con lo strumento urbanistico sopravvenuto) opera "di diritto", con la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine.
Da ciò consegue che l'eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente motivato col richiamo alla norma applicata, senza che sia necessaria una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico, essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul primo, e che non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto che si verifica "ipso iure", senza che residui all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale (TAR Campania Napoli, sez. II, 30.01.2009, n. 542; TAR Sicilia Catania, sez. I, 15.09.2009, n. 1507).
Si è anche precisato che la pronunzia di decadenza del permesso di costruire per omesso rispetto dei termini fissati per l'inizio dei lavori o per il completamento degli stessi -in mancanza di apposita istanza di proroga entro la scadenza di tali termini- si qualifica come atto vincolato, a carattere meramente dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge, costituito dal mancato inizio o completamento dei lavori nel termine assegnato, con la conseguenza che la decadenza del titolo si verifica in modo automatico e non è subordinata alla sua previa dichiarazione con atto amministrativo (TAR Valle d'Aosta Aosta, sez. I, 19.03.2009, n. 19), e che l’istituto della decadenza ha carattere oggettivo trovando fondamento nel mero decorso del termine previsto, fatta eccezione per i casi di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza maggiore o altre cause espressamente contemplate dalle legge non riferibili alla condotta del titolare del permesso e assolutamente ostative all’esecuzione dei lavori (TAR Piemonte, Sez. I, n. 2113 del 28.07.2009).
Per quanto riguarda poi la tipologia delle opere che possono far ritenere iniziati i lavori la giurisprudenza ha chiarito che le opere realizzate devono essere finalizzate alla realizzazione del manufatto oltreché avere una certa consistenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 29.11.2004, n. 7748; TAR Toscana, sez. III, 17.11.2008, n. 2533), dovendosi così escludere che possano costituire inizio dei lavori quelle opere solo fittiziamente eseguite e che, perciò stesso, non evidenziano l'esistenza di una concreta "voluntas aedificandi" da parte del titolare del titolo edilizio.
In particolare si è affermato che, al fine di contestare la dichiarata decadenza della concessione edilizia (ed oggi di un permesso di costruire) per mancato inizio dei lavori nei termini non è sufficiente addurre l'avvenuta recinzione del cantiere, il posizionamento della baracca degli attrezzi, la pulizia dell'area, la realizzazione dell'impianto elettrico e di terra del cantiere, l'installazione della cartellonistica di cantiere, etc., trattandosi di circostanze che oltre ad esaurirsi in un brevissimo arco temporale non possono essere considerate significative di un effettivo inizio dei lavori di costruzione dell'edificio progettato e assentito (Consiglio Stato, sez. IV, 18.06.2008, n. 3030).
Anche questa Sezione ha di recente affermato sul punto che l'esecuzione di mere attività preparatorie, quali il taglio degli alberi, l'apertura di un varco di accesso al terreno, la demolizione di parte di un muro di confine e la realizzazione di una nuova recinzione, non accompagnate dalla compiuta organizzazione del cantiere di lavoro, non costituiscono valido inizio dei lavori tale da impedire la decadenza del permesso di costruire per mancato rispetto del termine iniziale (TAR Campania Napoli, sez. II, 25.09.2008, n. 10890) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 27.01.2010 n. 335 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 10.09.2014

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATADenuncia inizio attività addio. In edilizia basterà la segnalazione certificata (Scia). DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Il testo è pronto per la pubblicazione in Gazzetta.
Addio alla Dia (denuncia di inizio attività) in edilizia. È messa definitivamente in soffitta dalla Scia (segnalazione certificata di inizio attività). Mentre si spinge su manutenzioni e ristrutturazioni, con mano leggera sugli oneri edilizi e si accelerano i tempi del permesso di costruire, la cui versione convenzionata fa il suo esordio nel Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), accanto ai permessi in deroga per le ristrutturazioni delle aree industriali dismesse. E per le urbanizzazioni si cerca di farle realizzare al privato (come per le trasformazioni urbane complesse).

Il decreto sblocca Italia (si veda ItaliaOggi del 02.09.2014), nella sua versione ormai pronta per la pubblicazione in G.U., dedica un lungo articolo alle semplificazioni in edilizia, soffermandosi sulla necessità di sburocratizzare alcuni passaggi e di creare occasioni per rivitalizzare il mercato.
Vediamo le singole scelte del provvedimento.
Va nel senso della sburocratizzazione l'espansione del concetto di manutenzione straordinaria, che si affranca dalla necessità di rispettare volumi e superfici, bastando il rispetto della volumetria complessiva.
Fermo l'ingombro dell'edificio, accorpamento o frazionamenti di unità vengono, dunque, declassati a manutenzioni straordinarie, con esclusione della necessità del permesso di costruire e benefici anche sul versante degli oneri dovuti al comune.
La modifica del concetto trascina il rimodellamento delle disposizioni sui casi in cui è necessario il permesso di costruire e, a cascata, fa ampliare lo spazio d'azione dell'attività edilizia libera, realizzabile previa una semplice comunicazione di inizio lavori (Cil).
Non decisiva, ma apprezzabile, poi la pratica di accatastamento d'ufficio, utilizzando la stessa Cil.
L'ottica è, invece, la semplificazione per la classificazione dei mutamenti di destinazioni d'uso rilevanti: la norma prevede quattro categorie e solo il passaggio da una all'altra è significativo; mentre i passaggi interni alla singola voce non costituiscono mutamenti di destinazioni d'uso. Le categorie sono: residenziale e turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale; rurale. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e dei piani regolatori, dice il decreto, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Segue l'onda della semplificazione la scomparsa della Dia (salvo che nella versione super Dia, cioè sostitutiva del permesso di costruire), sostituita dalla Scia (in sostanza scompare l'alternatività, rimanendo la Scia come modalità unica).
Anche il procedimento del rilascio del permesso di costruire viene velocizzato: i termini dei rilascio non sono più raddoppiati sempre nei centri più grandi (oltre i 100.000 abitanti), ma solo per progetti particolarmente complessi secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento.
Meno burocrazia, ma anche impulso al mercato dovrebbe arrivare dal permesso di costruire in deroga per gli interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica attuati anche in aree industriali dismesse: la deroga potrà riguardare anche i mutamenti di destinazione di uso. Stesso discorso per le trasformazioni urbane complesse, per le quali si può prevedere l'assoggettamento al solo costo di costruzione, mentre le opere di urbanizzazione sono direttamente messe in carico all'operatore privato che ne resta proprietario.
Sulla stessa lunghezza d'onda l'alleggerimento degli oneri per le ristrutturazioni e gli interventi sull'esistente e anche il permesso di costruire convenzionato. A quest'ultimo si potrà ricorrere affinché le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte dal privato, sotto il controllo del comune, con una modalità semplificata: con la convenzione si devono regolare utilizzo di cubature, caratteristiche degli interventi e realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale.
La proroga del permesso di costruire secondo valutazioni discrezionali, infine, dà maggiore tempo alle imprese per la realizzazione dei progetti (articolo ItaliaOggi del 09.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità obbligatoria nel D.L. 90/2014 - Un nuovo istituto non certo privo di problemi (CGIL-FP di Bergamo, nota 25.08.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità volontaria nel D.L. 90/2014 - Ancora necessario il nulla-osta della propria amministrazione (CGIL-FP di Bergamo, nota 11.08.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità esterna nel D.L. 90/2014 - I problemi del "passaggio diretto" senza "cessione del contratto" (CGIL-FP di Bergamo, nota 08.08.2014).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGOSe il dipendente è assenteista paga anche il dirigente. «Pa». Decisione della Corte dei conti.
Se il dipendente viene condannato per assenteismo matura una responsabilità contabile per il danno apportato all'ente tanto nei suoi confronti quanto per il suo dirigente, a cui deve essere imputato l'omesso controllo. E tale responsabilità deve essere imputata per due terzi a carico del dipendente e per il restante terzo a carico del dirigente.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella sentenza 06.08.2014 n. 139 della Sez. giurisdizionale della Corte dei conti della Toscana con cui sono stati condannati tanto il dipendente resosi responsabile di assenteismo, con sentenza penale di patteggiamento, quanto il dirigente, a cui è stata imputata la scarsa vigilanza.
È quest'ultimo, in particolare, un elemento innovativo che deve essere sottolineato e che costituisce un pesante monito di cui i dirigenti –ai quali, si rammenta, il legislatore ha conferito i poteri e le capacità del privato datore di lavoro– devono tenere adeguatamente conto.
Il caso oggetto della pronuncia della magistratura contabile fiorentina si basa sulla sentenza penale con cui è stato accertato che il dipendente si assentava arbitrariamente dall'ufficio per svolgere l'attività di maestro di tennis. Al riguardo una ulteriore fonte di responsabilità per il dipendente è data dallo svolgimento di questa seconda attività senza la autorizzazione dell'ente.
Con riguardo a questo soggetto la sentenza ha ricordato che costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza contabile affermare «l'efficacia nel processo contabile della sentenza di patteggiamento resa in sede penale». Quanto al dirigente, che ovviamente non è stato destinatario di alcuna condanna penale, alla base della sua condanna in sede contabile è posta la seguente motivazione: «non ha impedito, omettendo i dovuti controlli interni, il comportamento delittuoso».
In particolare, ciò risulta dalla considerazione che il dipendente prestava la sua attività nella stessa sede del dirigente, il quale, quindi, avrebbe dovuto esercitare il controllo della sua attività. È stata inoltre riscontrata la «totale assenza di diligenza e la rilevante superficialità e trascuratezza». Ed ancora occorre considerare altri elementi che quanto meno qualificano la sua condotta come caratterizzata da una colpa grave e dal non esercizio dei normali doveri di un dirigente. In particolare, il modo di vestire con cui spesso il dipendente si presentava in ufficio, cioè la tenuta da tennis. Da qui la seguente conclusione: «il grado di esigibilità della condotta canonizzata dalla normativa nella concreta gestione integra, nella specie, l'elemento soggettivo minimo (colpa grave) previsto dalla struttura della responsabilità amministrativa».
Sono molto importanti anche le regole adottate dalla Corte dei conti della Toscana per la quantificazione del danno. Secondo i giudici contabili occorre considerare in primo luogo i compensi illegittimamente percepiti per i periodi in cui il dipendente si è arbitrariamente assentato. A tale voce si devono sommare, poi, i compensi illegittimamente percepiti per avere svolto una seconda attività senza l'autorizzazione dell'ente e i danni apportati all'immagine dell'ente.
Nella quantificazione dei danni apportati all'ente per il mancato svolgimento della normale attività lavorativa a causa delle assenze arbitrarie, infine, i due terzi vanno posti a carico del dipendente e la restante parte a carico del dirigente per l'omesso controllo. Fatto, quest'ultimo, che costituisce un'altra indicazione innovativa
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONuove assunzioni con margini di spesa.
Gli enti locali possono continuare ad utilizzare per nuove assunzioni nell'anno corrente eventuali margini di spesa originati da cessazione di personale non utilizzati negli anni precedenti.

Lo ha affermato la Corte dei conti - Veneto, col parere 24.07.2014 n. 401, confermando il costante indirizzo interpretativo della giurisprudenza contabile volto a consentire il cumulo dei «resti» relativi alla percentuale assunzionale annuale non utilizzata dall'ente sottoposto al Patto di stabilità, al fine di raggiungere la quota necessaria ad espletare la procedura finalizzata all'assunzione di unità di personale a tempo indeterminato, rispettando, comunque, i vincoli di spesa ed assunzionali vigenti.
La pronuncia assume rilievo soprattutto alla luce di quanto prevede l'art. 3, comma 5, del recente dl 90/2014, ai sensi del quale «A decorrere dall'anno 2014, è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile».
Secondo la Corte veneta, l'interpretazione offerta dal mero dato testuale conduce a esiti non soddisfacenti, non sembrando consentire più infatti l'utilizzo dei resti, dal momento che la norma sembrerebbe espressamente volta, abrogando l'art. 76, c. 7, del dl 112/2008, a regolare in modo assolutamente innovativo i vincoli assunzionali.
Tuttavia in tal modo si perverrebbe a una inaccettabile e non consentita divaricazione della disciplina vincolistica tra gli enti sottoposti al Patto e quelli non sottoposti al Patto. Di conseguenza, va preferito un approccio ermeneutico di tipo logico-sostanziale che tenga conto dell'identità di ratio che permea le rispettive normative vincolistiche (articolo ItaliaOggi del 03.09.2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 10.09.2014, "Rettifica del decreto 4 settembre 2014, n. 8049 «Quinto aggiornamento dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)»" (decreto D.G. 08.09.2014 n. 8137).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 09.09.2014, "Quinto aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 04.09.2014 n. 8049).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 dell'08.09.2014, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.08.2014, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 01.09.2014 n. 111).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 08.09.2014 n. 208 "Proroga dell’ordinanza contingibile e urgente 06.08.2013, concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero della Salute, ordinanza 28.08.2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuovo regolamento dell’Albo nazionale dei gestori ambientali (ANCE Bergamo, circolare 05.09.2014 n. 168).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Efficienza energetica: pubblicato il decreto di attuazione della direttiva 2012/27/UE (ANCE Bergamo, circolare 05.09.2014 n. 167).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Obblighi del datore di lavoro dell’impresa affidataria – art. 97 del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81 e s.m.i. (ANCE Bergamo, circolare 05.09.2014 n. 162).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Prevenzione incendi: pubblicate le regole tecniche per asili nido, aerostazioni e interporti (ANCE Bergamo, circolare 05.09.2014 n. 161).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DPR 09.07.2010, n. 159 - "Regolamento recante i requisiti e le modalità di accreditamento delle agenzie per le imprese, a norma dell'articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 133" - Modalità di trasmissione delle dichiarazioni di conformità al SUAP (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 03.09.2014 n. 151561 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazioni relative a casi di presunta violazione urbanistico-edilizia (Regione Lombardia, nota 03.09.2014 n. 11333 di prot.).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Documento unico di regolarità contributiva: • Verifica autodichiarazione e invito a regolarizzare • Durc rilasciato ai sensi dell’art. 13-bis, comma 5, del decreto legge 07.05.2012, n. 52. Precisazioni (INPS, messaggio 02.09.2014 n. 6756 - link a www.inps.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Gavioli, Contratti di concessione e appalti pubblici: verso un nuovo Testo Unico (08.09.2014 - tratto da www.ispoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Parisi e P. Mazza, Sblocca Italia, in arrivo una nuova detrazione per ridurre il rischio sismico (06.09.2014 - tratto da www.ispoa.it).

APPALTI: F. Gavioli, Certificazione di qualità negli appalti: un traguardo per l’impresa (31.07.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIGare aperte a raggruppamenti sovrabbondanti. Il chiarimento del presidente dell'Anac Raffaele Cantone.
È illegittimo escludere dalle gare di appalto pubblico i raggruppamenti temporanei di imprese che documentino requisiti di partecipazione molto superiori a quelli richiesto dal bando di gara; per escludere il raggruppamento «sovrabbondante» la stazione appaltante deve avere accertato se vi sia stato un reale intento anticoncorrenziale.

È quanto afferma il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, con il comunicato 03.09.2014, diffuso ieri, che ritorna su considerazioni già espresse nella determinazione 4/2012, al fine di chiarire in quale misura sia legittima l'esclusione del raggruppamento cosiddetto sovrabbondante per violazione delle norme in materia di concorrenza.
In particolare il comunicato afferma che la costituzione di un raggruppamento che presenti connotazioni «macroscopicamente» anticoncorrenziali potrebbe configurare una intesa finalizzata a falsare e/o restringere la concorrenza e perciò illegittima.
Ciò detto, però, la possibilità di escludere i concorrenti deve fondarsi sulla verifica delle concrete possibilità di frapporre ostacoli alla corretta dinamica concorrenziale da parte del raggruppamento «sovrabbondante». Va quindi escluso a priori che sia vietata la costituzione di raggruppamenti «sovrabbondanti» i quali, pertanto, sono legittimi: «è sempre consentita la possibilità di costituire raggruppamenti temporanei, anche di tipo sovrabbondante», dice il comunicato e «l'esclusione non potrà mai essere automatica».
Dovrà invece essere la stazione appaltante, qualora ravvisi possibili profili anticoncorrenziali, a «valutare in concreto la situazione di fatto, richiedendo ai concorrenti le relative giustificazioni». Fra queste ragioni (legittime) il comunicato cita gli «elementi legati ad eventuali stati di necessità, in termini di attuale capacità produttiva», così come «ogni altro fattore rientrante nelle libere scelte imprenditoriali degli operatori economici, come l'opportunità ovvero la convenienza di partecipare in raggruppamento alla luce del valore, della dimensione o della tipologia del contratto».
In sostanza le imprese sono libere di organizzarsi e non esiste una legittima esclusione automatica, ma dovrà essere il committente ad accertare l'intento e l'effetto anticoncorrenziale (articolo ItaliaOggi del 06.09.2014).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOOSSERVATORIO VIMINALE/ Dipendente ineleggibile. Prestare servizio nell'ente è causa ostativa. Non rileva che vi sia una convenzione con un comune limitrofo.
Sussiste la causa di ineleggibilità, ai sensi dell'art. 60, comma 1, n. 7 del dlgs 267/2000, nei confronti di un dipendente che presta servizio a tempo parziale presso l'ente, in virtù di una convenzione con un comune limitrofo, e che si è candidato alla carica di consigliere comunale in una lista già ammessa dalla commissione elettorale circondariale? Nel caso in cui il dipendente fosse considerato ineleggibile, l'amministrazione comunale quale strada dovrebbe intraprendere?

La giurisprudenza ha chiarito che le cause di ineleggibilità sono previste allo scopo di garantire l'uguale e libera espressione del voto, tutelata dall'art. 48, comma 1, della Costituzione, rispetto a qualsiasi possibilità di captatio benevolentiae esercitata dal candidato o di metus potestatis nei confronti dello stesso e la loro violazione determina l'invalidità dell'elezione del soggetto ineleggibile, che non abbia tempestivamente rimosso la causa ostativa alla candidatura.
Il fondamento costituzionale della previsione delle ipotesi di ineleggibilità alla carica di amministratore locale va anche ravvisato nell'art. 51, comma 1, della Costituzione, dal quale si desume che il diritto di accesso alle cariche elettive non è incondizionato, ma può essere esercitato solo in presenza dei «requisiti stabiliti dalla legge».
In tale contesto la ratio della ineleggibilità alla carica di consigliere comunale dei dipendenti di un comune risiede nella generale discrezionale valutazione del legislatore, secondo cui la particolare posizione pubblica di tali soggetti nei confronti del cittadino-elettore è, di per sé sola, se non tempestivamente abbandonata, astrattamente idonea a condizionare la libera espressione del voto, in ragione della possibilità che si ingenerino, tra candidato-dipendente ed elettore, rapporti tali da poter inquinare in radice la libertà di scegliere i propri rappresentanti senza condizionamenti specifici (cfr. Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 11/03/2005, n. 5449).
Tanto premesso, in linea generale, ai fini dell'esatta individuazione della nozione di «dipendente ineleggibile», la giurisprudenza di legittimità, muovendo dal presupposto che la norma in questione parla genericamente di «dipendenti», senza altra specificazione, si è orientata nel senso di valorizzare gli elementi del rapporti implicanti la subordinazione del prestatore di lavoro rispetto all'ente pubblico e di ritenere irrilevante che il rapporto medesimo sia di pubblico impiego o di diritto privato. Sotto tale profilo, è stato altresì precisato che la natura dell'atto costitutivo del rapporto di lavoro o la durata di quest'ultimo non valgono a escludere l'esistenza della causa di ineleggibilità (cfr. Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 15/09/1995, n. 9762: Id, sentenza 03.12.1987, n. 8975).
Alla luce di tali considerazioni, nella fattispecie è ravvisabile la prospettata situazione di ineleggibilità, atteso che il dipendente in parola, sia pure a tempo parziale, presta servizio presso l'amministrazione comunale dell'ente e deve ritenersi nella stessa inserito, sia sotto il profilo organizzativo e funzionale sia sotto quello gerarchico e disciplinare.
In merito alle iniziative praticabili da parte dell'amministrazione comunale, l'art. 41, comma 1, del dlgs n. 267 del 2000, dispone che «Nella prima seduta il consiglio comunale e provinciale, prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto, ancorché non sia stato prodotto alcun reclamo, deve esaminare la condizione degli eletti a norma del capo II titolo III e dichiarare la ineleggibilità di essi quando sussista alcuna delle cause ivi previste, provvedendo secondo la procedura indicata dall'articolo 69».
Pertanto, in conformità al generale principio per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la valutazione in ordine alla eventuale sussistenza di un'ipotesi ostativa all'esercizio del mandato elettorale è rimessa al consiglio comunale del quale l'interessato la parte (articolo ItaliaOggi del 05.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come è classificato il reato di deposito incontrollato di rifiuti?
Quando il deposito dei rifiuti manca dei requisiti per essere qualificato come temporaneo, e non è configurabile né un deposito preliminare, realizzato in vista di successive operazioni di smaltimento, né una messa in riserva, realizzato in vista di successive operazioni di recupero, si ha un deposito incontrollato o abbandono di rifiuti che non prelude ad alcuna operazione di smaltimento o recupero.
Per “deposito incontrollato” si intende, infatti, un accumulo di rifiuti sul sito. Si differenzia dall’abbandono per l’inesistenza dell’elemento dell’occasionalità. L’abbandono viene ripetuto sistematicamente e in modo permanente.
A tal proposito, la Cassazione
[1] ha ritenuto che il reato di deposito incontrollato di rifiuti sia un reato di pericolo. L'offesa al bene giuridico protetto, quindi, consiste in un nocumento potenziale dello stesso, che viene soltanto minacciato, e può parlarsi di “pericolo” quando, secondo un giudizio ex ante e secondo la migliore scienza ed esperienza, appare probabile che dalla condotta consegua l'evento lesivo.
Già precedentemente si era affermato che in tema di deposito incontrollato di rifiuti la fattispecie penale costituiva reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre il concreto accertamento della effettiva esistenza di un nocumento, sia pure potenziale, per l’ambiente
[2].
I reati di pericolo, infatti, configurano una estensione e rafforzamento della tutela penale. La minaccia della pena è connessa all’esposizione a pericolo di un bene al fine di creare un deterrente maggiore (28.07.2014 - link a www.ambientelegale.it).
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[1] Cass. Sez. III, 23.05.2012, n. 19435. Ma già Cassazione, 23.04.2010, n. 15680
[2] Cassazione, 23.04.2010, n. 15680

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' legittimo estendere la nozione di 'acque superficiali'?
Ai sensi dell’art. 54, c. 1, lett. c), del D.Lgs n. 152/2006, si intendono per “acque superficiali” le acque interne, ad eccezione delle sole acque sotterranee, le acque di transizione e le acque costiere.
Alla lettera l) del medesimo comma si specifica poi che “corpo idrico superficiale” è un elemento distinto e significativo di acque superficiali, quale un lago, un bacino artificiale, un torrente, un fiume o canale o una parte di un torrente, fiume o canale, nonché di acque di transizione o un tratto di acque costiere.
Corpo idrico fortemente modificato”, invece (lett. n), è un corpo idrico superficiale la cui natura, a seguito di alterazioni fisiche dovute ad una attività umana, è sostanzialmente modificata.
La Corte Costituzionale (sentenza del 27.06.2012, n. 159) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost, l’art. 11 della l.r. Toscana n. 41 del 2011 nella parte in cui prevede che ricada nella nozione di “acque superficiali”, oltre la intera area occupata dal “corpo idrico”, secondo la definizione che di esso è data dall’art. 54, comma 1, lettere l) ed n), del D.Lgs. n. 152 del 2006, anche la fascia territoriale di pertinenza, limitrofa ad esso, sino ad un massimo di dieci metri dal ciglio di sponda o dal piede esterno dell’argine, ove esistente.
Nell’estendere la nozione di acque superficiali, infatti, il legislatore regionale ha esteso, al di là dell’ambito oggettivo fissato dal legislatore statale, il regime esonerativo previsto dal comma 4 del d.lgs. n. 152 del 2006 per le sole acque superficiali, così come definite dall’art. 54, comma 1, lettera c). E, in tal modo, si è modificata la disciplina relativa alla gestione dei rifiuti, che la costante giurisprudenza ha ascritto alla materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, riservata alla legislazione esclusiva dello Stato.
Così operando si esulerebbe dagli ambiti di competenza affidati alla potestà legislativa delle Regioni (28.07.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASe un'azienda effettua un trasporto di rifiuti e il destinatario respinge il carico, cosa dovrà scrivere l'azienda nel formulario per giustificare il trasporto della quantità respinta?
Una lettura combinata dell’art. 193 del D.Lgs. 152/2006 e della Circolare n. Gab/Dec/812/98 lascia intendere che, qualora parte del carico sia stato respinto, il motivo del parziale respingimento vada specificato nel formulario. Il destinatario dei rifiuti deve, infatti, indicare se il carico è stato accettato o respinto e, salvo il caso in cui sia stato respinto per intero, precisare la quantità di rifiuti ricevuta, corredata da data, ora e firma.
Il trasportatore dovrà registrare, nei tempi stabiliti per legge (almeno entro dieci giorni lavorativi dalla effettuazione del trasporto, ai sensi dell’ art. 190, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 152/2006), il movimento effettuato, riportando il peso realmente riscontrato all’arrivo dal destinatario. In virtù della necessità di attuare una reciproca integrazione tra registro di carico e scarico e formulario, si dovrà riportare nella voce “annotazioni” del registro, la notizia della parziale accettazione del carico e delle relative motivazioni addotte dal destinatario.
Nel caso in cui il carico fosse respinto per intero (ipotesi contemplata nella quinta sezione, casella 11, del formulario, in cui figura la voce “respinto per le seguenti motivazioni”), nonostante l’intero carico (e non solo una parte di esso) sia restituito al mittente, il trasportatore dovrebbe comunque effettuare la registrazione con le stesse modalità, ri-portando nello spazio relativo alla quantità dei rifiuti un peso pari a “0” Kg e specificando nelle annotazioni che il carico è stato interamente respinto a causa delle motivazioni addotte dal destinatario (21.07.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn caso di scarichi di sostanze pericolose l'AUA può avere durata inferiore a 15 anni?
Il Decreto del Presidente della Repubblica 13.03.2013, n. 59 all’art. 3, c. 5, dispone che l'autorizzazione unica ambientale contiene tutti gli elementi previsti dalle normative di settore per le autorizzazioni e gli altri atti che sostituisce e definisce le modalità per lo svolgimento delle attività di autocontrollo, ove previste, individuate dall'autorità competente tenendo conto della dimensione dell'impresa e del settore di attività.
In caso di scarichi contenenti sostanze pericolose, di cui all'articolo 108 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, i gestori degli impianti autorizzati devono presentare, almeno ogni quattro anni, una comunicazione contenente gli esiti delle attività di autocontrollo all'autorità competente, la quale può procedere all'aggiornamento delle condizioni autorizzativo qualora dalla comunicazione emerga che l'inquinamento provocato dall'attività e dall'impianto è tale da renderlo necessario. Tale aggiornamento non modifica la durata dell'autorizzazione (07.07.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuali sono le differenze tra la procedura semplificata e la procedura ordinaria? E quali i criteri da seguire nella scelta dell'una o dell'altra?
La procedura semplificata si distingue da quella ordinaria sotto vari aspetti. Innanzitutto, l’Ente al quale presentare l’istanza è sempre la Provincia per la procedura semplificata, mentre la Regione (o la Provincia, se delegata dalla Regione) per la procedura ordinaria. La Conferenza di servizi non è prevista per la procedura semplificata, mentre è sempre convocata, entro 30 giorni dal ricevimento della domanda, per la procedura ordinaria.
L’istruttoria ha una durata di 90 giorni nella procedura semplificata, mentre di 150 giorni per la ordinaria (salvo in entrambi i casi interruzione dei termini per integrazioni). Il meccanismo del silenzio assenso opera solo nell’ambito della procedura semplificata, ove l’attività può essere intrapresa decorsi 90 giorni, mentre nell’ambito della procedura ordinaria è necessario il provvedimento autorizzativo, emanato dall’autorità competente. L’efficacia dell’autorizzazione ordinaria è legata all’accettazione da parte dell’Ente competente delle garanzie finanziarie.
L’autorizzazione ordinaria ha durata di 10 anni, mentre la semplificata 5 anni. Il rinnovo dell’autorizzazione deve essere chiesto 90 gg. prima della scadenza per la procedura semplificata, mentre 180 gg. prima della scadenza per la procedura ordinaria.
Si apre la possibilità di scegliere l’una o l’altra solo per le operazioni di recupero.
Ai fini di una scelta responsabile si ritiene doversi presentare attenzione ai rifiuti che si intende gestire (Cer, provenienza, tipologia, eventuali concentrazioni di sostanze pericolose), alle operazioni di recupero che si intendono effettuare, al prodotto/mps che si intende ottenere dalle operazioni di recupero, ai quantitativi massimi annuali di rifiuti che si intende gestire in funzione delle operazioni di recupero, alle caratteristiche dell’impianto (07.07.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANel formulario di identificazione del rifiuto, il percorso va sempre definito?
L’art. 193 del D.Lgs 152/2006 detta il contenuto minimo del formulario, che deve indicare anche il percorso dell’instradamento. In caso di compilazione incompleta o inesatta del formulario, infatti, ai sensi dell’art. 258 del D.Lgs. 152/2006, sono previste apposite sanzioni, diversamente graduate, a seconda che si tratti di rifiuti pericolosi o non pericolosi.
Il modello del formulario di identificazione è contenuto in allegato al D.M. n. 145/1998.
Nel modello nella sezione terza alla voce “percorso” si accompagna la dicitura “se diverso dal più breve”, da intendersi come quello effettuato nel minor tempo possibile, avendo riguardo al mezzo prescelto, alla distanza chilometrica fra il luogo di partenza e la destinazione del rifiuto, alla viabilità e senza soste intermedie e/o operazioni di trasbordo non autorizzate.
Se ne deduce che deve essere indicato l’itinerario seguito, solo se, per questioni non dipendenti dalla volontà del conducente, sia diverso da quello più breve prestabilito alla partenza (07.07.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACosa si intende per intermediazione di rifiuti?
Ai sensi e per gli effetti dell’art. 183, lett. l), TUA, a seguito del recepimento della direttiva 98/2008/CE, intervenuta con il d.lgs. 205 del 03.12.2010, che ha (finalmente) introdotto le nuove definizioni, deve intendersi per “intermediario” “qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi, compresi gli intermediari che non acquisiscono la materiale disponibilità dei rifiuti”.
Il ruolo principale di un intermediario, pertanto, risulta essere quello di anello di congiunzione tra gli attori principali di un ciclo di gestione del rifiuto, ovvero il produttore/detentore da una parte e il destinatario finale (smaltitore o recuperatore e non anche il trasporto) dall’altra: l’intermediario, più precisamente, si adopera per assicurare al produttore la collocazione migliore, anche sotto il profilo economico, del carico di rifiuti attraverso una propria scelta dello stesso intermediario il quale seleziona e collega i suddetti protagonisti sulla scorta delle sue personali conoscenze.
Ciò che quindi caratterizza la figura in questione, pertanto, è:
- la terzietà rispetto agli altri soggetti della filiera del rifiuto (produttore –smaltitore);
- l’utilità economica derivante da tale operazioni.
- La detenzione, o meno, dei rifiuti.
A tal proposito –onde meglio definire tale figura- giova prendere spunto dalla normativa civilistica relativa a tali tipi di contratti, sulla base della quale la mediazione è connaturata a dei presupposti ben definiti che pongono il “mediatore” come colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza (art. 1754 c.c.).
Presupposto peculiare per tale mediazione (o intermediazione) è la previsione di una provvigione necessariamente collegata alla conclusione della transazione economica.
Le attività di intermediazione e di commercio vengono considerate dal TUA quali attività di gestione dei rifiuti.
Infatti all’art. 183, lett. n) viene definita gestione: “la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento, nonché le operazioni effettuate in qualità di commerciante o intermediario”.
Ciò comporta che le stesse:
● devono essere autorizzate ai sensi dell’art. 212, comma 5, del TUA (mediante iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali) per gli intermediari e i commercianti senza detenzione dei rifiuti;
● in caso di violazione di norme nella gestione dei rifiuti sono assoggettabili alle sanzioni previste dal TUA agli artt. 256 e ss. (23.06.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Possono trasportarsi rottami metallici con i mezzi d'opera?
Ai sensi del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, art. 54, comma 1, lettera n), si classificano “mezzi d’opera”: “i veicoli o complessi di veicoli dotati di particolare attrezzatura per il carico e il trasporto di materiali di impiego o di risulta dell'attività edilizia, stradale, di escavazione mineraria e materiali assimilati ovvero che completano, durante la marcia, il ciclo produttivo di specifici materiali per la costruzione edilizia. […] Tali veicoli o complessi di veicoli possono essere adibiti a trasporti in eccedenza ai limiti di massa stabiliti nell'art. 62 e non superiori a quelli di cui all'art. 10, comma 8, e comunque nel rispetto dei limiti dimensionali fissati nell'art. 61. I mezzi d'opera devono essere, altresì, idonei allo specifico impiego nei cantieri o utilizzabili a uso misto su strada e fuori strada”.
Con successiva Legge -23.12.1997 n. 454– viene ampliata la categoria dei materiali indicati all’articolo 54, comma 1, lettera n).
All’articolo 11, viene, infatti, previsto che si possono trasportare i materiali:
● impiegati nel ciclo produttivo delle imprese forestali e quelli derivanti dalla raccolta e compattazione di rifiuti solidi urbani e dallo spurgo di pozzi neri effettuati mediante idonee apparecchiature installate sui mezzi d’opera;
● dell’industria siderurgica compresi i coils e i laminati grezzi, trasportati mediante idonee selle di contenimento installate sui mezzi d’opera.
Tale elenco di materiali viene poi ulteriormente esteso grazie all’art. 10, comma 21, del D.Lgs n. 285/1992 - Veicoli eccezionali e trasporti in condizioni di eccezionalità - così modificato dalla legge 29.07.2010, n. 120 il quale stabilisce che “chiunque adibisce mezzi d'opera al trasporto di cose diverse da quelle previste nell'art. 54, comma 1, lettera n), salvo che ciò sia espressamente consentito, comunque entro i limiti di cui all'articolo 62, nelle rispettive licenze ed autorizzazioni al trasporto di cose, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 398 a euro 1.596 e alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della carta di circolazione da uno a sei mesi. […]”.
All’indomani della modifica apportata al comma 21 del D.Lgs. n. 285/1992 dalla legge n. 120 del 2010, quindi, si è aperta la possibilità di trasportare con i mezzi d’opera qualsiasi tipologia di materiale, diverso da quello espressamente previsto ai sensi dell’art. 54, comma 1, lett. n), del decreto stesso.
A tal fine si rende, tuttavia, necessaria espressa menzione nelle autorizzazioni e licenze al trasporto.
Per di più occorre il rispetto dei limiti di portata massima, che, nello specifico non sono quelli indicati ai fini della ordinarietà della circolazione ai sensi dell’art. 10, comma 8, bensì quelli indicati all’art. 62 cds .
Alla luce di quanto esposto si conclude pertanto che, a condizione che si possegga autorizzazione specifica e che si rispettino i limiti di massa previsti ai sensi dell’art. 62 cds è possibile trasportare sui mezzi d’opera qualsiasi tipologia di materiale diverso da quello previsto all’ art. 54, comma 1, lettera n), e pertanto anche rottami (09.06.2014 - link a www.ambientelegale.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOggetto: Comune di Art. 79 del decreto legislativo n. 267/2000 - PERMESSI PER CONSIGLIERE COMUNALE E CAPOGRUPPO CONSILIARE IN ENTE CON POPOLAZIONE SUPERIORE AI 34.000 ABITANTI.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta, che ad ogni buon fine si allega in copia, con la quale sono stati richiesti chiarimenti in merito ai permessi di cui all’art. 79 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, da attribuire ad un consigliere del comune di ………nonché capogruppo consiliare, specificando che l’ente in argomento ha una popolazione superiore ai 34.000 abitanti.
Al riguardo, si rappresenta che l’art. 79 del citato decreto legislativo n. 267/2000 dispone, al comma 1, che i consiglieri comunali hanno diritto di assentarsi per la partecipazione alle riunioni consiliari per l’effettiva durata delle stesse e, tale diritto, comprende il tempo necessario per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro.
Il successivo comma 4 del medesimo articolo prevede, inoltre, che il Presidente del consiglio e il Presidente dei gruppi consiliari comunali con popolazione superiore a 15.000 abitanti, oltre ai permessi di cui al precedente comma, hanno diritto di assentarsi dal posto di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative mensili, configurando nelle stesso il tempo necessario per raggiungere il luogo della riunione e il rientro al posto di lavoro.
Si soggiunge poi, che ai sensi del comma 5 del citato articolo, i lavoratori dipendenti hanno diritto ad ulteriori permessi “non retribuiti”, sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili, qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato.
Il successivo art. 80 dispone che i permessi di cui all’art. 79 sono retribuiti, dal datore di lavoro, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore dal posto di lavoro.
Risulta fondamentale che le attività svolte dall’amministratore in questione siano correlate esclusivamente alle funzioni amministrative ricoperte, desunte da incarichi demandati all’amministratore dall’ente, proprio in forza della carica rivestita presso lo stesso.
Per quanto attiene alle modalità di attestazione dei permessi, si richiama il preciso obbligo per il lavoratore dipendente di documentare, con apposita certificazione, l’attività ed i tempi di espletamento del mandato (art. 79, comma 6, T.U.O.E.L.).
In assenza di specifica norma regolamentare, l’attestazione dell’utilizzo dei permessi può essere rilasciata dal sindaco, dal segretario comunale, o dal segretario del collegio cui partecipano gli amministratori interessati, se prestabilito, o da un consigliere facente le veci di segretario, ovvero dal presidente dell’adunanza.
Per quanto concerne, infine, la possibilità di sostituire l’attestazione per i permessi con una autocertificazione, si rappresenta che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui all’art. 47 del DPR 28.12.2000, n. 445, fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, ha la stessa validità legale dell’atto che sostituisce, tanto più che, nella fattispecie, tale dichiarazione viene effettuata da un amministratore locale investito di pubbliche funzioni (Ministero dell'Interno, parere 10.06.2014 - link a http://incomune.interno.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl registro di carico/scarico rifiuti va conservato unitamente al FIR?
Ai sensi dell’art. 190, comma 3 del D.Lgs n. 152/2006, “I registri sono tenuti presso ogni impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento di rifiuti, nonché presso la sede delle imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto, nonché presso la sede dei commercianti e degli intermediari. I registri integrati con i formulari di cui all'articolo 193 relativi al trasporto dei rifiuti sono conservati per cinque anni dalla data dell'ultima registrazione, […]”.
Ai sensi del Decreto Ministeriale 01.04.1998 n. 145 “Regolamento recante la definizione del modello e dei contenuti del formulario di accompagnamento dei rifiuti”, art. 4, c. 3 “i formulari di identificazione costituiscono parte integrante dei registri di carico e scarico dei rifiuti prodotti o gestiti. A tal fine gli estremi identificativi del formulario dovranno essere riportati sul registro di carico e scarico in corrispondenza all'annotazione relativa ai rifiuti oggetto del trasporto, ed il numero progressivo del registro di carico e scarico relativo alla predetta annotazione deve essere riportato sul formulario che accompagna il trasporto dei rifiuti stessi”.
La circolare 04.08.1998, n. GAB/DEC/812/98 “Esplicativa sulla compilazione dei registri di carico scarico dei rifiuti e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati individuati, rispettivamente, dal decreto ministeriale 01.04.1998, n. 145, e dal decreto ministeriale 01.04.1998, n. 148”, al punto 1 lett. i), chiarisce che “al fine di garantire un efficace controllo sulla gestione e movimentazione dei rifiuti il legislatore ha stabilito un rapporto di reciproca integrazione dei dati riportati sul registro con quelli riportati sul formulario”. Tale rapporto è previsto in modo espresso dall'art. 12, comma 3, del decreto legislativo n. 22/1997 [all’epoca vigente], e dall'art. 4, comma 3, del decreto ministeriale n. 145/1998, e presuppone che il formulario sia conservato nel medesimo luogo dove deve essere conservato il registro di carico e scarico.
Si evince dalla normativa suesposta che i registri di carico e scarico dei rifiuti, per la loro corretta tenuta, vadano conservati unitamente al formulario, nel medesimo luogo (03.06.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANel caso di variazione di denominazione sociale e autorizzazione al trasporto, e' necessario cambiare registri c/s e FIR?
I modelli di registri di carico e scarico e dei formulari di identificazione dei rifiuti sono stabiliti rispettivamente dal:
- dm 148 del 1998,
- dm 145 del 1998.
Entrambe i provvedimenti prevedono che i frontespizi della documentazione ambientale debbano contenere –inter alia– la denominazione sociale e il codice fiscale dell’attività.
Tali dati peraltro sono necessari ai fini della vidimazione di entrambe i documenti, non potendosi procedere alla vidimazione dei frontespizi in bianco .
Ciò in quanto sia i registri che i FIR devono essere immediatamente ricondotti alla specifica responsabilità del soggetto predeterminato ed individuato che procede alla produzione/gestione/trasporto dei rifiuti.
Alla luce di tale circostanza –seppur in assenza di una precipua norma in merito– si ritiene che possa costituire un’irregolarità nella tracciabilità l’utilizzo di registri e di formulari aventi l’indicazione della società precedente alla variazione della stessa, punibile ai sensi e per gli effetti dell’art. 258 del TUA.
Per tale motivo si ritiene consigliabile recarsi presso la Camera di Commercio competente al fine di richiedere o la vidimazione della modifica del frontespizio da apportarsi dinanzi all’addetto preposto, ovvero la vidimazione di nuovi formulari e di nuovi registri, onde non incorrere in denegate ipotesi di contestazioni (03.06.2014 - link a www.ambientelegale.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: L’Amministrazione che intende coprire un nuovo posto di cat. D3, ha chiesto se sia possibile, ai sensi dell’art. 91, 4° comma, del D.Lgs. n. 267/2000 e s.m.i., utilizzare una graduatoria tuttora efficace per effetto delle successive proroghe legislative, alla luce del fatto che la stessa approvata in data 12.06.2008, si riferisce ad una procedura concorsuale indetta in data 02.05.2007 quando i posti in dotazione organica erano 2, successivamente variati in 3 in data 09.04.2008 e riportati a 2 in data 24.04.2013, posti attualmente coperti.
Una Amministrazione nel richiamare la pronuncia del Tar ha formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta interpretazione della norma recata dall’art. 91, 4° comma, del D.Lgs. n. 267/2000 e s.m.i., ovvero alla possibilità di utilizzare una graduatoria, tuttora efficace per effetto delle successive proroghe legislative, la quale è stata approvata in data 12.06.2008 e relativa ad una procedura concorsuale indetta in data 02.05.2007 per il conferimento di n. 1 posto (cat. D3). A tal fine, fa presente che in data 09.04.2008 è stata variata la dotazione organica portando da n. 2 a n. 3 i posti previsti in dotazione organica per il citato profilo per poi riportarli a n. 2 in data 24.04.2013, posti attualmente coperti. Poiché l’attuale Amministrazione, insediatasi nel giugno 2013, avrebbe intenzione di riportare a n. 3 i posti in questione, si pone la questione relativa alla possibilità di utilizzare la precitata graduatoria.
Al riguardo, com’è noto l’art. 91, comma 4 del D.Lgs. n. 267/2000 e s.m.i., stabilisce la durata delle graduatorie concorsuali degli enti locali in tre anni e prevede la possibilità della loro utilizzazione, per l’eventuale copertura dei posti che si venissero a rendere successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione per i posti istituiti o trasformati successivamente all’indizione del concorso. Come rilevato dal Tar con la richiamata pronuncia n. 552/2013, “la ratio della previsione è quella di evitare che le amministrazioni possano essere indotte a modificare la pianta organica al fine di assumere uno dei candidati inseriti in graduatoria”.
Relativamente, quindi, al caso rappresentato, per quanto è dato desumere dalle notizie fornite, pare che al momento dell’indizione del concorso, avvenuta in data 02.05.2007, i posti in dotazione organica per il predetto profilo fossero 2, considerato che solo in data 09.04.2008 è intervenuta la modifica della dotazione organica che li ha portati a tre. Quindi, sembra di poter sostenere che già al momento dell’assunzione del primo e secondo classificato della graduatoria in esame, avvenute rispettivamente nell’agosto e nell’ottobre 2008, si è contravvenuto al limite stabilito dalla norma in commento, a nulla rilevando poi che, in quell’occasione, si sia effettivamente proceduto alla copertura di un solo posto, a causa della rinuncia all’assunzione comunicata dal primo classificato.
Alla luce di quanto sopra, nell’ipotesi di una nuova variazione della dotazione organica per i posti in discorso, eventualmente deliberata dall’attuale Amministrazione, si è dell’avviso che la predetta graduatoria, seppure efficace, non possa essere utilizzata. Si deve ritenere, infatti, che il vincolo stabilito dall’art. 91, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 sia ancora pienamente valido e preponderante rispetto all’estensione della validità delle graduatorie (Ministero dell'Interno, parere 29.05.2014 - link a http://incomune.interno.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATATerre e rocce da scavo: proponente ed esecutore del Piano di Utilizzo sono figure distinte?
Ai sensi dell’art. 1. c. 1 del D.M. n. 161/2012 si definisce:
● alla lett. q), “proponente: il soggetto che presenta il Piano di Utilizzo”;
● alla lett. r), “esecutore: il soggetto che attua il Piano di Utilizzo”.
Alla luce delle definizioni suesposte, sembrerebbe, pertanto, che le due figure coinvolte –quella del proponente e quella dell’esecutore– debbano astrattamente ritenersi distinte.
Ai sensi dell’art. 7, c. 1, del medesimo decreto, tuttavia, viene affermato che “il Piano di Utilizzo […] nonché le dichiarazioni rese conformemente all'articolo 6, devono essere conservati presso il sito di produzione del materiale escavato o presso la sede legale del proponente e, se diverso, anche dell'esecutore”.
Ciò determina che il Decreto Ministeriale ammette -seppur in via implicita– che il proponente possa coincidere con l’esecutore.
Ai sensi dell’art. 6 del DM 161 del 2012, si prevede peraltro che, per le procedure di emergenza, la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 4 possano essere dimostrati mediante una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà nelle forme dell’allegato 7.
Il predetto allegato 7, si riferisce alla Dichiarazione di Avvenuto Utilizzo, la quale, per espressa previsione di legge, deve essere presentata a cura esclusiva dell’esecutore.
Ad una prima lettura della norma sembrerebbe, pertanto, che in caso delle procedure di emergenza l’esecutore debba anche essere proponente.
A parere di chi scrive, tuttavia, il riferimento all’allegato 7 è volto solo alla forma della modulistica e non tanto agli oneri connessi alla procedura di emergenza, di talché, la dichiarazione di emergenza e il successivo piano di utilizzo potranno essere presentati anche dal proponente, laddove diverso dall’esecutore.
A conforto di tale argomentazione valga anche il dettato normativo.
Ed invero, l’art. 6 stabilisce che la dichiarazione debba essere resa “nella forma dell’allegato 7”, mentre l’art. 12 relativo alla dichiarazione di avvenuto utilizzo prevede che la stessa debba avvenire “in conformità dell’allegato 7”.
Ciò a conferma che il richiamo alla predetta documentazione rileva solo per la forma che la stessa dovrà avere e non tanto per l’obbligatorietà in capo all’esecutore di presentarla .
Il che determina che, anche in relazione alle procedure di emergenza, il proponente e l’esecutore possano -ma non debbano– coincidere (26.05.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACosa accade quando il peso verificato nell'impianto a destinazione è inferiore a quello di partenza?
Il DM 01.04.1998 n. 145 consente alle aziende di trascrivere il peso “a destino”. Nell’allegato B del predetto decreto, peraltro, al punto 6) è prevista l’indicazione in “kg o litri” e il “il peso da verificarsi a destino”.
Apparentemente queste indicazioni potrebbero sembrare alternative.
Tuttavia, la circolare 04.08.1998, n. GAB/DEC/812/98, esplicativa sulla compilazione dei registri di carico/scarico dei rifiuti e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati, al punto 1), lett. t), stabilisce: “alla voce “quantità”, casella 6, terza sezione, dell’allegato B, al decreto ministeriale n. 145/1998, deve sempre essere indicata la quantità di rifiuti trasportati. Inoltre, dovrà essere contrassegnata la casella relativa alla voce “Peso da verificarsi a destino” nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano, rispettivamente, verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra le quantità di rifiuti in partenza e quelle a destinazione”.
Da questa formulazione si comprende come queste indicazioni non siano alternative, ma che occorre sempre indicare il peso inevitabilmente approssimativo ma indicato con competenza e prossimità in kg o litri ed eventualmente prescegliere anche l’opzione di verifica a destinazione, qualora ricorrano le condizioni prescritte dalla norma (assenza di sistema di pesatura in partenza).
Il fatto di avvalersi della possibilità di verificare il peso dei rifiuti trasportati presso il sito finale di destinazione non esime affatto dall’indicare comunque un peso indicativo all’atto di partenza dei rifiuti medesimi; peraltro, verosimilmente, il peso di partenza e quello di arrivo saranno differenti, o quantomeno le probabilità che lo siano sono estremamente elevate.
Tale possibilità sussiste nelle cause richiamate dalla norma e di seguito enunciate:
● non devono essere presenti sistemi di pesatura, rendendo quindi impossibile provvedervi;
● a natura dei rifiuti deve essere tale da consentire possibili variazioni nel peso stesso (circostanza che può verificarsi con riferimento ai rifiuti liquidi).
Quindi in conclusione, la presenza di una di queste due condizioni, giustifica la possibilità di procedere alla verifica del peso effettivo presso il luogo di destinazione dei rifiuti ed in quel modo potrà certamente riscontrarsi una difformità tra il peso dichiarato e quello successivamente accertato.
L’impianto di destinazione verificherà il peso, il quale, considerato quanto sopra, sarà quello facente fede (19.05.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa stampa dei registri tenuti in maniera informatica va effettuata in coincidenza con gli adempimenti temporali previsti per le annotazioni?
 L’art. 190, comma 6, del D.Lgs 152/2006 sancisce che i registri di carico e scarico siano gestiti secondo le modalità dei registri IVA.
Da ciò consegue che, nonostante il previgente sistema prevedesse la stampa, da effettuare sul modulo continuo, in coincidenza con il termine previsto per l’annotazione, il sistema attuale garantisce la possibilità, nei casi di tenuta informatica dei registri, di effettuare la stampa anche una sola volta all’anno e, tra l’altro, non necessariamente su modulo continuo, potendosi altresì utilizzare anche fogli formato A4.
Si chiarisce che, secondo la disciplina IVA la tenuta dei registri contabili (il registro di carico e scarico è assimilato ai registri contabili) con sistemi meccanografici è considerata regolare anche in mancanza della trasposizione su supporto cartaceo dei dati, a patto che al momento del controllo i dati risultino aggiornati su supporti magnetici e stampati contestualmente alla richiesta degli organi di controllo e in loro presenza.
La forma (o supporto) con il quale si tengono i registri riguarda le modalità di gestione che segue le regole IVA e, pertanto, ciò che conta non è la carta, ma il supporto magnetico e la stampa all’atto del controllo e su richiesta del controllore (12.05.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASe un'azienda effettua un trasporto di rifiuti e il destinatario respinge il carico, cosa dovrà scrivere l'azienda nel formulario per giustificare il trasporto della quantità respinta?
Una lettura combinata dell’art. 193 del D.Lgs. 152/2006 e della Circolare n. Gab/Dec/812/98 lascia intendere che, qualora parte del carico sia stato respinto, il motivo del parziale rifiuto vada specificato nel formulario. Il destinatario dei rifiuti deve, infatti, indicare se il carico è stato accettato o respinto e, salvo il caso in cui sia stato respinto per intero, precisare la quantità di rifiuti ricevuta, corredata da data, ora e firma.
Il trasportatore dovrà registrare, nei tempi stabiliti per legge (almeno entro dieci giorni lavorativi dalla effettuazione del trasporto, ai sensi dell’ art. 190, comma 1, lett. b), del D.Lgs.152/2006), il movimento effettuato, riportando il peso realmente riscontrato all’arrivo dal destinatario. In virtù della necessità di attuare una reciproca integrazione tra registro di carico e scarico e formulario, si dovrà riportare nella voce “annotazioni” del registro, la notizia della parziale accettazione del carico e delle relative motivazioni addotte dal destinatario.
Nel caso in cui il carico fosse respinto per intero (ipotesi contemplata nella quinta sezione, casella 11, del formulario, in cui figura la voce “respinto per le seguenti motivazioni”), nonostante l’intero carico (e non solo una parte di esso) sia restituito al mittente, il trasportatore dovrebbe comunque effettuare la registrazione con le stesse modalità, riportando nello spazio relativo alla quantità dei rifiuti un peso pari a “0” Kg e specificando nelle annotazioni che il carico è stato interamente respinto a causa delle motivazioni addotte dal destinatario (12.05.2014 - link a www.ambientelegale.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Richiesta avanzata da un comune concernente la disciplina dell’orario di lavoro dei dipendenti degli enti locali in relazione al cumulo di incarichi presso altre amministrazioni.
E’ stato chiesto se sia possibile svolgere l’attività lavorativa relativa ai predetti incarichi oltre le 48 ore settimanali previste dall’art. 4 del D.Lgs. 66/2003 come modificato dal D.Lgs 213/2004 e se sia legittima l’autorizzazione allo svolgimento di detti incarichi rilasciata al dipendente da parte del Sindaco senza che il segretario comunale, capo del personale, ne abbia conoscenza.

Con una nota una Prefettura ha trasmesso la richiesta di parere avanzata da un comune concernente la disciplina dell’orario di lavoro dei dipendenti degli enti locali in relazione al cumulo di incarichi presso altre amministrazioni.
In particolare, è stato chiesto se sia possibile svolgere l’attività lavorativa relativa ai predetti incarichi oltre le 48 ore settimanali previste dall’art. 4 del Dlgs 66/2003, come modificato dal D.Lgs. 213/2004, e se sia legittima l’autorizzazione allo svolgimento di detti incarichi rilasciata al dipendente da parte del Sindaco senza che il segretario comunale, capo del personale, ne abbia conoscenza.
Al riguardo, si fa presente che il predetto art. 4 nel disporre, al comma 1, che i contratti collettivi stabiliscono la durata massima settimanale dell’orario di lavoro (36 ore per i dipendenti degli enti locali) dispone, al successivo comma 2, che la durata media dell’orario non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario.
Ai fini di detta disposizione il comma 3 prevede che la durata media dell’orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi. Inoltre, il comma 4 dispone che i contratti collettivi possono elevare il periodo di calcolo a sei mesi o anche a dodici a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione. Per tale ultimo aspetto si evidenzia che sino ad ora i contratti non hanno introdotto alcuna specifica previsione. In caso di superamento, attraverso prestazioni di lavoro straordinario delle 48 ore di lavoro settimanale il comma 5 stabilisce che per le unità produttive con più di 10 dipendenti il datore di lavoro è tenuto ad informare, entro 30 giorni dalla scadenza del periodo di riferimento, la Direzione provinciale del lavoro-settore ispezione del lavoro competente per territorio.
Per la verifica della media quadrimestrale di 48 ore, il successivo art. 6, comma 1, esclude i periodi di ferie e i periodi assenza per malattia. L’esclusione nel calcolo del periodo di riferimento di tali periodi comporta, a parere dello scrivente, lo scorrimento del medesimo periodo relativo al solo lavoratore interessato di un numero di giorni pari alle assenze per detti periodi. Analoga esclusione viene disposta per le ore di lavoro straordinario tramutate in riposi compensativi nell’ambito del quadrimestre.
Inoltre, giova evidenziare che, come rilevato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con circolare n. 8/2005, le richiamate disposizioni legislative non vietano prestazioni che superino, nell’arco di sette giorni, le 48 ore in quanto il periodo di riferimento sia un periodo più ampio della settimana e comunque non superiore a quattro mesi. Conseguentemente, nella settimana lavorativa si potrà superare il limite delle 48 ore settimanali purché vi siano settimane lavorative di meno di 48 ore in modo da effettuare una compensazione e non superare il limite delle 48 ore medie nel periodo di riferimento.
Stante quanto sopra si ritiene che il dipendente potrà chiedere l’autorizzazione allo svolgimento di incarichi presso altre amministrazioni rispettando il limite temporale secondo le condizioni sopra evidenziate. Tale richiesta dovrà essere rivolta al dirigente preposto all’Ufficio del personale, che curerà i successivi adempimenti (Ministero dell'Interno, parere 27.03.2014 - link a http://incomune.interno.it).

NEWS

CONDOMINIO: Il consumo non va «corretto». Con i contabilizzatori non vengono più usati i coefficienti in aumento. Riscaldamento. La nuova tecnologia impone l'adozione di un diverso calcolo di ripartizione delle spese.
Niente coefficienti correttivi per la ripartizione della spesa, a seguito dell'introduzione della contabilizzazione con il decreto legislativo del 04.07.2014 n. 102.
Infatti, per favorire il contenimento dei consumi energetici attraverso la contabilizzazione dei consumi individuali e la suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi di ciascun centro di consumo individuale, per la corretta suddivisione delle spese connesse al consumo di calore per il riscaldamento, l'importo complessivo deve essere suddiviso in relazione agli effettivi prelievi volontari di energia termica utile e ai costi generali per la manutenzione dell'impianto, secondo quanto previsto dalla norma tecnica Uni 10200 e successivi aggiornamenti.
La prima osservazione è che la norma Uni Cti 10200 (l'ultima revisione è del febbraio 2013), nata con carattere volontario, è divenuta obbligatoria. Il legislatore non rimette però totalmente la definizione dei criteri della spesa all'Uni. Sono considerati «effettivi» i «prelievi volontari di energia termica utile», ovvero il calore che viene prelevato dai singoli termosifoni mediante azione sulla valvola termostatica. Sono inoltre considerati connessi alla contabilizzazione anche «i costi generali per la manutenzione dell'impianto».
Resta all'Uni (il quale ha delegato al Cti - Comitato Termotecnico Italiano) il compito tecnico di individuare come calcolare i prelievi volontari. Pertanto, nessuna funzione legislativa viene assegnata a un organismo diverso dalle Camere.
Deve quindi considerarsi non conforme alla legge il ricorso ai cosiddetti "coefficienti correttivi". Questi, ai fini del calcolo della quota per consumo volontario, tengono in considerazione le dispersioni di calore degli appartamenti in (presunta) posizione svantaggiata (come per gli appartamenti posti all'ultimo piano). È un parametro non previsto dalla legge che, invece, fa riferimento al solo prelievo di calore dai corpi scaldanti.
Si consideri che, quando i cittadini-condòmini si saranno abituati all'utilizzo delle valvole termostatiche, probabilmente l'impianto di riscaldamento svolgerà il proprio servizio in maniera totalmente difforme rispetto a quanto siamo abituati. Oggi, infatti, pensiamo all'utilizzo dell'impianto in condizioni standard, in cui, cioè, tutti gli appartamenti sono scaldati. In questa circostanza, risultano penalizzate le unità immobiliari in posizioni di maggior dispersione.
Domani, però, molti appartamenti (anche intermedi) potrebbero essere freddi in quanto poco o per niente utilizzati. Ne consegue che un appartamento in un piano intermedio oggi è scaldato da tutti i lati, mentre in futuro così potrebbe non essere. In una situazione di questo tipo appare insufficiente conteggiare le dispersioni del solo ultimo piano in quanto anche altri si possono trovare nella medesima situazione.
Del resto il concetto dei "consumi effettivi" è voluto dalla Direttiva Ue alla quale si dovranno adeguare tutti gli Stati Membri.
Va poi ricordato che la ripartizione della spesa effettuata in maniera difforme dai principi evidenziati e dalla norma Uni Cti 10200 prevede l'irrogazione di una sanzione amministrativa da 500 a 2500 euro, oltre alla nullità della delibera.
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Per l'impianto contatori o ripartitori. I sistemi adottabili. Due tecnologie per le diverse situazioni.
La «contabilizzazione» dei consumi individuali e la suddivisione delle spese in base ai «consumi effettivi» di ciascun centro di consumo individuale è diventata obbligatoria, entro il 31.12.2016, nei condomini e negli edifici polifunzionali. Questa importante novità può essere realizzata con due sistemi : contatori di calore oppure ripartitori.
Contatore di calore
Il contatore è un apparecchio che conta, ovvero misura tramite operazioni successive una determinata grandezza.
Come tutte le grandezze fisiche, ed in particolare come tutte altre grandezze e gli altri servizi (energia elettrica, gas, acqua, telefonia, eccetera) utilizzati negli edifici, il calore è suscettibile di essere misurato.
L'unità di misura del calore è il kWh (kilowattora) o la kCaloria (ora meno usata).
Nel caso degli impianti di riscaldamento, il vettore che trasferisce l'energia in un'unità immobiliare è l'acqua calda che arriva dalla caldaia ad una certa temperatura, cede calore all'ambiente e torna in caldaia a temperatura minore: per misurare il contenuto energetico che il fluido vettore lascia in un appartamento, bisogna misurare la portata Q (litri al secondo o al minuto) d'acqua circolante ed il salto di temperatura Dt °C , che questa subisce tra mandata e ritorno.
Lo schema di installazione del contatore di calore prevede che l'impianto di una singola unità immobiliare abbia una tubazione di ingresso (mandata) ed una tubazione di uscita (ritorno). Il contatore viene quindi collegato tra le due tubazioni e può così rilevare la portata circolante (componente volumetrica del contatore come se fosse un semplice contatore d'acqua) e la differenza di temperatura tra mandata e ritorno. Così si riesce ad ottenere la misura dell'energia che dipende sia dalla portata che dalla differenza di temperatura.
Ripartitore
I ripartitori dei costi di riscaldamento sono invece strumenti per «conteggiare» il calore emesso dai radiatori all'interno degli appartamenti (unità di consumo).
I ripartitori consentono solo la determinazione del consumo del calore di ogni radiatore come percentuale del consumo totale di un condominio o di un gruppo di utilizzatori.
Per la determinazione del calore totale è quindi necessario, misurare la quantità di combustibile consumato oppure la quantità di calore emesso (per esempio mediante un contatore centrale di calore). Il valore del consumo è un valore approssimato del calore emesso dalla superficie di un radiatore e consumato dall'utente nel periodo di conteggio.
Il valore di consumo è quindi un risultato che implica la conoscenza di alcune caratteristiche dei dispositivi di misura (ripartitori), della superficie dei radiatori e di altre condizioni, comprese le incertezze circa i fattori di valutazione e di montaggio
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2014).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAscensori con meno limiti. Disabilità. Tra leggi e giurisprudenza.
Nella disciplina condominiale l'installazione degli ascensori negli edifici privati che ne sono ancora sprovvisti è stata oggetto di interventi contraddittori, ma l'applicazione più recente delle norme si mostra sempre favorevole anche per gli impianti realizzati all'esterno dei fabbricati.
Le sentenze, nei periodi più risalenti, rivelavano posizioni assai restrittive che però negli ultimi anni si sono capovolte. Adesso le decisioni sono quasi sempre a favore dei condomini che intendono realizzare l'opera.
La normativa, invece, ha subìto un processo inverso: dopo una fase iniziale di mancanza di disposizioni specifiche in cui si applicavano le norme codicistiche, è stato emanato un complesso di previsioni (contenute nella legge 13/1989) dirette a favorire, mediante varie misure, la realizzazione delle opere necessarie per eliminare le barriere architettoniche, fra cui si pongono innanzitutto gli ascensori.
Ma l'articolo 27 della legge di riforma 220/2012, dal 18.06.2013, ha aumentato la maggioranza prevista dal testo originario dell'articolo 2, comma 1, della legge 13/1989, secondo cui era possibile approvare le delibere relative ad innovazioni dirette ad eliminare le barriere architettoniche, adottate in assemblea di seconda convocazione, anche con un numero di voti che rappresentasse un terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio; invece, dopo la riforma, l'assemblea condominiale delibera con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio, rendendo così più difficile, rispetto a prima, l'approvazione di queste delibere.
Va ricordato, però, che il diritto va applicato non solo sulla base delle specifiche disposizioni di ciascun settore, ma anche del coordinamento con le altre disposizioni legislative e coi principi dall'ordinamento. La disciplina giuridica sugli ascensori si dimostra allora meno penalizzante di quella che risulterebbe dalla applicazione della sola legge speciale (che pure era stata emanata proprio per ampliare le tutele). Infatti, le stesse norme del Codice civile consentono l'installazione di un ascensore anche da parte di un solo gruppo di condomini o di un unico condomino senza passare attraverso l'assemblea, grazie all'articolo 1102 del Codice civile, che consente a ciascun condomino di utilizzare e modificare le parti comuni per installare –però a sue esclusive spese– ascensori, servoscala e altri apparecchi simili nella tromba delle scale (Cassazione, sentenza 1781/1993).
E riguardo ai limiti all'installazione dell'ascensore, il pregiudizio lamentato da alcuni condomini della originaria possibilità di utilizzare le scale e l'andito occupati dall'impianto non viola il divieto posto dall'articolo 1120, comma 2, del Codice civile, quando risulta un godimento migliore della cosa comune, seppure diverso da quello originario (Cassazione, sentenza 4152/1994), anche perché è legittima ogni innovazione che, nel comportare utilità per tutti i condomini tranne qualcuno, determini per quest'ultimo un pregiudizio solo limitato e non intollerabile (Cassazione sentenza 20902/2010).
D'altra parte, in generale, i rapporti fra i condomini sono regolati dal principio di solidarietà condominiale, secondo cui la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica il contemperamento dei vari interessi (Cassazione, sentenza 18334/2012) e, nella valutazione comparativa delle opposte esigenze (quella dei portatori di handicap a installare l'ascensore e quella degli altri condomini a continuare a fruire nella sua interezza della scala, che viene ristretta senza tuttavia diventare inservibile), prevale la prima in conformità ai principi costituzionali della tutela della salute (articolo 32) e della funzione sociale della proprietà (articolo 42) (Cassazione sentenza 2156/2012).
Neppure la disciplina sulle distanze determina limiti all'installazione dell'ascensore, dato che non opera per gli impianti indispensabili per una reale abitabilità dell'appartamento, salvi gli accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cassazione, sentenza 14096/2012), mentre gli ascensori esterni non ricadono sotto l'applicazione dell'articolo 3, comma 2, della legge 13/1989, che dispone sì l'obbligo di rispettare le distanze imposte dagli articoli 873 e 907 del Codice civile, ma solo fra edifici distinti, restando così escluso l'ambito condominiale (Cassazione, sentenza 10852/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2014).

APPALTI: Appalti, solidarietà in soffitta. Appaltatore salvo se il subappaltatore non paga le tasse. Il decreto sulle semplificazioni fiscali fissa cinque anni di controlli per le società zombie.
Addio alla responsabilità fiscale negli appalti. Le società in liquidazione, poi, saranno nel mirino del fisco per cinque anni dalla cancellazione dal registro delle imprese. La soglia per le comunicazioni black list è innalzata a 10 mila euro annuali dai 500 attuali e si allunga il tempo critico in cui una società è considerata in perdita sistemica da tre a cinque anni. Resta, infine, l'obbligo di indicare in dichiarazione i crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione.

Sono queste le modifiche suggerite da Camera e Senato che hanno trovato spazio nel decreto legislativo sulle semplificazioni fiscali pronto per essere approvato nel prossimo consiglio dei ministri, i cui contenuti ItaliaOggi è in grado di anticipare.
Società zombie. Nessun obbligo di dichiarazione nuovo ma per le società cancellate dal registro delle imprese ci saranno cinque anni di limbo fiscale. Cinque anni in cui il fisco potrà accertare, riscuotere e liquidare i tributi e contributi, sanzioni e interessi. La disposizione del dlgs sulle semplificazioni prevede infatti che per le ragioni di accertamento e controllo l'estinzione delle società ha effetto, non dal momento della cancellazione della società dal registro delle imprese, bensì trascorsi cinque anni dalla richiesta della cancellazione.
Non solo. È introdotta una responsabilità personale dei liquidatori che non adempiono all'obbligo di pagare con le attività della liquidazione alle imposte dovute. Questi soggetti, si legge nella norma, «rispondono in proprio del pagamento delle imposte» se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari con precedenza.
Responsabilità solidale addio. L'abrogazione della responsabilità fiscale negli appalti trova casa nel decreto legislativo sulle semplificazioni fiscali. Due righe per cancellare i commi da 28 a 28-ter dell'articolo 35. La norma stabiliva che in caso di appalto di opere o di servizi, l'appaltatore avrebbe risposto in solido con il subappaltatore, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto, del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente dovute dal subappaltatore all'erario in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto.
Resta però in capo al committente, all'interno delle norme della legge 276/2003, la responsabilità come sostituto di imposta in caso emergano situazioni di lavoro nero.
Scambio di informazioni Inps-Agenzia delle entrate. Per rafforzare le attività di controllo sul corretto adempimento degli obblighi fiscali sulle ritenute, l'Inps invierà all'Agenzia delle entrate mensilmente i dati relativi alle aziende e alle posizioni contributive dei dipendenti che la stessa Inps gestisce.
Società in perdita sistemica. Nuove regole sulle società in perdita sistematica subito in vigore. In deroga allo Statuto del contribuente, le disposizioni che riscrivono le regole sulle società apri e chiudi si applicano a decorrere dal periodo d'imposta in corso alla data di entrata in vigore dello stesso decreto. La norma amplia il periodo di criticità delle società in perdita fiscale. Cinque anni di perdite fiscali consecutivi invece dei tre attuali renderanno la società non operativa a decorrere dal successivo sesto periodo di imposta e non come attualmente previsto dal quarto.
Comunicazioni delle operazioni con i paesi black list. La comunicazione delle operazioni chiuse con paesi black list (paesi non collaborativi dal punto di vista fiscale) diventa annuale e cambiano gli importi. Gli operatori non dovranno più comunicare telematicamente all'Agenzia delle entrate tutte le operazioni intercorse di valore superiore ai 500 euro bensì quelle il cui importo complessivo annuale è superiore a 10 mila euro.
La disposizione con il nuovo adempimento e la nuova soglia si applica alle operazioni poste in essere nell'anno solare in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento (articolo ItaliaOggi del 09.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Imballaggi sorvegliati speciali. Ora il Conai diventa incaricato di servizio pubblico. COLLEGATO AMBIENTE/La Camera sottopone il consorzio a vigilanza Minambiente.
Ancora una volta il legislatore riscrive le regole di funzionamento del Conai, il consorzio nazionale imballaggi. Succede col ddl collegato ambientale (Atto Camera 2093) nel testo per come modificato e approvato in Conmissione Ambiente di Montecitorio, la scorsa settimana (si veda ItaliaOggi di sabato).

Con un primo emendamento si rimette la vigilanza e il controllo sui consorzi al ministero dell'ambiente. Ciò lascia presumere che sia stata definitivamente accantonata la previsione inizialmente contenuta in una delle bozze del decreto Sblocca Italia (non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale), circolate prima del Cdm, che attribuiva le medesime competenze all'Authority sul gas e l'energia. Con un altro emendamento varato alla camera si afferma espressamente che il sistema Conai ha «un incarico di pubblico servizio».
Il Conai dovrà quindi sostituire i comuni inadempienti nella raccolta differenziata su richiesta del Minambiente. Cade quindi uno degli architravi del sistema Conai-consorzi che risale al 1997 (auspici allora i ministri Ronchi e Bersani) e cioè il legislatore fissa gli obiettivi e sta poi al sistema delle imprese organizzarsi su come raggiungerli. Ovviamente, fermo il potere dell'amministrazione di sanzionare i comportamenti scorretti: insomma un sistema evoluto di «commando and control».
Ma la stessa modifica contiene qualche elemento di contraddizione. Infatti, viene inoltre affermato che «L'attività dei Consorzi è sussidiaria e non può in alcun modo limitare le attività di soggetti che operano secondo le regole del mercato nel rispetto delle norme in materia di gestione dei rifiuti, e deve garantire il riciclaggio e il recupero dei rifiuti di imballaggio, con priorità per quelli provenienti dalla raccolta differenziata, indipendentemente dalle contingenti condizioni di mercato.»
Insomma, da una parte il sistema Conai diventa incaricato di pubblico servizio mentre dall'altra non deve limitare la concorrenza. Nulla viene fatto invece sulla privativa comunale sui rifiuti, questa si limitativa delle concorrenza dei soggetti provati. Viene, inoltre, previsto il sistema del vuoto a rendere su cauzione per gli imballaggi in vetro di birra e acqua minerale servite al pubblico da alberghi e residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e altri locali pubblici; con il divieto di utilizzo di imballaggi non in vetro per la vendita di acque minerali e birra. Va ricordato che il sistema del vuoto a rendere è previsto dalla normativa vigente in materia di imballaggi, ma non è obbligatorio come prevederebbe questa modifica.
Insomma, in attesa degli sviluppi della discussione in aula e del parere delle commissioni, le modifiche approvate sembrano volte a caratterizzare l'attività consortile come pubblica, estendendone i compiti e la responsabilità dal ritiro, recupero e riciclaggio alla effettuazione della raccolta differenziata, sia pure in sostituzione dei comuni inadempienti. A questa si aggiunge l'ulteriore affermazione sulla libertà di concorrenza volta a favorire l'operatività dei sistemi autonomi (articolo ItaliaOggi del 09.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAGestione rifiuti più qualificata. Al via verifiche periodiche sull'idoneità professionale. Dal 7 settembre operativa la riforma dell'Albo nazionale dei gestori ambientali.
Semplificazione delle procedure amministrative e spinta sulla qualificazione professionale degli operatori.

Queste, insieme alla razionalizzazione delle categorie d'attività e alla rivisitazione dei requisiti necessari per l'iscrizione, le parole d'ordine che informano la nuova organizzazione dell'Albo nazionale dei gestori ambientali, sancita dal dm Minambiente 03.06.2014, n. 120 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 23.08.2014 n. 195).
Il nuovo regolamento dell'Albo cui devono iscriversi (ai sensi del dlgs 152/2006, cd. «Codice ambientale») i soggetti coinvolti nella raccolta e trasporto di rifiuti, esplica la sua efficacia dal 07.09.2014, data a partire dalla quale sostituisce la storica e omonima disciplina introdotta dal dm 28.04.1998 n. 406.
Nuove categorie d'attività. Fanno il loro esordio nell'Albo gestori tre nuove categorie d'iscrizione: la «3-bis», dedicata a distributori, installatori e centri di assistenza di apparecchiature elettriche ed elettroniche che ritirano i relativi rifiuti (cd. «Raee») e li gestiscono in via semplificata ex dm 65/2010; la «6», riservata alle imprese che effettuano il solo esercizio di trasporto transfrontaliero di rifiuti; la «7», destinata agli operatori logistici del trasporto intermodale di rifiuti.
In relazione ai gestori di Raee, è utile ricordare come la nuova disciplina di riferimento sia dal 12.04.2014 rappresentata dal dlgs 49/2014, provvedimento che ha (quasi integralmente) sostituito il precedente dlgs 151/2005 lasciando però in vita il dm 65/2010 che (già) prevedeva particolari regole da osservare per la gestione in modo semplificato dei rifiuti (ossia in deroga all'ordinario regime autorizzatorio) da parte dei citati operatori che provvedono a ritirarli dalla propria utenza.
Ciò che ne risulta è un'articolata disciplina semplificata per raccolta, deposito e trasporto dei Raee costituita dal combinato disposto delle norme previste dal nuovo dlgs 49/2014 e dal dm 65/2010. Disciplina che, seppur declinandosi in modo diverso sui singoli operatori coinvolti, sancisce per tutti l'obbligo di iscriversi (sempre in modo «semplificato», ossia tramite mera comunicazione) a un'apposita categoria dell'Albo gestori ambientali per il ritiro e la movimentazione dei tecno-rifiuti.
Ma con la rilevante eccezione (articolo 11, dlgs 49/2014) per cui il raggruppamento di grandi quantitativi di Raee è permesso ai distributori di Aee solo ove alla relativa movimentazione provvederà poi un operatore professionale iscritto all'Albo in via ordinaria. La nuova categoria di attività dedicata agli operatori del trasporto intermodale accoglierà invece i soggetti (ora obbligati anche alla parallela iscrizione al Sistri per il tracciamento telematico dei rifiuti) presenti presso stazioni ferroviarie, interporti e altri scali merci e ai qual sono affidati rifiuti in attesa della presa in carico da parte dei successivi trasportatori.
Requisiti soggettivi per iscrizione. A differenza della pregressa disciplina, le eventuali condanne per reati non impediranno l'iscrizione qualora siano decorsi almeno 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza, sia stata concessa la sospensione condizionale della pena e sia intervenuta l'estinzione del reato o sia stata ottenuta la riabilitazione. Ancora, la soggezione a stato di liquidazione o di procedura concorsuale (d'insolvenza) osterà solo in fase di prima iscrizione dell'azienda, ma non potrà costituire causa di cancellazione dall'Albo se intervenuta successivamente.
Procedure iscrizione e rinnovi. Dal punto di vista formale, domande e comunicazioni relative all'iscrizione dovranno essere inoltrate alle Sezioni competenti dell'Albo (quelle regionali o delle Province autonome nel cui territorio ha sede legale l'impresa) esclusivamente per via telematica mediante l'accesso all'apposito portale delle Camere di commercio.
E questo secondo un regime transitorio che permetterà alle sezioni locali ancora non «dematerializzate» di adeguarsi alla procedura telematica entro il settembre 2017. Dal punto di vista sostanziale, requisiti e condizioni generali per iscrizione (e rinnovi) potranno essere autodichiarati, fatta salva la necessità di produrre (invece) la prima e necessaria documentazione per idoneità tecnica e finanziaria, nonché per lo svolgimento di particolari attività di raccolta e trasporto rifiuti.
Variazioni. Modifiche di ragione sociale, sede legale, organi, trasformazioni societarie o cancellazioni effettuate presso il Registro delle imprese saranno da questo automaticamente trasmesse per via telematica alle competenti Sezioni dell'Albo senza dunque necessità di ulteriori comunicazioni da parte delle aziende. Così come i nuovi veicoli eventualmente acquisiti dalle imprese potranno essere immediatamente utilizzati previa semplice comunicazione della variazione all'Albo, e dunque senza dover attendere relative deliberazioni delle Sezioni locali.
Ancora, in caso di trasferimento della sede legale, sarà unico onere dell'azienda presentare domanda di variazione alla Sezione dell'Albo del territorio di destinazione, che provvederà in autonomia a tutte le modifiche amministrative del caso, compresa la cancellazione dalla Sezione di provenienza.
Responsabile tecnico. L'idoneità professionale dei soggetti nominati dalle imprese quali responsabili della corretta gestione dei rifiuti dovrà essere dimostrata all'Albo con il superamento di puntuali prove di verifica, e ciò sia in fase iniziale che con successiva cadenza quinquennale.
Per i soggetti che già svolgono il ruolo di responsabile tecnico alla data del 07.09.2014 l'appuntamento con la prima verifica coinciderà tuttavia solo con il primo rinnovo utile, secondo la tempistica che lo stesso Albo deciderà. Saranno però dispensati da tali esami i responsabili tecnici coincidenti con i legali rappresentanti legali delle imprese aventi provata esperienza nel settore (secondo i futuri criteri stabiliti dal Comitato nazionale dell'Albo).
Regime transitorio. In base al nuovo dm 120/2014 manterranno la loro validità iscrizioni e domande d'iscrizione all'Albo già in essere alla data del 07.09.2014, così come le garanzie finanziarie già prestate dai soggetti iscritti. Manterranno altresì efficacia le vigenti disposizioni adottate dal Comitato nazionale dell'Albo sulla base della pregressa disciplina (dunque: delibere e circolari compatibili con le nuove norme ministeriali), e ciò fino a quando non saranno superate da nuove regole adottate dallo stesso Organo (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.09.2014).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl conteggio calore ai primi passi. Obbligo dal 2017 in tutta Italia - La Lombardia anticipa (ma senza sanzioni). Impianti di riscaldamento. Il decreto legislativo 102/2014 impone termoregolazione e contabilizzazione.
In Lombardia dal 1° agosto scorso sono obbligatorie le valvole termostatiche e i contabilizzatori di calore per gli impianti di riscaldamento centralizzato, anche se per ora i ritardatari non vengono sanzionati. Lo stesso obbligo scatterà nel resto di Italia, e dal 01.01.2017 gli impianti di riscaldamento centralizzati dovranno essere dotati di termoregolazione e contabilizzazione.
Anche se le scadenze non sono immediate, insomma, l'obbligo del "calore ripartito" è ormai inserito nella legislazione nazionale, anche per allinearsi agli obblighi europei.
Ma come ogni regola che si rispetti, anche quella appena posta dal Dlgs 102/2014 non vale per tutti. Restano esclusi dall'obbligo gli impianti autonomi (per i quali è sufficiente il rinnovo periodico del bollino blu) e quei sistemi dove «impedimenti di natura tecnica» renderebbero l'intervento complicato e oneroso.
Inoltre, nelle case nuove, in cui sono in funzione impianti a zone, la misurazione può avvenire anche attraverso l'installazione di contatori individuali, più performanti rispetto ai ripartitori montati sui singoli caloriferi. In tal caso, l'onere di installare il contatore spetta a chi eroga la fornitura del servizio di energia, che opera però sempre in seguito a una specifica richiesta in tal senso da parte del cliente finale.
L'obbligo e le eccezioni
Le novità discendono dal Dlgs 04.07.2014, n. 102, che recepisce in Italia la direttiva 2012/27/Ue. La norma è scritta in maniera controversa. L'articolo 9 (comma 5, lettera b) parte, infatti, dall'assunto che l'obbligo primario consiste nell'installazione di contatori individuali e solo dove «non sia tecnicamente possibile o efficiente in termini di costi» si debba ricorrere a «sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore» (comma c). Letta in maniera testuale, cioè, parrebbe quasi che le termovalvole siano associate ai soli sistemi di contabilizzazione su radiatore e non ai contatori individuali.
Non è così. «Perché gli impianti più moderni –spiega Ettore Piantoni, coordinatore del gruppo di lavoro sui sistemi di gestione dell'energia del Cti–, che supportano l'installazione di contatori individuali, sono in genere inseriti in edifici dove ogni calorifero ha già la sua valvola in dotazione».
Aggiunge Fabio Bonalumi, presidente dell'Apim, Associazione periti industriali Milano: «La termoregolazione è ormai una prassi consolidata ai fini del risparmio energetico, capace di sfruttare gli apporti termici dovuti ai carichi interni e all'irraggiamento solare e di "equilibrare" situazioni in cui gli impianti termici non sono, per vari motivi, bilanciati dal punto di vista idraulico». Infine, è bene tenere presente che le valvole termostatiche sono il sistema di termoregolazione più diffuso, ma non l'unico esistente.
La scadenza del 2017 non scatta qualora vi siano «impedimenti di natura tecnica». È il caso, ad esempio, di case riscaldate da pannelli radianti obsoleti, dove ricostruire la pianta dei circuiti nei diversi ambienti e garantire la termoregolazione e contabilizzazione risulterebbe un'operazione complicata e onerosa.
Restano inoltre esclusi dall'obbligo anche gli impianti autonomi, per i quali è sufficiente eseguire i normali controlli di efficienza. Ma è bene ricordare che anche in caso di una singola villetta la termoregolazione è utile per "ottimizzare" il funzionamento dell'impianto, riducendo l'erogazione di calore per sfruttare i cosiddetti apporti gratuiti (sui lati più esposti al sole o nelle giornate più miti), aumentando così il risparmio energetico.
Lombardia e Piemonte
La Lombardia ha da tempo recepito la direttiva europea del 2012. Il risultato è che, solo su questo territorio, valvole termostatiche e ripartitori sono già obbligatori, appunto, dal 01.08.2014. Tuttavia, la Regione ha già ha chiarito che le eventuali sanzioni dovute alla mancata installazione potranno essere comminate solo dal 01.01.2017 per inadempimenti riscontrati a decorrere dalla stessa data.
In Piemonte, invece, altra Regione che si era portata avanti rispetto al Governo, il termine ultimo per le valvole –fissato al 01.09.2014– è stato prorogato al 31.12.2016.
L'installazione
La messa in opera dei dispositivi di termoregolazione e contabilizzazione individuale del calore è regolamentata, a livello nazionale, dalla legge sull'efficienza energetica n. 10/1991, secondo cui qualsiasi intervento sugli impianti di riscaldamento deve essere progettato a firma di un tecnico abilitato e iscritto ad albo professionale. Il progetto va inoltre depositato in copia presso il Comune competente.
Le sanzioni
Le sanzioni sono previste ma solo dal gennaio 2017. Chi non installerà le valvole termostatiche e i contabilizzatori di calore o le imprese di erogazione del servizio che non forniranno, laddove richiesti e possibili da applicare, contatori individuali, rischieranno da allora multe da 500 a 2.500 euro.
In Lombardia la sanzione potrà arrivare fino a 3 mila euro per ciascuna unità immobiliare
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2014).

EDILIZIA PRIVATAPareti isolanti: bonus legati a limiti più severi. Come cambiano gli extraspessori.
Extra-spessori a scomputo e deroghe sulle distanze minime per chi realizza edifici nuovi o interviene su immobili esistenti, investendo in soluzioni che consentono un reale abbattimento dei consumi.
Non si tratta di una novità dell'estate. Tutte queste previsioni esistevano già ed erano inserite nel Dlgs 115/2008, che opera a livello nazionale (fatte salve le norme particolari che le Regioni e le Province autonome hanno varato negli anni sui singoli territori). Ora però il Dlgs 102/2014, sempre a livello statale e senza intaccare legislazioni particolari, è ritornato sul tema e ha riformulato le possibilità concesse. Chiedendo e imponendo un po' di più, in termini di prestazioni energetiche da raggiungere e da garantire.
La rivisitazione è racchiusa all'interno dei commi 6 e 7 dell'articolo 14 del Dlgs 102, che sostituiscono i commi 1 e 2 dell'articolo 11 del Dlgs 115/2008. Nel caso di fabbricati di nuova costruzione, non è considerato nei computi per la determinazione dei volumi, delle altezze, delle superfici e nei rapporti di copertura, lo spessore delle murature esterne, delle tamponature o dei muri portanti, dei solai intermedi e di chiusura superiori ed inferiori, eccedente i 30 centimetri, fino ad un massimo di ulteriori 30 centimetri (contro i 25 della precedente norma), per tutte le strutture che racchiudono il volume riscaldato e fino ad un massimo di 15 centimetri per i solai intermedi (in questo caso resta invariato). Il tutto a patto che si ottenga con il progetto una riduzione minima del 20% dell'indice di prestazione energetica previsto dal Dlgs n. 192/2005 (in precedenza, il tetto da raggiungere era il 10%).
Nel rispetto di questi limiti è, inoltre, permesso derogare a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, a quelle dai confini di proprietà, a quelle minime di protezione del nastro stradale e ferroviario e alle altezze massime degli edifici, ma sempre nel rispetto delle distanze minime riportate dal codice civile.
Per chi, invece, affronta lavori di riqualificazione energetica di edifici esistenti, che comportano l'inserimento di maggiori spessori delle murature esterne (ad esempio quando si introduce un cappotto termico) e di elementi di chiusura superiori ed inferiori, scattano una serie di deroghe se si ottiene, come già era in passato, una riduzione minima del 10% dei limiti di trasmittanza previsti del Dlgs n.192/2005.
In particolare, è consentito derogare alle distanze minime tra edifici, a quelle dai confini di proprietà e a quelle di protezione del nastro stradale, nella misura massima di 25 centimetri (prima erano 20) per il maggiore spessore delle pareti verticali esterne. Così anche alle altezze massime degli immobili, nella misura massima di 30 centimetri, per il maggiore spessore degli elementi di copertura. La deroga può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZI: Il taglia-contratti esclude tutto il ciclo dei rifiuti. Spending review. Il decreto Irpef.
La facoltà, data agli enti locali dal Dl 66/2014 di ridurre del 5% gli importi dei contratti in essere riguarda anche quelli relativi ai servizi di igiene urbana? Per rispondere al quesito occorre leggere l'articolo 8, comma 8, insieme ai commi 7, 8 e 9 dell'articolo 47. Si tratta, infatti, di norme di finanza pubblica, che vogliono avere effetti di consolidato nazionale e non di generico risparmio. Se non fosse così, non sarebbe giustificata una revisione (quasi) unilaterale degli obblighi contrattuali.
Intanto va notato che in sede di conversione, degli ambiziosi tagli previsti dal comma 8, è rimasto solo questo intervento spot, cioè la possibilità di rinegoziare i contratti di fornitura di beni e servizi. E non si tratta tanto di uno sconto, quanto della possibilità di ridurre il contenuto di servizio, rimodulando la prestazione, e facendo salva la possibilità della controparte di recedere.
L'articolo 47 affianca l'articolo 8 e ne completa il quadro, evidenziando sia l'entità della riduzione di spesa che riguarda gli enti locali, sia la loro qualità, cioè puntualizzando cosa deve riguardare: l'articolo 47, comma 9, precisa che i risparmi devono rientrare in una lista di voci di spesa, di cui elenca i codici Siope. Tra questi non vi è il codice 1303 (Contratti di servizio per smaltimento rifiuti) e non certo per una svista: nella prima versione dell'Allegato A al decreto, infatti, il codice era previsto.
È solo il caso di rilevare che la voce di descrizione del codice 1303 può suscitare degli equivoci, visto che fa, letteralmente, riferimento a una fase del ciclo integrato dei rifiuti e non al suo complesso. Ci soccorre, in proposito, il glossario della Fondazione Ifel, secondo il quale in questa voce rientra tutto il servizio pubblico locale relativo al ciclo dei rifiuti, mentre ne restano esclusi solo i servizi strumentali di "pulizia". Anche la prassi degli enti locali conferma questa interpretazione.
C'è un altro elemento, importante, che depone a favore della non applicabilità di questi tagli, pur solo eventuali, al settore dei rifiuti, e che trova conferma nella struttura e nella logica stessa della Tari. La ragione è che, essendovi l'obbligo di finanziare la spesa con il tributo corrispondente, una sua riduzione non comporta un risparmio di spesa per la pubblica amministrazione: il Comune, in sostanza, non può appropriarsi del "risparmio" ma deve restituire l'importo ai cittadini.
Ancora, è bene ricordare che la norma di finanza pubblica non supera la disciplina speciale di settore e, pertanto, che un'eventuale modifica del contratto di servizio non potrebbe che conseguire da una procedura di revisione del piano economico finanziario, necessario per la determinazione della tariffa. E la riduzione di spesa non potrà essere applicata «per tutta la durata residua dei contratti medesimi», come prevede l'articolo 8, ma dovrà essere ridiscussa in sede di Pef, quando questo venga ripresentato.
Infine, dove le previsioni del testo unico ambientale sono state applicate, ed esistono quindi le Autorità di ambito, è chiaro che l'importo del contratto relativo al ciclo integrato dei rifiuti non è materia di competenza del singolo Comune (se non per le eventuali parti del servizio lasciate alla discrezionalità degli enti locali), ma dell'Autorità stessa. E sarebbe irragionevole pensare che il legislatore abbia immaginato una disposizione applicabile solo da alcuni enti locali.
Tutto ciò, ovviamente, non significa che dal settore dell'igiene ambientale non si possano pretendere risparmi ed una maggiore efficienza ma che questi debbano andare a vantaggio dei cittadini e non costituire forme surrettizie di finanziamento degli enti locali
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODirigenti a tempo solo con «gara». Decreto Pa. Regioni obbligate alla selezione pubblica fra i candidati.
La legge 114/2014, di conversione del Dl 90 sulla Pa, interviene superando le normative regionali contrastanti o comunque non in linea con i suoi principi in tema di nomina a dirigente degli esterni nelle Regioni.

La norma accoglie l'interpretazione già sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria e introduce l'obbligo di una selezione pubblica volta ad accertare il possesso di una comprovata esperienza pluriennale e una specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico, con l'evidente necessità di predisporre avvisi per singole posizioni dirigenziali, anche di livello generale.
Già per la giurisprudenza, in applicazione dei canoni fissati dall'articolo 97 Costituzione, erano necessarie regole procedimentali atte a garantire le condizioni di un trasparente e imparziale esercizio dell'attività amministrativa, e finalizzate alla scelta del soggetto più adatto all'incarico da individuarsi previa esplicita motivazione riguardo ai citati requisiti, seppur in assenza di un obbligo comparativo fra i diversi aspiranti.
Viene meno la possibilità di predisporre elenchi dai quali attingere per le nomine dirigenziali, fattispecie in verità già dubbia alla luce della formulazione dell'articolo 19 del Dlgs 165/2001 che trova piena applicazione alle Regioni, come anche confermato dallo stesso legislatore che espressamente lo richiama nell'articolo 10, comma 3, della legge 114/2014, per come già fissato dalla Corte Costituzionale con la decisione 340/2010.
Con la nuova norma è infine possibile dare una lettura diversa del principio affermato dalla giurisprudenza, secondo la quale il solo esame dei curricula del personale dirigenziale interno in possesso dei titoli di base si rivela insufficiente a concretizzate le garanzie che l'ordinamento impone al fine di consentire una scelta dei soggetti esterni.
È trasfuso in norme, infatti, il principio giurisprudenziale secondo il quale solo nella fase di valutazione delle competenze e professionalità in capo ai soggetti interessati, quindi a valle della selezione pubblica, l'amministrazione è posta nella possibilità di valutare e individuare un esterno in luogo di un dirigente di ruolo, motivandone adeguatamente la scelta non solo in ordine agli obiettivi ma anche in relazione alle caratteristiche dei soggetti richiedenti.
La disposizione, infine, stabilisce nel massimo del 10% la percentuale di esterni puri acquisibili in base all'articolo 19, comma 6, del Dlgs 165/2001, confermando due importanti aspetti: la percentuale è al netto di quella inerente i dirigenti di altre Pa (comma 5-bis dell'articolo 19) per l'attivazione della quale, inoltre, non necessita alcuna dimostrazione di carenza interna: il comma in questione da nessuna parte impone la "preferenza" agli interni, stante la considerazione che lo spirito della norma in questione non è l'acquisizione di risorse e conoscenze esterne alla Pa (si tratta di dirigenti comunque di ruolo, assunti con concorso pubblico) ma quello di consentire un adeguato scambio di esperienze tra amministrazioni diverse, principio peraltro fatto proprio dal recente disegno di legge sulla Pa.
Va segnalato, infine, come per espressa disposizione del legislatore la norma si riferisce agli incarichi della medesima natura e soprattutto ad ogni disposizione normativa, anche di settore, assorbendo, quindi, le nomine dei dirigenti e delle funzioni dirigenziali di ogni livello, ivi comprese le nomine di coloro i quali svolgano funzioni di direzione degli enti strumentali, sollevando il dubbio che la stessa possa trovare applicazione anche agli incarichi di dirigente generale delle Asl, espressamente richiamate dal legislatore nazionale (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORequisiti da definire nel regolamento. Nei Comuni. I margini di autonomia.
L'articolo 11, comma 1, della legge 114/2014 cambia le regole sui posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifica dirigenziale o di alta specializzazione. È sempre consentita la copertura con contratto a tempo determinato, purché previsto dallo Statuto dell'ente, e scompare la distinzione tra contratto di diritto pubblico e di diritto privato.
Nel demandare all'ordinamento degli uffici e dei servizi la quota dei posti di qualifica dirigenziale con contratto a tempo determinato, è fissato il tetto del 30% rispetto ai posti della stessa qualifica previsti nella dotazione organica. Per i posti di alta specializzazione previsti dallo Statuto, dalla norma non sembrano emergere limiti per i tempi determinati. In entrambi i casi bisogna provvedere con una selezione pubblica per accertare il possesso della comprovata esperienza «pluriennale» e della «specifica» professionalità nelle materie dell'incarico.
Per la selezione occorre definire nel regolamento i requisiti soggettivi (titoli di studio ed eventuali specializzazioni) e oggettivi (la durata dell'esperienza pluriennale) necessari, i criteri di valutazione eccetera. Occorre chiedersi se il termine «
procedura selettiva pubblica» integri la necessità di arrivare a una graduatoria finale vincolante, o se si possa fare una selezione senza i caratteri del concorso.
Diversamente, il termine indicherebbe un confronto comparativo ispirato a imparzialità, ragionevolezza e all'osservanza dei principi costituzionale del buon andamento (Consiglio di Stato nr. 2947/2013). Sembra questa la tesi preferibile, per cui non dovrebbe operare la riserva (articolo 63, comma 4, Dlgs 165/2001) in favore del giudice amministrativo
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPolizia locale in mezzo al mar. L'attività di indagine si estende alle acque territoriali. Per il ministero dei trasporti il comune può occuparsi anche di abusi sulla battigia.
Un comune marittimo può autorizzare la dispersione delle ceneri dei defunti in acqua oppure incaricare la polizia locale ad effettuare attività di indagine anche in mare aperto. Ma anche occuparsi di attività amministrative diverse sino al limite del mare territoriale come per esempio abusi edilizi o irregolarità urbanistiche.

Lo ha chiarito implicitamente la Direzione generale per la vigilanza sulle attività portuali del Ministero dei Trasporti con il parere 02.09.2014 n. 8800 di prot..
Il comune di Jesolo ha richiesto chiarimenti sulla competenza municipale nello specchio di mare antistante alla nota località turistica. In particolare alla burocrazia municipale interessava approfondire alcuni aspetti correlati alle buone pratiche amministrative come per esempio la correttezza di una determinazione finalizzata alla dispersione delle ceneri dei defunti in mare oppure inerenti alla competenza stessa dei vigili urbani durante i pattugliamenti salmastri sul bagnasciuga.
Ma problematiche potrebbero sorgere anche in riferimento alla regolarità di installazioni in mare aperto per il divertimento dei bagnanti oppure per attività comunque connesse alla competenza comunale in senso lato anche se esercitate in acqua. Basti pensare ai capanni da pesca e a qualsiasi manufatto realizzato al largo con caratteristiche di stabilità. Per quanto riguarda i limiti territoriali geografici a parere del ministero non sussiste alcun riferimento normativo positivo. Tuttavia è innegabile, prosegue la nota centrale, che il comune abbia e debba poter esercitare competenze e funzioni amministrative anche sul mare territoriale.
Come confermato dalla sentenza della Corte di cassazione sez. V civ. n. 13974 del 27.06.2005, prosegue il parere centrale, sull'intero territorio nazionale compreso il mare convivono e si esercitano i poteri dello stato contestualmente a quelli delle regioni e degli enti locali. In buona sostanza si deve necessariamente riconoscere dignità di territorio comunale al mare prospiciente la costa del comune sino al limite delle acque territoriali ovvero entro le 12 miglia dalla costa. Con tutte le conseguenze amministrative espresse e potenziali connesse (articolo ItaliaOggi del 06.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Sull'ambiente pagano i comuni. Responsabilità contabile su abusi edilizi e differenziata. Ok in commissione alla camera il collegato alla legge di stabilità. Mozziconi, multe da 400.
Le pubbliche amministrazioni dovranno pretendere il pagamento delle sanzioni in caso di abusi edilizi. In caso di inadempienza saranno i dirigenti e funzionari locali inadempienti ad assumersene le responsabilità disciplinare e contabile, anche con decurtazioni dello stipendio.
Scatta poi la responsabilità contabile dei comuni per il mancato conseguimento degli obiettivi di raccolta differenziata. Chiunque butti mozziconi di sigaretta e di altri prodotti da fumo o gomme da masticare per terra, nelle acque, all'interno di edifici pubblici o aperti al pubblico e su veicoli di trasporto pubblico sarà punito con una multa, tra 50 a 400 euro.
E arriva un fondo italiano investimenti «green communities», finanziato per un miliardo di euro. Di cui almeno il 51% garantito dalla Cdp e almeno il 20% dal ministero dell'economia e delle finanze, sulla base delle risorse della programmazione Ue 2014/2020, e il resto allocato sul mercato. Il fondo è istituito dal Mef attraverso la Cdp.

Queste alcune delle novità contenute nel collegato alla legge di stabilità 2014, recante «disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali», approvato in prima lettura (il 4 settembre scorso) dalla VIII commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della camera.
Il testo votato dalla commissione in sede referente deve essere ora approvato dalla camera e poi andrà al senato. Il tutto a distanza di circa sei mesi dal deposito in parlamento del collegato ambientale.
Qualifica ambientale. Tra le novità introdotte in commissione, abbiamo l'introduzione di un piano per la qualificazione ambientale dei prodotti dei sistemi produttivi locali, i distretti industriali e le filiere che caratterizzano il sistema produttivo nazionale, con l'obiettivo di definire le azioni e le indicazioni tecniche e operative volte a migliorare le capacità competitive delle imprese per rispondere alla crescente domanda di prodotti sostenibili da parte dei consumatori finali e dei clienti intermedi di molti settori produttivi.
Il piano sarà adottato con decreto del ministro dell'ambiente di concerto con il ministro dello sviluppo economico, sentiti i ministri dell'economia e delle finanze e delle politiche agricole e forestali, entro 180 giorni dall'entrata in vigore della presente legge.
Green communities. Il ministero dell'economia e delle finanze, per il tramite della cassa depositi e prestiti, è autorizzato alla costituzione del «fondo Italiano investimenti green communities». Il fondo ha l'obiettivo di garantire una redditività adeguata del capitale investito, attraverso operazioni ed interventi di sostegno finanziario, diretto e indiretto, a favore delle imprese di piccole e medie dimensioni, nonché degli enti locali, ivi comprese le società da essi controllate c/o partecipate, per investimenti nel campo della green economy.
Con particolare riferimento a quelli interessanti i territori montani e rurali italiani, e con peculiare riguardo per il sostegno agli investimenti nel campo dell'innovazione, della ricerca e dello sviluppo nei territori a cosiddetto «fallimento di mercato» al fine di ammortizzare e annullare i deficit strutturali permanenti di tali territori.
Oil free zone. Al fine di promuovere su base sperimentale e sussidiaria la progressiva fuoriuscita dall'economia basata sul ciclo del carbonio, e di raggiungere gli standard europei in materia di sostenibilità ambientale, vengono istituite e promosse le «oil free zone».
Si intende per «oil free zone» un'area territoriale nella quale, entro un determinato arco temporale e sulla base di specifico atto di indirizzo adottato dai comuni del territorio di riferimento, si prevede la progressiva sostituzione del petrolio e dei suoi derivati con energie da fonti rinnovabili. La costituzione di tali aree viene promossa dai comuni interessati, per il tramite delle unioni di comuni (articolo ItaliaOggi del 06.09.2014).

CONDOMINIO: Sospesa l'utenza al condomino moroso. I giudici hanno stabilito che non c'è l'obbligo di riattivare la fornitura. Tribunale di Roma. Sotto esame il problema di servizi comuni con godimento separato in caso di mancati pagamenti.
La possibilità, per l'amministratore, di sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato in caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre (articolo 63, comma 3, delle Disposizioni di attuazione del Codice civile), non è di facile attuazione, soprattutto quando si tratta della fornitura dell'acqua, della luce e del gas.

A Roma il Tribunale ha confermato, però, la sospensione decisa dall'azienda erogatrice.
Il contratto di erogazione dell'acqua, della luce e del gas, a favore del condominio o di persone, verso il corrispettivo di un prezzo, è un contratto di somministrazione (articolo 1559 del Codice civile) mediante il quale «se la parte che ha diritto alla somministrazione è inadempiente, e l'inadempimento è di lieve entità, il somministrante non può sospendere l'esecuzione del contratto senza dare congruo preavviso» (articolo 1565).
Pertanto l'ente erogante, in caso di morosità dell'utente, non dovrebbe sospendere la fornitura in assenza di una comunicazione scritta di preavviso e sarà invece legittima la sospensione se non venisse sanata subito dopo.
Sul problema è intervenuto il Tribunale di Roma (si veda anche il Tribunale di Brescia, ordinanza del 21.05.2014) il quale, con ordinanza del 27.06.2014, riformava l'ordinanza impugnata (e rigettava l'istanza avanzata dal condominio), con la quale era stato precedentemente ordinato all'ente somministrante di riallacciare e ripristinare in favore di un condominio l'erogazione del gas per l'intero stabile (servizio sospeso per morosità nel pagamento di alcune fatture e che aveva già subito una precedente sospensione), stante la natura del servizio e la mancata evasione della richiesta di voltura nominativa dell'utenza (originariamente intestata per errore a un singolo condòmino).
Il giudice di merito ha precisato che, in considerazione della permanente morosità «non sussiste un obbligo di riattivazione dell'utenza, né sussiste un obbligo a contrarre, stante la liberalizzazione del mercato» e che «il danno lamentato dal condominio corrispondente alle conseguenze derivanti dalla mancata voltura o attivazione di fornitura del gas per il riscaldamento» (l'utenza era infatti intestata per errore ad un condòmino) «si risolve in un mero pregiudizio economico, potendo dette problematiche essere agevolmente risolte mediante il pagamento della somma dovuta, di non rilevante entità, e in relazione alla quale non si è provata l'impossibilità o la grave difficoltà di pagamento».
Non sono mancate, però, in passato, opinioni contrarie, per le quali il diritto che con la sospensione del servizio si intende tutelare, in favore del Condominio, è puramente economico e, dunque, sempre riparabile, mentre per i fruitori del servizio la sospensione dell'erogazione dell'acqua, del riscaldamento, considerati servizi essenziali, contrasterebbe con l'articolo 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute.
Occorre comunque ricordare che la nuova formulazione dell'articolo 63, comma 2, delle Disposizioni di attuazione afferma che, in caso di morosità, i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti se non dopo l'escussione degli altri condòmini i cui dati devono essere forniti dall'amministratore se richiesti (articolo 63, comma 1)
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2014).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Ferie regalabili ai colleghi. Ddl delega.
Giorni di ferie «in dono» ai colleghi che devono accudire un figlio malato.

È l'opportunità scaturita da un emendamento accolto ieri in commissione lavoro, a palazzo Madama, alla ripresa dell'esame del testo che completa il «Jobs act» (1428), dopo l'approvazione a maggio del decreto 34/2014 (convertito nella legge 78/2014).
A siglare l'iniziativa Emanuela Munerato della Lega nord che, in base a un principio di solidarietà fra il personale della medesima azienda, permette ai dipendenti, del pubblico e del privato, di regalare giorni di ferie a un altro addetto, affinché possa occuparsi «del figlio minore che», si legge nella correzione riformulata dal governo, «necessita di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute»; la cessione deve, comunque, avvenire «compatibilmente con il diritto ai riposi settimanali e alle ferie annuali retribuite». Una norma che, accettata dall'XI commissione, dovrà essere valutata dalla bilancio, descritta dalla parlamentare del Carroccio come simbolo di «grande civiltà, già stata adottata in Francia», e adesso pronta a vedere la luce anche nel nostro paese.
Quanto al resto del provvedimento, le questioni spinose, contenute nell'articolo 4, saranno sciolte nelle prossime sedute: in particolare, bisognerà prima risolvere le divergenze politiche nella maggioranza in merito alle modifiche allo Statuto dei lavoratori e all'articolo 18 che, com'è noto, prevede che i licenziamenti nelle aziende con almeno 15 dipendenti siano validi soltanto se avvenuti per «giusta causa, o giustificato motivo»; a chiederne a gran voce l'eliminazione il Ncd, di cui è esponente il presidente della commissione ed ex ministro Maurizio Sacconi, che invoca una delega ampia al governo per procedere al riordino dello Statuto.
Altro capitolo importante è, infine, l'introduzione del contratto a tempo determinato a tutele crescenti, «cavallo di battaglia» di Pietro Ichino (Sc) per stimolare le assunzioni soprattutto dei giovani, sostituendo le «rigidità» dell'attuale formula d'inquadramento «sine die» (articolo ItaliaOggi del 05.09.2014).

APPALTISulle cauzioni si fa chiarezza. Svincolo applicato anche ai servizi e alle forniture. APPALTI/ Indirizzi operativi nella determinazione dell'Authority n. 1 del 2014.
Norme in materia di cauzione provvisoria e definitiva all'esame dell'Autorità nazionale anticorruzione – Vigilanza contratti.

Con la determina 29.07.2014 n. 1 l'Authority ha fornito indicazioni operative volte al superamento di alcune problematicità riscontrate in ordine all'uso delle cauzioni di cui agli articoli 75 e 113 del Codice degli appalti.
L'Autorità nazionale anticorruzione, organismo che, con il dl 24/06/2014 n. 90, ha raccolto le competenze della soppressa Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp), prima di affrontare le singole criticità fornisce un inquadramento generale della normativa inerente alle cauzioni. L'art. 75 del Codice degli appalti disciplina la fattispecie della cauzione provvisoria prevedendo che i concorrenti, come garanzia a corredo dell'offerta presentata, debbano rilasciare una cauzione pari al 2% dell'importo previsto a base di gara, da costituire in contanti o in titoli di debito pubblico o nella forma di fideiussione rilasciata da istituti bancari, assicurazioni o intermediari finanziari, iscritti nell'elenco speciale degli intermediari finanziari di cui all'art. 106 del dlgs 385/1993, che svolgono in via esclusiva o prevalente l'attività di rilascio di garanzie e che sono sottoposti a revisione contabile da parte di una società di revisione iscritta nell'albo previsto dall'art. 161 del dlgs 58/1998.
L'art. 113 del Codice degli appalti è relativo, invece, all'istituto della cauzione definitiva, che prevede l'obbligo dell'aggiudicatario, esecutore del contratto, di rilasciare una garanzia fideiussoria pari al 10% dell'importo contrattuale, percentuale di riferimento da maggiorare, secondo quanto previsto dall'art. 113, in caso di ribassi in sede di gara superiori alla soglia del 10%. Tale garanzia fideiussoria potrà essere rilasciata dai medesimi soggetti garanti sopra richiamati per la costituzione della cauzione provvisoria.
La cauzione definitiva è svincolabile con il progressivo avanzamento dell'esecuzione nel limite massimo dell'80% mentre il saldo secondo la normativa vigente. Le fideiussioni da rilasciare per la cauzione provvisoria e per la cauzione definitiva, dovranno prevedere espressamente la rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale, la rinuncia all'eccezione di cui all'art. 1957, comma 2, del codice civile e l'operatività delle stesse entro 15 giorni a semplice richiesta scritta della stazione appaltante.
Le principali problematiche affrontate nella determinazione concernono l'uso dell'istituto della cauzione nei cosiddetti «settori speciali» (gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi postali, sfruttamento di area geografica) in quanto nell'art. 206 del Codice degli appalti, nell'elenco delle norme generali applicabili anche nei settori speciali, non sono espressamente menzionati i predetti articoli 75 e 113, lasciando così alle stazioni appaltanti, in sede di procedura di gara, una maggiore discrezionalità nell'eventuale richiamo alla normativa generale in materia di cauzioni.
Nell'utilizzo di tali norme sono emerse, infatti, alcune problematiche legate alla limitazione alle sole banche e assicurazioni come soggetti designati per il rilascio delle garanzie, alla richiesta di rating elevati per gli emittenti garanzie e alla richiesta di garanzie nella forma di «contratto autonomo di garanzia».
Riguardo alla tendenza, riscontrata in alcuni bandi di gara, di limitare i soggetti garanti alle sole banche e assicurazioni, motivata dalla maggiore affidabilità riconosciuta a tali operatori, e alla conseguente esclusione degli altri intermediari finanziari, l'Autorità pone l'accento su come tale affidabilità possa essere riconosciuta, come previsto per i settori ordinari, anche agli intermediari finanziari i quali sono ugualmente sottoposti al controllo della Banca d'Italia poiché iscritti nell'apposito elenco di cui all'art. 106 del dlgs 385/1993 e specificatamente autorizzati all'attività di rilascio delle garanzie da parte del Ministero dell'economia e delle finanze. Su tale punto, a fronte delle difficoltà rilevate dalle stazioni appaltanti nell'escussione della fideiussione rilasciate da alcuni intermediari finanziari, è consigliato, tuttavia, alle stazioni appaltanti di richiedere, nel caso di ricorso a intermediari finanziari, l'indicazione espressa nel modello di fideiussione degli estremi dell'autorizzazione ministeriale.
Riguardo al tema del rating, l'organo di vigilanza rileva come talune amministrazioni richiedano per la costituzione delle cauzioni provvisorie e definitive il rilascio della fideiussione da parte di operatori che abbiano un rating di lungo periodo uguale o superiore a determinati livelli stabiliti dalle note agenzie di certificazione internazionali. Tale orientamento, a giudizio dell'Authority, potrebbe avere effetti sulla concorrenza in quanto i soggetti abilitati al rilascio di garanzie che non hanno titoli negoziati nei mercati regolamentati potrebbero non disporre del rating assegnato sulla base degli standard di certificazione internazionale; in aggiunta, tale richiesta potrebbe limitare la partecipazione stessa alle gare per le difficoltà delle imprese nel reperire garanzie da parte di operatori in possesso di tale requisito.
La richiesta della forma del «contratto autonomo di garanzia», vale a dire un contratto di garanzia immediatamente escutibile e senza possibilità di opporre eccezioni al creditore, non condivisa dalle imprese di assicurazioni, appare, invece, del tutto ammissibile alla luce delle stesse norme del Codice degli appalti che nel definire espressamente le caratteristiche, in precedenza illustrate, della fideiussione di cui agli articoli 75 e 113, hanno proprio inteso configurare una garanzia autonoma per la tutela dell'interesse pubblico e delle stazioni appaltanti.
Un ultimo punto sviluppato nella determinazione riguarda lo svincolo progressivo, nel limite massimo dell'80%, della cauzione definitiva nel caso di appalti di servizi e forniture. L'Autorità, richiamandosi alla precedente deliberazione n. 85/2012 dell'Avcp, ritiene come il meccanismo di svincolo, previsto dell'art. 123 del Regolamento di attuazione ed esecuzione del Codice degli appalti unitamente all'art. 113, per gli appalti dei lavori sulla base della documentazione riguardante l'avanzamento degli stessi, possa essere operativamente applicato anche nei contratti di servizi e forniture. La stazione appaltante per i servizi e forniture potrebbe emettere, su richiesta dell'operatore, un'attestazione sullo stato di esecuzione del contratto analoga allo stato di avanzamento lavori, da presentare poi al soggetto emittente per lo svincolo parziale della garanzia fideiussoria (articolo ItaliaOggi del 05.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti senza responsabilità solidale. Giro di vite sulle società liquidate: ex soci in campo per cinque anni per i mancati versamenti.
Delega fiscale. In arrivo il decreto del Governo sulle semplificazioni che cancella l'addebito automatico al committente delle ritenute non pagate.

Esclusione della responsabilità solidale negli appalti, "copertura" quinquennale con il capitale ripartito tra i soci a seguito di liquidazione della società per il mancato pagamento delle ritenute.
Potrebbe essere questo l'esito della "mediazione" in atto a livello governativo per dare il via libera a breve al decreto sulle semplificazioni che attuerà una parte importante della delega fiscale (legge 23/2014).
Sarebbe, invece, ancora in bilico la questione della responsabilità dei Caf e dei professionisti che ora si estende sino al punto di porre sulle spalle di questi ultimi l'onere del versamento delle imposte dovute dal contribuente assistito che ha (volontariamente o meno non importa) "barato" sugli importi da versare, magari sfruttando le detrazioni in maniera non corretta: il Governo sarebbe orientato a mantenere la responsabilità sulle spalle di Caf e professionisti (proprio per rendere il 730 precompilato una sorta di "pietra tombale" per il contribuente che non dovrà più preoccuparsi di nulla) ma i tecnici fanno osservare che la responsabilità fiscale, per dettato costituzionale, è «personale» e non può "migrare" sulle spalle di un soggetto che, peraltro, non ha prodotto il reddito poi tassato.
Un passaggio meno delicato potrebbe invece essere quello che riguarda il trattamento fiscale delle società tra professionisti, per le quali è pressoché certo che il Governo accetterà la via dello stralcio proposto dalla commissione Finanze del Senato; e questo in ragione del fatto che la norma contenuta nell'articolo 11 della legge 23, prevedendo che alle società tra professionisti costituite ex articolo 10 legge 183/2011 si applichi il regime fiscale delle associazioni senza personalità giuridica, ostacola di fatto la costituzione di Stp nella forma di Spa e cooperative creando, in particolare, una contraddizione fra regole fiscali (principio di cassa) e regole contabili (principio di competenza), duplicando gli adempimenti e rendendo più difficili i controlli. Il risultato sarebbe quello, come si legge nel parere della commissione, di rendere «non conveniente la partecipazione al socio non professionista», prefigurando di fatto «una disciplina innovativa e diversa rispetto a quella, pur controversa, in essere». Spazio, in materia societaria, alla previsione che la società si considera non operativa se in perdita per cinque anni e non per tre.
Così come, in materia di reti di impresa, l'obbligo di redigere e depositare il bilancio relativo all'attività di rete di impresa, fermo per le reti-soggetto, non si applicherà, diversamente da quel ora accade, alle reti prive di personalità giuridica (le cosiddette "reti contratto"), per le quali ai fini sia fiscali che civilistici, le singole imprese rimangono soggetti giuridici autonomi.
E proprio la difficoltà a trovare la quadra sulle questioni controverse sta dettando i tempi del percorso attuativo della delega per quel che riguarda l'impianto delle semplificazioni, che, a ogni modo, dovrebbe vedere la luce entro settembre. Specie se, come pare, sta prendendo piede, in fatto di responsabilità solidale negli appalti, l'ipotesi di modificare la normativa vigente escludendo la responsabilità solidale del committente per le ritenute fiscali. In compenso, si starebbe facendo strada l'ipotesi di responsabilità quinquennale dei soci di società liquidata sempre in fatto di versamento all'Erario di trattenute effettuate al dipendente
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANuove domande per l'Aia entro lunedì 8 settembre. Ambiente. La scadenza per l'Autorizzazione integrata.
Scade domenica 7 settembre il termine entro il quale i gestori di installazioni per la prima volta soggette ad Aia devono presentare alla Regione (o alla Provincia) la richiesta di Autorizzazione integrata ambientale. La cadenza domenicale del termine si ritiene consenta il soddisfacimento dell'obbligo entro lunedì 8 settembre.
Così le autorità competenti potranno concedere l'Aia entro il previsto termine del 07.07.2015 che è anche la data finale entro la quale i nuovi obbligati possono continuare le attività con le vecchie autorizzazioni. L'esercizio di attività compresa nel citato allegato VIII condotto in assenza di Aia è punito con arresto fino a un anno o con ammenda da 2.500 a 26mila euro. Le pene si raddoppiano in caso di scarico idrico di sostanze pericolose o di gestione di rifiuti pericolosi.
L'obbligo scaturisce dall'articolo 29, comma 2, Dlgs 46/2014 che ha ampliato notevolmente la platea degli obbligati ad Aia ed ha anche corretto profondamente la parte seconda del "Codice ambientale" (Dlgs 152/2006). I gestori interessati a questa prima importante scadenza sono quelli delle installazioni esistenti dove si svolgono attività che il Dlgs 46/2014, per la prima volta, ha inserito nell'allegato VIII alla parte seconda, titolo III-bis, del "Codice ambientale".
Per la nuova disciplina è «esistente» l'installazione che «al 06.01.2013, ha ottenuto tutte le autorizzazioni ambientali necessarie all'esercizio» (o sono state presentate richieste complete) o il provvedimento positivo di compatibilità ambientale, purché essa sia entrata «in funzione entro il 06.01.2014».
Tra i nuovi chiamati figurano nuove attività del comparto industriale (ad esempio gassificazione o liquefazione combustibili diversi dal carbone in installazioni con potenza termica nominale totale pari o superiore a 20 mw; produzione ossido di magnesio in forni con capacità di produzione oltre 50 mg al giorno; fabbricazione mangimi) e di gestione rifiuti (recupero, anche in combinazione con lo smaltimento, di rifiuti non pericolosi con una capacità superiore a 75 mg al giorno mediante trattamento in frantumatori di rifiuti metallici, compresi i Raee e i veicoli fuori uso).
Per le installazioni già soggette ad Aia, invece, si ricorda che il concetto di procedura amministrativa di rinnovo è stato superato da quello dell'aggiornamento delle autorizzazioni; infatti, il nuovo articolo 29-octies, Dlgs 152/2006 stabilisce che l'autorità competente riesamina periodicamente l'Aia, «confermando o aggiornando le relative condizioni» e individua modi termini del riesame. Fino alla nuova pronuncia, il gestore continua l'attività in base all'Aia in suo possesso (comma 11).
Molte le criticità e, in attesa dell'atto di indirizzo del Minambiente, frutto del Coordinamento ministero, Regioni e Province, alcune Regioni si sono portate avanti con atti interpretativi a sostegno delle amministrazioni locali e delle imprese che sono in affanno, soprattutto in caso di prima richiesta entro il 7 settembre. E' il caso, ad esempio, della Lombardia (circolare n. 6 del 04.08.2014) e delle Marche (Dgr n. 983 del 07.08.2014). Gli aspetti trattati sono molti; si ricordano: riesame, relazione di riferimento, transcodifica dei rifiuti e chiarimenti sulla nozione di frantumatori di rifiuti metallici e sulla definizione di "scorie e ceneri".
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In sintesi
01 | L'APPUNTAMENTO PER L'OBBLIGO
Scade domenica 7 settembre il termine entro il quale i gestori di installazioni per la prima volta soggette ad Autorizzazione integrata ambientale devono presentare a Regione, o alla Provincia, la richiesta. Il 7 cadrà di domenica, quindi si può considerare che l'obbligo slitta lunedì 8 settembre
02 | LE SANZIONI E LE PENE PREVISTE
L'esercizio di attività condotto in assenza di Aia è punito con arresto fino a un anno o con ammenda da 2.500 a 26mila euro. Le pene raddoppiano in caso di scarico idrico di sostanze pericolose o di gestione di rifiuti pericolosi
03 | CERTIFICAZIONE E NUOVI DESTINATARI
I gestori interessati a questa prima importante scadenza sono quelli delle installazioni esistenti dove si svolgono attività che il Dlgs 46/2014, per la prima volta, ha inserito nell'allegato VIII alla parte seconda, Titolo III-bis, del "Codice ambientale". Tra i nuovi chiamati figurano attività del comparto industriale e di gestione rifiuti
04 | INSTALLAZIONI GIA' SOGGETTE ALL'AIA
Per le installazioni già soggette ad Aia, invece, il concetto di procedura amministrativa di rinnovo è stato superato da quello dell'aggiornamento delle autorizzazioni. Fino alla nuova pronuncia, il gestore continua l'attività in base all'Aia in suo possesso
 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.09.2014).

APPALTIRegolarità, conta la data dell'autocertificazione. Nota sulle verifiche per chi partecipa a gare di appalto.
La regolarità contributiva autocertificata da un'impresa partecipante a una gara di appalto va verificata nel momento in cui è stata resa l'autocertificazione.

Lo precisa l'Inps nel messaggio 02.09.2014 n. 6756, spiegando che il ministero del lavoro non intende recepire la sentenza del Tar Veneto n. 486/2014, la quale ha invece ha ritenuto che anche a tale verifica possa applicarsi il termine di 15 giorni assegnato per la regolarizzazione in ogni altro tipo di Durc.
No alla sentenza del Tar Veneto. La questione riguarda, dunque, il momento in cui l'amministrazione è tenuta a verificare se la regolarità autocertificata da un'impresa, nell'ambito della partecipazione a bandi pubblici, sia realmente sussistente o meno. Il Tar Veneto, in particolare, ha ritenuto che la disciplina del preavviso di accertamento negativo sia generalizzato per tutti gli enti preposti al rilascio del Durc, con l'attivazione del procedimento di regolarizzazione (tramite appunto il preavviso) prima dell'emissione di qualsiasi tipologia di Durc. Con la conseguenza che la condizione di regolarità, anche per la verifica di autodichiarazione, deve sussistere alla scadenza del termine di 15 giorni assegnato per la regolarizzazione.
Il ministero del lavoro resta invece di diverso avviso. Spiega infatti l'Inps che, con nota prot. n. 14591/2014, ha precisato che «in assenza di un più uniforme orientamento giurisprudenziale, gli Istituti possono continuare ad operare come di consueto effettuando una verifica della regolarità contributiva alla data di presentazione della autodichiarazione». Ed ha aggiunto che «nuove modalità procedurali potranno essere adottate a seguito dell'emanazione del decreto previsto dall'art. 4 del decreto legge 20.03.2014 convertito dalla legge 16.05.2014, n. 78, in fase di definizione».
«Debiti» da precisare sempre. Relativamente al Durc emesso con «scoperture contributive» (ai sensi dell'art. 13-bis, comma 5, del dl n. 52/2012), inoltre, l'Inps precisa che il certificato di regolarità contributiva (Durc) deve riportare «sempre la quantificazione del debito e la data in cui lo stesso è stato accertato per consentire all'amministrazione pubblica di ottemperare all'obbligo di attivazione dell'intervento sostitutivo».
La questione riguarda la possibilità per gli istituti previdenziali e le casse edili di emettere il Durc anche in presenza di certificazione di uno o più crediti resa dalle amministrazioni statali attestanti la sussistenza e l'importo di crediti certi, liquidi ed esigibili almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati. In questi casi il Durc deve sempre riportare nel campo note: l'indicazione che il rilascio avviene in attuazione della norma del dl n. 52/2012; i dati identificativi della «Richiesta Durc» prodotta tramite la Piattaforma per la Certificazione dei Crediti; l'importo disponibile evidenziato nel certificato dopo l'attivazione della funzione «Verifica la capienza per l'emissione del Durc»; l'importo del debito contributivo accertato nei confronti del contribuente.
La precisazione della scopertura debitoria facilita alla pubblicazione amministrazione l'attivazione dell'intervento sostitutivo (atto obbligatorio), fissando la liquidazione all'impresa di un importo al netto della scopertura medesima (articolo ItaliaOggi del 03.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Salta il regolamento edilizio unico. Esce dal decreto sblocca-Italia anche la limitazione all'autotutela della Pa su Scia e Dia.
Il pacchetto semplificazioni per l'edilizia esce ridimensionato di alcuni pezzi pregiati nella riscrittura e messa a punto del testo definitivo del decreto legge sblocca-Italia. Sono uscite dal provvedimento, in particolare, due delle norme di sburocratizzazione più importanti e innovative: il regolamento edilizio unico standard per tutti gli 8mila comuni che avrebbe dovuto prevedere norme e definizioni tecniche omogenee sul territorio nazionale dando un punto di riferimento unico agli enti locali e la limitazione a un termine temporale di sei mesi o un anno del potere di autotutela della pubblica amministrazione nel caso di progetti presentati con Dia (Denuncia di inizio attività) o Scia (Segnalazione certificata di inizio attività).
Il testo rimpalla in queste ore fra il Dagl (Dipartimento affari giuridici e legislativi) di Palazzo Chigi, la Ragioneria generale a Via XX settembre e gli uffici legislativi dei ministeri interessati, a partire da quello delle Infrastrutture. La previsione è che il testo abbia bisogno almeno di un paio di giorni di lavoro ancora prima di salire al Quirinale.
Colpisce il via-vai di norme che ancora riguarda parecchi punti del testo. Ne fanno le spese così anche norme della prima ora, largamente condivise. La norma sul regolamento edilizio unico avrebbe superato di fatto lo spezzatino comunale attuale e avrebbe anche accorpato le norme tecniche edilizie con quelle igienico-sanitarie. La proposta arrivava originariamente dal Consiglio nazionale degli architetti ed era stata fatta propria subito dalle prime bozze di Palazzo Chigi. L'obiezione riguarderebbe i poteri delle Regioni, ma chi ha seguito i lavori da vicino garantisce che una soluzione giuridicamente soddisfacente era stata trovata.
La norma sulla limitazione temporale del potere di autotutela della Pa avrebbe dato maggiore certezza soprattutto ai progetti dei lavori in casa, eliminando la spada di Damocle con cui la pubblica amministrazione può sempre intervenire in autotutela annullando il progetto di un privato cittadino, anche ben oltre i sessanta giorni che devono intercorrere per Scia e Dia dal momento della presentazione della dichiarazione all'inizio dei lavori.
Anche queste norme vanno ad accrescere le fila delle disposizioni via via eliminate dalle bozze del decreto legge sblocca-Italia: dalle norme sulle società partecipate dagli enti locali alla riconferma nel 2015 dell'ecobonus 65% per risparmio energetico e prevenzione antisismica che slitta alla legge di stabilità.
Resta, invece, nel decreto legge la norma-simbolo della semplificazione proposta dal ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi: prevede che basti la sola comunicazione al comune - senza più bisogno di Dia, Scia o permesso per costruire - per tutte le opere di manutenzione straordinaria, comprese quelle sulle parti strutturali dell'edificio che oggi sono escluse. La semplificazione è allargata anche ai lavori che modificano il carico urbanistico e al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari, purché non si modifichi la destinazione d'uso. Resta, sempre proposto da Lupi, anche il bonus fiscale per chi acquista da un costruttore un'abitazione nuova o ristrutturata, a condizione che venga destinata per otto anni all'affitto a canone concordato.
Nel decreto legge è prevista una deduzione Irpef del 20% sul valore dell'immobile acquistato, ma la spesa agevolabile è stata ridotta a 300mila euro rispetto alle prime bozze. In compenso, alla somma può concorrere anche l'acquisto di più di una abitazione. Non è ancora stata trovata la copertura ma anche il premier Matteo Renzi ha fatto pressing sul ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, perché effettivamente venga trovata.
Resta nel testo anche il permesso di costruire convenzionato rilasciato con modalità semplificata proposto da Lupi. Sono soggetti alla stipula della convenzione la cessione di aree anche al fine di utilizzo di diritti edificatori, la realizzazione di opere di urbanizzazione, le caratteristiche morfologiche degli interventi, la realizzazione di interventi di edilizia residenziale
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, salta il débat public. Niente consultazione popolare nel Ddl delega approvato dal Governo. Lavori pubblici. Tra i criteri resta quello della riforma del sistema di qualificazione delle imprese e delle Soa.
Semplificazione e sburocratizzazione. Accesso delle Pmi al mercato. Maggiore coinvolgimento dei privati nel finanziamento delle opere. Istituzionalizzazione delle lobby. Revisione del sistema di qualificazione delle imprese per la partecipazione alle gare.
Sono questi i cardini del Ddl sul recepimento delle direttive europee in materia di appalti pubblici, concessioni e settori esclusi che il Governo ha approvato venerdì scorso. Scorrendo i criteri della delega si individua chiaramente la direzione nella quale andrà il nuovo Codice. E la novità più interessante è che il testo uscito dal Cdm ha fatto una vittima illustre: il débat public, la partecipazione attiva dei territori nei processi decisionali legati alle opere strategiche, è stato cassato.
Nelle bozze delle scorse settimane, infatti, compariva la «promozione di un adeguato livello di partecipazione delle popolazioni dei territori interessati nel processo decisionale finalizzato alla realizzazione delle opere strategiche e, comunque, delle opere di notevole impatto e rilevanza, anche antecedentemente rispetto alla partecipazione istituzionale da parte dell'ente pubblico». In altre parole, si tratta di un sistema di regole, mutuato dall'esperienza avviata dalla Francia a metà degli anni Novanta, per coinvolgere le comunità locali nella realizzazione delle infrastrutture sin dalle prime battute. Ed evitare così che si replichino casi come quello dell'Alta velocità Torino-Lione. Il riferimento al débat public, però, nella versione finale del testo è stato cancellato, a sorpresa. Il Governo, insomma, avrebbe cambiato orientamento sull'idea di introdurlo.
Per il resto, il testo ribadisce la necessità di ridurre le stazioni appaltanti e razionalizzare la loro attività. E apre alla «revisione del sistema di qualificazione degli operatori economici in base a criteri di omogeneità e trasparenza». L'epoca delle società di attestazione private (Soa) pare destinata a chiudersi, dopo gli scandali degli ultimi mesi. Mentre si dovrebbe aprire un periodo nel quale i privati saranno più coinvolti nel finanziamento delle opere: la delega parla di «razionalizzazione ed estensione delle forme di partenariato pubblico privato».
Altro tema evocato in diversi punti è quello della semplificazione. Si parla di «riduzione degli oneri documentali a carico dei soggetti partecipanti e semplificazione delle procedure di verifica da parte delle stazioni appaltanti». Oltre alla «razionalizzazione dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale». Tutto questo si lega, ovviamente, alla maggiore «trasparenza e pubblicità delle procedure di gara» e al «miglioramento delle condizioni di accesso al mercato per le piccole e medie imprese e per le imprese di nuova costituzione». Tra l'altro, il maggiore coinvolgimento delle Pmi è uno degli obiettivi strategici delle direttive europee.
Infine, per la prima volta in Italia il disegno di legge avvia un processo che dovrebbe portare a regolare la presenza delle lobby nei processi decisionali di realizzazione delle opere. Si parla infatti della «definizione di un quadro regolatorio volto a rendere trasparente la partecipazione dei portatori qualificati di interessi». Il ruolo dei gruppi di pressione potrebbe essere finalmente formalizzato
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti pubblici: istruzioni confermate. Il chiarimento dell'Istituto. Dopo la pronuncia del Tar Veneto.
I Durc per la verifica di autodichiarazione (articolo 38, comma 1, lettera i, del Codice dei contratti pubblici) continueranno ad essere definiti sulla base della situazione contributiva riferita alla data in cui l'interessato ha reso la dichiarazione con cui attesta l'assenza di violazioni gravi in materia di contributi, accertate in via definitiva. Resta ferma la valutazione di uno scostamento non grave (regolamentato dall'articolo 8, comma 3 del Dm 24.10.2007).
Lo afferma l'Inps nel messaggio 02.09.2014 n. 6756, in cui l'istituto di previdenza precisa, altresì, che se in corrispondenza della data di rilascio dell'autodichiarazione, viene accertata la condizione di irregolarità, l'invito a regolarizzare nei 15 giorni successivi (valido per tutti gli altri tipi di Durc) non può valere per la verifica della stessa autodichiarazione.
La puntualizzazione dell'Inps arriva dopo l'emanazione della sentenza 486/2014 con cui il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto si è espresso a favore della generalizzazione dell'obbligo –per gli enti che rilasciano il Durc– di attivare il procedimento di regolarizzazione mediante l'emanazione del preavviso di accertamento negativo.
L'Inps, tuttavia, si discosta dal contenuto della sentenza, supportato in tal senso anche da un parere del ministero del Lavoro che, sul punto, ha chiarito che, in assenza di un più uniforme orientamento giurisprudenziale, gli istituti possono continuare (come hanno fatto finora) ad effettuare una verifica della regolarità contributiva alla data di presentazione della autodichiarazione.
L'unica eccezione riguarda il rilascio del Durc alle aziende che hanno dei debiti nei confronti degli istituti previdenziali e assicurativi nonché verso le Casse edili ma che, contemporaneamente, vantano crediti nei riguardi delle pubbliche amministrazioni.
In questo caso la richiesta del Durc eseguita avvalendosi della «Piattaforma per la certificazione dei crediti» deve essere sempre antecedente o almeno contestuale alla data dell'autodichiarazione di cui sopra
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni senza più lacci. Più appartamenti con meno costi e meno autorizzazioni. DECRETO SBLOCCA ITALIA/Sforbiciata agli oneri urbanistici e alla burocrazia.
Liberalizzazione in campo edilizio. Anche i lavori che comportano la variazione del carico urbanistico di un immobile potranno essere considerati normali opere di manutenzione straordinaria, purché l'originaria destinazione d'uso venga mantenuta. Ciò significa che non ci vorrà alcun permesso a costruire da parte dell'ufficio tecnico del comune o dello sportello unico dell'edilizia. E, in seconda battuta, che non si pagherà il contributo di costruzione, né alcun altro relativo onere di urbanizzazione salvo che la regione non preveda specifica norma in proposito. Inoltre, non sarà più necessario acquisire il permesso a costruire per gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità immobiliari.

Il decreto sblocca Italia cambia la definizione di opera di manutenzione straordinaria. Oltre ai lavori oggi previsti dal Testo unico dell'edilizia (art. 3, comma 1, lettera b, del dpr 380/2001), che non danno alcuna possibilità di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari, si legge nella bozza di dl, saranno considerati attività di manutenzione straordinaria anche «gli interventi consistenti in frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari, con esecuzione delle opere anche se comportano la variazione del carico urbanistico».
Non solo. Sarà considerata attività di edilizia libera anche l'opera di manutenzione straordinaria che non comporti né aumento di unità immobiliari, né modifica del carico urbanistico derivante da un cambio di destinazione d'uso. Dunque per questo genere di lavori in costruzione non occorrerà più alcun titolo abilitativo.
Arriva, inoltre, un nuovo strumento nel panorama edilizio, che il decreto sblocca Italia chiama «Interventi di conservazione». Si tratta di una sorta di nuovo regolamento urbanistico che consente ai comuni di individuare tutti quegli immobili privati non più in regola con il piano regolatore e favorire la loro ristrutturazione, bypassando gli oneri burocratici ed economici dell'esproprio. Come? Una volta individuati gli immobili, per ipotesi quelli di un centro storico, il comune potrà proporre ai legittimi proprietari di investire nella loro riqualificazione. In cambio ne otterranno benefici, attraverso forme di compensazione. Quali, per esempio, l'esenzione dai tributi locali. Ma, nelle more dell'attuazione del nuovo piano conservativo, il comune potrà vietare ai proprietari degli immobili interventi di tipo redditizio, quali la demolizione e la successiva ricostruzione degli stessi edifici. Il proprietario potrà al massimo eseguire interventi di tipo conservativo e la demolizione sarà consentita solo quando ricorrano ragioni di tipo statico o igienico-sanitario.
Non è finita. Il decreto sblocca Italia interviene anche in fatto di costruzioni in deroga agli strumenti urbanistici esistenti. Includendo in questo alveo anche le ristrutturazioni edilizie e urbanistiche in aree industriali dismesse, purché gli interventi siano considerati di interesse pubblico. Per questo genere di interventi il dl ammette esplicitamente la richiesta di permesso a costruire in deroga alle destinazioni d'uso.
Altra novità riguarda i termini di validità del permesso a costruire. Per esso, il Testo unico dell'edilizia prevede la possibilità di una proroga della scadenza entro cui devono partire i lavori. In particolare, il termine di inizio lavori può slittare se l'opera è particolarmente complessa o quando si tratti di un'opera pubblica il cui finanziamento è spalmato a cavallo di più esercizi. Bene, il decreto sblocca Italia introduce anche una sorta di proroga «automatica» dei termini di inizio e ultimazione lavori, che la p.a. dovrà comunque accordare «qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per fatto dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria». Cioè, per esempio, quando i lavori vengano bloccati dal mancato arrivo del finanziamento o del permesso pubblico, o per pronuncia o sospensiva di un Tar.
Corsia di favore anche per il contributo per il rilascio a costruire, previsto dal testo unico per l'edilizia. Nei casi di interventi complessi di trasformazione urbana, il decreto sblocca Italia prevede uno sconto. Esso sarà dovuto solo in relazione al costo di costruzione. Le opere di urbanizzazione, invece, saranno a totale carico dell'operatore privato, che ne resterà proprietario.
Ogni comune sarà chiamato ad aggiornare i parametri che concorrono alla definizione degli oneri di urbanizzazione. Accanto agli indicatori già previsti (tra cui le caratteristiche geografiche del comune e la destinazione d'uso della zona) il comune dovrà affiancarne un altro: la realizzazione di un sistema di incentivi differenziati, che favorisca le costruzioni nelle aree a maggiore densità di costruito e le ristrutturazioni, disincentivando le nuove costruzioni.
Altro sconto sui costi di costruzione viene quindi previsto per gli interventi di ristrutturazione edilizia, per come attualmente disciplinati dal Testo unico. Tra questi, va ricordato, sono compresi i lavori di ripristino o sostituzione di elementi costitutivi dell'edificio. Ma anche l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi e impianti. Bene, in base al dl per questo genere di lavori, i comuni possono deliberare che i costi di costruzione relativi siano più bassi rispetto a quelli applicati per le nuove costruzioni.
E uno sconto al contributo di costruzione arriva anche per gli interventi di ristrutturazione, recupero e riuso degli immobili dismessi o in via di dismissione. Il decreto sblocca Italia prevede che quest'onere sia tagliato di almeno il 20% rispetto a quanto previsto per le nuove costruzioni; ma i comuni (entro tre mesi dall'entrata in vigore del decreto) dovranno definire i criteri e le modalità per rendere effettivo lo sconto.
Il decreto sblocca Italia interviene, quindi, sulla tempistica relativa al procedimento di rilascio dei permessi a costruire, consentendo il raddoppio dei tempi previsti per i progetti più complessi.
Sono, inoltre, facilitate (come anticipato da ItaliaOggi di sabato scorso) le varianti ai permessi di costruire. Ma solo se conformi alle prescrizioni urbanistiche e capaci di non configurare variazioni essenziali; per queste basteranno una denuncia di inizio attività e la comunicazione della variante a fine lavori.
Infine, il decreto sblocca Italia inserisce nell'ordinamento edilizio due nuovi istituti: il mutamento d'uso urbanisticamente rilevante e il permesso di costruire convenzionato:
1) in particolare, sarà considerata «urbanisticamente rilevante» in termini di destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o di un'unità immobiliare che comporti un cambio di categoria funzionale tra le quattro elencate:
- residenziale e turistico-ricettiva;
- produttiva e direzionale;
- commerciale;
- rurale.
In merito, il dl aggiunge però che, salvo diverse disposizioni regionali, «il mutamento di destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito». E avverte che, per destinazione d'uso, bisogna considerare «quella prevalente in termini di superficie utile».
2) Il comune potrà rilasciare un permesso a costruire convenzionato, in modalità semplificata, quando le esigenze di urbanizzazione vengano soddisfatte nell'ambito di una convenzione che preveda l'assunzione da parte del privato (o del soggetto attuatore della convenzione) di specifici obblighi di interesse pubblico, al fine di conseguire il rilascio del titolo edilizio (articolo ItaliaOggi del 02.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATABonus fiscali per la casa. Sgravi per antisismica e fonti rinnovabili. DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Riproposti pure gli ecoincentivi auto.
Un pacchetto di bonus fiscali sulla casa. Ai fini Irpef arrivano detrazioni ad hoc del 50% per interventi antisismici e per l'installazione di impianti basati sull'impiego di fonti rinnovabili che migliorino la prestazione energetica dell'edificio. Sconti tributari pure per chi acquista o ristruttura un immobile per poi concederlo in locazione a canone concordato. Ed è sempre quella fiscale la leva scelta per stimolare la riqualificazione dei fabbricati che consumano più energia: le società che li comprano da privati per trasformarli in edifici di classe energetica A o B e poi rivenderli potranno risparmiare sulle imposte d'atto.

È quanto prevede la bozza del decreto Sblocca Italia varata venerdì scorso dal consiglio dei ministri (ancora suscettibile di modifiche).
Detrazioni Irpef. Nessuna proroga per il momento al bonus ristrutturazioni potenziato, che dall'attuale 50% dovrebbe scendere al 40% nel 2015. Dalla disciplina ordinaria, definita dall'articolo 16-bis del Tuir, vengono sfilate tre tipologie di lavori: realizzazione di autorimesse e posti auto pertinenziali, interventi antisismici e installazione di impianti a fonti rinnovabili. Mentre la prima viene eliminata, le altre sono destinatarie di due nuove agevolazioni dedicate, in vigore dal prossimo anno.
Miglioramento sismico. A essere beneficiati saranno gli interventi realizzati sulle parti strutturali degli edifici. Lo sgravio Irpef varierà tra il 50 e il 65% dei costi sostenuti, in relazione al livello di rischio sismico del fabbricato che sarà fissato con decreto dal ministero delle infrastrutture. Il tetto di spesa su cui calcolare l'aiuto potrà arrivare a 60 mila euro per unità immobiliare.
Miglioramento energetico. In caso di installazione di impianti «green» (per esempio pannelli solari o mini-eolico) la detrazione del 50% potrà essere calcolata su un massimo di 96 mila euro. Tale beneficio, al pari di quello sul rischio sismico, seguirà le stesse regole già vigenti per il bonus ristrutturazione, a cominciare dalla fruizione in 10 quote annuali da far valere in dichiarazione dei redditi. Resta da definire la cumulabilità delle due nuove forme agevolative con quelle già previste dall'articolo 16-bis del Tuir (possibile l'utilizzo di un tetto di spesa unico di 96 mila euro).
Compra e affitta. Arriva un aiuto fiscale per i cittadini che acquistano immobili residenziali per poi concederli in locazione a prezzo concordato per almeno otto anni. L'agevolazione resterà in vigore fino al 31 dicembre 2017. Potranno accedervi, oltre alle persone fisiche non esercenti attività commerciale, le coop edilizie e i soggetti del terzo settore. Il beneficio consisterà in una deduzione dall'Irpef del 20% di quanto pagato per comprare o realizzare l'immobile.
Quest'ultimo dovrà essere accatastato come abitazione non di lusso (escluse quindi le categorie A/1, A/8 e A/9) e appartenere alla classe energetica A o B. Il tetto di spesa non potrà superare i 300 mila euro: il recupero fiscale massimo sarà quindi pari a 60 mila euro in otto anni, ossia 7.500 euro annui. Locatore e locatario non potranno essere legati da rapporti di parentela di primo grado. Previsto un decreto interministeriale Infrastrutture-Economia per l'attuazione.
Rottamazione immobili «energivori». Agevolazioni fiscali in vista per quanto riguarda le cessioni di unità abitative a bassa prestazione energetica. Nelle vendite effettuate da privati a favore di società immobiliari si applicheranno le imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa. Ciò avverrà a una condizione: l'impresa deve dichiarare nel rogito che intende ritrasferire l'immobile entro cinque anni dalla data di acquisto e solo dopo aver effettuato interventi di recupero tali da fare ottenere al cespite una classe energetica A o B. Se la ristrutturazione riguarda un singolo appartamento, il requisito si intenderà soddisfatto in caso di riduzione del fabbisogno energetico pari almeno al 50%.
Il mancato rispetto di tale vincolo comporterà il recupero delle imposte proporzionali da parte dell'Agenzia delle entrate, maggiorate degli interessi e delle sanzioni (pari al 30%). Il meccanismo opera anche in caso di permuta nei confronti di imprese di costruzione per l'acquisto di fabbricati nuovi o ristrutturati: in tale ipotesi al privato acquirente spetta un ulteriore sgravio Irpef.
Ecoincentivi. Rimodulati gli ecoincentivi sulle auto per il biennio 2014-2015. L'aiuto dello stato a chi rottama un veicolo inquinante e lo sostituisce con un altro nuovo a basse emissioni potrà essere inferiore a quanto originariamente previsto dal dl n. 83/2012. L'impianto normativo delle agevolazioni resta invece confermato (articolo ItaliaOggi del 02.09.2014).

APPALTI: Niente gare negli appalti urgenti. Scuole, post-sisma e alluvioni: affidamento diretto. DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Le misure del provvedimento in materia di contratti.
Possibile l'affidamento dei lavori in via diretta, senza gara, fino a 200.000 euro e con gara informale fino a 5 milioni per interventi di messa in sicurezza degli edifici scolastici, di mitigazione dei rischi idrogeologici e di adeguamento antisismico dichiarati urgenti dalla stazione appaltante; previsti affidamenti in house per progettazione ed esecuzione di interventi di mitigazione del rischio idrogeologico, senza apertura alla concorrenza; modifiche per le concessionarie autostradali nazionali che intendono unificare tratte contigue, con possibile allungamento della durata della concessione.

Sono queste alcune delle novità contenute nella bozza del decreto legge «Sblocca Italia» approvato il 29 agosto, successivamente rimaneggiata e ridotta a 51 articoli (dai 100 iniziali) e ancora alla presidenza del Consiglio per le ultime modifiche.
Dalla complessiva e complessa operazione di restyling del testo sono uscite penalizzate diverse disposizioni di interesse per il settore degli appalti quali per esempio il rinvio a gennaio 2015 del sistema di verifica dei requisiti dei concorrenti alle gare di appalto pubblico (AVCpass), che quindi rimane operativo ed efficace (ormai dallo scorso primo luglio). Stessa sorte è toccata alle norme di semplificazione dei piccoli lavori (per la fascia di importo 200.000/1.000.000 di euro) e per le disposizioni che introducevano l'elenco dei progettisti gestito dalla presidenza del Consiglio per le progettazioni delle piccole opere. Di interesse è la norma che semplifica e snellisce gli interventi per gli edifici scolastici, il rischio idrogeologico e l'adeguamento antisimico: in queste ipotesi si considererà di «estrema urgenza» ogni «situazione conseguente ad apposita ricognizione da parte dell'Ente interessato che certifica come indifferibile l'intervento» e si potrà accedere a una serie di semplificazioni.
Il tutto sarà possibile per la messa in sicurezza di edifici scolastici (ma anche per nuovi edifici sostitutivi di quelli non più idonei sotto il profilo ambientale, di sicurezza), per interventi di mitigazione dei rischi idraulici e geomorfologici e per l'adeguamento alla normativa antisismica. La semplificazione e l'accelerazione procedurale (sempre nel rispetto dei principi Ue di tutela della concorrenza) si articola in numerose modifiche al codice dei contratti pubblici.
In primo luogo non sarà obbligatorio sospendere la stipula del contratto in caso di ricorso al Tar; se poi i lavori sono di importo inferiore alla soglia comunitaria, le stazioni appaltanti potranno prescindere dalla richiesta della garanzia a corredo dell'offerta (la cauzione provvisoria del 2%).
Semplificate anche le norme sulla pubblicità dei bandi di gara: per questi lavori di estrema urgenza gli avvisi e i bandi non dovranno essere pubblicati anche sui quotidiani, ma basterà la pubblicazione sul sito informatico della stazione appaltante.
Previsto anche il dimezzamento dei termini ordinari per la ricezione delle domande di partecipazione e delle offerte e invito a presentare offerte rivolto ad almeno tre operatori economici. Per i lavori di estrema urgenza di messa in sicurezza degli edifici scolastici di ogni ordine e grado è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento fino a 200.000 euro. Da 200.000 a 5 milioni di euro le stazioni appaltanti potranno utilizzare la gara informale con invito rivolto ad almeno cinque operatori economici.
Forte spinta sugli affidamenti a società in house per le attività di progettazione ed esecuzione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico: se per tali interventi sono stati siglati accordi di programma con le regioni, i presidenti delle regioni potranno avvalersi, sulla base di apposite convenzioni per la disciplina dei relativi rapporti, di società in house delle amministrazioni centrali dello stato dotate di specifica competenza tecnica.
Sarà poi tutto da vedere l'impatto economico di questa norma che consente affidamenti al di fuori di logiche di concorrenza e di mercato per lavori e progettazioni, senza alcun limite di importo. Per le concessioni autostradali, con la finalità di assicurare gli investimenti sulla rete e di arrivare a tariffe e condizioni di accesso più favorevoli per gli utenti, si consentirà ai concessionari di tratte autostradali nazionali di proporre modifiche del rapporto concessorio che portino alla gestione unitaria di tratte «interconnesse, contigue, ovvero tra loro complementari».
I lavori, le forniture e i servizi di importo superiore alla soglia comunitaria dovranno comunque essere affidati nel rispetto della procedure ad evidenza pubblica previste dal codice dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 02.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO: L'amministratore paga i danni. La Cassazione ha definito gli obblighi di custodia e di attenzione. Responsabilità civili e penali. Chi gestisce un condominio può essere chiamato a rispondere di persona.
Alla carica di amministratore di condominio sono legate tutta una serie di possibili conseguenze, sia in ambito di responsabilità civile (verso terzi o verso gli stessi condomini) che in ambito di responsabilità penale.
Tali possibili conseguenze sono via via cresciute nel tempo, di pari passo con il costante evolversi della figura dell'amministratore così come chiarito dalla Corte di cassazione con due successive decisioni: la prima (22840/2006) che nell'ammettere in via definitiva la possibilità di affidare l'amministrazione condominiale a persone giuridiche si è basata sulla constatazione che «da qualche tempo l'incarico viene conferito a professionisti esperti in materia di condominio e in grado di assolvere alle numerose e gravi responsabilità ascritte all'amministratore dalle leggi speciali», e la seconda (25251/2008) che ha fissato i canoni della responsabilità personale dell'amministratore nel modo che segue: «A tale figura il codice civile e le leggi speciali imputano doveri ed obblighi finalizzati ad impedire che il modo di essere dei beni condominiali provochi danni a terzi. In relazione a tali beni l'amministratore, in quanto ha poteri e doveri di controllo e poteri di influire sul loro modo di essere, si trova nella posizione di custode (...). Questi allora deve curare che i beni comuni non arrechino danni agli stessi condomini o a terzi, come del resto riconosciuto dalla giurisprudenza allorché ha considerato l'amministratore del condominio responsabile dei danni cagionati dalla sua negligenza, dal cattivo uso dei suoi poteri e, in genere, di qualsiasi inadempimento dei suoi obblighi legali o regolamentari».
Da tale nuovo inquadramento corrisponde ora un quadro in cui la fonte di responsabilità dell'amministratore nei confronti dei condòmini è il contratto di mandato conferito al momento dell'accettazione dell'incarico: qualora anche senza colpa grave (essendo l'incarico non gratuito) l'amministratore, nel venir meno ai propri obblighi contrattuali, causi un danno ai condòmini, ne dovrà rispondere personalmente. Per esempio, quando non abbia eseguito una delibera assembleare (Cassazione, sentenza 7103/2013), se da tale omissione sia derivato un danno ai condòmini, oppure per aver eseguito una delibera che non andava eseguita in quanto contraria alla legge.
Per "salvarsi" da azioni personali di responsabilità che i condòmini gli possono rivolgere, in sostanza, l'amministratore deve esercitare il proprio mandato nel pieno rispetto delle norme di legge. Ponendo particolare attenzione nel rimuovere prontamente le situazioni pericolose, relative alle parti comuni dell'edificio, dalle quali potrebbe derivare un danno a terzi (o agli stessi condòmini).
Si pensi alla domanda proposta dai genitori di un minore direttamente nei confronti dell'amministratore per la presenza nel cortile condominiale «all'altezza di un metro dal piano di calpestio, di vetri con la superficie tagliente che costituivano una pericolosissima insidia» (Cassazione, sentenza 24804/2008). Così, un amministratore condominiale è stato ritenuto personalmente responsabile, nei confronti del terzo danneggiato (Cassazione, sentenza 25251/2008) dai danni derivati «dalla negligente omissione delle necessarie riparazioni al lastrico solare decise in delibera assembleare e non attuate dall'amministratore».
Da ultimo, il nostro Codice penale non prevede una figura di reato propria dell'amministratore di condominio: a lui tuttavia possono riferirsi una serie di fattispecie penali relative alla attività svolta. È il caso, per esempio del reato di ingiurie o di diffamazione, del quale è stato ritenuto colpevole l'amministratore che aveva inviato a tutti i condòmini una lettera ove veniva evidenziata la morosità di uno di loro.
Altro reato nel quale può imbattersi l'amministratore, in quanto custode del bene condominiale, è quello previsto dall'articolo 677 del Codice penale, che sanziona il proprietario di un edifico o di una costruzione «ovvero chi per lui è obbligato alla conservazione o alla vigilanza» che «ometta di provvedere ai lavori necessari per rimuovere il pericolo». Come è accaduto (Cassazione, sentenza 34147/2012) per una condanna per lesioni colpose gravi causate a un cliente della farmacia posta nello stabile condominiale dall'omesso livellamento della pavimentazione.
Da ultimo, si segnala la recente sentenza della Cassazione 31192/2014 (si veda il Sole 24 Ore del 26 agosto scorso), che ha ritenuto penalmente responsabile l'amministratore di condominio che a incarico finito, nonostante l'ordine in tal senso del Tribunale, non aveva consegnato al nuovo amministratore i conti e le carte condominiali
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2014).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO - VARIAssenze «tattiche», sì al licenziamento. Cassazione. Scarso rendimento.
Confermato il licenziamento di un lavoratore assenteista "tattico" anche se non ha superato i giorni massimi previsti dalla legge.
Ieri la Corte di Cassazione ha depositato la sentenza 04.09.2014 n. 18678 che affronta un argomento di costante attualità nel mondo del lavoro: quello della conciliazione tra esigenze produttive e organizzative dell'impresa con le assenze per malattia dei lavoratori, soprattutto quando queste ultime si caratterizzano per la brevissima durata (pochi giorni per ciascuna assenza) e siano «a macchia di leopardo».
Nel caso affrontato dalla Corte il lavoratore è stato licenziato poiché –come risultato dalle deposizioni dei colleghi di lavoro all'esito dell'istruttoria svolta nei precedenti gradi di giudizio– era solito comunicare le assenze per malattia «all'ultimo momento»; peraltro, di norma, gli eventi morbosi si manifestavano «quando doveva affrontare il turno di fine settimana o il turno notturno» con conseguente «difficoltà, proprio per i tempi particolarmente ristretti, di trovare un sostituto».
Una condotta che si commenta da sé e che, con tutta evidenza, ha causato gravissime disfunzioni per l'organizzazione produttiva dell'impresa datrice di lavoro.
Confermando la correttezza della sentenza resa in appello, i giudici di legittimità escludono, innanzitutto, la fondatezza della tesi del lavoratore, secondo cui il recesso doveva essere censurato poiché egli non aveva superato il periodo di comporto, previsto dall'articolo 2110 del Codice civile ovvero dalla contrattazione collettiva applicabile.
Evidenzia, infatti, la sentenza che «le assenze del lavoratore, dovute a malattia, vengono in rilievo sotto un diverso profilo», poiché «per le modalità con cui (...) si verificavano (...) le stesse davano luogo a una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile dalla società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l'organizzazione aziendale così da giustificare il provvedimento risolutorio».
Sì che la Corte si concentra sul concetto di «scarso rendimento», vale a dire sulla conseguenza della condotta del dipendente, il quale, violando le regole della diligenza nell'esecuzione della prestazione, non adempia esattamente l'obbligazione lavorativa.
Si tratta, forse, di un riferimento atecnico, poiché nel caso esaminato la prestazione del dipendente sarebbe divenuta scarsa proprio in conseguenza delle ripetute assenze, peraltro susseguitesi a brevi intervalli di tempo l'una dall'altra; potremmo parlare, però, di ampliamento del principio dello "scarso rendimento": sì che, sotto tale profilo, la sentenza risulta di particolare interesse
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.09.2014).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Licenziabile il malato tattico. Cassazione su malattia dopo i riposi.
Nuvole nere in vista per i professionisti del weekend «lungo». Scatta il licenziamento per l'assenteista «tattico», che guarda caso si ammala sempre prima o dopo i giorni di riposo: è legittimo il recesso del datore nonostante il mancato superamento del periodo di comporto. E ciò perché il provvedimento è adottato per giustificato motivo soggettivo di fronte alla complessiva inadeguatezza della prestazione assicurata dal dipendente, a causa della mancata presenza in servizio per un paio di giorni al mese, che crea malcontento fra i colleghi costretti alle sostituzioni.

È quanto emerge dalla sentenza 04.09.2014 n. 18678 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Non resta che pagare le spese di giudizio al licenziato per «eccessiva morbilità». Quei periodi di assenza a colpo di due o tre giorni, anche più volte nello stesso mese, penalizzano l'organizzazione aziendale: il vizietto del forfait «a macchia di leopardo», strategicamente agganciato alle feste comandate rende il dipendente non più proficuamente utilizzabile da parte del datore.
Senza dimenticare che l'assenteista è abituato a comunicare la malattia soltanto all'ultimo momento e spesso in vista di turni notturni o festivi, il che crea ancora più tensioni in azienda per la necessità di coprire i buchi: la sua condotta, dunque, integra i presupposti richiesti dal recesso ex articolo 3 della legge 604/1966, secondo cui «il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
Il licenziamento è deciso dall'azienda per ragioni tecniche: non viene in rilievo la malattia, ma la quantità di assenze che, pure incolpevoli, danno luogo a uno scarso rendimento del dipendente e finiscono col danneggiare la produzione aziendale per via degli scompensi organizzativi. Lo stratega delle assenze stavolta ha sbagliato tattica (articolo ItaliaOggi del 05.09.2014).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, all’esito un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.
A tal riguardo, il Consiglio di Stato ha pure affermato che nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale, in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende di per sé inconfigurabile l’apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n. 241/1990.
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In primo luogo ai fini della legittimità delle operazioni di accertamento dell’inottemperanza, non è previsto che la relativa verbalizzazione avvenga in loco ed in contraddittorio con gli interessati, nei cui confronti l’art. 31, n. 4, d.P.R. n. 380/2001 dispone solo la notificazione del provvedimento di accertamento.
In secondo luogo
, il ricorrente si è limitato a riferire, in sede di motivi aggiunti, che i manufatti indicati nell'ordinanza di demolizione sarebbero stati effettivamente rimossi e demoliti. Tuttavia, non è stata prodotta documentazione tecnica, fotografica o peritale idonea a supportare tale dichiarazione, sicché la pretesa confutazione degli accertamenti svolti dall’Amministrazione comunale assume valenza meramente assertiva, non avendo il ricorrente assolto l’onere di fornire elementi di prova di cui abbia la disponibilità, ai sensi dell’art. 64, n. 1, cod. proc. amm..

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L’impugnata ordinanza di demolizione trova giustificazione del tutto adeguata nell’indicazione puntuale degli interventi realizzati in assenza di titoli abilitativi e del vincolo gravante sul territorio, atteso che presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la contestata esecuzione dell’opera in difformità o assenza del permesso di costruire.
Con la conseguenza che tale ordinanza, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.
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L’onere della prova grava sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma di legge.
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Il decorso di un ampio lasso di tempo, di per sé, non implica alcun aggravamento dell’onere di motivazione. Invero, l’ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
Non è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, né quest’ultima può essere sanata dal mero decorso del tempo, per cui l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
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Va rammentato come costituisca ius receptum che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto, senza alcun contenuto discrezionale, avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, che opera automaticamente con riguardo non solo all’opera abusiva ed all’area di sedime, ma anche alle pertinenze.
Ne consegue che esso è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’abusività e dell’accertata inottemperanza, essendo in re ipsa l’interesse pubblico all’adozione della misura, senza l’obbligo di alcuna specifica argomentazione in ordine all’acquisizione dell’area necessaria. Come pure, detto provvedimento non richiede alcuna preliminare determinazione inerente l’esercizio di una scelta da parte del Comune sull’applicabilità della stessa più grave misura acquisitiva, rispetto alla semplice demolizione del manufatto abusivo.
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Sia l’ordinanza di ingiunzione alla demolizione, sia quella di acquisizione al patrimonio comunale, possono essere adottate senza la specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione, giacché a tale individuazione può procedersi, ai sensi dell’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, con successivo e separato atto.

1. Il ricorso è infondato, alla stregua della motivazione che segue.
2.1 In primo luogo, il ricorrente si duole dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento e della conseguente preclusione di ogni possibilità di partecipazione procedimentale, in relazione sia agli atti impugnati col ricorso principale, sia a quelli contestati con motivi aggiunti.
2.2. La doglianza è priva di pregio. Secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, all’esito un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo (cfr. C.d.S., sez. IV, 28.04.2014, n. 2194; id. 26.08.2008, n. 4659).
A tal riguardo, il Consiglio di Stato ha pure affermato che nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale, in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende di per sé inconfigurabile l’apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n. 241/1990 (cfr. C.d.S., sez. IV, 04.02.2013, n. 666).
2.3. Inoltre, nel caso di specie emerge dagli atti (nota Polizia Municipale n. 180/PM del 12.02.2008) che al sopralluogo effettuato dai vigili urbani in data 08.02.2008 ha presenziato il sig. Di Benedetto, assistito dal proprio legale di fiducia. Tale circostanza non è stata specificamente contestata dal ricorrente, derivandone gli effetti di cui all’art. 64, n. 2, cod. proc. amm.. Può quindi ritenersi sostanzialmente raggiunto lo scopo cui è preordinato l'articolo 7 della legge n. 241/1990, alla stregua dell'indirizzo giurisprudenziale che tanto ravvisa in presenza di un atto che a tale comunicazione possa considerarsi equipollente, consentendo all'interessato di conoscere l'imminente avvio del procedimento e di parteciparvi. Peraltro, né nel corso del predetto sopralluogo, né successivamente, il ricorrente ha inteso rendere dichiarazioni, presentare memorie o fornire contributi partecipativi di sorta, nonostante l’ordinanza di demolizione sia stata emessa a distanza di oltre un anno dal sopralluogo stesso.
2.4. Speculari conclusioni vanno raggiunte anche con riguardo alla lamentata impossibilità di presenziare ai sopralluoghi nel corso dei quali è stata accertata l’inadempimento all'ordine di demolizione, non essendogli previamente stata notificata la data di svolgimento dei medesimi. Infatti, in primo luogo ai fini della legittimità delle operazioni di accertamento dell’inottemperanza, non è previsto che la relativa verbalizzazione avvenga in loco ed in contraddittorio con gli interessati, nei cui confronti l’art. 31, n. 4, d.P.R. n. 380/2001 dispone solo la notificazione del provvedimento di accertamento (cfr. TAR Campania, sez. II, 08.06.2011, n. 2992). In secondo luogo, il ricorrente si è limitato a riferire, in sede di motivi aggiunti, che i manufatti indicati nell'ordinanza di demolizione sarebbero stati effettivamente rimossi e demoliti. Tuttavia, non è stata prodotta documentazione tecnica, fotografica o peritale idonea a supportare tale dichiarazione, sicché la pretesa confutazione degli accertamenti svolti dall’Amministrazione comunale assume valenza meramente assertiva, non avendo il ricorrente assolto l’onere di fornire elementi di prova di cui abbia la disponibilità, ai sensi dell’art. 64, n. 1, cod. proc. amm..
3.1. Il ricorrente ha poi dedotto violazione di legge per difetto di motivazione e di istruttoria, sia con riguardo all’ordinanza di demolizione, sia in relazione al successivo provvedimento di accertamento di inottemperanza.
3.2. In particolare, si è sostenuto che l’ordinanza di demolizione sarebbe stata emanata senza tener conto degli essenziali aspetti costituiti “dell’accertamento della preesistenza delle opere sul fondo in questione”, nonché dalla valutazione della tipologia degli interventi realizzati, delle loro dimensioni e delle modalità adottate. Da ciò sarebbe derivato il travisamento della situazione di fatto e l’erronea qualificazione della fattispecie sul piano giuridico, ritenendosi applicabile l’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, anziché, in ragione della preesistenza e della conseguente mera ristrutturazione dei manufatti, l’art. 33, il quale consente, in taluni casi, l’applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione. Inoltre, non sarebbe stato dato conto alcuno delle ragioni poste a fondamento della decisione di procedere all’irrogazione della sanzione ripristinatoria che “costituisce indubitabilmente la più decisa reazione che l’ordinamento predispone per le violazioni del genere di cui si discute”. Ancora, il decorso di un considerevole lasso di tempo dalla realizzazione degli interventi e la prolungata inerzia dell’Amministrazione avrebbero consolidato la posizione soggettiva del ricorrente, ingenerando in capo allo stesso una forma di affidamento, legittimo e meritevole di tutela, da contemperarsi con l'interesse pubblico protetto, la cui persistente esigenza di tutela andrebbe compiutamente dimostrata tramite un’idonea motivazione.
3.3. Detti argomenti sono destituiti di fondamento.
Dagli atti di causa, si rileva che l’Amministrazione resistente ha puntualmente verificato l’intervenuta modificazione dello stato dei luoghi rispetto a quello originario, in assenza dei prescritti titoli abilitativi, così inverandosi nei rilievi mossi a carico del sig. Di Benedetto i presupposti di fatto e di diritto per l’intervento volto a ripristinare una situazione dei luoghi sostanzialmente alterata. In tal senso, va condiviso quanto sostenuto sul punto dal Comune resistente nei propri scritti difensivi, nel senso che l’ordinanza impugnata da un lato qualifica espressamente come nuove edificazioni i manufatti abusi contestati, e dall’altro richiama ob relationem i contenuti del rapporto della Polizia Municipale di Pisticci prot. n. 180/PM del 12.02.2008, ove risultano analiticamente descritte le opere eseguite dal ricorrente in assenza di titolo abilitativo, raffigurate anche nella documentazione fotografica ad esso allegata, e si dà atto della presenza nel fondo interessato dalla verifica, oltre ai manufatti abusivi di cui innanzi, tutti adibiti a ricovero di animali, di una casetta di circa 15 mq., di epoca remota e “fatiscente per vetustà", non oggetto di ordine di demolizione. Va soggiunto che il suddetto rapporto precisa, altresì, che il precedente proprietario dell'immobile e dante causa del ricorrente, sig. Leonardo D’Alessandro, sentito proprio in relazione alla consistenza edilizia del fondo di cui è questione, ha affermato che: "La casetta era esistente, vi era una piccola recinzione vicino alla casetta esistente, dove erano ricoverati gli animali da cortile. Inoltre originariamente vi erano 17 alberi di ulivo nel luogo dove è sorta la vasca in calcestruzzo. Inoltre dichiaro che non vi erano altre opere o baracche oltre alla casetta. Il terreno è stato venduto da oltre 10 anni”.
Dunque, l’impugnata ordinanza di demolizione trova giustificazione del tutto adeguata nell’indicazione puntuale degli interventi realizzati in assenza di titoli abilitativi e del vincolo gravante sul territorio, atteso che presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la contestata esecuzione dell’opera in difformità o assenza del permesso di costruire. Con la conseguenza che tale ordinanza, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.
Vanno disattese le deduzioni di parte secondo cui i manufatti risalirebbero ad epoca anteriore a quella dell’accertamento, e sarebbero solo stati interessati da interventi di ristrutturazione. In disparte l’esito degli accertamenti svolti dalla Polizia Municipale e le dichiarazioni del precedente proprietario del fondo, di segno diametralmente opposto, l’onere della prova grava sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma di legge (cfr. TAR Basilicata, 13.05.2010, n. 599). Ebbene, ancora una volta difettano, con evidenza, riscontri di sorta in ordine all’epoca di realizzazione dei manufatti, alla preesistenza delle opere rispetto al momento dell’acquisto da parte del ricorrente, alla natura e all’entità degli interventi asseritamente posti in essere.
Deve ancora osservarsi, sul punto, che il decorso di un ampio lasso di tempo, di per sé, non implica alcun aggravamento dell’onere di motivazione. Invero, l’ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, né quest’ultima può essere sanata dal mero decorso del tempo, per cui l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (cfr. C.d.S., sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; id., 05.04.2012, n. 2038).
3.5. Per quanto innanzi, non coglie nel segno neppure la censura volta a sostenere il difetto di motivazione del provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Va infatti rammentato come costituisca ius receptum (cfr. TAR Lazio, sez. I-quater 29.07.2014, n. 8304) che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto, senza alcun contenuto discrezionale, avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, che opera automaticamente con riguardo non solo all’opera abusiva ed all’area di sedime, ma anche alle pertinenze. Ne consegue che esso è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’abusività e dell’accertata inottemperanza, essendo in re ipsa l’interesse pubblico all’adozione della misura, senza l’obbligo di alcuna specifica argomentazione in ordine all’acquisizione dell’area necessaria. Come pure, detto provvedimento non richiede alcuna preliminare determinazione inerente l’esercizio di una scelta da parte del Comune sull’applicabilità della stessa più grave misura acquisitiva, rispetto alla semplice demolizione del manufatto abusivo (cfr. TAR Lazio, sez. II, 12.04.2002, n. 3160).
...
5.1. Infine, è infondata la censura concernente la pretesa indeterminatezza e genericità, sul versante dell’esatta individuazione dell’area da acquisire al patrimonio comunale, tanto dell’ordinanza di demolizione quanto del provvedimento di accertamento di inottemperanza. In tal senso, si richiama il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui, sia l’ordinanza di ingiunzione alla demolizione, sia quella di acquisizione al patrimonio comunale, possono essere adottate senza la specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione, giacché a tale individuazione può procedersi, ai sensi dell’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, con successivo e separato atto (cfr. C.d.S., sez. VI, 08.04.2004, n. 1998; TAR Sicilia, sez. III, 23.07.2014, n. 2012; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 08.03.2007, n. 161; TAR Sardegna, sez. II, 27.09.2006, n. 2013).
5.2. Del pari, è errata in punto di fatto la tesi per cui il Comune resistente, mediante gli atti impugnati, avrebbe inteso acquisire l’intera particella di proprietà del ricorrente, di consistenza ben oltre superiore al decuplo della superficie delle opere abusive. Infatti, nel provvedimento di accertamento di inottemperanza n. 223/2009 si legge che esso costituisce titolo per l’acquisizione al patrimonio comunale dei soli beni abusivamente realizzati, dell’area di sedime e di quella pertinenziale, necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive (TAR Basilicata, sentenza 04.09.2014 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere di recinzione del terreno non si configurano come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, come è nel caso di specie.
L'intervento in questione, per costante giurisprudenza, non rientra tra gli interventi di edilizia libera specificamente elencati dall’art. 6 del d.P.R. 380/2001, come sembra sostenere il ricorrente, bensì nella portata residuale degli interventi realizzabili con il regime semplificato di cui all’art. 22 del D.P.R. 380/2001. Ciò nondimeno, l’art. 37, ultimo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 fa salva l’applicazione dell’art. 31 dello stesso D.P.R. (relativo all’ordine di demolizione) anche nel caso di mancata denuncia d’inizio attività, in relazione all’intervento edilizio realizzato, ove ne ricorrano i presupposti.
Ora, l’ordine di demolizione della rete di recinzione costituisce atto dovuto, trattandosi di manufatto suscettibile, per le sue dimensioni e caratteristiche, di recare pregiudizio ai beni paesaggistici oggetto di protezione, realizzato in zona sottoposta a vincolo senza previa autorizzazione paesaggistica.

Il ricorrente si duole ancora del fatto che l’ordinanza impugnata ha ingiunto la demolizione di una rete metallica, sostenuta da paletti in ferro, per la quale non sarebbe prescritto il permesso di costruire.
Osserva il Collegio al riguardo che le opere di recinzione del terreno non si configurano come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà. Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, come è nel caso di specie.
L'intervento in questione, per costante giurisprudenza, non rientra tra gli interventi di edilizia libera specificamente elencati dall’art. 6 del d.P.R. 380/2001, come sembra sostenere il ricorrente, bensì nella portata residuale degli interventi realizzabili con il regime semplificato di cui all’art. 22 del D.P.R. 380/2001. Ciò nondimeno, l’art. 37, ultimo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 fa salva l’applicazione dell’art. 31 dello stesso D.P.R. (relativo all’ordine di demolizione) anche nel caso di mancata denuncia d’inizio attività, in relazione all’intervento edilizio realizzato, ove ne ricorrano i presupposti.
Ora, l’ordine di demolizione della rete di recinzione costituisce atto dovuto, trattandosi di manufatto suscettibile, per le sue dimensioni e caratteristiche, di recare pregiudizio ai beni paesaggistici oggetto di protezione, realizzato in zona sottoposta a vincolo senza previa autorizzazione paesaggistica (Cfr. TAR Basilicata, 02.08.2012, n. 366; TAR Veneto, sez. II, 06.08.2012, n. 1102) (TAR Basilicata, sentenza 04.09.2014 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - VARINel casellario con motivazione. La condanna per reati tributari non basta a negare la «non menzione». Cassazione. I limiti per il riconoscimento del beneficio a seguito della sentenza pronunciata dai giudici.
Il giudice deve specificare nella sentenza le circostanze che lo inducono a negare al contribuente, condannato per dichiarazione infedele dei redditi, la non menzione della pena nel certificato del casellario giudiziale. Tale beneficio infatti non può essere negato rilevando soltanto la natura del reato.
A fornire questa interessante interpretazione è la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 03.09.2014 n. 36703.
Al legale rappresentante di una srl, esercente l'attività immobiliare, la competente Corte di appello confermava la condanna a otto mesi di reclusione per dichiarazione infedele dei redditi dell'anno 2005 avendo evaso Irpeg, secondo la tesi accusatoria, per oltre 329mila euro. Tale importo evaso superava entrambe le soglie di punibilità previste dall'articolo 4 del Dlgs 74/2000. Era concessa all'imputato la sospensione condizionale della pena ma non il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. In particolare, secondo la Corte di appello, la non menzione in questione doveva essere esclusa sulla base della natura del reato, ostativa al proficuo inserimento del reo nella società.
L'imputato proponeva allora ricorso per cassazione lamentando, fra l'altro, la manifesta illogicità in merito alla negata concessione del beneficio avendo riguardo alla tenuità della pena in concreto irrogata.
Si ricorda che a norma dell'articolo 175 del codice penale se, con una prima condanna, è inflitta una pena detentiva non superiore a due anni, il giudice, avuto riguardo ad una serie di circostanze, può ordinare in sentenza che non sia fatta menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati, non per ragione di diritto elettorale.
Se il condannato commette successivamente un delitto, l'ordine di non fare menzione della condanna precedente viene revocato. Le circostanze che il giudice deve valutare a tal fine, in base all'articolo 133 del codice penale, concernono la gravità del reato (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell'azione; gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; intensità del dolo o dal grado della colpa) e la capacità a delinquere del colpevole (motivi a delinquere, carattere del reo; precedenti penali e giudiziari, condotta e vita del reo antecedenti al reato; condotta contemporanea o susseguente al reato; condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo).
Secondo la Corte di cassazione il beneficio della non menzione ha lo scopo di sottrarre alla punizione il colpevole che presenti possibilità di ravvedimento e nel contempo di costituire attraverso la revoca, un'efficace remora ad ulteriori violazioni penali. Per negare il beneficio, però, il giudice non può fare esclusivo riferimento alla natura del reato: è necessaria infatti un'indagine specifica da condurre in relazione ai parametri previsti dal predetto articolo 133 del codice penale.
Poiché nella specie la Corte di appello si era limitata a escludere la non menzione soltanto sulla base della natura del reato, ritenuta ostativa al proficuo inserimento del reo nella società, il ricorso è stato accolto. Peraltro la decisione di irrogare in concreto una pena nei limiti dei minimi edittali risultava, secondo i giudici di legittimità, contraddittoria rispetto al diniego della non menzione, in quanto anche i criteri per la determinazione della pena devono ispirarsi alle medesime previsioni del ripetuto articolo 133 del codice penale
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.09.2014).

APPALTI: Il Consiglio di Stato ha chiarito che “l’aggiudicatario provvisorio assume la veste di controinteressato nel ricorso proposto dal concorrente escluso, solo quando l’esclusione e l’aggiudicazione siano avvenute contestualmente, ossia senza soluzione di continuità, potendo il soggetto escluso solo in tal caso rendersi perfettamente conto che l’impugnativa incide sulla posizione, differenziata e giuridicamente protetta, di altro soggetto privato” avendo cura di precisare che “non sussiste alcun onere per l'impresa esclusa di seguire gli sviluppi del procedimento al quale è ormai estranea ed impugnare gli atti conseguenti, ricercando i controinteressati successivi, salva la facoltà per questi ultimi di proporre l'opposizione di terzo”.
Può aggiungersi che non a caso l’art. 79, comma 5, del Codice dei contratti pubblici prevede l’obbligo di comunicazione d’ufficio, “anche a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni”, della solo l'aggiudicazione definitiva. Solo quest’ultima fa scattare l’obbligo di notificazione del ricorso originario o, se del caso, dei motivi aggiunti.
La posizione di aggiudicatario provvisorio, essendo precaria e non definitiva, non è cioè tale da integrare un “controinteresse” rilevante ai fini dell’ammissibilità del ricorso introduttivo. Altro è, l’innegabile interesse dell’aggiudicatario provvisorio ad intervenire nel giudizio per difendere le relative possibilità di aggiudicazione definitiva. In relazione a questa posizione differenziata e qualificata, quest’ultimo, ove non sia intervenuto, né sia stato chiamato iussu iudicis, può proporre –come del resto è avvenuto nel caso di specie– opposizione di terzo.
A mente dell’art. 108 del codice del processo amministrativo, infatti, “un terzo può fare opposizione contro una sentenza del Tribunale amministrativo regionale o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi”. E non v’è dubbio che la sentenza che riammette un soggetto escluso, tra l’altro autore dell’offerta maggiormente conveniente per l’amministrazione, pregiudichi l’interesse legittimo dell’aggiudicatario provvisorio che aspiri alle definitiva aggiudicazione.

La pronuncia, oggetto di gravame, merita riforma.
Il Consiglio di Stato ha chiarito che “l’aggiudicatario provvisorio assume la veste di controinteressato nel ricorso proposto dal concorrente escluso, solo quando l’esclusione e l’aggiudicazione siano avvenute contestualmente, ossia senza soluzione di continuità, potendo il soggetto escluso solo in tal caso rendersi perfettamente conto che l’impugnativa incide sulla posizione, differenziata e giuridicamente protetta, di altro soggetto privato” avendo cura di precisare che “non sussiste alcun onere per l'impresa esclusa di seguire gli sviluppi del procedimento al quale è ormai estranea ed impugnare gli atti conseguenti, ricercando i controinteressati successivi, salva la facoltà per questi ultimi di proporre l'opposizione di terzo” (cfr., fra le più recenti, Sez. V 27/05/2011, n. 3193).
Può aggiungersi che non a caso l’art. 79, comma 5, del Codice dei contratti pubblici prevede l’obbligo di comunicazione d’ufficio, “anche a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni”, della solo l'aggiudicazione definitiva. Solo quest’ultima fa scattare l’obbligo di notificazione del ricorso originario o, se del caso, dei motivi aggiunti.
La posizione di aggiudicatario provvisorio, essendo precaria e non definitiva, non è cioè tale da integrare un “controinteresse” rilevante ai fini dell’ammissibilità del ricorso introduttivo. Altro è, l’innegabile interesse dell’aggiudicatario provvisorio ad intervenire nel giudizio per difendere le relative possibilità di aggiudicazione definitiva. In relazione a questa posizione differenziata e qualificata, quest’ultimo, ove non sia intervenuto, né sia stato chiamato iussu iudicis, può proporre –come del resto è avvenuto nel caso di specie– opposizione di terzo. A mente dell’art. 108 del codice del processo amministrativo, infatti, “un terzo può fare opposizione contro una sentenza del Tribunale amministrativo regionale o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi”. E non v’è dubbio che la sentenza che riammette un soggetto escluso, tra l’altro autore dell’offerta maggiormente conveniente per l’amministrazione, pregiudichi l’interesse legittimo dell’aggiudicatario provvisorio che aspiri alle definitiva aggiudicazione.
Da quanto chiarito discende che l’opposizione di terzo, per quanto ammissibile, non poteva sortire l’effetto di trasformare la sentenza opposta, in una declaratoria di inammissibilità dell’originario ricorso di Telecom per mancata notifica all’aggiudicatario provvisorio
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2014 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il “potere di soccorso” sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice (d.lgs. 12.04.2006, n. 163) si sostanzia nel dovere (e non nella mera facoltà) della stazione appaltante di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di completarli, sia pur solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti.
Esso non può e non deve operare, invece, quando manca il documento o la dichiarazione, o la forma prevista a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali.

L’Adunanza Plenaria ha chiarito che nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il “potere di soccorso” sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice (d.lgs. 12.04.2006, n. 163) si sostanzia nel dovere (e non nella mera facoltà) della stazione appaltante di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di completarli, sia pur solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti. Esso non può e non deve operare, invece, quando manca il documento o la dichiarazione, o la forma prevista a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali (cfr. Ad. Plen. 9/2014).
Nel caso di specie, la dichiarazione era stata prodotta, e nessuna prescrizione imponeva l’allegazione dell’originale: si imponeva quindi l’obbligo di consentire la regolarizzazione per il tramite della successiva produzione degli originali ( produzione che l’offerente si era già reso disponibile ad effettuare ove richiestone), salvo, ovviamente, il necessario e successivo controllo circa la conformità delle copie fotostatiche agli originali.
Né può accedersi alla tesi secondo la quale la dichiarazione prodotta in copia sarebbe giuridicamente “inesistente”: è pacifico che il documento è stato allegato e che quindi lo stesso fosse esistente. La circostanza che si trattasse di copie fotostatiche pone piuttosto un problema di regolarità, emendabile, giusto quanto sopra chiarito, ove le copie si confermino effettivamente riproduttive di dichiarazioni originali integranti tutti i requisiti di forma richiesti dall’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2014 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il principio tempus regit actum è applicabile solo ai titoli autorizzatori preventivi e non a quelli in sanatoria, ex artt. 31 e ss. legge 47/1995, i quali devono invece tener conto della circostanza che la costruzione è già eseguita, nonché dell’esigenza che la misura dell’oblazione non venga a dipendere dai tempi e dalla discrezionalità delle singole amministrazioni.
L’appello non è fondato.
Può in proposito richiamarsi l’orientamento di questo Consiglio secondo il quale il principio tempus regit actum è applicabile solo ai titoli autorizzatori preventivi e non a quelli in sanatoria, ex artt. 31 e ss. legge 47/1995, i quali devono invece tener conto della circostanza che la costruzione è già eseguita, nonché dell’esigenza che la misura dell’oblazione non venga a dipendere dai tempi e dalla discrezionalità delle singole amministrazioni (Cfr. Sez. V, 06.09.2002, n. 4562).
Nel caso di specie, poi, come correttamente rilevato dal TAR, non ricorre l’ipotesi prefigurata dall’art. 39, comma 10, della l. 729/1994, il quale ha riferimento alle domande di concessione in sanatoria “non definite per il mancato pagamento dell’oblazione”, mentre qui, la somma autoliquidata è stata interamente corrisposta dall’originario istante, salvo il conguaglio chiesto dal Comune in sede di rilascio del titolo in sanatoria.
Quanto agli interessi, l’aporia, segnalata dal Comune appellante, secondo la quale all’applicazione della “vecchia” tariffa, favorevole per l’istante, si sarebbe aggiunta la “beffa” del computo degli interessi solo a far data dal rilascio del titolo in sanatoria, essa dipende dalla tardiva definizione del procedimento di condono, il quale, costituendo esercizio di potere autoritativo, è nel dominio dell’amministrazione (ben avrebbe potuto, l’amministrazione, anche in caso di inerzia dell’istante, imporre termini perentori per l’integrazione istruttoria, al fine dell’adozione di una celere decisione).
Gli interessi quindi decorrono dal momento in cui l’amministrazione ha provveduto a liquidare e richiedere il contributo, come correttamente già statuito dal TAR (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2014 n. 4486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ove l'atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall'autorità emanante a rigetto della sua istanza.
Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento.
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Il Collegio condivide e fa proprio il principio generale costantemente predicato dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui “la legittimità di un provvedimento amministrativo si deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi”.
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta, ritiene il detto canone valutativo principio di imprescindibile applicazione.
Esso riguarda il dato giuridico e normativo ma, anche, i dati e le circostanze di fatto rientranti nel patrimonio cognitivo dell’amministrazione al momento in cui venne reso il provvedimento: ne discende che lo scrutinio del giudice deve tenere conto di tali elementi e (con più stringente aderenza alla fattispecie per cui è causa) non potrebbe dichiarare la illegittimità di un provvedimento emesso sulla basa di dati in possesso dell’Amministrazione e poi risultati fallaci, incompleti, etc., sulla scorta di altri elementi, prodotti in giudizio dagli originari ricorrenti, ma non precedentemente ostesi all’Amministrazione, che ne aveva fatto rituale richiesta.
Ciò salvo che risulti che la richiesta era inutile, defatigatoria, ultronea, o vertesse su elementi già in possesso dell’Amministrazione.
Ciò che si vuol dire, cioè, è che, se il processo non è la “naturale continuazione dell’istruttoria”, esso è pur sempre il luogo deputato alla verifica della legittimità dell’azione amministrativa: se il privato è rimasto inerte ad una richiesta istruttoria dell’amministrazione, non può poi fondatamente dolersene attraverso la attività giudiziale che (solo in detta sede) abbia colmato la lacuna effettivamente sussistente e supportante, tra l’altro, il diniego.

Sotto il profilo generale dell’ordine di esame delle questioni, nel rilevare che l’azione amministrativa gravata si fondava su una pluralità di profili reiettivi, e che anche la sentenza impugnata ricalca tale schema, si precisa immediatamente la convinta adesione del Collegio al risalente principio, che costituisce jus receptum nella giurisprudenza amministrativa, secondo il quale “Ove l'atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall'autorità emanante a rigetto della sua istanza.” (Consiglio Stato , sez. VI, 31.03.2011, n. 1981); ”Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento.” (Consiglio Stato, sez. VI, 29.03.2011, n. 1897).
Il principio è pacificamente predicabile anche alle impugnazioni delle sentenze che si fondino su più capi reiettivi.
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Il Collegio condivide e fa proprio il principio generale costantemente predicato dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui “la legittimità di un provvedimento amministrativo si deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi” (Cons. Stato Sez. IV, 21.08.2012, n. 4583).
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta, ritiene il detto canone valutativo principio di imprescindibile applicazione (ex multis: Cass. civ. Sez. VI, 22.02.2012, n. 2672).
Esso riguarda il dato giuridico e normativo ma, anche, i dati e le circostanze di fatto rientranti nel patrimonio cognitivo dell’amministrazione al momento in cui venne reso il provvedimento: ne discende che lo scrutinio del giudice deve tenere conto di tali elementi e (con più stringente aderenza alla fattispecie per cui è causa) non potrebbe dichiarare la illegittimità di un provvedimento emesso sulla basa di dati in possesso dell’Amministrazione e poi risultati fallaci, incompleti, etc., sulla scorta di altri elementi, prodotti in giudizio dagli originari ricorrenti, ma non precedentemente ostesi all’Amministrazione, che ne aveva fatto rituale richiesta.
Ciò salvo che risulti che la richiesta era inutile, defatigatoria, ultronea, o vertesse su elementi già in possesso dell’Amministrazione.
Ciò che si vuol dire, cioè, è che, se il processo non è la “naturale continuazione dell’istruttoria”, esso è pur sempre il luogo deputato alla verifica della legittimità dell’azione amministrativa: se il privato è rimasto inerte ad una richiesta istruttoria dell’amministrazione, non può poi fondatamente dolersene attraverso la attività giudiziale che (solo in detta sede) abbia colmato la lacuna effettivamente sussistente e supportante, tra l’altro, il diniego
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2014 n. 4485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 19, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone, in modo affatto chiaro, che "Qualora la destinazione d'uso delle opere indicate nei commi precedenti...venga comunque modificata nei dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento dell'intervenuta variazione".
La disposizione si riferisce in modo omnicomprensivo al contributo di costruzione, come definito dal precedente art. 16, senza distinzione tra le sue componenti, e quindi tanto alla quota parte riferibile agli oneri di urbanizzazione, quanto a quella relativa al costo di costruzione, e trova giustificazione nel diverso regime, più favorevole per gli immobili a destinazione industriale o artigianale (per i quali ai sensi del precedente comma 1 è dovuto contributo limitato ai soli oneri urbanizzativi) e più gravoso per gli immobili a destinazione turistica, commerciale, direzionale e a servizi (per cui invece ai sensi del comma secondo, oltre agli oneri urbanizzativi è dovuto un contributo commisurato anche al costo di costruzione, sebbene nella più ridotta misura ivi specificata, pari al 10% del costo di costruzione documentato).
Ne consegue che, come chiarito da questa Sezione, la quota parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; vedi anche 14.10.2011, n. 5539, quest'ultima peraltro nel senso che anche la sola variazione di destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria, da commercio all'ingrosso a commercio al dettaglio, giustifica il pagamento del contributo, anche per la quota afferente al costo di costruzione).
D'altro canto, è indiscutibile che il mutamento di destinazione d'uso, ancorché senza opere edilizie, da una tipologia utilizzativa artigianale ad altra commerciale implica un mutamento del carico urbanistico, connesso ai ben diversi flussi di traffico e clientela, nonché della redditività, e quindi dei vantaggi economici connessi alla destinazione e all'attività.
In relazione all'incontestato mutamento della destinazione d'uso comportante passaggio da una ad altra tipologia e/o categoria edilizia, d'altra parte, il Comune non era tenuto a supportare la propria richiesta con alcuna motivazione specifica, essendo sufficiente il richiamo al presupposto giuridico-fattuale, ciò che implica il superamento anche dei rilievi introdotti con la memoria di replica a prescindere dalla loro ritualità, contestata dal difensore dell'Amministrazione in sede di discussione.

Binario S.p.A., con sede in Padova, in forza di contratto di locazione finanziaria con Italease Network S.p.A., ha acquisito un capannone, ubicato in Padova, al corso Stati Uniti (distinto in catasto a foglio n. 9 particella n. 461), realizzato in base al permesso di costruire n. 348 del 28.09.2005, e successive varianti, con specifica destinazione artigianale, comunicando quindi il mutamento di destinazione d'uso da artigianale a commerciale (parte all'ingrosso e parte al dettaglio).
Con note del 174808 del 25.07.2012 e n. 192751 del 20.08.2012 (quest'ultima rettificativa delle somme richieste) il Comune di Padova, rilevato che anche in assenza di opere edilizie il mutamento di destinazione d'uso implicava trasformazione della categoria edilizia e aumento del carico urbanistico, ha richiesto il pagamento, a titolo di differenza sul contributo di costruzione dovuto, della complessiva somma di € 372.239,81 (di cui € 304.843,56 per costo di costruzione e € 67,396,26 per oneri urbanizzativi).
Con il ricorso in primo grado la società ha proposto cumulative domande di annullamento e accertamento, sostenendo che il costo di costruzione non sia dovuto in assenza di opere edilizie.
...
Nel merito l'appello è destituito di fondamento giuridico e deve essere rigettato.
L'art. 19, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone, in modo affatto chiaro, che "Qualora la destinazione d'uso delle opere indicate nei commi precedenti...venga comunque modificata nei dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento dell'intervenuta variazione".
La disposizione si riferisce in modo omnicomprensivo al contributo di costruzione, come definito dal precedente art. 16, senza distinzione tra le sue componenti, e quindi tanto alla quota parte riferibile agli oneri di urbanizzazione, quanto a quella relativa al costo di costruzione, e trova giustificazione nel diverso regime, più favorevole per gli immobili a destinazione industriale o artigianale (per i quali ai sensi del precedente comma 1 è dovuto contributo limitato ai soli oneri urbanizzativi) e più gravoso per gli immobili a destinazione turistica, commerciale, direzionale e a servizi (per cui invece ai sensi del comma secondo, oltre agli oneri urbanizzativi è dovuto un contributo commisurato anche al costo di costruzione, sebbene nella più ridotta misura ivi specificata, pari al 10% del costo di costruzione documentato).
Ne consegue che, come chiarito da questa Sezione, la quota parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; vedi anche 14.10.2011, n. 5539, quest'ultima peraltro nel senso che anche la sola variazione di destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria, da commercio all'ingrosso a commercio al dettaglio, giustifica il pagamento del contributo, anche per la quota afferente al costo di costruzione).
D'altro canto, è indiscutibile che il mutamento di destinazione d'uso, ancorché senza opere edilizie, da una tipologia utilizzativa artigianale ad altra commerciale implica un mutamento del carico urbanistico, connesso ai ben diversi flussi di traffico e clientela, nonché della redditività, e quindi dei vantaggi economici connessi alla destinazione e all'attività.
In relazione all'incontestato mutamento della destinazione d'uso comportante passaggio da una ad altra tipologia e/o categoria edilizia, d'altra parte, il Comune non era tenuto a supportare la propria richiesta con alcuna motivazione specifica, essendo sufficiente il richiamo al presupposto giuridico-fattuale, ciò che implica il superamento anche dei rilievi introdotti con la memoria di replica a prescindere dalla loro ritualità, contestata dal difensore dell'Amministrazione in sede di discussione.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2014 n. 4483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ingiunzione di demolizione non è necessaria la specifica indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale; tale dato, infatti, deve essere contenuto nel successivo atto di acquisizione, a pena di illegittimità di quest’ultimo, che costituisce il titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Da tale orientamento, peraltro già condiviso da questo TAR, il Collegio non ha motivo di discostarsi.
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L’attività di repressione degli abusi edilizi, essendo collegata alla tutela dell’interesse pubblico per un ordinato sviluppo del territorio, così come delineato nello strumento urbanistico e nella regolamentazione urbanistica vigente, non è soggetta a termini di decadenza o di prescrizione e può essere esercitata anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso.
Né può essere ravvisata, nella fattispecie, una carenza motivazionale per essere l’ordine di demolizione esclusivamente sorretto dal richiamo al carattere abusivo dell’opera realizzata.
La giurisprudenza infatti è pressoché concorde nel ritenere che “presupposto per l’adozione dell’ordinanza di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione dell’opera in totale difformità della concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale ordinanza –ove ricorrano i predetti requisiti– è atto dovuto ed è sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione".

Con il primo motivo d’impugnazione lamenta la violazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 per essersi l’Ufficio Tecnico limitato ad un generico rinvio alla previsione normativa, senza fornire una puntuale indicazione dell’area da acquisirsi, nel caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
Tale censura è priva di fondamento.
Nell’ingiunzione di demolizione non è necessaria la specifica indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale; tale dato, infatti, deve essere contenuto nel successivo atto di acquisizione, a pena di illegittimità di quest’ultimo, che costituisce il titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (Cons. St. V sez. 26/01/2000 n. 341; Cons. St. VI sez. 08/04/2004 n. 1997; TAR Lombardia–Brescia 02/07/2002 n. 1011).
Da tale orientamento, peraltro già condiviso da questo TAR (sent. n. 4309/2003), il Collegio non ha motivo di discostarsi.
Del pari infondato si rivela il secondo motivo d’impugnazione con il quale il ricorrente, muovendo dal tempo dell’abuso, sostiene che l’Amministrazione, “avrebbe dovuto valutare la situazione di consolidato affidamento del privato e …. dar conto delle ragioni di pubblico interesse che depongono per la demolizione del fabbricato”.
Al riguardo va ribadito che l’attività di repressione degli abusi edilizi, essendo collegata alla tutela dell’interesse pubblico per un ordinato sviluppo del territorio, così come delineato nello strumento urbanistico e nella regolamentazione urbanistica vigente, non è soggetta a termini di decadenza o di prescrizione e può essere esercitata anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso (Cons. St. IV sez. 27/04/2004 n. 2529; TAR Campania–Napoli VII sez. 20/07/2010 n. 17168).
Né può essere ravvisata, nella fattispecie, una carenza motivazionale per essere l’ordine di demolizione esclusivamente sorretto dal richiamo al carattere abusivo dell’opera realizzata.
La giurisprudenza infatti è pressoché concorde nel ritenere che “presupposto per l’adozione dell’ordinanza di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione dell’opera in totale difformità della concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale ordinanza –ove ricorrano i predetti requisiti– è atto dovuto ed è sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione" (Cons. St. IV sez. 03/02/1996 n. 95: TARBasilicata 20/02/2004 n. 103) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 03.09.2014 n. 2256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl riesame dell'abusività dell'opera edilizia, provocato dall'istanza di sanatoria dell'autore dell'abuso, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio in precedenza emanato con la conseguenza che, comunque, anche in caso di rigetto dell'istanza, l'Amministrazione deve emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva, con l'assegnazione di un nuovo termine per adempiere.
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Costituisce ius receptum che il provvedimento di diniego del rilascio della concessione di costruzione in sanatoria deve compiutamente motivare l'effettivo contrasto tra l'opera realizzata e gli strumenti urbanistici e tale contrasto deve essere evidenziato in maniera intelligibile, così da consentire al soggetto interessato di impugnare l'atto davanti al G.A., denunziando non solo i vizi propri della motivazione, ma anche le errate interpretazioni delle norme urbanistiche valutate col giudizio di non conformità.
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Quando nell’ambito di una procedura di…..accertamento di conformità, l’Amministrazione svolge una valutazione negativa, essa deve motivare sulla base della specifica istruttoria espletata, con puntualità di riferimenti le ragioni tecnico-valutative che impediscono nella fattispecie il rilascio della concessione in sanatoria.
Viceversa, come esattamente rilevato in ricorso, il provvedimento di diniego impugnato deve ritenersi illegittimo perché non esterna in maniera compiuta e puntuale le ragioni per cui l’Amministrazione abbia ritenuto di opporre il contestato diniego; in particolare il relativo provvedimento finale non esplicita alcun concreto riferimento alla normativa urbanistica violata.
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Il diniego di sanatoria di opere edilizie deve precisare quali siano gli ostacoli di fatto ed in diritto che impediscano il rilascio del provvedimento richiesto, e ciò al fine di porre l’istante nelle condizioni di adeguare, ove possibile, l’intervento alla normativa vigente ovvero di proporre impugnativa in sede giurisdizionale, denunziando non solo il difetto della motivazione, ma l’eventuale errata interpretazione della disciplina urbanistica, edilizia ed ambientale.
La signora L.A. impugna la nota prot. n. 8425/2014 del 12.03.2014 (con la quale il Dirigente dell’Ufficio Urbanistica del Comune di Francavilla Fontana ha comunicato il diniego definitivo al rilascio del permesso di costruire in sanatoria richiesto ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001) e la consequenziale ordinanza di demolizione n. 115 del 09.04.2014, inerenti un box auto realizzato antecedentemente al 1967 in assenza di titolo abilitativo.
...
Il ricorso deve essere accolto per le ragioni di diritto di seguito esplicitate.
Il Collegio rileva preliminarmente che, secondo l’indirizzo giurisprudenziale dominante, “il riesame dell'abusività dell'opera edilizia, provocato dall'istanza di sanatoria dell'autore dell'abuso, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio in precedenza emanato con la conseguenza che, comunque, anche in caso di rigetto dell'istanza, l'Amministrazione deve emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva, con l'assegnazione di un nuovo termine per adempiere” (in tal senso, ex multis, TAR Lecce, Sez. III, n. 635/2011); pertanto, l’ordinanza di demolizione n. 34 del 28.01.2013 ha perso la propria efficacia lesiva a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità.
Con riferimento, poi, ai vizi denunciati in ordine all’impugnato diniego (e alla illegittimità derivata della successiva ordinanza di demolizione), fondato ed assorbente si appalesa il motivo di gravame inerente il difetto di motivazione, con il quale parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990, in correlazione con l’art. 36 del D.P.R. 380/01 (mancando nel provvedimento gravato qualsivoglia motivazione in ordine al contrasto dell’opera con le prescrizioni urbanistiche, unica valutazione che doveva esser compiuta dall’Amministrazione in sede di procedimento per l’accertamento di conformità).
La censura è fondata.
Il Collegio, innanzitutto, rileva che il provvedimento in parola fa discendere la difformità del manufatto all’epoca dell’abuso dalla originaria mancanza di titolo abilitativo (“non è mai stata prevista la costruzione di alcun manufatto in quel sito”- lettera C - e “come ribadito precedentemente, non vi sono autorizzazioni per la costruzione di quel manufatto, pertanto la costruzione non era conforme al progetto approvato e alle norme urbanistiche vigenti al momento dell’abuso”- lettera D). Viceversa, l'istanza di sanatoria trova la sua ragion d'essere proprio nella suddetta, riconosciuta mancanza del titolo autorizzatorio.
In secondo luogo, si osserva che il diniego di sanatoria, in quanto atto a contenuto vincolato, è sufficientemente motivato con il compiuto riferimento alla mancanza del requisito della doppia conformità, mediante il puntuale riferimento alle norme urbanistiche ed edilizie di cui si assume il mancato rispetto.
In tal senso, l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, è fermo nell’assunto che “costituisce ius receptum che il provvedimento di diniego del rilascio della concessione di costruzione in sanatoria deve compiutamente motivare l'effettivo contrasto tra l'opera realizzata e gli strumenti urbanistici e tale contrasto deve essere evidenziato in maniera intelligibile, così da consentire al soggetto interessato di impugnare l'atto davanti al G.A., denunziando non solo i vizi propri della motivazione, ma anche le errate interpretazioni delle norme urbanistiche valutate col giudizio di non conformità (cfr. ex multis TAR Lazio Roma, sez. II, 19.07.2005, n. 5736)” (così TAR Campania, Napoli, Sezione Quarta, 23/03/2010, n. 1578).
Ed ancora, “quando nell’ambito di una procedura di…..accertamento di conformità, l’Amministrazione svolge una valutazione negativa, essa deve motivare sulla base della specifica istruttoria espletata, con puntualità di riferimenti le ragioni tecnico-valutative che impediscono nella fattispecie il rilascio della concessione in sanatoria. Viceversa, come esattamente rilevato in ricorso, il provvedimento di diniego impugnato deve ritenersi illegittimo perché non esterna in maniera compiuta e puntuale le ragioni per cui l’Amministrazione abbia ritenuto di opporre il contestato diniego; in particolare il relativo provvedimento finale non esplicita alcun concreto riferimento alla normativa urbanistica violata…..” (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 21.06.2007, n. 6667); inoltre, “il diniego di sanatoria di opere edilizie deve precisare quali siano gli ostacoli di fatto ed in diritto che impediscano il rilascio del provvedimento richiesto, e ciò al fine di porre l’istante nelle condizioni di adeguare, ove possibile, l’intervento alla normativa vigente (TAR Liguria, sez. I, 10.12.2002, n. 1187) ovvero di proporre impugnativa in sede giurisdizionale, denunziando non solo il difetto della motivazione, ma l’eventuale errata interpretazione della disciplina urbanistica, edilizia ed ambientale (TAR Sardegna 10.11.2003, n. 1448)” (in tal senso, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 1844 del 06.10.2004) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 03.09.2014 n. 2254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto al ritenuto difetto di titolo giuridico in capo alla ricorrente ex art. 11 DPR 380/2001 per chiedere il rilascio del permesso di costruire, basta rammentare il condivisibile orientamento del Consiglio di Stato secondo cui, ai fini del rilascio di titolo edilizio “il contratto di locazione è titolo idoneo alla realizzazione di opere”, soprattutto in casi come quello oggetto del presente giudizio, in cui il conduttore intende realizzare un intervento edilizio di carattere precario ed amovibile.
Peraltro, proprio considerato il carattere precario ed amovibile dell’intervento, caratterizzato da permanenza limitata alla sola stagione estiva ed avente superficie coperta complessiva di mq 36 circa oltre i servizi igienici per come emerge dalla documentazione in atti, non può ritenersi nella specie ravvisabile quella paventata trasformazione urbanistica ed edilizia definitiva del territorio circostante, che si porrebbe in contrasto con le NTA del PUG vigente, che l’Amministrazione resistente ha posto quale ulteriore motivo di diniego della richiesta autorizzazione.

Risulta agli atti che la ricorrente società ha la disponibilità, mercé regolare contratto di locazione, di un’area sita in Comune di Porto Cesareo censita a fl 16 all. ”L”, plle 323 e 352 e che, in data 29.01.2009, ha presentato istanza di permesso di costruire per la realizzazione di una struttura precaria e di facile amovibilità da adibirsi a chiosco-bar ad uso turistico-balneare, con permanenza limitata alla sola stagione estiva.
Sennonché, con il provvedimento impugnato il Comune di Porto Cesareo ha opposto diniego a tale istanza, sull’assunto che la società ricorrente non abbia titolo per richiedere il permesso di costruire, che l’intervento proposto pur in astratto assentibile realizzerebbe una trasformazione urbanistica ed edilizia definitiva del territorio in contrasto con le NTA del PUG vigente e, peraltro, comporterebbe un immediato aggravio dell’attuale situazione di carenza di servizi e standard urbanistici caratterizzante il territorio circostante, che ha portato all’assoggettamento dell’area a P.I.R.T., con reperimento delle aree da destinare a servizi e degli standard necessari da quantificarsi ed ubicarsi mediante la redazione del piano esecutivo.
Orbene, le censure mosse dalla ricorrente società al provvedimento impugnato risultano fondate.
Ed invero, quanto al ritenuto difetto di titolo giuridico in capo alla ricorrente ex art. 11 DPR 380/2001 per chiedere il rilascio del permesso di costruire, basta rammentare il condivisibile orientamento del Consiglio di Stato secondo cui, ai fini del rilascio di titolo edilizio “il contratto di locazione è titolo idoneo alla realizzazione di opere” (cfr. C.d.S. sent. 568/2012), soprattutto in casi come quello oggetto del presente giudizio, in cui il conduttore intende realizzare un intervento edilizio di carattere precario ed amovibile.
Peraltro, proprio considerato il carattere precario ed amovibile dell’intervento, caratterizzato da permanenza limitata alla sola stagione estiva ed avente superficie coperta complessiva di mq 36 circa oltre i servizi igienici per come emerge dalla documentazione in atti, non può ritenersi nella specie ravvisabile quella paventata trasformazione urbanistica ed edilizia definitiva del territorio circostante, che si porrebbe in contrasto con le NTA del PUG vigente, che l’Amministrazione resistente ha posto quale ulteriore motivo di diniego della richiesta autorizzazione.
Infine, quanto all’ultimo motivo posto dall’Amministrazione a base del diniego del permesso di costruire, relativo all’immediato aggravio che l’intervento proposto realizzerebbe in una situazione già caratterizzata da carenza di servizi e standard urbanistici nel territorio circostante, interessato da numerosi immobili oggetto di condono ex l. 47/1985 e perciò assoggettato a P.I.R.T. dallo strumento urbanistico vigente, osserva il Tribunale che la perimetrazione dell’area oggetto del presente giudizio tra quelle da sottoporsi a PIRT non è di per sé ostativa al rilascio del permesso di costruire tutte le volte in cui si intenda realizzare, come nella specie, un intervento di natura precaria ed amovibile e perciò di per se inidoneo ad arrecare quell’aggravamento dei servizi e degli standard urbanistici che il PIRT intenda evitare (cfr. in tal senso Tar Lecce, sez I, sent. 1358/2012) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 03.09.2014 n. 2249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio...”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
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Deve ritenersi, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo.
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione Comunale intimata di addossare al titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca.

Con il ricorso in epigrafe, il signor T.C.P. ha impugnato il provvedimento del Responsabile del Settore Servizi alla Città/Servizio Urbanistico del Comune di Matino 19.03.2013 prot. n. 6867, con il quale, in applicazione della deliberazione del Consiglio comunale 08.11.2012 n. 38 -di aggiornamento del contributo degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione- anch’essa gravata, è stato richiesto al ricorrente il "conguaglio relativo agli oneri di urbanizzazione e costo di costruzione" in riferimento alle pratiche edilizie n. 306/06 e n. 129/07, per le quali l’interessato aveva già regolarmente pagato i contributi allora liquidati.

L’interessata ha domandato altresì l'accertamento dell’insussistenza dell’obbligo di pagamento della somma di € 10.006,24, preteso dall’Amministrazione municipale quale aggiornamento degli oneri concessori e del costo di costruzione.
...
La questione dedotta è stata già affrontata da questo Tribunale, che si è pronunciato in senso favorevole alle tesi attorie, in varie sentenze, dalle cui conclusioni e argomentazioni non vi è motivo di discostarsi (Sezione terza, 20.01.2014 n. 183; 23.10.2013 n. 2164; 27.09.2013 n. 2058; 27.08.2013 n. 1800; 15.05.2013 n. 1103; 15.01.2013 n. 49).
In particolare, è stato chiarito che, in casi del genere, è da “escludere che si sia di fronte all’esercizio di un potere di autotutela volto a correggere eventuali errori di determinazione o calcolo, peraltro nemmeno chiaramente evidenziati in atti, compiuti all’epoca del rilascio del permesso di costruire".
L’attività comunale appare invece orientata ad addossare al privato successivamente al rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori.
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale” (cfr. art. 16, sesto comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o, in relazione alla voce relativa al costo di costruzione, facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'ISTAT” (cfr. art. 16, nono comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare l’importo degli oneri concessori a fenomeni di natura sostanzialmente inflattiva -legati all’aumento generalizzato dei costi di urbanizzazione o costruzione- in maniera da far corrispondere a permessi edilizi rilasciati in epoche diverse un impegno economico sostanzialmente uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio...”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia (Cfr. ex multis: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile esigere periodicamente la richiesta di integrazione del pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga modificato, posto che tale rideterminazione appare nella specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo (Cfr. ex multis: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione Comunale intimata di addossare al titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca.
Per ragione di completezza, si precisa che, anche qualificando come conseguenza del potere di autotutela la richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente in violazione dell’art. 21-nonies Legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm. posto che:
- non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere, limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e le tabelle succedutesi nel tempo;
- non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell' affidamento ingeneratosi nel privato;
- in particolare non viene data alcuna motivazione in relazione al tempo trascorso, quasi tre anni [rectius, nel caso concreto, addirittura sei anni], “tra la determinazione originaria e la successiva rideterminazione, tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della Legge n° 241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato “entro un ragionevole termine”” (sentenza 20.01.2014 n. 183).
Il ricorso è dunque d’accogliere, con il conseguente annullamento degli atti impugnati anche tramite motivi aggiunti (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 03.09.2014 n. 2244 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il TAR è giurisdizionalmente competente in materia di pareri di congruità rilasciati dagli Ordini degli Avvocati.
In merito, questo Collegio si limita a citare recente giurisprudenza secondo la quale “il parere di congruità sulle parcelle professionali reso dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati è atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo, poiché non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, bensì implica una valutazione di congruità della prestazione, che trova inequivocabile presupposto nel rapporto di supremazia che intercorre tra l'Ordine od il Collegio professionale (soggetto, questo, indubitabilmente pubblico) ed i propri iscritti. Siffatta valutazione, per un verso, ha senz'altro connotati di evidente discrezionalità in quanto frutto dell'esercizio di un potere conferito da una norma (almeno in parte qua) d'azione e non di relazione, che configura l'esercizio di un potere avente natura unilaterale e che costituisce espressione di potestà amministrativa riconosciuta per finalità di pubblico interesse che trova il proprio fondamento normativo nell'art. 14, comma 1, lettera d), del R.D.L. 27.11.1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore)”.
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Allorché l’atto emesso dall’Ordine degli Avvocati (circa la congruità della parcella emessa di un avvocato) abbia la natura di atto meramente confermativo, atteso che lo stesso non è stato preceduto da una nuova istruttoria e si limita a ripetere lo stesso contenuto di quello precedente, sul punto la giurisprudenza ha chiarito che “La conferma "mera"… si verifica solo nei casi in cui la nuova determinazione dell'amministrazione si limiti a ripetere il contenuto del precedente provvedimento, senza aggiungere alcun ulteriore supporto motivazionale e senza percorrere una rinnovata istruttoria delle circostanze ritenute rilevanti ai fini della valutazione dell'istanza proposta dal richiedente. Qualora l'amministrazione adotti un atto di identico contenuto dispositivo di un altro precedente, ma arricchito da una puntuale motivazione prima inesistente, o basato su elementi istruttori prima non considerati, si è in presenza di un atto confermativo, a carattere rinnovatorio, che modifica la realtà giuridica, riaprendo i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale da parte dei soggetti che ne intendano contestare la legittimità.”

Come richiesto dal ricorrente, in via preliminare si evidenzia che questo Tribunale è giurisdizionalmente competente in materia di pareri di congruità rilasciati dagli Ordini degli Avvocati.
In merito, questo Collegio si limita a citare recente giurisprudenza secondo la quale “il parere di congruità sulle parcelle professionali reso dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati è atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo, poiché non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, bensì implica una valutazione di congruità della prestazione (Cass. Civ., Sez. Un., 24.06.2009, n. 14812 e, da ultimo, Cons. St., IV, 24.12.2009, n. 8749), che trova inequivocabile presupposto nel rapporto di supremazia che intercorre tra l'Ordine od il Collegio professionale (soggetto, questo, indubitabilmente pubblico) ed i propri iscritti. Siffatta valutazione, per un verso, ha senz'altro connotati di evidente discrezionalità in quanto frutto dell'esercizio di un potere conferito da una norma (almeno in parte qua) d'azione e non di relazione, che configura l'esercizio di un potere avente natura unilaterale e che costituisce espressione di potestà amministrativa riconosciuta per finalità di pubblico interesse che trova il proprio fondamento normativo nell'art. 14, comma 1, lettera d), del R.D.L. 27.11.1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore)” (TAR Venezia, sez. I, 13.02.2014, n. 183).
Il ricorso è inammissibile.
Il giorno 20.10.2010, l’Ordine degli Avvocati di Bari si è riunito al limitato scopo di valutare la domanda di revisione del parere di congruità già rilasciato in data 22.09.2010 presentata dal ricorrente in data 08.10.2010. L’esito di tale riunione è stato la mera conferma del parere di congruità già rilasciato.
Questo Collegio ritiene che l’atto emesso dall’Ordine degli Avvocati di Bari abbia la natura di atto meramente confermativo atteso che lo stesso non è stato preceduto da una nuova istruttoria e si limita a ripetere lo stesso contenuto di quello precedente.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che “La conferma "mera"… si verifica solo nei casi in cui la nuova determinazione dell'amministrazione si limiti a ripetere il contenuto del precedente provvedimento, senza aggiungere alcun ulteriore supporto motivazionale e senza percorrere una rinnovata istruttoria delle circostanze ritenute rilevanti ai fini della valutazione dell'istanza proposta dal richiedente. Qualora l'amministrazione adotti un atto di identico contenuto dispositivo di un altro precedente, ma arricchito da una puntuale motivazione prima inesistente, o basato su elementi istruttori prima non considerati, si è in presenza di un atto confermativo, a carattere rinnovatorio, che modifica la realtà giuridica, riaprendo i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale da parte dei soggetti che ne intendano contestare la legittimità.” (Cons. Stato, sez. V, 25.02.2009, n. 1115).
Ne consegue che, essendo decorsi i termini per impugnare il parere di congruità n. 319 del 22.09.2010 e vista la natura meramente confermativa dell’atto impugnato, il ricorso indicato in epigrafe deve essere dichiarato inammissibile (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 03.09.2014 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (che riproduce l’art. 7 l. n. 47 del 1985) per le opere eseguite in assenza di titolo edilizio o in totale difformità o con variazioni essenziali, dispone che "il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Si tratta di un atto dovuto, nell'esercizio di un potere autonomo dell’autorità giudiziaria rispetto a quello amministrativo, che non si pone in rapporto alternativo con l'ordine di demolizione, eventualmente già impartito dalla P.A., ai sensi della stessa disposizione, ma ha la sua ragion d’essere in un criterio di economia e concentrazione degli atti giuridici dipendenti dagli stessi presupposti, come stabilito dall’ art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 che prevede l’applicazione delle sanzioni amministrative con la sentenza di condanna per lo stesso fatto per il quale ne è prevista l’irrogazione.
Ne consegue che la sanzione accessoria della demolizione irrogata dal giudice non può essere pronunciata, ovvero deve essere revocata, se la sentenza pronuncia la prescrizione del reato presupposto, ancorché accertato negli elementi costitutivi.
Tuttavia, all’estinzione del reato per prescrizione sopravvive la sanzione amministrativa della demolizione, irrogabile dalla pubblica amministrazione finché dura l’opera abusiva che con esso contrasta o non intervenga il rilascio di un titolo edilizio, perché permane fino ad allora il pregiudizio dell’interesse primario alla tutela del territorio, non abdicabile dallo Stato, come invece l’interesse alla punizione del colpevole, decorso un certo tempo dalla commissione del fatto di reato.
Pertanto l’autore del reato potrà opporsi alla demolizione disposta dal giudice e ottenerne la revoca, eccependo la prescrizione del reato, ma nulla potrà, per lo stesso motivo, contro la demolizione disposta ex art. 31 dalla P.A. nell’esercizio di un potere autonomo dall’accertamento del reato edilizio, che ha come presupposto l’abusività dell’opera, anche se il reato prescritto.
Ne consegue che la sanzione in parola, benché adottabile sulla base di presupposti diversi, da diverse autorità -quella giudiziaria solo se pronuncia condanna per un reato edilizio, quella amministrativa, se accerta l’abusività dell’opera- non è mai soggetta a prescrizione, trattandosi di sanzione amministrativa, non punitiva, ma ripristinatoria.
Manifestamente non ricorre dunque la violazione del principio di uguaglianza, né del diritto di difesa, poiché chiunque detenga un’opera sprovvista di titolo edilizio potrebbe essere destinatario di un ordine di demolizione della P.A., benché sia intervenuta sentenza di prescrizione del reato edilizio, ovvero nessun procedimento penale sia mai stato avviato.

E’ pregiudiziale ad ogni altra questione stabilire se l’ordine di demolizione, impartito ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, debba essere inteso come sanzione accessiva al reato di abuso edilizio e, come tale, soggetto esso stesso a prescrizione, oppure se si tratti di sanzione non soggetta a prescrizione con conseguente sospetto di incostituzionalità degli articoli 10, 11 e 12 l. 47/1985 e degli articoli 31 e 33 del d.P.R. 380/2001, per violazione degli art. 3 e 24 Cost. che non tollerebbero un diverso trattamento e limiti al diritto di difesa, laddove la demolizione faccia seguito all’accertamento del reato e sia dunque soggetta a revoca ove il reato risulti prescritto, rispetto al caso in cui non ci sia stato un procedimento penale e la demolizione sia ingiunta senza limitazioni temporali dalla pubblica amministrazione.
Il quadro normativo è il seguente.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (che riproduce l’art. 7 l. n. 47 del 1985) per le opere eseguite in assenza di titolo edilizio o in totale difformità o con variazioni essenziali, dispone che "il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Si tratta di un atto dovuto, nell'esercizio di un potere autonomo dell’autorità giudiziaria rispetto a quello amministrativo, che non si pone in rapporto alternativo con l'ordine di demolizione, eventualmente già impartito dalla P.A., ai sensi della stessa disposizione, ma ha la sua ragion d’essere in un criterio di economia e concentrazione degli atti giuridici dipendenti dagli stessi presupposti, come stabilito dall’ art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 che prevede l’applicazione delle sanzioni amministrative con la sentenza di condanna per lo stesso fatto per il quale ne è prevista l’irrogazione (Cass., Sez. Unite, 24.07.1996, ric. Monterisi).
Ne consegue che la sanzione accessoria della demolizione irrogata dal giudice non può essere pronunciata, ovvero deve essere revocata, se la sentenza pronuncia la prescrizione del reato presupposto, ancorché accertato negli elementi costitutivi.
Tuttavia, all’estinzione del reato per prescrizione sopravvive la sanzione amministrativa della demolizione, irrogabile dalla pubblica amministrazione finché dura l’opera abusiva che con esso contrasta o non intervenga il rilascio di un titolo edilizio, perché permane fino ad allora il pregiudizio dell’interesse primario alla tutela del territorio (Consiglio di Stato, sez. IV, 16.04.2010, n. 2160), non abdicabile dallo Stato, come invece l’interesse alla punizione del colpevole, decorso un certo tempo dalla commissione del fatto di reato.
Pertanto l’autore del reato potrà opporsi alla demolizione disposta dal giudice e ottenerne la revoca, eccependo la prescrizione del reato, ma nulla potrà, per lo stesso motivo, contro la demolizione disposta ex art. 31 dalla P.A. nell’esercizio di un potere autonomo dall’accertamento del reato edilizio, che ha come presupposto l’abusività dell’opera, anche se il reato prescritto.
Ne consegue che la sanzione in parola, benché adottabile sulla base di presupposti diversi, da diverse autorità -quella giudiziaria solo se pronuncia condanna per un reato edilizio, quella amministrativa, se accerta l’abusività dell’opera- non è mai soggetta a prescrizione, trattandosi di sanzione amministrativa, non punitiva, ma ripristinatoria.
Manifestamente non ricorre dunque la violazione del principio di uguaglianza, né del diritto di difesa, poiché chiunque detenga un’opera sprovvista di titolo edilizio potrebbe essere destinatario di un ordine di demolizione della P.A., benché sia intervenuta sentenza di prescrizione del reato edilizio, ovvero nessun procedimento penale sia mai stato avviato (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 03.09.2014 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPrincipio di soccombenza con eccezioni circoscritte. Processo. I criteri sulla ripartizione dei costi.
La compensazione delle spese di giudizio deve restare un'assoluta eccezione. Il principio per cui «chi perde paga», invocato dal premier Matteo Renzi ancora venerdì nella conferenza stampa successiva all'approvazione da parte del Consiglio dei ministri del "pacchetto giustizia", è un cardine del processo civile che va semmai rafforzato.

E la Corte di Cassazione, sentenza 02.09.2014 n. 18497 della VI Sez. civile, chiarisce che al principio della soccombenza non fa eccezione neppure il caso in cui la sconfitta in giudizio non deve essere ricondotta a carenza di strategie difensive. E neanche il caso in cui l'interesse concreto realizzato dalla parte vincente è di valore assai basso e comunque inferiore al costo stesso delle attività processuali. La Corte ha così accolto il ricorso presentato da un automobilista che aveva vinto davanti al giudice di pace il giudizio di opposizione a una multa che gli era stata inflitta.
La sentenza, dopo avere ricordato che anche nelle opposizioni a sanzione amministrativa le spese sono regolate dai principi generali del Codice di procedura civile, sottolinea come la possibilità di compensazione delle spese è giustificata solo da gravi ed eccezionali ragioni, che il giudice deve, tra l'altro, espressamente indicare nella motivazione. A fare da contraltare, invece, il principio secondo il quale la soccombenza rappresenta «un'applicazione del principio di causalità, che vuole non esente da onere delle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (per la trasgressione delle norme di diritto sostanziale) abbia provocato la necessità del processo».
Gli oneri della lite cioè devono essere posti a carico della parte che, con il suo comportamento antigiuridico, l'ha originata. Il fatto poi che questi oneri possano venire aggravati da una circostanza che non deve essere imputata direttamente a deficit difensivi delle parti, non basta da sola a fondare una compensazione delle spese. E neppure, a fare cambiare idea alla Cassazione, vale il fatto che l'importo della multa in questione fosse inferiore a quello delle spese di giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2014).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo afferente al permesso di costruire, ai sensi dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi, peraltro in mancanza dell'inserimento nel permesso di costruire di una clausola che ne riservi la rideterminazione, che l'Amministrazione comunale possa, in epoca successiva, in relazione all'aggiornamento delle due componenti, provvedere ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio
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L’obbligo gravante sui Comuni di procedere alla revisione periodica dei contributi urbanistici va coniugato col rispetto del divieto di applicazione retroattiva nei confronti dei titoli edilizia già in precedenza rilasciati.

Come la giurisprudenza pacificamente riconosce, il contributo afferente al permesso di costruire, ai sensi dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi, peraltro in mancanza dell'inserimento nel permesso di costruire di una clausola che ne riservi la rideterminazione, che l'Amministrazione comunale possa, in epoca successiva, in relazione all'aggiornamento delle due componenti, provvedere ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio (v. in termini, da ultimo, CdS, IV,12/06/2014, n. 3009 e cfr. anche in tal senso tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV, 30.07.2012, n. 4320 e 27.04.2012, n. 2471, che ha in specie chiarito come la riliquidazione possa consentirsi solo quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il completamento con mutamento di destinazione d'uso delle opere assentite in origine).
E' anche illegittima nella specie, in parte qua e nei limiti dell’interesse dell’istante, la determinazione dell’Assemblea Capitolina n. 31 in data 19.07.2012, in quanto la stessa, richiamata dalla P.A. a supporto delle richieste di conguaglio, pur emanata nella data predetta, stabilisce la sua applicazione retroattiva dal 01.01.2012 venendo così ad incidere indebitamente anche sui permessi di costruire già rilasciati, in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza per cui: l’obbligo gravante sui Comuni di procedere alla revisione periodica dei contributi urbanistici va coniugato col rispetto del divieto di applicazione retroattiva nei confronti dei titoli edilizia già in precedenza rilasciati (cfr., sulla tematica, CGA n. 67/2007, TAR PA n. 559/2008 e n. 1798/2009, TAR LE; TAR CT n. 989/2012; TAR LE n. 1103/2013) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 02.09.2014 n. 9285 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIL'art. 37, c. 13, del D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato ad opera della L. n. 135 del 2012, stabilisce, in caso di appalto di lavori, che “…i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento.”.
Pertanto, trattandosi, nella specie, di appalto in prevalenza di lavori (75%) rispetto ai servizi (25%), si ritiene che sia pienamente legittima, in quanto coerente con la ratio della citata disposizione, l’offerta di ... recante l’indicazione delle quote di partecipazione delle imprese riunite all’esecuzione dei lavori, non potendo queste ex lege differenziarsi da quelle di partecipazione al raggruppamento temporaneo.
La Sezione, riguardo alla riferita questione, intende aderire all’indirizzo giurisprudenziale di tipo sostanzialistico (che è fronteggiato da altro rilevante orientamento che, interpretando diversamente la citata disposizione, perviene ad opposte conclusioni) con il quale si sostiene, sulla base della ratio del combinato disposto degli artt. 3 e 13 dell’art. 37 del D.Lgs. n. 163 del 2006 e coerentemente con il principio generale (poi formalizzato in norma positiva con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163 del 2006 e s.m. e i.) di tassatività delle cause di esclusione dalle gare pubbliche, che l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. 163 del 2006 debba essere interpretato nel senso che le quote di rispettiva partecipazione delle imprese ad un R.T.I. siano comunque desumibili dalle quote di esecuzione dei lavori indicate nell’offerta, qualora queste ultime siano sufficientemente precise ed indicate analiticamente.
Nello specifico, il Consiglio di Stato ha sostenuto –in fattispecie nella quale, viceversa, erano state indicate le quote di partecipazione al R.T.I. ma non quelle di esecuzione dell’appalto da parte delle singole imprese- che in base all’art. 37, comma 13, del d.lgs. n. 163 del 2006 “…l’indicazione delle quote partecipative delle imprese costituenti l’associazione, implica la quota parte dei lavori che eseguirà ciascun associato, dovendo sussistere esatta corrispondenza tra quota di lavori e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento.
Ne consegue che la formulazione nell’offerta da parte dell’aggiudicataria delle quote di partecipazione al raggruppamento di ciascun associato, giustificava l’ammissione alla gara, atteso l’obbligo di simmetria tra quota di lavori e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento fissato per legge. L’obbligo di corrispondenza, infatti, discende direttamente dall’art. 37, comma 13 del Codice dei contratti, norma imperativa ed idonea ad etero integrare il bando di gara, che trova applicazione anche a prescindere da un espresso richiamo ai sensi dell’art. 1339 cod. civ.. Si tratta, invero, di una dichiarazione tipica, nel senso che la legge attribuisce alla dichiarazione delle quote di partecipazione al raggruppamento un valore legale predeterminato, che è quello dell’assunzione dell’impegno da parte delle imprese di eseguire i lavori in misura corrispondente.
Peraltro, la ratio sottesa al principio di corrispondenza evincibile dall’art. 37, comma 13, del Codice, è quella di assicurare che la stazione appaltante sia posta in grado di verificare fin dalla partecipazione il possesso dei requisiti di qualificazione in capo alle singole imprese del raggruppamento, in relazione alle prestazioni che ciascuna di esse dovrà eseguire, al fine di evitare partecipazioni fittizie effettuate al solo scopo di fare conseguire l’aggiudicazione a soggetti privi delle necessarie qualificazioni.
Poiché, nel caso, era stato dimostrato il possesso dei requisiti di ammissione in relazione alla quota di partecipazione di ciascuna impresa del raggruppamento, essendo inoltre sovrabbondanti tali requisiti, la stazione appaltante era garantita del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione.”.
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L’art. 79, comma 16, del D.P.R. n. 207 del 2010 (Regolamento di esecuzione del Codice degli Appalti) espressamente stabilisce che “l’impresa qualificata nella categoria OG 11 può eseguire i lavori in ciascuna delle categorie OS3, OS 28 e OS 30 per la classifica corrispondente a quella posseduta”.
Tale disposizione -applicabile alla fattispecie in esame in quanto riferita alle qualificazioni certificate da attestazioni SOA rilasciate in applicazione del sistema delineato dallo stesso comma 16 dell'art. 79 cit.– consente alle imprese in possesso della categoria di lavorazione generale OG 11 di assorbire le suddette categorie specialistiche (in assenza della relativa qualifica) anche a prescindere da qualsiasi previsione di bando.
Di qui la legittimità della partecipazione della mandataria ... alla gara, in quanto, dalla documentazione versata in atti (v. doc. n. 36 dell’Azienda USL) risulta impresa in possesso della qualifica nella predetta categoria generale di lavorazione per classifica superiore a quella dei lavori relativi alla categoria speciale OS3 -impianti idrici e gas naturali–.
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Non è richiesto dalla normativa relativa agli appalti di lavori (vigente al momento dell’indizione della gara) che l’impresa individui, già al momento della presentazione dell’offerta e senza sapere se sarà o no affidataria dell’appalto, il nominativo dell’impresa sub-appaltatrice.
Trattasi, infatti, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale al quale la Sezione aderisce, di incombente da attuarsi nel successivo ed eventuale momento dell’esecuzione dei lavori da parte dell’impresa aggiudicataria sub appaltante come stabilisce, in via generale, l’art. 118 D.Lgs. n. 163 del 2006.
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Circa la censurata mancata indicazione, da parte di ATI aggiudicataria, dei c.d. “costi della sicurezza aziendali” nella propria offerta economica, con conseguente asserito obbligo, per la stazione appaltante, di escludere la concorrente dalla gara, al riguardo si osserva che la censura è infondata, risultando tale specifica clausola richiesta solo in riferimento agli appalti di servizi e di forniture, ai sensi di quanto dispone l’art. 87, c. 4, D.Lgs. n. 163 del 2006 e non riguardo ad appalti di lavori -quale è quello in esame- in riferimento ai quali l’amministrazione appaltante ha già predeterminato ed indicato nella lex specialis di gara l’importo di tali oneri.
Ad abundantiam si deve inoltre affermare che l’indicazione degli oneri della sicurezza da rischio specifico non era prevista in alcuna parte della lex specialis, né essa risulta riportata nei moduli predisposti dall’amministrazione per la presentazione delle offerte e della documentazione di gara, cosicché tale presunta omissione della stazione appaltante non potrebbe comunque riverberarsi sulla concorrente incolpevole mediante la misura dell’esclusione dalla gara, posto il completo affidamento riposto dalla stessa (anzi, da tutte le imprese concorrenti) sulla validità e legittimità del contenuto dei moduli di gara predisposti dall’amministrazione appaltante.

Il Tribunale ritiene che sia infondato il primo mezzo del ricorso principale, stante che l’art. 37, c. 13, del D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato ad opera della L. n. 135 del 2012, stabilisce, in caso di appalto di lavori, che “…i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento.”.
Pertanto, trattandosi, nella specie, di appalto in prevalenza di lavori (75%) rispetto ai servizi (25%), si ritiene che sia pienamente legittima, in quanto coerente con la ratio della citata disposizione, l’offerta di ATI CME recante l’indicazione delle quote di partecipazione delle imprese riunite all’esecuzione dei lavori, non potendo queste ex lege differenziarsi da quelle di partecipazione al raggruppamento temporaneo.
La Sezione, riguardo alla riferita questione, intende aderire all’indirizzo giurisprudenziale di tipo sostanzialistico (che è fronteggiato da altro rilevante orientamento che, interpretando diversamente la citata disposizione, perviene ad opposte conclusioni) con il quale si sostiene, sulla base della ratio del combinato disposto degli artt. 3 e 13 dell’art. 37 del D.Lgs. n. 163 del 2006 e coerentemente con il principio generale (poi formalizzato in norma positiva con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163 del 2006 e s.m. e i.) di tassatività delle cause di esclusione dalle gare pubbliche, che l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. 163 del 2006 debba essere interpretato nel senso che le quote di rispettiva partecipazione delle imprese ad un R.T.I. siano comunque desumibili dalle quote di esecuzione dei lavori indicate nell’offerta, qualora queste ultime siano sufficientemente precise ed indicate analiticamente (v. in termini: Cons. Stato sez. V 26/09/2013 n. 4753; sez. VI, 18/09/2013 n. 4663; sez. IV, 27.11.2010, n. 8253; sez. V, 21.03.2012, n. 1597; 14.03.2012, n. 1422; 29.03.2011, n. 1911; TAR Lazio-RM- Sez. III, 19/11/2012 n. 9505 e l’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici, con determinazione n. 4 del 10.10.2012).
Nello specifico, con la citata sentenza n. 4753 del 2013 il Consiglio di Stato sez. V, ha sostenuto –in fattispecie nella quale, viceversa, erano state indicate le quote di partecipazione al R.T.I. ma non quelle di esecuzione dell’appalto da parte delle singole imprese- che in base all’art. 37, comma 13, del d.lgs. n. 163 del 2006 “…l’indicazione delle quote partecipative delle imprese costituenti l’associazione, implica la quota parte dei lavori che eseguirà ciascun associato, dovendo sussistere esatta corrispondenza tra quota di lavori e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento. Ne consegue che la formulazione nell’offerta da parte dell’aggiudicataria delle quote di partecipazione al raggruppamento di ciascun associato, giustificava l’ammissione alla gara, atteso l’obbligo di simmetria tra quota di lavori e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento fissato per legge. L’obbligo di corrispondenza, infatti, discende direttamente dall’art. 37, comma 13 del Codice dei contratti, norma imperativa ed idonea ad etero integrare il bando di gara, che trova applicazione anche a prescindere da un espresso richiamo ai sensi dell’art. 1339 cod. civ.. Si tratta, invero, di una dichiarazione tipica, nel senso che la legge attribuisce alla dichiarazione delle quote di partecipazione al raggruppamento un valore legale predeterminato, che è quello dell’assunzione dell’impegno da parte delle imprese di eseguire i lavori in misura corrispondente. Peraltro, la ratio sottesa al principio di corrispondenza evincibile dall’art. 37, comma 13, del Codice, è quella di assicurare che la stazione appaltante sia posta in grado di verificare fin dalla partecipazione il possesso dei requisiti di qualificazione in capo alle singole imprese del raggruppamento, in relazione alle prestazioni che ciascuna di esse dovrà eseguire, al fine di evitare partecipazioni fittizie effettuate al solo scopo di fare conseguire l’aggiudicazione a soggetti privi delle necessarie qualificazioni. Poiché, nel caso, era stato dimostrato il possesso dei requisiti di ammissione in relazione alla quota di partecipazione di ciascuna impresa del raggruppamento, essendo inoltre sovrabbondanti tali requisiti, la stazione appaltante era garantita del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione.”.
Pertanto, trasferendo le considerazioni sopra esposte alla fattispecie in esame, ove non è contestato che trattasi di appalto di lavori e che le quote di esecuzione dell’appalto siano state dettagliatamente individuate e quantificate oltre che nell’offerta presentata da ATI controinteressata, anche nel’atto costitutivo di A.T.I. (con assunzione, da parte delle singole società associate dei relativi obblighi e responsabilità di legge nei confronti dell’amministrazione appaltante v. doc. n. 35 dell’azienda USL) questa Sezione ritiene legittimo l’operato dell’amministrazione sanitaria in ordine alla permanenza in gara della suddetta concorrente.
Risulta parimenti infondato anche il secondo mezzo d’impugnazione, dato che l’art. 79, comma 16, del D.P.R. n. 207 del 2010 (Regolamento di esecuzione del Codice degli Appalti) espressamente stabilisce che “l’impresa qualificata nella categoria OG 11 può eseguire i lavori in ciascuna delle categorie OS3, OS 28 e OS 30 per la classifica corrispondente a quella posseduta”. Tale disposizione -applicabile alla fattispecie in esame in quanto riferita alle qualificazioni certificate da attestazioni SOA rilasciate in applicazione del sistema delineato dallo stesso comma 16 dell'art. 79 cit.– consente alle imprese in possesso della categoria di lavorazione generale OG 11 di assorbire le suddette categorie specialistiche (in assenza della relativa qualifica) anche a prescindere da qualsiasi previsione di bando. Di qui la legittimità della partecipazione della mandataria CME alla gara, in quanto, dalla documentazione versata in atti (v. doc. n. 36 dell’Azienda USL) risulta impresa in possesso della qualifica nella predetta categoria generale di lavorazione per classifica superiore a quella dei lavori relativi alla categoria speciale OS3 -impianti idrici e gas naturali– (v. TAR Lazio RM – sez. I, 07/02/2013 n. 1357; TAR Friuli V. G., sez. I, 18/10/2012 n. 374).
Anche il terzo mezzo di impugnazione risulta infondato, stante che ATI CME legittimamente ha partecipato alla gara, non essendo richiesto dalla normativa relativa agli appalti di lavori vigente al momento dell’indizione della gara che l’impresa individui, già al momento della presentazione dell’offerta e senza sapere se sarà o no affidataria dell’appalto, il nominativo dell’impresa sub-appaltatrice (nel caso di specie CME relativamente alla categoria specialistica OS4). Trattasi, infatti, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale al quale la Sezione aderisce, di incombente da attuarsi nel successivo ed eventuale momento dell’esecuzione dei lavori da parte dell’impresa aggiudicataria sub appaltante come stabilisce, in via generale, l’art. 118 D.Lgs. n. 163 del 2006 (v. Cons. Stato sez. V, 12/03/2013 n. 3963; 19/06/2012 n. 3563).
Né può ritenersi fondata l’ulteriore censura rilevante la mancata indicazione, da parte di ATI aggiudicataria, dei c.d. “costi della sicurezza aziendali” nella propria offerta economica, con conseguente asserito obbligo, per la stazione appaltante, di escludere la concorrente dalla gara. Al riguardo si osserva che la censura è infondata, risultando tale specifica clausola richiesta solo in riferimento agli appalti di servizi e di forniture, ai sensi di quanto dispone l’art. 87, c. 4, D.Lgs. n. 163 del 2006 e non riguardo ad appalti di lavori -quale è quello in esame- in riferimento ai quali l’amministrazione appaltante ha già predeterminato ed indicato nella lex specialis di gara l’importo di tali oneri (Cons. Stato, sez. V, 09/10/2013 n. 4964). Ad abundantiam si deve inoltre affermare che l’indicazione degli oneri della sicurezza da rischio specifico non era prevista in alcuna parte della lex specialis, né essa risulta riportata nei moduli predisposti dall’amministrazione per la presentazione delle offerte e della documentazione di gara, cosicché tale presunta omissione della stazione appaltante non potrebbe comunque riverberarsi sulla concorrente incolpevole mediante la misura dell’esclusione dalla gara, posto il completo affidamento riposto dalla stessa (anzi, da tutte le imprese concorrenti) sulla validità e legittimità del contenuto dei moduli di gara predisposti dall’amministrazione appaltante (v. in termini: Cons. Stato, sez. III, 14/01/2013 n. 145; TAR Piemonte, sez. I, 22/11/2013 n. 1254).
E’ destituita di fondamento, infine, anche l’ultima censura del ricorso principale, posto che, riguardo all’appalto di lavori in esame, non risulta esistente alcuno dei casi in riferimento ai quali l’art. 86 del D.Lgs. n. 163 del 2006 impone alle stazioni appaltanti di procedere alla verifica delle offerte risultanti anormalmente basse. Nello specifico, l’appalto in questione è stato aggiudicato secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con conseguente obbligo per Azienda USL di procedere a tale verifica solo qualora l’offerta dell’aggiudicataria sia superiore ai 4/5 del punteggio massimo attribuibile sia alla parte economica sia a quella “tecnica” dell’offerta.
Nel caso in esame, dagli atti di causa risulta inequivocabilmente che l’offerta dell’aggiudicataria non ha superato tale rapporto, con conseguente infondatezza del relativo motivo di ricorso. Quanto, poi, all’argomentazione facente leva sulla sussistenza comunque, in capo alla stazione appaltante, del potere di esperire ugualmente detta verifica ai sensi dell’art. 86, c. 3, del D.Lgs. n. 163 del 2006, si deve osservare che trattasi comunque di possibilità e, dunque, di scelta facoltativa di natura tecnico–discrezionale dell’amministrazione appaltante, che non è sindacabile in quanto tale dal giudice amministrativo, se non in casi –oggettivamente qui non ricorrenti– di manifesta illogicità e/o contraddittorietà dell’operato dell’amministrazione, pena l’inammissibile introduzione, nel giudizio amministrativo di legittimità, di censure impingenti sul merito dell’azione amministrativa, con conseguente palese superamento del confine del sindacato giurisdizionale di legittimità (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 02.09.2014 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARISemafori, il giallo breve non salva dalla multa.
Chi passa col rosso paga la multa anche se il giallo resta sul semaforo per meno di quattro secondi, durata che pure risulta indicata come quella da adottare generalmente su strade urbane da una nota ad hoc del ministero dei trasporti: basta e avanza il minimo di tre secondi perché consente di arrestare il veicolo in tutta sicurezza.

È quanto emerge dalla sentenza 01.09.2014 n. 18470 della VI Sez. civile della Cassazione.
Accolto il ricorso del Comune contro la sentenza del tribunale che accoglieva l'opposizione proposta dall'automobilista, riformando la decisione del giudice di pace: decisiva risultava la produzione in giudizio dei fotogrammi inerenti la rilevazione dai quali risulta che la luce gialla del semaforo dura meno di quattro secondi, in barba alla nota 16.07.2007 n. 67906 di prot. dei Trasporti.
Passa ora la tesi del Comune lombardo la cui polizia municipale ha depositato il verbale di accertamento per l'infrazione agli articoli 41, comma 11, e 146 Cds. E ciò perché l'amministrazione locale deduce come sia lo stesso trasgressore ad ammettere di aver oltrepassato la linea d'arresto quando la luce rossa del semaforo era scattata da 190 millesimi di secondo, restando irrilevante la durata della proiezione della luce gialla della lanterna. In realtà il dato dei quattro secondi indicato dalle Infrastrutture non risulta affatto inderogabile: è il conducente del veicolo che deve adeguare la velocità del mezzo allo stato dei luoghi.
Il codice della strada, al momento, non indica una durata minima del periodo di accensione della lanterna gialla: ecco allora che la risoluzione dei Trasporti fissa a tre secondi il tempo minimo in cui la luce arancione deve restare accesa perché si tratta di un periodo sufficiente per consentire la frenata a un veicolo che va a 50 chilometri orari (lo ha calcolato il Cnr in uno studio prenormativo).
Risultato: una durata superiore deve ritenersi congrua. Rispondendo di recente a un'interrogazione parlamentare il sottosegretario all'economia Enrico Zanetti ha «aperto» all'inserimento della durata minima del semaforo giallo nel codice della strada. Parola al giudice del rinvio (articolo ItaliaOggi del 06.09.2014).

ENTI LOCALI - VARI: Il giallo dura tre secondi? La multa rimane valida. Sanzione anche se lo «stop» arriva prima di quattro secondi. Cassazione. L'automobilista che è passato con il semaforo rosso deve pagare.
Anche se il semaforo resta sul giallo solo per tre secondi, l'automobilista che passa con il rosso deve pagare la multa.
La Corte di Cassazione -Sez. VI civile- con la sentenza 01.09.2014 n. 18470, dirime un ricorso che il conducente aveva giocato sui millesimi di secondo, ottenendo successo però solo davanti al giudice pace.
In prima battuta era stato considerato convincente il racconto del guidatore, che aveva proseguito la sua marcia certo di poter contare su quattro secondi di luce arancione, quando questi gli erano stati invece decurtati, anche se di pochi centesimi di secondo, come risultato dai fotogrammi prodotti. Aveva quindi avuto poi a disposizione un tempo troppo ridotto per frenare e comunque inferiore ai quattro secondi: la durata che, in base a una nota del ministero dei Trasporti (n. 67906), dovrebbe essere adottata sulle strade urbane.
Ma la Cassazione dà ragione al Comune di Montevecchia in provincia di Lecco, spiegando che il "tesoretto" dei quattro secondi si può tagliare.
La regola che l'automobilista, benché frettoloso, deve seguire, è quella di adeguare la sua velocità allo stato dei luoghi senza contare troppo sulla durata di quattro secondi dell'esposizione della luce gialla perché questa «non costituisce un dato inderogabile».
E sul punto cita proprio la risoluzione del ministero dei Trasporti invocata dall'automobilista multato. L'atto, nell'accertare «che il codice della strada non indica una durata minima del periodo di accensione della lanterna di attivazione gialla, regola il tempo minino di durata di detta luce che non può mai essere inferiore a tre secondi».
Un'interpretazione a cui la Corte di sente di aderire anche in forza di uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche, del 2001, in base al quale i tre secondi sono il tempo di arresto di cui ha bisogno un veicolo che proceda a una velocità non superiore ai 50 chilometri. Se tre secondi sono sufficienti, una durata superiore -come quella ammessa dallo stesso ricorrente che aveva parlato di uno scarto di frazioni di secondo- deve considerarsi, secondo i giudici, senz'altro congrua.
La Cassazione rinvia dunque al Tribunale di Lecco invitandolo ad adeguarsi al principio affermato
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.201).

TRIBUTI: Aliquote e tariffe, vietato sforare termini di bilancio.
In nessun caso i comuni possono definire aliquote e tariffe con validità per l'anno in corso oltre il termine fissato per l'approvazione del proprio bilancio di previsione.

A ribadire l'inderogabilità della regola (dettata dall'art. 1, comma 169, della l 296/2006) è la sentenza 28.08.2014 n. 4409 del Consiglio di Stato (V Sez.), con la quale è stato respinto il ricorso di un comune calabrese che nel 2013 aveva deliberato sull'addizionale Irpef in data 12 dicembre, circa due settimane dopo la scadenza per il varo del preventivo (30 novembre).
L'amministrazione sosteneva di essere stata rimessa in termini dall'atto di diffida con cui il Prefetto, ai sensi dell'art. 141, comma 2, del Tuel, aveva concesso un extra time di 20 giorni per licenziare il documento contabile.
Secondo tale tesi, in tali casi, verrebbe ope legis differita anche la scadenza relativa a tutti gli atti collegati al bilancio, compresi quelli riguardanti la misura dei tributi e dei corrispettivi dei servizi a domanda individuale. I giudici di Palazzo Spada hanno respinto tali argomentazioni, affermando che la perentorietà di tale termine è desumibile dal dato testuale della disposizione di cui al citato art. 1, comma 169.
In questa prospettiva, l'autorizzazione concessa all'ente dal Prefetto ha natura eccezionale ed è finalizzata solo ad evitare le gravi conseguenze che deriverebbero dalla mancata approvazione del bilancio da parte dell'ente locale (articolo ItaliaOggi del 06.09.2014).

ENTI LOCALI: Non è rinvenibile nell’ordinamento un obbligo generalizzato e specifico di predisporre il servizio scuolabus, salva la necessità di esplorare modalità alternative che agevolino comunque lo spostamento degli studenti dalla propria abitazione alla struttura scolastica (e viceversa). Anche la corresponsione di una somma adeguata (a titolo di rimborso spese) può in questo contesto assolvere alla funzione de qua.
In linea generale l’art. 2 della L.r. 31/1980 –rubricato “Attuazione del diritto allo studio”– dispone che il diritto allo studio è tra l’altro “… assicurato mediante interventi diretti a facilitare la frequenza nelle scuole materne e dell'obbligo”. L’art. 16 regola l’attività di programmazione e statuisce che “I comuni singoli o associati deliberano, entro il mese di luglio, il piano di intervento per la attuazione del diritto allo studio, coordinando con le proprie risorse i finanziamenti regionali e tenendo conto delle indicazioni programmate e prioritarie dei distretti scolastici” (comma 1), puntualizzando di seguito (comma 2) che “Ogni Comune decide le modalità di realizzazione dei servizi e le modalità di coordinamento”.
Dal quadro normativo appena delineato deriva che l’istituzione del servizio scuolabus è la tipica modalità idonea a garantire l’effettività del diritto alla studio in assenza di collegamenti con mezzi pubblici, e tuttavia i Comuni conservano il potere discrezionale di valutare opzioni differenti in presenza di situazioni peculiari.
In buona sostanza, se è condivisibile una lettura della disposizione di cui all’art. 3 come quella illustrata dagli esponenti, la medesima tuttavia non può essere esaminata isolatamente dal quadro normativo generale che rimette all’Ente locale la platea delle scelte in materia, a condizione di realizzare l’obiettivo (ossia garantire l’attuazione del diritto allo studio): il raggiungimento di quest’ultimo esige la predisposizione di modalità organizzative adeguate (come il servizio scuolabus) ma non può essere disallineato dal canone costituzionale di buona amministrazione e dai suoi precipitati di ragionevolezza e di sostenibilità.
E’ opinione del Collegio che possano affiorare condizioni di fatto particolari suscettibili di avvalorare la bontà della decisione di sostituire il servizio scuolabus con interventi mirati, ugualmente rispondenti alla finalità di facilitare la frequenza della scuola dell’obbligo.
Pertanto non coglie nel segno la censura sollevata, poiché non è rinvenibile nell’ordinamento un obbligo generalizzato e specifico di predisporre il servizio scuolabus, salva la necessità di esplorare modalità alternative che agevolino comunque lo spostamento degli studenti dalla propria abitazione alla struttura scolastica (e viceversa). Anche la corresponsione di una somma adeguata (a titolo di rimborso spese) può in questo contesto assolvere alla funzione de qua.


... per l'annullamento DELLA DELIBERAZIONE CONSILIARE IN DATA 24/09/2013 N. 23, DI APPROVAZIONE DEFINITIVA DEL PIANO PER IL DIRITTO ALLO STUDIO PER L’ANNO SCOLASTICO 2013/2014, NELLA PARTE IN CUI ESCLUDE DAL SERVIZIO DI SCUOLABUS LA FRAZIONE DI ACQUEBONE.
...
Riferiscono i ricorrenti di abitare con le rispettive famiglie nella frazione Acquebone del Comune di Artogne (che contempla anche Montecampione e Piazze), e di essere genitori di due minori (rispettivamente di 9 e 6 anni) che frequentano la scuola primaria nel capoluogo comunale.
Con il Piano impugnato l’amministrazione ha introdotto misure per garantire il diritto allo studio relativamente alla fornitura di libri, alla mensa scolastica, alle attività complementari, alle borse di studio e al trasporto degli alunni.
Su quest’ultimo servizio, l’atto impugnato stabilisce, per gravi questioni di bilancio e antieconomicità, la soppressione del servizio scuolabus per la frazione di Acquebone, prevedendosi per i tre alunni interessati l’erogazione di un contributo pro capite di € 1.500 calcolato sul rimborso chilometrico con tabella ACI.
...
I ricorrenti censurano la deliberazione consiliare in data 24/09/2013 n. 23, di approvazione definitiva del Piano per il diritto allo studio per l’anno scolastico 2013/2014, nella parte in cui esclude dal servizio di scuolabus la frazione di Acquebone.
1. Con il primo motivo gli esponenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 34, comma 2, della Costituzione laddove afferma che l’istruzione è obbligatoria e gratuita per almeno otto anni, nonché l’inosservanza degli artt. 1, 2, 3, 10 e 16 della L.r. 31/1980, che attribuiscono ai Comuni l’esercizio delle funzioni per raggiungere l’obiettivo di assicurare il diritto allo studio dei minori. Sottolineano i ricorrenti che:
• l’art. 21, comma 3, della L. 42/2009 individua l’istruzione pubblica come funzione fondamentale dei Comuni;
• l’art. 14, commi 26 e 27, del D.L. 78/2010 assegna ai Comuni l’esercizio delle funzioni fondamentali tra cui “organizzazione e gestione dei servizi scolastici”;
• l’art. 3 della L.r. 31/1980 dispone che “I Comuni … organizzano servizi speciali di trasporto scolastico o assicurano l’accesso degli studenti ai servizi ordinari mediante tariffe differenziate o altre agevolazioni, in modo da garantire e razionalizzare la frequenza scolastica in ogni parte del territorio regionale”;
• il servizio di trasporto è obbligatorio per assicurare il godimento del diritto allo studio e rendere la scuola accessibile anche a chi abita a distanza;
• la frazione Acquebone dista 5 km di strada di montagna dalla scuola e non dispone di un servizio di linea;
• il Comune vanta una discrezionalità nella concreta disciplina del servizio ma non può giungere a eliminarlo invocando motivazioni economiche, perché lo garantisce ovunque tranne per la sola frazione di residenza dei ricorrenti (di circa 50 abitanti, per cui non si tratta di case isolate).
La prospettazione non merita condivisione.
1.1 La norma invocata affida ai Comuni –incontestabilmente titolari delle funzioni di assistenza scolastica– il compito di “garantire e razionalizzare la frequenza scolastica in ogni parte del territorio regionale”, attraverso la seguente modalità alternativa:
- organizzazione di servizi speciali di trasporto scolastico (comunemente erogati mediante la predisposizione di scuolabus);
- previsione di tariffe differenziate o di altre agevolazioni che assicuri l'accesso degli studenti ai servizi ordinari.
Ad avviso degli esponenti la formulazione della disposizione è chiara nell’escludere una terza opzione, poiché introduce l’obbligo cogente per il Comune di istituire in ogni caso (ove non sia già presente un servizio di linea) un mezzo di trasporto a favore dell’utenza della scuola dell’obbligo.
Detto ordine di idee non merita condivisione.
1.2 In linea generale l’art. 2 della L.r. 31/1980 –rubricato “Attuazione del diritto allo studio”– dispone che il diritto allo studio è tra l’altro “… assicurato mediante interventi diretti a facilitare la frequenza nelle scuole materne e dell'obbligo”. L’art. 16 regola l’attività di programmazione e statuisce che “I comuni singoli o associati deliberano, entro il mese di luglio, il piano di intervento per la attuazione del diritto allo studio, coordinando con le proprie risorse i finanziamenti regionali e tenendo conto delle indicazioni programmate e prioritarie dei distretti scolastici” (comma 1), puntualizzando di seguito (comma 2) che “Ogni Comune decide le modalità di realizzazione dei servizi e le modalità di coordinamento”.
1.3 Dal quadro normativo appena delineato deriva che l’istituzione del servizio scuolabus è la tipica modalità idonea a garantire l’effettività del diritto alla studio in assenza di collegamenti con mezzi pubblici, e tuttavia i Comuni conservano il potere discrezionale di valutare opzioni differenti in presenza di situazioni peculiari.
In buona sostanza, se è condivisibile una lettura della disposizione di cui all’art. 3 come quella illustrata dagli esponenti, la medesima tuttavia non può essere esaminata isolatamente dal quadro normativo generale che rimette all’Ente locale la platea delle scelte in materia, a condizione di realizzare l’obiettivo (ossia garantire l’attuazione del diritto allo studio): il raggiungimento di quest’ultimo esige la predisposizione di modalità organizzative adeguate (come il servizio scuolabus) ma non può essere disallineato dal canone costituzionale di buona amministrazione e dai suoi precipitati di ragionevolezza e di sostenibilità.
1.4 E’ opinione del Collegio che possano affiorare condizioni di fatto particolari suscettibili di avvalorare la bontà della decisione di sostituire il servizio scuolabus con interventi mirati, ugualmente rispondenti alla finalità di facilitare la frequenza della scuola dell’obbligo.
Pertanto non coglie nel segno la censura sollevata, poiché non è rinvenibile nell’ordinamento un obbligo generalizzato e specifico di predisporre il servizio scuolabus, salva la necessità di esplorare modalità alternative che agevolino comunque lo spostamento degli studenti dalla propria abitazione alla struttura scolastica (e viceversa). Anche la corresponsione di una somma adeguata (a titolo di rimborso spese) può in questo contesto assolvere alla funzione de qua.
2. La correttezza della scelta amministrativa deve tuttavia essere vagliata trasferendo l’indagine sul secondo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente si duole dell’eccesso di potere per disparità di trattamento, difetto di istruttoria e contraddittorietà, in quanto viene escluso il solo nucleo abitato di Acquebone con i suoi alunni, quando lo stesso sacrificio non è imposto alle altre frazioni.
Sostengono i Sigg.ri A. e R. che l’impugnata deliberazione non motiva la grave scelta, se non facendo generico riferimento al bilancio e a profili di antieconomicità, quando il servizio era sempre stato assicurato fino ad oggi.
Puntualizzano che il contributo di € 1.500 non può sostituire l’obbligatorio servizio e che difettano le comprovate e reali oggettive difficoltà nella predisposizione del trasporto; ravvisano una carente istruttoria sulla situazione delle tre famiglie interessate (se possono svolgere in autonomia il trasporto, se dispongono di autovetture e del tempo necessario per accompagnare e recuperare i figli).
L’articolata doglianza si rivela priva di fondamento.
L’amministrazione ha dato conto dell’avvenuta soppressione del servizio presso l’abitato di Artogne, salva la sua sostituzione solo per alcuni mesi con il servizio di “piedi-bus”, mentre è stato mantenuto per la frazione Piazze ove risiedono ben 34 alunni. Come già sottolineato nell’esposizione in fatto, la scelta contestata in questa sede ha prodotto un risparmio di circa 27.000 € annui tenuto conto del numero limitato di utenti (3) presso la frazione Acquebone.
A fronte di queste circostanze fattuali, la decisione dell’amministrazione risulta immune da incongruenze e da vizi di irragionevolezza, anche alla luce di risorse finanziarie pubbliche sempre più limitate e circondate da numerosi vincoli nell’erogazione della spesa. Se l’analisi dell’art. 3 della L.r. 31/1980 è già stata condotta al precedente paragrafo 1, rileva il Collegio che il Comune ha dato conto del fatto che entrambi i genitori dei minori sarebbero dotati di patente di guida e di autovettura e devono già accedere (per motivi lavorativi) all’abitato di Artogne; inoltre, l’amministrazione ha acquisito dal dirigente scolastico la possibilità di adattare gli orari con le esigenze lavorative della famiglia, tramite accesso anticipato e uscita posticipata e sorveglianza assicurata dal personale scolastico.
Ebbene, il mancato riscontro documentale di dette asserzioni non è sufficiente a metterne in dubbio la veridicità, tenuto conto dell’agevole possibilità di offrire la prova contraria rappresentando la reale condizione lavorativa e la dotazione dei mezzi di trasporto di proprietà ovvero verificando la dedotta intesa con un semplice colloquio con gli organi di direzione della scuola. I ricorrenti non hanno evidenziato una diversa realtà fattuale né hanno ricostruito la vicenda in maniera differente.
In conclusione il gravame è infondato e deve essere respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.08.2014 n. 918 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIOConcessioni di immobili con una gara pubblica.
I codicilli bloccano le attività economiche del Comune di Milano? Si cambino i codicilli, ma non si chieda ai giudici di non far rispettare le norme.

La vicenda della Galleria Vittorio Emanuele di Milano offre l'occasione per un dibattito sui principi in gioco e sul ruolo dei magistrati amministrativi: secondo un'interpretazione dei fatti, gli investimenti dei privati sarebbero stati bloccati dalla «cavillosa miopia» dei giudici amministrativi che sebbene siano solo un "granello" avrebbero il potere di bloccare «sempre gli ingranaggi della modernizzazione di un paese già troppo in ritardo».
Ma quali sono le norme che vengono definite "codicilli"? Parliamo della libertà di iniziativa economica privata e dei principi di concorrenza e di parità di trattamento e divieto di discriminazione dei privati da parte delle pubbliche amministrazioni. Si tratta di principi che dovrebbero interessare chi reclama certezze per investire nel nostro Paese. Ma parliamo anche dell'interesse economico del Comune di Milano e dei milanesi.
Davvero la soluzione migliore è "mai più" Tar?
Il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, è accusato di avere vanificato un'importante iniziativa del comune riguardante la Galleria Vittorio Emanuele con la sentenza 22.08.2014 n. 2218 che ha annullato la delibera con la quale veniva disciplinato ex novo il regime concessorio degli immobili comunali compresi nella Galleria e destinati a un uso commerciale: i privati già concessionari avrebbero potuto cedere l'azienda gestita in tali immobili a un altro operatore a condizione che il nuovo concessionario versi al Comune un canone doppio.
Il Tribunale ha ritenuto che il Comune debba garantire la libertà di iniziativa economica degli operatori non coinvolti nella trattativa diretta, per rispetto della par condicio, attraverso l'indizione di una gara pubblica. Inoltre il prezzo da versare per la nuova concessione dev'essere quello di mercato. Cosa non accaduta in questa circostanza. Mentre, per il rilascio delle concessioni pubbliche, le valutazioni cui l'amministrazione pubblica è chiamata sono complesse, devono tener conto primariamente dell'interesse generale.
Anche nella logica del profitto per le casse pubbliche, la scelta perseguita non sembra avere prodotto lo stesso risultato che sarebbe stato conseguibile con la gara pubblica, visti i prezzi pagati dai subentranti in favore degli originari concessionari.
Le cifre pagate dai subentranti, grandi nomi del made in Italy, agli originari concessionari sono da capogiro (si parla di decine di milioni di euro). Invece, i canoni versati al comune, sebbene doppi rispetto al passato, sono solo una piccola frazione di questi. Sicuri che sia un affare per il comune e per i cittadini? E con una gara, rispettando le logiche di mercato, non si sarebbero ottenuti maggiori introiti?
Queste le considerazioni di buonsenso, invocate anche dai commentatori del Sole 24 Ore, poi ci sono i vincoli del diritto. Finché l'Italia resterà nell'Unione Europea noi giudici saremo chiamati all'applicazione diretta della normativa europea. L'interesse dell'amministrazione alla massimizzazione delle entrate finanziarie è garantito dal mercato e dalla libertà di concorrenza e non da violazioni dei principi del diritto comunitario.
L'utilità economica legittimamente ottenibile dalla gestione degli immobili pubblici è quella che emerge dal mercato e non quella che il Comune pretende di stabilire unilateralmente e al di fuori di ogni prospettiva di ragionevolezza. Non si tratta di osservare meri formalismi ma di rispettare le leggi
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2014).

APPALTIRevocato l'appalto all'evasore. Tar Lombardia.
Appalto pubblico revocato e addio cauzione provvisoria per l'evasore fiscale. Rischia grosso il legale rappresentante della società che partecipa alla gara per gestire un servizio pubblico tacendo i suoi precedenti con la giustizia per reati tributari. È infatti legittima la decisione dell'amministrazione che «si rimangia» l'attribuzione dei lavori perché il fatto che il titolare sia pregiudicato incide sui requisiti per la moralità professionale. E ciò soprattutto se la «macchia» riguarda i rapporto con l'Erario. Scatta anche la segnalazione alla procura della Repubblica ai fini di un eventuale reato di falso per la domanda di partecipazione alla procedura pubblica.

È quanto emerge dalla sentenza 19.08.2014 n. 2208, pubblicata dalla IV Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Niente da fare per il titolare di una carrozzeria che aveva ottenuto il via libera per gestire la manutenzione di mezzi e veicoli del comune di Milano: la violazione delle norme sulla repressione dell'evasione fiscale pesa come un macigno sui requisiti per poter lavorare con la p.a. La fedina penale dell'artigiano è sporca proprio per l'evasione dell'Iva, delle ritenute certificate e spunta anche un giro di fatture false.
Ce n'è d'avanzo per ritenere fondata la valutazione di incidenza della stazione appaltante. E ciò anche se uno dei reati fiscali sarebbe caduto sotto la scure della Consulta con la sentenza 80/2014: la condanna doveva ugualmente essere indicata al momento della partecipazione al bando, laddove non è chi partecipa alla gara a dover fare un filtro dei suoi precedenti penali, ma l'amministrazione a dover giudicare quali sono rilevanti ai fini dell'aggiudicazione dell'appalto.
La revoca dell'attribuzione in tali casi non è automatica: la stazione appaltante ha però valutato in concreto la gravità delle condotte penalmente rilevanti del titolare dell'azienda; sulla decisione pesano l'entità delle pene inflitte e la mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna sul casellario giudiziale (articolo ItaliaOggi del 09.09.2014).

APPALTIAppalti da rifare. Ricalcolo per ribassi e anomalie. Dal Tar Puglia la prima sentenza sul decreto p.a..
Le novità introdotte dal decreto p.a. non incidono giurisprudenza amministrativa formatasi sull'ipotesi in cui è annullata l'aggiudicazione della gara: la stazione appaltante è comunque tenuta a rideterminare le medie dei ribassi e la soglia di anomalia in tutte le procedure di affidamento indette prima del 25.08.2014, data di entrata in vigore del decreto dell'entrata del decreto legge 90/2014.

Lo precisa la sentenza 06.08.2014 n. 1001, pubblicata dalla II Sez. del TAR Puglia-Bari.
Senza senso. Niente da fare, per la parte privata non risulta decisiva la riforma contenuta nel decreto per la semplificazione amministrativa: è dichiarato inammissibile il ricorso contro il Comune.
Dalla novella infatti arriva una conferma all'indirizzo interpretativo seguito dai giudici amministrativi prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del dl p.a. Se la novella avesse cambiato qualcosa, si legge nella sentenza, non si spiegherebbe come mai il legislatore abbia ritenuto di dover introdurre una norma ad hoc volta a imporre questo modus operandi: «Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte».
Insomma: l'intervento del legislatore non avrebbe senso se già oggi non fosse necessaria la rideterminazione della soglia di anomalia dopo l'annullamento da parte del giudice amministrativo del provvedimento di aggiudicazione.
Allora per ora. Nel caso di specie, poi, l'unico motivo del ricorso è l'illegittimità dell'aggiudicazione per mancanza dei requisiti di partecipazione in capo alla prima classificata perché si è servita di un contratto di avvalimento generico. La sentenza di annullamento determinerebbe il venir meno ex tunc dell'aggiudicazione medesima per il fatto che l'aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa per mancanza dei requisiti di partecipazione: è come se l'offerta dell'aggiudicataria non fosse mai pervenuta.
Prova di resistenza. I giudici spiegano che al massimo si sarebbe potuta superare l'eccezione di inammissibilità per difetto di interesse, se il ricorrente avesse fatto valere nel ricorso anche solo in via subordinata l'interesse strumentale alla riedizione dell'intera gara.
Ma l'impresa avrebbe dovuto dimostrare, attraverso la cosiddetta prova di resistenza, la sussistenza dell'interesse diretto, concreto e attuale a ottenere la pronuncia del tribunale amministrativo, che ha fatto valere solo ed esclusivamente l'interesse principale all'aggiudicazione della gara. Spese di giudizio compensate per le controversie esistenti sulla questione (articolo ItaliaOggi del 03.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIIl ricorrente, per dimostrare di avere un interesse effettivo e concreto, deve provare che sarebbe riuscito a collocarsi al primo posto nella graduatoria finale, e l'eventuale violazione della procedura deve concretarsi in una lesione effettiva della posizione del ricorrente stesso.
Il ricorso contro l’aggiudicazione è inammissibile quando, dall’esperimento della c.d. prova di resistenza, risulti che il ricorrente non sarebbe comunque risultato aggiudicatario neppure in caso di accoglimento del gravame.
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Il Collegio ritiene che per tutte le procedure di affidamento indette prima della data di entrata in vigore del D.L. 24.06.2014, n. 90 (25.06.2014) debba continuare ad essere applicato l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, la stazione appaltante debba procedere alla rideterminazione delle medie dei ribassi e della soglia di anomalia.
In particolare, quando l’unico motivo del ricorso è l’illegittimità dell’aggiudicazione per mancanza dei requisiti di partecipazione in capo alla prima classificata perché si è servita di un contratto di avvalimento generico. Infatti, la sentenza di annullamento determinerebbe il venir meno ex tunc dell’aggiudicazione medesima per il fatto che l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa per mancanza dei requisiti di partecipazione. E’ come se l’offerta dell’aggiudicataria non fosse mai pervenuta. Pertanto, anche dal punto di vista logico, la stazione appaltante dovrebbe procedere alla rideterminazione della media dei ribassi e del calcolo della soglia di anomalia. L’art. 39 del D.L. 24.06.2014, n. 90 pare confermare questo indirizzo.
Infatti, se già oggi non fosse necessaria la rideterminazione della soglia di anomalia dopo l’annullamento da parte del giudice amministrativo del provvedimento di aggiudicazione, non si spiegherebbe come mai il legislatore abbia ritenuto di dover introdurre una norma ad hoc volta ad imporre questo modus operandi “Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte.

La ricorrente non coglie nel segno.
Preliminarmente il Collegio ritiene opportuno evidenziare quali sono i principi sulla cui base verrà adottata la decisione del giudizio de quo:
a) il principio secondo cui “il ricorrente, per dimostrare di avere un interesse effettivo e concreto, deve provare che sarebbe riuscito a collocarsi al primo posto nella graduatoria finale, e l'eventuale violazione della procedura deve concretarsi in una lesione effettiva della posizione del ricorrente stesso…” (Cons. Stato, sez. III, 05.02.2014, n. 571. In tema di condizioni dell’azione e, in particolare, di interesse ad agire di recente Cons. Stato, sez. V, 02.04.2014, n. 1572);
b) il principio, vigente nel processo in materia di appalti pubblici, secondo cui il ricorso contro l’aggiudicazione è inammissibile quando, dall’esperimento della c.d. prova di resistenza, risulti che il ricorrente non sarebbe comunque risultato aggiudicatario neppure in caso di accoglimento del gravame (Cons. Stato, sez. V, 15.10.2012, n. 5276; Cons. Stato, sez. V, 29.03.2011, n. 1928 e Cons. Stato, sez. VI, 10.09.2008, n. 4326).
Fatta questa breve premessa, questo Collegio, in conformità a quanto disposto dall’art. 39, comma 3, del D.L. 24.06.2014, n. 90 “Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano alle procedure di affidamento indette successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”, ritiene che per tutte le procedure di affidamento indette prima della data di entrata in vigore del D.L. 24.06.2014, n. 90 (25.06.2014) debba continuare ad essere applicato l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, la stazione appaltante debba procedere alla rideterminazione delle medie dei ribassi e della soglia di anomalia. In particolare, come nel caso di specie, quando l’unico motivo del ricorso è l’illegittimità dell’aggiudicazione per mancanza dei requisiti di partecipazione in capo alla prima classificata perché si è servita di un contratto di avvalimento generico. Infatti, la sentenza di annullamento determinerebbe il venir meno ex tunc dell’aggiudicazione medesima per il fatto che l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa per mancanza dei requisiti di partecipazione. E’ come se l’offerta dell’aggiudicataria non fosse mai pervenuta. Pertanto, anche dal punto di vista logico, la stazione appaltante dovrebbe procedere alla rideterminazione della media dei ribassi e del calcolo della soglia di anomalia. L’art. 39 del D.L. 24.06.2014, n. 90 pare confermare questo indirizzo.
Infatti, se già oggi non fosse necessaria la rideterminazione della soglia di anomalia dopo l’annullamento da parte del giudice amministrativo del provvedimento di aggiudicazione, non si spiegherebbe come mai il legislatore abbia ritenuto di dover introdurre una norma ad hoc volta ad imporre questo modus operandi “Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte”.
Per completezza, il Collegio precisa che, tutt’al più, si sarebbe potuta superare l’eccezione di inammissibilità per difetto di interesse, se il ricorrente avesse fatto valere nel ricorso (anche solo in via subordinata) l’interesse strumentale alla riedizione dell’intera gara. Infatti, secondo una parte della giurisprudenza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. V, 15.10.2010, n. 7515 e Cons. Stato, sez. V, 21.02.2011, n. 1082) costituisce bene della vita meritevole di protezione giurisdizionale anche la chance di aggiudicazione derivante dalla partecipazione alla nuova procedura, sempre che l'impresa abbia differenziato, con la domanda di partecipazione, la propria posizione rispetto al quisque de populo e che non sussistano preclusioni soggettive alla partecipazione alla nuova procedura.
Tale assunto, peraltro, non è pacifico in giurisprudenza. Recentemente, il Consiglio di Stato ha precisato che anche nel caso in cui si faccia valere (di norma in via subordinata) l’interesse strumentale alla riedizione della gara, debbono comunque sussistere, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l'"utilità richiesta": “…non si può prescindere dalla verifica della cd. prova di resistenza, con riferimento alla posizione della parte ricorrente rispetto alla procedura selettiva le cui operazioni sono prospettate come illegittime, nel senso che è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso contro un provvedimento qualora, dall'esperimento per l'appunto della cd. prova di resistenza e in esito a una verifica a priori, risulti con certezza che il ricorrente non avrebbe comunque ottenuto il bene della vita perseguito nel caso di accoglimento del ricorso. Occorre avere riguardo, cioè, alla possibilità concreta di vedere soddisfatta la pretesa sostanziale fatta valere” (Cons. Stato, sez. III, 05.02.2014, n. 571).
Il ricorrente, in ogni caso, nel ricorso di cui in epigrafe, ha fatto valere solo ed esclusivamente l’interesse principale all’aggiudicazione della gara. E’ questo l’unico bene della vita a cui quest’ultimo processualmente aspira. Ne consegue che, nel caso in esame, in presenza di una gara indetta con il metodo del massimo ribasso ed esclusione automatica delle offerte, nonché di una simulazione prodotta dalla controinteressata dalla quale emergerebbe che comunque l’impresa Coletto Michele non sarebbe risultata (a seguito dell’esclusione della controinteressata) aggiudicataria, era onere dello stesso ricorrente dimostrare, attraverso la c.d. prova di resistenza, la sussistenza dell’interesse diretto, concreto e attuale ad una pronuncia giurisprudenziale (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 06.08.2014 n. 1001 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAManca l'antiacustica, l'indennizzo cresce. Innovativo principio del tribunale di Brescia.
I proprietari di immobili se subiscono un danno per non corretta esecuzione dei lavori di ristrutturazione del proprio immobile per renderlo in regola con le disposizioni antiacustiche, possono vedersi riconosciuto un indennizzo pari non più al 20% del valore dell'immobile bensì del 30%.

È questo l'importante e innovativo principio stabilito dalla sentenza 05.08.2014 n. 2664 con la quale il TRIBUNALE di Brescia (pres. est. Magnoli) ha condannato il costruttore edile e il progettista-direttore lavori a risarcire i proprietari di un immobile ristrutturato ma senza rispettare i requisiti acustico-passivi prescritti dalla legge.
La sentenza in oggetto costituisce la prima sentenza dopo l'intervento della Corte costituzionale n. 103 del 29.05.2013 che aveva disposto l'illegittimità della legge 96/2010 nella parte in cui sanava gli immobili edificati prima dell'entrata in vigore della legge n. 88/2009 (comunitaria 2008) non in linea con i parametri di isolamento acustico.
La sentenza del tribunale di Brescia riguarda il caso di proprietari di un appartamento in condominio che avevano lamentato disturbi provenienti dagli appartamenti confinanti con il loro e avevano incaricato un tecnico per verificare l'effettiva insonorizzazione dell'immobile. Dall'analisi era emerso che il fabbricato in oggetto risultava essere stato ristrutturato senza alcun rispetto dei parametri acustico-passivi prescritti dal dpcm 05/12/1997.
Da qui la citazione in giudizio dell'impresa costruttrice la quale, a sua volta, aveva chiamato in giudizio in manleva il progettista/direttore lavori nonché l'originario committente. In corso di causa, la Ctu aveva confermato integralmente i vizi denunciati dagli attori e quantificato il risarcimento spettante agli attori nella misura del 30% del valore d'acquisto dell'immobile (mentre le pronunce in materia prima dell'intervento della Corte costituzionale prevedevano risarcimenti sull'ordine del 20%), oltre al rimborso dei canoni pagati per l'affitto di altro appartamento e alle spese necessarie per l'insonorizzazione dell'appartamento viziato.
Da qui l'accoglimento della domanda e il risarcimento del danno nella misura maggiore (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.09.2014).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 della legge 28.01.1977, n. 10 prevede che: “Il contributo di cui al precedente art. 3 non è dovuto: .. f) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Alla luce della lettera della norma sopra richiamata, è evidente che anche ove l’edificio fosse stato, per ipotesi, condonato come luogo di culto, come pretende la ricorrente, esso non avrebbe potuto beneficiare dell’esenzione dal contributo ai sensi dell’art. 9 della legge 28.01.1977, n. 10, in quanto tale trasformazione non sarebbe certo avvenuta in attuazione dello strumento urbanistico generale (che invece destina l'area medesima a "verde pubblico di interesse generale"), né in attuazione di una variante al P.R.G., né in conformità di uno strumento attuativo che localizzasse sull’area e/o destinasse l’edificio preesistente sull’area ad opera di urbanizzazione secondaria, come luogo di culto.
Per tale ragione la concessione in sanatoria, anche ove fosse stata rilasciata per una destinazione a luogo di culto, non poteva essere rilasciata gratuitamente, come invece la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova (ricorrente) pretende che le venga riconosciuto da questo Tribunale.

In data 30.09.1986 il sig. E.G. chiedeva la sanatoria per le opere abusive, eseguite sull'immobile di sua proprietà sito in Padova, vicolo Portenari 2, consistenti in: “A) Copertura di spazi aperti e chiusura laterale per il ricavo di locale antistante a servizi igienici ed ampliamento locale ripostiglio; B) Sistemazione di vecchio stabile ad uso industriale con conseguente mutamento di destinazione d'uso (riunioni a carattere religioso); C) Ristrutturazione servizio igienico esistente a servizio delle opere di cui alla lettera B”.
Le opere abusive si dichiaravano ultimate alla data del 30.04.1983.
In data 13.01.1997 il dirigente del Settore Edilizia Privata concedeva la sanatoria ai sensi dell’art. 31 L. n. 47/1985 sull'immobile a destinazione commerciale, e richiedeva il pagamento degli oneri concessori per un totale di Lire 7.463.243, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 10/1977.
La proprietà dell’ immobile in esame veniva trasferita dal sig. E.G. alla Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova con atto di vendita in data 19.06.1992.
Con un primo ricorso iscritto al n. 354/1997 del ruolo generale, la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova ha impugnato il provvedimento del 24.10.1996 nella parte in cui aveva disposto il pagamento degli oneri di urbanizzazione, ed ha chiesto la condanna del Comune alla restituzione di quanto versato, con gli interessi di legge.
A fondamento del gravame la ricorrente ha dedotto la violazione di legge, ed in particolare, dell’ art. 9, lett. f), della legge 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 76 della L.R. 26.06.1985 n. 61, nonché l’eccesso di potere per difetto di presupposto.
Si sostiene che essendo qualificabile la costruzione de quo quale opera di urbanizzazione secondaria, la concessione in sanatoria non poteva essere soggetta al pagamento di alcun onere o contributo, e pertanto illegittimamente il Comune di Padova aveva imposto il pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Con successivo ricorso iscritto al n. 861/1997 del ruolo generale la medesima Congregazione ha impugnato la concessione a sanatoria del 13.01.1997, nella parte in cui aveva sanato l'immobile della ricorrente con destinazione d'uso "commerciale", anziché con destinazione a "culto - opere religiose" richiesta con l'istanza di condono edilizio.
A fondamento di tale impugnazione la ricorrente ha lamentato la violazione degli artt. 31 e 37 della L. n. 47/1985 e dell’art. 76 della L.R. n. 61/1985, nonché l’eccesso di potere per illogicità e difetto di presupposto. Ciò in quanto, a fronte di una domanda di condono presentata per sanare la destinazione d’uso a luogo di culto, il Comune aveva invece sanato gli abusi edilizi per una destinazione commerciale non richiesta né di fatto esistente, con la conseguenza di ritenere dovuti oneri di urbanizzazione che invece non potevano essere richiesti ove fosse stata sanata la destinazione a luogo di culto.
...
La questione principale sottesa ad entrambi i ricorsi è costituita dall’assoggettamento o meno delle opere oggetto di sanatoria al pagamento degli oneri di urbanizzazione, dei quali, con il primo ricorso se ne chiede direttamente la restituzione, mentre, con il secondo ricorso s’intende ottenere, propedeuticamente, l’annullamento della sanatoria della destinazione d’uso commerciale, dovendo l’immobile essere sanato come luogo di culto, ed in quanto tale non assoggettabile ad oneri di urbanizzazione.
Sul punto l’art. 9 della legge 28.01.1977, n. 10 prevede che: “Il contributo di cui al precedente art. 3 non è dovuto: .. f) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Nel caso di specie è indubbio che le opere oggetto di sanatoria sono state realizzate dal privato allora proprietario dell’immobile, per proprio conto, e non da un “ente istituzionalmente competente”.
Ed è pure evidente che l’immobile in questione, sito in vicolo Portenari 2, nel Comune di Padova, di proprietà privata ed avente una destinazione industriale, non costituiva originariamente un’opera di urbanizzazione secondaria.
Piuttosto, il sig. E.G., con la domanda di condono del 26.09.1986, ha chiesto, oltre alla sanatoria di alcune opere di ristrutturazione edilizia realizzate sull’edificio in questione, anche la sanatoria del mutamento di destinazione d’uso di questo, in quanto “usato per riunioni religiose”.
Ciò premesso, alla luce della lettera della norma sopra richiamata, è evidente che anche ove l’edificio fosse stato, per ipotesi, condonato come luogo di culto, come pretende la ricorrente, esso non avrebbe potuto beneficiare dell’esenzione dal contributo ai sensi dell’art. 9 della legge 28.01.1977, n. 10, in quanto tale trasformazione non sarebbe certo avvenuta in attuazione dello strumento urbanistico generale (che invece destina l'area medesima a "verde pubblico di interesse generale"), né in attuazione di una variante al P.R.G., né in conformità di uno strumento attuativo che localizzasse sull’area e/o destinasse l’edificio preesistente sull’area ad opera di urbanizzazione secondaria, come luogo di culto.
Per tale ragione la concessione in sanatoria, anche ove fosse stata rilasciata per una destinazione a luogo di culto, non poteva essere rilasciata gratuitamente, come invece la Congregazione ricorrente pretende che le venga riconosciuto da questo Tribunale.
A ciò si aggiunga che comunque l’immobile in questione non poteva essere sanato con destinazione a “culto-opere religiose”, in quanto esso, all’epoca della proposizione della domanda di condono (30.09.1986), era di proprietà di un privato cittadino che dichiarava a tal fine che tale edificio veniva usato per “riunioni di carattere religioso”, senza altra specificazione o indicazione.
Per cui -atteso peraltro che la Congregazione dei Testimoni di Geova è stata riconosciuta dallo Stato con D.P.R. 31.10.1986, successivo alla data di ultimazione delle opere e alla domanda di condono- il Comune di Padova ha correttamente ritenuto di classificare tale destinazione come commerciale, comprendente, ai sensi dell’art. 5 del disciplinare oneri allora vigente, le attività culturali e sociali (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 04.08.2014 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOContatori dell'acqua da installare a maggioranza. Risparmi. Fra regole e sentenze.
In condominio, fatta salva la diversa disciplina convenzionale, la ripartizione delle spese per il consumo dell'acqua –in mancanza di contatori di sottrazione installati in ogni singola unità immobiliare– avviene in base al valore millesimale dell'appartamento, anche se non è affatto remota la richiesta di alcuni condòmini di voler addebitare queste spese ai soli occupanti di ogni appartamento (in questo senso, la recentissima sentenza 01.08.2014 n. 17557 della Corte di Cassazione).
Sempre la Corte di cassazione con la sentenza 16.05.2014 n. 10895 ha dichiarato che l'installazione dei contatori di ripartizione del consumo dell'acqua in ogni singola unità immobiliare può essere deliberata dall'assemblea di condominio, anche se la ripartizione del servizio è disciplinata diversamente dal regolamento contrattuale.
Cerchiamo di capire come ha fatto la Corte a pervenire a questa decisione, che a una lettura poco attenta può sembrare in contrasto con quanto sino ad ora affermato. Già nel 1994 la legge n. 36, recante «Disposizioni in materia di risorse idriche», all'articolo 5 prevedeva che «il risparmio della risorsa idrica è conseguito, in particolare, mediante la progressiva estensione delle seguenti misure: (...) d) installazione di contatori in ogni singola unità abitativa». Nel 1996 interviene il Dpcm del 4 marzo, successivamente richiamato dal Dlgs 152/2006 (articolo 144, lettera f), che impone alle Regioni di adottare norme per l'obbligo di installare in ogni singola unità abitativa dei contatori di ripartizione del consumo dell'acqua.
Il legislatore guarda dunque con particolare favore l'installazione di contatori per il consumo dell'acqua in ogni singola unità abitativa (nonché di contatori differenziati per le attività produttive e del settore terziario esercitate nel contesto urbano) in quanto volta a razionalizzare i consumi e ad eliminare gli sprechi e quindi a conseguire, in una prospettiva di tutela ambientale, il risparmio della risorsa idrica.
È quanto afferma la sentenza 17557/2014 citata prima, nel decidere in relazione al criterio da applicarsi per la ripartizione delle spese di consumo dell'acqua in condominio, ed è il principio a cui si rifà la sentenza 10859/2014 quando dichiara che rientra nelle attribuzioni dell'assemblea di condominio la gestione delle cose e dei servizi comuni «in modo dinamico», nel senso, cioè, di un loro adattamento nel tempo al fine di una più razionale ed efficiente utilizzazione dei servizi stessi, con eventuale dismissione anche di alcuni beni comuni, e ciò anche se il servizio è disciplinato dal regolamento di natura contrattuale.
Si aggiunge, poi, che le norme riguardanti le modalità d'uso della cosa comune e, in generale, le modalità d'uso e il funzionamento dei servizi condominiali, hanno natura tipicamente regolamentare in base all'articolo 1138 del Codice civile e, come tali, demandati all'assemblea dall'articolo 1135 del Codice civile. La natura contrattuale, invece, attiene a quelle norme che incidono nella sfera dei diritti soggettivi e degli obblighi di ciascun condomino.
Alla luce di tutto questo, quindi, l'assemblea può deliberare la dismissione dell'impianto comune a favore della installazione dei contatori di sottrazione in ogni appartamento, anche se il regolamento contrattuale disponga diversamente.
Per quanto riguarda le maggioranze, la mera sostituzione dell'impianto idrico esistente non costituisce una innovazione ai sensi dell'articolo 1120 del Codice civile ma solo una modifica diretta al miglior godimento e, pertanto (si veda anche il Sole 24 Ore del 01.04.2014) può essere approvata con la maggioranza semplice, ovvero almeno un terzo dei condòmini che rappresenti un terzo dei millesimi
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2014).

CONDOMINIORegolamenti condominiali ad opponibilità limitata.
In ambito condominiale la trascrizione del regolamento non è sufficiente a sancirne l'automatica opponibilità a tutti gli acquirenti i futuri.

Lo hanno stabilito i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione, con sentenza 31.07.2014 n. 17493.
I giudici di piazza Cavour hanno evidenziato, evidentemente, come sia necessaria una trascrizione specifica e autonoma del vincolo, ai fini della opponibilità delle servitù reciproche costituite con il regolamento di condominio cosiddetto contrattuale.
E infatti, secondo i supremi giudici, in ossequio anche alla giurisprudenza della stessa Corte di cassazione (Cass. 15.12.1986 n. 7515): «Va ricordato che l'art. 2659, comma 1, n. 2, c.c., secondo cui nella nota di trascrizione devono essere indicati il titolo di cui si richiede la trascrizione e la data del medesimo, va interpretato in collegamento con il successivo art. 2655 il quale stabilisce che l'omissione o l'inesattezza delle indicazioni richieste nella nota non nuoce alla validità della trascrizione eccetto che induca incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico a cui si riferisce l'atto.
Ne consegue che dalla nota deve risultare non solo l'atto in forza del quale si domanda la trascrizione ma anche il mutamento giuridico, oggetto precipuo della trascrizione stessa, che quell'atto produce in relazione al bene. Pertanto, in caso di regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, non basta indicare il medesimo ma occorre indicare le clausole di esso incidenti in senso limitativo sui diritti dei condomini sui beni condominiali o sui beni di proprietà esclusiva
».
Nella sentenza in commento, viene, poi, ribadito il principio secondo il quale le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione, nell'atto di acquisto si sia fatto riferimento al regolamento di condominio, dimostrando di esserne a conoscenza e di accettarne il contenuto (si veda: Cass. 31.07.2009 n. 17886; Cass. 03.07.2003 n. 10523).
Tale principio è stato però, opportunamente, integrato con il presupposto del necessario richiamo al regolamento dei condominio contenuto nell'atto di acquisto e col fatto che non è sufficiente la semplice presunzione che tale richiamo fosse contenuto negli atti di acquisto (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.09.2014).

LAVORI PUBBLICIQualità anche in prestito. La certificazione da un'impresa all'altra. APPALTI/ Sentenza del Consiglio di stato sull'utilizzo dell'avvalimento.
In un appalto pubblico la certificazione di qualità, in quanto elemento che garantisce la stazione appaltante rispetto alla capacità tecnica dell'imprenditore, può essere «prestata» da una impresa a un'altra utilizzando l'istituto dell'avvalimento; è però necessario che le risorse tecniche e professionali siano messe a disposizione per tutta la durata del contratto.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 24.07.2014 n. 3949, rispetto a una specifica vicenda riguardante un appalto di lavori di messa in sicurezza e ampliamento di una scuola elementare.
In primo grado era stato disposto l'annullamento dell'aggiudicazione perché, da un lato, l'avvalimento a favore dell'aggiudicataria da parte di un'altra impresa non sarebbe stato utilizzabile per sopperire alla carenza dell'attestazione Soa e, dall'altro, perché il contratto di avvalimento non sarebbe stato esaustivo e non avrebbe coperto la mancanza di alcune figure (direttore tecnico e responsabile tecnico degli impianti) previste dalla normativa regolamentare sugli impianti.
Il Consiglio di stato annulla la sentenza del Tar e ricostruisce innanzitutto il quadro normativo riferibile all'articolo 49 del Codice dei contratti pubblici e all'art. 88 del dpr 207/2010. In particolare i giudici specificano che nelle gare pubbliche, la certificazione di qualità, finalizzata a valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, va qualificata come requisito di idoneità tecnico-organizzativa dell'impresa. Si tratta quindi di un elemento che ha la funzione di verificare la capacità tecnico-professionale di un'impresa, assicurando che l'impresa cui sarà affidato il servizio o la fornitura sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto.
Sulla base di tale presupposto la sentenza, contrariamente alla determina Anac n. 2/2012, afferma che la certificazione di qualità, afferendo alla capacità tecnica dell'imprenditore, è coerente con l'istituto dell'avvalimento, strumento giuridico utilizzabile per provare i possessori di tale elemento, e applicabile alla gara specifica che non preclude il ricorso all'istituto dell'avvalimento per la certificazione di qualità (ma sarebbe stata comunque una clausola inefficace).
Per i giudici quindi il contratto di avvalimento legittimamente prodotto dall'aggiudicataria risultava in concreto anche del tutto rispondente a quanto previsto dalla normativa vigente dal momento che in esso erano espressamente chiariti i requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa propri del modello di gestione e organizzazione dell'impresa ausiliaria che la stessa si era obbligata a mettere a disposizione dell'ausiliata, oltre alle macchine e attrezzature analiticamente elencate.
Inoltre il prestito delle risorse e mezzi, comprendendo anche le figure tecniche (responsabile tecnico e direttore tecnico) messe a disposizione dell'ausiliata, fa sì che il contratto si ponga del tutto in linea con le esigenze di messa a disposizione per tutta la durata dell'appalto delle risorse necessarie a svolgere le prestazioni contrattuali (articolo ItaliaOggi del 04.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è saldamente orientata nel ritenere che la disposizione dell’articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 trovi applicazione con riferimento alle pareti nella loro interezza, a prescindere dalla collocazione delle finestre.
In particolare, la Corte di Cassazione ha autorevolmente chiarito che è da ritenere condizione sufficiente per l’applicazione dell’articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, “che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta”, in quanto “sono le pareti, non le finestre aperte in esse, a costituire dati di riferimento per il calcolo della distanza”, di talché “in relazione alla ratio della previsione (finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine degli edifici che si fronteggiano), il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre”.

7. A diverse conclusioni deve, invece, pervenirsi quanto alla determinazione assunta dal Comune con riferimento alla proposta di regolarizzazione dell’intervento, allorché –stante la mancata acquisizione dell’assenso di tutti i proprietari dell’immobile alla chiusura di tutte le finestre presenti sulla parete interessata e alla loro traslazione su altro fronte– l’Ente ha rigettato l’istanza dei ricorrenti e reiterato l’ordine di demolizione dell’intero fabbricato.
7.1 Devono condividersi, al riguardo, le doglianze espresse dai ricorrenti, poiché l’operato comunale non appare sorretto, sul punto, dalla disposizione del richiamato articolo 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, che regola –come detto– la fattispecie di cui è causa.
In particolare, non risulta correttamente inteso il riferimento contenuto nella disposizione in esame alla “rimozione dei vizi delle procedure” o della “rimessione in pristino”.
Nel caso di specie, infatti, l’illegittimità accertata attiene unicamente al mancato rispetto delle distanze tra pareti finestrate prescritto dall’articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968. Disposizione, quest’ultima, che non vieta in termini assoluti l’edificazione a una distanza inferiore a dieci metri rispetto al fabbricato del confinante, ma preclude solo l’apertura di finestre sulla parete eventualmente costruita a una distanza inferiore.
Ciò comporta che –pur rivestendo la disposizione carattere di rilevante interesse pubblico, in quanto posta a presidio di esigenze di ordine igienico-sanitario– essa presenta una portata nettamente differente rispetto alle altre previsioni normative che, sulla base di esigenze parimenti di rilevante interesse pubblico, prescrivono l’osservanza di specifiche distanze riferite ai fabbricati nella loro interezza, come avviene ad esempio –per limitarsi a un solo caso– con riguardo al divieto di edificazione in prossimità degli argini dei fiumi di cui all’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523 del 1904.
E invero, in tale seconda ipotesi è evidente che, a seguito della violazione della norma, la piena soddisfazione dell’interesse ad essa sotteso può essere effettivamente conseguita solo mediante la demolizione dell’intera costruzione posta a distanza inferiore a quella prescritta.
Nel caso oggetto del presente giudizio, invece, il vizio dei titoli edilizi, rimossi mediante l’adozione del provvedimento di autotutela, non atteneva all’illegittimità dell’assentita collocazione spaziale del fabbricato, ma risiedeva solo nella previsione dell’apertura di finestre su una parete posta a distanza inferiore a dieci metri rispetto al fabbricato del confinante.
7.2 Di conseguenza, nel procedimento aperto ai sensi dell’articolo 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente all’annullamento in autotutela dei titoli edificatori, ben avrebbe potuto il Comune limitarsi ad ordinare la rimozione del vizio riscontrato, prescrivendo la chiusura delle finestre aperte in violazione del limite legale, apparendo, invece, non sorretta dalla stessa previsione normativa invocata, oltre che sproporzionata e irragionevole, l’adozione di un ordine di demolizione dell’intero edificio interessato.
8. Neppure può condividersi la scelta del Comune di subordinare l’adozione di una sanzione limitata alla rimozione dei vizi relativi alla parete interessata allo spostamento delle finestre su altra parete, previamente assentito da tutti i condomini.
8.1 Ciò in quanto il provvedimento Comunale, nel rispetto della richiamata previsione normativa, avrebbe dovuto limitarsi ad assumere determinazioni in merito alla parte in questione, ordinandone la regolarizzazione.
Appare, invece, questione del tutto distinta e non di pertinenza dell’Ente la sorte delle unità immobiliari interessate, rimanendo rimessa ai rispettivi proprietari l’eventuale successiva presentazione di autonome istanze, corredate dai dovuti assensi, finalizzate a conseguire il rilascio dei titoli autorizzatori necessari per l’eventuale apertura di luci o vedute su altra parete.
8.2 Né a ciò potrebbe obiettarsi che la sola chiusura delle finestre, senza contestuale riapertura su altro fronte, potrebbe astrattamente incidere sull’abitabilità di singole unità immobiliari.
Anzitutto, una tale affermazione proverebbe troppo, in quanto l’eventuale inabitabilità di alcuni appartamenti costituisce certamente una conseguenza di gran lunga meno pregiudizievole rispetto alla demolizione dell’intero immobile, che non appare, nella specie, giustificata.
In secondo luogo, l’effettivo perdurare delle condizioni di abitabilità delle singole unità immobiliari dovrebbe, semmai, costituire oggetto di una successiva e autonoma valutazione da parte del Comune. E ciò ferma restando la possibilità per gli interessati di attivare, come detto, tutte le iniziative eventualmente necessarie per evitare –beninteso, ove se ne presentasse il caso– la compromissione dei dovuti rapporti di aeroilluminazione degli ambienti.
9. Appaiono invece non censurabili le determinazioni del Comune –contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti– quanto alla ritenuta necessità di chiusura di tutte le finestre presenti sulla parete interessata, e non esclusivamente di quelle collocate nella sola porzione frontistante l’edificio del confinante.
E invero, la giurisprudenza è saldamente orientata nel ritenere che la disposizione dell’articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 trovi applicazione con riferimento alle pareti nella loro interezza, a prescindere dalla collocazione delle finestre.
In particolare, la Corte di Cassazione, con la sentenza della Sezione II civile 20.06.2011, n. 13547, ha autorevolmente chiarito che è da ritenere condizione sufficiente per l’applicazione dell’articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, “che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta (Sez. 2^, 28.09.2007, n. 20574)”, in quanto “sono le pareti, non le finestre aperte in esse, a costituire dati di riferimento per il calcolo della distanza (Sez. 2^, 28.08.1991, n. 9207)”, di talché “in relazione alla ratio della previsione (finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine degli edifici che si fronteggiano), il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.06.2014 n. 1597 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001 il contributo afferente al permesso di costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi, peraltro in mancanza dell'inserimento nel permesso di costruite di una clausola che ne riservi la rideterminazione, che l'Amministrazione comunale possa, in epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, in relazione all'aggiornamento delle due componenti, provvedere ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio.
Nel merito i rilievi del giudice amministrativo salentino sono esatti e condivisibili, posto che, ai sensi dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001, il contributo afferente al permesso di costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi, peraltro in mancanza dell'inserimento nel permesso di costruite di una clausola che ne riservi la rideterminazione, che l'Amministrazione comunale possa, in epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, in relazione all'aggiornamento delle due componenti, provvedere ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio (cfr. in tal senso tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV, 30.07.2012, n. 4320 e 27.04.2012, n. 2471, che ha in specie chiarito come la riliquidazione possa consentirsi solo quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il completamento con mutamento di destinazione d'uso delle opere assentite in origine) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.06.2014 n. 3009 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Legittimità diffida per recupero o smaltimento rifiuti dalle calci di defecazione derivanti dalle lavorazioni di uno zuccherificio.
E’ legittima la diffida ad avviare al recupero o allo smaltimento i rifiuti costituiti dalle calci di defecazione derivanti dalle lavorazioni dello zuccherificio, utilizzate per il recupero ambientale (R10), dalla quota di 3 metri fino a quella di 4,7 metri dal p.c..
Consentire tempi e quantità superiori per la messa in riserva di un rifiuto in regime di procedura semplificata comporta il rischio di creazione di una discarica, facendo insorgere il sospetto di una probabile perdita di controllo del flusso del rifiuto.
Ai sensi del nuovo testo del DM 05.02.1998, All. 3) (ora art. 214, comma 8, d.lgs. n. 152/2006) per ciascun impianto o stabilimento di recupero la quantità massima di una determinata tipologia di rifiuto contemporaneamente messa in riserva ed avviata ad ulteriore operazione recupero, non può superare il 70% della quantità di rifiuti individuata nell’Allegato 4 come limite massimo per le operazioni di recupero effettuate sullo stesso rifiuto. Per i rifiuti combustibili tale limite viene ridotto al 50%, fatta salva la capacità effettiva di trattamento dell’impianto, che verrà preferita solo qualora risultasse inferiore.
Il Legislatore con l’avverbio “contemporaneamente” partendo dal concetto che non è consentito stoccare più di quanto si recupera, ha ritenuto che se presso il medesimo impianto, in un anno, le quantità di rifiuto destinate alle operazioni di messa in riserva non possono superare quelle indicate dall’Allegato 4 per le operazioni di recupero di quel rifiuto, conseguentemente, non sarà possibile accumulare istantaneamente una quantità di rifiuti superiore al 70% (ridotta al 50% per i rifiuti combustibili) della quantità massima di rifiuti stoccabili in un anno. In ogni momento, pertanto, le quantità effettivamente presenti e stoccate nell’impianto non potranno andare oltre tale limite percentuale.

2.4. Per giustificare ragionevolmente tale regola di matrice giurisprudenziale occorre analizzare il corpus normativo nel quale il D.M. 05.02.1998, che è destinato principalmente alla determinazione delle quantità massime di rifiuti non pericolosi da destinare alle attività di recupero in procedura semplificata, si inserisce.
Al riguardo, deve premettersi che la Corte di Giustizia Europea, con sentenza 07.10.2004 (causa C - 103/02), ha condannato l’Italia per non aver previsto nel decreto 05.02.1998, sull’individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli artt. 31 e 33 del decreto legislativo 05.02.1997, n. 22, quantità massime per tipo di rifiuti, che possano essere oggetto di recupero in regime di dispensa dall’autorizzazione.
Con l’adozione del DM 05.04.2006, n. 186 sono stati riscritti gli articoli 6 (Messa in riserva), 7 (Quantità impiegabile), 8 (Campionamenti ed analisi) e 9 (Test di cessione) del precedente DM 05.02.1998, ed apportato delle aggiunte al previgente art. 11 (Attività di monitoraggio e controllo alle operazioni di recupero), nonché alcune modifiche sostanziali e significative alle diverse voci degli Allegati al testo normativo; i pertinenti artt. 31 e 33 del d.lgs. n. 22/1997 (norme primarie di riferimento) sono stati, inoltre, sostituiti dagli artt. 214 e 216 del Codice dell’Ambiente (d.lgs. n. 152/2006).
La novità normativa introdotta dalle modifiche al D.M. 05.02.1998 ha riguardato l’allargamento delle tipologie di rifiuti che è possibile destinare ad operazioni di messa in riserva in regime di procedura semplificata. In precedenza infatti, era possibile stoccare, effettuando la comunicazione di inizio attività, solo poche categorie di rifiuti tra cui carta, cartone, plastica, vetro, alcuni metalli, legno, sughero, caucciù e gomma, e solo se destinate ad ulteriore operazione di recupero esplicitamente individuata dagli Allegati del decreto.
Ad oggi è possibile mettere in riserva in procedura agevolata tutti i tipi di rifiuti elencati nel decreto, e la stessa operazione acquista una propria autonomia rispetto al tipo di operazione di recupero che verrà successivamente effettuata sul rifiuto.
Il nuovo testo dell’art. 6 del D.M. 05.02.1998, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c) del D.M. n. 186/2006, che si occupa della “messa in riserva”, distingue infatti tra:
a) operazioni di messa in riserva effettuate presso l’impianto di produzione del rifiuto;
b) operazioni di messa in riserva effettuate presso impianti che svolgono unicamente tale operazione (e quindi in via esclusiva);
c) operazioni di messa in riserva effettuate presso impianti di recupero (e che pertanto effettuano anche altre attività di recupero sul medesimo rifiuto non pericoloso).
Per l’ipotesi di cui alla lettera a) la norma, prevede quali quantità massime di rifiuti impiegabili quelle individuate dall’Allegato 4, espresse in termini assoluti, così come richiesto dalla Corte di Giustizia Europea.
Tuttavia il Decreto, fissa un ulteriore limite: “la quantità di rifiuti non pericolosi sottoposti ad operazioni di messa in riserva presso l’impianto di produzione del rifiuto non può eccedere la quantità di rifiuti prodotti in un anno, all’interno del medesimo impianto”. Indipendentemente dal limite massimo applicabile, prosegue la norma: “i rifiuti prodotti devono essere avviati ad operazioni di recupero entro un anno dalla data di produzione”.
Queste previsioni mirano ad evitare che presso il medesimo impianto di produzione vengano stoccati rifiuti in quantità eccessive, e al contempo che gli stessi rifiuti vengano effettivamente destinati alle attività di recupero in tempi rapidi, non superiori ad un anno decorrente dalla data della loro produzione.
Coerentemente, il d.lgs. n. 36/2003 di attuazione della Direttiva 1999/31/CE (Discariche rifiuti), all’art. 2, comma 1, lett. g), definisce “discarica” anche “qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno.
Pertanto, sulla base di queste considerazioni di ordine generali, derivanti dal complesso ordito normativo sopra sintetizzato, appare evidente che consentire tempi e quantità superiori per la messa in riserva di un rifiuto in regime di procedura semplificata comporta il rischio di creazione di una discarica, facendo insorgere il sospetto di una probabile perdita di controllo del flusso del rifiuto.
E’ evidente, dunque, che impostare un onere probatorio in capo al soggetto che beneficia della procedura semplificata, come nella specie, è coerente con i rischi ambientali e di inquinamento che tale procedura potrebbe implicare (creazione di fatto di una discarica) che si vogliono senz’altro prevenire.
Inoltre, ai sensi del nuovo testo del DM 05.02.1998, All. 3) (ora art. 214, comma 8, d.lgs. n. 152/2006) per ciascun impianto o stabilimento di recupero la quantità massima di una determinata tipologia di rifiuto contemporaneamente messa in riserva ed avviata ad ulteriore operazione recupero, non può superare il 70% della quantità di rifiuti individuata nell’Allegato 4 come limite massimo per le operazioni di recupero effettuate sullo stesso rifiuto. Per i rifiuti combustibili tale limite viene ridotto al 50%, fatta salva la capacità effettiva di trattamento dell’impianto, che verrà preferita solo qualora risultasse inferiore.
Il Legislatore con l’avverbio “contemporaneamente” partendo dal concetto che non è consentito stoccare più di quanto si recupera, ha ritenuto che se presso il medesimo impianto, in un anno, le quantità di rifiuto destinate alle operazioni di messa in riserva non possono superare quelle indicate dall’Allegato 4 per le operazioni di recupero di quel rifiuto, conseguentemente, non sarà possibile accumulare istantaneamente una quantità di rifiuti superiore al 70% (ridotta al 50% per i rifiuti combustibili) della quantità massima di rifiuti stoccabili in un anno.
In ogni momento, pertanto, le quantità effettivamente presenti e stoccate nell’impianto non potranno andare oltre tale limite percentuale.
3. Relativamente alla questione del test necessariamente da svolgere sul “rifiuto tal quale”, l’ARPAM ha dimostrato con documentazione fotografica che non è stato riscontrato alcun materiale estraneo nei campioni di rifiuti posti in analisi ed il campionamento operato è stato svolto in modo conforme a quanto dettato dall’allegato 3 al D.M. 05.02.1998.
3.1. Peraltro, sotto il profilo giuridico, occorre osservare che l’art. 239, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, in caso di avvio a recupero, smaltimento rifiuti abbandonati o deposito in modo incontrollato, subordina l’attività di caratterizzazione dell’area ai fini degli eventuali interventi di bonifica e ripristino ambientale all’avvenuta rimozione del rifiuto.
Ciò implica, per il Collegio, che il legislatore abbia riconosciuto l’impossibilità giuridica di una trasformazione del rifiuto abbancato in “terreno”, non più soggetto a smaltimento.
3.2. Inoltre, la tesi dell’appellante, secondo cui il test di cessione doveva essere effettuato sul “rifiuto tal quale” e non successivamente all’abbancamento dei rifiuti e all’avvenuta ricopertura degli stessi con terreno vegetale, che avrebbe potuto alterarne la proprietà di rilasciare i metalli, non è fondata anche in relazione alla previsione dello stesso D.M. 05.02.1998, poiché, come ha correttamente rilevato il TAR, il concetto di rifiuto “tal quale” è rilevante soltanto ai sensi dell’art. 8 del DM 05.02.1998, che disciplina le modalità di campionamento al fine della caratterizzazione chimico fisica del rifiuto stesso, mentre non compare nel successivo art. 9 ai fini dell'effettuazione del test di cessione di cui all’Allegato 3 dello stesso DM 05.02.1998 (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.02.2014 n. 818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Perequazione urbanistica e collocazione standard urbanistico.
Lo standard urbanistico deve collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio.
L’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n, 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale - che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5 comma 3 del D.L. 13.05.2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile.

La doglianza è fondata e va accolta.
Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli standard urbanistici abbia nuovamente assunto di recente un rilievo centrale nell’ambito degli strumenti di governo del territorio. In questo senso, sono riscontrabili non solo interventi normativi (peraltro organizzati secondo prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema della loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un lato -come nel caso della legge 14.01. 2013, n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani” -a marcarne la rilevanza ai fini della qualità di vita urbana e, dall’altro– come con l’introduzione dell’art. 2-bis “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” nel d.P.R. 06.06.2001 n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”– a renderne al contrario più flessibile e meno stringente il contenuto), ma anche prese di posizione di questo Consiglio, che non si è sottratto al dovere di esprimere il proprio avviso su un tema così rilevante nella costruzione del tessuto urbanistico.
In particolare, questo Giudice ha già delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi” (Consiglio di Stato, sez. V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito” (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.13 n. 2916).
Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata. Il che comporta, come già notato dalle decisioni che precedono, come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica.
La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione. Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose. L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n, 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale - che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa come “prestazione”, al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza del giudice delle leggi, cfr. Corte Costituzionale, 27.06.2012 n. 164).
Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.02.2014 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Solo gestore di telefonia mobile può impugnarne il diniego di concessione edilizia per la realizzazione di SRB.
Il diritto di natura patrimoniale al conseguimento dei canoni di locazione, derivanti dal contratto sottoscritto con la società di telefonia mobile, è condizionato al perfezionamento dell’iter amministrativo avviato dalla società, al fine di ottenere l’assenso alla realizzazione dell’impianto.
Assenso che, peraltro, può essere richiesto, e può essere ottenuto, solo da un operatore telefonico a ciò legittimato, ai sensi del d.lgs. n. 259 del 2003, recante il Codice delle Comunicazioni elettroniche.

4.- L’appello non è fondato.
Il sig. B., come correttamente ha osservato il TAR, non risultava, infatti, il destinatario diretto dell’atto da lui impugnato ma era titolare di un interesse solo indiretto alla realizzazione dell’impianto per la telefonia mobile, in una porzione dell’immobile (del quale era usufruttuario) che aveva locato con contratto di diritto privato alla società H3G.
Il suo diritto di natura patrimoniale al conseguimento dei canoni di locazione, derivanti dal contratto sottoscritto con la società H3G, era tuttavia condizionato al perfezionamento dell’iter amministrativo avviato da H3G al fine di ottenere l’assenso alla realizzazione dell’impianto.
Assenso che, peraltro, può essere richiesto e può essere ottenuto (solo) da un operatore telefonico a ciò legittimato, ai sensi del d.lgs. n. 259 del 2003, recante il Codice delle Comunicazioni elettroniche.
4.1.- L’interesse del sig. B. (al rilascio dell’autorizzazione richiesta dalla società H3G per poter poi beneficiare del corrispettivo economico della locazione), non era quindi tutelabile se non attraverso l’attività dell’operatore telefonico H3G che aveva presentato la richiesta respinta dal Comune e che poteva poi far valere (eventualmente) le sue ragioni per ottenere la rimozione dell’atto di diniego (se ritenuto illegittimo).
Mentre il sig. B. è estraneo al potere che l’amministrazione ha esercitato nei confronti di H3G che era l’operatore telefonico che doveva essere in possesso di tutti i requisiti per ottenere l’assenso alla realizzazione dell’impianto.
4.2.- In conseguenza il sig. B. non aveva un interesse giuridicamente protetto e non poteva far valere autonomamente le sue ragioni davanti al TAR nei confronti dell’atto di diniego, opposto dal Comune alla società H3G, anche se da tale atto potevano determinarsi (per lui) conseguenze di natura economica (poi verificatesi a seguito dell’avvenuta risoluzione del rapporto contrattuale nel rispetto di una clausola espressa contenuta nel contratto medesimo).
4.3.- Ciò trova conferma nella circostanza che H3G non ha ritenuto di dover impugnare tale diniego ma ha fatto acquiescenza alle determinazioni dell’Amministrazione, con ciò rendendo impossibile la realizzazione dell’impianto nel sito in questione e facendo quindi venir meno (anche) ogni possibile interesse oppositivo del sig. B. alle suddette determinazioni.
4.4.- Né il sig. B. si è tempestivamente attivato (anche in via giudiziaria) per non consentire tale definitivo esito della vicenda che lo ha riguardato.
5.- In conclusione l’appello deve essere respinto (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.02.2014 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Culturali. Legittimità vincolo indiretto ex art. 45 DLgs 42/2004 a tutela di compendio storico-monumentale.
Il vincolo indiretto, previsto dalla Parte seconda (Beni culturali) del Codice, è funzionale ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro.
Non si tratta di un vincolo che implica l’accertamento di un pregio culturale (e tanto meno paesaggistico) intrinseco al territorio che riguarda, ma che è servente alla protezione della cornice di un distinto immobile, a sua volta dichiarato, quello sì per le sue intrinseche caratteristiche, bene culturale.
Non vale pertanto assumere che il vincolo in questione non si basa sul previo accertamento di caratteristiche di pregio, culturale o a ben vedere paesaggistico, della porzione di territorio che questo stesso vincolo indiretto concerne.

... ritiene il Collegio che il provvedimento impugnato si sottragga ai rilievi del Comune e degli odierni appellanti incidentali.
Nel provvedimento impugnato, il Ministero odierno appellante principale ha precisato che beni situati nei luoghi sottoposti a vincolo indiretto “non sono vincolati necessariamente per la loro storicità, ma piuttosto come contesto urbano costituitosi e conservatosi in modo tale da garantire le condizioni favorevoli esistenti di decoro, luce e prospettiva ai beni monumentali vincolati circostanti”, tenuto per giunta conto del fatto che il contesto preso in considerazione era il frutto di “una stratificazione successiva di episodi edilizi”; e che, conseguentemente, non è decisiva l’epoca di realizzazione dei manufatti presi in considerazione.
Ciò in particolare per quanto riguarda le contestazioni relative al muro di cinta insistente sulla particella n. 93, in piazza Gallarati Scotti, che i sig.ri Gorbani ed il Comune di Truccazzano riconducono ad epoca recente.
Oltre ad essere congruente con la tipica funzione di tutela dell’integrità di beni culturali propria del vincolo indiretto di cui all’art. 45 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, come diffusamente precisato da questa VI Sezione nella sentenza 03.07.2012, n. 3893, il citato passaggio motivazionale è comunque idoneo a privare di pregio le deduzioni degli appellanti incidentali, così come le censure da questi e dal Comune di Truccazzano svolte nei rispettivi ricorsi di primo grado, nondimeno accolte dal primo giudice.
Preliminare è invero la considerazione che il vincolo indiretto, previsto dalla Parte seconda (Beni culturali) del Codice, è funzionale “ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”. Non si tratta di un vincolo che implica l’accertamento di un pregio culturale (e tanto meno paesaggistico) intrinseco al territorio che riguarda, ma che è servente alla protezione della cornice di un distinto immobile, a sua volta dichiarato, quello sì per le sue intrinseche caratteristiche, bene culturale.
Non vale pertanto assumere, come qui invece viene fatto, che il vincolo in questione non si basa sul previo accertamento di caratteristiche di pregio, culturale o a ben vedere paesaggistico, della porzione di territorio che questo stesso vincolo indiretto concerne.
Cioè fermo, può comunque osservarsi che, in realtà, gli asseriti travisamenti fattuali e carente istruttoria nella ricostruzione dei luoghi non sussistono, perché il provvedimento impugnato contiene un’analitica confutazione delle contrarie deduzioni delle parti ricorrenti in primo grado. E nemmeno sussiste una violazione dei parametri di congruenza, proporzione e ragionevolezza, applicati al caso particolare del vincolo culturale indiretto, anche in rispetto alla pregressa pianificazione urbanistica attuativa.
Nel provvedimento si precisa infatti che il rispetto delle esigenze di tutela dei beni vincolati può condurre “ad una rimodulazione delle volumetrie o ad una loro diversa distribuzione”. Quindi si formulano analitiche prescrizioni volte a disciplinare l’attività edilizia programmata dai sig.ri Gorbani e dal Comune di Truccazzano nell’ambito del piano di recupero interessante il compendio immobiliare dei primi.
Le quali prescrizioni sono precedute dall’illustrazione delle relative ragioni, consistenti nella necessità di assicurare che i lavori di riconversione ad uso residenziale rispettino gli “allineamenti sulle strade e limiti alle altezze”, al fine di conservare le caratteristiche costruttive “del tipo a corte”. Coerenti con tali premesse si rivelano quindi le sopra dette prescrizioni, nella parte in cui sono volte ad imporre il rispetto dei “caratteri costruttivi già presenti”: ed in particolare, fabbricati a due piani, con il primo a livello della strada, assenza di sporti sulla strada, proporzioni tradizionali delle gronde e caratteristiche esistenti dei rivestimenti esterni e delle coperture. Non mancano specificazioni proprio con riguardo alla possibilità di ricostruire manufatti non recuperabili e di elevare a tre piani le particelle non visibili dalla strada, il tutto come rappresentato dai sig.ri Gorbani mediante la loro relazione tecnica (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.12.2013 n. 6241 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione del permesso di costruire.
La possibilità d’impugnare una concessione edilizia o permesso di costruire decorre, nei confronti dei terzi, dalla piena consapevolezza del provvedimento autorizzativo, la quale si perfeziona da quando è percepibile la lesività dell'opera realizzata, ossia da quando venga conosciuto il contenuto specifico del titolo abilitativo o del progetto assentito ovvero da quando detta opera si trovi in fase avanzata o di completamento e riveli, così, in modo certo e inequivoco le sue caratteristiche essenziali e la sua eventuale non conformità alla disciplina urbanistica.
Al riguardo, il Collegio non ignora che il dies a quo per gravare una concessione edilizia o permesso di costruire decorre, nei confronti dei terzi, dalla piena consapevolezza del provvedimento autorizzativo, la quale si perfeziona da quando è percepibile la lesività dell'opera realizzata, ossia da quando venga conosciuto il contenuto specifico del titolo abilitativo o del progetto assentito ovvero da quando detta opera si trovi in fase avanzata o di completamento e riveli, così, in modo certo e inequivoco le sue caratteristiche essenziali e la sua eventuale non conformità alla disciplina urbanistica (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 17.05.2002, n. 2668; sez. IV, 08.07.2002, n. 3805; sez. V, 23.09.2005, n. 5033; sez. IV, 15.09.2006, n. 5394; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465; 12.02.2007, n. 599; sez. V, 24.08.2007, n. 4485; sez. IV, 10.12.2007, n. 6342; sez. V, 04.03.2008, n. 885; sez. VI, 09.02.2009, n. 717; sez. IV, 29.05.2009, n. 3358; 18.06.2009, n. 4015; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 03.09.2008, n. 10036; sez. III, 18.09.2008, n. 10354; Salerno, sez. II, 03.10.2008, n. 2823; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 06.04.2009, n. 432; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 26.03.2009, n. 795; 05.06.2009, n. 1601; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 08.02.2008, n. 225; 23.01.2009, n. 168; TAR Toscana, Firenze, sez. II, 30.12.2008, n. 4451; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 16.12.2009, n. 305; TAR Liguria, Genova, sez. I, 26.03.2010, n. 1235) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.12.2013 n. 5884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Differenza tra opere d’interesse generale e opere pubbliche.
Come chiarito da consolidata giurisprudenza, le opere d’interesse generale integrano una categoria logico giuridica nettamente differenziata rispetto a quella delle opere pubbliche, comprendendo quegli impianti e attrezzature che, sebbene non destinati a scopi di stretta cura della pubblica amministrazione, sono idonee a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzati e gestiti da soggetti privati; ciò con la conseguenza che devono ritenersi di interesse generale le opere realizzabili nelle zone F dei piani regolatori, nelle quali vanno posizionate non soltanto le strutture pubbliche in senso stretto (quali scuole, chiese, ospedali) ma anche quelle private, purché contrassegnate da una generale fruibilità pubblica.
3.3. Questa Sezione ha, invero, già avuto modo di esaminare la questione in analogo giudizio, definito con sentenza n. 2135 del 13.02.2004, addivenendo a conclusioni che il Collegio ritiene di condividere e ribadire.
3.4. Dalla documentazione versata in atti emerge, in particolare, che per la zona in questione (F1) lo strumento urbanistico ha previsto l’ammissibilità di interventi finalizzati alla realizzazione di interventi che non possono essere qualificati quali interventi tesi alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico bensì in termini di opere di interesse generale.
3.5. Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, le opere di interesse generale integrano una categoria logico giuridica nettamente differenziata rispetto a quella delle «opere pubbliche», comprendendo quegli impianti e attrezzature che, sebbene non destinati a scopi di stretta cura della pubblica amministrazione, sono idonee a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzati e gestiti da soggetti privati; ciò con la conseguenza che devono ritenersi di interesse generale le opere realizzabili nelle zone F dei piani regolatori, nelle quali vanno posizionate non soltanto le strutture pubbliche in senso stretto (quali scuole, chiese, ospedali) ma anche quelle private, purché contrassegnate da una generale fruibilità pubblica (cfr., ex multis, Cons. Stato Sez. IV, 22.06.2011, n. 3797).
3.6. Nella fattispecie oggetto di giudizio, dall’esame delle destinazioni ammesse, tutte d’interesse generale, emerge, dunque, la compatibilità con un’iniziativa di carattere sia pubblico sia promiscuo, trattandosi di attività non riservate, in via esclusiva, alla mano pubblica; la locuzione contenuta nella disciplina urbanistica comunale, infatti, (attrezzature “a carattere comunale e intercomunale”), associata alla correlata elencazione esemplificativa (“attrezzature sociosanitarie, centri meccanografici, nuovi impianti tecnologici, ecc.”), lungi dall'attribuire soltanto all'intervento pubblico la realizzazione delle opere, evidenzia, piuttosto, il profilo funzionale ed oggettivo dell'idoneità a soddisfare i bisogni della collettività.
3.7. Da ciò consegue la non sussumibilità del vincolo previsto nello schema ablatorio, ma, piuttosto, nella tipologia dei vincoli urbanistici di tipo "conformativo", che non pongono particolari limitazioni alle facoltà del proprietario, sicché la relativa formazione di zona non può che avere validità a tempo indeterminato (ibidem).
3.8. Né è possibile attribuire rilievo ai giustificativi ulteriori addotti dalla difesa dell’amministrazione comunale, la quale ha rilevato la non conformità del progetto ai parametri di zona e l’assenza di un piano urbanistico attuativo; tali giustificativi, infatti, si sostanziano in una inammissibile motivazione postuma (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 19.12.2013 n. 5876 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: I provvedimenti emanati da un commissario ad acta, nominato in sede di controllo sostitutivo dall’amministrazione provinciale, restano imputabili direttamente ed esclusivamente all’amministrazione sostituita; il commissario ad acta interviene, infatti, a colmare una lacuna dell'azione comunale non riconducibile ad alcun altro soggetto, sicché è indubbio che la posizione dallo stesso rivestita sia proprio quella di un organo comunale, sia pure di natura straordinaria, chiamato ad esercitare, in via sostitutiva, le specifiche competenze che la legge attribuisce direttamente all'ente comunale.
Sul punto, il Collegio, conformemente all’orientamento giurisprudenziale consolidato, reputa sufficiente evidenziare che i provvedimenti emanati da un commissario ad acta, nominato in sede di controllo sostitutivo dall’amministrazione provinciale, restano imputabili direttamente ed esclusivamente all’amministrazione sostituita; il commissario ad acta interviene, infatti, a colmare una lacuna dell'azione comunale non riconducibile ad alcun altro soggetto, sicché è indubbio che la posizione dallo stesso rivestita sia proprio quella di un organo comunale, sia pure di natura straordinaria, chiamato ad esercitare, in via sostitutiva, le specifiche competenze che la legge attribuisce direttamente all'ente comunale (in termini, TAR Campania, Napoli, sez. II, 11.07.2007, n. 6671; cfr. anche: Cons. St., sez. IV, 27.04.2004, n. 2520; Sez. VI, 16.10.2002, n. 5647; Sez. IV, 22.06.2000, n. 3536; Sez. IV, 08.06.2000, n. 3280) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 19.12.2013 n. 5876 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire e misure di salvaguardia.
La misura di salvaguardia ex art. 12, c. 3, d.P.R. 380/2001, è strumento diretto ad evitare che, nelle more del procedimento di approvazione degli strumenti di pianificazione, le richieste dei privati, fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale, finiscano per alterare profondamente la situazione di fatto e, di conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è finalizzata la programmazione urbanistica generale.
L'attività edificatoria rimane regolata dallo strumento urbanistico vigente, salvo il limite che possono essere rilasciate solo concessioni edilizie che non contrastino con le previsioni del nuovo piano, in attesa di approvazione.
Nel caso in cui, nel corso del procedimento inerente una domanda di permesso di costruire, sopravvenga l’adozione di una strumento urbanistico generale, le condizioni perché tale domanda possa trovare favorevole definizione sono quindi due: che l’intervento edilizio sia conforme al piano vigente ed inoltre che non sia in contrasto con il piano adottato.

Ai sensi dell'articolo 12, comma 3, prima parte, del d.P.R. n. 380/2001, “in caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda”.
Come chiarito dalla giurisprudenza formatasi sul punto “la misura di salvaguardia di cui all'art. 12, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è strumento diretto ad evitare che, nelle more del procedimento di approvazione degli strumenti di pianificazione, le richieste dei privati, fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale, finiscano per alterare profondamente la situazione di fatto e, di conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è finalizzata la programmazione urbanistica generale” (Consiglio di Stato, sez. IV, 09.10.2012, n. 5257); “l'attività edificatoria rimane regolata dallo strumento urbanistico vigente, salvo il limite che possono essere rilasciate solo concessioni edilizie che non contrastino con le previsioni del nuovo piano, in attesa di approvazione” (TAR Sicilia, Catania sez. I, 16.01.2012, n. 102).
Nel caso in cui, nel corso del procedimento inerente una domanda di permesso di costruire, sopravvenga l’adozione di una strumento urbanistico generale, le condizioni perché tale domanda possa trovare favorevole definizione sono quindi due: che l’intervento edilizio sia conforme al piano vigente ed inoltre che non sia in contrasto con il piano adottato.
E’ pertanto evidente che la mancanza di una soltanto delle due condizioni rende superflua qualsiasi indagine sull’altra.
L'applicazione della misura di salvaguardia, in caso di contrarietà della richiesta di intervento edilizio rispetto alle sopravvenute disposizioni del piano adottato, è obbligatoria, derivando direttamente dalla legge, e comporta l’inutilità, nelle more della vigenza della misura stessa, della verifica della conformità del medesimo intervento rispetto alla precedente normativa, non più attuale (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 19.12.2013 n. 5871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Legittimità diniego acquisto di area di proprietà demaniale, confinante con proprietà dei richiedenti.
E’ legittimo il diniego all’acquisto di area di proprietà demaniale, confinante con proprietà dei richiedenti.
Questo Tribunale ha già affermato, che l’art. 5-bis d.l. 24.06.2003 n. 143, convertito dalla l. 01.08.2003, n. 212 all’ultimo comma: “Il presente articolo non si applica, comunque, alle aree sottoposte a tutela ai sensi del testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e successive modificazioni”, esclude inequivocabilmente dal proprio ambito di applicazione le aree sottoposte a vincolo paesaggistico, negando la possibilità del loro acquisto.

Nel merito il ricorso è infondato.
L’art. 5-bis d.l. 24.06.2003 n. 143, convertito dalla l. 01.08.2003, n. 212, stabilisce che: “1. Le porzioni di aree appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato, escluso il demanio marittimo, che alla data di entrata in vigore del presente decreto risultino interessate dallo sconfinamento di opere eseguite entro il 31.12.2002 su fondi attigui di proprietà altrui, in forza di licenze o concessioni edilizie o altri titoli legittimanti tali opere e comunque sia quelle divenute aree di pertinenza, sia quelle interne agli strumenti urbanistici vigenti, sono alienate a cura delle filiale dell’Agenzia del demanio territorialmente competente mediante vendita diretta in favore del soggetto legittimato che ne faccia richiesta. L’estensione dell’area di cui si chiede l’alienazione oltre a quella oggetto di sconfinamento per l’esecuzione dei manufatti assentiti potrà comprendere, alle medesime condizioni, una superficie di pertinenza entro e non oltre tre metri dai confini dell’opera. Il presente articolo non si applica, comunque, alle aree sottoposte a tutela ai sensi del testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e successive modificazioni”.
Come questo Tribunale ha già affermato, la norma, all’ultimo comma, esclude inequivocabilmente dal proprio ambito di applicazione le aree sottoposte a vincolo paesaggistico, negando la possibilità del loro acquisto (cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17.09.2009, n. 4680) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.12.2013 n. 2865 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Legittimità ordinanza con la quale si intima ad ANAS SpA di bonificare l’area di proprietà mediante rimozione di tutto il materiale esistente
L’esplicita previsione della pulizia della sede stradale e delle pertinenze caratterizza questa norma da un rapporto di specialità rispetto alle disposizioni del d.lgs. 152/2006 “poiché, più che il dato relativo alla materia dei "rifiuti", che costituiscono per così dire, l'oggetto dell'attività cui il destinatario dell'ordine è tenuto, sembra significativo l'ulteriore dato del contesto spaziale rispetto a cui l'attività in parola va svolta: la circostanza che i rifiuti interessino beni quali le strade, difatti, per l'evidente peculiarità che le medesime presentano sul piano strutturale, funzionale e della sicurezza pubblica, giustifica -anche sul piano costituzionale- la configurabilità di speciali doveri di vigilanza, controllo e conservazione in capo al proprietario o concessionario.
Nel merito il ricorso è infondato.
Questo Tribunale ha più volte precisato che l’art. 14, d.lgs. 285/1992 –per il quale “gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo....Per le strade in concessione i poteri e i compiti dell'ente proprietario della strada previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario”– attribuisce all'ente proprietario della strada (o al concessionario, nel caso di strada in concessione, come quella in riferimento) la competenza a provvedere “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo”.
In sostanza, la previsione in esame centralizza sostanzialmente nel gestore del servizio stradale tutte le competenze relative alla corretta manutenzione, pulizia e gestione del tratto stradale (Tar Lecce, sez. I, 18.11.2009, 2756).
È stato altresì ritenuto che l’esplicita previsione della pulizia della sede stradale e delle pertinenze caratterizza questa norma da un rapporto di specialità rispetto alle disposizioni del d.lgs. 152/2006 “poiché, più che il dato relativo alla materia dei "rifiuti", che costituiscono per così dire, l'oggetto dell'attività cui il destinatario dell'ordine è tenuto, sembra significativo l'ulteriore dato del contesto spaziale rispetto a cui l'attività in parola va svolta: la circostanza che i rifiuti interessino beni quali le strade, difatti, per l'evidente peculiarità che le medesime presentano sul piano strutturale, funzionale e della sicurezza pubblica, giustifica -anche sul piano costituzionale- la configurabilità di speciali doveri di vigilanza, controllo e conservazione in capo al proprietario o concessionario” (Tara Lecce, sez. I, ord. 24.10.2007 n. 1027; 23.01.2008 n. 56).
Del resto, la conclusione sopra richiamata non può essere contestata sulla base di generici riferimenti alla natura cronologicamente successiva delle norme del d.lgs. 22/1997 o del d.lgs. 152/2006, in quanto le previsioni successive non recano certamente l’ulteriore elemento specializzante, costituito dall'attinenza dell’obbligo di rimozione dei rifiuti alla sede stradale ed alle pertinenze; del resto, la strutturazione normativa del settore è stata ben compresa dalla Corte di cassazione (Cass. civ. sez. II, 24.06.2008, n. 17178) che ha rilevato come la norma cardine in materia sia l'art. 14 del d.lgs. 285/1992 (proprio in virtù della natura speciale sopra individuata) e non le previsioni (art. 14 d.lgs. 22/1997; art. 192 d.lgs. 152/2006) successive in materia di rimozione dei rifiuti che sono destinate a trovare applicazione solo per quanto (ad es., individuazione tipologie di rifiuti; modalità di smaltimento; ecc.) non espressamente regolamentato dalla previsione del Codice della strada (così Tar Lecce, 2756/2009 cit.)
Inoltre, il riferimento “allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione” presente nel primo comma dell’art. 14 del d.lgs. 285/1992, individua semplicemente la ratio di una serie di attribuzioni di competenze che chiaramente comprendono anche la pulizia “delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”; in altre parole, il chiaro riferimento alle pertinenze, agli arredi, alle attrezzature, impianti e servizi annessi alla sede stradale evidenzia un campo applicativo della norma che è già tanto ampio da ricomprendere anche i rifiuti non direttamente abbandonati sulla sede stradale e non è certamente ammissibile un’interpretazione restrittiva che, sulla base dell'incerto riferimento alla ratio della previsione, approdi ad una lettura della norma che è certamente in contraddizione con la volontà del legislatore.
In definitiva, trattandosi indubbiamente di rifiuti abbandonati sulle immediate pertinenze di strada in concessione all’Anas, visto che sono situati all’interno della cunetta per lo scolo delle acque piovane adiacente alla piazzola di sosta, la legittimità del provvedimento impugnato deve essere valutata con riferimento al parametro costituito dall’art. 14 d.lgs. 285/1992, n. 285 e non dall’art. 192 d.lgs. 152/2006, n. 152 (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 11.12.2013 n. 2416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Pianificazione comunale come modello di sviluppo dei luoghi in considerazione della loro storia e tradizione, attraverso la partecipazione dei cittadini.
L’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio (tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta, per autorappresentazione ed autodeterminazione, dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.

Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione urbanistica; del significato stesso del concetto di “urbanistica” in senso giuridico e, di conseguenza, del contenuto della potestà pianificatoria, è stato affrontato da questo Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10.05.2012 n. 2710, con considerazioni che devono essere riconfermate ai fini della presente decisione.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito –al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di “urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico – sociali della comunità radicata sul territorio (tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost..
A quanto sin qui esposto, occorre aggiungere che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478), così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione.
Occorre, infatti, ribadire che le scelte urbanistiche (in particolare, in sede di variante) richiedono puntuale motivazione esclusivamente ove incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative (specie edificatorie) dei privati proprietari, in conseguenza non soltanto di statuizioni di pronunce giurisdizionali passate in giudicato, ma anche di accordi con l'ente locale ed in particolare di convenzioni di lottizzazione divenute operative. A fronte di aspettative di mero fatto, le scelte di natura tanto ambientale quanto urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale, infatti, sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV. n. 5478/2008 cit.).
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.07.2013 n. 3606 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Limitazione alla proprietà privata e pianificazione urbanistica.
La proprietà privata è certamente tutelata dalla Costituzione e dagli accordi internazionali, ma in ogni caso l'art. 42, II co. prevede comunque che possano essere imposti “… limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale”.
Non può perciò ravvisarsi alcuna violazione dei principi costituzionali quando, in sede di pianificazione urbanistica generale l'amministrazione, ritenendo persistenti le esigenze e le ragioni d’interesse pubblico che sorreggono la reiterazione dei vincoli, imponga dei limiti al diritto di proprietà in vista della realizzazione di superiori interessi pubblici.

Con il terzo motivo si assume la violazione delle norme costituzionali relative alla proprietà privata, all'imparzialità e al buon andamento dell'attività amministrativa che sarebbero conseguenti alla reitera del vincolo di inedificabilità, che di fatto decorrerebbe dal lontano 1980 e quindi a tempo indeterminato.
La mancata ri-pianificazione dell'area a seguito della scadenza del vincolo espropriativo si sarebbe tradotta in una compressione del contenuto essenziale del diritto di proprietà, ed avrebbe inciso sul godimento del bene in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua naturale destinazione edificatoria, e ne avrebbe diminuito il suo valore economico.
L’assunto va respinto.
In primo luogo si deve rilevare che esattamente la difesa del Comune ha sottolineato come, dalla data decadenza del vincolo nel 1985 fino alla presente azione giurisdizionale iniziata con l’istanza del 20.07.2011, gli appellanti non abbiamo esperito alcuna attività relativamente ai terreni in questione.
La proprietà privata è certamente tutelata dalla Costituzione e dagli accordi internazionali, ma in ogni caso l'art. 42, II co. prevede comunque che possano essere imposti “… limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale“.
Non può perciò ravvisarsi alcuna violazione dei principi costituzionali quando, in sede di pianificazione urbanistica generale l'amministrazione, ritenendo persistenti le esigenze e le ragioni di interesse pubblico che sorreggono la reiterazione dei vincoli, imponga dei limiti al diritto di proprietà in vista della realizzazione di superiori interessi pubblici.
Nel caso in esame deve comunque escludersi ogni contenuto vessatorio o comunque ingiusto nella reiterazione di vincoli, preordinati all'espropriazione e che comportino l'inedificabilità dei terreni degli appellanti, alla luce della complessiva valutazione della situazione e degli interessi coinvolti.
L’allargamento dell’asse viario previsto nel P.S. e nella bozza di R.U. appare ragionevolmente motivato non tanto con il riferimento allo generico sviluppo delle aree circostanti, quanto soprattutto con riguardo alla finalità di migliorare la viabilità, e assicurare ai cittadini un efficiente collegamento il Nuovo Ospedale Unico delle Apuane, vale a dire con un servizio pubblico assolutamente essenziale.
Sotto altro profilo poi, ai sensi dell'art. 39, comma 1, t.u. sugli espropri di cui al d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario, nel caso di reiterazione o di tempestiva proroga del vincolo preordinato all'esproprio, non rileva ai fini della verifica della legittimità dei provvedimenti, che hanno disposto l'approvazione dello strumento urbanistico, atteso che i profili attinenti alla spettanza o meno dell'indennizzo e al suo pagamento non attengono alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale, che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione e sono devolute alla cognizione della giurisdizione ordinaria (cfr. Consiglio Stato sez. IV 06.05.2010 n. 2627) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.07.2013 n. 3603 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia e porticato agganciate al muro del fabbricato esistente.
Tettoia e porticato soltanto agganciate al muro del fabbricato esistente, per la loro stabilità ed ampiezza e per il fatto che comportano un aumento di volumetria e una nuova superficie, necessitano del permesso di costruire.
Con un quarto motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che la tettoia e il porticato, per la loro stabilità ed ampiezza e per il fatto che comportano un aumento di volumetria e una nuova superficie, necessitano del permesso di costruire.
Sul punto gli appellanti deducono che tali opere, essendo «soltanto agganciate al muro del fabbricato esistente», appoggiate al suolo mediante profilati in ferro ed aperte su tre lati, possono essere realizzate con una mera denuncia di inizio attività, con conseguente illegittimità dell’ordine di demolizione.
Il motivo non è fondato.
L’art. 10 del d.p.r. n. 380 del 2001 prevede che sono subordinati al rilascio del permesso di costruire, tra l’altro, gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino modifiche della sagoma e dei prospetti.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che le opere, sopra indicate, essendo, come nella specie, agganciate al muro perimetrale danno luogo alla predetta modificazione, con la conseguente necessità del permesso di costruire (Cons. Stato, IV, 29.04.2011, n. 2549)
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.05.2013 n. 3010 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza di questo Consiglio, cui la Sezione aderisce, è costante nel ritenere che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, né l’interessato può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi».
In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse».
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L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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L’art. 32 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 prevede, al comma 2, che l’ordine di demolizione deve indicare l’area che viene acquisita. Il terzo comma dello stesso art. 32 dispone che «se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune».
La chiara distinzione tra atto di demolizione e atto di acquisizione implica che l’omessa indicazione nell’ordinanza di demolizione dell’area non costituisce motivo di invalidità dell’atto, in quanto la posizione del destinatario del provvedimento –sotto tale profilo- è tutelata dall’esistenza di un successivo e autonomo provvedimento acquisitivo.
Ne consegue che, una volta definita la natura e la consistenza delle opere abusivamente realizzate mediante l’accertamento che si stata svolgendo in questa sede, l’amministrazione potrà adottare i provvedimenti consequenziali che terranno conto delle modalità, previste dalla legge, di acquisizione delle aree.

Con un primo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato il difetto di motivazione del provvedimento impugnato, che non avrebbe indicato le ragioni di interesse pubblico alla demolizione in presenza, in particolare, di un «ampliamento al fabbricato esistente» effettuato da «tantissimo tempo».
Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza di questo Consiglio, cui la Sezione aderisce, è costante nel ritenere che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, né l’interessato può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi» (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse» (Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592).
Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.
Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui non vi è ragione di discostarsi, ritiene che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (tra gli altri, Cons. Stato, IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n. 4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129).
Con un terzo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittima l’ordinanza di demolizione per non avere indicato l’area di sedime. Inoltre, l’iter finalizzato all’acquisizione gratuita non sarebbe applicabile alle opere quali il porticato e la tettoia, nonché al fabbricato «regolarmente assentito dall’ente e legittimamente realizzato».
L’art. 32 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede, al comma 2, che l’ordine di demolizione deve indicare l’area che viene acquisita. Il terzo comma dello stesso art. 32 dispone che «se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune».
La chiara distinzione tra atto di demolizione e atto di acquisizione implica che l’omessa indicazione nell’ordinanza di demolizione dell’area non costituisce motivo di invalidità dell’atto, in quanto la posizione del destinatario del provvedimento –sotto tale profilo- è tutelata dall’esistenza di un successivo e autonomo provvedimento acquisitivo (Cons. Stato, VI, 13.02.2013, n. 894; Cons. Stato, IV, 26.09.2008, n. 4659).
Ne consegue che, una volta definita la natura e la consistenza delle opere abusivamente realizzate mediante l’accertamento che si stata svolgendo in questa sede, l’amministrazione potrà adottare i provvedimenti consequenziali che terranno conto delle modalità, previste dalla legge, di acquisizione delle aree
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.05.2013 n. 3010 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Illegittimità improcedibilità della d.i.a. per l’adeguamento tecnologico di una stazione radio base.
E’ illegittimità la comunicazione del Comune d’improcedibilità della d.i.a. per l’adeguamento tecnologico di una stazione radio base.
Il provvedimento del Comune si pone, infatti, in palese contrasto non solo con la disposizione dell’art. 87-bis del Codice delle comunicazioni elettroniche, la cui ratio acceleratoria è indiscutibile alla luce del favor legislativo per l’ammodernamento degli impianti di banda larga mobile mediante tecnologia UMTS, ma anche con lo stesso art. 8, sesto comma, della l. 36/2001, che prevede il potere del Comune di “adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”, non già di vietare i meri ammodernamenti della rete esistente.

16. L’appello, ciò premesso, è fondato, nel merito, e va accolto.
17. Ha errato il giudice di prime cure, anzitutto, nel ritenere inammissibile il ricorso di H3G contro la nota prot. n. 11977/Urb del 9.2.2011 per l’omessa impugnazione della precedente nota prot. n. 97118/Urb del 06.12.2010.
Il provvedimento in questione, con il quale il Comune ha intimato ad H3G di non effettuare l’intervento richiesto, non può infatti considerarsi lesivo ed autonomamente impugnabile, dato che esso, per sua espressa (auto)qualificazione, non era definitivo.
18. È lo stesso Comune, infatti, a far presente expressis verbis in tale provvedimento che “in ottemperanza ai principi di proporzionalità, di conservazione degli atti giuridici, di non aggravamento ed economia generale del procedimento, nonché in applicazione analogica dell’articolo 10-bis della L. n. 241/1990, in quanto compatibile, tenuto conto della denuncia di inizio attività in oggetto, qualora entro 10 giorni dal ricevimento della presente, siano presentate per iscritto osservazioni pertinenti, eventualmente corredate dalla documentazione che il denunciante ritenesse utile, in base alle quali possano essere superati i motivi di diniego sopraesposti, il presente ordine sarà revocato e l’intervento potrà essere effettuato”, precisando che, diversamente, l’ordine di non eseguire l’intervento “deve considerarsi sin d’ora provvedimento definitivo e la denuncia d’inizio attività, giuridicamente inefficace, sarà archiviata”.
19. Appare quanto meno dubbia l’affermata definitività di un provvedimento che ammetta l’eventualità di essere revocato in presenza di osservazioni da parte dell’interessato.
Il richiamo all’istituto del preavviso di rigetto, reso palese dalla dichiarata applicazione “analogica” dell’art. 10-bis della l. 241/1990 nel corso del provvedimento, ben sta a comprovare, inoltre, la volontà dell’amministrazione di esprimersi solo in vista di una valutazione successiva e finale, rispetto alla quale il provvedimento in oggetto assume la valenza, indiscutibile, di determinazione interlocutoria.
20. Se il provvedimento fosse stato definitivo, infatti, non avrebbe avuto alcun senso invitare la ricorrente a presentare osservazioni pertinenti, salvo non voler ritenere, per absurdum, che la p.a., emanando tale provvedimento, abbia inteso comunque assegnare un termine all’istante per sollecitare l’autotutela contro un suo stesso atto.
E ciò, peraltro, senza dire che di fronte ad un provvedimento tanto ambiguo la società ben avrebbe potuto versare in un errore scusabile
21. Prova decisiva della non definitività del provvedimento in questione, comunque, è proprio il rilievo che, con successiva nota prot. n. 11977/Urb del 09.02.2011, tempestivamente impugnata, il Comune ha dichiarato la definitiva improcedibilità della D.I.A. in oggetto, con ciò significando, chiaramente, che il proprio precedente provvedimento era provvisorio e non determinava alcun immediato arresto procedimentale, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure.
22. La sentenza merita dunque riforma per aver male interpretato la sequenza dei provvedimenti emessi dal Comune sino a quello definitivo e immediatamente lesivo, appena richiamato, oggetto di rituale impugnazione da parte di H3G con un ricorso che appare, quindi, pienamente ammissibile.
23. Esaminando il contenuto del provvedimento impugnato in prime cure, quindi, deve rilevarsi che esso è affetto da violazione di legge e da eccesso di potere.
24. La nota prot. n. 11977/Urb del 09.02.2011 giustifica il diniego dell’intervento sulla base del rilievo che il regolamento comunale per l’installazione di infrastrutture per impianti di telefonia mobile non ricomprende l’area in cui l’impianto sorge, sita in Guidonia Montecelio, via dell’Unione, n. 58, tra quelle “più idonee destinate ai nuovi impianti di telefonia mobile”.
25. Ma l’intervento richiesto da H3G non concerne la costruzione di un nuovo impianto, bensì l’adeguamento tecnologico di una stazione radio base preesistente all’adozione del nuovo regolamento comunale e, in particolare, l’installazione di apparati con tecnologia UMTS e, più precisamente, l’inserimento del c.d. terzo layer, ossia una mera scheda funzionale all’invio e alla ricezione di dati attraverso la rete mobile.
26. Il provvedimento del Comune si pone, così, in palese contrasto non solo con la disposizione dell’art. 87-bis del Codice delle comunicazioni elettroniche, la cui ratio acceleratoria è indiscutibile alla luce del favor legislativo per l’ammodernamento degli impianti di banda larga mobile mediante tecnologia UMTS, ma anche con lo stesso art. 8, sesto comma, della l. 36/2001, che prevede il potere del Comune di “adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”, non già di vietare i meri ammodernamenti della rete esistente (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.05.2013 n. 2945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Rimozione rifiuti abbandonati durante le operazioni di taglio del bosco, responsabilità ditta esecutrice.
La presenza di rifiuti urbani non pericolosi e pericolosi (taniche di plastica di varie dimensioni che avevano contenuto carburanti e oli per motori e motoseghe) abbandonati sul luogo, asseritamente durante le operazioni di taglio del bosco, legittima l’ordinanza per la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti a carico dell’azienda agricola-forestale.
Infatti, risulta evidente il rapporto di fatto esistente tra il sito e la correlazione tra l’attività svolta (il taglio del bosco) e i rifiuti rinvenuti, sì da escludere la riconducibilità di tale condotta ad altri soggetti.
L’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 è stato interpretato nel senso che, per esigenze di tutela ambientale, tra i soggetti potenzialmente responsabili va annoverato chiunque si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli, e per ciò stesso imporgli, di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente, ben potendo il requisito della colpa postulato dalla norma consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace custodia.

La tesi non può essere condivisa.
Invero, dalla lettura del provvedimento è agevole constatare l’esatta indicazione tanto del sito ove si è riscontrato l’abbandono, quanto la natura degli stessi, ovvero taniche e contenitori di plastica (rifiuti non pericolosi) e residui di carburanti e lubrificanti in esse contenuti (rifiuti pericolosi) per i quali, ad ogni buon conto, viene precisato il codice del catalogo europeo dei rifiuti.
In ordine al profilo della responsabilità al quale, seppure implicitamente fa riferimento la parte ricorrente, si rammenta che l’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce, in tema di abbandono incontrollato di rifiuti sul suolo, che “…chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati….”.
La norma è stata interpreta nel senso che, per le sottese esigenze di tutela ambientale, tra i soggetti potenzialmente responsabili va annoverato chiunque si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente, ben potendo il requisito della colpa postulato dalla norma consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace custodia (Cass., sez. un., 25.02.2009, n. 4472; Cons. Stato, sez. IV, 13.01.2010).
Nel caso di specie risulta evidente il rapporto di fatto esistente tra il sito e i ricorrenti e la correlazione tra l’attività svolta (il taglio del bosco) e i rifiuti rinvenuti, sì da escludere come del tutto implausibile la riconducibilità di tale condotta ad altri soggetti e, in ogni caso, dovendosi ricondurre la responsabilità degli interessati all’omissione di un’adeguata attività di vigilanza e custodia dei luoghi dove i rifiuti sono stati abbandonati, tenuto conto del contratto d’affitto stipulato per l’esecuzione del taglio.
Per le ragioni che precedono il ricorso deve essere respinto (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 30.05.2013 n. 879 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego condono in area gravata da servitù militare a protezione della postazione radar.
E’ legittimo il diniego di condono edilizio un edificio (un albergo con venti bungalow e strutture accessorie) realizzato in zona gravata da servitù militare, istituita a protezione della postazione radar di Licola.
Nell’area ove sorge l’edificio abusivo esiste, a protezione dell’impianto radar dell’Aeronautica militare di Licola, una servitù militare costituita, in base alla legge 24.12.1976, n. 898, con provvedimento dell’Autorità militare.
Ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge citata, tale servitù comporta un limite al diritto di proprietà. In particolare, nella zona più interna dell’area attorno all’installazione militare (c.d. zona rossa) sussistono specifici limiti di altezza (5 metri sul livello del mare) che nel caso di specie non sarebbero rispettati.

Nell’area ove sorge l’edificio oggetto della richiesta di condono esiste, a protezione dell’impianto radar dell’Aeronautica militare di Licola, una servitù militare, originariamente costituita -in base alla legge 24.12.1976, n. 898- con provvedimento dell’Autorità militare (decreto del Comandante della 2° Regione aerea n. 32 del 17.02.1982).
Ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge citata, tale servitù comporta un limite al diritto di proprietà. In particolare, nella zona più interna dell’area attorno all’installazione militare (c.d. zona rossa) sussistono specifici limiti di altezza (5 metri sul livello del mare) che nel caso di specie non sarebbero rispettati, posto che l’altezza sul livello del mare dell’edificio risulta essere di m. 11,40 (questo dato di fatto non è contestato).
Il Russo sostiene che la servitù sarebbe stata costituta solo nel 2004, se non nel 2005 (si veda la richiesta di nulla osta in data 18.10.2006). Questa affermazione, però, è smentita dalla documentazione versata in atti dall’Amministrazione militare nel corso del giudizio di primo grado (con nota dell’Avvocatura distrettuale del 15.02.2008) e non specificamente contestata, secondo la quale la fonte primitiva è costituita dal ricordato decreto n. 32 del 1982, pubblicato per affissione nel territorio del Comune.
Il vincolo, di durata quinquennale (ex art. 10 della legge n. 898 del 1976), è stato successivamente rinnovato senza soluzione di continuità sino al 1997 e, in seguito, a partire dal 2004.
A questo proposito, l’appellante richiama l’ultimo comma dell’art. 10 citato (“se non interviene decreto di conferma alla prevista scadenza, le limitazioni restano estinte ad ogni effetto”) per sostenere l’avvenuta decadenza del vincolo alla sua proprietà.
L’argomento, tuttavia, non ha pregio. Come correttamente osserva il Tribunale regionale, il vincolo era vigente ed efficace al momento della costruzione dell’edificio (1985) e a quello della presentazione della domanda di condono (1994), cosicché è indubbio che le iniziative del privato si ponevano in conflitto con il vincolo medesimo.
Trattandosi di opera costruita in contrasto con un vincolo imposto a tutela di interessi della difesa militare, l’edificio è del tutto insanabile, a norma dell’art. 33 della legge 28.02.1985, n. 47. La fattispecie esula dunque completamente da quella regolata dal precedente art. 32 della stessa legge. E’ dunque irrilevante che l’Amministrazione, nel rigettare l’istanza di condono, non abbia preventivamente acquisito il parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo né convocato una conferenza di servizi (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.05.2013 n. 2903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Variante cartografica per individuazione parcheggi privati.
E’ legittima la variante cartografica per l’individuazione di parcheggi privati.
Invero, nella fattispecie , trattandosi di una variante urbanistica di minor conto, con limitati effetti pianificatori, l’Amministrazione ha correttamente utilizzato lo strumento procedurale della variante urbanistica di cui all’art. 50 delle legge n. 61/85 di esclusiva competenza del Comune, non rinvenendosi a carico dell’Amministrazione procedente l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento nei confronti di eventuali soggetti interessati, dal momento che si è in presenza di un atto a contenuto normativo in cui le esigenze di partecipazione e contraddittorio sono assicurate dagli ordinari rimedi delle osservazioni previsti per la formazione di siffatti strumenti.

Priva di fondamento infine si rivela la censura di violazione della normativa di tipo partecipativo di cui agli artt. 7 e ss della legge sul procedimento.
Invero, nella fattispecie, trattandosi di una variante urbanistica di minor conto, con limitati effetti pianificatori, l’Amministrazione ha correttamente utilizzato lo strumento procedurale della variante urbanistica di cui all’art 50 delle legge n. 61/1985 di esclusiva competenza del Comune, non rinvenendosi a carico dell’Amministrazione procedente l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento nei confronti di eventuali soggetti interessati, dal momento che si è in presenza di un atto a contenuto normativo in cui le esigenze di partecipazione e contraddittorio sono assicurate dagli ordinari rimedi delle osservazioni previsti per la formazione di siffatti strumenti (Cons. Stato Sez. IV 22.03.2005 n.1236; idem Sez. 29.05.2006 n. 3259) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.05.2013 n. 2896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano di lottizzazione e vincolo paesaggistico.
Il decreto ministeriale 01.08.1985, non può ritenersi comunque decaduto ai sensi dell’art. 1-quinquies della legge n. 431 del 1985, poiché ne permane l’effetto legale proprio del vincolo di inedificabilità relativa, che consegue alla dichiarazione del notevole interesse pubblico effettuata ai sensi dell'art. 1, numeri 3 e 4, della legge n. 1497 del 1939. Ne consegue che la trasformazione delle aree in questione deve essere autorizzata ai sensi dell'art. 7 della medesima legge. n. 1497 del 1939.
Dunque è di tutta evidenza l’idoneità del vincolo ad imporsi sulla zonizzazione recata dal PUTT, che non solo è recessivo rispetto ad un preesistente vincolo di inedificabilità relativa, ma che deve essere interpretato con la necessaria clausola di salvezza di difformi espressioni di un potere più generale. Considerazione, questa, che precede e assorbe ogni altra valutazione generale circa l’inidoneità dei piani urbanistici territoriali o dei piani paesaggistici, i quali ultimi sono strumento di attuazione e non eventuale di revisione dei vincoli, a derogare ai vincoli stessi.

L’appello è fondato.
Il decreto 01.08.1985, con il quale il Ministero per i beni culturali e ambientali ha sottoposto a vincolo, tra le altre, la zona del Comune di Massafra interessata dall’intervento di cui è causa, reca nel preambolo, quali fonti del potere esercitato, non solo il decreto-legge 27.06.1985, n. 312, poi convertito dalla legge 08.08.1985, n. 431, ma anche la legge 29.06.1939, n. 1497. Tanto è sufficiente a ritenere non dirimente la censura, accolta invece dal Tribunale amministrativo, relativa alla mancata convalida dei vincoli perfezionatisi ai sensi del decreto ministeriale del 21.09.1984 in data successiva all’entrata in vigore della suddetta legge n. 431 del 1985.
Se, infatti, l’applicazione nelle località vincolate di un divieto assoluto e temporaneo di modificazione dei luoghi era venuto meno per effetto riflesso della mancata pubblicazione del decreto di imposizione del vincolo prima dell’entrata in vigore delle legge n. 431 del 1985 (Corte Costituzionale, 27.06.1986, n. 153, secondo cui, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 312 del 1985, come convertito dalla l. n. 431 del 1985, era passato alle regioni il potere di introdurre vincoli di inedificabilità ai sensi degli artt. 1-ter e 1-quinquies dello stesso decreto-legge), permane, tuttavia, e con pieno effetto, il riconoscimento del valore dell’area stessa e la connessa dichiarazione di notevole interesse paesistico: e questo effetto comporta comunque, quale contenuto essenziale e indeclinabile del vincolo, la necessità di sottoporre ogni progetto di intervento modificativo alla previa valutazione dell’Amministrazione preposta alla tutela, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939.
Conformemente a quanto ha più volte rilevato questo Consiglio di Stato (es. Cons. Stato, VI, 08.08.2006, n. 4778; 08.02.2008, n. 408) il decreto ministeriale 01.08.1985, che qui interessa, non può ritenersi comunque decaduto ai sensi dell’art. 1-quinquies della legge n. 431 del 1985, poiché ne permane l’effetto legale proprio del vincolo di inedificabilità relativa, che consegue alla dichiarazione del notevole interesse pubblico effettuata ai sensi dell'art. 1, numeri 3 e 4, della legge n. 1497 del 1939. Ne consegue che la trasformazione delle aree in questione deve essere autorizzata ai sensi dell'art. 7 della medesima legge n. 1497 del 1939 (Cons. Stato, VI, 19.06.2001, n. 3242).
Va, infatti, ribadito che il suddetto decreto del 1985 ha una duplice valenza: di individuazione di località aventi pregio paesaggistico con la sottoposizione delle stesse al regime di tutela di cui alla legge n. 1497 del 1939 operata dal Ministero per i beni culturali e ambientali in via di integrazione degli elenchi delle bellezze naturali; di applicazione nelle medesime località vincolate di un divieto assoluto e temporaneo di modificazione dei luoghi predetti fino al 31.12.1985. Solo quest’ultimo aspetto ha perduto efficacia a causa della mancata pubblicazione del decreto di imposizione del vincolo prima dell'entrata in vigore della legge n. 431 del 1985, mentre la dichiarazione delle aree di interesse paesaggistico individuate dallo stesso decreto, emanato dal Ministero in virtù di un concorrente potere statale di integrazione degli elenchi delle bellezze naturali meritevoli di tutela, mantiene la sua piena efficacia, con ogni conseguenza in ordine al regime di inedificabilità relativa dell'area in questione, la cui attività di trasformazione dovrà essere autorizzata necessariamente, come si è detto, ai sensi dell'art. 7 della legge n. 1497 del 1939 e successive modificazioni.
Ciò risulta peraltro confermato dalla successiva disposizione transitoria di cui all'articolo 162 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), che precisa la permanenza del vincolo di inedificabilità assoluta, fino all'approvazione dei piani previsti dall'articolo 149 della stessa legge, soltanto per i decreti pubblicati in data anteriore al 06.09.1985.
Il venir meno del vincolo d'inedificabilità assoluta non ha fatto venire meno dunque l'individuazione delle località aventi pregio paesistico e il conseguente effetto della loro sottoposizione all’ordinario regime di tutela di cui alla legge n. 1497 del 1939, in via di integrazione degli elenchi delle bellezze naturali. Ciò comporta l'applicabilità alle località individuate dai decreti cosiddetti galassini (cioè i dd.mm. del 01.08.1985, che avevano la fonte nel decreto Galasso), pubblicati, come nel caso in esame, in data successiva al 06.09.1985, del regime di inedificabilità relativa, con conseguente necessità della prescritta autorizzazione dell'art. 7 della legge del 1939 per ogni attività di trasformazione.
Ove occorra è altresì, da un punto di vista sistematico, da considerare quanto agli effetti di inedificabilità assoluta come effetti distinti da quello comunque essenziale di inedificabilità relativa, che l’art. 1-quinquies del d.l. n. 312 del 1985, come convertito dalla l. n. 431 del 1985, ha temporaneamente salvaguardato gli effetti di salvaguardia per impedire su determinate aree, di interesse paesaggistico o di particolare pregio, ogni modificazione innovativa.
Il parere negativo qui opposto, con ampia ed esauriente motivazione, dalla Soprintendenza nell’ambito della valutazione di impatto ambientale sul progetto di lottizzazione di cui è causa, pertanto, contrariamente a quanto ha ritenuto la sentenza impugnata, è legittimo sotto l’aspetto considerato.
È anche di tutta evidenza l’idoneità del vincolo ad imporsi sulla zonizzazione recata dal PUTT (il cui art. 5.02 delle norme tecniche di attuazione, come si è detto, esclude, per le aree, quale quella in esame, perimetrate nell’ambito dei territori costruiti, la necessità dell’autorizzazione paesaggistica), che non solo è recessivo rispetto ad un preesistente vincolo di inedificabilità relativa, ma che deve essere interpretato con la necessaria clausola di salvezza di difformi espressioni di un potere più generale, salvezza resa esplicita dallo stesso art. 5.02, primo comma, nell’assoggettare all’obbligo di acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica gli interventi in zone vincolate con le procedure della legge n. 1497 del 1939.
Considerazione, questa, che precede e assorbe ogni altra valutazione generale circa l’inidoneità dei piani urbanistici territoriali o dei piani paesaggistici, i quali ultimi sono strumento di attuazione e non eventuale di revisione dei vincoli, a derogare ai vincoli stessi (cfr. Cons. Stato, II, II, 20 maggio 1998, n. 548/98.) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.05.2013 n. 2867 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oneri concessori per cambio destinazione d’uso da civile abitazione a studio professionale.
La giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che, indipendentemente dall’esecuzione di opere edilizie, la richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione deve ritenersi legittima ogni qual volta si verifichi una variazione, in aumento, del carico urbanistico, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica la corresponsione, quanto meno, della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile.
L’obbligo di pagamento sussiste, in via astratta, anche per quanto concerne contributo relativo al costo di costruzione. Trattandosi di un prelievo paratributario è comunque dovuto in presenza di una "trasformazione edilizia" che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si riveli produttiva di vantaggi economici connessi all'utilizzazione.

La censura, essendo posta in termini generici e in via di principio, non può essere condivisa.
Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che, indipendentemente dall’esecuzione di opere edilizie, la richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione deve ritenersi legittima ogni qual volta si verifichi una variazione, in aumento, del carico urbanistico, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica la corresponsione, quanto meno, della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2004 n. 2611; id., Sez. V, 15.09.1997 n. 959; TAR Roma, Sez. II-ter, 17.03.2012 n. 2604; TAR Bari, Sez. III, 22.02.2006, n. 571; TAR Milano, Sez. II, 02.10.2003 n. 4502; TAR Bologna, Sez. II, 19.02.2001 n. 157 e 07.05.1999, n. 259).
L’obbligo di pagamento sussiste, in via astratta, anche per quanto concerne contributo relativo al costo di costruzione. Trattandosi di un prelievo paratributario è comunque dovuto in presenza di una "trasformazione edilizia" che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si riveli produttiva di vantaggi economici connessi all'utilizzazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV 14.10.2011 n. 5539; id. 21.04.2006 n. 2258).
Nel caso specifico pare evidente che il richiesto mutamento d'uso comporti il passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che produce un aumento del carico, come evidenziato anche dall’ulteriore richiesta di £ 123.156 a titolo di monetizzazione delle aree da destinare a viabilità e standard connesse con la nuova destinazione produttiva.
Non essendo state evidenziate circostanze particolari e riferite al caso specifico che potrebbero escludere in parte il pagamento della contribuzione (quali, ad esempio, il pagamento di precedenti contributi concessori), il ricorso va quindi respinto (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Marche, sentenza 24.05.2013 n. 384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego autorizzazione paesaggistica per impianto di distribuzione carburanti in area collinare del Vesuvio.
E’ legittimo il diniego di autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti, in quanto le opere oggetto si collocano nella “zona pedemontana”, costituita da un’ampia area collinare alle pendici del Vesuvio di particolare pregio paesaggistico-ambientale.
In questo quadro, è legittimo il parere negativo parere della Soprintendenza, nei termini in cui, nell’esercizio della discrezionalità tecnica di cui è espressione, ha stimato le nuove volumetrie non compatibili con la tutela del paesaggio.

5. L’appello merita accoglimento.
5.1. In primo, a differenza di quanto ritenuto dalla sentenza appellata, non vi è stata violazione del divieto di effettuazione ex novo della valutazione di compatibilità paesaggistica, in quanto il parere negativo espresso dalla Soprintendenza ha ad oggetto opere diverse rispetto a quelle già assentite con autorizzazione unica del 2008: si tratta di varianti al precedente progetto che importano modifiche sostanziali che, pertanto, giustificano una nuova valutazione paesaggistica.
5.2. Ugualmente non ha pregio il motivo proposto in primo grado (e ritenuto fondato dal Tribunale amministrativo regionale) diretto a denunciare la violazione dell’art. 21 del Piano territoriale paesistico (PTP) dei Comuni vesuviani.
In base a tale previsione: “È consentito in tutte le zone del presente piano, anche in deroga alle norme e alle prescrizioni delle singole zone di cui alla presente normativa: 1) la realizzazione e/o l’adeguamento degli impianti tecnologici ed infrastrutturali quali sistemi fognari e di depurazione, idrici, elettrici telefonici e sistemi similari di pubblica utilità sia di rilevanza comunale che sovra comunale”.
Sebbene l’impianto di distribuzione di carburante possa rientrare, in astratto, nel campo di applicazione dell’art. 21 PTP, occorre, tuttavia, chiarire che la disposizione in esame, nel consentire la realizzazione di tali impianti in eventuale deroga alle prescrizioni di piano -tra cui quella del generale divieto di incremento volumetrico prevista dall’art. 15 per la zona S.I. (zone Sature Interne)- non esclude, tuttavia, la persistenza, in ogni caso, del potere della Soprintendenza di valutare, in concreto, l’impatto paesaggistico della nuova opera e, in particolare, di valutarne la compatibilità paesaggistica.
In altri termini, anche per gli impianti che ricadono nel campo di applicazione di cui all’art. 21 PTP, la valutazione dell’impatto paesaggistico risulta, comunque, necessaria, non potendo certamente la detta deroga essere letta nel senso di consentire che gli impianti in essa menzionati possano essere realizzati a prescindere da ogni forma di tutela paesaggistica e, quindi, sottranedoli surrettiziamente al regime vincolistico e così di fatto precludendo alla Soprintendenza di valutare, caso per caso, il concreto impatto che essi possono avere sul paesaggio nel quale si inseriscono e di stimarne la relativa compatibilità.
5.3. Nel caso di specie, come evidenzia il Ministero nell’atto di appello, le opere oggetto di intervento si collocano nella “zona pedemontana”, costituita da un’ampia area collinare alle pendici del Vesuvio di particolare pregio paesaggistico-ambientale.
In questo quadro, il parere della Soprintendenza, nei termini in cui –nell’esercizio della discrezionalità tecnica di cui è espressione- ha stimato le nuove volumetrie non compatibili con la tutela del detto paesaggio, sfugge, anche sotto il profilo motivazionale, alle censure sollevate dall’originario ricorrente (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.05.2013 n. 2817 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità ordinanza demolizione gazebo.
La precarietà di un’opera va valutata sul piano funzionale, non potendo ravvisarsi tale caratteristica in un gazebo per l’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, indipendentemente dall’essere stato realizzato con struttura amovibile o meno, essendo lo stesso destinato a soddisfare esigenze durature nel tempo, principio rafforzato nel caso concreto dal carattere permanente e non stagionale dell’attività svolta.
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi in considerazione dell’autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico, considerato che tale autorizzazione non ha attribuito la facoltà di costruzione della struttura oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione.

Non può essere accolta la prospettazione impugnatoria per la quale il manufatto di cui si controverte sarebbe a carattere precario.
La precarietà di un’opera va valutata sul piano funzionale, non potendo ravvisarsi tale caratteristica in un gazebo per l’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, indipendentemente dall’essere stato realizzato con struttura amovibile o meno, essendo lo stesso destinato a soddisfare esigenze durature nel tempo, principio rafforzato nel caso concreto dal carattere permanente e non stagionale dell’attività svolta.
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi in considerazione dell’autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico rilasciata all’odierna ricorrente in data 16.04.2010, considerato che tale autorizzazione non ha attribuito la facoltà di costruzione della struttura oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Marche, sentenza 23.05.2013 n. 377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per ius receptum, l’ordinanza di demolizione di opere abusive é un atto dovuto a carattere vincolato, che costituisce esercizio dei poteri-doveri di vigilanza sull’attività edilizia spettanti all’autorità preposta al governo del territorio.
Per tale ragione, é da condividersi il principio giurisprudenziale in virtù del quale il provvedimento con il quale si ingiunge doverosamente la demolizione di opere abusive, quale atto vincolato, fondato sull’accertamento del carattere abusivo delle opere, non deve essere preceduto dall’avviso dell’inizio del procedimento.
Per la medesima considerazione, non si richiede una motivazione particolarmente stringente, una volta che sia stata evidenziata l’accertata abusività delle opere.

Sono infondate le dedotte doglianze di eccesso di potere per difetto dei presupposti, sviamento dalla causa tipica, difetto di motivazione, omessa comunicazione di avvio del procedimento, violazione delle garanzie procedimentali, contraddittorietà, irrazionalità e difetto di istruttoria.
Per ius receptum, l’ordinanza di demolizione di opere abusive é un atto dovuto a carattere vincolato, che costituisce esercizio dei poteri-doveri di vigilanza sull’attività edilizia spettanti all’autorità preposta al governo del territorio.
Per tale ragione, é da condividersi il principio giurisprudenziale in virtù del quale il provvedimento con il quale si ingiunge doverosamente la demolizione di opere abusive, quale atto vincolato, fondato sull’accertamento del carattere abusivo delle opere, non deve essere preceduto dall’avviso dell’inizio del procedimento.
Per la medesima considerazione, non si richiede una motivazione particolarmente stringente, una volta che sia stata evidenziata l’accertata abusività delle opere (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Marche, sentenza 23.05.2013 n. 377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione del fabbricato preesistente.
Non vi è dubbio che, laddove sia stata assentita una ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione del fabbricato preesistente, l’intervento, unitariamente considerato, di edificazione del nuovo edificio senza la demolizione del preesistente è da ritenersi in difformità totale rispetto al titolo abilitativo.
La mancata demolizione dell’edificio preesistente, in sede di ristrutturazione edilizia per la demolizione e ricostruzione dell’immobile, comporta la realizzazione di una volumetria aggiuntiva, dotata di specifica rilevanza e autonoma utilizzabilità, in difformità totale rispetto al progetto assentito, di talché il risultato della complessiva attività edificatoria viene a configurare un organismo edilizio integralmente diverso da quello oggetto del permesso di costruire.

Ciò premesso, rileva il Collegio che, con il titolo abilitativo n. 40 del 1975, è stato assentito un intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione dell’edificio esistente e ricostruzione.
L’elaborazione normativa e giurisprudenziale ha tracciato i profili di distinzione dell’intervento di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, rispetto al risanamento conservativo e rispetto alla nuova costruzione.
Sul primo fronte, si è evidenziata la funzione cui assolve il risanamento conservativo, quale intervento preordinato alla conservazione dell’organismo edilizio, immutati restando gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, che viene ad essere sottoposto ad un recupero architettonico, suscettibile di comprendere il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio esistente, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, nonché l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio.
La ristrutturazione edilizia può portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal preesistente, rispondendo ad una funzione di integrale rinnovo dell’edificio piuttosto che di mera conservazione.
La preesistenza dell’organismo edilizio e la già avvenuta trasformazione del territorio caratterizzano la ristrutturazione edilizia rispetto ad un intervento di nuova costruzione.
Nell’odierna controversia, essendo stato assentito un intervento di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, il fabbricato colonico avrebbe dovuto essere demolito e riedificato, come da progetto.
Tuttavia, per quanto risulta dagli atti del giudizio, il nuovo fabbricato è stato edificato senza che la preesistente casa colonica sia stata demolita.
Dall’accertamento compiuto dalla polizia municipale del Comune di Ancona in data 31.01.2008, si evince che la demolizione del fabbricato colonico prevista dai progetti allegati alla licenza edilizia non è stata eseguita.
La deduzione, svolta con il primo motivo del ricorso principale, sotto il profilo della nullità della diffida a demolire per nullità della notifica, articolata sull’assunto che la ricorrente avrebbe conseguito la piena conoscenza della predetta diffida a demolire solo in seguito all’accesso agli atti, se può rilevare ai fini della tempestività dell’impugnazione della diffida del 31.07.1980, peraltro non è conducente per addivenire all’accoglimento dell’impugnativa, considerato che la diffida a demolire non costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dei provvedimenti impugnati con il ricorso principale e con i motivi aggiunti, provvedimenti che non possono ritenersi conseguenza inevitabile della ridetta diffida a demolire, di talché, in mancanza di alcun nesso di presupposizione necessaria, non sussistono i lamentati profili di illegittimità derivata.
Le osservazioni superiormente svolte con riguardo agli elaborati progettuali allegati alla licenza edilizia n° 40/1975 impongono il rigetto della doglianza, svolta con il secondo motivo del ricorso principale per asserito eccesso di potere per carenza di presupposti, errore di fatto o contraddittorietà.
La demolizione della ex casa colonica era il presupposto del rilascio del titolo abilitativo n. 40 del 1975 per la ristrutturazione di tipo ricostruttivo, di talché la stessa ex casa colonica non poteva formare oggetto del chiesto risanamento conservativo.
In seguito agli eventi sismici del 1972, infatti, la proprietà del fabbricato colonico danneggiato dal sisma aveva richiesto la realizzazione di un intervento rivolto non alla conservazione dell’organismo edilizio esistente, con mantenimento degli elementi tipologici, formali e strutturali del fabbricato, non quindi un intervento qualificabile come restauro o risanamento conservativo, ma piuttosto la demolizione e ricostruzione del fabbricato.
Il provvedimento prot. n. 20910/46099 del 13.05.2008, emesso in seguito alla valutazione delle deduzioni svolte con memoria ai sensi dell’art. 10–bis della legge n. 241/1990, è adeguatamente motivato sulle ragioni per le quali l’amministrazione è addivenuta all’impugnato diniego.
Nessuna contraddittorietà è ravvisabile nell’azione amministrativa, essendo state denegate le istanze presentate dalla ricorrente sul rilievo della mancata esecuzione della demolizione della ex casa colonica.
Per le medesime ragioni, sono infondate le doglianze svolte per violazione del principio dell’affidamento, considerato che sin dal provvedimento con il quale era stata respinta l’istanza avanzata dalla ricorrente in data 28.10.1977, per la “trasformazione” del fabbricato colonico da abitazione a fienile, l’amministrazione comunale aveva sottolineato l’obbligo di provvedere “alla demolizione della vecchia casa colonica, così come riportato nel progetto allegato alla licenza edilizia n° 40 del 10/04/1975”, di talché non può ritenersi che la condotta amministrativa possa in alcun modo aver ingenerato un ragionevole affidamento sulla legittimità della mancata demolizione della ex casa colonica.
Non può, quindi, accogliersi il terzo motivo del ricorso principale con il quale si invoca l’istituto dell’errore scusabile per domandare la “rimessione in termini”, considerato che la ricorrente non è incorsa, nell’odierno giudizio, in preclusioni o decadenze rispetto alle quali la stessa possa essere restituita in termini.
Deve anche osservarsi che la ricorrente non ha dedotto di aver proposto istanza di condono edilizio e che le istanze di sanatoria presentate ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 sono state respinte per la non conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica vigente, il che evidenzia l’infondatezza della doglianza, anche sotto tale profilo.
Priva di alcun fondamento è la tesi, svolta nel quarto motivo del ricorso principale, che la ex casa colonica possa considerarsi “pertinenza”, non sussistendo alcun nesso di destinazione funzionale del fabbricato in questione al servizio della nuova casa colonica.
Infondata si appalesa, altresì, la doglianza con la quale si lamenta violazione del giusto procedimento e disparità di trattamento rispetto agli odierni controinteressati costituiti, considerato che questi ultimi non hanno richiesto la demolizione e ricostruzione del fabbricato di loro proprietà, e che, pertanto, differenti essendo le situazioni della ricorrente e dei controinteressati, l’amministrazione legittimamente ha differenziato il relativo trattamento giuridico.
Per tali ragioni, il ricorso principale dev’essere respinto per infondatezza.
Il primo ricorso per motivi aggiunti è infondato.
Preliminarmente, deve osservarsi che l’istanza, avanzata dalla ricorrente in corso di giudizio, con la quale la stessa ha chiesto di essere autorizzata a demolire le opere abusive, non determina il venir meno dell’interesse all’impugnativa, considerata la natura sanzionatoria delle ordinanze di demolizione e gli effetti giuridici che l’ordinamento annette all’accertamento dell’abusività delle opere.
Devono essere respinti i motivi aggiunti con i quali sono riproposte, per illegittimità derivata, avverso le impugnate ordinanze n. 92875 del 13.10.2008 e n. 92829 del 13.10.2008, deduzioni svolte in via principale nell’atto introduttivo del giudizio.
Non merita accoglimento la doglianza con la quale si lamenta carenza di presupposti ed errore di fatto.
Non vi è dubbio che, laddove sia stata assentita una ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione del fabbricato preesistente, l’intervento, unitariamente considerato, di edificazione del nuovo edificio senza la demolizione del preesistente è da ritenersi in difformità totale rispetto al titolo abilitativo.
La mancata demolizione dell’edificio preesistente, in sede di ristrutturazione edilizia per la demolizione e ricostruzione dell’immobile, comporta la realizzazione di una volumetria aggiuntiva, dotata di specifica rilevanza e autonoma utilizzabilità, in difformità totale rispetto al progetto assentito, di talché il risultato della complessiva attività edificatoria viene a configurare un organismo edilizio integralmente diverso da quello oggetto del permesso di costruire.
Sull’organismo edilizio così realizzato in totale difformità, per la mancata demolizione della preesistente casa colonica, abuso sanzionato con l’ordinanza n. 92875 del 13.10.2008, si sono innestati ulteriori interventi in parziale difformità rispetto al progetto assentito con la licenza di costruzione n. 40/1975, sanzionati con l’ordinanza n. 92829 del 13.10.2008 (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Marche, sentenza 23.05.2013 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ambiente in genere. Illegittimità Piano comunale di localizzazione della rete di distribuzione dei carburanti adottato senza preventiva Valutazione Ambientale Strategica (VAS).
Lo scopo della V.A.S. consiste nella verifica degli impatti derivanti sull'ambiente naturale da strumenti urbanistici generali; in particolare, l'aggettivo "strategica" evidenzia l'aspetto caratterizzante dell'istituto, costituito dalla significativa anticipazione della valutazione delle possibili conseguenze ambientali negative dell'azione amministrativa conseguenti alla progettazione e adozione di piani e dei programmi.
Tale valutazione ha quindi la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione, dell'adozione e approvazione di piani e programmi, assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile.
Assicura, inoltre, che l'attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un'equa distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica.

Lo scopo della V.A.S. consiste nella verifica degli impatti derivanti sull'ambiente naturale da strumenti urbanistici generali; in particolare, l'aggettivo "strategica" evidenzia l'aspetto caratterizzante dell'istituto, costituito dalla significativa anticipazione della valutazione delle possibili conseguenze ambientali negative dell'azione amministrativa conseguenti alla progettazione e adozione di piani e dei programmi.
Tale valutazione ha quindi la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione, dell'adozione e approvazione di piani e programmi, assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile. Assicura, inoltre, che l'attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un'equa distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 19.12.2012, n. 5256).
Considerato che l'iter di formazione degli strumenti urbanistici si articola, di regola, nelle diverse fasi dell'adozione e dell'approvazione, il giudizio di compatibilità ambientale deve essere compiuto nella fase preparatoria dello strumento di pianificazione.
In ogni caso esso deve sussistere prima della relativa approvazione; infatti dispone l'art. 11 ultimo comma, del Codice dell'Ambiente, che "i provvedimenti amministrativi di approvazione adottati senza la previa valutazione ambientale strategica, ove prescritta, sono annullabili per violazione di legge".
Il Collegio non ignora che, interpretando la su riportata norma, la giurisprudenza è abbastanza concorde nel ritenere che, ai fini della legittimità dell’atto di approvazione, è sufficiente che la valutazione ambientale strategica degli atti di pianificazione territoriale e di destinazione dei suoli sia effettuata prima dell'approvazione del piano, atteso che l’art. 11 citato ha individuato, quale unico limite temporale inderogabile per l'espletamento della valutazione ambientale, la data di approvazione del piano e non quella di adozione (cfr. ex multis: TAR Campania, Salerno, sez. II, 21.02.2013, n. 471).
Tuttavia ritiene che la posposizione di tale valutazione, pur pacificamente ammissibile, non possa essere metodologicamente condivisa laddove, come nel caso di specie, finisca col risolversi in una mera formalità, priva del contenuto sostanziale imprescindibile che la normativa comunitaria e la legislazione nazionale che l’ha recepita hanno inteso attribuirle (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 23.05.2013 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione distanza legale e principio di prevenzione ex artt. 873 e 875 c.c..
Il principio di prevenzione, fotografato dal combinato disposto degli artt. 873 e 875 c.c., prevede che è consentito a chi costruisce per primo di operare la scelta tra il costruire alla distanza legale e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine, determinando così le modalità da seguire per chi costruisce dopo.
Ne deriva che il citato principio non può coprire anche le ipotesi in cui chi ha costruito per primo, rispettando la distanza legale, successivamente alla costruzione dell’altro fabbricato, abbia poi violato tale distanza in conseguenza dell’ampliamento dell’edificio.
Il principio di prevenzione opera al momento della realizzazione dell’edificio e non si estende anche agli ampliamenti realizzati successivamente alla costruzione dell’edificio antistante.

Con riguardo, invece, al provvedimento n. 15669 del 31.03.2000, di rigetto della richiesta del 28.07.1999, n. 23762, con cui l’amministrazione resistente ha negato la domanda di concessione edilizia in sanatoria tesa alla creazione di un nuovo spazio abitabile, il ricorso va rigettato, perché il provvedimento risulta congruamente motivato.
L’amministrazione, come detto, ha rigettato la richiesta in argomento, non perché l’opera non era stata previamente assentita, ma perché in contrasto, in ogni caso, con l’art. 873 c.c., con l’art. 9 del D.M. 1444 del 02.04.1968, nonché con gli artt. 3.4.7, 3.4.18 e 3.4.22 del Regolamento locale d’igiene.
In particolare, secondo l’amministrazione, la creazione di un nuovo spazio abitabile avrebbe violato l’art. 873 c.c. che fissa la distanza minima tra le costruzioni in mt. 3,00, nonché con l’art. 9 del D.M. 1444 del 02.04.1968, che stabilisce in mt. 10 la distanza tra i fabbricati, prendendo come punto di riferimento la distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Inoltre, l’intervento avrebbe violato il Regolamento d’igiene che prescrive determinate altezze minime e la ventilazione dei locali.
Orbene, il provvedimento dell’amministrazione risulta correttamente motivato.
Le ricorrenti hanno chiesto l’autorizzazione in sanatoria per la creazione di un nuovo spazio abitabile per l’ampliamento della sala ristorante; il nuovo corpo di fabbrica “risulta posto ad una distanza di circa 2,50 mt. dall’edificio confinante” e, quindi, in aperta violazione sia dell’art. 873 c.c. che dell’art. 9 D.M. 1444 del 02.04.1968.
Secondo le ricorrenti, l’art. 873 c.c. non si applicherebbe al caso di specie, perché una porzione dell’edificio delle ricorrenti che preesisteva all’intervento, nonché all’edificio antistante, era posto ad una distanza maggiore di mt. 3 e, pertanto, per il principio della prevenzione sarebbe ininfluente che successivamente si sia ridotta la distanza tra gli edifici.
La censura non può essere condivisa.
Il principio di prevenzione, fotografato dal combinato disposto degli artt. 873 e 875 c.c., prevede che è consentito a chi costruisce per primo di operare la scelta tra il costruire alla distanza legale e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine, determinando così le modalità da seguire per chi costruisce dopo (cfr., Cass., 3638/2007). Ne deriva che il citato principio non può coprire anche le ipotesi in cui chi ha costruito per primo, rispettando la distanza legale, successivamente alla costruzione dell’altro fabbricato, abbia poi violato tale distanza in conseguenza dell’ampliamento dell’edificio. Il principio di prevenzione opera al momento della realizzazione dell’edificio e non si estende anche agli ampliamenti realizzati successivamente alla costruzione dell’edificio antistante.
Ne deriva che, pertanto, correttamente l’amministrazione ha negato il rilascio della concessione edilizia, in quanto il richiesto ampliamento è stato realizzato in violazione della distanza minima prevista dall’art. 873 c.c.
Tale motivazione sorregge da sola la legittimità del provvedimento impugnato e consente di ritenere superfluo l’esame degli altri motivi di doglianza contenuti in ricorso e diretti a contestare le ulteriori motivazioni del diniego di sanatoria (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.05.2013 n. 1221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Illegittimità del provvedimento comunale di sospensione dei lavori di riconfigurazione della stazione radiobase.
Il provvedimento inibitorio è stato motivato col rilievo che la d.i.a. presentata dalla ricorrente contrasta con l’art. 17 delle n.t.a. del p.r.g. che “ammette l’installazione degli impianti …soggetta a titolo edilizio abilitativo, solo sottoscrivendo con gli enti gestori apposito atto di convenzione ed a condizione che si perseguano rispettivamente obiettivi di qualità nell’impatto visivo e obiettivi di qualità nella minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici”.
Secondo l’interpretazione logica, l’imposizione dell’obbligo della convenzione, all’esplicito fine di perseguire “obiettivi di qualità nell’impatto visivo e nella minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici” se appare ragionevole nel caso dell’installazione di nuovi impianti, non ha invece alcuna ragione giustificatrice allorquando si tratti di semplice riconfigurazione radioelettrica, ferma restando la consistenza fisica dell’impianto già esistente.

Passando alle valutazioni di merito, va premesso che l’impugnato provvedimento inibitorio è stato motivato col rilievo che la d.i.a. presentata dalla ricorrente contrasta con l’art. 17 delle n.t.a. del p.r.g. che “ammette l’installazione degli impianti …soggetta a titolo edilizio abilitativo, solo sottoscrivendo con gli enti gestori apposito atto di convenzione ed a condizione che si perseguano rispettivamente obiettivi di qualità nell’impatto visivo e obiettivi di qualità nella minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici”.
Con i primi tre motivi di ricorso si sostiene che, allorquando è stato comunicato alla ricorrente il provvedimento impugnato, era ormai esaurito il periodo di tempo entro il quale l'Amministrazione avrebbe potuto esercitare i poteri inibitori.
Si sostiene inoltre che sarebbe stato violato l’art. 10-bis L. 241/1990.
Circa quest’ultimo punto, osserva il Collegio che l'adozione del provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina al privato di non effettuare l'intervento da lui denunciato non deve essere preceduta dalla comunicazione di cui all'art. 10-bis della L. n. 241/1990 ostando in tal senso la dirimente circostanza che la denuncia di inizio di attività non può considerarsi in nessun caso un’"istanza di parte".
La d.i.a. (ora segnalazione certificata d'inizio attività - Scia, dopo che la L. 122/2010 ha sostituito, con l’art. 49, comma 4bis, l’articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241), infatti, non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma è un atto privato volto a comunicare all’amministrazione l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 29.07.2011, n. 15 che ha risolto in tal senso il conflitto ermeneutico sulla natura provvedimentale o meno della d.i.a.).
Il Comune, a fronte di tale atto, deve verificare l'eventuale mancanza di uno dei presupposti normativamente previsti per l'esecuzione dei lavori previsti entro il termine perentorio di 30 giorni (ex art. 19, comma 6bis della L. 241/1990 nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di sessanta giorni è ridotto a trenta giorni) decorso il quale lo stesso Comune può ricorrere al potere discrezionale di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241. Restano inoltre salve, ai sensi dell'art. 21 della legge n. 241/1990, le misure sanzionatorie volte a reprimere le dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in contrasto con la normativa vigente, così come sono impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo previste dalla disciplina di settore.
Invero, come ha chiarito l'Adunanza plenaria con la sentenza 29.07.2011, n. 15, sopra citata, dopo la scadenza del termine perentorio per l'esercizio del potere inibitorio l’amministrazione conserva l’anzidetto potere residuale di autotutela in quanto l’inutile decorso del termine di verifica dei requisiti enunciati nella d.i.a. equivale ad un atto tacito di diniego di esercizio del potere inibitorio.
Solo in quest’ultimo caso (che non è quello in controversia) dovrà essere avviato un apposito procedimento in contraddittorio, nel rispetto di un termine ragionevole e previa valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo (cfr.: Consiglio di Stato, sez. VI, 14.11.2012, n. 5751).
Circa l’assunta decadenza dal potere inibitorio, per l’inutile decorso del termine di 30 giorni senza che sia stato comunicato il provvedimento inibitorio, rileva il Collegio che la d.i.a. è stata presentata all’Amministrazione il 17.09.2012 e che il provvedimento inibitorio è stato adottato il 10.10.2012 e che la relativa comunicazione con raccomandata a.r. è stata tempestivamente consegnata all’ufficio postale lo stesso giorno (vd. doc. n. 6 prodotto dall’Amministrazione) mentre è pervenuta alla destinataria Vodafone Omnitel il 19.10.2012.
Ora, è pur vero che l'atto inibitorio della d.i.a. ha natura di atto recettizio che, ex art. 21-bis, L. n. 241 del 1990, acquista efficacia nei confronti del destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata. Peraltro, applicando i principi generali in materia di notifiche a mezzo posta (comma 3 dell'art. 149 c.p.c.; sent. C. Cost. 26.11.2002, n. 477), ne consegue che la decadenza dell'Amministrazione dal potere di inibizione dei lavori è impedita dall'adozione dell'atto e dalla sua tempestiva consegna all'agente postale. Si tratta di una soluzione che contempera adeguatamente anche i diritti del richiedente, la cui attività potrà assumere i connotati dell'abusività ex art. 21-bis L. n. 241 del 1990 soltanto a seguito dell'eventuale notificazione del provvedimento negativo (cfr. TAR Liguria, sez. I, 02.11.2011 n. 1511).
E’ invece fondata la censura, svolta col quarto motivo di ricorso, con cui si assume l’inesistenza dei presupposti di cui all’art. 17 delle n.t.a. per esercitare il potere inibitorio, trattandosi della mera riconfigurazione della SRB esistente (già assentita dal Comitato presso l’A.P.P.A. ex art. 2, co. 5, L.p. 9/1997 con determinazione 28.08.2012) e non dell’installazione di un nuovo impianto.
L’interpretazione letterale della norma urbanistica comunale è nel senso predicato dalla parte ricorrente, imponendo la sottoscrizione con gli enti gestori di un apposito atto di convenzione per “l’installazione degli impianti”, mentre nella fattispecie si tratta invece della riconfigurazione radioelettrica di un impianto già esistente.
Anche secondo l’interpretazione logica, l’imposizione dell’obbligo della convenzione, all’esplicito fine di perseguire “obiettivi di qualità nell’impatto visivo e nella minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici” se appare ragionevole nel caso dell’installazione di nuovi impianti, non ha invece alcuna ragione giustificatrice allorquando si tratti di semplice riconfigurazione radioelettrica, ferma restando la consistenza fisica dell’impianto già esistente.
Del resto, il potere regolamentare dei Comuni di fissare, ai sensi dell'art. 8, ultimo comma, della L. n. 36 del 2001, criteri localizzativi per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici deve tradursi in scelte ragionevoli sotto il profilo ambientale, ma non può dissimulare norme di radioprotezione aggiuntive o peggiorative dei già cautelativi e rigorosi limiti posti, in modo unitario per tutto il territorio della Repubblica, dalla normativa statale (cfr. Cons. St., III, 05.02.2013, n. 687).
Se invece si estendesse l’interpretazione della controversa norma urbanistica di Riva del Garda fino a ricomprendervi semplici modifiche d’irradiazione del segnale -ferma restando la consistenza fisica dell’impianto già installato- essa finirebbe per assumere una valenza radioprotezionistica che travalica i poteri comunali (massima tratta da www.lexambiente.it - TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 09.05.2013 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Legittimità diniego nuova SRB per telefonia mobile in area soggetta a delocalizzazione dal Regolamento comunale.
E’ legittimo il diniego di rilascio dell’autorizzazione per l’installazione di una nuova SRB per telefonia mobile UMTS visto che l’art. 10 del regolamento comunale sulle antenne prevede che gli impianti preesistenti debbono essere delocalizzati dal centro storico, sia pure in accordo con i gestori.
Peraltro, al fine di non pregiudicare l’obiettivo della norma (che è quello, ricompreso nei limiti del potere regolamentare comunale di cui all’art. 8 della L. n. 36/2001, di garantire la tutela dei beni architettonici e paesaggistici), non si può in primo luogo ritenere che i gestori possano pregiudicare l’attuazione del piano semplicemente omettendo di presentare al Comune proposte delocalizzative o ritardando ad arte tale adempimento.
In secondo luogo, se l’amministrazione ha previsto la delocalizzazione degli impianti esistenti, è del tutto logico che nessun altro operatore può essere autorizzato ad installare le proprie SRB nel centro storico, sia pure in co-sitting, anche perché questi operatori dovrebbero in seguito spostare i propri impianti nei siti indicati come idonei dal regolamento.

Con riguardo all’unica censura dedotta dalla ricorrente, si osserva che:
- come è noto, la giurisprudenza amministrativa ha da molti anni affermato il principio per cui il potere regolamentare che l’art. 8 della L. n. 36/2001 attribuisce ai Comuni in subiecta materia non può sconfinare in divieti generalizzati di installazione delle SRB su intere porzioni del territorio comunale, pena l’impossibilità per i gestori di erogare quello che la normativa comunitaria e nazionale qualificano pur sempre come un pubblico servizio (senza pretesa di completezza, vedasi TAR Lecce, II, nn. 3579-3585 del 02/07/2005);
- peraltro, incombe sul gestore che ricorre avverso un diniego di autorizzazione fondato su norme regolamentari siffatte provare che le localizzazioni indicate nel regolamento comunale impediscono di garantire la omogenea copertura del segnale in tutto il territorio di riferimento. Solitamente, la prova viene fornita mediante perizie di parte con cui, prendendo a riferimento la cartografia del piano comunale sulle antenne e le caratteristiche tecniche delle SRB, si cerca di far comprendere al giudice che intere zone del territorio comunale rimangono “scoperte” dal segnale;
- nella specie, la ricorrente non ha depositato alcun elaborato tecnico che possa in qualche modo suffragare le scarne asserzioni riportate a pagina 12 del ricorso, il che non può che portare al rigetto del presente motivo di ricorso.
Ad colorandum, va rilevato che nelle controversie più risalenti che hanno visto contrapposti i Comuni e i gestori del servizio di telefonia mobile, questi ultimi hanno avuto molto spesso vita facile nel censure l’operato delle amministrazioni, visto che:
- il più delle volte, i regolamenti e i provvedimenti adottati dai Comuni si fondavano su ingiustificati timori per la salute umana, dando luogo a generalizzati e spesso pittoreschi divieti (ma incorrendo in tal modo nello sviamento di potere, visto che in subiecta materia spetta solo allo Stato stabilire i valori limite di emissioni elettromagnetiche – Corte Cost., sentenze nn. 307 e 331 del 2003);
- tali atti non erano sovente preceduti da alcuna seria istruttoria, limitandosi a inibire l’installazione delle SRB nelle zone più popolate, in modo da elidere al massimo il malcontento popolare.
Nella specie, al contrario, l’adozione del regolamento comunale sulle antenne, come risulta dal preambolo della deliberazione consiliare n. 10/2007 e dalla relazione tecnica datata 29/1/2007 (documento n. 10 della produzione del Comune del 9/1/2012), è stata preceduta da adeguata istruttoria tecnica, che non viene in alcun modo attinta da specifiche critiche da parte della ricorrente (la quale non deduce nemmeno lo sviamento di potere per avere il Comune introdotto in modo surrettizio valori limite di emissioni più stringenti di quelli indicati dal DPCM 08/07/2003).
Passando invece a trattare del primo motivo di ricorso, il Collegio ritiene sostanzialmente irrilevante la questione se l’impianto H3G debba o meno considerarsi un nuovo impianto, visto che, come si è già sottolineato, l’art. 10 del regolamento comunale sulle antenne (in parte qua non censurato) prevede che gli impianti preesistenti debbono essere delocalizzati dal centro storico di Fermo, sia pure in accordo con i gestori.
Peraltro, al fine di non pregiudicare l’obiettivo della norma (che è quello, ricompreso nei limiti del potere regolamentare comunale di cui all’art. 8 della L. n. 36/2001, di garantire la tutela dei beni architettonici e paesaggistici), non si può in primo luogo ritenere che i gestori possano pregiudicare l’attuazione del piano semplicemente omettendo di presentare al Comune proposte delocalizzative o ritardando ad arte tale adempimento.
In secondo luogo, se l’amministrazione ha previsto la delocalizzazione degli impianti esistenti, è del tutto logico che nessun altro operatore può essere autorizzato ad installare le proprie SRB nel centro storico, sia pure in co-sitting (anche perché questi operatori dovrebbero in seguito spostare i propri impianti nei siti indicati come idonei dal regolamento).
In ogni caso, come correttamente eccepito dalla difesa del Comune, solo in ossequio ad un’interpretazione meramente formalistica dell’art. 10 si potrebbe sostenere che l’impianto de quo è già esistente. Ed in effetti:
- formalismo per formalismo, si deve anzitutto evidenziare che l’impianto preesistente è quello di proprietà Vodafone;
- dal punto di vista sostanziale, la rimozione di tre antenne e la loro sostituzione con altrettante antenne e la collocazione ex novo di due parabole, in una con l’incremento complessivo delle emissioni elettromagnetiche, non può che dare vita ad un impianto nuovo (ai sensi del citato art. 10).
In conclusione, la domanda impugnatoria va respinta. Ne consegue il rigetto anche della domanda risarcitoria (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Marche, sentenza 08.05.2013 n. 336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte di natura urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata".
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.

Il Collegio deve innanzi tutto ricordare che le scelte di natura urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV. 03.11.2008 n. 5478).
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.05.2013 n. 2432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Reiterazione vincoli.
Costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un piano regolatore che destinano un’area a “verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui questi ricadono.
La decadenza del vincolo non esclude che l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento per l’adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i vincoli preordinati all’espropriazione, fornendo congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione, così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti.

Altrettanto infondato è il secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), con il quale, assunta una intervenuta reiterazione di vincolo, si lamenta una violazione dell’art. 2 l. n. 1187/1968 ed il difetto di motivazione della disposta reiterazione (oltre all’omessa previsione di indennizzo).
Come è noto, la vicenda dei vincoli preordinati all’espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici prende le mosse dalla sentenza con la quale la Corte Costituzionale riconobbe illegittima la disciplina recata dalla legge urbanistica (l. 17.08.1942 n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre alla proprietà privata, in sede di pianificazione, vincoli preordinati all' espropriazione, senza alcun limite temporale e senza indennizzo (Corte Cost., 29.05.1968 n. 55).
A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con la legge 19.11.1968 n. 1187, il cui art. 2 ha provveduto a fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o, comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento espropriativo.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. V, 03.01.2001 n. 3; sez. IV, 17.04.2003 n. 2015 e 22.06.2004 n. 4426), costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un piano regolatore che destinano un’area a “verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui questi ricadono (Cons. Stato, sez. IV, 19.03.2008 n. 1095; sez. IV, 12.05.2010 n. 2843).
La decadenza del vincolo non esclude che l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento per l’adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i vincoli preordinati all’espropriazione, fornendo congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione (Cons. Stato, sez. IV, 24.09.1997 n. 1013 e 22.06.2004 n. 4397), così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti.
Si è, in particolare, affermato quanto all'adeguatezza della motivazione, che, se in linea di principio può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, in occasione di una prima reiterazione, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, è necessario che la motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, ovvero specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali) che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico (Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2008 n. 4765).
La Corte Costituzionale (sent. 20.05.1999 n. 179, indirizzo successivamente riconfermato con sent. 18.12.2001 n. 411) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. n. 1150/1942 e 2, primo comma, della legge n. 1187/1968 nella parte in cui consente alla “amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo”.
Secondo la Corte, “la reiterazione in via amministrativa dei vincoli decaduti (preordinati all’espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) . . . non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale”, ma tale fenomeno assume aspetti patologici allorché vi sia una indefinita reiterazione dei vincoli o una loro proroga sine die, o quando il limite temporale sia indeterminato.
In presenza delle suddette situazioni patologiche, sorge obbligo di indennizzo che “opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)”. In altre parole, la permanenza del vincolo oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio dell’espropriazione, “non può essere dissociato ... dalla previsione di un indennizzo”.
Orbene, alla luce delle considerazioni svolte, ritiene il Collegio che nel caso di specie, la misura di pianificazione che ha coinvolto le aree di proprietà degli appellanti non costituisce né un “vincolo preordinato all’espropriazione”, né un vincolo “con carattere sostanzialmente espropriativo”, integrando invece tale misura un’ipotesi di conformazione del diritto di proprietà che, lungi dall’incidere sul medesimo, consente anche l’esercizio di talune possibilità edificatorie, sia pure connesse alla preesistenza di volumi già edificati
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.05.2013 n. 2432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il potere del Comune di pianificazione urbanistica del territorio deve prevedere anche finalità economico-sociali per la comunità locale.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica del territorio, la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune, non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.

Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione urbanistica, del significato stesso del concetto di “urbanistica” in senso giuridico e, di conseguenza, del contenuto della potestà pianificatoria, è stato affrontato da questo Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10.05.2012 n. 2710, medio tempore pubblicata, con considerazioni che devono essere riconfermate ai fini della presente decisione.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito –al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di “urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico–sociali della comunità radicata sul territorio (tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost..
Alla luce di quanto esposto, la finalità di sostenere l’esigenza di una “prima casa” dei cittadini residenti appare del tutto coerente, in generale, con il potere pianificatorio conferito all’Ente locale dalla legge, e costituisce –soprattutto in Comuni a vocazione turistica- una evidente misura di declinazione dello sviluppo edilizio del territorio con le esigenze abitative della comunità locale, evitando sfruttamenti intensivi a fini turistici, tali da snaturare la quotidianità e l’essenza stessa della comunità locale (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.05.2013 n. 2427 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Area destinata ad edilizia scolastica non configura vincolo preordinato all’esproprio.
E’ da escludersi che la destinazione dell’area ad edilizia scolastica possa configurare un vincolo preordinato all’esproprio, poiché, non sussistendo alcun impedimento a che alle necessità scolastiche si provveda mediante soluzioni locative, anziché proprietarie, il vincolo può ricomprendersi tra quelli che, secondo la decisione della Corte cost. n. 179 del 1999, "importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata.
In altri termini, dunque, la destinazione scolastica comporta l’attribuzione al terreno di una vocazione edificatoria, sia pure specifica, in quanto realizzabile anche da privati ed inoltre la vocazione edificatoria del terreno va confermata anche in relazione al fatto che l'edilizia scolastica elementare costituisce opera di urbanizzazione secondaria (art. 1, lett. c, in relazione all'art. 4 della l. n. 847 del 1964), la cui costruzione si deve considerare funzionale ad una destinazione edificatoria della zona.

Del pari infondato si palesa il quarto motivo di ricorso, con il quale è stata sostenuta la natura espropriativa del vincolo sussistente sull’area interessata dall’intervento.
Si deve premettere, in linea generale, che la differenza tra i vincoli espropriativi e quelli conformativi sta nel fatto che, mentre per i primi è necessario che la previsione di P.R.G. determini una riserva alla mano pubblica della facoltà di realizzare determinate strutture (pubbliche, per l’appunto), i secondi lasciano il proprietario nella condizione di gestire l’eventuale trasformazione dell'immobile, non intaccando il valore di scambio del bene in quanto non privano il suo titolare della facoltà di godimento e di utilizzazione della res.
In linea generale, dunque, i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a vincoli preordinati all'espropriazione o a vincoli che ne comportano l'inedificabilità e dunque svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il valore di scambio.
Tanto premesso osserva il Collegio che secondo la prevalente giurisprudenza, anche della Corte di Cassazione, «è da escludersi che la destinazione dell’area ad edilizia scolastica possa configurare un vincolo preordinato all’esproprio, poiché, non sussistendo alcun impedimento a che alle necessità scolastiche si provveda mediante soluzioni locative, anziché proprietarie, il vincolo può ricomprendersi tra quelli che, secondo la decisione della Corte cost. n. 179 del 1999, "importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata". In altri termini, dunque, la destinazione scolastica comporta l’attribuzione al terreno di una vocazione edificatoria, sia pure specifica, in quanto realizzabile anche da privati ed inoltre la vocazione edificatoria del terreno va confermata anche in relazione al fatto che l'edilizia scolastica elementare costituisce opera di urbanizzazione secondaria (art. 1, lett. c, in relazione all'art. 4 della l. n. 847 del 1964), la cui costruzione si deve considerare funzionale ad una destinazione edificatoria della zona» (cfr. Cass. civile, sez. I, 21.03.2000, n. 3298; Cass. civile, sez. I, 21.02.2003, n. 2641; si veda altresì, in questa stessa direzione, TAR Puglia Bari, sez. III, 26.02.2009, n. 403) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 03.05.2013 n. 2281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edificazione in area agricola.
Le esenzioni poste dall’art. 9 (Concessione gratuita) della legge n. 10/1977, non dimostrano affatto che la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale possa rilevare soltanto ai fini della concessione di benefici economici.
Ciò posto, è facilmente riscontrabile che la scelta di limitare l’edificazione a scopo residenziale nelle zone agricole ai soli imprenditori agricoli a titolo principale trova solida giustificazione nell’esigenza di salvaguardare la destinazione agricola dell’area, impedendo lo snaturamento delle sue caratteristiche.

Come ha ben osservato la difesa provinciale, infatti, le esenzioni poste dall’art. 9 della legge n. 10/1977, diversamente da quanto parte appellante apoditticamente afferma, non dimostrano affatto che la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale possa rilevare soltanto ai fini della concessione di benefici economici.
Ciò posto, è agevole convenire con la difesa delle Amministrazioni appellate che la scelta di limitare l’edificazione a scopo residenziale nelle zone agricole ai soli imprenditori agricoli a titolo principale trova solida giustificazione nell’esigenza di salvaguardare la destinazione agricola dell’area, impedendo lo snaturamento delle sue caratteristiche (quale quello realizzatosi nella fattispecie, in cui si è partiti da una concessione rilasciata per una rimessa per macchine agricole per costruire poi, di fatto, una villetta).
La Sezione condivide quindi la valutazione di manifesta infondatezza espressa dal primo Giudice sui dubbi di legittimità costituzionale formulati in merito dall’attuale parte appellante. E questo sin dal rilievo del T.A.R. che ha escluso la sussistenza di una censurabile disparità di trattamento, facendo notare come la regola dettata dal legislatore regionale in punto di edificabilità si ricolleghi non tanto ad una distinzione tra soggetti, quanto alla destinazione obiettiva degli immobili interessati.
La Corte Costituzionale si è difatti già pronunciata con chiarezza su queste tematiche.
Con riferimento alla legge della Regione Lombardia 07.06.1980 n. 93 (Norme in materia di edificazione nelle zone agricole), sospettata di incostituzionalità nella parte in cui la realizzazione di opere non destinate alla residenza era subordinata al possesso di particolari requisiti soggettivi (qualità di imprenditore agricolo o di figure assimilate) e all'accertamento di un collegamento funzionale delle opere stesse con l'attività di agricoltura, la Corte, con la sentenza n. 167 del 16.05.1995, ha giudicato manifestamente infondati i dubbi dei quali era stata investita, sulla base della seguente motivazione: “Considerato che gli artt. 2, primo comma, e 3 della legge della Regione Lombardia n. 93 del 1980, oggetto di contestazione da parte del giudice a quo, sono frutto di un'insindacabile scelta del legislatore regionale, diretta a limitare l'utilizzazione edilizia dei territori agricoli e a frenare il processo di erosione dello spazio destinato alle colture, scelta che ha il proprio fondamento nell'art. 44 della Costituzione, il quale, " fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali", facoltizza il legislatore, anche regionale, a predisporre aiuti e sostegni all'impresa agricola e alla proprietà coltivatrice;
- che, rispetto a tale ratio legislativa, non può essere affatto considerata un'irragionevole discriminazione, lesiva dell'art. 3 della Costituzione, la subordinazione del rilascio della concessione edilizia sia al possesso della qualità di imprenditore agricolo o di altra figura assimilata, sia all'accertamento di un collegamento funzionale dell'opera con l'attività agricola,essendo elementi volti a denotare la destinazione effettiva delle opere alla conduzione del fondo o, in genere, alla attività di agricoltura;
- che, inoltre, del pari manifestamente infondata risulta la pretesa violazione dell'art. 117 della Costituzione sotto il profilo della lesione dei principi fondamentali desumibili dalle leggi statali in materia urbanistica, poiché, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (v. ordinanze nn. 714 e 709 del 1988), mentre rientra nei poteri del legislatore in tema di disciplina urbanistica sottoporre a un trattamento differenziato tanto le zone agricole rispetto ad altre zone, quanto, all'interno della stessa zona, la posizione degli imprenditori agricoli o di altre figure assimilate rispetto a quella di soggetti diversi, nello stesso tempo l'indicata differenziazione è saldamente stabilita in disposizioni di legge statale, segnatamente nell'art. 9 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, recante "Norme per la edificabilità dei suoli" (a nulla rilevando, invece, gli altri articoli di legge citati dal giudice a quo);
- che, infine, la previsione in una legge regionale dei requisiti, soggettivi e oggettivi, per il rilascio di una concessione edilizia in zona agricola non può essere minimamente considerata lesiva dei principi vòlti a garantire l'autonomia comunale, ai sensi degli artt. 5 e 128 della Costituzione;
” (C.Cost., n. 167/1995).
Già prima, peraltro, la Corte costituzionale si era espressa nello stesso senso sul conto della legge regionale della Toscana 19.02.1979, n. 10, che, nel disciplinare le nuove costruzioni in zone agricole e i nuovi edifici rurali per uso abitativo, nonché le modificazioni degli stessi, non si sarebbe limitata a prevedere particolari zone di rispetto agricolo, ma avrebbe disposto un vincolo inedificativo generalizzato escludendolo solo nei confronti della categoria degli agricoltori.
Con la sentenza n. 709 del 23.06.1988 la Corte anche in tal caso ha concluso per la manifesta infondatezza dei dubbi di costituzionalità, facendo notare, in particolare, che “le norme in questione non determinano alcuna disparità di trattamento, in quanto la valutazione sulla edificabilità delle zone agricole non si ricollega ad una distinzione tra cittadini, ma solo alla particolare destinazione dei beni" (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2394 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità annullamento del permesso di costruire, tacitamento assentito per esigenza di conservazione della zona agricola ed i suoi equilibri ambientali.
E’ legittimo l’annullamento in autotutela del permesso di costruire ottenuto con il silenzio-assenso.
Non sussiste la violazione dell’articolo 21-nonies, della legge n. 241 del 1990, dedotta sotto il profilo della mancanza dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela avendo, invece, l’amministrazione evidenziato le ragioni di pubblico interesse costituite dalla esigenza di “conservazione della zona agricola ed i suoi equilibri ambientali di spiccata valenza decongestionante rispetto all’espansione dell’aggregato urbano”.

8. Né sussiste la violazione dell’articolo 21-nonies, della legge n. 241 del 1990, dedotta sotto il profilo della mancanza dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela avendo, invece, l’amministrazione evidenziato le ragioni di pubblico interesse costituite dalla esigenza di “conservazione della zona agricola ed i suoi equilibri ambientali di spiccata valenza decongestionante rispetto all’espansione dell’aggregato urbano”.
8.1. Inoltre, il provvedimento impugnato prende in considerazione la posizione del privato evidenziando la mancanza di un affidamento consolidato dello stesso, in virtù del breve tempo trascorso e la circostanza che l’inizio dei lavori è stato comunicato dopo l’avvio del procedimento di autotutela (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 02.05.2013 n. 339 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Vincolo di rispetto di una strada o a verde attrezzato
Non può attribuirsi carattere ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il vincolo di inedificabilità, c.d. "di rispetto", a tutela di una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona agricola di pregio, verde, ecc..
Con la seconda censura i ricorrenti contestano il vincolo SI.E7 per i mappali 48 e 198, fig. 4 sostenendo la natura di vincolo espropriativo gravante sull’area e la illegittimità dello stesso quale reiterazione immotivata di vincolo scaduto.
L’istruttoria ha chiarito che detta destinazione a “spazi attrezzati a verde come parchi o giardini connessi ad attività ricreative e di svago” prevede l’eventuale esproprio ma consente anche l’intervento di privati previa convenzione con il comune in cui siano stabiliti i criteri di gestione sociale dell’attrezzatura stessa.
Ciò premesso la giurisprudenza ha chiarito con un orientamento giurisprudenziale del tutto consolidato, non solo presso il giudice amministrativo (si veda anche, ad esempio, Cass. civ., SS. UU., 25.11.2008, n. 28051) – che non ogni vincolo posto alla proprietà privata dallo strumento urbanistico generale ha carattere espropriativo ed è dunque soggetto alla disciplina relativa. In altri termini, occorre distinguere tra vincoli espropriativi e vincoli conformativi, secondo una linea di discrimine che ha un preciso fondamento costituzionale, in quanto l’art. 42 Cost. prevede separatamente l’espropriazione (terzo comma) e i limiti che la legge può imporre alla proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale (secondo comma).
Pertanto, i vincoli espropriativi, che sono soggetti alla scadenza quinquennale, concernono beni determinati, in funzione della localizzazione puntuale di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può, quindi, coesistere con la proprietà privata. Non può invece attribuirsi carattere ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il vincolo di inedificabilità, c.d. "di rispetto", a tutela di una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona agricola di pregio, verde, ecc. (cfr. per tutte, Cons. Stato, Sez. IV, sentenza 28.12.2012 n. 6700; Cons. Stato, Sez. IV, 03.12.2010, n 8531; Id., Sez. IV, 23.12.2010, n. 9772; Id., Sez. IV, 13.07.2011, n. 4242; Id., Sez. IV, 19.01.2012, n. 244; ivi riferimenti ulteriori) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 02.05.2013 n. 336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rumore. Zonizzazione acustica comunale, aree particolarmente protette.
In base a quanto previsto nell’All. A del D.P.C.M. 14.11.1997 sull'inquinamento acustico, sono aree particolarmente protette quelle in cui la quiete rappresenta un elemento di base per la loro utilizzazione, e cioè aree ospedaliere, scolastiche, destinate al riposo ed allo svago, aree residenziali rurali, aree di particolare interesse urbanistico, parchi pubblici, ecc.
Nel dettaglio, si è espressamente ritenuto che non sussistessero nel territorio comunale aree “particolarmente protette”, dovendosi intendere per “area” una vasta estensione esclusivamente a ciò destinata.
La semplice sussistenza di edifici destinati ad attrezzature assistenziali, scuole, aree verdi, non è invece stata ritenuta sufficiente a giustificare l’identificazione di una zona specifica di classe I, ad eccezione di un’Oasi naturalistica.

II) Sotto altro aspetto, si lamenta il mancato inserimento dell’area nella quale i ricorrenti risiedono, nell’ambito di quelle classificate “particolarmente protette”.
Osserva il Collegio che, in base a quanto previsto nell’All. A del D.P.C.M. 14.11.1997, sono aree particolarmente protette quelle in cui la quiete rappresenta un elemento di base per la loro utilizzazione, e cioè aree ospedaliere, scolastiche, destinate al riposo ed allo svago, aree residenziali rurali, aree di particolare interesse urbanistico, parchi pubblici, ecc., laddove, neppure dalla prospettazione offerta dai ricorrenti, risulta che l’area in questione sia adibita a tali destinazioni o presenti comunque caratteri corrispondenti ai presupposti di fattispecie. Ed invero, la presenza dello stabilimento industriale costituisce elemento incompatibile con la classificazione pretesa dai ricorrenti.
III) Questi lamentano ancora l’insufficienza della motivazione con cui il Comune ha ritenuto di classificare le aree di che trattasi nell’ambito del Piano impugnato.
Osserva preliminarmente il Collegio che un atto di pianificazione generale, tranne i casi di incidenza su posizioni consolidate, non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri posti a sua base (C.S., Sez. IV, 02.10.2008 n. 4765).
Il Piano impugnato, ha espressamente enunciato i criteri utilizzati per la zonizzazione, precisando in generale che “la classificazione è stata prevista avendo come riferimento la prevalenza delle attività insediate”.
Nel dettaglio, si è espressamente ritenuto che non sussistessero nel territorio comunale aree “particolarmente protette”, dovendosi intendere per “area” una vasta estensione esclusivamente a ciò destinata. La semplice sussistenza di edifici destinati ad attrezzature assistenziali, scuole, aree verdi, non è invece stata ritenuta sufficiente a giustificare l’identificazione di una zona specifica di classe I, ad eccezione di un’Oasi naturalistica (Boza). Quanto precede è stato motivato in relazione al contenuto della D.G.R. 12.7.2022 n. 9776, in materia di “criteri tecnici di dettaglio per la redazione della classificazione acustica del territorio comunale”, secondo cui “l’individuazione di zone di classe I va fatta con estrema attenzione, a fronte anche di specifici rilievi fonometrici che ne supportino la sostenibilità” (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.04.2013 n. 986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 02.09.2014

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L'avevamo già posto tempo fa l'interrogativo ma lo riproponiamo ancora oggi: cos'è che uccide di più al mondo??
L'INDIFFERENZA !!

     In questi giorni impazzano on-line video di persone, più o meno famose, che fanno la "doccia gelata" per dare una mano (contributo economico) alla lotta contro la S.L.A. (Sclerosi Laterale Amiotrofica): una malattia semplicemente DEVASTANTE se non la peggiore che un essere umano potrebbe patire.
     Ebbene, forse il testimone più autentico di questa campagna promozionale conoscitiva e di sensibilizzazione è uno sconosciuto giovane fotografo statunitense di 26 anni, anch'egli colpito dalla malattia, che spiega come sia importante che tutti (ma proprio tutti) prendano coscienza di tale problema sociale e che tutti (diciamo noi) contribuiscano per incrementare gli esigui fondi a disposizione e necessari per finanziare i progetti di ricerca scientifica per trovare una cura. Tale testimonianza è visibile cliccando qui: attenzione però, prima verificate che le casse audio siano funzionanti e, soprattutto, guardate il video sino alla fine poiché, altrimenti, non capireste il senso profondo della stessa.
     Poi, sta alla Tua coscienza e sensibilità: per fare una donazione alla ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA cliccare qui.
     Si può donare anche inviando un SMS al n. 45502 dal 1° al 21 settembre 2014 ... quindi, scegli la modalità che più Ti aggrada ma dona.
     Speriamo di no: ma se un domani dovesse capitare anche a Te?? Beh, se trovano in fretta una cura si potrebbe anche correre il rischio ... ma se la cura tarda ad arrivare perché mancano i fondi della ricerca allora sì che è un bel kasino ... Quindi

NON RESTARE INDIFFERENTE !!

02.09.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

VARI: FISCO E CASA: ACQUISTO E VENDITA (Agenzia delle Entrate, agosto 2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 28.08.2014 n. 199 "Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, recante disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 05.05.2009, n. 42" (D.Lgs. 10.08.2014 n. 126).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Ordinanze ingiunzione e verbale di accertamento di sanzioni amministrative: richiesta su imputazione oneri e su notificazione tramite PEC (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 28.08.2014 n. 149353 di prot.).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito in Legge 11.08.2014, n. 114. Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari - Nota di lettura delle disposizioni in materia di personale e delle altre disposizioni di interesse per gli enti locali (ANCI, 27.08.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Rappresentanza di genere nella Giunta comunale (Prefettura di Avellino, nota 25.08.2014 n. 17723 di prot.).

ENTI LOCALI: Oggetto: Gestione associata delle funzioni fondamentali degli enti locali ex art. 14, commi da 25 a 31-quater della legge n. 122/2010 e successive modifiche, in base al testo come integrato dall'art. 19 della legge n. 135/2012 (Prefettura di Avellino, nota 22.08.2014 n. 1256 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: uffici di supporto agli organi di direzione politica – art. 11, comma 4, del decreto legge 90/2014 - Nota interpretativa ANCI–UPI (UPI, agosto 2014).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Ulteriori chiarimenti sui compensi e sulla facoltà degli Ordini territoriali di rendere pareri di congruità degli onorari professionali - quadro riassuntivo (Consiglio Nazionale Ingegneri, circolare 07.08.2014 n. 408).

ENTI LOCALI - VARI: OGGETTO: Iscrizione della medesima PEC su due distinte imprese - Richiesta chiarimenti Ministero dello Sviluppo Economico, lettera-circolare 09.05.2014 n. 77684 di prot.).

QUESITI & PARERI

TRIBUTI: Pertinenzialità da dimostrare.
Domanda
Vorremmo sapere se ai fini Imu/Ici è fondato l'assunto di pertinenzialità, e quindi di non autonoma tassabilità, di un'area urbanisticamente edificabile limitrofa a un fabbricato in quanto utilizzata stabilmente come terreno per il deposito di materiale. Il Comune pretende invece di tassarla in modo autonomo come terreno edificabile.
Risposta
Del tema si è occupata di recente la Ctr di Firenze (sent. n. 1067/13/14), che, nel richiamare l'orientamento giurisprudenziale della Cassazione, ha posto la prova della pertinenzialità a carico del contribuente. Più in particolare, la sentenza ha evidenziato la rilevanza della destinazione urbanistica (ossia, la qualificazione del terreno come edificabile in base agli strumenti urbanistici generali adottati) e la prevalenza di tale criterio rispetto al concetto di pertinenzialità di cui all'art. 817, 1° c., cod. civ. («Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un'altra cosa. La destinazione può essere effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima»), essendo irrilevante l'uso concreto che il proprietario fa dell'area e quindi l'eventuale funzione pertinenziale svolta di fatto. La sentenza ha così richiesto al contribuente di fornire la prova di un effettivo e durevole asservimento pertinenziale, non riconducibile a un mero collegamento occasionale, basato su concreti elementi di fatto, prova rispetto alla quale possono risultare d'ausilio anche le risultanze catastali.
Nello specifico, non è stato ritenuto sufficiente il parziale e temporaneo utilizzo quale deposito di materiale, reputato quale mera esigenza occasionale ovviabile facendo ricorso a una diversa organizzazione gestionale dell'attività produttiva, aprendosi diversamente l'accesso, in modo strumentale, a comportamenti fiscali elusivi (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.09.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ No al vicesindaco affine. L'incompatibilità opera fino al terzo grado. Conferimento di carica al consigliere lontano parente del sindaco.
È possibile conferire la carica di vicesindaco a un consigliere comunale, nipote del coniuge del sindaco, tenuto conto della causa d'incompatibilità prevista dall'art. 64, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267?

La norma citata, come altre ad essa corrispondenti, persegue la finalità di evitare il rischio, sia pure potenziale, di commistioni tra gli interessi pubblici dell'ente territoriale, che il primo cittadino, nella sua qualità, ha l'obbligo di garantire e gli interessi privati di suoi prossimi congiunti, a salvaguardia del principio d'imparzialità, che deve informare il comportamento Pubblica amministrazione anche in sede locale (cfr. Corte di cassazione, sezione I, sentenza 07.02.2001, n. 1733).
In tal senso, la lettera del menzionato art. 64, comma 4, è chiara nell'escludere che il coniuge, gli ascendenti, i discendenti, i parenti ed affini entro il terzo grado del sindaco possano fare parte della giunta o essere nominati rappresentanti del comune.
Nel caso di specie, tra il primo cittadino dell'ente ed il soggetto che dovrebbe essere nominato vicesindaco intercorre un rapporto di affinità in linea collaterale di terzo grado (cfr. artt. 76 e seguenti del codice civile).
Pertanto, anche alla luce della disciplina dettata dall'art. 46, comma 2, e dall'art. 64, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 267 del 2000, nella fattispecie sono ravvisabili gli estremi della prospettata situazione d'incompatibilità (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità di funzione.
Qual è ammontare corretto dell'indennità di funzione da corrispondere ai consiglieri comunali, tenuto conto che l'ente, avvalendosi delle facoltà allora concesse dall'art. 82, comma 1, del decreto 267/2000, aveva determinato in 80 euro la misura del gettone di presenza da corrispondere agli amministratori comunali e che su tale importo l'amministrazione comunale ha applicato la decurtazione del 10% prevista dalla legge finanziaria 2006?
Sul sistema delle indennità degli amministratori degli enti locali è intervenuta la legge n. 266/2005 (Finanziaria 2006) che, all'articolo 1, comma 54, ha stabilito, «per esigenze di coordinamento della finanza pubblica», la rideterminazione in riduzione nella misura del 10%, rispetto all'ammontare risultante al 30.09.2005, delle indennità e dei gettoni di presenza spettanti agli amministratori degli enti locali.
A confermare la vigenza della citata disposizione è successivamente intervenuta la Sezione Toscana della Corte dei conti che, con diverse deliberazioni ha ribadito che «la misura alla quale fare riferimento è quella edittale decurtata dalla percentuale di cui all'art. 1, comma 54, della legge n. 266/2005, anche sul presupposto che l'intenzione del legislatore, con la norma di cui all'art. 76, comma 3, della legge n. 133/2008 che ha introdotto l'attuale versione dell' art. 82, comma 11, del Tuoel, è stata quella di negare incrementi delle indennità rispetto alla misura massima edittale di cui al dm n. 119/2000».
L'effetto di «sterilizzazione permanente» del sistema delle indennità e dei gettoni di presenza e le connesse osservazioni formulate con le richiamate decisioni, sono stati confermati nel parere emesso dalla Sezione regionale di controllo per la Toscana, con delibera del 23.10.2012, la quale ha riaffermato che dall'entrata in vigore della disposizione del citato comma 3 dell'art. 76 è venuta meno la possibilità di corrispondere incrementi sulla misura della indennità di funzione e gettoni di presenza spettanti agli amministratori, che vanno determinati in ragione dei valori edittali di cui al dm n. 119/2000, ridotti della percentuale prevista dal succitato art. 1, comma 54, della legge n. 266/2005.
La Corte dei conti –sezione regionale di controllo del Lazio, con delibera del 01.02.2013, è nuovamente intervenuta sull'argomento, confermando il consolidato orientamento; pertanto, non sembrano residuare margini per un riesame della questione sulla quale peraltro questa Amministrazione, nel tempo, si è sempre espressa con argomenti in linea con quelli formulati dalla stessa Corte dei conti (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014).

CORTE DEI CONTI

LAVORI PUBBLICI: Il Comune paga "a peso d'oro" la ristrutturazione della Casa del Fascio.
Condannati il responsabile del Servizio tecnico comunale ed il responsabile unico del procedimento per errato pagamento nell'appalto.

Per l'errato pagamento di Euro 89.603,23 nell'appalto per la ristrutturazione dell'immobile comunale dell'ex "Casa del Fascio" del Comune di Passirano (BS) la Corte Conti, Sezione giurisdizionale per la Lombardia, con la sentenza 13.08.2014 n. 166 ha condannato il responsabile del Servizio tecnico comunale ed il responsabile unico del procedimento.
Tutto ruota attorno al pagamento della 5^ rata dello Stato Avanzamento Lavori effettuata dall'Amministrazione alla Società appaltatrice, nonostante la notifica dell’intervenuta cessione dei crediti derivanti dal contratto d'appalto, che ha, quindi, provocato un pregiudizio patrimoniale consistente in una fuoriuscita di denaro dalle casse comunali senza alcuna efficacia liberatoria per il Comune.
Si tratta di una complessa vicenda giudiziaria dove peraltro, il responsabile dell'Ufficio Tecnico, il Responsabile unico del Procedimento ed il Responsabile del settore Finanziario del Comune di Passirano avevano sicuramente tirato un sospiro di sollievo quando nel 2011 la Corte dei Conti con sentenza n. 227 li aveva assolti per intervenuta prescrizione dell’azione di responsabilità.
La Procura non ci sta e riesce a dimostrare con riferimento alla posizione del responsabile del procedimento e del responsabile dell'ufficio tecnico l'avvenuta interruzione della prescrizione che con una nuova sentenza n. 474/2012 della I Sezione Centrale veniva dichiarata rimettendo la causa alla Sezione giurisdizionale della Lombardia.
Nel nuovo giudizio il Collegio ha ritenuto negligente la condotta del Responsabile dell'Ufficio Tecnico che, in tale ruolo, avrebbe dovuto procedere alla corretta individuazione del creditore sulla base della documentazione necessaria a comprovarne il diritto per poi trasmettere l'atto di liquidazione, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i riferimenti contabili, al Servizio finanziario per i competenti riscontri.
Il Responsabile dell'Ufficio Tecnico, invece, in violazione di tali obblighi, ha sottoscritto un atto di liquidazione nei confronti del soggetto non legittimato pur potendo avere piena disponibilità della documentazione eventualmente non esibita dal creditore.
Altrettanto censurabile per il Collegio è la condotta del Responsabile Unico del Procedimento che nel predisporre l’atto di liquidazione non ha “previamente valutato le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento”, né ha utilmente fornito “all'Amministrazione i dati e le informazioni relativi alle principali fasi di svolgimento del processo attuativo”, omettendo di avvisare tempestivamente dell’avvenuta cessione il Servizio finanziario.
Aggiunge la Corte che "Nell’aver effettuato, dunque, un indebito pagamento privo di efficacia liberatoria nei confronti della società cedente e nell’aver esposto il Comune alla legittima richiesta di adempimento da parte della società cessionaria, richiesta che...è stata comunque soddisfatta dal Comune, seppure in via stragiudiziale, si manifesta altresì evidente il nesso causale tra la condotta dei convenuti ed il danno contestato."
Il conclusione la Corte dei Conti con la sentenza n. 166/2014 ha ritenuto che il danno subito dal Comune di Passirano per l’indebito pagamento dell’importo di euro 89.603,23 sia ascrivibile nella misura dell’80%, pari ad euro 71.628,58, alle condotte del responsabile dell'ufficio tecnico e del responsabile unico del procedimento.
Da ciò la condanna al risarcimento, in favore del Comune di Passirano della somma di euro 71.628,58 da imputare per il 50% a ciascuno dei convenuti, oltre alla rivalutazione dalla data dell’avvenuto pagamento (22.09.2003) sino al deposito della sentenza (13.08.2014) (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).

ENTI LOCALICorte dei conti non dà assensi. I quesiti devono avere carattere generale e astratto. La Cdc della Campania esclude il via libera preventivo sulle scelte degli enti locali.
La Corte dei conti non può emanare pareri per gli enti locali su qualsiasi questione riguardante la contabilità pubblica. I quesiti devono avere carattere generale e astratto. Quindi, non devono fare riferimento all'adozione di specifici atti di gestione, altrimenti l'attività consultiva si va a sovrapporre all'esercizio di altre funzioni della Corte, comprese quelle giurisdizionali. L'amministrazione locale può fare istanza per avere chiarimenti sui principi di carattere generale giuridico-contabile. Non può invece richiedere un assenso preventivo sulla legittimità dell'interpretazione della normativa da applicare a una specifica attività amministrativo-gestionale. Altrimenti il quesito è oggettivamente inammissibile.

È quanto ha affermato la Corte dei Conti della Campania, sezione di controllo, con il parere 10.07.2014 n. 179.
Nel caso in esame, un comune della Campania aveva chiesto ai giudici contabili se fosse possibile escludere la spesa per Lsu (Lavori socialmente utili), considerata di «utilità pubblica», dal computo di quella rilevante per l'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, norma che impone un taglio lineare del 50% ai contratti a tempo determinato e alle altre forme flessibili di lavoro.
In effetti, in base a quanto disposto dall'articolo 8 della legge 131/2003 (legge «La Loggia») le regioni e gli altri enti locali territoriali possono richiedere pareri in materia di contabilità pubblica alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti per una corretta gestione finanziaria. Per i giudici campani, però, non è possibile porre la questione nei termini in cui l'ha posta il comune, in quanto i quesiti, oltre a fare riferimento a problematiche di contabilità pubblica, «devono avere carattere generale ed essere astratti, cioè non direttamente funzionali all'adozione di specifici atti di gestione che afferiscono alla sfera discrezionale della potestà amministrativa dell'ente».
L'istanza di parere presentata, secondo la Corte, non era finalizzata a individuare i principi di carattere generale giuridico-contabile che possono orientare l'amministrazione comunale, bensì era «destinata a ottenere l'assenso “preventivo” di questa sezione circa la “legittimità” dell'interpretazione della normativa da applicare a una specifica attività amministrativo-gestionale». Tra l'altro, viene posto in rilievo nella delibera che con un precedente parere la stessa sezione si era già espressa sulla questione sollevata e aveva avuto modo di chiarire che vanno certamente ritenute esenti le prestazioni che non sono a carico dell'ente, remunerate con assegno dell'Inps.
Infine, sottolineano i giudici, la funzione consultiva non deve mai sovrapporsi all'attività di controllo della Corte e non può interferire con l'esercizio di funzioni giurisdizionali in sede civile, penale, amministrativa o contabile (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOChi non rispetta il Patto non assume. Deliberazione dei giudici contabili del Piemonte.
Niente assunzioni se non si rispetta il patto di stabilità interno.

Con il recente parere 26.03.2014 n. 59, la sezione della Corte dei conti, Regione Piemonte, si è espressa sulle condizioni indispensabili per poter procedere all'assunzione di personale, anche attraverso la mobilità.
Nel caso di specie, il collegio ha rilevato che per procedere a trasferimenti per mobilità è necessario che l'ente che assume sia in grado di certificare, oltre al rispetto dei parametri del rapporto tra spesa di personale e spesa corrente ai sensi dell'art. 76, comma 7, dl 112/2008, come succ. modificato e il rispetto della complessiva spesa del personale di cui all'art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, anche e soprattutto, di essere in linea con le regole dettate dal patto di stabilità interno.
È costante, nei vari interventi della Corte dei Conti, oltre all'ossequio dei limiti di spesa, il riferimento al rispetto del patto di stabilità. In questo senso, a dimostrazione dell'intensità del richiamo, si è espressa anche la sezione della regione Puglia, che con deliberazione n. 171/2013 a precisato che «il divieto di effettuare nuove assunzioni –a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale– posto dall'art. 31, comma 26, della legge n. 183/2011 a carico degli enti inadempienti al patto di stabilità deve intendersi esteso anche all'istituto del comando, a prescindere da qualsiasi altra considerazione di carattere formale legata alla natura giuridica dell'istituto».
Occorre rilevare, per completezza, che il riferimento al rispetto del patto di stabilità –pur nel silenzio della norma– deve essere riferito non solo all'anno precedente all'assunzione ma anche con riferimento all'anno in cui l'assunzione stessa viene effettuata.
In questo senso, tra i tanti, anche il parere contenuto nella deliberazione n. 605/2009 della sezione lombarda della Corte dei conti secondo cui «il divieto di assunzione di nuovo personale operi anche nei confronti dell'ente locale che si trovi nella condizione attuale di non rispettare il patto di stabilità interno per l'anno 2009» ovvero l'anno in cui avveniva l'assunzione. Ed in ogni caso «il divieto non viene meno per il fatto che le nuove assunzioni siano finalizzate alla sostituzione di personale che verrà a cessare nel corso dell'anno». In senso analogo, la deliberazione della sezione regionale della Sardegna n. 78/2011.
Le segnalazioni, che non devono essere sottovalutate, tendono a rimarcare come sia del tutto irrilevante che l'assunzione avvenga ad invarianza della spesa se, nell'anno in cui si procede, l'ente non è in grado di assicurare il rispetto del patto o, peggio ancora, risulti dal prospetto degli aggregati (che individuano il margine di azione consentito all'ente in rapporto all'obiettivo del patto di stabilità) il mancato rispetto dell'obiettivo in fase prognostica.
In questo senso, del resto, risultano chiare le stesse indicazioni della Ragioneria generale riportate nella circolare n. 6/2014 sulla disciplina del patto di stabilità interno che impone l'autoapplicazione delle sanzioni –e tra queste il divieto di assunzione– se in corso d'anno vi sia chiara evidenza che, alla fine dell'esercizio stesso, il patto non sarà rispettato.
Più precisamente in tale circostanza, l'autoapplicazione delle sanzioni in corso di esercizio si configura come un intervento correttivo e di contenimento che l'ente, autonomamente, deve porre in essere per recuperare il prevedibile sforamento del patto di stabilità interno evidenziato dalla gestione finanziaria dell'anno.
Pertanto, si legge ancora nella circolare del Mef, «deve ritenersi che il divieto di assunzione di nuovo personale operi anche nei confronti dell'ente locale che si trovi nella condizione attuale di non rispettare il patto di stabilità interno, in quanto diversamente si determinerebbe un aggravamento della situazione finanziaria dell'ente medesimo» (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazioni paesistiche, arriva l'appello al ministero. Per il primo sì ritorna la conferenza di servizi. Dl cultura. Riesame a livello centrale per le decisioni delle soprintendenze.
Per le autorizzazioni paesaggistiche arriva il giudizio di appello. Con la conversione in legge del Dl n. 83/2014 sui beni culturali e il turismo nascono infatti le commissioni per il riesame delle autorizzazioni necessarie per interventi edilizi su beni vincolati.
Il testo del Dl 83, entrato in vigore lo scorso 31 luglio, incide nuovamente sul procedimento di autorizzazione paesaggistica, stabilito all'articolo 146 del Dlgs 42/2004 e, più in generale, interessa i procedimenti in materia di beni culturali e paesaggistici.
Riesame in commissione
Rispetto a quanto previsto dall'originario decreto 83/2014, la legge di conversione introduce nell'articolo 12 del Dl, al comma 1-bis, una nuova procedura di riesame a livello centrale dei pareri e degli atti resi dagli organi periferici del ministero dei Beni e delle attività culturali. La norma, in particolare, prevede che possano essere riesaminati da apposite commissioni di garanzia incaricate della tutela del patrimonio culturale i pareri, i nulla osta e gli altri atti di assenso comunque denominati rilasciati dagli organi periferici del ministero (soprintendenze).
Il riesame potrà avvenire sia d'ufficio, sia a seguito di segnalazione da parte delle altre amministrazioni coinvolte nei procedimenti, alle quali è data la facoltà di chiedere la una nuova valutazione dell'atto amministrativo entro tre giorni dalla ricezione. Nulla vieta, peraltro, che le amministrazioni coinvolte si attivino sulla base di documenti prodotti dai privati o da soggetti coinvolti nel procedimento in quanto portatori d'interessi diffusi (ad esempio, associazioni).
Le commissioni di garanzia –previste a livello regionale o interregionale– potranno riesaminare la decisione entro il termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione dell'atto, che viene inviato loro per via telematica contestualmente alla relativa adozione. Decorso infruttuosamente il termine di dieci giorni l'atto si intende tacitamente confermato.
Le commissioni saranno disciplinate mediante il nuovo regolamento di organizzazione del Mibact (previsto dall'articolo 14 dello stesso decreto) e saranno costituite da personale appartenente ai ruoli del ministero stesso che –per questa funzione– non percepirà alcun compenso, rimborso o gettone di presenza.
Nelle more dell'adozione del regolamento, il potere di riesame è attribuito ai comitati regionali di coordinamento di cui al Dpr 26.11.2007, n. 233.
Si introduce un meccanismo di controllo sugli atti che in qualche misura incidono sui beni culturali e paesaggistici. Ma va rilevato che il termine di tre giorni è oggettivamente molto stretto e potrebbe in diversi casi impedire la proposizione del ricorso. Inoltre, il termine entro cui decidere ha sì il vantaggio di evitare lungaggini, ma potrebbe tradursi in un elevato tasso di silenzio-assenso da parte delle commissioni ministeriali.
Si torna al testo base
La legge di conversione rivede la scelta iniziale del Dl 83/2014 di eliminare la possibilità di indire una conferenza di servizi nel caso in cui il soprintendente non renda il parere previsto nell'ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all'articolo 146 del Codice dei beni culturali entro 45 giorni dalla ricezione degli atti.
Con l'entrata in vigore della legge di conversione, è stato ripristinato l'originario dettato dei primi tre periodi del comma 9 dell'articolo 146: fermo restando l'obbligo in capo all'amministrazione procedente –di solito, il Comune– di concludere il procedimento di autorizzazione decorsi 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l'amministrazione stessa potrà ancora chiamare il soprintendente a esprimersi nell'ambito di una conferenza di servizi.
Tutti gli atti su internet
Un'altra rilevante novità, finalizzata ad assicurare la trasparenza dei procedimenti di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e a favorire lo studio e la ricerca in materia di beni culturali e paesaggistici, è rappresentata dalla pubblicità prevista per gli atti assunti dal ministero nell'esercizio delle funzioni di tutela e valorizzazione previste dal Codice.
Il nuovo comma 1-ter dell'articolo 12 del Dl 83, introdotto dalla legge di conversione, dispone infatti che tutti gli atti aventi rilevanza esterna e i provvedimenti adottati dagli organi centrali e periferici del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo nell'esercizio delle funzioni di tutela devono essere pubblicati integralmente nel sito del ministero e in quello, ove esistente, dell'organo che ha adottato l'atto. L'obbligo di pubblicazione non intaccherà la riservatezza dei dati personali. La legge di conversione fa infatti salvo il rispetto delle disposizioni del Codice della privacy.
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Le tappe
GLI ORGANISMI
L'ultima parola a livello centrale 
Incaricate del riesame sono le nuove commissioni di garanzia, costituite da personale del ministero Beni culturali e previste a livello regionale o interregionale. In attesa del regolamento di istituzione, il potere di riesame è attribuito ai comitati regionali di coordinamento
GLI ATTI
Si parte d'ufficio o su segnalazione
Il riesame può avere ad oggetto i pareri, nulla osta o altri atti di assenso rilasciati dalle soprintendenze. Può essere svolto d'ufficio o su segnalazione delle altre amministrazioni coinvolte nel procedimento, che possono richiederlo entro tre giorni dalla ricezione dell'atto
IL TERMINE
Dieci giorni di tempo per il giudizio-bis
Le commissioni di garanzia possono riesaminare la decisione entro il termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione dell'atto, trasmesso per via telematica dalle sovrintendenze. Decorso inutilmente il termine di dieci giorni, l'atto si intende confermato
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Le altre modifiche. Stop allo sfasamento. Durata allineata con i titoli abilitativi per il via ai lavori.
Con il decreto cultura, autorizzazione paesaggistica e titoli abilitativi per i lavori tornano a viaggiare allineati. La legge n. 106/2014 (di conversione del Dl 83/2014) ha chiarito in modo definitivo che il termine di efficacia dell'autorizzazione paesaggistica (articolo 146 del Codice dei beni culturali) decorre dalla data di efficacia del titolo edilizio eventualmente necessario per gli interventi.
L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio: è efficace per cinque anni, scaduti i quali l'esecuzione dei lavori progettati deve essere sottoposta a una nuova autorizzazione. Finora l'efficacia decorreva prima del conseguimento del titolo edilizio e, dunque, invano, perché senza titolo le opere non risultavano comunque realizzabili. Ora invece i due procedimenti sono allineati. Ma l'allineamento viene meno se il provvedimento edilizio viene rilasciato in ritardo per circostanze imputabili all'interessato.
La legge di conversione non ha appianato il dibattito sugli effetti dell'eventuale silenzio della soprintendenza nell'ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica.
L'articolo 146 dispone che sull'istanza di autorizzazione si pronunci la Regione (o l'ente delegato), dopo avere acquisito il parere del soprintendente, che deve pronunciarsi entro 45 giorni. La norma prevede poi che «in ogni caso», dopo 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione.
Ebbene, in caso di mancato rispetto del termine per l'espressione del parere, secondo parte della giurisprudenza il potere della soprintendenza continuerebbe a sussistere (tanto che un parere tardivo resterebbe comunque vincolante) e all'interessato resterebbe solo la possibilità di ricorrere al giudice amministrativo per contestare il silenzio-inadempimento dell'organo statale (Consiglio di Stato, sezione VI, n. 4914 del 30.07.2013). In quest'ottica, la perentorietà del termine non riguarderebbe la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento.
Un'altra tesi giurisprudenziale afferma invece che il silenzio ha effetto devolutivo e comporta l'assunzione del pieno potere decisorio sull'istanza di autorizzazione paesaggistica in capo alla Regione o al soggetto da questa delegato (Consiglio di Stato, sezione VI, 15.03.2013, n. 1561). In assenza di un chiarimento normativo, spetta ancora ai giudici amministrativi trovare la bussola
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

SICUREZZA LAVORO: Corsi sulla sicurezza da «aggiornare» dopo cinque anni. Necessarie altre sei ore su argomenti non ripetitivi. Formazione. La pianificazione a carico del datore di lavoro.
La formazione sulla sicurezza obbligatoria per i lavoratori è entrata ormai nella «fase 2». Esaurita l'emergenza di assicurare una adeguata formazione a tutti i lavoratori come disposto dall'Accordo del dicembre 2011, ora il datore di lavoro deve cominciare a pianificare le nuove scadenze. Il primo ciclo di formazione per la sicurezza, infatti, rimane valido, per ogni lavoratore cinque anni dopo il termine del corso. E dunque per tutti i soggetti coinvolti –lavoratori, preposti e dirigenti– deve essere effettuato un aggiornamento della formazione già erogata entro i cinque anni successivi al completamento del percorso generale di formazione.
La durata dell'aggiornamento è di sei ore complessive, da erogare con le modalità ritenute più idonee dal datore di lavoro: un'unica sessione di almeno sei ore o più moduli nel corso degli anni.
Negli aggiornamenti non potranno essere riproposti argomenti o contenuti già somministrati nei corsi base ma si dovranno trattare significative evoluzioni e innovazioni riguardanti gli approfondimenti giuridico-normativi, aggiornamenti tecnici sui rischi, organizzazione e gestione della sicurezza in azienda, fonti di rischio e misure di prevenzione. Nell'aggiornamento non è compresa la formazione relativa al trasferimento o cambiamento di mansione e all'introduzione di nuove attrezzature di lavoro.
Per rendere più dinamico l'apprendimento e garantire un monitoraggio continuo sull'acquisizione delle competenze, si possono prevedere verifiche annuali, anche tramite e-learning, sul mantenimento delle competenze acquisite. Le verifiche sono per il datore di lavoro uno strumento importantissimo, soprattutto in caso di infortunio per fronteggiare eventuali contestazioni sull'inefficacia o carenza della formazione.
Una volta esaurito l'aggiornamento dei lavoratori in azienda, il datore di lavoro ha l'obbligo di provvedere a formare i nuovi assunti che non siano in possesso di adeguati attestati che provino l'avvenuta formazione, e adeguare la formazione del lavoratore in caso di mutamento di mansioni o nel caso in cui il lavoratore provenga da un'azienda con fattori di rischio minori.
Oltre alle scadenze per l'aggiornamento il datore di lavoro deve monitorare i problemi pratici e applicativi derivanti da alcuni passaggi non chiarissimi del testo unico sulla sicurezza (Dlgs 81/2008). Alcuni chiarimenti sono arrivati di recente anche dalla Commissione interpelli. Ad esempio con una risposta a un quesito di Federfarma data l'11 luglio scorso la Commissione ha chiarito che, terminato il percorso di formazione sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, il superamento della prova di verifica obbligatoria è necessario solo per i corsi dei preposti e dei dirigenti e per il datore di lavoro che svolge direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione. Per i lavoratori, invece, l'accordo Conferenza-Stato Regioni del dicembre 2011 stabilisce che nel caso in cui il corso di formazione sia erogato con e-learning la verifica finale va fatta «in presenza», cioè con la diretta supervisione del docente nel momento del test. Al contrario, se la formazione è erogata in aula non è obbligatoria la verifica finale per i lavoratori (mentre lo è per dirigenti e preposti) anche se, a parere di chi scrive, è opportuno che sia effettuato e documentato un momento di confronto docenti-discenti, per dimostrare che la formazione è stata efficace.
Una dimostrazione importante anche per evitare le pesanti sanzioni: l'articolo 55 del Dlgs 81/2008 prevede la sanzione dell'arresto da 2 a 4 mesi o l'ammenda da 1.315,20 a 5.699,20 euro per il non corretto adempimento degli obblighi formativi. E non finisce qui. Infatti, se un infortunio fosse collegato –come avviene sovente– alla omessa o carente formazione, sarebbe contestato al datore di lavoro (o al suo delegato) e al dirigente anche il delitto di lesioni colpose o omicidio colposo. Inoltre, in caso di lesioni gravi o gravissime, o omicidio colposo, all'azienda potrebbe essere contestata la violazione delle norme del Dlgs 231/2001, con l'applicazione delle sanzioni pecuniarie o interdittive a carico dell'azienda.
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In sintesi
OBBLIGO FORMATIVO - Coinvolti tutti i datori
Qualunque soggetto che impieghi lavoratori (come definiti dall'articolo 2, comma 1, del Dlgs 81/2008 e quindi compresi tirocinanti, soci di cooperativa, stagisti e così via) deve formarli in materia di salute e sicurezza sul lavoro con i contenuti e la durata declinati dagli Accordi della Conferenza Stato Regioni del 21.12.2011.
Ciascun datore di lavoro individua il percorso formativo in relazione al codice Ateco dell'azienda per individuare il livello di rischio applicabile alla situazione specifica: rischio basso, rischio medio oppure rischio alto
L'E-LEARNING - Interazione necessaria
È consentita la formazione con modalità e-learning (cioè con aule virtuali, telematiche, forum o chat via internet) nelle quale operi una piattaforma informatica che consenta l'interazione fra docente e discenti e fra discenti stessi.
La modalità e-learning è ammessa per la formazione generale dei lavoratori, per i dirigenti e per gli aggiornamenti successivi alla formazione obbligatoria, oltre che per progetti formativi sperimentali individuati dalle Regioni e Province. Per questi corsi sono obbligatori i test di verifica dell'apprendimento
LA DURATA - Tempistica legata al rischio
Per i lavoratori la formazione deve essere di almeno 8 ore, suddivise in 4 ore di formazione generale più 4 di formazione specifica per le aziende a rischio basso; 4 ore di formazione generale e 8 di formazione specifica per il rischio medio; 4 ore più 12 per il rischio alto.
Per i preposti di tutte le aziende sono obbligatorie altre 8 ore di formazione specifica per la mansione. Per i dirigenti (come individuati dall'articolo 2 del Testo Unico e pertanto non solo per coloro che hanno contratto dirigenziale) i percorsi formativi sono uniformi: 16 ore a prescindere dai fattori di rischio
L'AGGIORNAMENTO - Vietato ripetere i contenuti
La formazione rimane valida per cinque anni. Entro questa scadenza i lavoratori, i preposti e i dirigenti devono effettuare almeno sei ore di aggiornamento in relazione ai propri compiti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. L'aggiornamento deve riguardare argomenti diversi da quelli trattati nella formazione generale: non è possibile una mera riproposizione degli stessi contenuti.
Non può essere qualificata come aggiornamento la formazione erogata in caso di cambiamento di mansione o derivante dall'insorgenza di nuovi rischi in azienda
LE SANZIONI - Può scattare anche la «231»
Per l'omessa formazione, l'articolo 55 del Dlgs 81/2008 prevede a carico del datore di lavoro la sanzione dell'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da 1.315,20 a 5.699,20 euro. Attenzione, però. Le ricadute penali non si fermano a questo primo livello ma ce n'è un secondo per così dire "indiretto".
Infatti, in caso di infortunio derivante da omessa o non corretta formazione è prevista anche l'imputazione per omicidio colposo o lesioni colpose nonché la possibile contestazione all'azienda di violazioni del Dlgs 231/2001 (responsabilità amministrativa di enti e aziende)
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Compensi aggiuntivi legati al rendimento. Nuove regole per incentivi di progettazione e onorari dei legali. Personale. Il Dl 90 stabilisce l'obbligo di fissare criteri e modalità di erogazione.
Il rendimento del personale dev'essere valutato ai fini della corresponsione degli incentivi alla progettazione e degli onorari delle avvocature degli enti pubblici. Il Dl 90/2014 (convertito nella legge 114/2014) stabilisce infatti l'obbligo di regolamentare criteri e modalità di erogazione e decurtazione dei compensi aggiuntivi ai dipendenti degli enti locali.
L'articolo 13-bis del decreto innova completamente la disciplina dei fondi per la progettazione e l'innovazione. L'80% di tale fondo dev'essere ripartito secondo modalità e criteri da definire in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale non dirigenziale. Il restante 20% è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti innovativi, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo, e all'ammodernamento e accrescimento dell'efficienza interna e dei servizi ai cittadini.
Gli importi –da stanziare al lordo degli oneri riflessi a carico dell'amministrazione– debbono essere ripartiti fra il responsabile del procedimento, i progettisti, i responsabili del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. Il regolamento dovrà tenere conto delle effettive responsabilità connesse alle prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle che non rientrano nella qualifica funzionale ricoperta, e dovrà disciplinare criteri e modalità di riduzione delle risorse finanziarie a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, depurato del ribasso d'asta offerto.
L'incentivo non può essere corrisposto per la progettazione delle attività manutentive. Le somme complessivamente corrisposte nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da amministrazioni diverse, non possono superare il 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo.
Anche il compenso professionale degli avvocati dev'essere parametrato al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto, tra l'altro, della puntualità negli adempimenti processuali.
La contrattazione collettiva e i regolamenti interni –da approvare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, pena l'impossibilità di erogazione di qualunque somma a tale titolo– dovranno definire le modalità di assegnazione dei contenziosi, secondo principi di parità di trattamento e specializzazione professionale. I compensi professionali attribuiti ai legali non possono comunque superare l'importo annuo corrispondente al loro trattamento economico complessivo.
Anche i diritti di rogito ai segretari generali subiscono un taglio. È infatti previsto il versamento all'ente dell'intera quota dei proventi annuali, a eccezione degli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, nei quali il segretario rogante, che non deve essere un dirigente, percepisce il diritto in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.201).

PUBBLICO IMPIEGOTurni festivi con bonus limitati. Retribuzioni. La Cassazione consente un solo «extra» per l'attività domenicale.
L'attività lavorativa prestata di domenica in regime di turnazione non darebbe diritto alla maggiorazione ex articolo 24 del Ccnl 14.09.2000 del comparto Enti locali, ma solo a quella dell'articolo 22, che compensa il disagio derivante dalla diversa articolazione dell'orario di lavoro diurno, notturno o festivo.

Con due sentenze riguardanti i Comuni di Teramo e Chieti (n. 7790/2014 e n. 13558/2014), la VI Sez. della Corte di Cassazione fissa il punto sulla questione della remunerazione del festivo infrasettimanale del personale in turno della Polizia municipale.
Il distinguo
Secondo i giudici della Suprema corte, la maggiorazione ex articolo 24, primo comma, rivendicata nei ricorsi presupporrebbe l'esistenza di particolari esigenze del servizio, ossia esigenze straordinarie che esulano dalla ordinaria articolazione del lavoro e per le quali viene richiesta la prestazione lavorativa nel giorno destinato al riposo settimanale. L'ipotesi del cumulo non sarebbe sostenibile neanche richiamandosi al quarto comma dello stesso articolo 24 in quanto, anche in questo caso, il lavoratore dovrebbe lavorare in un giorno destinato a riposo settimanale.
D'altro canto, sempre secondo i magistrati, il tenore testuale dell'articolo 22, comma 5, rende palese la volontà delle parti collettive di attribuire al dipendente, che presti attività in giorno festivo ricadente nel turno, una indennità con funzione interamente compensativa del disagio derivante dalla particolare articolazione del lavoro. Al personale in turno nella giornata festiva infrasettimanale spetterebbe dunque il solo compenso previsto dall'articolo 22 del contratto, che stabilisce la misura delle indennità per il disagio derivante dalla diversa articolazione dell'orario di lavoro diurno, notturno o festivo. Le fattispecie previste dai primi tre commi dell'articolo 24 riguarderebbero invece prestazioni di attività lavorative in giorni non lavorativi, ossia eccedenti rispetto al normale orario di lavoro.
Le sentenze in questione si pongono in contrapposizione rispetto all'orientamento espresso dalla Corte di appello di Milano con la sentenza 1102/2013, depositata il 18.01.2014, nella quale, ribaltando le valutazioni espresse in primo grado, i magistrati accoglievano le tesi della Polizia municipale e delle organizzazioni sindacali, che rivendicavano la cumulabilità dei compensi indicati negli articoli 22 e 24.
Questione chiusa
La legge di stabilità 2014, sulla scia della copiosa giurisprudenza derivante dalle sentenze dei giudici del lavoro e della Corte di cassazione, aveva disciplinato la materia per le sole forze di polizia e forze armate, disponendo l'applicabilità dell'indennità di turno e non il compenso per lavoro straordinario maggiorato. Le conclusioni cui giunge la Cassazione sembrerebbero dunque chiudere definitivamente la questione sul cumulo delle indennità per i lavoratori turnisti che effettuino attività lavorativa in giorno festivo infrasettimanale o domenicale (se il riposo è previsto in un'altra giornata settimanale), con espressa dichiarazione di rigetto del ricorso perché manifestamente infondato e condanna alle spese di giudizio e accessorie di legge (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Forniture e consulenze, il revisore vigila sui tagli. Contabilità. Il monitoraggio della riduzione delle spese.
La manovra sui conti pubblici prevista nel Dl 66/2014 comporta, per quanto riguarda gli enti locali, un esplicito dovere di controllo da parte dell'organo di revisione, oltre che una richiesta di monitoraggio da parte delle sezioni di controllo della Corte dei conti.
Questo risulta dall'insieme delle disposizioni contenute nell'articolo 8 e nell'articolo 47. Infatti, il comma 13 dell'articolo 47 prevede che «l'organo di controllo di regolarità amministrativa e contabile verifica che le misure di cui ai precedenti commi siano adottate, dandone atto nella relazione di cui al comma 166 dell'articolo 1 della legge 23.12.2005, n. 266». Un'analoga prescrizione si trova anche al comma 7, con riferimento agli obblighi di Province e Città metropolitane.
Si noti che l'articolo 47 non si preoccupa di equilibri di bilancio, bensì esclusivamente di «riduzione della spesa pubblica». Poco importa, in altre parole, se il Comune o la Città metropolitana hanno aumentato o meno l'imposizione fiscale: le voci di spesa indicate (per i Comuni) al comma 9 dovranno comunque essere ridotte nella misura indicata dal ministero dell'Interno. Si tratta di spese per beni e servizi (alla lettera a del comma 9), oneri per autovetture (lettera b), incarichi di consulenza, studio e ricerca, e contratti di collaborazione coordinata e continuativa (lettera c).
Il mancato rispetto di quanto previsto non è scevro di conseguenze, almeno in teoria, perché, secondo il comma 11, «in caso di incapienza, sulla base dei dati comunicati dal ministero dell'Interno, l'agenzia delle Entrate provvede al recupero delle somme nei confronti dei Comuni interessati, all'atto del riversamento agli stessi Comuni dell'imposta municipale propria».
La norma non obbliga, di per sé, a redigere un bilancio di previsione che "preannunci" la riduzione di spesa, ma questa dovrà essere comunque ottenuta nel corso dell'esercizio, secondo le misure previste dal comma 9 per i Comuni (e dal comma 2 per Province e Città metropolitane).
Il risparmio dovrà essere ottenuto, si ritiene, in termini di effettiva erogazione di cassa (non si spiegherebbe, altrimenti, il riferimento ai codici Siope contenuto nell'articolo 47) e, per quanto riguarda la «spesa per beni e servizi» dei Comuni, specificatamente alle voci di spesa indicate nella tabella A allegata al Dl 66/2014.
Di fatto, il modo più semplice e oggettivo per verificare il rispetto della norma è quello di prendere i valori al 31.12.del 2013 e verificare, a fine esercizio 2014, se la riduzione della spesa sia stata effettivamente conseguita.
Viste le conseguenze e l'esplicita richiesta contenuta dal comma 7 dell'articolo 47, è però opportuno che il collegio dei revisori si attivi per tempo a effettuare i suoi doveri di monitoraggio sulla riduzione di spesa, sul cui rispetto dovrà poi relazionare alla sezione regionale di controllo competente nel corso della relazione che viene redatta ai sensi della finanziaria per il 2006. È infatti consigliabile attuare verifiche periodiche, così da avere tempo e modo per intervenire nel corso della gestione, se del caso, con adeguate manovre correttive.
Invero si nutrono non poche perplessità sulle modalità previste dal Dl 66/2014 per conseguire questo "risparmio di spesa": l'articolo 47 lede in modo sostanziale l'autonomia dei Comuni e obbliga a tagli lineari che ignorano elementi importanti, quali le decisioni di fiscalità locale, ormai assunte, e le legittime scelte organizzative degli enti locali (basti pensare a un Comune che abbia deciso di affidare a terzi un servizio prima gestito in economia). Questo, però, non esime l'ente dal rispettare la norma né il collegio dei revisori dall'attivarsi per il controllo dovuto
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014).

ENTI LOCALI: Bilanci, verifiche alleggerite. Controlli. La Corte dei conti non vigilerà più su regolarità e legittimità della gestione.
Il decreto competitività (Dl 91/2014, convertito nella legge 116) interviene anche sul fronte dei controlli. Con l'articolo 33, dal titolo «Semplificazione e razionalizzazione dei controlli della Corte dei conti», si attenuano (commi 1 e 2) gli adempimenti degli enti territoriali e si incide negativamente sulla continuità e tempestività della verifica sistematica del magistrato contabile.
Con ciò si mette a rischio la "bonifica" dei bilanci di Comuni e Regioni, oggetto di interesse del legislatore sia nelle norme attuative del federalismo fiscale sia in tema di modifiche del Tuel e di obblighi a carico delle autonomie regionali. Nel primo caso il riferimento è al Dlgs 149/2011, che ha introdotto la relazione di fine mandato comunale (alla quale si è aggiunta nel 2012 quella di inizio mandato) e le sanzioni a carico dei sindaci in caso di dissesto, e al Dlgs 118/2011, riguardante l'armonizzazione dei bilanci, implementata dal Dlgs 126/2014 («Gazzetta Ufficiale» n. 199 del 28 agosto scorso, supplemento ordinario n. 73; si veda anche il Sole 24 Ore dell'08.08.2014).
Nel secondo caso è stato il Dl 174/2012 a riscrivere i sistemi dei controlli interni ed esterni dei Comuni, nonché a introdurre il giudizio di parifica sui bilanci regionali e il cosiddetto predissesto per gli enti locali.
Il Dl 91/2014 è nuovamente intervenuto sui controlli esterni, disciplinati dall'articolo 148 del Tuel, indebolendo quello esercitato dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Intanto, ha dimezzato la frequenza degli interventi routinari di controllo, cui il magistrato contabile è tenuto nei confronti degli enti locali: essa è passata da semestrale ad annuale (anche in relazione ai controlli sulla copertura finanziaria delle leggi regionali).
Con questo, se da una parte è emersa la volontà del legislatore di snellire il carico di lavoro della Corte dei conti, dall'altra è stato sancito un depotenziamento della filiera dei controlli sui Comuni, resisi sovente responsabili di ingenti danni al bilancio statale, con pesanti ricadute fiscali nei confronti delle collettività amministrate.
Quanto alla portata dell'intervento verificatore del giudice dei conti, esso risulta sensibilmente affievolito, poiché va esercitato solo sul funzionamento dei controlli interni, e non più sulla legittimità e regolarità della gestione. È scomparsa l'attività di controllo della Corte dei conti sul piano esecutivo di gestione, regolamenti e atti di programmazione e pianificazione dei Comuni.
Sono state così depotenziate le competenze delle sezioni regionali di controllo, già indebolite in relazione alle dichiarazioni di dissesto conseguenti alla mancata approvazione dei piani di riequilibrio pluriennali, ex articolo 243-bis del Tuel, in quanto agli enti locali destinatari della bocciatura dei piani di rientro è stato consentito di ripresentarli (quasi) come se nulla fosse (Dl 16/2014). A condizione, però, che il tutto sia concluso e perfezionato entro mercoledì 3 settembre
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Più tempo per il libretto unico. Fino alla scadenza si potrà usare il vecchio modello. Slitta al 15/10 il termine per adeguarsi al nuovo documento su caldaie e condizionatori.
Per le caldaie e condizionatori il nuovo libretto unico slitta a ottobre. Prorogata al 15.10.2014, infatti, la scadenza del libretto unico per gli impianti di climatizzazione e per i rapporti di efficienza energetica degli edifici di uffici, aziende e abitazione. Fino al 15.10.2014 nelle operazioni di controllo o negli interventi sugli impianti termici e nelle nuove installazioni possono essere utilizzati sia i nuovi che i vecchi modelli di libretto.

Il ministero dello sviluppo economico ha ritenuto opportuno prorogare la scadenza fissata al 01.06.2014 al fine di consentire alle regioni e agli operatori del settore di avere più tempo per adeguarsi alle nuove disposizioni in materia di manutenzione e ispezione degli impianti termici degli edifici.
Con decreto del ministro dello sviluppo economico, del 20 giugno scorso, è stata fissata al 15.10.2014 la scadenza entro la quale il libretto di impianto per la climatizzazione e il rapporto di controllo di efficienza energetica sugli impianti termici di climatizzazione invernale ed estiva, siano conformi ai modelli di cui al dm 10.02.2014 del Mise. Il 15.10.2014, pertanto, è la data a partire dalla quale imprese e abitazione dovranno provvedere alla sostituzione o alla compilazione del nuovo libretto.
La predetta sostituzione può avvenire in occasione e con la gradualità dei controlli periodici di efficienza energetica previsti dal dpr 74/2013 o di interventi su chiamata per guasti o malfunzionamenti. Dalla stessa data il libretto diventerà obbligatorio anche per i dispositivi di climatizzazione estiva. Il nuovo libretto non sarà suddiviso in due distinti modelli (libretti di centrale e l'altro di impianto), ma sarà costituito da un unico documento, composto da tante schede, utilizzabili in funzione delle apparecchiature componenti l'impianto. Nel nuovo libretto sarà possibile indicare la presenza sia dell'impianto termico (di qualsiasi potenza) sia dell'impianto di climatizzazione estiva.
Il libretto di impianto per gli impianti di climatizzazione invernale e/o estiva sarà disponibile in forma cartacea o elettronica. Nel primo caso verrà conservato dal responsabile dell'impianto o eventuale terzo responsabile, che ne curerà l'aggiornamento dove previsto o mettendolo a disposizione degli operatori di volta in volta interessati. Il libretto di impianto elettronico sarà conservato presso il catasto informatico dell'autorità competente o presso altro catasto accessibile all'autorità stessa, e verrà aggiornato di volta in volta dagli operatori interessati, che potranno accedere mediante una password personale al libretto.
Rapporto efficienza energetica. Dal 15 ottobre prossimo dovranno essere utilizzati i nuovi modelli per il rapporto di efficienza energetica. Il rapporto di efficienza energetica si compilerà per gli impianti termici di climatizzazione invernale di potenza utile nominale maggiore di 10 Kw e di climatizzazione estiva di potenza utile nominale maggiore di 12 Kw, con o senza produzione di acqua calda sanitaria. Gli impianti termici alimentati esclusivamente da fonti rinnovabili non rientrano negli impianti soggetti a compilazione del rapporto (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.09.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il cliente può sempre pagare con il Pos. Il professionista senza apparecchiatura non rischia sanzioni ma la «mora del creditore».
Tecnicamente quello di dotarsi del Pos non è un "obbligo", ma un "onere". Nella pratica, significa che il cliente può pretendere di pagare con il bancomat. Con diverse ricadute a livello operativo. Ma andiamo con ordine.
Il 30.06.2014 -per effetto dell'articolo 9, comma 15-bis, del DI Milleproroghe 150/2013- è scattato l'obbligo per tutte le imprese e i professionisti di accettare pagamenti effettuati attraverso carte di debito (Bancomat).
La norma è contenuta nell'articolo 15, comma 4, del Dl 179/2012 (convertito dalla 221/2012) e si applica a tutti i pagamenti superiori a 30 curo, come previsto dall'articolo 3 del decreto del ministero dello Sviluppo economico del 24.01.2014.
Con questa previsione si attribuisce al pagamento effettuato tramite Pos (Point of sale) la stessa efficacia liberatoria del pagamento "in contanti" ex articolo 1277 del Codice civile, con la possibilità per il consumatore o l'utente di scegliere la tipologia di pagamento preferita. Per il destinatario del pagamento (professionista, artigiano o impresa), è sorto quindi l'obbligo di attrezzarsi, per garantire al cliente (... continua) (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATABonus antisismico 50-65% per tutti. Salta la limitazione ai soli Comuni a rischio - Lupi: 100mila posti con lo sblocca Italia.
Sgravi fiscali tra il 50 e il 65% estesi a tutto il territorio nazionale per la spesa sostenuta negli interventi di adeguamento e consolidamento antisismico. Tutto questo a partire dal 2015. Nessun intervento invece sullo "storico" bonus fiscale sulle ristrutturazioni edilizie, attualmente al 50%, che scadrà a fine anno riducendosi al 40 per cento. Prorogato invece lo sgravio del 65% sui lavori dei efficientamento energetico dell'edificio. È stato il premier Renzi a volere fortemente la misura anche se l'Economia aveva proposto nei testi di entrata una riduzione al 50% della misura a partire dal 2015.
È in questi termini la questione dei bonus fiscali sui lavori edili -così come è stato affrontata nel Consiglio dei ministri di venerdì- e sui quali il governo non ha ancora alzato ufficialmente il sipario. Non mancano, quindi, le questioni da dirimere nel decreto Sblocca-Italia, sul quale però si ripone molta fiducia: il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, ieri ha sottolineato che l'esecutivo stima «almeno 100mila posti di lavoro che possono derivare» dal provvedimento.
Il premier Matteo Renzi ha voluto a tutti i costi la proroga dello sgravio sulle riqualificazioni energetiche. L'Economia ha opposto i soliti argomenti di equilibrio di bilancio. Non è escluso che la questione venga ripresa e affrontata in occasione della legge di stabilità.
La novità più dirompente è l'ampliamento degli sgravi fiscali sui consolidamenti edilizi, possibilità attualmente limitata geograficamente alle zone di massima pericolosità sismica. La proposta è di poter scontare un importo tra il 50% e il 65% della spesa sostenuta fino a un massimo di 60mila euro, cumulando anche lo sgravio con gli interventi di riqualificazione energetica.
L'attuazione non sarà immediata. L'effettiva possibilità di cumulare lo sgravio dei lavori antisismici con quelli dell'efficienza energetica è infatti rinviata a un Dm attuativo da definire tra Mef, ministero dell'Interno e Protezione civile. Il provvedimento dovrà anche fissare delle «linee guida per la definizione e la classificazione del rischio sismico degli edifici», incluse «procedure di controllo e modalità di attuazione». Per il 2015 si è rischiato invece il doppio depotenziamento dell'attuale bonus sulle riqualificazioni con aumento di efficienza energetica. Il bonus ha rischiato di scendere dal 65% al 50% mentre la detrazione massima si è pensato a una rimodulazione da 100mila a 96mila euro. Ridimensionamento sempre per motivi di copertura.
Stessa cosa per l'altro bonus, quello del 50% sui lavori di ristrutturazione edilizia, che viene appunto abbandonato alla naturale scadenza a fine anno, con il passaggio automatico dello sgravio dal 50% al 40 per cento.
In base alle ultime elaborazioni del rapporto a cura del centro studi della Camera dei deputati-Cresme sull'impatto degli incentivi fiscali alle ristrutturazioni e all'efficienza energetica (si veda Il Sole 24 Ore del 29.07.2014) il bonus del 65% metterà in moto quest'anno investimenti per oltre 4,8 miliardi (esattamente 4.851 milioni). La previsione individua i soli lavori incentivati, ed è stata ricavata dall'analogo valore stimato per 2013, incrementato del 20 per cento.
Se si assume come plausibile la stima Cresme-Camera dei deputati, si deduce che la copertura necessaria sarebbe di 315 milioni l'anno per 10 anni. Ripetendo il calcolo con la nuova detrazione al 50% si ottiene una cifra di 242 milioni. Se questo è l'ordine di grandezza, appare difficile capire la resistenza dell'Economia di fronte a una copertura aggiuntiva di appena 73 milioni l'anno per 10 anni che evita di depotenziare fortemente lo strumento.
Riducendo l'aliquota dal 65% al 50% verrebbe meno gran parte dell'appeal di questa misura che, negli anni (insieme all'analogo sgravio sulle ristrutturazioni edilizie), ha dimostrato un potente effetto keynesiano: dal 1998 al 2013 il bonus sulle ristrutturazioni edilizie ha stimolato investimenti per oltre 132 miliardi da parte di quasi 7,5 milioni di famiglie. E il bonus del 65% tra 2007 e 2013 ha stimolato 22,3 miliardi di investimenti per oltre 1,9 milioni di richiedenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAResta la responsabilità solidale negli appalti. Sovrintendenti senza veto.
Lo Sblocca-Italia viaggia in retromarcia. Il ministero dell'Economia e Palazzo Chigi hanno lavorato per sottrazione al decreto approvato venerdì scorso dal Governo, con l'obiettivo di rivitalizzare alcuni settori strategici per il Paese.

Il testo, partito all'inizio della scorsa settimana da un centinaio di articoli, è dimagrito un poco per volta, anche per effetto delle richieste del Quirinale di evitare provvedimenti omnibus. Così, all'uscita del Consiglio dei ministri, è stato dimezzato a una cinquantina di articoli. Nel giro di poche ore, insomma, ci sono state parecchie defezioni eccellenti.
Come ha sottolineato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, è saltata la norma che avrebbe dovuto portare alla potatura delle partecipate degli enti locali: sarà oggetto della prossima legge di stabilità. Questa parte del provvedimento, però, è in buona compagnia. Soprattutto gli interventi legati all'edilizia e al settore dei lavori pubblici sono stati passati al setaccio dai tecnici, che hanno fatto molte vittime. Per cominciare, le stazioni appaltanti italiane non potranno più sperare nell'ennesima proroga, stavolta a gennaio 2015, del sistema di verifica informatizzata dei requisiti delle imprese per l'accesso alle gare, il cosiddetto "Avcpass". Alla vigilia del Cdm pareva praticamente certa, ma è stata cassata.
Allo stesso modo, è stato cancellato lo sblocca cantieri minori: si trattava di un nuovo modello di appalto riservato alle piccole opere di importo complessivo compreso tra 200mila e 1 milione di euro, totalmente innovativo rispetto agli attuali sistemi di selezione delle imprese. Era previsto un contratto "chiavi in mano", senza possibilità di varianti in corso d'opera. Nel pacchetto dedicato alle opere pubbliche, è venuta meno anche una novità strategica per le imprese: la cancellazione della responsabilità solidale fiscale tra appaltatore e subappaltatore. Ed è andata al macero la semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche per gli impianti da rinnovabili.
Qualcosa, comunque, è rimasto. In tema di autorizzazioni paesaggistiche, resta in vita la riduzione dei poteri di veto dei sovrintendenti. Così come viene confermata la norma che prevede la possibilità di avviare con una semplice comunicazione gli interventi di ristrutturazione del proprio immobile. E viene regolato il cosiddetto "overdesign", il principio in base al quale «non possono essere richieste modifiche dei progetti delle opere pubbliche rispondenti a standard tecnici» che impongano livelli di sicurezza superiori a quelli definiti dalle norme europee. Per andare oltre questi limiti bisognerà presentare un'analisi di sostenibilità economica e una stima dei tempi di attuazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per il Sistri una gara europea. Sanzioni fino a 100mila euro per chi commercializza sacchetti non biodegradabili. Ambiente. Nel Dl 91/14 proroga della «vecchia» gestione al 31.12.2015 e bando in cantiere entro il prossimo 30 giugno.
Le novità ambientali contenute nella legge 116/2014 di conversione del decreto 91/2014 (Dl competitività, in vigore dal 21.08.2014) sono molte e spaziano dalla conferma del Sistri (che, con apposito decreto sarà interconnesso con il Corpo forestale dello Stato) e altre puntuali disposizioni in materia di gestione dei rifiuti, fino ad arrivare a dragaggi, valutazione di impatto ambientale, rumore, bonifiche e accelerazione degli interventi a tutela dal rischio idrogeologico. Partono le sanzioni (da 2.500 euro a 25mila euro, aumentate fino a 100mila euro per ingenti quantità) previste dal Dl 2/2012 per la commercializzazione di sacchi di plastica non biodegradabili e compostabili.
Le disposizioni più rilevanti in materia di gestione dei rifiuti riguardano il Sistri, la classificazione dei pericolosi, le autorizzazioni per la miscelazione; gli oli minerali usati; il coordinamento tra l'"end of waste" e le procedure semplificate per il recupero.
Il Sistri si protrae fino al 31.12.2015 e da questa data il contratto tra il ministero dell'Ambiente e Selex Se.Ma. Spa perderà la sua efficacia. Entro il 30.06.2015 il Ministero bandirà una gara europea per affidare la concessione del servizio di tracciamento informatico dei rifiuti nel rispetto del Dlgs 163/2006 (contratti pubblici per lavori, servizi e forniture). Selex sarà indennizzata dei costi di produzione consuntivati al 31.12.2015 con «i contributi versati dagli operatori alla predetta data». Non è stata approvata alcuna delle numerose semplificazioni proposte dal mondo imprenditoriale e slitta dal 3 marzo al 31.12.2014 il termine entro cui il ministro dell'Ambiente semplificherà e ottimizzerà il Sistri.
L'articolo 13 della nuova legge presenta i rifiuti classificati con codice europeo (Cer) come pericolosi o non pericolosi «assoluti» (sono quelli privi di voci speculari). Per i pericolosi sarà però necessario ricercare le caratteristiche di pericolo (che la nuova legge chiama con il non condivisibile neologismo «proprietà di pericolo»). Per i rifiuti con Cer speculari (stesso rifiuto a volte pericoloso e a volte no) sono stabilite le indagini per capire il versante al quale ascriverlo. Se l'analisi non rileva i composti del rifiuto occorre riferirsi a quelli «peggiori». La modifica rischia di non risolvere i problemi, perché il raggio d'azione è troppo ampio, sarebbe invece stato opportuno che i composti «peggiori» fossero individuati come quelli pertinenti al processo.
Le autorizzazioni per la miscelazione di rifiuti speciali in possesso di impianti di recupero/smaltimento di rifiuti ottenute prima dell'entrata in vigore del Dlgs 205/2010 (25.12.2010) restano in vigore fino alla loro revisione.
Il trattamento dei rifiuti disciplinato dai regolamenti Ue sull'"end of waste" si coordina con le procedure nazionali per il recupero agevolato: il trattamento previsto dai Regolamenti Ue può essere autorizzato in forma agevolata nel rispetto di requisiti, criteri, prescrizioni e destinazione finale ivi stabiliti. Gli enti e le imprese che effettuano recupero agevolato di rifiuti ai quali si applicano i Regolamenti Ue in materia di "end of waste" adeguano le attività a tali Regolamenti entro i sei mesi successivi alla loro entrata in vigore. Diversamente, entro tale termine, dovranno accedere al regime autorizzatorio ordinario. Fino ad allora potranno operare con le regole nazionali del recupero agevolato (Dm 05.02.1998, Dm 161/2002, Dm 269/2005 e articolo 9-bis legge 210/08), che restano ferme per quanto riguarda le quantità massime recuperabili.
Recuperi ambientali, rilevati, sottofondi stradali, ferroviari e aeroportuali e piazzali potranno essere realizzati con le materie prime secondarie per l'edilizia conformi all'allegato C, Circolare Minambiente 15.07.2005, n. UL/2005/5205.
Il Presidente della Regione Lazio per affrontare l'emergenza rifiuti può requisire in uso gli impianti e avvalersi del personale.
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Nel decreto competitività. Le principali novità in materia di gestione rifiuti contenute nel Dl 91/2014.
SISTRI
Il Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti è stato confermato fino alla data del 31.12.2015. Da questa data il contratto tra ministero dell'Ambiente e il concessionario del servizio Selex Se. Ma Spa perderà la sua efficacia. La Selex, tuttavia, sarà indennizzata dei costi di produzione consuntivati al 31.12.2015 attraverso «i contributi versati dagli operatori alla predetta data»
RIFIUTI PERICOLOSI
Per i rifiuti classificati con codice europeo i quali abbiano voce speculare (stesso rifiuto a volte pericoloso e a volte no) nell'articolo 13 della legge 116/2014 sono stabilite le indagini da condurre. Se l'analisi non rileva i composti del rifiuto occorre riferirsi a quelli «peggiori». Così, però, il raggio d'azione appare troppo ampi, per cui sarebbe stato probabilmente opportuno riferirsi ai composti pertinenti al processo
MISCELAZIONE
Le autorizzazioni per la miscelazione di rifiuti speciali in possesso di impianti di recupero/smaltimento di rifiuti ottenute prima dell'entrata in vigore del Dlgs 205/2010 (25.12.2010) restano in vigore fino alla loro revisione. Sono previste dall'articolo 187, comma 2, del Dlgs 152/2006 in deroga al divieto di miscelazione dei rifiuti pericolosi dotati di diverse caratteristiche di pericolo o dei rifiuti pericolosi con quelli non pericolosi
END OF WASTE
Il trattamento dei rifiuti previsto dai regolamenti dell'Unione europea può essere autorizzato in forma agevolata nel rispetto di quanto stabilito da tali regolamenti. L'operatore che effettua recupero agevolato di rifiuti ai quali si applicano i regolamenti Ue di «end of waste» si adegua a tali regolamenti entro i sei mesi successivi alla loro entrata in vigore
PROCEDURA BONIFICHE
Entro 90 giorni dalla convocazione della Conferenza di servizi, la Regione adotta l'atto finale. Entro 30 giorni dalla comunicazione dell'assenso, l'impresa comunica all'Autorità competente e all'Arpa la data d'avvio della bonifica che si deve concludere nei successivi 18 mesi, salvo proroga non superiore a sei mesi. Diversamente, la bonifica rientra nella procedura ordinaria
FILOSOFIA BONIFICHE
La procedura semplificata prevista dalla nuova normativa si fonda sul più rigoroso approccio cosiddetto Csc (Concentrazione soglia di contaminazione) che impone un obiettivo certo di risanamento con la riduzione della contaminazione ad un livello uguale o inferiore ai limiti tabellari. In questa maniera ciò che rileva è il controllo successivo del raggiungimento o meno delle soglie di Csc (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Suoli inquinati, procedure più snelle. Bonifiche. Viene meno la caratterizzazione preliminare sotto la supervisione delle autorità.
Tra le novità ambientali contenute nella legge 116/2014 le semplificazioni in materia di bonifiche occupano un posto di grande rilievo e si applicano anche alle procedure di bonifica e di messa in sicurezza attualmente in corso e bloccate da anni.
Infatti, i risultati raggiunti in 15 anni di vigenza della disciplina sulle bonifiche, di fatto non applicabile né dal pubblico, né dal privato, sono stati decisamente scarsi. Un esito pessimo dovuto solo al bizantinismo di regole e procedure che l'articolo 13 della nuova legge prova a superare mediante l'individuazione di procedure di bonifica e di messa in sicurezza dei siti contaminati più rapide, semplici ed efficienti.
Si prevede, infatti, un'inversione della procedura ordinaria mediante l'inserimento del nuovo articolo 242-bis nel "Codice ambientale" (Dlgs 152/2006). Questo contiene la possibilità per le imprese di accedere ad una procedura semplificata per le operazioni di bonifica dei suoli contaminati (di interesse nazionale e regionale).
Il concetto posto a fondamento della novità risiede nell'applicazione del più rigoroso approccio Csc (Concentrazione soglia di contaminazione), il quale impone un obiettivo certo di risanamento con la riduzione della contaminazione ad un livello uguale o inferiore ai limiti tabellari di Csc. In tal modo, pertanto, non occorre una verifica preventiva dei progetti e delle metodiche di intervento, perché ciò che rileva è il controllo successivo in ordine al raggiungimento o meno delle soglie di Csc.
Nel concreto, infatti, a differenza del sistema ordinario, la nuova procedura non prefigura alcuna autorizzazione per il progetto di bonifica, per le metodologie di intervento e per la caratterizzazione.
Essa, infatti, prevede che l'operatore possa presentare all'Autorità competente il progetto completo degli interventi programmati in base ai dati dello stato di contaminazione del sito, nonché del cronoprogramma di svolgimento dei lavori per raggiungere i valori tabellari di legge riferiti alla specifica destinazione d'uso del sito. Pertanto, non sarà più necessario caratterizzare preliminarmente il sito sotto la supervisione delle autorità. Sarà, invece, possibile raccogliere autonomamente le informazioni per la bonifica. Dovrà essere privilegiato il riutilizzo in situ dei materiali trattati.
La procedura semplificata consiste in un'unica conferenza di servizi, con la quale la Regione territorialmente competente rilascia le autorizzazioni e i permessi necessari alle opere e alle attività per realizzare la bonifica (ad esempio, permesso di costruire, autorizzazione agli scarichi). Entro 90 giorni dalla convocazione, la Regione adotta l'atto finale di assenso, sostitutivo di ogni altra autorizzazione, comunque denominata. Entro 30 giorni dalla comunicazione dell'atto di assenso, l'impresa comunica all'Autorità competente e all'Arpa la data di avvio dell'esecuzione della bonifica che si deve concludere nei successivi 18 mesi, salvo proroga non superiore a sei mesi. Decorso inutilmente tale termine, salvo motivata sospensione, la bonifica rientra nella procedura ordinaria di cui agli articoli 242 o 252 del Dlgs 152/2006.
Alla fine dei lavori di bonifica, l'impresa presenta il piano di caratterizzazione all'Autorità competente per verificare il conseguimento dei valori di Csc. Il piano è approvato nei successivi 45 giorni. Decorso inutilmente tale termine, in via sperimentale, per i procedimenti avviati entro il 31.12.2017 il piano di caratterizzazione si intende approvato. Il piano è eseguito in contraddittorio con l'Arpa, che valida i relativi dati e ne dà comunicazione all'autorità competente entro 45 giorni.
La validazione del piano di campionamento di collaudo finale da parte dell'Arpa costituisce certificazione dell'avvenuta bonifica del suolo
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Distacchi sindacali tagliati da domani. Pubblico impiego. Operativo il dimezzamento delle quote.
Diventa operativa a partire da domani la riforma dei distacchi sindacali, contenuta nell'articolo 7 del decreto legge 24.06.2014 n. 90 (convertito dalla legge 114/2014).
La norma riduce l'entità complessiva dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali attribuiti al personale delle pubbliche amministrazioni. Con la nozione di "distacco sindacale" si fa riferimento al diritto, riconosciuto ai dipendenti pubblici, di svolgere, a tempo pieno o parziale, attività sindacale, con la conseguente sospensione dell'attività lavorativa, mantenendo tutte le altre prerogative del rapporto di lavoro (compresa la retribuzione).
La riforma prevede una regola molto semplice: le prerogative esistenti sono ridotte del 50% per ciascuna associazione sindacale (regole speciali sono previste per le forze di polizia e per i vigili del fuoco; la legge stabilisce che alla riunioni sindacali possa partecipare un solo rappresentante per associazione). Come chiarito dalla circolare 5/15 del ministero della Funzione pubblica, la decurtazione del 50% non trova applicazione qualora l'associazione sindacale sia titolare di un solo distacco sindacale.
La legge precisa che il contingente complessivo dei distacchi, dopo la riduzione del 50%, potrà essere nuovamente ripartito tra le associazioni sindacali mediante contratto collettivo.
La riforma riduce anche i distacchi che sono fruiti facendo ricorso al cumulo delle ore di permesso retribuito; per tali prerogative sindacali si applicano gli stessi principi enunciati per i distacchi sindacali.
Come chiarito ancora dalla circolare 5/14, il dipendente che riprende servizio al termine del distacco può, a domanda, essere trasferito –con precedenza rispetto agli altri richiedenti– in altra sede della propria amministrazione quando dimostri di aver svolto attività sindacale e di aver avuto il domicilio nell'ultimo anno nella sede richiesta.
Inoltre, il dipendente che rientra in servizio è ricollocato in servizio recuperando la posizione di provenienza, con l'aggiunta delle anzianità maturate.
La circolare ministeriale ricorda, altresì, che il dipendente non può essere discriminato per l'attività svolta quale dirigente sindacale, né può essere assegnato ad attività che facciano sorgere conflitti di interesse con la stessa.
La riforma, come accennato, si occupa anche dei permessi: la riduzione del 50% si applica anche al monte-ore complessivo dei permessi sindacali retribuiti concessi dall'amministrazione di appartenenza ai dirigenti delle associazioni sindacali per l'espletamento del proprio mandato.
La circolare 5/14 ricorda che la riduzione del 50% non si applica alle aspettative sindacali non retribuite, ai permessi non retribuiti e ai permessi per la partecipazione a riunioni sindacali su convocazione dell'amministrazione per il solo personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, in quanto per essi non è previsto alcun contingente.
L'attuazione della riforma passa per la comunicazione, entro la data odierna, da parte delle organizzazioni sindacali alle amministrazioni competenti dei distacchi sindacali non più spettanti. Il ministero della Funzione pubblica si occuperà di verificare, a consuntivo, il rispetto dei limiti derivanti dalla riduzione.
Ma cosa accade se un'organizzazione sindacale supera questi limiti?
Per le prerogative sindacali utilizzate in eccedenza si applica la regola, già contenuta nella contrattazione collettiva, la quale impone la restituzione del corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti; in mancanza, si dovrà operare la compensazione nel corso dell'anno successivo, quando sarà detratto dal monte-ore di spettanza delle singole associazioni sindacali il numero di ore risultate eccedenti nell'anno precedente, fino al completo recupero
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Non si pagano più gli oneri per dividere l'appartamento. Nuovi edifici, obbligatoria la ricarica delle auto elettriche.
Ristrutturazioni immobiliari più veloci e con meno costi. In attesa che con la legge di Stabilità il governo confermi anche per i prossimi anni i bonus fiscali sui lavori di manutenzione, il decreto presentato venerdì scorso, e noto per ora solo in bozza poiché ancora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, prevede un iter più snello per alcune operazioni di riconversione degli immobili.
La norma che appare destinata ad avere il maggiore impatto sui proprietari di casa è la possibilità di effettuare con una semplice comunicazione di inizio lavori «asseverata » da un professionista l'accorpamento di due o più appartamenti in uno o, al contrario, il frazionamento di un immobile grande in due o più unità. L'accorpamento oggi è praticamente obbligatorio in tutti i casi in cui il proprietario abbia diritto su uno degli immobili all'esenzione dell'Imu perché si tratta di abitazione principale. Unendo le unità adiacenti l'esenzione si trasmette a tutto l'appartamento che si viene a realizzare.
La suddivisione di unità immobiliari, invece, è un caso che si verifica sempre più frequente sugli immobili di grande dimensione, per riuscire a venderne una parte alleggerendo i costi di gestione.
La bozza del decreto assimila accorpamento e frazionamento alla manutenzione straordinaria (e quindi alla procedura semplificata prevista per questa categoria di opere) alla sola condizione che non vi sia il cambio di destinazione degli immobili: in pratica non si può realizzare con iter facilitato l'accorpamento tra una casa e un ufficio o ricavare da un grande ufficio uno studio e una casa. (... continua) (articolo Corriere della Sera del 31.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Casa, ristrutturazioni in libertà. Se non cambiano i volumi basterà una comunicazione. Il consiglio dei ministri ha approvato il dl sblocca Italia e il pacchetto sulla giustizia.
Ristrutturazioni in libertà. Per risistemare casa non sarà più necessario chiedere l'autorizzazione al comune ma basterà una semplice comunicazione, a patto di non modificare i volumi. E per divorziare si andrà dall'ufficiale di stato civile. Se il rapporto matrimoniale si interrompe consensualmente e non ci sono figli non sarà più necessario passare per le aule del tribunale.
Sono solo due delle tante disposizioni contenute nel decreto sblocca Italia e nel pacchetto di riforma della giustizia, approvati ieri dal consiglio dei ministri. Mentre per la riforma della scuola si dovrà aspettare mercoledì.
Il governo, oltre al decreto legge con le misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive e al dl con le misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile, anche altri cinque disegni di legge tre dei quali delegano il governo a intervenire sul processo civile, a riformare la magistratura onoraria e a rivedere le norme in materia di estradizione. Con altri due disegni di legge, sempre in materia di giustizia, si interviene poi sulla responsabilità civile dei magistrati e sul processo penale.
Sblocca Italia. Le misure approvate con il decreto legge sblocca Italia, secondo quanto annunciato in conferenza stampa dal presidente del consiglio Matteo Renzi, hanno come obiettivo lo sblocco di risorse per le opere pubbliche. Dieci miliardi in dodici mesi andranno a investimenti per le autostrade e altre risorse per 3 miliardi 820 mln saranno destinate a opere pubbliche che potranno essere cantierabili in dodici mesi.
Arriva, inoltre, un credito di imposta del 50% per la banda larga. Una novità è introdotta nel disegno di legge che accompagna il decreto legge sblocca italia sul codice degli appalti. Una previsione di principio che ha come obiettivo, ha spiegato Renzi, di avere «le stesse regole in Italia come nel resto d'Europa». «Cio che è consentito nell'Ue», ha spiegato, «deve essere consentito in Italia». I provvedimenti approvati guardano anche all'utilizzo dei fondi europei: «c'è una norma», ha detto il premier, «che attribuisce al governo la responsabilità di recuperare risorse non spese».
Sul fronte delle semplificazioni per i cittadini il ministro alle infrastrutture Maurizio Lupi ha spiegato che nel decreto legge è prevista una misura per cui chi dovrà effettuare lavori di ristrutturazione in casa, senza aumentare i volumi, non dovrà inviare una domanda al comune ma sarà sufficiente una comunicazione. Lupi ha poi confermato l'intenzione di rinnovare l'ecobonus, per la cui copertura, però, si dovrà attendere la legge di stabilità. In quest'ultimo provvedimento ci sarà anche la proroga delle detrazioni per le ristrutturazioni edilizie.
Il decreto legge di 50 articoli guarda anche agli investimenti dei privati in settori di rilevanza pubblica; la soglia per godere del credito d'imposta per il project financing è stata abbassata da 200 milioni a 50 milioni di euro. E sempre con uno sguardo agli interventi dei privati nel piano del governo per quanto riguarda le autostrade, è prevista l'attivazione di risorse che possono essere investite con il prolungamento delle concessioni. Cambia anche il ruolo della Cassa depositi e prestiti, con l'estensione della garanzia per investimenti alle imprese
Pacchetto giustizia. Un decreto legge per lo smaltimento dell'arretrato della giustizia civile. Le intenzioni del governo sul punto, sono quelle di arrivare, spiega Renzi: «dopo i mille giorni a ottenere in meno di un anno una sentenza di primo grado nelle cause civili e di dimezzare l'arretrato che ammonta a 5,2 mln di pendenze». L'accelerazione dei tempi della giustizia passa anche per le ferie dei magistrati. Nelle misure approvate ieri c'è infatti il dimezzamento delle vacanze estive dei magistrati.
Il restyling della giustizia guarda principalmente a due binari tematici, impresa e famiglia, con il rafforzamento, nel primo caso, del tribunale delle imprese, attribuendogli competenze più ampie e nel secondo caso, raccogliendo le diverse competenze sul contenzioso disseminate nelle strutture giudiziarie in un unico organismo, il tribunale per la famiglia e i diritti delle persone. Il ministro della giustizia, Andrea Orlando, spiega poi il termine degiurisdizionalizzazione, che consiste nel «togliere ciò che non è strettamente necessario davanti al giudice». E in questa direzione andrà la riforma della separazione e del divorzio quando sono consensuali, quando cioè «non mettono in discussione diritti di terzi con il passaggio davanti al giudice routinario», ha detto Orlando.
Spazio, dunque, alle separazioni e ai divorzi per decreto davanti ad altre autorità, mentre negli altri casi sarà possibile rivolgersi agli avvocati che attraverso una negoziazione aiuteranno le parti ad arrivare a sentenza. In questo caso saranno previsti incentivi per evitare di arrivare davanti al giudice. Nell'ottica dell'accelerazione della giustizia saranno poi previsti disincentivi sulle cause temerarie facendo leva sulla compensazione delle spese.
Un capitolo a sé è quello della giustizia e economia. «In una fase come questa di crisi, cresce il rischio di infiltrazioni di capitali illeciti, o di un utilizzo opaco dei bilanci», spiega Orlando. Per queste ragioni è stato reintrodotto un reato che esisteva già come il falso in bilancio mentre ne è stato previsto uno nuovo: l'autoriciclaggio. In particolare il nuovo falso in bilancio prevederà per le società quotate una pena tra i 3 e gli 8 anni di reclusione, mentre per le piccole società la pena sarà calibrata attraverso una valutazione dell'impatto causato dal fatto compiuto.
Nei provvedimenti approvati ieri non si è affrontato il tema della riforma del consiglio superiore della magistratura (Csm). La ragione, ha motivato Orlando, è nell'attesa che si insedi il nuovo organismo di autogoverno della magistratura per interloquire sul progetto di riforma. Cambia anche la responsabilità civile dei magistrati con la previsione di un aumento della percentuale di rivalsa, che passa dal 30 al 50%, che lo stato potrà richiedere al magistrato condannato (articolo ItaliaOggi del 30.08.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

VARIAttività d'impresa, tutela a 360°. Dopo due anni la p.a. non potrà più revocare il via libera. DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Le modifiche alla legge sul procedimento amministrativo.
Le attività di impresa, anche illegittimamente attivate, si consolideranno e resteranno intangibili dopo due anni dal loro avvio.
La riforma della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività), contenuta nel decreto Sblocca Italia, varato ieri dal Consiglio dei ministri, non costituisce certo un passo in avanti verso la semplificazione e, soprattutto, la linearità dei procedimenti amministrativi.
Modifica, quella alla disciplina della Scia, certamente necessaria perché, se da un lato essa semplifica di molto le procedure, in quanto consente agli imprenditori di iniziare le attività con una semplice comunicazione alle amministrazioni competenti, dotata della documentazione tecnica asseverata da professionisti, dall'altro lato è caratterizzata da un sistema di controlli deficitario.
L'attuale testo dell'articolo 19, comma 3, della legge 241/1990, infatti, nel caso di accertata carenza dei requisiti e presupposti per avviare l'impresa, consente alle amministrazioni di adottare provvedimenti motivati di divieto di prosecuzione dell'attività o di conformazione alla normativa vigente, entro 60 giorni dal ricevimento della Scia. Trascorso tale termine, poi è possibile solo procedere in via di autotutela, nonostante la Scia non produca la formazione di alcun provvedimento amministrativo, visto che il titolo per l'esercizio dell'impresa è integralmente privato e autoprodotto dall'interessato. L'autotutela, per altro, limita di molto i poteri di divieto o conformazione successivi.
Sarebbe stato necessario, quindi, modificare il quadro complessivo, assegnando alle amministrazioni un potere di controllo pieno e non connesso all'autotutela, entro un lasso di tempo più congruo dei 60 giorni. Il decreto, però, compie una scelta molto diversa. Conferma, infatti, che il potere pieno di divieto o conformazione possa esercitarsi solo entro i 60 giorni e modifica l'articolo 19, comma 3, abolendo il comma 4, della legge 241/1990 trasferendo la regolazione dell'autotutela nell'articolo 21-nonies, arricchito di un comma 1-bis. Tale nuovo comma fissa in due anni il termine entro il quale le amministrazioni possono adottare provvedimenti di divieto o conformazione delle imprese attivate illegittimamente.
Trascorso il termine di due anni, ogni provvedimento che sanzioni l'esercizio di imprese illegittimamente formatosi sarà nullo. Così facendo, se per un verso forse si intende sollecitare le amministrazioni a compiere i controlli pieni entro i 60 giorni dalla ricezione della Scia, per altro verso si rischia di compromettere seriamente la concorrenza e la trasparenza del mercato, permettendo alle imprese non regolarmente avviate di contare su un'inerzia procedimentale che sani ogni irregolarità della loro genesi. Lo Sblocca Italia, per altro, introduce un nuovo articolo 21-decies nella legge 241/1990.
Il nuovo articolo configura l'autotutela riguardante l'attività di impresa come si trattasse di uno spurio autoricorso gerarchico. Prevede, infatti, che ad adottare i provvedimenti di divieto o conformazione entro i due anni, nel caso di amministrazione centrale sia uno specifico dirigente individuato tra le massime figure apicali. Nel caso in cui il dirigente non sia individuato, provvederà il dirigente generale dell'amministrazione centrale di appartenenza. Nelle regioni e negli enti locali, invece, il soggetto competente dovrà essere il segretario generale dell'ente.
Positivo, inoltre, il parere di Confedilizia. «Il dl è un provvedimento di ampio respiro, al quale va riconosciuta una importanza fondamentale perché con incisive misure mette finalmente il mercato immobiliare al centro di un programma di rilancio», ha dichiarato il presidente Corrado Sforza Fogliani, «accanto a provvedimenti per le società del grande capitale, anche cooperativo, si affiancano per la prima volta misure essenziali per la ripresa dell'investimento immobiliare, che può trovare la sua concretizzazione soprattutto nella locazione. Spira nelle decisioni assunte dal Governo un vento nuovo, anche in senso liberalizzatore, del quale dobbiamo dare atto in relazione a molte nostre richieste» (articolo ItaliaOggi del 30.08.2014).

VARIIl bonus arredi anche a rate. Detrazione del 50% ammessa per gli acquisti frazionati. Le indicazioni su come fruire dell'agevolazione sul sito dell'Agenzia delle entrate.
L'acquisto a rate di mobili ed elettrodomestici non pregiudica il bonus arredi. La detrazione Irpef del 50% è ammessa purché la società che concede il finanziamento effettui il pagamento al fornitore dei mobili attraverso bonifico «parlante». L'operazione bancaria o postale deve cioè contenere nella causale gli estremi della norma agevolativa (articolo 16-bis del dpr n. 917/1986), il codice fiscale dell'acquirente e il numero di partita Iva del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato. Non solo. Se l'acquisto a rate è avvenuto nel 2013 ma il piano di rimborso si conclude solo quest'anno, il contribuente può comunque indicare per intero la spesa già nella dichiarazione 2014. Ciò in quanto, come già chiarito dalla circolare n. 11/E del 2014, l'anno in cui è stata sostenuta la spesa è l'anno nel quale la finanziaria ha effettuato il bonifico al fornitore.
È quanto ha ricordato ieri l'Agenzia delle entrate affidando a un tweet una delle risposte ai quesiti più ricorrenti in materia di bonus arredi.
Si ricorda che tale agevolazione viaggia in simbiosi con la detrazione Irpef del 50% sulle ristrutturazioni edilizie: solo coloro che hanno effettuato interventi di recupero o manutenzione degli immobili possono fruire dell'ulteriore sconto fiscale per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici di classe energetica non inferiore alla A+ (classe A per i forni). L'aiuto erariale è pari al 50% delle spese sostenute tra il 06.06.2013 e il 31.12.2014, da calcolare su un massimo di 10 mila euro e da suddividere in dieci quote annuali da far valere in dichiarazione.
Un'altra delle risposte disponibili sul sito delle Entrate riguarda le modalità di pagamento. Se è vero che il bonifico parlante è l'unica modalità ammessa per lo sgravio tributario sulle ristrutturazioni, sugli arredi l'Agenzia ha ampliato le possibilità. Ciò in quanto gli acquisti presso negozi e grandi magazzini difficilmente possono essere regolati tramite bonifico. Pertanto l'agevolazione su mobili ed elettrodomestici è ammessa anche pagando con carta di credito o bancomat. In questo caso, precisa l'Agenzia, la data di pagamento è quella di utilizzo della carta di credito o di debito da parte del titolare.
Rileva cioè il momento della transazione, riportato nella ricevuta telematica, e non il giorno di addebito sul conto corrente del titolare stesso (in tal senso anche la circolare n. 29/E del 18.09.2013). Per avere diritto al beneficio, quindi, gli acquisti con carta devono essere effettuati entro il 31.12.2014. Ai fini del bonus arredi non è invece consentito pagare mediante assegni bancari o in contanti (articolo ItaliaOggi del 30.08.201).

ATTI AMMINISTRATIVI: Verbali e ingiunzioni via Pec. Svolta dopo l'ok di Equitalia alle proprie notifiche via web. Lo Sviluppo economico apre all'inoltro online delle sanzioni delle camere di commercio.
Possibilità di notificare per Posta elettronica certificata le ordinanze di ingiunzione e i verbali di accertamento delle sanzioni amministrative. L'Ini Pec e non il registro delle imprese è lo strumento per conoscere gli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese o dei professionisti per l'invio dei verbali. Dal 26 agosto, Equitalia ha esteso anche alle imprese individuali la notifica delle propria cartelle di pagamento tramite posta elettronica certificata.

Questo è l'importante principio innovativo espresso dal Ministero dello Sviluppo economico –dipartimento XXI registro delle imprese– con la nota del 28.08.2014 n. 149353 di prot. in risposta a un quesito formulato da una camera di commercio.
La Camera di commercio di Reggio Emilia chiedeva al ministero dello sviluppo economico spiegazioni circa l'imputabilità degli oneri postali relativi alla trasmissione dei verbali amministrativi e la possibilità di notificare gli stessi tramite Pec. I tecnici dello sviluppo economico sottolineano che se si parametra l'articolo 5-bis del codice dell'amministrazione digitale con quello dettato per i cittadini (articolo 3-bis del codice amministrativo digitale) è evidente come il legislatore abbia ricostruito non in termini di facoltà ma di obbligo reciproco per la pubblica amministrazione e l'impresa o il professionista, dell'utilizzo esclusivo della Pec.
L'onere delle pubblica amministrazione deve correlarsi con l'obbligo di verifica dell'indirizzo Pec dell'impresa o del professionista rinvenibile non dal registro delle imprese ma dall'Ini Pec istituito presso il Mise che costituisce lo strumento unico e necessario per accertare l'esistenza e la veridicità dell'indirizzo di posta elettronica certificata.
L'Ini Pec infatti raccoglie tutti gli indirizzi di Posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti presenti sul territorio italiano. Al 18 luglio scorso sono stati raccolti quasi 1.042.000 indirizzi Pec di professionisti relativi a quasi 1.600 ordini e collegi professionali. Per quanto riguarda la sezione imprese, sono disponibili circa 4.382.000 indirizzi Pec, tra società e imprese individuali.
L'obiettivo è quello di raccogliere gli indirizzi Pec di tutti i professionisti e di tutte le imprese presenti sul territorio nazionale, per dare la possibilità ai vari soggetti economici e alle pubbliche amministrazioni di interagire tra con semplicità, efficienza ed economicità. Condizione questa indispensabile per uno sviluppo più rapido ed efficace del sistema paese. Gli ordini e dei collegi professionali ai fini dell'adempimento Ini Pec non possono dotarsi della posta elettronica gratuita «Cec Pac» (lettera-circolare Mise del 15.01.2014 n. 6391 di prot.) (articolo ItaliaOggi del 30.08.2014).

APPALTI: Codice appalti semplificato L'Italia si allinea all'Europa. Opere. Approvato il Ddl - Lupi: delega stringata e chiara.
«Questa è la vera rivoluzione, che nei prossimi mesi cambierà il sistema delle gare pubbliche». Il premier Renzi non ha paura di esagerare quando parla del ddl delega sugli appalti, approvato ieri dal Consiglio dei ministri dopo un lungo lavoro di preparazione del ministero delle Infrastrutture.
Il testo recepisce le direttive Ue in materia di appalti pubblici, concessioni e cosiddetti «settori esclusi» (acqua, energia, trasporti, poste) e ha un obiettivo dichiarato: avviare il processo che porterà all'alleggerimento del corpo di 600 articoli che attualmente costituisce il Codice appalti e il relativo regolamento di attuazione. Con l'idea di allinearci al resto d'Europa, grazie a un sistema composto da meno regole, ma di più efficace utilizzo. In questo modo sarà possibile combattere in maniera più ficcante il fenomeno della corruzione negli appalti.
«L'Italia ha il vezzo di irrobustire la normativa europea complicandola e inserendo elementi di difficoltà», spiega Renzi. Questa complicazione, per il premier, è inutile o, addirittura, dannosa. Perché produce regole incoerenti e difficilmente applicabili all'atto pratico, alle quali spesso si deroga negli appalti più importanti, creando anomalie come quelle tristemente note dell'Expo e del Mose. Allora, bisogna semplificare e tagliare, seguendo un principio guida: «Quello che viene consentito dall'Europa è quello che dovrà essere fatto dall'Italia». Adattando il modello Ue alle nostre caratteristiche, ma senza stravolgerlo. Più volte è stato dichiarato l'obiettivo di scendere dagli attuali 600 articoli a un massimo di 200 articoli di più rapida comprensione. Una potatura di due terzi.
Il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi sottolinea come la delega sia «molto stringata, molto chiara e molto netta» allo scopo di orientare in maniera esatta i decreti delegati. Lupi cita uno di questi criteri: «Il divieto di introduzione e mantenimento di standard superiori a quelli minimi delle direttive comunitarie». Il testo, poi, lavora soprattutto sul tema dell'anticorruzione. «Per noi è fondamentale la trasparenza delle procedure e delle gare, perché questa norma arriva dopo una serie di fatti e di dibattiti per fenomeni di corruzione». Sul punto Lupi si allinea a quanto spiegato dal premier: «La lotta alla corruzione non si fa con ulteriori regole, ma con la certezza delle regole e con la semplificazione». In questo senso la nuova legge delega viene definita «un testo unico che stabilisce cosa si può fare e cosa non si può fare», senza burocrazia ulteriore e sovrapposizioni inutili e dannose.
Questo principio di semplificazione e di allineamento alle regole Ue non riguarda, però, solo la legge delega. Il Governo lo ha inserito già all'interno del decreto legge approvato ieri. In questo senso, il responsabile delle Infrastrutture cita la norma sull'"overdesign": «Le caratteristiche tecniche delle nostre progettazioni in Italia si adeguano alle caratteristiche dell'Europa». In sostanza, nelle opere pubbliche non potranno più essere richiesti livelli di sicurezza superiori a quelli minimi definiti a livello Ue. «Qualora questo dovesse accadere -dice il ministro- deve esserci una ragione». E non può essere solo formale, ma deve essere sostenuta da un'analisi di sostenibilità economica e finanziaria, oltre che da stime sui tempi di attuazione dell'opera.
Il termine per il recepimento delle direttive in materia di appalti, concessioni e settori esclusi è fissato da Bruxelles al 18.04.2016. L'intenzione del Governo è chiudere il percorso appena avviato con un netto anticipo. Secondo il viceministro delle Infrastrutture, Riccardo Nencini l'idea è arrivare alla formulazione di un testo consolidato entro la fine dell'anno, per poi approvare il nuovo Codice in via definitiva entro la metà del 2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus a chi compra e affitta. Ma resta il nodo copertura - Semplificazioni nell'edilizia: ampliata la Scia.
E speriamo che il mercato si sblocchi. L'interesse del Governo per il mattone è concentrato soprattutto sullo stock dell'invenduto, che soffoca le imprese di costruzione con una zavorra pesantissima: la liquidità è il nodo da sciogliere e la speranza è che lo sconto fiscale del 20% sull'acquisto, che diventerà una deduzione di 60mila euro al massimo in otto anni (7.500 all'anno), possa spingere a tornare sull'investimento immobiliare. La norma, inserita ieri nel Dl Sblocca Italia, è stata approvata «salvo intese» sulla copertura. Confedilizia ha apprezzato lo sforzo del Governo.
Il problema è che quella casa, da acquistare direttamente dal costruttore (immobile nuovo o ristrutturato), dovrà poi essere affittata per almeno otto anni a canone concordato, perché il Governo spera di prendere con la stessa fava anche il piccione della crisi abitativa. Così lo scotto da pagare per chi comprerà con il bonus del 20% sarà l'obbligo di affittare in base al meccanismo dettato dalla legge 431/1998, oppure con canoni da social housing (Dpr 380/2001 e legge 350/2003). L'acquirente deve essere persona fisica, coop edilizia oppure Onlus e non deve essere parente di primo grado (quindi il limite è solo tra genitori e figli) del futuro inquilino.
Tra le condizioni per la concessione dell'agevolazione ci sono anche: la classe energetica degli immobili, che deve essere A o B; la categoria catastale, che deve essere una A (abitazioni) con esclusione di A8, A9 e A1 (ville e case storiche o signorili); il tetto di spesa per l'acquisto (anche di due case) è di 300mila euro.
Se mancano i requisiti scatta l'immediata decadenza dalle agevolazioni e la restituzione del bonus, ma non si capisce cosa debba accadere quando questo si verifica indipendentemente dalla volontà del locatore e, soprattutto, quando la locazione riprende dopo un periodo; ma è previsto un Dm attuativo che dovrà risolvere questi dubbi.
La partita della convenienza, però, è ancora tutta da giocare: in soldoni, se la differenza tra canone concordato e canone libero non è superiore al 40 per cento (a Milano, per esempio, è superiore), il gioco potrebbe funzionare (anche se per una percentuale di vantaggio minima) e la scelta penderebbe per la soluzione di comprare per affittare a canone concordato.
Di notevole impatto un'altra norma sugli affitti: per quelli non abitativi sarà derogabile la vecchia legge 392/78, purché il canone annuo superi i 100mila euro (250mila se alberghi).
Semplificazioni edilizie
Una serie di semplificazioni sono previste per l'attività edilizia, a partire dal regolamento edilizio unico per tutti i Comuni e dal rafforzamento della Scia. Vengono equiparate alla manutenzione straordinaria (quindi basterà la Scia al posto del permesso di costruire), il frazionamento o l'accorpamento di unità immobiliari, con aumento delle unità o variazione del «carico urbanistico».
In ogni caso non sarà dovuto il contributo di costruzione per accorpamento e frazionamenti e verrà ridotto del 20% per ristrutturazioni e recuperi di immobili in dismissione.
Lo sportello unico dell'edilizia rilascerà l'attestazione della formazione del silenzio-assenso sul permesso di costruire. E le relative varianti saranno realizzabili con semplice Dia purché non difformi agli strumenti urbanistici e ai vincoli.
Affitto con riscatto
Ma nel Dl non ci si ferma qui: si rivitalizza anche il vecchio affitto con riscatto (con trascrizione), con obbligo del concedente, se inadempiente, di rendere tutti i canoni (con interessi) incassati sino a quel momento. Se invece a essere inadempiente è l'inquilino, perde i canoni versati. Il limite per i canoni in ritardo è determinato dalle parti, ma non può essere inferiore al 5% del loro numero. Quindi, per esempio, con 100 rate mensili se ne possono saltare cinque al massimo, poi l'accordo salta. Ma nel contratto può essere previsto un trattamento più generoso.
Rottamazione energetica
Altro bonus è riservato a coloro (che non siano soggetto passivo Iva) che rottamano immobili a bassa prestazione energetica (sempre con esclusione di quelli classificati catastalmente in A1, A8 o A9): le imposte di trasferimento si applicheranno in misura fissa, quindi, attualmente, in 600 euro in tutto.
Gli immobili (che devono essere abitativi) vanno ceduti a società che abbiano come attività esclusiva o prevalente la costruzione, il ricupero e la rivendita di beni immobili. Queste dovranno dichiarare nell'atto di acquisto che intendono rivendere l'immobile entro cinque anni dopo aver effettuato interventi di restauro-risanamento conservativo o di ristrutturazione conseguendo la certificazione energetica in classe A o B. Se poi i lavori sono stati eseguiti su singole unità immobiliari, al posto della certificazione basta che la certificazione energetica attesti un miglioramento del fabbisogno di energia primaria pari almeno al 50% rispetto a prima. Il beneficio fiscale (che è vantaggio dell'acquirente) scatta anche in caso di permuta
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2014).

LAVORI PUBBLICI: Cantieri e made in, sblocca-Italia al via. Confermata la proroga del bonus del 65% ma resta il nodo delle coperture.
Alla fine le coperture per i 3,8 miliardi destinati al finanziamento delle infrastrutture nel decreto Sblocca-Italia sono venute fuori. Agli 841 milioni del «fondo revoche» si sommano circa 3 miliardi del Fondo sviluppo coesione (Fsc), l'ex Fas che va destinato in prevalenza al Mezzogiorno: lo stanziamento è a valere sugli anni 2016-2017, ma impegnabili subito. Anzi, i cantieri dovranno aprire entro agosto 2015, pena la revoca del finanziamento.
La mappa delle opere finanziate è notevolmente mutata rispetto a quella di un mese fa, puntando a dare ossigeno a cantieri in corso come terzo valico, Brescia-Padova, tunnel del Brennero e inserendo tra i beneficiari quattro metropolitane: per Roma (linea C), Torino (Passante ferroviario), Napoli e Firenze (la nuova metrotranvia). Nuove anche la ferrovia Lucca-Pistoia e, a Roma, il ponte fra l'Eur e il collegamento autostradale per Fiumicino.
Nel decreto legge ci sono anche i poteri da commmissario straordinario, affidati all'ad delle Fs, Michele Elia, per sbloccare le grandi opere ferroviarie Napoli-Bari e Catania-Messina che decolleranno nel novembre 2015 anziché nel 2018. Previsto un supercommissario anche per la riqualificazione dell'area di Bagnoli.
Nel decreto legge ci sarà il pacchetto delle semplificazioni edilizie con la liberalizzazione di quasi tutti i lavori in casa (comunicazione, non autorizzazione). Ci sarà il pacchetto Padoan per incentivare il finanziamento privato di infrastrutture, a partire dall'abbassamento della soglia per il credito di imposta da 200 a 50 milioni.
Fin qui le norme sicure e dettagliate del decreto sblocca-Italia. Così come sicura è l'approvazione da parte del Consiglio dei ministri del disegno di legge sugli appalti per sfoltire il codice degli appalti adeguandosi a norme e standard Ue. «Una rivoluzione», l'ha definita Matteo Renzi.
C'è poi un cospicuo pacchetto di norme del decreto legge approvate «salve intese»: ha bisogno cioè di nuovi incontri per approvare i dettagli normativi e soprattutto le coperture. In questa condizione c'è anzitutto il bonus Irpef al 65% per i lavori di risparmio energetico e per la prevenzione antisismica, che il premier Renzi vuole assolutamente confermare nel 2015 dando subito un segnale a chi vuole investire. Il ministero dell'Economia era più dell'idea di portarlo in legge di stabilità, ma il premier ha insistito e lunedì ci si rivedrà per trovare i fondi necessari a finanziarlo (dovrebbe trattarsi di 200-300 milioni). Per far passare la norma potrebbe essere ridotta a 60mila euro la spesa finanziabile (che oggi può arrivare fino a 100mila euro per certi impianti).
Stessa sorte per l'altra norma, questa voluta dal ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che prevede una deduzione del 20% per chi acquista da un costruttore un'abitazione nuova o pesantemente ristrutturata e si impegna a darla per otto anni in affitto a canone concordato.
È uscito dal decreto legge, invece, il primo pacchetto di misure per la quotazione in Borsa e la privatizzazione delle società partecipate dagli enti locali (trasporto e rifiuti) e per la chiusura di un migliaio di quelle in rosso. Se ne riparlerà in un decreto ad hoc: è il premier che vuole un provvedimento organico per evitare segnali frammentati su un tema decisivo per la spending review.
Nel decreto legge Sblocca-Italia viene confermato invece il piano per la promozione straordinaria del made in Italy e l'attrazione degli investimenti messo a punto dal viceministro Calenda (si veda altro articolo) e il piano per l'energia. Vari i capitoli di questo che il premier ha presentato come un elemento di rottura: gli incentivi procedurali e fiscali per l'estrazione degli idrocarburi (ma qui davvero dobbiamo vedere cosa c'è oltre gli annunci), l'approvazione del Tap, la possibilità di inserire i termovalorizzatori tra le opere strategiche nazionali.
Tornando ai cantieri, una norma che aspetta ancora di essere definita meglio è quella che concede una quota dei dei 3,8 miliardi di finanziamenti e lo svincolo dal patto di stabilità ai comuni che vogliono realizzare piccole opere. Il premier ha stimato che in questo modo si potranno realizzare lavori per 600 milioni. Si tratta dei sindaci che avevano inviato le proprie segnalazioni per e-mail a Palazzo Chigi
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Agevolazioni fiscali per contrastare il rischio sismico. Dall'imposta lorda detraibile un importo compreso tra il 50 e il 65% delle spese sostenute per i lavori.
Fisco agevolato per contrastare il rischio sismico. Dall'imposta lorda potrà essere detratto un importo compreso tra il 50 e il 65% delle spese documentate fino a un ammontare complessivo non superiore a 60 mila euro per unità immobiliare. Il tutto, purché gli interventi siano realizzati sulle parti strutturali degli edifici.

Queste alcune delle agevolazioni fiscali previste nella parte della bozza del provvedimento Sblocca Italia relativa all'efficientamento energetico e al rischio sismico, al vaglio del Consiglio dei ministri in programma oggi. Nel dettaglio il provvedimento prevede l'introduzione dell'art. 16-ter all'interno del dpr 917/1986 (Testo unico delle imposte sui redditi), con un rubrica ad hoc denominata «Detrazione delle spese per interventi finalizzati alla riduzione del rischio sismico e al miglioramento del rendimento energetico degli edifici esistenti».
L'art. 16-ter prevede la possibilità di detrarre dall'imposta lorda un importo compreso tra il 50 e il 65% delle spese documentate fino a un ammontare complessivo di 60 mila euro. Le spese in questione, però, devono essere effettivamente sostenute dai contribuenti che detengono l'immobile sulla base di un titolo idoneo. A stabilire la soglia di detrazione, il livello di rischio sismico che, infatti, sarà oggetto di un apposito decreto proveniente dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti all'interno del quale sarà appositamente classificato.
Ad accompagnare il decreto, delle linee guida ad hoc che definiranno: un parametro per eseguire la classificazione; la tipologia di interventi; le correlazioni intercorrenti tra la riduzione del rischio sismico e le detrazioni fiscali; la documentazione tecnica idonea a definire la classificazione. A completare il quadro, poi, anche le agevolazioni per l'efficientamento energetico. Il comma del nuovo art. 16-ter prevede, infatti la possibilità di detrarre dall'imposta lorda un importo pari al 50% delle spese documentate fino a un ammontare complessivo non superiore a 96 mila euro per unità immobiliare.
Il tutto, a condizione che sull'immobile siano effettuati interventi volti al risparmio energetico con particolare attenzione all'installazione di impianti basati sull'impiego di fonti rinnovabili di energia. I limiti di detrazione previsti, infine, restano quelli fissati dall'art. 16-ter, se sulla stessa unità immobiliare sono eseguiti anche interventi di riqualificazione energetica o di recupero del patrimonio edilizio (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, ravvedimento operoso. Immobili messi in regola pagando l'aumento di valore. DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Nella bozza una sanatoria permanente degli abusi.
Arriva il ravvedimento operoso in edilizia. Chi è responsabile di un abuso edilizio potrà conciliare con il comune dietro pagamento di una misura sanzionatoria pari all'aumento di valore dell'immobile. Lo prevede il provvedimento Sblocca Italia all'esame del consiglio dei ministri di oggi.

Nel testo, ancora suscettibile di modifica, si interviene nel testo unico dell'edilizia aggiungendo un nuovo articolo, il 38-bis. La misura prevede che il proprietario o il soggetto responsabile dell'abuso, quando non sia possibile ottenere l'accertamento di conformità, ai sensi degli articoli 36 e 37 del Testo unico edilizia (dpr 380/2001) o quando la relativa domanda non abbia trovato accoglimento nei termini prescritti, può chiedere l'avvio di una procedura di conciliazione al fine di individuare, in contraddittorio con l'amministrazione comunale, quali interventi possano essere eseguiti per rendere l'opera conforme alla disciplina urbanistica vigente e adottata.
Il nuovo percorso soccorre molteplici situazioni in quanto l'accertamento di conformità attualmente previsto dal dpr 380/2001 ha confini molto stringenti prevedendo una doppia soglia di conformità alle regole edilizie dell'abuso: al momento della costruzione e al momento attuale, in buona sostanza attualmente potevano essere corretti solo errori meramente formali e documentali delle costruzioni, con la nuova procedura invece sarà possibile consiliare con l'ente locale anche il manufatto che ad esempio all'epoca della costruzione non rispondeva ai requisiti prescritti dalla legge.
Sono estinte le sanzioni penali e non si applicano le sanzioni amministrative salvo si legge nella bozza del documento, «quanto stabilito dall'articolo 45» e cioè quando le violazioni configurino fattispecie penali. Ma la condizione è che vi sia un pagamento a titolo di oblazione di una somma pari all'aumento di valore dell'immobile e ce comunque non deve essere inferiore a 516 euro. La disposizione fissa anche in 90 giorni il termine per la conclusione del procedimento. Il ministero dei beni culturali ha espresso parere contrario alla retroattività della norma ed è quindi possibile ritenere che essa si applicherà agli abusi successivi all'entrata in vigore del provvedimento.
Inoltre la parte dello Sblocca Italia dedicata alle misure di semplificazione edilizia prevede una disposizione ad hoc per il mutamento rilevante di destinazione d'uso. «Salvo diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria», si legge nel documento, «ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati a una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: residenziale e turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale; rurale».
La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile. E infine salvo diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito
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Le modifiche alla disciplina della segnalazione certificata di inizio attività nella legge 241/1990. Attività di impresa sempre in salvo trascorsi due anni.
Tutela più ampia per l'impresa. Il via libera all'attività potrà essere, infatti, revocato entro e non oltre due anni. Non solo. Anche se emanato entro il biennio, l'annullamento del provvedimento che ha consentito l'avvio o l'esercizio dell'attività di impresa potrà essere disposto solo in presenza di un interesse pubblico che attiene al pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale. Il tutto, previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati.
Queste alcune delle disposizioni contenute nel provvedimento Sblocca Italia, nella parte che apporta dei cambiamenti alla legge 241/1190 (legge sul procedimento amministrativo). Ad essere modificate, in particolare, le discipline relative alla Segnalazione certificata di inizio attività, alla revoca del provvedimento, all'annullabilità e all'annullamento d'ufficio.
Nel dettaglio, tramite una modifica ad hoc dell'art. 19 legge 241/1990, è prevista l'eliminazione della possibilità di agire in autotutela dell'amministrazione, trascorsi i 60 giorni dal ricevimento della Scia. Entro e non oltre questo termine, quindi, la p.a. è tenuta a emanare un provvedimento di divieto di prosecuzione dell'attività in caso di accertata carenza dei requisiti. Trascorsi i 60 giorni, però, l'amministrazione non potrà più agire in autotutela.
Per compensare il venire meno di questa possibilità, però, viene aggiunto all'art. 21-nonies, il comma 1-bis in cui è fissato a 24 mesi il termine il termine entro il quale le amministrazioni possono adottare provvedimenti di divieto o conformazione delle imprese attivate illegittimamente. Di nuovo, però, trascorso tale termine ogni provvedimento che sanzioni l'esercizio di imprese che si sono formate, anche illegittimamente, sarà nullo.
A completare il quadro, l'introduzione dell'art. 21-decies, rubricato «Competenza sulla revoca e l'annullamento d'ufficio dei provvedimenti incidenti sull'avvio o l'esercizio di attività di impresa». La norma in questione prevede che i provvedimenti di revoca e di annullamento d'ufficio che incidono sull'attività possano essere adottati dal dirigente individuato dall'organo di governo tra le figure apicali massime dell'amministrazione centrale.
In caso, poi, di omessa individuazione i relativo poteri sono attribuiti al dirigente dell'amministrazione centrale di appartenenza. Per le regioni e gli enti territoriali tali poteri sono attribuiti, in mancanza del dirigente apicale, al segretario dell'ente (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014).

INCARICHI PROGETTAZIONERivoluzione progettisti. Incarichi a sorteggio e stop al preliminare. DECRETO SBLOCCA ITALIA/ Le novità in arrivo per gli appalti.
Progettisti affidatari di incarichi per sorteggio; eliminata la progettazione preliminare per le opere minori, il costo del progetto definitivo ed esecutivo non potrà superare il 10% del valore dell'opera; differito a gennaio 2015 l'Avcpass, il sistema online di verifica dei requisiti nelle gare di appalto.
Sono queste alcune delle novità che dovrebbero essere introdotte nell'atteso decreto-legge «sblocca Italia», alla luce della bozza in circolazione in queste ore. Di particolare interesse per i progettisti le disposizioni a carattere sperimentale e applicabili fino al 31.12.2015 che le stazioni appaltanti potranno utilizzare per incarichi relativi a lavori di valore compreso fra 200 mila euro e un milione e ad altri lavori oggetto del decreto.
Si tratta di progettazioni concernenti lavori definiti minori, ma che dovranno essere comunque immediatamente cantierabili; per questi lavori il decreto prevede che non sia necessaria la progettazione preliminare, ma che si proceda soltanto con la progettazione definitiva ed esecutiva in considerazione della presunta non complessità dei lavori da progettare.
In ogni caso si stabilisce che Il progetto definitivo, così come quello esecutivo, contenga tutti gli elementi, le verifiche e le informazioni necessarie ai fini dell'approvazione e del rilascio delle autorizzazioni, pareri ed ogni altro atto previsto dalla vigente normativa.
Le norme del decreto fanno quindi salvi gli affidamenti disciplinati dalle nuove direttive europee, di valore superiore ai 190 mila euro, per i quali si continueranno ad applicare le norme del codice dei contratti pubblici e del regolamento attuativo. Per le progettazioni prese in considerazione dal decreto i progettisti (professionisti, studi e società interessate a questi affidamenti) dovranno iscriversi in un elenco speciale gestito da una Unità di missione costituita presso la presidenza del consiglio entro 45 giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione. L'Unità dovrà definire i requisiti di qualificazione per essere iscritti all'elenco e, con una domanda corredata da autodichiarazione, i progettisti faranno richiesta di iscrizione.
Nelle domande, redatte sulla base dei moduli predisposti dall'Unità di missione, il progettista dovrà attestare di essere in possesso dei requisiti di qualificazione indicati per la progettazione dei lavori, nonché di non trovarsi in nessuna delle cause di esclusione previste per l'affidamento della progettazione di lavori di pari importo. Le domande dovranno pervenire entro 15 giorni dalla pubblicazione delle regole per iscriversi. Sarà poi ogni singola stazione appaltante a invitare i primi cinque progettisti presenti in elenco a formulare offerta per l'affidamento, nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento.
Il valore della progettazione non potrà comunque superare il 10% dell'importo dei lavori, valore che in alcuni casi potrebbe essere ben superiore a quanto la stazione appaltante potrebbe ottenere secondo le usuali procedure. Nell'offerta ciascun concorrente dovrà confermare quanto precedentemente autodichiarato ai fini dell'inserimento nell'elenco ed eventuali variazioni. In caso di parità di punteggio attribuito a più concorrenti, l'appalto della progettazione sarà aggiudicato al concorrente sorteggiato in seduta pubblica.
Nel testo del decreto legge si prevede poi il rinvio a gennaio 2015 del sistema di verifica on-line dei requisiti di partecipazione alle gare che i concorrenti dichiarano, messo a punto dall'ex Avcp, adesso Anac, che è divenuto operativo dal 1° luglio scorso. Il differimento dell'obbligo per tutte le stazioni appaltanti di fare ricorso all'Avcpass viene incontro a richieste formulate nei mesi scorsi dall'Anci e da diverse organizzazioni di categoria (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIMulte se la busta non è bio.
Sanzioni molto salate per la commercializzazione di sacchetti di plastica non biodegradabili.
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (n. 192 del 20 agosto) della legge 11.08.2014, n. 116, di conversione del decreto legge n. 91/2014 (c.d. decreto «competitività»), sono entrate in vigore (dal 21 agosto) le sanzioni per la commercializzazione di sacchetti di plastica non biodegradabili, anche se ceduti a titolo gratuito.
Per «commercializzazione» deve intendersi «l'offerta o la messa a disposizione di terzi, contro pagamento o gratuita», quindi anche l'omaggio del classico sacchetto della spesa (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICILa Via sulle tre fasi del progetto. Per verificare il peso dell'opera occorre riferirsi al livello preliminare, definitivo ed esecutivo.
Ambiente e territorio. Le modifiche introdotte dal Dl 91/2014 per evitare i rischi delle procedure di infrazione rispetto alle norme comunitarie.

L'articolo 15 del decreto legge 91 (convertito dalla legge 116 in vigore dal 21 agosto) interviene in materia di impatto ambientale unificando la nozione di «progetto»: prevalgono le regole e le definizioni presenti nella legge sugli appalti pubblici (Dlgs 163/2006). Fino al giugno 2014, in tema di valutazione di impatto si distingueva tra progetto preliminare e definitivo (articolo 5, comma 1, lettere g ed h, del Dlgs 152/2006), prescrivendo che questi progetti dovessero avere un livello informativo e di dettaglio equivalente a quello richiesto per i progetti di esecuzione di lavori pubblici, ai fini della valutazione ambientale.
La modifica consiste nella definizione di «progetto», che comprende oggi la generica realizzazione di lavori di costruzione di impianti o di opere o genericamente di interventi sull'ambiente naturale del paesaggio, compresi quelli destinati allo sfruttamento delle risorse del suolo. Alcuni di questi interventi non ricadono nella previsione della norme sulle opere pubbliche ma vengono ora attratti, quanto ai contenuti, nelle categorie previste per le opere pubbliche predette.
In altri termini: per ottenere una verifica ambientale occorrerà progettare come se si eseguisse un'opera pubblica e quindi, seguendo l'articolo 93 del decreto legislativo 163/2006, occorrerà tener presenti i vincoli esistenti e i limiti di spesa prestabiliti, secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, e cioè di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, in modo da assicurare la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità relative. La conformità alle norme ambientali e urbanistiche dovrà poi tendere al soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.
Sarà consentita l'omissione di uno dei primi due livelli di progettazione purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso e siano garantiti una serie di elementi, quali i requisiti di qualità dell'opera, rispondenza alle finalità relative, la conformità alle norme ambientali e urbanistiche, e infine il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario .
La modifica introdotta dall'articolo 15 intende risolvere alcuni problemi conseguenti a procedura di infrazione rispetto alla normativa comunitaria. La prima infrazione riguardava l'autorizzazione delle centrali a biogas e biomassa nell'ambito della promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili: si discuteva della necessità di una valutazione impatto ambientale o della sufficienza di uno screening (o verifica preliminare); le centrali rischiavano infatti di essere realizzate in luoghi non adatti come aree naturali, in prossimità di corsi d'acqua e in zone già soggette a inquinamento atmosferico. La seconda procedura di infrazione riguardava problemi di escavazioni nei fiumi con riferimento alla normativa regionale del Veneto: anche in questo caso si discuteva del rapporto tra screening e valutazione di impatto ambientale.
L'articolo 15 disciplina la verifica di assoggettabilità (screening) per i progetti di infrastrutture di rilevanza strategica (tra quelli indicati in specifici allegati al Dlgs ambientale 152/2006), prevedendo successivi decreti ministeriali su criteri e soglie per l'assoggettamento a screening nel rispetto della direttiva europea. Finché questo decreto ministeriale non sopravverrà, occorrerà valutare caso per caso la procedura di verifica di assoggettabilità (articolo 20 del Dlgs 152).
Nella valutazione caso per caso, potranno avere il loro peso le normative regionali. Si fronteggeranno infatti due principi: quello che fa salve le normative regionali finché lo Stato omette di provvedere emanando il decreto di propria competenza, e quello che fa cadere, insieme alla competenza statale modificata e rinviata a un successivo decreto, anche le norme già emesse dalle Regioni, imponendo alle regioni stesse di attendere il nuovo decreto ministeriale cui conformarsi.
Le principali innovazioni dell'articolo 15 del decreto legge 91 riguardano comunque il contenuto degli allegati al Dlgs 152/2006 (ambientale) circa lo stoccaggio di gas in serbatoi sotterranei, le opere di canalizzazione e regolazione dei corsi d'acqua, che vengono confermate opere di competenza statale, mentre sono affidate a procedure di valutazione facenti capo a regioni e province i depositi di fanghi con capacità superiore 10mila m³ e la costruzione di strade urbane di scorrimento o di quartiere in area urbana ed extraurbana di lunghezza superiore a 1.500 metri.
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Le novità
01 | IL PROGETTO
Con l'articolo 15 del decreto legge 91 è stata introdotta nell'articolo 5 del Testo unico ambientale la definizione di «Progetto», che sostituisce le precedenti definizioni di progetto preliminare e di progetto definitivo. In sostanza, per ottenere una verifica ambientale occorrerà progettare come se si eseguisse un'opera pubblica. Occorrerà cioè tenere presenti i vincoli esistenti e i limiti di spesa prestabiliti, secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici: progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva
02 | IL RUOLO DELLE REGIONI
Ridotta la discrezionalità delle regioni sui progetti sottoposti alla verifica di assoggettabilità di loro competenza. Il ministero dell'Ambiente dovrà infatti emanare un Dm con il quale verranno fissati i criteri e le soglie per l'assoggettamento alla procedura di screening ambientale, nonché le modalità con cui le Regioni adegueranno criteri e soglie alle specifiche situazioni ambientali e territoriali.
Una volta che il decreto sarà emanato, queste soglie saranno integrate con le disposizioni del decreto e le Regioni, per le opere collocate in aree protette, non potranno più ridurre del 50% le soglie dimensionali dei progetti da sottoporre a Via o screening regionali. Fino all'entrata in vigore del Dm, invece, le Regioni dovranno effettuare la procedura di screening caso per caso
03 | LA PUBBLICITÀ
Potenziate anche le procedure di pubblicità per la Via. L'articolo 15 del DL 91 prevede una più ampia pubblicazione del risultato della verifica di assoggettabilità a Via, esito che si leggerà integralmente nel sito dell'autorità competente. Anche le altre fasi del procedimento potranno essere desunte dalla lettura dei siti web, e cioè sia i passaggi di trasmissione da un'autorità all'altra sia la descrizione delle caratteristiche dell'opera.
Le procedure di consultazione dell'intero progetto preliminare saranno disponibili in formato digitale e lo studio preliminare ambientale sarà pubblicato nel sito web dell'autorità competente (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIAccesso agli atti più facile con il web. La pubblicità. I risultati nel sito dell'autorità competente.
Il decreto legge 91 approfitta del riordino in materia di impatto ambientale per affidare alla pubblicità informatica molti dei passaggi di informazione e consultazione relativi alle opere e ai relativi piani e programmi. L'articolo 15 del decreto legge prevede (modificando il Dlgs 152/2006) la pubblicazione del risultato della verifica di assoggettabilità a Via, esito che si leggerà integralmente nel sito dell'autorità competente. Anche le altre fasi del procedimento potranno essere desunte dalla lettura dei siti web, e cioè sia i passaggi di trasmissione da un'autorità all'altra sia la descrizione (breve) delle caratteristiche dell'opera. Le procedure di consultazione dell'intero progetto preliminare saranno disponibili in formato digitale e lo studio preliminare ambientale sarà pubblicato nel sito web dell'autorità competente.
Si tratta di una notevole semplificazione che renderà più agevole l'accesso, generando un risparmio dei tempi, aggirando ad esempio i 30 giorni previsti dalla legge 241/1990 per ottenere copia di atti. L'accesso quindi sarà semplificato e diventerà economicamente più conveniente, così come più rapida sarà la procedura di consultazione dei soggetti interessati, procedura in precedenza rallentata nei tempi, nell'individuazione dell'autorità competente, e non di rado dal formato stesso (disegni, planimetrie, foto) dei documenti allegati.
Queste norme in tema di pubblicità saldano le direttive in materia di valutazione di impatto ambientale con le norme comunitarie in materia di appalti pubblici: è infatti imminente l'applicazione della direttiva 2014/24/Ue sugli appalti pubblici, la quale tende a rimediare alla circostanza che la litigiosità in materia di appalti risulti riservata (direttiva 89/665/Ue) a chi abbia interesse a ottenere l'aggiudicazione (limitando quindi le contestazioni alle imprese che vogliono realizzare l'intervento, semmai con caratteristiche diverse).
Per evitare il rischio che venga meno l'informazione e la possibilità di contestare i presupposti e le caratteristiche dell'opera da realizzare, la direttiva 2014/24 sottolinea che i cittadini, soggetti interessati organizzati o meno, e altre persone od organismi che non hanno accesso alle procedure di ricorso sulle operazioni di gara, devono vedersi riconosciuto comunque un interesse legittimo «in qualità di contribuenti» a un corretto svolgimento delle procedure di appalto.
La pubblicità prevista dall'articolo 15 del Dl 91/2014 diventa uno dei presupposti, per i soggetti interessati, per interloquire sul progetto con modalità diverse dal sistema di ricorso (litigiosità prevista in modo privilegiato per le imprese dalla direttiva 89/665/Cee), e cioè senza necessariamente un'azione «dinanzi a corti e tribunali», bensì segnalando le eventuali violazioni di direttive all'autorità o alla struttura competente. Anzi, la stessa direttiva in materia di appalti 2014/24 prevede, al fine di non creare duplicazioni di autorità o strutture esistenti, che gli Stati membri dovrebbero essere in grado di prevedere il ricorso ad autorità o strutture di controllo generali, organi di vigilanza settoriali, autorità di vigilanza comunali, autorità competenti in materia di concorrenza, al mediatore o ad autorità nazionali competenti in materia di audit.
È quindi probabile uno sdoppiamento delle contestazioni: le imprese entreranno in contrasto (tra loro e con le amministrazioni) circa la rispettiva idoneità o le caratteristiche del progetto; cittadini e comunità, già solo come contribuenti, avranno accesso ad altri sistemi di controllo, altrettanto efficienti specialmente grazie alla pubblicità immediata degli atti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTILa responsabilità solidale k.o.. Le imprese non esibiranno il versamento delle ritenute. Il provvedimento Sblocca Italia interviene sulle misure fiscali negli appalti d'opere.
Responsabilità solidale fiscale negli appalti addio. Il provvedimento Sblocca Italia che sarà esaminato nel consiglio dei ministri di domani, e il cui testo è al momento ancora suscettibile di modifiche, sopprime le misure che prevedevano la corresponsabilità tra imprese per il versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente.

La norma non è mai piaciuta alle associazioni di impresa e ai professionisti che ne hanno sottolineato il carattere eccessivamente gravoso.
Nell'attuazione della legge delega fiscale era stato chiesto di inserire la semplificazione ma la commissione finanze della camera nel licenziare il parere aveva ritenuto di non inserire la misura. In precedenza era già stata eliminata la responsabilità solidale per la voce dell'Iva.
Ora ci riprova il provvedimento Sblocca Italia. La misura in attesa del parere del ministero dell'economia farà saltare il meccanismo presente nell'articolo 35, commi dal 28 al 28-ter, del dl 223/2006.
Le regole prevedono che in caso di appalto di opere o di servizi, l'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto, del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente dovute dal subappaltatore all'erario in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto.
La responsabilità solidale viene meno se l'appaltatore verifica, acquisendo la documentazione prima del versamento del corrispettivo, che gli adempimenti di cui al periodo precedente, scaduti alla data del versamento, sono stati correttamente eseguiti dal subappaltatore. L'attestazione dell'avvenuto adempimento degli obblighi può essere rilasciata anche attraverso un'asseverazione.
E anche i pagamenti da parte del committente sono subordinati all'esibizione da parte di chi ha effettuato i lavori della certificazione di regolarità fiscale e contributiva.
Il pagamento può essere sospeso fino all'esibizione della documentazione e sono previste sanzioni laddove l'adempimento non sia rispettato (articolo ItaliaOggi del 28.08.2014).

APPALTISblocca-Italia, gare di appalto con rating di legalità e sorteggio. Piccole opere. Ribasso limitato a una soglia predefinita per lavori fra 200mila euro e un milione.
Gare di appalto affidate alle imprese in base al rating di legalità più alto e, in caso di parità, mediante il sistema del sorteggio. Nel decreto sblocca-Italia entra anche un modello sperimentale di gara di appalto riservato alle piccole opere di importo complessivo fra 200mila euro e un milione, totalmente innovativo rispetto agli attuali criteri di selezione delle imprese. Il contratto sarà «chiavi in mano» e sarà escluso in partenza qualunque tipo di variante in corso d'opera.
In sostanza per evitare i massimi ribassi che in questi anni hanno caratterizzato in negativo il mercato degli appalti si dà la possibilità alle stazioni appaltanti che decidono di aderire al modello sperimentale di fissare una soglia massima di ribasso considerata congrua rispetto al lavoro in appalto. Poiché è prevedibile che molte o tutte le imprese invitate si allineino a quella soglia nella loro offerta, ecco che scatta il sistema di selezione alternativo.
Anzitutto varrà il rating di legalità che è stato proposto in questi anni dal sistema confindustriale, soprattutto nelle regioni ad alto tasso di criminalità organizzata, ed è stato rilanciato in questa proposta da un suggerimento arrivato a Palazzo Chigi dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. Qualora più imprese dovessero avere lo stesso rating di legalità, si procederebbe alla scelta dell'appaltatore con il sistema del sorteggio. È previsto, per altro, un criterio di rotazione nella scelta delle imprese da invitare alla gara.

La norma messa a punto dalla presidenza del Consiglio sarà sperimentale nel senso che varrà fino al dicembre 2015 e sarà applicata dalle stazioni appaltanti su base volontaria: accorgimenti che dovrebbero consentire di evitare una procedura di infrazione comunitaria. D'altra parte la norma inserita nella bozza di decreto diffusa da Palazzo Chigi domenica scorsa prevede che «al fine di incentivare il ricorso alla procedura sperimentale, in caso di finanziamenti statali è data preferenza ai lavori affidati» con il sistema normato nel decreto. Prevista anche la creazione di una unità di missione a Palazzo Chigi per gestire il modello sperimentale.
Un altro pilastro del modello sperimentale che viene proposto è la creazione di un «elenco speciale degli esecutori per ciascun lavoro da affidare con la procedura», detenuto presso l'unità di missione. Sarà l'unità di missione, con proprio atto, a disciplinare le modalità di funzionamento dell'elenco speciale, specificando i requisiti di qualificazione e partecipazione richiesti e assicurando la pubblicazione delle schede di sintesi degli interventi. Le imprese interessate dovranno inviare domanda di iscrizione all'elenco speciale.
Le stazioni appaltanti inviteranno a presentare offerta, in relazione ad ogni singolo lavoro, «i primi dieci operatori presenti nell'elenco speciale degli esecutori, non ancora selezionati e così fino a esaurimento degli operatori iscritti in possesso dei requisiti e delle qualificazioni richieste». L'affidamento «avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e parità di trattament
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

COMPETENZE PROGETTUALIAgrotecnici, competenza fondiaria.
Sono di competenza anche degli iscritti all'albo degli agrotecnici le attività di progettazione e direzione delle opere di trasformazione e miglioramento fondiario, sia agrario che forestale.

Questa precisazione è contenuta nell'art. 1-bis, 16 comma, del decreto-legge 24.06.2014, n. 91 convertito nella legge 11.08.2014 n. 116 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21.08.2014 n. 72).
Con tale norma è stato interpretato l'articolo 11, comma 1, lettera c), della legge 06.06.1986, n. 251 (come modificato dall'articolo 26, comma 2-bis, del decreto-legge 31.12.2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.02.2008, n. 31), sostenendo che «sono anche di competenza degli iscritti nell'albo degli agrotecnici le attività di progettazione e direzione delle opere di trasformazione e miglioramento fondiario, sia agrario che forestale».
Il presidente del collegio nazionale degli agrotecnici, Roberto Orlandi, ha commentato la portata di tale norma affermando che «con questo chiarimento legislativo è stata messa fine alla continua incertezza sulle competenze e resa giustizia alla elevata professionalità degli iscritti nell'albo degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati, i quali da oggi sanno di potere pacificamente attendere alle loro attività, scevri da conflitti, mentre la maggiore concorrenza fra la nostra e le altre categorie, che iscrivono le medesime classi di laurea, si svolgerà in condizioni di maggiore parità, all'interno di un quadro legislativo meglio definito, portando indiscussi benefici sia per al mercato dei servizi professionali che per gli stessi albi coinvolti, obbligati a operare in modo più accorto e con maggiore riguardo verso i loro iscritti e verso i cittadini-consumatori» (articolo ItaliaOggi del 27.08.2014 - tratto da www.centrocstudicni.it).

EDILIZIA PRIVATADa ottobre modello unico per il fotovoltaico.
Semplificazioni amministrative con rilevanza anche dal punto di vista edilizio per la realizzazione, la connessione e l'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e delle unità di microcogenerazione. Dal 01.10.2014, si utilizzerà un modello unico per la realizzazione, la connessione e l'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e per l'esercizio di unità di microcogenerazione.

Il modello sarà approvato dal ministero dello sviluppo economico, sentita l'autorità per l'energia elettrica e il gas ed il sistema idrico e sostituirà tutti i modelli eventualmente adottati dai comuni, dai gestori di rete e dal Gse. Questo grazie all'articolo 30, del decreto-legge 24.06.2014, n. 91 convertito nella legge 11.08.2014 n. 116 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21.08.2014 n. 72), con il quale viene inserito, dopo l'articolo 7 del decreto legislativo 03.03.2011, n. 28 il nuovo articolo 7-bis rubricato «semplificazione delle procedure autorizzative per la realizzazione di interventi di efficienza energetica e piccoli impianti a fonti rinnovabili».
Il nuovo modello dovrà contenere esclusivamente i dati anagrafici di colui che presenta la comunicazione, l'indirizzo dell'immobile e la descrizione sommaria dell'intervento, la dichiarazione di essere in possesso della documentazione rilasciata dal progettista circa la conformità dell'intervento alla regola d'arte e alle normative di settore. I soggetti destinatari della comunicazione resa con il modello unico non potranno richiedere documentazione aggiuntiva.
Viene, inoltre, previsto che nel caso in cui si debbano acquisire appositi atti amministrativi l'interessato potrà allegarli alla comunicazione stessa ovvero demandarne l'acquisizione allo sportello unico per l'edilizia, che vi dovrà provvedere entro il termine di 45 giorni. Sono state inoltre introdotte semplificazioni per le autorizzazioni in biometano.
Per gli impianti e le attività degli stabilimenti a tecnologia avanzata nella produzione di biocarburanti, al fine di assicurare la tutela della salute e dell'ambiente, il ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentito il ministro della salute, adotta entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore della legge 11.08.2014 n. 116 (21.08.2014), nel rispetto di quanto previsto dalla normativa europea, apposite linee guida recanti i criteri per la fissazione dei valori limite di emissione degli impianti di bioraffinazione, quale parametro vincolante di valutazione da parte delle autorità competenti.
Nelle more dell'adozione delle linee guida, gli impianti di bioraffinazione devono applicare le migliori tecniche disponibili, rispettare i limiti massimi previsti dalla normativa nazionale applicabile in materia di tutela della qualità dell'aria, di qualità ambientale e di emissioni in atmosfera (articolo ItaliaOggi del 27.08.2014).

APPALTIRischio caos sulle «white list». Appalti. Le novità del Dl 90/2014.
Il decreto legge Pa (n. 90/2014) è intervenuto, tra le altre cose, anche sulla questione delle "white list", cioè gli elenchi prefettizi delle imprese che eseguono lavori pubblici e che non sono soggette a infiltrazioni mafiose. Il Dl interviene però con una norma transitoria che rischia –paradossalmente– di vanificare, almeno per i prossimi 12 mesi, l'obiettivo di bloccare le infiltrazioni criminali. Ecco perché.
Le maggiori perplessità destate dall'articolo 29 del decreto-legge n. 90/2014 ruotano probabilmente intorno alla norma transitoria contenuta nel comma 2, il quale dispone che: «In prima applicazione, e comunque per un periodo non superiore a dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, del citato decreto legislativo n. 159 del 2011, per le attività indicate all'articolo 1, comma 53, della predetta legge n. 190 del 2012, procedono all'affidamento di contratti o all'autorizzazione di subcontratti previo accertamento della avvenuta presentazione della domanda di iscrizione nell'elenco di cui al comma 1».
A una prima lettura della disposizione, sembrerebbe dunque che, nell'attesa di una maggiore definizione delle white list nel corso del prossimo anno, le stazioni appaltanti potranno comunque definire i propri rapporti contrattuali, e quindi bypassare paradossalmente le verifiche antimafia, servendosi della sola richiesta, formulata dall'impresa, di iscrizione negli elenchi prefettizi.
Qualora poi dovesse essere accertata la sussistenza di un tentativo di infiltrazione mafiosa, che condurrà ovviamente al diniego di iscrizione dell'impresa da parte della prefettura, troveranno applicazione –in base alla norma transitoria– i commi 2 e 3 dell'articolo 94 d.lgs. n. 159/2011.
E quindi, le amministrazioni dovranno recedere dai contratti, facendo salvo il pagamento delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite; oppure, ancora, potranno evitare il recesso nel caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione.
In sostanza, le stazioni appaltanti rischiano, ancora una volta, di ammettere alla stipula un soggetto che potrebbe rivelarsi in odore di mafia, con buona pace dei controlli preventivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza, obbligo degli appaltatori. Appalti. Il vincolo vale anche per le imprese straniere.
La verifica delle capacità tecnico professionali dell'impresa appaltatrice non può essere limitata alle competenze tecniche, ma si deve estendere anche all'osservanza delle norme antinfortunistiche.
Il principio è stato espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la sentenza 28.08.2014 n. 36268.
La sentenza scaturisce dalla condanna di un appaltatore e dal responsabile delegato alla sicurezza della ditta committente, che aveva affidato l'appalto a una società croata, per aver cagionato al dipendente del primo lesioni personali gravi per imperizia, imprudenza e inosservanza delle norme di prevenzione infortuni da parte dell'azienda appaltatrice.
Il responsabile dell'impresa committente ha fatto ricorso. I giudici avrebbero erroneamente fondato la responsabilità nei suoi confronti ritenendo che i requisiti di idoneità tecnico-professionale dell'impresa appaltatrice, previsti dal Dlgs 626/1994, riguardino anche la sicurezza, interpretando in tal senso una norma la quale difetta della necessaria tassatività che deve caratterizzare il precetto penale con riferimento alle norme integrative.
È quanto meno dubbio, secondo la difesa, che l'idoneità tecnico professionale investa anche il profilo della sicurezza, cui è specificamente dedicato il punto sub b) dell'articolo 7, in merito al quale è apparso di notevole portata interpretativa l'articolo 26 del Dlgs 81/2008 (nel quale è trasfuso l'articolo 7 del 626/1994), il quale specifica come effettuare la verifica fino a quando le modalità non vengano previste con decreto: una norma priva della tassatività e determinatezza idonei a configurarla come integratrice del precetto penale.
La Cassazione ritiene, invece, che gli articoli 7 e 26 individuano due distinti obblighi del datore di lavoro che si avvale di un'impresa appaltatrice per lavori all'interno dell'azienda: un obbligo di verifica dell'idoneità tecnico professionale in relazione al lavoro da fare, dal quale si desume una posizione di garanzia del datore nella scelta dell'impresa e un obbligo di informazione sui rischi specifici che questa incontrerà nell'ambiente di lavoro.
La disposizione richiamata non lascia margini di dubbio, secondo la Cassazione, in merito alla finalità della norma, di garantire la sicurezza del lavoro nella particolare situazione in cui determinate attività vengano affidate in appalto e si svolgano nei locali dell'impresa committente. È evidente che la scelta dell'impresa appaltatrice trova la sua ragion d'essere nella finalità di evitare che attraverso la stipula di un contratto di appalto, vengano affidate all'appaltatore lavorazioni o mansioni che il singolo lavoratore non sia in grado di svolgere, con incremento del rischio per la sua sicurezza.
Da qui l'altro principio secondo cui la norma ha la funzione di individuare l'ipotesi in cui il committente si debba ritenere corresponsabile con l'appaltatore per la violazione delle norme antinfortunistiche
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Permesso nell'ex festività, maggiorazione festivo ko.
Il permesso sindacale fruito in un giorno coincidente con ex festività soppresse non dà diritto a fruire della maggiorazione retributiva per lavoro festivo. L'art. 23 della legge n. 300/1970 (statuto lavoratori), infatti, stabilisce la sola retribuzione dei permessi sindacali, escludendo le voci retributive che presuppongono l'effettiva presenza al lavoro.

Lo stabilisce la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella sentenza 28.08.2014 n. 18425.
La questione riguarda due lavoratrici che hanno fruito di permessi sindacali nelle giornate del 04.11.1996 e del 02.06.1997, coincidenti con le festività soppresse dalla legge n. 54/1977. Con un primo ricorso al Tribunale, le lavoratrici hanno ottenuto il riconoscimento delle maggiorazioni per lavoro festivo per le giornate di permesso sindacale, sostenendo una piena equiparazione dell'assenza dall'azienda per esercizio di attività sindacale con l'effettiva prestazione di lavoro. Impugnata la sentenza, la Corte di appello l'ha riformata disconoscendo le maggiorazioni. La vicenda è quindi arrivata in Cassazione per volontà delle lavoratrici che vogliono vedere ristabilito il diritto alle maggiorazioni.
Ma anche la Cassazione dice no. A tal fine riprende il principio dell'onnicomprensività della retribuzione (sentenza n. 5647/1989), con cui ha chiarito che «nel trattamento economico spettante al lavoratore subordinato nei periodi di assenza per permessi sindacali (nonché per ferie) non deve essere incluso un'indennità contrattuale quale il contributo-paso, ancorché configuri un'erogazione del datore di lavoro di natura retributiva, ove dai patti della contrattazione collettiva o individuale emerga la volontà delle parti di limitare detta erogazione alle sole giornate in cui vi sia stata effettiva presenza al lavoro».
Ciò perché, spiega, il principio non ha valore di regola generale dell'ordinamento, limitativa dell'autonomia privata, e non osta a che questa disponga di non includere tale elemento nel calcolo della retribuzione per i periodi di non lavoro. L'esclusione peraltro «è legittima in particolare quanto ai permessi per i quali la legge (art. 23 Statuto lavoratori) impone solo che le relative assenze dal lavoro siano retribuite» (articolo ItaliaOggi del 29.08.2014).

APPALTI SERVIZI: Ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito nella legge 07.08.2012 n. 135, negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige ex lege il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara.
F) Nella presente sede nomo-filattica, l’Adunanza plenaria è chiamata a risolvere, ai sensi dell'art. 99, comma 1, c.p.a., il seguente quesito di diritto: “se gli artt. 37, 41 e 42 del codice dei contratti, nella formulazione antecedente alla novella di cui alla legge n. 135/2012, consentano, anche per gli appalti di servizi, l’applicazione del principio di corrispondenza fra quota di capacità e quota di esecuzione della prestazione, a prescindere dalle espresse previsioni della lex certaminis”.
Al riguardo l’Adunanza ritiene di confermare in toto il proprio indirizzo interpretativo espresso con la sentenza 30.01.2014 n. 7.
In detta occasione si è osservato come la risoluzione della questione imponga di stabilire in primis la natura giuridica e la portata applicativa della norma sancita dall’art. 37, comma 13, codice dei contratti pubblici che, nel testo vigente alla data del bando, così disponeva: <<13. I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento>>.
Successivamente tale disposizione è stata novellata dalla lettera a) del comma 2-bis dell’art. 1 del decreto-legge 06.07.2012 n. 95, introdotto dalla legge di conversione 07.08.2012 n. 135 (con decorrenza dal 15.08.2012, data di entrata in vigore della legge di conversione): <<13. Nel caso di lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento>>.
Da ultimo tale comma è stato abrogato dall’ art. 12, comma 8, d.l. 28.03.2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla l. 23.05.2014, n. 80.
G) Prima della novella del 2012, la giurisprudenza amministrativa (cfr. da ultimo Cons. St., Sez. V, sent. 29.09.2013 n. 4753; sez. VI, sent. 20.09.2013 n. 4676), per alcuni aspetti corroborata da recenti pronunce dell’Adunanza plenaria (cfr. sentt. 13.06.2012 n. 22 e 05.07.2012 n. 26, in tema di appalti di servizi), si era consolidata -sulla scorta di una lettura unitaria della norma sancita dal comma 13 cit. con quella di cui al comma 4 del medesimo articolo 37, secondo cui: <<4. Nel caso di forniture o servizi nell’offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati>>- nell’affermazione dei seguenti princìpi:
a) corrispondenza sostanziale, già nella fase dell'offerta, tra le quote di partecipazione all’a.t.i. e le quote di esecuzione delle prestazioni, costituendo la relativa dichiarazione requisito di ammissione alla gara e non contenuto di obbligazione da far valere solo in sede di esecuzione del contratto;
b) funzione dell’obbligo di corrispondenza fra quote di partecipazione ed esecuzione ravvisata nelle seguenti esigenze: I) conoscere preventivamente, da parte della stazione appaltante, il soggetto incaricato di eseguire le prestazioni e la misura percentuale, al fine di rendere più spedita l’esecuzione del rapporto, individuando ciascun responsabile; II) agevolare la verifica della competenza dell’esecutore in rapporto alla documentazione di gara; III) prevenire la partecipazione alla gara d’imprese non qualificate;
c) trattandosi di un precetto imperativo che introduce un requisito di ammissione, quand'anche non esplicitato dalla lex specialis, quest’ultima è da intendersi corrispondentemente etero-integrata ai sensi dell’art. 1339, c.c., sicché la sua inosservanza determina l'esclusione dalla gara (sulla non necessità, ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, codice dei contratti pubblici, che la sanzione dell’esclusione sia espressamente prevista dalla norma di legge, allorquando sia certo il carattere imperativo del precetto che imponga un determinato adempimento ai partecipanti ad una gara, cfr. Adunanza plenaria, 16.10.2013 n. 23 e 07.06.2012 n. 21);
d) tale obbligo di dichiarazione in sede di offerta s’impone per tutte le tipologie di a.t.i. (costituite, costituende, verticali, orizzontali), per tutte le tipologie di prestazioni (scorporabili o unitarie, principali o secondarie) e per tutti i tipi di appalti (lavori, servizi e forniture), indipendentemente dall’assoggettamento della gara alla disciplina comunitaria;
e) poiché l’obbligo di simmetria tra quota di esecuzione e quota di effettiva partecipazione all’a.t.i. scaturisce e s’impone ex lege, è necessaria e sufficiente, in sede di formulazione dell’offerta, la dichiarazione delle quote di partecipazione, cui la legge attribuisce un valore predeterminato, che è quello dell’assunzione dell’impegno da parte delle imprese di eseguire le prestazioni in misura corrispondente.
H) All’interno del su riferito indirizzo giurisprudenziale si è sviluppato un filone esegetico che ha divisato un ulteriore necessario parallelismo, in modo congiunto, anche fra quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote di esecuzione.
Tale impostazione va respinta perché:
a) in contrasto con il tenore testuale delle disposizioni del codice dei contratti pubblici (e segnatamente, i commi 4 e 13 dell’art. 37), che non consentono di avallare una siffatta opzione interpretativa;
b) in contrasto con la sistematica del codice (e del regolamento attuativo), che disciplina in maniera completa e nella sede propria il regime della qualificazione delle imprese anche riunite in a.t.i., per i lavori, mentre affida alla disciplina di gara ogni determinazione in materia per gli appalti di servizi e forniture, salvi i limiti sanciti dagli artt. 41 – 45.
Il quadro unitario così configurato dalla giurisprudenza, ha subìto, successivamente alla novella introdotta dal d.l. n. 95/2012, una frattura che conduce ad una lettura atomistica delle norme sancite dai più volte richiamati commi 4 e 13 dell’art. 37, codice dei contratti pubblici.
Deve ritenersi, invero, che:
a) giusta il tenore letterale della nuova disposizione e la sua finalità di semplificare gli oneri di dichiarazione incombenti sulle imprese raggruppate operanti nel mercato dei contratti pubblici, l’obbligo di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, sancito dal più volte menzionato comma 13, sia rimasto circoscritto ai soli appalti di lavori, fino all’entrata in vigore del d.l. n. 47/2014 (abrogante il cit. comma 13);
b) per gli appalti di servizi e forniture continua a trovare applicazione unicamente la norma sancita dal comma 4 dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più modesto obbligo d’indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però, che ciascuna impresa va qualificata per la parte di prestazioni che s’impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara;
c) rimane inteso, in entrambi i casi, che le norme in questione continuano ad esprimere un precetto imperativo da rispettarsi a pena di esclusione e sono dunque capaci di etero-integrare i bandi silenti.
I) In base alle esposte considerazioni va, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: “Ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito nella legge 07.08.2012 n. 135, negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige ex lege il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara” (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 28.08.2014 n. 27 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIReati fiscali ostativi all'appalto. Tar Milano. Il requisito di moralità.
Chi vuole partecipare a una gara di appalto pubblico, deve dichiarare l'esistenza di eventuali condanne penali in materia fiscale: lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,  nella sentenza 19.08.2014 n. 2208.
Il Comune aveva indetto una gara per l'affidamento del servizio di manutenzione di veicoli e macchine operatrici e un imprenditore era risultato aggiudicatario: poi era emersa l'esistenza di un decreto penale del Gip, per il reato di omesso versamento Iva (articolo 10-ter del decreto legislativo 74 del 10.03.2000), un patteggiamento per il reato di omesso versamento di ritenute certificate (articolo 10-bis, Dlgs 74/2000) e un altro patteggiamento per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2, Dlgs 74/2000).
Di qui il provvedimento del Comune, che ha annullato in autotutela l'aggiudicazione, ritenendo carente il requisito della moralità professionale, richiesto dall'articolo 38, lettera c), Dlgs 163/2006 sugli appalti pubblici.
Respingendo il ricorso dell'impresa, il Tar ha condiviso l'orientamento del Comune, precisando che i reati in materia di violazione delle norme sulla repressione dell'evasione fiscale risultano tra quelli, in astratto, idonei a incidere sulla moralità professionale e che le valutazioni in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate e la loro incidenza sulla moralità professionale spettano esclusivamente all'amministrazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad indicare tutte le condanne riportate.
Il giudizio relativo alla dichiarazione o meno delle condanne a seconda della loro gravità, è inevitabilmente soggettivo, è quindi evidentemente inconciliabile con la finalità della legge.
La sentenza del Tar è uno dei primi casi di valutazione del peso degli illeciti fiscali, poiché in precedenza (Consiglio Stato 1378/2013; Tar Friuli-Venezia Giulia 537/2011) si erano esaminati solo concetti generici di completezza e veridicità delle dichiarazioni degli imprenditori concorrenti, sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le sentenze penali di condanna eventualmente riportate (ad esempio in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro).
Nel caso esaminato, i giudici milanesi hanno precisato che l'esclusione dell'imprenditore condannato penalmente per reati fiscali, doveva ritenersi legittima anche se una recente sentenza della Corte Costituzionale 80/2014 avrebbe comportato l'assoluzione dell'imprenditore per i medesimi fatti.
La sentenza della Corte costituzionale dichiara, effettivamente, l'illegittimità dell'articolo 10-ter del Dlgs 74/2000 nella parte in cui punisce l'omesso versamento dell'Iva dovuta per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, a 103.291 euro.
Tuttavia, sottolineano i giudici amministrativi, la pronuncia della Corte risultava depositata dopo la domanda di partecipazione alla gara, con la conseguenza che l'imprenditore avrebbe dovuto comunque menzionare tutte le condanne fiscali riportate
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.08.2014).

EDILIZIA PRIVATASulla costa piscina compatibile. Il mancato impatto ambientale dimostrato da un dossier di foto. Consiglio di Stato. Si può sanare il manufatto in una zona senza vincolo di inedificabilità assoluta.
Una piscina realizzata vicino al mare, nella fascia di tutela, può essere ritenuta compatibile con il vincolo paesaggistico: lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.08.2014 n. 4226
, relativa ad un intervento nel Comune di Orbetello sulla riviera toscana.
Il contrasto era sorto in quanto un Comune aveva respinto un'istanza di sanatoria in base alla legge 47 del 1985, facendo generico riferimento all'impatto visivo dell'opera; in particolare, si discuteva della visibilità della piscina da parte di chi guardasse verso il complesso edilizio percorrendo la costa.
Per negare tale visibilità e quindi il presupposto stesso del diniego di compatibilità paesaggistica, il costruttore aver fornito una relazione tecnica con allegati grafici e fotografici dai quali risultava che la piscina era notevolmente arretrata rispetto alla linea di costa, e quindi non risultava visibile dal mare. Al più, dalla costa era possibile scorgere il belvedere con giardino prospicienti la piscina, ma solo ponendosi al livello di tali strutture, e non da quote inferiori (e, in particolare, dal livello della costa), l'intervento era effettivamente percepibile.
Infine, si discuteva anche di una discesa a mare, che era stata realizzata con accorgimenti costruttivi idonei a mitigarne in modo rilevante l'impatto sul paesaggio circostante, ad esempio attraverso il ricorso alla pietra locale e alla copertura dei manufatti con essenze arboree e senza alterare l'andamento del naturale del terreno.
Una parte rilevante della decisione del giudice amministrativo riguarda l'esame congiunto della documentazione fornita dal privato rispetto a quella dell'amministrazione: il privato si era immedesimato in un generico fruitore del paesaggio, illustrando la percepibilità dell'abuso nelle varie prospettive utilizzabili; l'amministrazione comunale, invece, aveva esibito unicamente fotografie aeree, nelle quali la piscina risultava particolarmente evidente, anche se in un'ottica non usuale proprio perché aerea.
La vicenda esaminata appare rilevante anche per altri casi di realizzazione di piscine, poiché tali strutture, pur non avendo un impatto di tipo volumetrico, sono spesso di forte peso ambientale per la loro collocazione, i riverberi ed i colori fortemente invasivi sull'ambiente. Nel caso specifico, inoltre, si discuteva di un intervento oggetto di sanatoria dell'inizio degli anni 90 e di un provvedimento sfavorevole che derivava da norme sul condono edilizio, di dubbia applicabilità nei casi in cui sussista un vincolo di carattere paesaggistico, diverso dal vincolo di inedificabilità assoluta.
Nell'ottica ambientale, il problema della percepibilità dell'abuso emerge anche in altri casi, ad esempio quando il manufatto è arretrato rispetto al fronte visibile, oppure quando è interrato o inglobato in una struttura preesistente che ne esclude l'invasività. In materia di pregiudizio causato da una piscina alla visuale e al paesaggio, si ricorda la sentenza del Consiglio di Stato 3853/2010, secondo la quale un'opera che non abbia uno sviluppo verticale difficilmente può avere rilevanza sotto il profilo paesaggistico, con la conseguenza che i vicini non possono lamentarsi dell'esecuzione piscina.
Infine, qualora manchino vincoli ambientali, la realizzazione di questi impianti e agevolata secondo l'orientamento del Consiglio di Stato 1951/2014 che esaminando il caso di una piscina prefabbricata di dimensioni relativamente modeste in rapporto a un edificio a destinazione residenziale, sito in zona agricola, ha qualificato l'opera come una pertinenza, realizzabile (articolo 7, secondo comma, lettera a) del decreto legge 23.01.1982, n. 9) con semplice autorizzazione gratuita, assieme ai vani per impianti tecnologici a servizio della piscina stessa
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA - VARIDivieto di transito stradale, prevale l'interesse pubblico.
Via libera al divieto di transito nell'area anche se questo può danneggiare il distributore di benzina. Legittimo, invece, il dispositivo che privilegia i mezzi pubblici per tutelare salute e sicurezza restando, infatti, accessibile l'impianto, uno dei pochi rimasti nell'area urbana.

È quanto emerge dalla sentenza 24.07.2014 n. 3929, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di stato.
Nel caso di specie, il titolare di una pompa di benzina non è riuscito a far togliere il divieto di transito nell'area contigua all'impianto nonostante la tesi secondo la quale il nuovo dispositivo di traffico gli farebbe perdere clienti. Il comune, però, ben può privilegiare i mezzi del trasporto pubblico per motivi di salute e sicurezza laddove il distributore resta comunque accessibile dalle auto. E ciò specialmente se si tratta di amministrare una metropoli come Roma.
Niente da fare, quindi, per il titolare del chiosco di rifornimento carburanti: l'eventuale diminuzione dei sui incassi non ferma il provvedimento del Comune che a due passi dal distributore limita il traffico veicolare. E ciò perché l'amministrazione cittadina disciplina la viabilità ispirandosi al suo statuto, secondo cui la «mobilità generale» si promuove incentivando il trasporto pubblico locale: l'ordinanza riduce a 25 chilometri l'ora il limite di velocità nella zona per evitare che al passaggio dei mezzi possano tremare i palazzi d'epoca del quartiere dei Parioli. Di fronte alle esigenze pubbliche, dunque, deve farsi da parte l'interesse del piccolo imprenditore che intende mantenere costanti i flussi di utenza del servizio di vendita del carburante per autotrasporto.
«Fra l'altro», osservano i giudici di Palazzo Spada, «la pompa di benzina non è caduta in disgrazia con il nuovo dispositivo di traffico, che interessa solo marginalmente il distributore collocato al di fuori dall'area del divieto: il chiosco ha addirittura ampliato e migliorato il servizio». E può giovarsi della pianificazione degli impianti di rifornimento del carburante che punta a portare sempre più impianti in periferia. Insomma: resta confermata la disposizione che si inserisce nel più ampio piano generale del trasporto urbano (Pgtu), approvato dal Consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del 30.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali (deroga che, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi) è rilasciato esclusivamente per edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del Consiglio comunale (cfr. art. 14, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 380; in precedenza, l'art. 41-quater della legge urbanistica).
Se la deliberazione preliminare del Consiglio comunale costituisce un elemento necessario del procedimento amministrativo destinato a sfociare nel rilascio o diniego della concessione in deroga, con la conseguenza che la sua assenza vizia il procedimento stesso, d'altro canto, la giurisprudenza amministrativa, da sempre, reputa che l'atto terminale del procedimento è costituito dal permesso di costruire in deroga, mentre la previa deliberazione del Consiglio comunale (salvo il caso di determinazione negativa) si configura come atto interno del procedimento, non immediatamente lesivo, impugnabile assieme agli atti di uguale natura confluiti nel procedimento stesso, solo congiuntamente all'atto finale, una volta emanato.
Ciò premesso, quello che conta maggiormente sottolineare è che la delibera consiliare è deputata soltanto a dettare gli indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato il rilascio della concessione in deroga; per contro, sono demandate agli uffici competenti, le verifiche e gli accertamenti volti a verificare la fattibilità del progetto che l'istante presenta al momento della richiesta del titolo edilizio.
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In ordine alla presentata richiesta di permesso di costruire "in deroga" risulta necessario precisare quanto segue:
  
dall’esame degli atti di causa emerge l'omessa comunicazione, da parte dell’amministrazione, dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza della ricorrente, ai sensi dell’art. 10-bis L. 241/1990.
Al riguardo e come noto, “la comunicazione dei motivi ostativi al rilascio del provvedimento richiesto, disciplinata dall'art. 10-bis, della legge 07.08.1990 n. 241 ha la funzione, in un rapporto collaborativo con l'Amministrazione, di consentire al soggetto destinatario del provvedimento negativo di presentare delle controdeduzioni avverso i motivi di diniego per evidenziare eventuali profili di illegittimità dell'atto finale in via di formazione (profili che dovranno poi essere valutati dall'amministrazione ed esternati con la motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento), e serve per consentire all'Amministrazione di acquisire ulteriori elementi per l'adozione di una legittima determinazione finale, con gli evidenti effetti deflazionistici sul contenzioso”.
Nella specie l’amministrazione comunale non ha consentito al ricorrente l’instaurazione del contraddittorio sulle ragioni poste a fondamento del diniego e, in particolare, sull’asserita necessità dell’adozione di una variante del P.R.G.;
  
non è ostativa all’accoglimento del ricorso, nella fattispecie, la previsione dell'articolo 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, secondo cui non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Il procedimento in esame, infatti, non può ritenersi di natura strettamente vincolata in quanto involge, e richiede, da parte dell’Amministrazione, un’istruttoria complessa destinata a fare luce su molteplici aspetti che la norma prende in esame per verificare la possibilità di addivenire alla deroga e, in particolare, da un lato la valutazione dell’interesse pubblico dell’opera, dall’altro la considerazione dei limiti in cui la stessa può essere autorizzata, tenuto conto dei vincoli che possono risultare ostativi alla deroga.
Nel caso di specie, trattandosi di struttura deputata alla fornitura di prestazioni sanitarie, la sussistenza del requisito dell’interesse pubblico non è revocabile in dubbio.
  
tuttavia, l’art. 14 del D.P.R. 380/2001 prevede altresì che la deroga alla disciplina urbanistica:
1) è inammissibile se contrastante con la normativa paesaggistica di cui al D.Lg.vo n. 42/2004, con le "norme igieniche, sanitarie e di sicurezza" e con le "altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia";
2) "può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968", cioè tale deroga può riferirsi soltanto ai parametri edilizi della densità edilizia, dell'altezza e della distanza tra i fabbricati, previsti dagli strumenti urbanistici generali ed esecutivi in misura maggiore e/o superiore a quelli stabiliti dai predetti artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968.
Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, disciplinato da tale norma, non può quindi essere rilasciato, se contrastante con le norme e prescrizioni urbanistiche, diverse da quelle in tema di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati ("fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968"), come per esempio quelle in materia di destinazioni di zona e/o di uso.
Con riferimento a tali aspetti nessun contraddittorio è stato sollecitato dall’Amministrazione comunale.
Non può quindi ritenersi che l’interlocuzione con la ricorrente da attivare con il "preavviso" non avrebbe variato il contenuto del provvedimento conclusivo, stante la necessità di chiarire, in ogni caso con la partecipazione dell’interessato, quale fosse l’ostacolo della normativa di piano regolatore generale rilevante nella fattispecie.
  
ritiene, inoltre, il Collegio che, nella fattispecie l'onere della motivazione non sia stato né sufficientemente né correttamente assolto, avendo l’Amministrazione comunale fatto riferimento in modo del tutto generico ed apodittico alla necessità della variante, senza in alcun modo specificare quali aspetti del progetto risultassero in contrasto con quali precisi vincoli posti dalla pianificazione.
Tale indicazione risultava tanto più necessaria se si considera che il permesso in deroga era stato già rilasciato una volta ed era decaduto per la mancata ultimazione delle opere nel termine previsto.
Inoltre, considerato che l'ordinamento consente di derogare alla ordinaria disciplina pianificatoria, privilegiando il concorrente interesse pubblico sotteso alla deroga, la previsione di tale specifico potere esclude, tuttavia, per la contraddizione che non consente la diversa conclusione che si possa attribuire rilevanza preclusiva alla valutazione del solo contrasto con la pianificazione urbanistica comunale.

Il presente ricorso verte essenzialmente sul diniego di rilascio del secondo permesso di costruire in deroga, scaduto il primo, per l’ampliamento della struttura adibita dalla società ricorrente a casa di cura deputata a fornire prestazioni specialistiche in varie branche sanitarie.
Giova premettere che il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali (deroga che, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi) è rilasciato esclusivamente per edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del Consiglio comunale (cfr. art. 14, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 380; in precedenza, l'art. 41-quater della legge urbanistica). Se la deliberazione preliminare del Consiglio comunale costituisce un elemento necessario del procedimento amministrativo destinato a sfociare nel rilascio o diniego della concessione in deroga, con la conseguenza che la sua assenza vizia il procedimento stesso, d'altro canto, la giurisprudenza amministrativa, da sempre (quantomeno a partire da Consiglio Stato, sez. V, 06.06.1984, n. 433), reputa che l'atto terminale del procedimento è costituito dal permesso di costruire in deroga, mentre la previa deliberazione del Consiglio comunale (salvo il caso di determinazione negativa) si configura come atto interno del procedimento, non immediatamente lesivo, impugnabile assieme agli atti di uguale natura confluiti nel procedimento stesso, solo congiuntamente all'atto finale, una volta emanato (così TAR Milano, Sez. II, 09.04.1998, n. 728; più recentemente, TAR Sardegna sez. II, 04.06.2012, n. 556). Ciò premesso, quello che conta maggiormente sottolineare è che la delibera consiliare è deputata soltanto a dettare gli indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato il rilascio della concessione in deroga; per contro, sono demandate agli uffici competenti, le verifiche e gli accertamenti volti a verificare la fattibilità del progetto che l'istante presenta al momento della richiesta del titolo edilizio.
Nel caso di specie il permesso è stato negato avendo il Comune addotto che le opere progettate avrebbero richiesto una variante al Piano regolatore generale, senza alcuna ulteriore specificazione.
Dall’esame degli atti di causa emerge, in primo luogo, la fondatezza del primo motivo del ricorso principale, con il quale è stata contestata la omessa comunicazione, da parte dell’amministrazione, dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza della ricorrente, ai sensi dell’art. 10-bis L. 241/1990.
Nella fattispecie risulta pacifico che alla società ricorrente non è stata inviata la comunicazione prevista dall’art. 10-bis L. 241/1990.
Come noto, “la comunicazione dei motivi ostativi al rilascio del provvedimento richiesto, disciplinata dall'art. 10-bis, della legge 07.08.1990 n. 241 ha la funzione, in un rapporto collaborativo con l'Amministrazione, di consentire al soggetto destinatario del provvedimento negativo di presentare delle controdeduzioni avverso i motivi di diniego per evidenziare eventuali profili di illegittimità dell'atto finale in via di formazione (profili che dovranno poi essere valutati dall'amministrazione ed esternati con la motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento), e serve per consentire all'Amministrazione di acquisire ulteriori elementi per l'adozione di una legittima determinazione finale, con gli evidenti effetti deflazionistici sul contenzioso” (cfr., da ultimo, TAR Napoli, sez. VIII, sent. n. 958/2014).
Nella specie l’amministrazione comunale non ha consentito al ricorrente l’instaurazione del contraddittorio sulle ragioni poste a fondamento del diniego e, in particolare, sull’asserita necessità dell’adozione di una variante del P.R.G. del Comune di Caserta.
Non è ostativa all’accoglimento del ricorso, nella fattispecie, la previsione dell'articolo 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, secondo cui non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; il procedimento in esame, infatti, non può ritenersi di natura strettamente vincolata in quanto involge, e richiede, da parte dell’Amministrazione, un’istruttoria complessa destinata a fare luce su molteplici aspetti che la norma prende in esame per verificare la possibilità di addivenire alla deroga e, in particolare, da un lato la valutazione dell’interesse pubblico dell’opera, dall’altro la considerazione dei limiti in cui la stessa può essere autorizzata, tenuto conto dei vincoli che possono risultare ostativi alla deroga.
Nel caso di specie, trattandosi di struttura deputata alla fornitura di prestazioni sanitarie, la sussistenza del requisito dell’interesse pubblico non è revocabile in dubbio.
Tuttavia, l’art. 14 del D.P.R. 380/2001 prevede altresì che la deroga alla disciplina urbanistica:
1) è inammissibile se contrastante con la normativa paesaggistica di cui al D.Lg.vo n. 42/2004, con le "norme igieniche, sanitarie e di sicurezza" e con le "altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia";
2) "può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968", cioè tale deroga può riferirsi soltanto ai parametri edilizi della densità edilizia, dell'altezza e della distanza tra i fabbricati, previsti dagli strumenti urbanistici generali ed esecutivi in misura maggiore e/o superiore a quelli stabiliti dai predetti artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968.
Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, disciplinato da tale norma, non può quindi essere rilasciato, se contrastante con le norme e prescrizioni urbanistiche, diverse da quelle in tema di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati ("fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968"), come per esempio quelle in materia di destinazioni di zona e/o di uso.
Con riferimento a tali aspetti nessun contraddittorio è stato sollecitato dall’Amministrazione comunale.
Non può quindi ritenersi che l’interlocuzione con la ricorrente da attivare con il "preavviso" non avrebbe variato il contenuto del provvedimento conclusivo, stante la necessità di chiarire, in ogni caso con la partecipazione dell’interessato, quale fosse l’ostacolo della normativa di piano regolatore generale rilevante nella fattispecie.
Ritiene, inoltre, il Collegio che, nella fattispecie, come contestato con il secondo motivo del ricorso principale, l'onere della motivazione non sia stato né sufficientemente né correttamente assolto, avendo l’Amministrazione comunale fatto riferimento in modo del tutto generico ed apodittico alla necessità della variante, senza in alcun modo specificare quali aspetti del progetto risultassero in contrasto con quali precisi vincoli posti dalla pianificazione.
Tale indicazione risultava tanto più necessaria se si considera che il permesso in deroga era stato già rilasciato una volta ed era decaduto per la mancata ultimazione delle opere nel termine previsto.
Inoltre, considerato che l'ordinamento consente di derogare alla ordinaria disciplina pianificatoria, privilegiando il concorrente interesse pubblico sotteso alla deroga (cfr., ibidem: Cons. St., V, 11.01.2006, n. 46), la previsione di tale specifico potere esclude, tuttavia, per la contraddizione che non consente la diversa conclusione che si possa attribuire rilevanza preclusiva alla valutazione del solo contrasto con la pianificazione urbanistica comunale.
La circostanza che le opere oggetto dell’istanza divergessero da quelle oggetto del primo permesso e comportassero la violazione degli standard, peraltro, è stata dedotta dalla difesa del Comune di Caserta nella memoria conclusiva ma non ha formato oggetto di contraddittorio né è stata addotta dal Comune quale motivazione a sostegno del provvedimento di diniego, concretizzando così una inammissibile integrazione postuma della motivazione dello stesso (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.07.2014 n. 4110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONiente concorsi, assunto chi è già idoneo. Tar Basilicata. Bloccato in Regione un bando per addetti a fondi strutturali.
Speranze infrante per 50 laureati che aspiravano a lavorare a tempo determinato presso la Regione Basilicata come esperti di fondi strutturali e programmazione negoziata.
Il TAR Basilicata, con la sentenza 17.07.2014 n. 475, ha annullato l'avviso pubblico indetto nello scorso mese di febbraio.
La Regione si è avvalsa della selezione pubblica per individuare le professionalità idonee da impiegare nell'ambito del Programma operativo Fesr 2007-2013 e alla preparazione del programma operativo regionale per il 2014-2020.
La decisione di annullare la selezione è avvenuta in seguito a un ricorso presentato davanti al Tar da due partecipanti ad un concorso del 2009 per due posti a tempo pieno e indeterminato (categoria di inquadramento D3) come funzionari presso il Consiglio regionale della Basilicata. I ricorrenti risultarono cinque anni fa idonei non vincitori del concorso, in quanto si sono collocatii al quinto e decimo posto della graduatoria di merito. Per quale motivo -hanno evidenziato i legali dei ricorrenti al Tar- non attingere dalla graduatoria dei partecipanti già idonei e non vincitori? L'interrogativo e le argomentazioni poste a fondamento del ricorso hanno convinto i giudici amministrativi.
Il Tar per la Basilicata ha rilevato l'omogeneità tra le figure professionali oggetto del concorso indetto nel 2009 e quello per la selezione dei 50 laureati dell'avviso pubblico impugnato. La Regione si è difesa evidenziando che nella selezione del febbraio scorso, indetta dalla Giunta regionale, veniva chiesta esperienza maturata nell'ambito dei fondi strutturali, dei fondi a finalità strutturale e della programmazione negoziata. Tesi censurata dal Tar, essendo emerso «un difetto di istruttoria della Regione Basilicata, in quanto non risultano svolte verifiche di sorta circa il possesso di detto requisito in capo ai candidati utilmente collocati nella graduatoria in discorso».
Le tesi difensive della Regione sono state respinte anche su un altro versante. Secondo i legali dell'ente regionale, la graduatoria per la quale si è chiesto l'utilizzo appartiene al Consiglio regionale, «organizzazione autonoma e distinta» dalla Giunta dalla quale proviene l'avviso per la selezione pubblica, adesso annullata, per 50 posti. Il Tar ha affermato che l'amministrazione deve essere considerata nella sua unitarietà, «restando irrilevanti articolazioni interne ad essa»
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.08.2014).

EDILIZIA PRIVATAPer il 50% sui lavori il patto di comodato può essere verbale. Recupero edilizio. Controlli sulla detrazione.
Per il bonus ristrutturazioni bisogna che chi ha pagato le spese abiti a buon diritto nella casa ma le Entrate pretendono le prove: anche quando è in comodato ai figli e parenti. La giustizia tributaria, però, interviene per riportare le richieste del fisco su un piano di realtà.
La regola è, in apparenza, semplice: per poter beneficiare della detrazione in dieci anni del 36% (ora 50%) delle spese sostenute per lavori di ricupero edilizio, non è necessario solo che queste vengano pagate con bonifici "parlanti" ma anche che chi paga sia, in qualche modo, legato all'abitazione. La casistica è molto ampia: proprietari, usufruttuari, inquilini e, naturalmente, comodatari.
Quest'ultima categoria è molto ampia: sono milioni le case in comodato in Italia e altrettanti i comodatari che, da utenti effettivi dell'abitazione, desiderano migliorarla beneficiando quanto meno degli stessi diritti di altri che non sono proprietari, come gli inquilini. Ma se è facile esibire un contratto di locazione come prova dell'effettivo possesso dell'abitazione, anche a causa dell'obbligatorietà dello stesso per vantare un titolo valido (recentemente è stata assunta come condizione per ottenere gli allacciamenti alle forniture di gas, luce e telefono), può esserlo meno con un comodato.
La cessione gratuita dell'immobile a scopo abitativo, infatti, è la soluzione preferita da chi intende evadere le imposte sui canoni di locazione e gli inquilini, in assenza di un vero conflitto d'interesse (la detrazione Irpef attualmente prevista non supera i 495,80 euro per le famiglie più povere e a canone concordato) accettano la situazione. Probabilmente è per colpire queste situazioni che l'agenzia delle Entrate pretende l'esibizione del contratto di comodato, in modo da verificarne i contenuti e accertare invece un contratto di locazione.
Ma ci sono casi in cui è evidente che il comodato è "vero", cioè è un prestito della casa tra genitori e figli (o tra altri parenti stretti): eppure anche qui le Entrate, in caso di controllo, chiedono di esibire il contratto. Che spesso non c'è, dato che la forma scritta non è obbligatoria ed esiste il rapporto di fiducia tra proprietari e comodatari. Con la conseguenza dell'annullamento del diritto alla detrazione, più sanzioni e interessi.
Ma le commissioni tributarie locali hanno preso, da qualche tempo, una strada diversa, legando la richiesta delle Entrate a considerazioni non astratte: così la Ctp di Forlì, con sentenza 01.07.2014 n. 387, ha chiarito che, anche secondo la risoluzione delle Entrate 14/E/2001, la registrazione non è obbligatoria in caso di semplice esibizione, quindi il contratto può benissimo essere verbale. Ma dato che, riconoscono i giudici, in questo modo non sarebbe verificabile la situazione, la Cpt suggerisce di avere riguardo ad altri elementi che indichino un comportamento concludente del soggetto che ha chiesto l'agevolazione: la residenza, la pratica edilizia, la relazione parentale con il proprietario.
In presenza di questi fatti, conclude la Ctp, non è sostanziale la mancanza del contratto, ancorché non obbligatorio ai sensi dell'articolo 1803 e seguenti del Codice civile.
Sulla stessa linea sono altre sentenze, una sempre della Ctp di Forlì (la 179 del 01.04.2014) e l'altra della Ctp di Como (la 43/5/13 del 28.05.2013)
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.08.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: Procedimenti lenti, due binari. Danno da ritardo e indennizzo: fattispecie distinte. Il Consiglio di stato chiarisce la natura giuridica e i limiti delle forme risarcitorie.
Ritardata conclusione del procedimento amministrativo: danno da ritardo ed indennizzo a carico della p.a. sono fattispecie distinte.

La IV Sez. del Consiglio di Stato, con la recente sentenza 22.05.2014 n. 2638, ha chiarito la natura giuridica e i limiti operativi delle due forme risarcitorie a carico del pubblico dipendente, conseguenti al mancato rispetto dei termini del procedimento amministrativo.
I due istituti sono collegati all'obbligo della p.a. –ai sensi dell'art. 2 della legge 241/1990– di concludere il procedimento amministrativo con un provvedimento espresso.
Circa i presupposti del danno da ritardo, il giudice ha puntualizzato che la previsione dell'articolo 2-bis della legge 241/1990, disponendo che le pubbliche amministrazioni e i soggetti che si ingeriscono nell'esercizio di attività amministrative (si pensi ai concessionari) «sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento», non può mai prescindere dalla dimostrazione concreta, da parte del danneggiato, della imputabilità del comportamento dannoso alla p.a., nonché del nesso di causalità tra condotta e danno subito.
Nella sentenza si segnala che la fattispecie del danno da ritardo non può essere ricollegata al semplice «superamento del termine di conclusione del procedimento amministrativo (senza che sia intervenuta l'emanazione del provvedimento finale)», ma esige «l'inosservanza del termine normativamente previsto come presupposto causale del danno ingiusto (_) cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa di detto termine».
Questa lettura della norma –nonostante un forte orientamento giurisprudenziale contrario teso a far risaltare una sorta di responsabilità oggettiva della p.a. che scaturirebbe dalla semplice violazione del termine conclusivo del procedimento senza l'adozione di un provvedimento– risulterebbe avvalorata, secondo i giudici di Palazzo Spada, dalla introduzione, complementare ma distinta, di una specifica forma di indennizzo da ritardo stabilita nel comma 1-bis dell'articolo 2-bis della legge 241/1990.
Proprio con questa recente previsione, il legislatore avrebbe ammesso –limitatamente a procedure relative ad attività di impresa ed in relazione alle sole istanze di parte– il riconoscimento di un indennizzo a carico della p.a. collegandolo alla sola dimostrazione, da parte del danneggiato, della scadenza infruttuosa del termine conclusivo del procedimento.
In particolare, dietro semplice richiesta da esercitarsi entro 20 giorni dall'accadimento, a pena di decadenza.
Secondo il giudice, pertanto, si è in presenza di due ipotesi nettamente distinte e ciò emergerebbe anche dalla circostanza che l'indennizzo da ritardo –fattispecie, inoltre, sperimentale della durata di 18 mesi dall'entrata in vigore della legge 98/2013– qualora concorresse con la distinta obbligazione risarcitoria del danno da ritardo dovrà essere ridotto, come dispone la norma, delle somme complessivamente riconosciuta a tale ultimo titolo.
Aspetto che invece accomuna le due previsioni, prosegue il collegio nella sentenza in commento, e che caratterizza in particolare la fattispecie del risarcimento del danno da ritardo, è che entrambe presuppongono che si verta nell'ambito di un procedimento amministrativo, non potendo le norme applicarsi ad ipotesi di attività della pubblica amministrazione diversa da quella procedimentalizzata.
Infatti, nel caso in esame, non è stata riconosciuta alcuna forma di indennizzo perché si era in presenza non di procedimento amministrativo ma di mera attività materiale ed in particolare, di una attività relativa alla mancata esecuzione ed ultimazione delle opere edilizie di attuazione di un piano d'insediamenti produttivi (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Legittimità ordinanza del Sindaco che ha ordinato alla Regione di rimuovere e di smaltire i rifiuti, con la conseguente bonifica, dall’area al di sotto della strada di proprietà regionale
Il Sindaco non ha esercitato il potere contingibile ed urgente previsto dall’art. 54 del T.U. Enti locali n. 267 del 2000, ma quello specificamente disciplinato dall’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006, che disciplina il “divieto di abbandono”.
L’art. 192 qualora vi sia la concreta esposizione al pericolo che su un bene si realizzi una discarica abusiva di rifiuti anche per i fatti illeciti di soggetti ignoti, attribuisce rilevanza esimente alla diligenza del proprietario, che abbia fatto quanto risulti concretamente esigibile, e impone invece all’amministrazione di disporre le misure ivi previste nei confronti del proprietario che, per trascuratezza, superficialità o anche indifferenza o proprie difficoltà economiche, nulla abbia fatto e non abbia adottato alcuna cautela volta ad evitare che vi sia in concreto l’abbandono dei rifiuti.
La condotta illecita del terzo, ovvero la proliferazione delle condotte illecite dei terzi, non è di per sé una causa che rende non imputabile al proprietario l’evento (la trasformazione del suo terreno in discarica abusiva), né frattura il nesso di causalità tra la sua condotta colposa (id est, caratterizzata dalla trascuratezza e dall’incuria), quando costituisce un fatto prevedibile e prevenibile.
L’ordinanza dell’Adunanza Plenaria 21/2013 ha rilevato come l’art. 192 attribuisce espressamente rilievo alla colpa del proprietario per il quale sussiste la colpa anche nel caso di mancanza degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi.

11.4. Risulta inoltre erronea –come puntualmente dedotto dal Comune appellante– anche la statuizione del TAR secondo cui –poiché l’ordinanza del 15 gennaio 2013 avrebbe natura di atto contingibile ed urgente– tale provvedimento sarebbe illegittimo, perché emanato per affrontare una situazione non eccezionale ed imprevedibile, ma risalente nel tempo.
Infatti, il Sindaco non ha esercitato il potere contingibile ed urgente previsto dall’art. 54 del testo unico sugli enti locali n. 267 del 2000, ma quello specificamente disciplinato dall’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006, che disciplina il “divieto di abbandono”.
Risulta pertanto anche non pertinente il richiamo che la sentenza impugnata ha effettuato alla sentenza della Corte Costituzionale n. 115 del 2011 (che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 54, comma 4, del testo unico).
12. Resta da accertare se effettivamente il comportamento della Regione con riguardo all’abbandono di rifiuti nel sito sottostante la strada vada qualificato come colposo (sulla base degli elementi probatori acquisiti) e se sussista un nesso di causalità tra tale comportamento e la verificazione dell’evento (l’esistenza stessa della discarica abusiva)..
13. Al riguardo, va premesso che la natura stessa dei rifiuti in questione, come prima elencati, rende palesemente inattendibile la tesi difensiva della Regione Campania, per la quale gli stessi sarebbero gettati sotto il viadotto in questione da auto di passaggio (con dedotta impossibilità di adozione di idonee misure di prevenzione dell’abbandono dei rifiuti).
Appare infatti inverosimile che lastre di cemento, amianto, parti di autoveicoli, pneumatici ed altro possano essere sversati da ‘auto di passaggio’ non ai bordi della strada in questione, ma addirittura nell’area sottostante il viadotto.
Al di là delle difficoltà materiali cui andrebbe incontro chi intenda gettare materiali dalla strada ‘sotto la strada’ (anche per l’intenso traffico veicolare che, come è fatto notorio, interessa l’asse viario in questione), risulta evidente che i rifiuti vengano abbandonati nell’area sottostante l’Asse Mediano accedendo ad essa dalla stradina cui è fatto cenno negli atti processuali, la cui recinzione la Regione afferma (con la istanza di revoca della ordinanza cautelare disposta dalla Sezione) di aver sbarrato con una asta in ferro, rinforzata a seguito della emanazione della medesima ordinanza.
14. Quanto quindi alla questione se sia configurabile la colpa della Regione Campania con riguardo alla adozione di misure adeguate a prevenire l’abbandono dei rifiuti in questione, ritiene la Sezione che ad essa debba darsi risposta affermativa.
14.1. Poiché non sussistono i vizi di difetto di istruttoria e di motivazione rilevati dal TAR, si deve infatti passare all’esame della questione centrale del presente giudizio, e cioè se siano fondate le censure di primo grado (richiamate dalla Regione Campania e sulle quali vi è stato un articolato contraddittorio tra le parti) sulla violazione dell’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006, per il quale le misure della rimozione dei rifiuti e della riduzione in pristino dell’area possono essere emanate nei confronti del proprietario solo se sussista il suo dolo o la sua colpa.
14.2. Il TAR ha ritenuto che l’ordinanza sindacale del 15.01.2013 non avrebbe indicato alcun elemento da cui possa evincersi la colpa della proprietaria Regione
Nel proprio atto d’appello, il Comune di Frattamaggiore ha rilevato in sostanza che l’art. 192, comma 3, consente l’emanazione delle misure ivi previste nei confronti del proprietario del suolo quando è ravvisabile la sua negligenza, perché non assume iniziative per evitare l’abbandono dei rifiuti ed ha osservato che proprio nell’atto impugnato vi è una specifica motivazione sulla sussistenza della colpa della Regione, perché essa non ha posto in essere “gli accorgimenti e le cautele idonee” alla realizzazione di una efficace custodia e della protezione dell’area e non ha impedito che potessero essere facilmente depositati rifiuti di vario genere.
La Regione Campania, al contrario, nel sostenere che l’abbandono è effettuato da ignoti (che ‘dalle auto di passaggio’ sull’Asse Mediano lancerebbero verso il basso i rifiuti) ha rilevato che non ha i mezzi e le risorse né per impedire per l’abbandono avvenga, né per rimuovere e smaltire i rifiuti, né per bonificare l’area ed ha rimarcato come -a seguito dell’ordinanza cautelare di questa Sezione n. 2831 del 2013- essa abbia ‘rinforzato’ la sbarra che chiude la recinzione della “stradina di accesso all’area in questione” ed ha apposto “cartelli monitori”.
14.3. Osserva il Collegio che –per la definizione della controversia in esame– occorre individuare l’ambito di applicazione dell’art. 192 del testo unico n. 152 del 2006, il quale, per quanto rileva nel presente giudizio, dispone:
- al comma 1, che “L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati”;
- al comma 3, che, “Fatta salva l'applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Dal dato testuale del comma 3 (e dalla parola ‘dispone’), si evince come il potere-dovere di ordinare la rimozione e il ripristino dello stato dei luoghi vada esercitato senza indugio non solo nei confronti di chi abbandona sine titulo i rifiuti (il quale realizza la propria condotta col dolo e con l’animus derelinquendi), ma anche del proprietario o del titolare di altro diritto reale cui la “violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa”.
In un quadro normativo volto a tutelare l’integrità dell’ambiente, il comma 3 non prevede una ipotesi di responsabilità oggettiva o per fatto altrui: se vi è un abbandono di rifiuti avente il carattere della repentinità e della irresistibilità. Se avvisa dell’accaduto la pubblica autorità e pone in essere le misure esigibili per evitare il ripetersi dell’accaduto, il proprietario non può essere considerato responsabile, per il suo solo titolo di proprietario.
Tuttavia, non dissimilmente ad altre disposizioni del settore, il comma 3 ritiene sufficiente la colpa.
Tra le ipotesi tipiche di colpa, rientra la negligenza.
Nel suo significato lessicale (risalente anche al diritto romano, e prima ancora che la nozione fosse riferita alle singole obbligazioni), la negligentia (vale a dire la mancata diligentia) consisteva e consiste nella trascuratezza, nella incuria nella gestione di un proprio bene, e cioè nella assenza della cura, della vigilanza, della custodia e della buona amministrazione del bene.
L’art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisce rilievo proprio alla negligenza del proprietario, che –a parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti (qui non prospettabili)- si disinteressi del proprio bene per una qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure palesemente inadeguate.
L’art. 192 –qualora vi sia la concreta esposizione al pericolo che su un bene si realizzi una discarica abusiva di rifiuti anche per i fatti illeciti di soggetti ignoti– attribuisce rilevanza esimente alla diligenza del proprietario, che abbia fatto quanto risulti concretamente esigibile, e impone invece all’amministrazione di disporre le misure ivi previste nei confronti del proprietario che -per trascuratezza, superficialità o anche indifferenza o proprie difficoltà economiche– nulla abbia fatto e non abbia adottato alcuna cautela volta ad evitare che vi sia in concreto l’abbandono dei rifiuti.
La condotta illecita del terzo –ovvero la proliferazione delle condotte illecite dei terzi– dunque non è di per sé una causa che rende non imputabile al proprietario l’evento (la trasformazione del suo terreno in discarica abusiva), né frattura il nesso di causalità tra la sua condotta colposa (id est, caratterizzata dalla trascuratezza e dalla incuria), quando costituisce un fatto prevedibile e prevenibile.
14.4. Nella specie, ritiene la Sezione che sussista effettivamente la colpa dell’amministrazione regionale e che risultano non condivisibili le argomentazioni che la Regione ha formulato, per escludere la propria responsabilità.
Ovviamente, quando proprietario dell’area non sia una persona fisica, ma sia una persona giuridica pubblica o privata, va esclusa una concezione ‘antropomorfica’ dell’elemento soggettivo, rilevando soprattutto il dato oggettivo della disfunzione della struttura organizzativa e il dato in sé –quando si tratti della gestione di un bene– della obiettiva trascuratezza ed incuria della gestione.
Con riferimento all’area in questione, posta al di sotto dell’Asse Mediano, tranne il ‘rafforzamento’ della sbarra posta sulla stradina di accesso all’area da tempo adibita a discarica, nel corso del giudizio non è risultata alcuna concreta attività precedente, volta ad evitare che il suo terreno diventasse una discarica e che su di esso si continui a sversare rifiuti di ogni genere.
14.5. La Sezione non può che constatare la singolarità della situazione venutasi a verificare.
Proprietaria dell’area –oggetto delle misure previste dall’art. 192- risulta proprio l’Ente che, anche in base alle regole costituzionali, ha plurime competenze per la salvaguardia dell’ambiente.
La linea principale della difesa della Regione è consistita nella deduzione secondo cui essa non ha “i mezzi e le risorse” per impedire che l’abbandono avvenga, o per rimuovere e smaltire i rifiuti, o per bonificare l’area.
Al riguardo, la Sezione rileva che –in ordine all’ambito di applicazione dell’art. 192, comma 3– non importa se il proprietario dell’area sia un soggetto pubblico o un soggetto privato.
Anzi, proprio la qualità di soggetto pubblico implica che l’amministrazione debba dare esempio del rispetto della legalità (CEDU, Sez. I, 19.06.2001, Zwiewrzynsi c. Polonia, § 73).
E ciò a maggior ragione quando si tratti di realtà locali –come quella in questione– caratterizzate dalla perduranza di situazioni emergenziali, dalla assenza diffusa di senso civico delle cittadinanze, da una diffusa omertà e dalla presenza di organizzazioni criminali proprio nel settore del trasporto e dello smaltimento dei rifiuti: le pubbliche autorità possono concretamente esigere ed ottenere il rispetto della legalità, solo quando esse stesse ne danno l’esempio, applicando le leggi quando ne sono destinatarie e imponendo la loro applicazione, quando agiscano nell’esercizio dei loro doveri istituzionali.
14.6. Quando sia proprietaria di un terreno, la Regione –come qualsiasi altro proprietario– deve rispettare le leggi a tutela dell’ambiente (e della salute): in ragione del valore primario di tale tutela, essa non può sottrarsi all’obbligo di utilizzare le proprie risorse secondo un ordine di priorità, realizzando le misure che le sono imposte dalla legge (o da atti conformi alla legge) per la salvaguardia dell’ambiente e della salute.
Non spetta al giudice amministrativo indicare quale ordine di priorità delle spese debba essere programmato dalla Regione, ma non v’è dubbio che –in considerazione delle complessive risorse del bilancio regionale– essa deve subordinare l’erogazione di ‘spese facoltative’ alla previa erogazione delle somme che non solo occorrano per svolgere le proprie funzioni essenziali, ma anche che occorrano per adempiere gli obblighi alla quale è tenuta nella qualità di proprietaria.
Poiché la Regione non ha provato che le proprie risorse sono tutte destinate allo svolgimento di funzioni essenziali, ed essendo plausibile che essa eroghi somme sulla base di proprie scelte discrezionali sull’an, e poiché comunque anche le difficoltà economiche del proprietario non costituiscono una esimente circa l’ambito di applicazione dell’art. 192, resta priva di rilievo la tesi difensiva della Regione sulla assenza di mezzi e risorse per affrontare la situazione.
14.7. Neppure risultano condivisibili le ulteriori argomentazioni difensive della Regione.
Essa ha reiteratamente dedotto che l’abbandono è effettuato da ignoti, che ‘dalle auto di passaggio’ sull’Asse Mediano lancerebbero verso il basso i rifiuti, e che pertanto essi non potrebbero essere ‘controllati’.
Pur se è evidente che i responsabili dei fatti siano rimasti ignoti, tale prospettazione difensiva non risulta però plausibile, perché, come sopra si è osservato, l’ordinanza sindacale ha riguardato i rifiuti che si trovano ‘al di sotto’ dell’Asse Mediano: il lancio di rifiuti verso il basso, ipotizzato dalla difesa regionale, porterebbe al loro accumulo nelle aree adiacenti (che non sono state invece oggetto di misure nei confronti della Regione).
Non è dunque sostenibile che gli autori degli abbandoni siano coloro che transitano sull’Asse Mediano: i rifiuti non possono che essere abbandonati da chi accede all’area sottostante, probabilmente ma non esclusivamente dalla stradina di accesso.
La Regione ha inoltre evidenziato come, a seguito dell’ordinanza cautelare di questa Sezione n. 2831 del 2013, essa abbia ‘rinforzato’ la sbarra che chiude la recinzione della “stradina di accesso all’area in questione” ed abbia apposto “cartelli monitori”.
La Sezione osserva però che tali circostanze non possano avere (per di più ex post) un rilievo esimente ed anzi avvalorano la ragionevolezza della motivazione posta a base dell’atto impugnato in primo grado (la negligenza della Regione è perdurata nel tempo e solo nel corso del secondo grado del giudizio vi è stata una tale iniziativa): il provvedimento del 15.01.2013 è stato emesso in considerazione dello stato di degrado derivante dalla trascuratezza, dall’incuria e dalla mancanza di vigilanza e i fatti sopravvenuti –a parte ogni considerazione sulla loro ininfluenza sulla situazione oggettiva- non incidono sulla valutazione della sua legittimità.
14.8. Dalla documentazione acquisita, risulta dunque che la Regione nulla ha fatto per impedire che il proprio terreno divenisse una discarica abusiva.
Non vi è stata una adeguata recinzione di sufficiente altezza e robustezza, ovvero la interdizione degli accessi all’area con robuste chiusure, la sistemazione di videocamere o apparecchi fotografici funzionanti solo all’atto del rilevamento di presenze sul luogo tramite sensori (le c.d. “foto trappole”), oppure una convenzione con istituti di vigilanza: l’incuria e la trascuratezza hanno agevolato che l’area in questione sia diventata un ricettacolo di ogni genere di rifiuti, con danni all’ambiente e verosimilmente alla salute degli abitanti della zona.
14.9. Le osservazioni che precedono inducono dunque la Sezione a ritenere che sia del tutto legittima l’ordinanza impugnata in primo grado, poiché la Regione Campania non ha svolto in concreto alcuna attività di custodia, vigilanza e protezione dell’area di cui trattasi, rimasta facilmente accessibile “senza alcun mezzo di inibizione” del deposito di rifiuti da parte di ignoti.
14. 10. La difesa regionale –nei propri scritti difensivi– ha invocato i principi formulati dalla ordinanza della Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 21 del 2013, la quale ha affrontato le questioni interpretative, riguardanti l’art. 242 del decreto legislativo n. 152 del 2006, dandone una interpretazione, per la cui ‘compatibilità comunitaria’ ha trasmesso gli atti all’esame della Corte di Giustizia.
Osserva al riguardo la Sezione che tale richiamo –con le questioni affrontate con la citata ordinanza– non rilevi per definire il presente giudizio, poiché:
- l’Adunanza Plenaria si è occupata dell’ambito di applicazione delle disposizioni del titolo V della Parte IV del decreto legislativo n. 152 del 2006, sulle misure conseguenti alla contaminazione (in un quadro normativo per il quale è previsto l’onere reale disciplinato dall’art. 253 del medesimo decreto legislativo), mentre l’ordinanza impugnata in primo grado è stata emanata ai sensi dell’art. 192, il quale prende in specifica considerazione la colpa del proprietario;
- in quella sede, le società proprietarie delle aree -destinatarie dell’ordine di porre in essere le misure di messa in sicurezza e di presentare il progetto di bonifica– risultavano acquirenti delle relative aree in un periodo successivo allo svolgimento dell’attività inquinante svolta dalla società dante causa, mentre l’ordinanza impugnata in primo grado è stata emanata nei confronti del soggetto che è risultato il perdurante proprietario dell’area sostanzialmente trasformata in discarica incontrollata di rifiuti;
- la stessa ordinanza della Adunanza Plenaria, al § 23, ha rilevato come l’art. 192 attribuisce espressamente rilievo alla colpa del proprietario ed ha richiamato l’orientamento delle Sezioni Unite (25 febbraio 2009, n. 4472) per il quale sussiste la colpa anche nel caso di mancanza “degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi”;
- nel presente giudizio, è indubitabile la sussistenza della colpa del soggetto destinatario dell’ordinanza ex art. 192, in ragione della trascuratezza, dell’incuria e dell’assenza di vigilanza e di custodia, che hanno caratterizzato la vicenda in esame (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.06.2014 n. 2977 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Destinazione ed edilizia scolastica configura vincolo conformativo.
Il carattere non edificabile della destinazione ad edilizia scolastica, ha l'effetto di configurare un tipico vincolo conformativo, come destinazione ad un servizio che trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti.
La destinazione a zone per l’istruzione dell’obbligo, non comporta, quindi, l’imposizione di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell’edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione dell’interesse pubblico generale.

L’appello è infondato.
Come, infatti, correttamente evidenziato dal Comune appellato, già dal 1973 l’area era stata compresa in una più vasta “zona per attrezzature collettive”, nel 1984 a “zona F1 – per attrezzature pubbliche e di interesse generale” e, per quanto riguarda il caso di specie, mediante PRG approvato con deliberazione consiliare n. 29 del 27.04.1999, l’area di proprietà della Lombardini & Partners era stata inserita tra le zone pubbliche di interesse generale e, in particolare, tra le zone per l’istruzione dell’obbligo, denominate AS, destinate a asili nido, scuole materne e scuole dell’obbligo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 39 delle NTA, “le aree di seguito specificate sono di proprietà pubblica o preordinate alla acquisizione mediante acquisizione o esproprio da parte del Comune o degli Enti istituzionalmente competenti, è consentita anche l’attuazione da parte dei proprietari delle aree … La realizzazione e la gestione di tali attrezzature spettano al Comune, ovvero agli Enti per le opere di loro competenza, o a soggetti privati proprietari dell’area in diritto di superficie o con trasferimento in proprietà con apposita convenzione solo ove l’area non sia pervenuta al Comune a mezzo di esproprio”.
Da ciò deriva la palese configurazione di un vincolo conformativo sia in ragione della zonizzazione disposta, sia alla luce dell’art. 39 NTA.
Inoltre, come pure riferito dal Comune di Lomazzo, in data 20.03.2013 sul BUR Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 42, è stato pubblicato l’avviso di approvazione definitiva e deposito degli atti costituenti il PGT, con deliberazione C.C. n. 49 del 18.12.2012, in cui l’area oggetto del contendere è individuata quale area di trasformazione denominata TRP5, con l’obiettivo di completare le strutture scolastiche previste.
Il Collegio, pertanto, ritiene -in linea anche con l’orientamento giurisprudenziale maggioritario- che tale destinazione abbia natura conformativa e non espropriativa.
Risulta, del resto, di questo stesso avviso anche la Corte di Cassazione, che nell’affermare il carattere non edificabile della destinazione ad edilizia scolastica, ha sostenuto che essa ha “l'effetto di configurare un tipico vincolo conformativo, come destinazione ad un servizio che trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti” (cfr., da ultimo, Cass.civ., sez. I, 26.05.2010, n. 12862).
La destinazione a zone per l’istruzione dell’obbligo, impressa all’area della ricorrente, non comporta, quindi, l’imposizione di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell’edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione dell’interesse pubblico generale (cfr. Cons. St., IV, 19.02.2007, n. 870) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.06.2014 n. 2855 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Temporaneità manufatto.
Non si può ritenere che la sola stagionalità dell'installazione del voluminoso manufatto per cui è causa conferisse al manufatto nel suo complesso il carattere di ‘temporaneità’, atteso:
- il carattere ontologicamente ‘non temporaneo’ di una struttura destinata all'esercizio di un'attività commerciale e di somministrazione;
- la permanente idoneità ad alterare lo stato dei luoghi che il complessivo manufatto (di notevoli dimensioni) era idoneo a determinare, anche a prescindere dalla rimozione per alcuni mesi l’anno.

3. L’appello è fondato.
3.1. In particolare il Collegio ritiene dirimente ai fini del decidere la fondatezza dell’argomento con cui si è osservato che l’intervento in questione, per le sue caratteristiche oggettive, fosse da qualificare come intervento di ‘nuova costruzione’, con quanto ne consegue ai fini del rilascio del necessario titolo abilitativo edilizio (d.P.R. 06.06.2001, n. 380) in relazione ai vincoli di in edificabilità esistenti sull’area.
Al riguardo il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento –da quale non si rinvengono elementi per discostarsi– secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la ‘precarietà’ dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (in tal senso: Cons. Stato, IV, 22.12.2007, n. 6615).
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione il manufatto per cui è causa fosse riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell'articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001 (a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”).
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento secondo cui non possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons. Stato, VI, 12.02.2011, n. 986; id., V, 12.12.2009, n. 7789; id., V, 24.02.2003, n. 986; id., V, 24.02.1996, n. 226).
3.2. Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell'installazione del voluminoso manufatto per cui è causa (destinato ad occupare, nella tesi della società appellata, 56,13 mq.) conferisse al manufatto nel suo complesso il carattere di ‘temporaneità’, atteso:
- il carattere ontologicamente ‘non temporaneo’ di una struttura destinata all'esercizio di un'attività commerciale e di somministrazione (in tal senso: Cons. Stato, IV, 23.07.2009, n. 4673).
- la permanente idoneità ad alterare lo stato dei luoghi che il complessivo manufatto (di notevoli dimensioni) era idoneo a determinare, anche a prescindere dalla rimozione per alcuni mesi l’anno.
3.3. Né a conclusioni diverse rispetto a quelle appena rassegnate può giungersi avuto riguardo alla previsione di cui all’articolo 56 del Regolamento edilizio comunale (il quale, nella tesi della società riconoscerebbe sempre un carattere ontologicamente precario ai chioschi.
Al contrario, la necessaria interpretazione secundum legem della richiamata disposizione (volta, cioè, a preservarla da un’altrimenti inevitabile taccia di illegittimità per contrasto con il pertinente paradigma normativo primario) porta a ritenere che il carattere di ‘precarietà’ ivi richiamato possa comunque essere affermato solo all’esito di un’operazione di valutazione svolta ‘caso per caso’ in ordine alle caratteristiche oggettive e funzionali del manufatto di cui si discute (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.06.2014 n. 2842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Imprescindibili per l'avvio del procedimento attraverso la convocazione della conferenza di cui al d.P.R. 20.10.1998, n. 447, art. 5, sono da un lato la conformità del progetto alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e della sicurezza del lavoro; dall'altro l'impossibilità di reperire nello strumento esistente ulteriori e diverse aree idonee all'iniziativa produttiva.
Ed ancora, a conclusioni diverse rispetto a quelle sin qui delineate non può giungersi in relazione al fatto che la società appellata avesse proposto istanza di variazione dello strumento urbanistico ai sensi dell’articolo 5 del d.P.R. 20.10.1998, n. 447 (il cui comma 1, come è noto, stabilisce che “qualora il progetto presentato sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza. Tuttavia, allorché il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro ma lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente, convocare una conferenza di servizi, disciplinata dall’articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241 (…), per le conseguenti decisioni, dandone contestualmente pubblico avviso. Alla conferenza può intervenire qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto industriale”).
Al riguardo si osserva in primo luogo che la sola presentazione di un’istanza finalizzata dalla variazione dello strumento urbanistico ai sensi del richiamato articolo 5, lungi dal fornire argomenti in favore delle tesi della società appellata, conferma –piuttosto– il contrasto fra il progetto presentato e la pertinente disciplina di piano (di cui, per facta concludentia, si mostrava consapevole la stessa società appellata nel momento stesso in cui prendeva l’iniziativa finalizzata a superare il carattere ostativo di tale contrarietà).
In secondo luogo si osserva che la stessa appellata non ha fornito elementi persuasivi atti a ritenere l’effettiva percorribilità dell’iter delineato dal richiamato articolo 5 (e, in particolare, l’insussistenza nell’ambito del territorio comunale di diverse aree idonee ad ospitare l’iniziativa proposta in assenza della richiesta modifica di Piano).
Al riguardo si ritiene di richiamare il condiviso orientamento secondo cui condizioni imprescindibili per l'avvio del procedimento attraverso la convocazione della conferenza di cui al d.P.R. 20.10.1998, n. 447, art. 5, sono da un lato la conformità del progetto alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e della sicurezza del lavoro; dall'altro l'impossibilità di reperire nello strumento esistente ulteriori e diverse aree idonee all'iniziativa produttiva (in tal senso –ex plurimis-: Cons. Stato, IV, 03.03.2006, n. 1038) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.06.2014 n. 2842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Indice rivelatore dell'intenzione di rendere abitabile in via permanente un locale sottotetto.
Sulla base della giurisprudenza, può ritenersi che possa costituire indice rivelatore dell'intenzione di rendere abitabile in via permanente un locale sottotetto il fatto che questo sia suddiviso in vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna o che il piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, costituisca in realtà una mansarda in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda.
Né a conclusione contraria può indurre la circostanza che, alcune delle finestre poste in detto locale siano state tamponate in modo da contenere il rapporto di aero-illuminazione al di sotto dei parametri previsti dal regolamento edilizio per i locali abitabili; e ciò in quanto la tamponatura delle finestre è un’operazione in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa; e quindi non può considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre.

Nella specie, la rilevanza dell’abitabilità potenziale in via permanente del sottotetto riguarda la possibilità di computarlo nel misurare il rispetto del limite di altezza previsto dalla normativa urbanistica per un intervento di ricostruzione di fabbricato residenziale successivo alla demolizione.
La giurisprudenza in materia si è affidata al richiamo di indici rivelatori e alla rilevanza di tutte le circostanze fattuali.
L’appellante invoca il regolamento edilizio laddove prevede che non debbano essere computati nella superficie gli spazi che pur comportando l’insediamento di abitanti e in cui è ammessa la realizzazione di servizi igienici, presentino determinate caratteristiche, per esempio di altezza media non superiore a metri 2 e 40.
La Sezione è consapevole della circostanza che la normativa urbanistica vigente nel Comune di Milano, nel prevedere una tripartizione tipologica tra abitazione, sottotetti abitabili in via non permanente, e volumi tecnici non abitabili introduce elementi valutativi in ordine alla seconda tipologia di natura finalistica e quindi non certi. E tale previsione andrebbe opportunamente rivalutata dal Comune di Milano quanto meno per meglio chiarire gli elementi fisici e strutturali che possano determinare in maniera certa tale distinzione.
Nella situazione normativa vigente, peraltro, il Giudice, allo scopo di verificare se il sottotetto abbia caratteristiche inidonee a essere abitato in via permanente e ne possa essere quindi esclusa la rilevanza ai fini dell’altezza massima dell’edificio, è tenuto a condurre un’analisi rapportata alla situazione di fatto, in modo da evitare che la costruzione, per caratteristiche oggettive, si risolva in una sostanziale elusione della sopra richiamata disciplina urbanistica attualmente vigente nel Comune di Milano.
A tal fine, può essere utilmente richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato che, anche quando formatasi con riferimento alla diversa fattispecie della distinzione tra locali abitabili e volumi tecnici (diversa da quella ricorrente nel caso in esame), consente di trarre indici rivelatori (anche) dell’abitabilità in via permanente dei locali sottotetti.
In altri termini, al fine di stabilire se un locale abbia o meno i requisiti dell’abitabilità, è necessario effettuare una valutazione complessiva delle sue caratteristiche atta a verificare se il locale in questione possa o meno essere considerato ambiente idoneo allo svolgimento della vita domestica; quando per le sue caratteristiche complessive il locale si appalesa idoneo ad assolvere a tale funzione, si deve giungere alla conclusione che esso sostenga carico urbanistico.
Sulla base della giurisprudenza, può ritenersi che possa costituire indice rivelatore dell'intenzione di rendere abitabile in via permanente un locale sottotetto il fatto che questo sia suddiviso in vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna o che il piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, costituisca in realtà una mansarda in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (cfr. esemplificativamente, Consiglio di Stato, sez. IV, 07.02.2011 n. 812).
Né a conclusione contraria può indurre la circostanza che (ricorrente nella specie), alcune delle finestre poste in detto locale siano state tamponate in modo da contenere il rapporto di aero-illuminazione al di sotto dei parametri previsti dal regolamento edilizio per i locali abitabili; e ciò in quanto la tamponatura delle finestre è un’operazione in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa; e quindi non può considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre (così, Cons. St., sez. IV, 07.02.2011 n. 812).
In altre parole, quando una costruzione abbia già raggiunto o sia poco al di sotto dell’altezza massima consentita a un edificio, non è consentita una qualificazione negativa (nel senso che non si computa a fini di altezza) del sottotetto, che, per le caratteristiche di sostanziale identità con quelle delle abitazioni sottostanti, si traduca in un sostanziale innalzamento dell’edificio assentito in elusione della stessa normativa invocata sull’utilizzazione dei sottotetti per finalità abitative non stabili.
Infatti la ratio della norma che vieta il superamento dei limiti di altezza previsti dagli strumenti urbanistici è senza dubbio quella di evitare che attraverso il recupero abitativo dei sottotetti esistenti vengano nei fatti eluse o violate le prescrizioni urbanistiche vincolanti in tema di altezza massima di edifici.
In presenza di univoci elementi che denotano l’intenzione di rendere abitabile il locale, perde di rilevanza il fatto che siano stati adottati accorgimenti surrettizi (quali la tamponatura di alcune finestre) finalizzati a rendere i rapporti di aero-illuminazione inferiori rispetto ai parametri previsti dalla normativa edilizia vigente. Allo stesso modo, con riferimento alle altezze, quando un ambiente possiede nel suo complesso caratteristiche oggettive, tali da renderlo idoneo ad ospitare stabilmente la vita domestica, al fine di escludere la volontà del privato di destinarlo a funzione abitativa, non si può addurre la circostanza che la sua altezza sia di poco inferiore rispetto a quella prescritta dal regolamento edilizio per i vani abitabili. Anche in questo caso, come nel precedente, si deve ritenere che tale caratteristica, lungi dal dimostrare un differente intento del costruttore, costituisca elemento ulteriormente ostativo all’assentibilità dell’intervento.
Nella specie, la considerazione del sottotetto quale elemento abitabile in via permanente rileva ai fini del complessivo computo delle altezze e del rispetto di quanto prevede la normativa urbanistica (limite di metri 13 e 50 ai fini della ricostruzione del fabbricato).
Nella fattispecie esaminata non è contestato, ed anzi è ammesso, che il locale sottotetto di cui alla DIA oggetto del provvedimento impugnato, oltre ad essere suddiviso in diversi vani collegati ai locali sottostanti da scala interna, possieda altre numerose caratteristiche che dal punto di vista fattuale ne testimoniano la funzione abitativa.
Si rileva come esso: a) sia dotato di impianto di riscaldamento ed impianto elettrico; b) sia dotato di servizio igienico avente dimensioni ben maggiori rispetto a quelle minime previste dal regolamento edilizio; c) sia destinato ad essere intonacato e rifinito a “civile abitazione”.
L’intervento edilizio di nuova edificazione raggiunge l’altezza di metri 13 e 30 già in corrispondenza del sottostante piano abitabile; lo spazio sottotetto, al di sopra, presenta caratteristiche di abitabilità e anche un ingombro fisico esterno identico a quello del piano sottostante, di cui costituisce replica sia in pianta che in totalità di facciata; il piano sottotetto, quindi, si trova ad occupare uno spazio aereo per la quasi totalità al di sopra del limite imposto dagli strumenti urbanistici comunali; come riferisce il Comune, il regolamento edilizio comunale prevede (art. 10 comma 2.7) che sono escluse dal computo (soltanto) le superfici dei piani sottotetto che non hanno i requisiti di abitabilità, pari o inferiori alla superficie dell’ultimo piano.
Come emerge dalle planimetrie allegate, richiamate dalla difesa comunale, sussiste una sostanziale coincidenza di dimensione delle rispettive unità immobiliari poste al piano sottotetto e al piano sottostante; le unità immobiliari sono dotate di un identico numero di bagni regolamentari e dello stesso numero di finestre, con l’unica eccezione di due aperture lungo la parete perimetrale posta a nord.
Tali elementi, sulla base dei principi giurisprudenziali richiamati, sono idonei a suffragare la convinzione che la reale intenzione del ricorrente sia quella di destinare tali locali, alla funzione abitativa già virtualmente impressa.
La circostanza addotta dall’appello che il regolamento edilizio ammetta che anche i locali privi dei requisiti dell’abitabilità possano presentare le caratteristiche suindicate (e quindi possano essere dotati di impianto di riscaldamento ed elettrico, di bagno, e possano essere intonacati) non può portare, nel contesto dianzi delineato, a diversa conclusione.
Né, per la stessa ragione, vale il richiamo alla legge regionale (n. 12 del 2005) -che consente e anzi favorisce il recupero abitativo dei sottotetti, contemplando quindi una categoria di sottotetti non ancora divenuti abitabili ma che sono appunto destinati a diventarlo- a sostenere che in teoria sono ammissibili sottotetti non abitabili, in quanto, come visto, la abitabilità deve essere valutata in concreto.
Infatti, essendo complessiva la valutazione che deve essere effettuata dal Comune, non è escluso che locali oggettivamente inidonei ad assolvere alla funzione abitativa (ad esempio perché particolarmente bassi o poco illuminati) possiedano una o più delle suindicate caratteristiche, ma se la combinazione di queste comprova inequivocabilmente la volontà di imprimere ai locali tale funzione, non è possibile invocare le suddette prescrizioni del regolamento edilizio per giungere a conclusioni contrarie.
In definitiva, deve ritenersi che la valutazione compiuta dal Comune di Milano, secondo il quale il locale sottotetto oggetto del provvedimento impugnato possiede i requisiti dell’abitabilità in via stabile, sia nella sostanza condivisibile e che correttamente tale locale sia stato computato ai fini del calcolo dell’altezza complessiva dell’edificio (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato Sez. VI, sentenza 30.05.2014 n. 2825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La tutela del paesaggio non consente l’autorizzazione paesaggistica a sanatoria.
L’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l’aumento di superfici utili o di volumi”.
La premessa, da cui occorre prendere le mosse, è che il paesaggio, come bene oggetto di tutela, non è suscettibile né di reintegrazioni, né di incrementi: ciò giustifica una disciplina particolarmente rigorosa, che è ragionevole ritenere, è stata adottata anche per arginare esperienze pregresse, non pienamente rispettose del disposto dell’art. 9 della Costituzione.

7. Il ricorso in appello è infondato.
8. La premessa, da cui occorre prendere le mosse, è che il paesaggio, come bene oggetto di tutela, non è suscettibile né di reintegrazioni, né di incrementi: ciò giustifica una disciplina particolarmente rigorosa, che (è ragionevole ritenere) è stata adottata anche per arginare esperienze pregresse, non pienamente rispettose del disposto dell’art. 9 della Costituzione.
L’argomento di maggior impatto utilizzato dal ricorrente è l’affermata irragionevolezza della previsione legislativa che impone la demolizione di un’opera che potrà essere ricostruita previo rilascio dell’autorizzazione.
Tale impostazione muove, verosimilmente, da numerosi interventi legislativi, che, in vari settori, hanno consentito la sanatoria di situazioni originariamente contra legem. Poiché i predetti provvedimenti legislativi esauriscono la propria efficacia nel limiti di tempo e di oggetto in essi contenuti, essi non possono costituire il fondamento di una situazione soggettiva di generalizzata aspettativa di sanatoria.
La norma della cui costituzionalità si dubita impedisce la sanatoria allorquando vi sia stato un incremento di volumi: la specificità della previsione esclude qualsiasi violazione dell’art. 3 della Costituzione, applicabile solo quando si attribuisca trattamento differenziato a situazioni analoghe.
Né appaiono violate le altre norme della Costituzione in quanto, così come evidenziato nella sentenza impugnata, la finalità della norma è di costituire un più solido deterrente contro gli abusi (al fine di prevenirli) dei privati (verificatisi nel recente passato in dimensioni notevoli sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo), a tutela di beni costituzionalmente protetti.
9. Il Collegio non può quindi che confermare il proprio orientamento di recente espresso (sez. VI, 20.06.2013, n. 3373) secondo il quale: “L’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l’aumento di superfici utili o di volumi” (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.05.2014 n. 2806 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego installazione impianto pubblicitario per tutela del verde urbano.
L'impianto si collocherebbe in un tratto di strada pericoloso ad alta intensità veicolare, che rende impossibile l'inserimento di qualunque manufatto, nonché in uno spazio caratterizzato dalla presenza di essenze arboree, alterando negativamente la percezione visiva del verde esistente. L'impatto negativo dell'impianto pubblicitario su tale contesto, con pregiudizio dell'estetica, del decoro urbano e dell'ambiente, la cui tutela da parte dell'Amministrazione comunale prescinde dall'esistenza di particolari vincoli.
2. La doglianza è infondata.
3. Ed invero, sia la Conferenza dei Servizi che la Commissione Edilizia all'unanimità hanno espresso parere contrario all’accoglimento dell’istanza "in quanto l'impianto pubblicitario si collocherebbe su un tratto di strada pericoloso, ad alta intensità veicolare tale da rendere impossibile l'inserimento di qualsiasi manufatto che arrechi disturbo alla circolazione di tale tratto di strada. Inoltre l'impianto andrebbe a collocarsi in uno spazio verde caratterizzato dalla presenza di essenze arboree alterandone negativamente la percezione visiva del verde esistente".
Pertanto il provvedimento dirigenziale impugnato, contrariamente a quanto dedotto dall’appellante, risulta adeguatamente motivato sulla scorta dell’espresso richiamo degli anzidetti pareri, che sono di per sé sufficienti a dare ragione della determinazione assunta.
Né l’appellante ha addotto elementi sostanziali idonei ad evidenziare l’inadeguatezza e, tanto meno, l’erroneità delle argomentazioni sviluppate dagli organi tecnici del Comune, limitandosi a dedurre la presenza lungo la strada di altri impianti pubblicitari, l'esistenza del limite di velocità di 50 Km/h e la presenza di una rotatoria ubicata100 metri prima dell'impianto.
Deduzioni all’evidenza insufficienti, nella loro genericità, a superare le ragioni ostative al rilascio del titolo autorizzatorio evidenziate dall’Amministrazione.
Per un verso, infatti, le caratteristiche strutturali dell'arteria costituita da due carreggiate indipendenti, ciascuna a due corsie, comprovano che si tratta di una strada di scorrimento ad alta intensità di traffico veicolare che ben può essere percorsa a velocità sostenuta, a prescindere dalla sussistenza di eventuali limiti di velocità.
Per altro verso, proprio la prossimità alla rotatoria di immissione nelle circonvallazioni, pone l'impianto pubblicitario in un punto critico dove la sicurezza della circolazione richiede che non vi siano elementi di possibile distrazione degli automobilisti.
Quanto, poi, alla presenza di un altro cartello pubblicitario, questo è risultato essere collocato in uno spazio con diverse caratteristiche e ad una maggiore distanza dalla carreggiata.
Per ciò che attiene, infine, alla valutazione in ordine alla tutela del verde urbano, la documentazione fotografica versata in atti dà conto dell'ampia superficie di verde e delle alberature esistenti nell'area interessata ed evidenzia l'impatto negativo dell'impianto pubblicitario su tale contesto, con pregiudizio dell'estetica, del decoro urbano e dell'ambiente, la cui tutela da parte dell'Amministrazione comunale prescinde dall'esistenza di particolari vincoli (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La giurisprudenza ha già avuto modo di evidenziare che nelle gare pubbliche le referenze bancarie chieste dalla stazione appaltante alle imprese partecipanti, con i contenuti fissati dalla lex specialis, hanno una sicura efficacia probatoria dei requisiti economico-finanziari necessari per l’aggiudicazione di contratti pubblici: e ciò in base al fatto notorio che il sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto tali profili, per cui è ragionevole che un’Amministrazione aggiudicatrice, nell’esercizio della propria discrezionalità in sede di fissazione della legge di gara, ne richieda la produzione in tale sede.
Le referenze bancarie assolvono pertanto alla funzione di determinare in concreto la capacità economica e finanziaria delle imprese concorrenti, essendo infatti del tutto assodato -come detto innanzi- il non limitato potere discrezionale delle pubbliche amministrazioni nel fissare i requisiti di partecipazione a una gara per l’aggiudicazione di lavori, servizi o forniture.
L’espressione “idonee referenze bancarie”, ove riportata nei bandi di gara pubblica senza ulteriori precisazioni, deve essere interpretata dagli istituti bancari nel senso, anche lessicalmente corretto, che essi devono riferire sulla qualità dei rapporti in atto con le società, per le quali le referenze sono richieste, quali la correttezza e la puntualità di queste nell’adempimento degli impegni assunti con l’istituto, l’assenza di situazioni passive con lo stesso istituto o con altri soggetti, sempre che tali situazioni siano desumibili dai movimenti bancari o da altre informazioni in loro possesso.
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La stazione appaltante legittimamente ha escluso, a comprova del requisito dell’idoneità economico-finanziaria dei concorrenti, le referenze bancarie recanti attestazioni di affidabilità del tutto generiche, in quanto prive di concreti riferimenti all’appalto reso oggetto di gara.
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Nelle gare pubbliche, l’omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un’irregolarità sanabile, in applicazione del cd. “dovere di soccorso” di cui all’art. 46 del D.L.vo 163 del 2006 e che, non ne è permessa l’integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali: ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara, potendosi al più ammettersi in tale contesto l’integrazione solo quando i vizi sono chiaramente imputabili ad errore materiale, e –per l’appunto- sempre che riguardino dichiarazioni o documenti non richiesti a pena di esclusione, non essendo, in quest’ultima ipotesi, consentita la sanatoria o l’integrazione postuma, che si tradurrebbe in una violazione dei termini massimi di presentazione dell’offerta e, in definitiva, in una violazione del principio di parità delle parti, che deve presiedere ogni procedura ad evidenza pubblica.

L’art. 41, comma 1, del D.L.vo 163 del 2006, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera l), numero 1), del D.L.vo 11.09.2008 n. 152 (vigente, quindi, all’epoca dei fatti per cui è causa) dispone che “negli appalti di forniture o servizi, la dimostrazione della capacità finanziaria ed economica delle imprese concorrenti può essere fornita mediante uno o più dei seguenti documenti: a) dichiarazione di almeno due istituti bancari o intermediari autorizzati ai sensi del decreto legislativo 01.09.1993, n. 385; b) bilanci o estratti dei bilanci dell’impresa, ovvero dichiarazione sottoscritta in conformità alle disposizioni del D.P.R. 28.12.2000, n. 445; c) dichiarazione, sottoscritta in conformità alle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, concernente il fatturato globale d'impresa e l’importo relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della gara, realizzati negli ultimi tre esercizi”.
Il comma 2 dello stesso articolo disponeva, a sua volta, nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa –e, quindi, prima della novella introdotta per effetto modificato dall’art. 1, comma 2-bis, lett. b), del D.L. 06.07.2012 n. 95 convertito con modificazioni in L. 07.08.2012 n. 135– che “le amministrazioni precisano nel bando di gara i requisiti che devono essere posseduti dal concorrente, nonché gli altri eventuali che ritengono di richiedere. I documenti di cui al comma 1, lettera b), non possono essere richiesti a prestatori di servizi o di forniture stabiliti in Stati membri che non prevedono la pubblicazione del bilancio”.
Ai sensi del comma 3, “se il concorrente non è in grado, per giustificati motivi, ivi compreso quello concernente la costituzione o l'inizio dell’attività da meno di tre anni, di presentare le referenze richieste, può provare la propria capacità economica e finanziaria mediante qualsiasi altro documento considerato idoneo dalla stazione appaltante”.
Il comma 4, da ultimo, dispone -nel testo sostituito per effetto dell’art. 2, comma 1, lettera l), numero 2), del D.L.vo 152 del 2008- che “la dichiarazione di cui al comma 1, lettera a), è presentata già in sede di offerta. Il concorrente aggiudicatario è tenuto ad esibire la documentazione probatoria a conferma delle dichiarazioni di cui al comma 1, lettere b) e c)”.
Da quanto sopra consta, quindi, che la stazione appaltante è titolare di un’ampia discrezionalità in ordine alla scelta della documentazione che può essere chiesta al fine della comprova della capacità economica e finanziaria dei concorrenti, potendo in tal senso contemplare nel bando l’acquisizione di “uno o più” dei “documenti” anzidetti, senza dunque che la produzione da parte del concorrente dei bilanci e del fatturato globale degli anni di riferimento possa surrogare la richiesta delle referenze bancarie contemplata dalla lex specialis.
Men che meno, poi, la produzione di tali referenze può essere surrogata dal ben diverso istituto della cauzione provvisoria di cui all’art. 75 del D.L.vo 163 del 2006, il quale contempla e disciplina la prestazione di una garanzia chiesta, per ragioni contingenti, al concorrente, ma non concorre ad individuare gli elementi -per così dire- “storici” della sua capacità economico-finanziaria.
La giurisprudenza ha già avuto modo di evidenziare che nelle gare pubbliche le referenze bancarie chieste dalla stazione appaltante alle imprese partecipanti, con i contenuti fissati dalla lex specialis, hanno una sicura efficacia probatoria dei requisiti economico-finanziari necessari per l’aggiudicazione di contratti pubblici: e ciò in base al fatto notorio che il sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto tali profili, per cui è ragionevole che un’Amministrazione aggiudicatrice, nell’esercizio della propria discrezionalità in sede di fissazione della legge di gara, ne richieda la produzione in tale sede (così Cons. Stato, Sez. V, 22.05.2012 n. 2959).
Le referenze bancarie assolvono pertanto alla funzione di determinare in concreto la capacità economica e finanziaria delle imprese concorrenti, essendo infatti del tutto assodato -come detto innanzi- il non limitato potere discrezionale delle pubbliche amministrazioni nel fissare i requisiti di partecipazione a una gara per l’aggiudicazione di lavori, servizi o forniture (Cons. Stato, Sez. VI, 22.05.2006 n. 2959).
L’espressione “idonee referenze bancarie”, ove riportata nei bandi di gara pubblica senza ulteriori precisazioni, deve essere interpretata dagli istituti bancari nel senso, anche lessicalmente corretto, che essi devono riferire sulla qualità dei rapporti in atto con le società, per le quali le referenze sono richieste, quali la correttezza e la puntualità di queste nell’adempimento degli impegni assunti con l’istituto, l’assenza di situazioni passive con lo stesso istituto o con altri soggetti, sempre che tali situazioni siano desumibili dai movimenti bancari o da altre informazioni in loro possesso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23.06.2008 n. 3108).
Nel caso di specie, peraltro, la lex specialis di gara disponeva, in via del tutto inequivoca, che le referenze delle banche dovevano attestare “non solo la correttezza dell’impresa ma anche la sua solvibilità e sostenibilità degli impegni in rapporto al valore dell’appalto, al momento della presentazione dell’offerta”.
In tal modo la stazione appaltante ha pertanto inteso legittimamente escludere, a comprova del requisito dell’idoneità economico-finanziaria dei concorrenti, le referenze bancarie recanti attestazioni di affidabilità del tutto generiche (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Stato, Sez. V, 21.11.2007 n. 5909 e 03.02.2003, n. 504; Sez. IV, 12.05.2011 n. 2860), in quanto prive di concreti riferimenti all’appalto reso oggetto di gara: e se Carispaq ha in tal senso espressamente affermato –tra l’altro- che Tekneko è dotata di “buone capacità economiche e finanziarie, atte ad assumere impegni dell’entità del corrispettivo presunto per i servizi oggetto della gara”, altrettanto non può dirsi per la referenza del Monte dei Paschi di Siena, nella quale si afferma senza alcun concreto riferimento all’appalto per il quale la referenza medesima era stata chiesta –e, quindi, in via del tutto generica- che “sulla scorta delle informazioni in nostro possesso … la Tekneko Sr.l. intrattiene rapporti fiduciari con la nostra Banca dimostrando buone capacità economiche e finanziarie e, per quanto a noi noto ha fatto sempre fronte ai propri impegni con regolarità e puntualità”.
E’ ben vero che, come rimarca la stessa Tekneko, tale referenza reca una data immediatamente antecedente al termine di presentazione delle offerte per la gara in questione e che pertanto riferisce una solidità economico-finanziaria della propria azienda in essere all’epoca della stessa lex specialis: ma la referenza medesima non reca alcuna precisazione, a differenza di quanto viceversa affermato in quella rilasciata da Carispaq, circa la compatibilità dell’eventuale assunzione dell’appalto di cui trattasi con tali pur intrinsecamente buone capacità economico-finanziarie di Tekneko, non essendo per certo sufficiente a tal fine il mero riferimento ad una “gara di appalto per servizi di igiene urbana” contenuto nell’oggetto della referenza stessa ma non considerato nel testo della referenza come elemento di giudizio in ordine alla concreta possibilità per la medesima Tekneko di poter onorare anche tale ulteriore suo impegno nell’ipotesi di eventuale aggiudicazione della gara.
Ne deriva, quindi, che il difetto di una delle due referenze bancarie previste dal disciplinare di gara impedisce all’impresa di comprovare la capacità economico-finanziaria nei modi voluti dalla stazione appaltante, con la conseguenza che l’impresa medesima, in applicazione delle regole espulsive sancite dalla lex specialis della gara, non può che essere esclusa dal procedimento di scelta del contraente.
Va anche soggiunto che, nelle gare pubbliche, l’omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un’irregolarità sanabile, in applicazione del cd. “dovere di soccorso” di cui all’art. 46 del D.L.vo 163 del 2006 e che, non ne è permessa l’integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali: ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara, potendosi al più ammettersi in tale contesto l’integrazione solo quando i vizi sono chiaramente imputabili ad errore materiale, e –per l’appunto- sempre che riguardino dichiarazioni o documenti non richiesti a pena di esclusione, non essendo, in quest’ultima ipotesi, consentita la sanatoria o l’integrazione postuma, che si tradurrebbe in una violazione dei termini massimi di presentazione dell’offerta e, in definitiva, in una violazione del principio di parità delle parti, che deve presiedere ogni procedura ad evidenza pubblica (cfr. sul punto le dirimenti, conclusive e vincolanti argomentazioni di Cons. Stato, Ad. plen., n. 9 del 2014).
4.3. Né Tekneko può invocare a sostegno della propria tesi la novella introdotta con il comma 1-bis dello stesso art. 46 del D.L.vo 163 del 2006 per effetto dell’art. 4, comma 2, lett. d), del D.L. 13.05.2011 n. 70 convertito con modificazioni in L. 12.07.2011 n. 106, trattandosi di disciplina non retroattiva e, pertanto, non applicabile alle gare bandite prima della sua introduzione nel nostro ordinamento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso in cui il provvedimento amministrativo si fondi su più motivazioni, tra di loro autonome ma ciascuna delle quali risulti di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento medesimo nel suo complesso resti indenne, risultando conseguentemente privo di utilità l’esame in sede giudiziale delle altre censure.
A ragione, inoltre, il giudice di primo grado ha assorbito l’ordine di censure riferito alla parte dell’impugnato provvedimento di esclusione della gara riguardante l’omessa indicazione della gara e dell’oggetto della stessa sulle tre buste interne al plico reso al seggio di gara, posto che –come è ben noto– nel caso in cui il provvedimento amministrativo si fondi su più motivazioni, tra di loro autonome ma ciascuna delle quali risulti di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento medesimo nel suo complesso resti indenne, risultando conseguentemente privo di utilità l’esame in sede giudiziale delle altre censure (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 09.01.2014 n. 25) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Stabilisce l’art. 3 comma primo, del d.m. n. 1444 del 1968 che “per gli insediamenti residenziali, i rapporti massimi di cui all'art. 17 -penultimo comma- della legge n. 765 del 1967, sono fissati in misura tale da assicurare per ogni abitante -insediato o da insediare- la dotazione minima, inderogabile, di mq. 18 per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio…”.
Analoga norma è contenuta nell’art. 9, comma 3, della l.r. n. 12 del 2005, ove si specifica peraltro che tale rapporto minimo deve essere assicurato anche all’interno dei piani attuativi.
Le disposizioni, come si vede, quantificano le dotazioni minime di aree standard necessarie per rendere armonico ed equilibrato il rapporto fra insediamenti umani ed ambiente circostante; a tali prescrizioni sono vincolate le autorità preposte alla predisposizione ed all’approvazione degli atti di pianificazione territoriale.
Trattandosi di quantificazioni minime, è del tutto pacifica la possibilità di prescrivere, in sede pianificatoria, rapporti più elevati rispetto ai 18 mq. per abitante. In tal caso sarà però necessaria una motivazione particolare che renda palesi le ragioni che hanno indotto al sovradimensionamento degli standard, con la precisazione che la motivazione specifica andrà comunque riferita alle previsioni urbanistiche complessive di "sovradimensionamento" indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree.

2. Con una prima doglianza contenuta nel primo motivo, l’interessata deduce l’illegittimità della decisione di prevedere un obbligo di cessione di aree standard interne all’ambito per una superficie complessiva pari a mq. 26.890 e, correlativamente, la decisione di ammettere una quantità massima di superficie lorda di pavimento (s.l.p.) pari a mq. 8.120. Tali indici sarebbero, a suo dire, sproporzionati, posto che, in base all’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968, la dotazione minima di aree standard è pari a 18 mq. per abitante e che, nel caso concreto, questa proporzione sarebbe stata abbondantemente superata dalle previsioni dello strumento urbanistico.
In sede di osservazioni l’interessata aveva proposto, al fine di riequilibrare il rapporto, di elevare a mq 11.000 la s.l.p. realizzabile, ma l’osservazione è stata respinta in ragione di un asserito contrasto fra la richiesta di parte e gli obiettivi indicati nel Documento di Piano.
La ricorrente contesta tale assunto evidenziando che, anche a voler prescindere dalle previsioni di cui al citato art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968, l’art. 5 delle Disposizioni di Attuazione al Piano dei Servizi prescrive un rapporto minimo fra aree standard ed abitanti insediabili pari a mq. 60 per abitante, e che la proposta effettuata in sede di osservazioni sarebbe compatibile con tale prescrizione.
In ogni caso, la parte rileva che la decisione di disporre un sovradimensionamento degli standard non sarebbe motivata.
2.1. Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato nei termini di seguito specificati.
Stabilisce l’art. 3 comma primo, del d.m. n. 1444 del 1968 che “per gli insediamenti residenziali, i rapporti massimi di cui all'art. 17 -penultimo comma- della legge n. 765 del 1967, sono fissati in misura tale da assicurare per ogni abitante -insediato o da insediare- la dotazione minima, inderogabile, di mq. 18 per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio…”.
Analoga norma è contenuta nell’art. 9, comma 3, della l.r. n. 12 del 2005, ove si specifica peraltro che tale rapporto minimo deve essere assicurato anche all’interno dei piani attuativi.
Le disposizioni, come si vede, quantificano le dotazioni minime di aree standard necessarie per rendere armonico ed equilibrato il rapporto fra insediamenti umani ed ambiente circostante; a tali prescrizioni sono vincolate le autorità preposte alla predisposizione ed all’approvazione degli atti di pianificazione territoriale.
Trattandosi di quantificazioni minime, è del tutto pacifica la possibilità di prescrivere, in sede pianificatoria, rapporti più elevati rispetto ai 18 mq. per abitante. In tal caso sarà però necessaria una motivazione particolare che renda palesi le ragioni che hanno indotto al sovradimensionamento degli standard, con la precisazione che la motivazione specifica andrà comunque riferita alle previsioni urbanistiche complessive di "sovradimensionamento" indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. 22.12.1999 n. 24; id. sez. IV, febbraio 2014 n. 493).
Ciò premesso, va osservato che, nel caso concreto, non è contestato che l’Amministrazione resistente, nel proprio Piano di Governo del Territorio, ha prescritto, per lo specifico ambito oggetto del presente giudizio, un rapporto fra aree standard ed abitanti insediabili superiore a quello minimo stabilito dall’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968 e dall’art. 9, comma 3, della l.r. n. 15 del 2005.
Tale scelta non è stata, tuttavia, adeguatamente giustificata.
E’ vero, infatti, che nell’atto di controdeduzione alle osservazioni, il Comune resistente ha precisato che un incremento della s.l.p. realizzabile sarebbe “… in contrasto con gli obiettivi di dimensionamento riportati nel documento di piano”.
Tale precisazione vale, però, esclusivamente a giustificare l’impossibilità di elevare la quantità di volume residenziale edificabile, ma non spiega le ragioni della necessità di reperire aree standard per una superficie superiore rispetto a quella ordinaria, e non vale quindi a giustificare il sacrificio dell’interesse della parte privata a cedere una superficie inferiore rispetto a quella prescritta dal PGT.
Né può considerarsi idonea motivazione il passaggio, contenuto nell’art. 41, comma 1 delle Disposizioni di Attuazione del Piano delle Regole, laddove si legge che, fra gli obiettivi generali da attuare nei “campi della modificazione m1”, vi è quello di assicurare l’incremento delle dotazioni di aree per servizi di uso pubblico. Tale disposizione invero si limita ad enunciare la volontà di conseguire l’obiettivo di sovradimensionamento degli standard, senza tuttavia indicarne le ragioni.
Sotto questo profilo il motivo appare pertanto fondato.
Non è invece condivisibile l’argomentazione che fa leva sull’art. 5 delle Disposizioni di Attuazione del Piano dei Servizi, il quale, per i piani attuativi relativi a zone diverse dai “campi della modificazione - m1” prescrive una dotazione minima di aree standard pari a mq. 60/abitanti (inferiore rispetto a quella prescritta dalle disposizioni del Piano delle Regole impugnate in questa sede).
L’art. 5, comma 1, delle disposizioni di Attuazione del Piano dei Servizi, come detto, vale difatti per i piani attuativi relativi a zone diverse dai “campi della modificazione - m1”; per questi ultimi è invece applicabile il comma successivo il quale rimanda alle previsioni specifiche contenute nelle Disposizioni Attuative del Piano delle Regole (che dovrebbero appunto dettare norme specifiche per ciascun singolo ambito), chiarendo che, per questi ultimi la dotazione dovrà essere stabilità “…in relazione alla consistenza ed alle caratteristiche dell’insediamento previsto, nonché alle esigenze urbanizzative indotte dall’insediamento stesso e dall’incidenza del consumo di suolo rispetto all’equilibrio complessivo del territorio comunale". Il Piano delle Regole, pertanto, per esplicita previsione normativa, ben poteva derogare alle previsioni di cui al primo comma del richiamato art. 5, comma 1.
Vale tuttavia quanto sopra illustrato in punto di carenza di motivazionale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.05.2014 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per pacifico orientamento giurisprudenziale, le scelte urbanistiche compiute dalle competenti autorità amministrative in sede di pianificazione costituiscono apprezzamenti di merito, sottratti al sindacato del giudice amministrativo se non nei casi in cui vi sia manifesta irragionevolezza, ovvero manifesto travisamento della situazione fattuale.
2.2. Con una seconda doglianza contenuta nel primo motivo di ricorso, l’interessata deduce l’illegittimità della previsione che obbliga la concentrazione della volumetria edificabile nella porzione di ambito collocata ad ovest della via Fontanile. Secondo la ricorrente la previsione sarebbe del tutto illogica in quanto, come evidenziato in sede di osservazioni, non consentirebbe la valorizzazione delle aree poste ad est della suddetta strada, non garantirebbe un miglior utilizzo degli standard da destinarsi all’ampliamento di un centro sportivo ubicato a ridosso dell’ambito e, infine, renderebbe inapplicabili le disposizioni che consentono la possibilità di approvazione di piani attuativi frazionati.
2.3. In proposito si osserva che, per pacifico orientamento giurisprudenziale, le scelte urbanistiche compiute dalle competenti autorità amministrative in sede di pianificazione costituiscono apprezzamenti di merito, sottratti al sindacato del giudice amministrativo se non nei casi in cui vi sia manifesta irragionevolezza, ovvero manifesto travisamento della situazione fattuale (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 22.06.2006 n. 3880).
Peraltro, a differenza di quanto rilevato con riferimento al sovradimensionamento degli standard, la scelta qui contestata non rientra fra quelle che richiedono l’assolvimento di uno specifico onere motivazionale.
Ciò permesso, il Collegio ritiene che la ricorrente non abbia fornito sufficienti elementi che possano dimostrare l’irrazionalità della scelta compiuta dal Comune di Cernusco sul Naviglio il quale, peraltro, nei propri atti ha specificato che essa dipende dalla necessità di “a) concentrare le superfici fondiarie nella parte nord del campo della modificazione sul retro degli insediamenti che si sviluppano su via Monza; b) realizzare l’ampliamento del campo sportivo; c) assicurare uno spazio di interesse generale ad est della via Fontanile, continuità con le attrezzature scolastiche esistenti".
La doglianza non può dunque essere accolta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.05.2014 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza ha chiarito che l'istituto perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento "in due pilastri fondamentali" del nostro ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare l'Amministrazione nell'esercizio della propria attività di pianificazione e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis e 11 della legge n. 241 del 1990.
Non è quindi necessaria la presenza di puntuali norme che configurino in maniera specifica i modelli secondo i quali l’istituto stesso si può sostanziare.

3. Nel secondo motivo di ricorso, viene censurata la previsione che impone l’obbligo di cessione di aree di proprietà di terzi esterne all’ambito. In particolare secondo la ricorrente tale previsione sarebbe sfornita di supporto normativo; sarebbe contraria all’art. 28 della legge n. 1150 del 1942 atteso che tale norma consente, in casi eccezionali, la possibilità di cessione di aree da destinare a standard esterne all’ambito, ma dispone altresì che tali aree debbano essere a questo attigue (mentre nel caso concreto le aree da cedere sarebbero collocate a notevole distanza dall’ambito); sarebbe di difficile attuazione in quanto i proprietari della aree da cedere potrebbero non essere disposti a venderle al soggetto attuatore oppure potrebbero pretendere prezzi eccessivi: per questo la previsione censurata comprometterebbe le possibilità di edificazione che spettano ai proprietari della aree interne all’ambito, con conseguente violazione degli artt. 41 e 42 Cost., dell’art. 1, primo protocollo addizionale, della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, nonché dell’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
3.1. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
Nella scheda riguardante il “campo della modificazione – m1 via Fontanile” è previsto, per i soggetti attuatori, l’obbligo di cedere aree per servizi di interesse generale esterne all’ambito, per una superficie complessiva pari a mq. 5.590.
L’art. 7, comma 3, delle Disposizioni di Attuazione del Piano dei Servizi stabilisce che all’interno dei “campi della modificazione – m1” la dotazione minima di aree per servizi di interesse generale non è monetizzabile ed è garantita attraverso la cessione gratuita al Comune di lotti identificati dallo stesso Piano dei Servizi come aree “Parchi e Giardini Sg1, Sg2, Sg3, Sg4….” .
Queste disposizioni hanno evidente carattere perequativo, in quanto attraverso di esse vengono valorizzate aree per le quali è esclusa ogni capacità edificatoria, l’acquisto e la cessione al Comune delle quali diviene requisito indefettibile per l’esercizio dello jus aedificandi con riferimento ad aree che invece hanno capacità edificatoria. La stessa disposizione ha anche evidenti finalità pubblicistiche, in quanto consente al Comune di divenire proprietario di aree considerate importanti per l’insediamento di servizi di interesse generale.
Come premesso, la ricorrente contesta innanzitutto la sussistenza di una base normativa che sorregga detta previsione, posto che l’art. 11 della l.r. n. 12 del 2005 non contempla, fra le ipotesi perequative e compensative ivi previste, la possibilità di obbligare i soggetti attuatori alla cessione di aree di proprietà di terzi esterne agli ambiti dei piani attuativi.
In proposito va però osservato come la giurisprudenza abbia chiarito che l'istituto perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento "in due pilastri fondamentali" del nostro ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare l'Amministrazione nell'esercizio della propria attività di pianificazione e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis e 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010 n. 4545; si vedano anche TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.07.2002 n. 670, TAR Veneto sez. I, 19.05.2009, n. 1504).
Non è quindi necessaria la presenza di puntuali norme che configurino in maniera specifica i modelli secondo i quali l’istituto stesso si può sostanziare.
La ricorrente obietta che, nel caso specifico, a differenza del caso esaminato nella sentenza del Coniglio di Stato n. 4545 del 2010, non è prevista l’assegnazione di volumetrie aggiuntive all’area di proprietà del soggetto attuatore obbligato ad effettuare la cessione.
Ritiene il Collegio che questo rilievo non sia decisivo in quanto il sacrificio della cessione viene comunque compensato dall’attribuzione di capacità edificatoria all’area di proprietà dello stesso soggetto attuatore.
Il meccanismo configurato dal Comune di Cernusco sul Naviglio conserva una sua intrinseca ragionevolezza anche in mancanza di una previsione sull’assegnazione di volumetria aggiuntiva giacché, come anticipato, esso consente di soddisfare contemporaneamente l’interesse di tre soggetti: l’interesse dei proprietari dei suoli interni al comparto, i quali vedono assegnare capacità edificatoria alle proprie aree; l’interesse dei proprietari dei suoli destinati a parchi e giardini (privi di capacità edificatoria) che vedono valorizzare le proprie aree e, infine, l’interesse del Comune che in tal modo può divenire proprietario di aree considerate strategiche ai fini dell’insediamento di servizi di interesse generale.
Non può essere pertanto condivisa la doglianza che lamenta il difetto di base normativa.
In tale quadro poi, risulta evidente come non abbiano rilievo le disposizioni contenute nell’art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e le disposizioni costituzionali e di diritto comunitario ed internazionale che tutelano il diritto di proprietà.
La prima in quanto esula completamente dalla materia degli istituti perequativi, avendo essa l’esclusiva finalità di agevolare i soggetti attuatori in caso di impossibilità di cessione di aree per dotazioni standard interne all’ambito del piano attuativo; le seconde in quanto si è dimostrato sopra che le disposizioni contestate, lungi dall’introdurre immotivati sacrifici al diritto proprietà, soddisfano l’interesse di una pluralità di soggetti ridistribuendo fra questi i vantaggi derivanti dall’attribuzione di capacità edificatoria alle aree di proprietà di alcuni di essi, in armonia peraltro con le previsioni contenute nell’art. 3, commi primo e secondo, Cost.
L’Amministrazione resistente ha inoltre dimostrato in giudizio che la superficie delle aree di interesse pubblico individuate dal Piano dei Servizi è di molto superiore rispetto alla superficie che costituisce obbligo di cessione. Non pare quindi dimostrato che il meccanismo qui avversato sia di impossibile o estremamente difficoltosa attuazione (i soggetti attuatori hanno invero ampia possibilità di scelta sulle aree da acquistare e cedere al Comune); sicché ne va confermata l’intrinseca ragionevolezza.
La doglianza in esame non può pertanto essere condivisa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.05.2014 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROFESSIONALIGiacché il servizio oggetto della procedura di evidenza pubblica ha avuto integrale esecuzione, non è più utile ai ricorrenti l’annullamento dei provvedimenti impugnati; piuttosto, accertata la loro illegittimità ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., occorre decidere la domanda di risarcimento del danno per equivalente, proposta con il ricorso per motivi aggiunti.
In proposito, si riscontra la presenza di tutti gli elementi integranti la fattispecie risarcitoria.
Vi è, in primo luogo, la condotta illegittima dell’amministrazione.
Vi è la lesione, non iure e contra ius, dell’interesse al bene della vita vantato dai ricorrenti: infatti, laddove l’amministrazione avesse correttamente rilevato che il raggruppamento aggiudicatario non possedeva i requisiti che –ai sensi dell’art. 90 d.lgs. 12.04.2006, n. 163– gli consentivano di partecipare alla procedura di evidenza pubblica, l’appalto di servizi avrebbe dovuto essere affidato al Raggruppamento Temporaneo di Professionisti in vi di costituzione ad opera dei ricorrenti.
Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta illegittima e la lesione.
Ritiene, invece, il Collegio che non occorra anche che l’illegittima condotta dell’amministrazione debba anche essere qualificata come colposa.
Invero, trattandosi di una procedura di evidenza pubblica sotto la soglia di applicabilità della direttiva 2004/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, non sono vincolanti per il giudice nazionale i principi sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che il diritto comunitario in tema di appalti osta ad una normativa nazionale che subordini il diritto al risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.
Tuttavia, il Collegio ritiene che tali principi (di cui hanno fatto applicazione, più di recente, Cons. Stato, Sez. V, 27.03.2013 n. 1833; Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5686; Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2013, n. 4439; Cons. Stato, Sez. IV, 13.12.2013, n. 6000; TAR Lazio–Roma, Sez. II, 11.09.2013, n. 8208, secondo cui l'art. 124 c.p.a. ha introdotto un'ipotesi di responsabilità oggettiva) debbano trovare applicazione indipendentemente dal fatto che l'affidamento si collochi sopra o sotto la soglia di rilevanza comunitaria. Non pare, infatti, ragionevole diversificare il regime di responsabilità in funzione di un elemento in fondo estrinseco, quale quello del superamento o meno della soglia richiamata.
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Secondo il noto principio dell’aliunde perceptum verl percipiendum, onde evitare che, a seguito del risarcimento, l'impresa danneggiata possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a titolo risarcitorio quanto percepito o quanto avrebbe potuto percepire grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l'appalto in contestazione.
L'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde perceptum vel percipiendum grava non sull'amministrazione, ma sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l'id quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente diligente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il relativo utile.
Trattandosi di professionisti, tale prova avrebbe potuto essere agevolmente fornita, mediante la produzione in giudizio dei registri che i ricorrenti debbono obbligatoriamente tenere per ragioni fiscali.
Essa, però, non è stata data, non essendo idonee, a tal scopo, le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà prodotte in giudizio. Infatti, le dichiarazioni de quibus hanno attitudine certificativa e probatoria, fino a contraria risultanza, nei confronti dell’amministrazione pubblica ed in determinate attività o procedure amministrative, ma, in difetto di diversa, specifica previsione di legge, nessun valore probatorio, neanche indiziario, può essere ad essa attribuito in un giudizio caratterizzato dal principio dell'onere della prova (qual è anche quello amministrativo, allorché si discuta del diritto al risarcimento del danno), atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c., da proprie dichiarazioni.
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Deve ammettersi che l'impresa illegittimamente privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale; infatti, l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé e al relativo incasso, posto che alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano indirettamente nocumenti all'immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operano su medesimo target di mercato, dichiarate, in modo illegittimo, aggiudicatarie della gara.
Tale danno non può che essere quantificato in via equitativa, nella misura che si reputa corretta di € 1.000,00 (si noti che nella giurisprudenza il danno curriculare viene liquidato in una misura variabile tra l’1% ed il 3% del lucro cessante).

3. Il ricorso è fondato.
L’illegittimità dell’azione amministrativa emerge ictu oculi avendo riguardo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, correttamente citata dalla parte ricorrente (Cons. Stato, Sez. VI, 05.09.2011, n. 5003).
Infatti, l’art. 90, comma 1, lett. d), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, prevede che i soggetti esterni ai quali può essere affidata l’attività di progettazione sono –in sintesi– i liberi professionisti iscritti nel relativo albo professionale, le società di professionisti o le società di ingegneria.
Attesa la tassatività di un siffatto elenco –da raccordare alla diretta responsabilizzazione del soggetto della cui prestazione ci si avvale–, il soggetto “esterno”, destinatario dell’incarico di progettazione esterna, non può essere un pubblico dipendente a tempo pieno. Quest’ultimo, invero, non può esercitare la libera professione e, quindi, non può assumere la qualifica professionale che l’art. 90 citato richiede per i progettisti esterni.
In senso contrario non rileva l’autorizzazione che il professionista abbia eventualmente ricevuto dall’amministrazione di appartenenza, perché tale autorizzazione non può rimuovere la circostanza che la prescrizione normativa da qui applicare richiede in capo ai progettisti esterni un vero e proprio status di libero professionista (con tanto di iscrizione nel relativo albo) e questo è precluso dall’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno.
4. Giacché il servizio oggetto della procedura di evidenza pubblica ha avuto integrale esecuzione, non è più utile ai ricorrenti l’annullamento dei provvedimenti impugnati; piuttosto, accertata la loro illegittimità ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., occorre decidere la domanda di risarcimento del danno per equivalente, proposta con il ricorso per motivi aggiunti.
5. In proposito, si riscontra la presenza di tutti gli elementi integranti la fattispecie risarcitoria.
Vi è, in primo luogo, la condotta illegittima dell’amministrazione.
Vi è la lesione, non iure e contra ius, dell’interesse al bene della vita vantato dai ricorrenti: infatti, laddove l’amministrazione avesse correttamente rilevato che il raggruppamento aggiudicatario non possedeva i requisiti che –ai sensi dell’art. 90 d.lgs. 12.04.2006, n. 163– gli consentivano di partecipare alla procedura di evidenza pubblica, l’appalto di servizi avrebbe dovuto essere affidato al Raggruppamento Temporaneo di Professionisti in vi di costituzione ad opera dei ricorrenti.
Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta illegittima e la lesione.
Ritiene, invece, il Collegio che non occorra anche che l’illegittima condotta dell’amministrazione debba anche essere qualificata come colposa.
Invero, trattandosi di una procedura di evidenza pubblica sotto la soglia di applicabilità della direttiva 2004/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, non sono vincolanti per il giudice nazionale i principi sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che il diritto comunitario in tema di appalti osta ad una normativa nazionale che subordini il diritto al risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata (CGUE, Sez. III, 30.09.2010, in causa C-314/09, richiamata dai ricorrenti nel ricorso per motivi aggiunti; in precedenza CGUE, Sez. III, sentenza del 14.10.2004, in causa C275/03).
Tuttavia, il Collegio ritiene che tali principi (di cui hanno fatto applicazione, più di recente, Cons. Stato, Sez. V, 27.03.2013 n. 1833; Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5686; Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2013, n. 4439; Cons. Stato, Sez. IV, 13.12.2013, n. 6000; TAR Lazio–Roma, Sez. II, 11.09.2013, n. 8208, secondo cui l'art. 124 c.p.a. ha introdotto un'ipotesi di responsabilità oggettiva) debbano trovare applicazione indipendentemente dal fatto che l'affidamento si collochi sopra o sotto la soglia di rilevanza comunitaria. Non pare, infatti, ragionevole diversificare il regime di responsabilità in funzione di un elemento in fondo estrinseco, quale quello del superamento o meno della soglia richiamata (nel medesimo senso Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012, n. 5685; TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 17.12.2011, n. 1616).
6. Occorre, pertanto, accertare e liquidare i pregiudizi subiti dai ricorrenti.
6.1. Viene in rilievo, in primo luogo, il lucro cessante.
In relazione ad esso, il Collegio condivide le argomentazioni spese dalla parte ricorrente, secondo cui –trattandosi di prestazione di opere di ingegno, che non richiede l’uso di mezzi e di maestranze, ma che si svolge prevalentemente con l’attività intellettuale del professionista– il rapporto tra guadagni complessivamente ottenibili dall’esecuzione del servizio e prezzo dell’appalto sia maggiore del 10%, generalmente e presuntivamente ritenuto congruo dalla giurisprudenza formatasi in materia di appalti pubblici di lavori.
Nel caso di specie, la parte ricorrente afferma che, a fronte di un ricavo di € 76.000,00, le spese sopportate sarebbero state di circa € 8.000,00, analoghe, nell’entità globale, a quelle sopportate dal raggruppamento aggiudicatario (cfr. doc. 4 della produzione documentale del controinteressato).
Tale valutazione può ritenersi congrua, sicché occorre ritenere dimostrato che il guadagno che i ricorrenti avrebbero potuto trarre dall’esecuzione del servizio oggetto della controversia sarebbe ammontato ad € 68.000,00 (€ 76.000,00 - € 8.000,00).
6.2. Ai fini risarcitori, tale importo va diminuito (nella misura, ritenuta equa, della metà) secondo il noto principio dell’aliunde perceptum verl percipiendum, per cui, onde evitare che, a seguito del risarcimento, l'impresa danneggiata possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a titolo risarcitorio quanto percepito o quanto avrebbe potuto percepire grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l'appalto in contestazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.03.2011, n. 1681).
6.2.1. Non appare convincente, sul punto, la pur suggestiva tesi propugnata dai ricorrenti (pagg. 11 e 12 del ricorso per motivi aggiunti), secondo cui “nel caso in questione non è applicabile il principio dell’aliunde perceptum con eventuale riduzione della somma di risarcimento; nelle prestazioni intellettuali, infatti, l’eseguire un lavoro non fa venire meno la possibilità di eseguirne un altro, atteso che non sorge problema di utilizzo di macchinari incompatibili con più commesse. La perdita di una commessa pubblica, pertanto, è sempre piena, e giammai potrebbe essere compensata dall’acquisizione di un altro lavoro, che comunque si andrebbe ad aggiungere e non a sostituire a quello illegittimamente negato (è nella natura del lavoro libero-professionale assumere più incarichi in contemporanea senza alcuna “esclusività”)”.
Ed infatti, la capacità di svolgere prestazioni intellettuali –pur non scontando i limiti che alla capacità di prestare attività materiali derivano dalla naturale scarsità di mezzi e di maestranze– è anch’essa limitata, se non altro perché il tempo destinabile a tale attività ha una dimensione finita, cosicché non sembra corretto sostenere che “l’eseguire un lavoro non fa venire meno la possibilità di eseguirne un altro”.
6.2.2. Ciò posto, l'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde perceptum vel percipiendum grava non sull'amministrazione, ma sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l'id quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente diligente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il relativo utile (Cons. Stato, Sez. VI, 15.10.2012, n. 5279; cfr. anche la già citata sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 18.03.2011, n. 1681).
Trattandosi di professionisti, tale prova avrebbe potuto essere agevolmente fornita, mediante la produzione in giudizio dei registri che i ricorrenti debbono obbligatoriamente tenere per ragioni fiscali.
Essa, però, non è stata data, non essendo idonee, a tal scopo, le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà prodotte in giudizio. Infatti, le dichiarazioni de quibus hanno attitudine certificativa e probatoria, fino a contraria risultanza, nei confronti dell’amministrazione pubblica ed in determinate attività o procedure amministrative, ma, in difetto di diversa, specifica previsione di legge, nessun valore probatorio, neanche indiziario, può essere ad essa attribuito in un giudizio caratterizzato dal principio dell'onere della prova (qual è anche quello amministrativo, allorché si discuta del diritto al risarcimento del danno), atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c., da proprie dichiarazioni (Cass. Civ., Sez. Un, 14.10.1998, n. 10153; più di recente, Cass. Civ., Sez. III, 28.04.2010, n. 10191).
6.3. E’ dovuto, altresì, il risarcimento del danno curriculare .
Infatti, deve ammettersi che l'impresa illegittimamente privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale; infatti, l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé e al relativo incasso, posto che alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano indirettamente nocumenti all'immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operano su medesimo target di mercato, dichiarate, in modo illegittimo, aggiudicatarie della gara (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751).
Tale danno non può che essere quantificato in via equitativa, nella misura che si reputa corretta di € 1.000,00 (si noti che nella giurisprudenza il danno curriculare viene liquidato in una misura variabile tra l’1% ed il 3% del lucro cessante: cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 11.10.2012, n. 4058; TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, 08.02.2012, n. 309; TAR Sardegna, 21.06.2012, n. 628; TAR Sicilia–Catania, Sez. IV, 25.05.2011, n. 1279).
6.4. Il danno complessivo, al cui risarcimento deve essere condannato il Comune di Acquaro, ammonta, dunque, ad € 35.000,00 [(€ 68.000,00 / 2) + € 1.000,00].
Trattandosi di debito di valore, su tale importo sono dovuti la rivalutazione secondo l’indice ISTAT dei prezzi al consumo (FOI) e gli interessi corrispettivi, da computarsi al saggio legale sulla somma annualmente rivalutata, con decorrenza dalla data di cristallizzazione del danno, da individuare nel giorno di stipula del contratto oggetto della procedura concorsuale, sino alla data di pubblicazione della presente sentenza (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 15.05.2014 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Volume a copertura di un fabbricato caratteristiche di sottotetto o mansarda.
Un volume realizzato a copertura di un fabbricato o ha le caratteristiche oggettive di un sottotetto non abitabile, trattandosi in questo caso di un minimo volume tecnico richiesto per la copertura dell’edificio, ovvero si tratta di una mansarda, anche potenziale, in quanto dotata di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda.
Ciò che rileva, al fine della considerabilità del cd. vano sottotetto, è la sua materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi, mentre non assumono alcun rilievo gli impegni, anche assunti per atto pubblico, limitativi delle facoltà di godimento del bene.
A fini edificatori, e quindi per le valutazioni della pubblica amministrazione che deve rilasciare il titolo autorizzatorio ciò che rileva è la effettiva consistenza del volume e la sua concreta utilizzabilità, non già la limitazione unilateralmente assunta delle facoltà dominicali di godimento del bene.

3. Altrettanto fondato è il motivo sub b) dell’esposizione in fatto.
Il Collegio ritiene di dovere innanzi tutto precisare –sia ai fini dell’esame del presente motivo di appello, sia in ordine al successivo motivo sub d) dell0’esposizione in fatto, relativamente alla rilevanza del sottotetto– che la sentenza di I grado non può essere condivisa, laddove ritiene di non poter considerare la volumetria del sottotetto, per il fatto che la soc. Edilborgo si è impegnata con atto notarile a mantenere il medesimo non abitabile (pag. 13 – 14 sent.).
Il Collegio ritiene che un volume realizzato a copertura di un fabbricato o ha le caratteristiche oggettive di un sottotetto non abitabile, trattandosi in questo caso di un minimo volume tecnico richiesto per la copertura dell’edificio, ovvero si tratta di una mansarda, anche potenziale, in quanto dotata di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda.
Ciò che rileva, dunque, al fine della considerabilità del cd. vano sottotetto, è la sua materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi (il che lo rende pienamente rilevante per tutti gli aspetti inerenti alla legittimità del fabbricato assentito), mentre non assumono alcun rilievo gli impegni, anche assunti per atto pubblico, limitativi delle facoltà di godimento del bene.
A fini edificatori, e quindi per le valutazioni della pubblica amministrazione che deve rilasciare il titolo autorizzatorio ciò che rileva è la effettiva consistenza del volume e la sua concreta utilizzabilità, non già la limitazione unilateralmente assunta delle facoltà dominicali di godimento del bene.
Le caratteristiche di ciò che si intende realizzare devono essere in concreto ed ex ante valutate dall’amministrazione nella loro oggettività, non potendosi ovviare ad un difetto di valutazione, ovvero ritenere comunque assentibile il progetto, considerando (come non condivisibilmente affermato dalla sentenza impugnata) che “ove le prescrizioni in parola dovessero mai essere violate verrebbe posta in discussione la stessa efficacia del permesso di costruire”.
In disparte la considerazione che il permesso di costruire è atto amministrativo ad efficacia istantanea, che, pertanto, non può essere incisa da un comportamento successivo alla realizzazione del fabbricato, quanto affermato denota, invece, come il volume del sottotetto consentisse l’abitabilità (desumibile anche dalle sue accertate caratteristiche oggettive) e, quindi, il progetto che lo prevedeva non poteva essere assentito, essendo irrilevanti come già detto, ai fini della valutazione di legittimità del titolo edilizio, obblighi unilateralmente assunti.
Tanto precisato, il Collegio rileva che, nel caso di specie, trova applicazione l’art. 28.2.3 delle NTA, che prevede, per le costruzioni in zona B3, l’altezza massima di 14 m., e che, in ogni caso, il sottotetto, in quanto potenzialmente abitabile, deve essere calcolata nell’altezza complessiva dell’edificio.
Per le ragioni esposte, il secondo motivo di appello deve essere accolto (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.05.2014 n. 2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza la nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita, può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.
Si tratta in particolare di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati all'interno di questa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica. Resta dunque estraneo a tale nozione il volume del vano scale.

Altrettanto fondato è il motivo sub d) dell’esposizione in fatto, con il quale si espone che ai fini della volumetria complessiva avrebbero dovuto essere calcolati i volumi della mansarda, del vano scala e del piano pilotis trasformato in autorimesse.
Quanto alla necessaria computabilità dei volumi del sottotetto, trovano applicazione le considerazioni già in precedenza espresse, di modo che non può essere condivisa la sentenza impugnata, laddove afferma (pag. 15) che “la non abitabilità del sottotetto, determinata sia dalla mancanza dei requisiti minimi di abitabilità sia dall’atto unilaterale di vincolo, escludono che esso possa configurarsi, da un punto di vista urbanistico, alla stregua di un piano fuori terra ulteriore ai tre sottostanti”.
Quanto al vano scala, giova osservare che l’art. 21.3.4 delle NTA esclude dal calcolo dei volumi e dalla superficie lorda i porticati aperti e le logge anche se chiuse da murature su tre lati. Nella esclusione non rientrano, dunque, i vani adibiti a scale, ancorché gli stessi risultino chiusi con muratura solo per tre lati.
Inoltre, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (sez. IV, 04.05.2010 n. 2565): “per costante giurisprudenza la nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita, può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.
Si tratta in particolare di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati all'interno di questa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica. Resta dunque estraneo a tale nozione il volume del vano scale ( cfr. V Sez. n. 120 del 02.03.1994)
”.
Per effetto dell’inclusione del sottotetto e del vano scala, il volume totale così realizzato rende illegittimo il permesso di costruire in sanatoria (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.05.2014 n. 2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. SRB illegittimità obbligo d’installazione degli impianti di telefonia mobile in soli tre siti.
La scelta del Comune di localizzare nell’ambito dell’intero territorio comunale, l’installazione degli impianti di telefonia mobile in soli tre siti, si pone in evidente contrasto con la natura di opere di urbanizzazione primaria delle anzidette strutture, che devono essere poste al servizio degli insediamenti abitativi e seguire il loro sviluppo, garantendo una capillare distribuzione sul territorio della rete di telecomunicazione.
Inoltre, la disposizione censurata si configura indirizzata a scopi di radioprotezione che esulano dalla sfera dei poteri assegnati al Comune dall’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001 sull’insediamento degli impianti di telecomunicazione nel proprio territorio e rientrano, invece, nelle attribuzioni degli organi dello Stato individuati dall’art. 4 della legge citata.

Quanto al merito della vicenda, la scelta del Comune di Veroli di localizzare, nell’ambito dell’intero territorio comunale, l’installazione degli impianti di telefonia mobile in soli tre siti, si pone in evidente contrasto con la natura di opere di urbanizzazione primaria delle anzidette strutture, che devono essere poste al servizio degli insediamenti abitativi e seguire il loro sviluppo, garantendo una capillare distribuzione sul territorio della rete di telecomunicazione.
Inoltre, come reso evidente dalla stessa intestazione del regolamento approvato con delibera n. 23 del 2003, la disposizione censurata si configura indirizzata a scopi di radioprotezione che esulano dalla sfera dei poteri assegnati al Comune dall’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001 sull’insediamento degli impianti di telecomunicazione nel proprio territorio e rientrano, invece, nelle attribuzioni degli organi dello Stato individuati dall’art. 4 della legge citata (cfr. ex multis Cons. St. Sez. VI, n. 1567 del 06.04.2007; n. 3332 del 05.06.2006) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.05.2014 n. 2455 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Termini per l’impugnazione dell’Accordo di programma.
L’accordo di programma è un provvedimento amministrativo soggetto a pubblicazione ex art. 34 del d.lgs. 17.08.2000, n. 267 (in cui è confluito l’art. 27 della legge 06.06.1990, n. 142), e del quale non è necessaria la comunicazione individuale agli interessati atteso che il piano oggetto di approvazione, per contenuto e finalità, costituisce una variante di tipo generale preordinata ad incidere, non già su una singola area in proprietà privata per la realizzazione di una determinata e specifica opera pubblica, bensì su una generalità di aree del territorio comunale conformandole, cioè un tipo di variante avente la medesima valenza e gli stessi contenuti programmatici del piano regolatore generale.
Diverso evidentemente sarebbe il caso ove l’accordo di programma e la variante dallo stesso implicata avessero avuto ad oggetto una specifica e singola opera pubblica localizzata su una ben definita area: in questo caso infatti avrebbe trovato applicazione il noto e condivisibile orientamento secondo cui il termine per l’impugnazione non decorre dalla pubblicazione ma dalla comunicazione ovvero dalla piena conoscenza della variante da parte del singolo soggetto interessato.

5.1. Con riguardo alla eccepita tardività dell’impugnazione dell’accordo di programma del 30.11.2007, la reiezione va confermata ancorché sulla scorta di motivazioni diverse da quelle impiegate dal primo giudice.
5.1.1. Ed invero, il TAR non ha condiviso l’opinione di parte resistente, secondo cui il dies a quo del termine d’impugnazione avrebbe dovuto farsi decorrere dall’avvenuta pubblicazione dell’accordo medesimo sul Bollettino Ufficiale della Regione Liguria, avvenuta in data 06.02.2008, sul rilievo che tale pubblicazione non avrebbe avuto valore di presunzione legale di conoscenza per gli istanti, dovendo quindi farsi riferimento alla data in cui questi hanno avuto effettiva conoscenza del provvedimento.
Tale conclusione non è in linea, prima ancora che con gli orientamenti della giurisprudenza, col dato normativo, in virtù del quale il termine di impugnazione decorre o dalla notifica o comunicazione individuale del provvedimento ovvero, per gli atti per i quali non è prevista la notificazione individuale ai destinatari, dalla loro pubblicazione ove prevista dalla legge, la quale dunque integra una presunzione legale di conoscenza; soltanto laddove manchino le due indicate formalità, può farsi luogo al criterio suppletivo della piena conoscenza.
Orbene, è appena il caso di sottolineare come la prevalente giurisprudenza estenda anche agli accordi di programma, trattandosi di provvedimenti comportanti varianti urbanistiche, il principio per cui il dies a quo del termine d’impugnazione corrisponde a quello della loro pubblicazione, costituente presunzione legale di conoscenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.11.2005, nr. 6467; id., 30.07.2002, nr. 4075).
Infatti, l’accordo di programma è un provvedimento amministrativo soggetto a pubblicazione ex art. 34 del d.lg. 17.08.2000, n. 267 (in cui è confluito l’art. 27 della legge 06.06.1990, n. 142), e del quale non è necessaria la comunicazione individuale agli interessati atteso che il piano oggetto di approvazione, per contenuto e finalità, costituisce una variante di tipo generale preordinata ad incidere, non già su una singola area in proprietà privata per la realizzazione di una determinata e specifica opera pubblica, bensì su una generalità di aree del territorio comunale conformandole, cioè un tipo di variante avente la medesima valenza e gli stessi contenuti programmatici del piano regolatore generale; diverso evidentemente sarebbe il caso ove l’accordo di programma e la variante dallo stesso implicata avessero avuto ad oggetto una specifica e singola opera pubblica localizzata su una ben definita area: in questo caso infatti avrebbe trovato applicazione il noto e condivisibile orientamento secondo cui il termine per l’impugnazione non decorre dalla pubblicazione ma dalla comunicazione ovvero dalla piena conoscenza della variante da parte del singolo soggetto interessato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.12.1998, n. 1904).
Nel caso di specie, la pubblicazione dell’accordo di programma sul B.U.R.L. è stata eseguita anche ai sensi dell’espressa previsione in tal senso contenuta nell’art. 58 della l.r. nr. 36 del 1997; né è in alcun modo sostenibile, neanche astrattamente, che ai ricorrenti spettasse una notifica o una comunicazione individuale, trattandosi –come detto– di soggetti non direttamente incisi dalle prescrizioni adottate in variante al P.U.C. (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2014 n. 2403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. D.I.A. (ora S.C.I.A.) in sanatoria anche per gli impianti di telefonia mobile.
Non si può disconoscere, infatti, la possibilità di richiedere la d.i.a. (ora s.c.i.a.) in sanatoria anche per gli impianti di telefonia mobile, non ostando a ciò la sola mancata espressa previsione di tale possibilità nell’art. 87 del d.lgs. 259/2003, dato che lo stesso art. 87, comma 3, del d.lgs. 259/2003 richiama sic et simpliciter il procedimento della s.c.i.a. (un tempo d.i.a.) e, con esso, non esclude affatto anche la d.i.a. in sanatoria.
A nulla giova invocare, in senso ostativo a tale conclusione, il principio di cautela nel rilascio di titoli autorizzatori per l’installazione degli impianti in questione, e trarne il corollario che tale regime debba essere necessariamente preventivo a tutela della salute umana, poiché la stessa scelta legislativa della d.i.a. (ora s.c.i.a.) e il favor che assiste l’installazione degli impianti e la semplificazione delle procedure, “fermo restando il rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità” indicati dall’art. 87 del d.lgs. 259/2003, consente di affermare la legittimità della d.i.a. in sanatoria, in presenza di tutte le autorizzazioni richieste dalla normativa in materia.

16. Non si può disconoscere, infatti, la possibilità di richiedere la d.i.a. (ora s.c.i.a.) in sanatoria anche per gli impianti di telefonia mobile, non ostando a ciò la sola mancata espressa previsione di tale possibilità nell’art. 87 del d.lgs. 259/2003, dato che lo stesso art. 87, comma 3, del d.lgs. 259/2003 richiama sic et simpliciter il procedimento della s.c.i.a. (un tempo d.i.a.) e, con esso, non esclude affatto anche la d.i.a. in sanatoria.
16.1. A nulla giova invocare, in senso ostativo a tale conclusione, il principio di cautela nel rilascio di titoli autorizzatori per l’installazione degli impianti in questione, come fa il TAR nella sentenza impugnata, e trarne il corollario che tale regime debba essere necessariamente preventivo a tutela della salute umana, poiché la stessa scelta legislativa della d.i.a. (ora s.c.i.a.) e il favor che assiste l’installazione degli impianti e la semplificazione delle procedure, “fermo restando il rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità” indicati dall’art. 87 del d.lgs. 259/2003, consente di affermare la legittimità della d.i.a. in sanatoria, in presenza di tutte le autorizzazioni richieste dalla normativa in materia (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.04.2014 n. 2247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il paesaggio rappresenta un bene primario ed assoluto prevalente rispetto a qualunque altro interesse.
Come è noto, sotto il profilo costituzionale l’art. 9 Cost. introduce la tutela del “paesaggio” tra le disposizioni fondamentali.
Il concetto non va però limitato al significato meramente estetico di “bellezza naturale” ma deve essere considerato come bene “primario” ed “assoluto”, in quanto abbraccia l’insieme “dei valori inerenti il territorio” concernenti l'ambiente, l'eco-sistema ed i beni culturali che devono essere tutelati nel loro complesso, e non solamente nei singoli elementi che la compongono. Il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi, deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie.
Il piano paesaggistico costituisce una valutazione ex ante della tipologia e dell’incidenza qualitativa degli interventi ammissibili in funzione conservativa degli ambiti reputati meritevoli di tutela per cui i relativi precetti devono essere orientati nel senso di assicurare la tutela del paesaggio per assicurare la conservazione di quei valori che fondano l’identità stessa della nazione.

In linea di principio, il divieto di nuove costruzioni imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude in ogni caso qualsiasi nuova edificazione che comporti comunque la creazione di edifici, senza che sia possibile distinguere tra volumi tecnici, residenziali, commerciali, ecc. ecc. (cfr. Consiglio di Stato Sez. VI 13/09/2012 n. 4875).
Ciò perché, come è noto, sotto il profilo costituzionale l’art. 9 Cost. introduce la tutela del “paesaggio” tra le disposizioni fondamentali. Il concetto non va però limitato al significato meramente estetico di “bellezza naturale” ma deve essere considerato come bene “primario” ed “assoluto” (Corte cost., 05.05.2006, nn. 182, 183), in quanto abbraccia l’insieme “dei valori inerenti il territorio” concernenti l'ambiente, l'eco-sistema ed i beni culturali che devono essere tutelati nel loro complesso, e non solamente nei singoli elementi che la compongono (cfr. Corte Cost., 07.11.1994, n. 379).
In tale quadro, va riportato il terzo comma dell’art. 145, del d.lgs. n. 42/2004, per cui “Le previsioni dei piani paesaggistici … non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette”.
Il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi, deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 13/09/2012 n. 4875; Consiglio di Stato sez. IV 29/07/2003; Consiglio di Stato sez. IV 03/05/2005 n. 2079; n. 4351 Consiglio di Stato sez. V 24/04/2013 n. 2265; Cons. Stato VI, 22.03.2005, n. 1186).
Il piano paesaggistico costituisce infatti una valutazione ex ante della tipologia e dell’incidenza qualitativa degli interventi ammissibili in funzione conservativa degli ambiti reputati meritevoli di tutela per cui i relativi precetti devono essere orientati nel senso di assicurare la tutela del paesaggio per assicurare la conservazione di quei valori che fondano l’identità stessa della nazione (come affermò Benedetto Croce, quale Ministro della Pubblica Istruzione, nella relazione di presentazione della prima legge del 1920 in materia: “… il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della Patria...”) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.04.2014 n. 2222 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Segnalazione tecnica dei vigili del fuoco per edificio pericolante.
La segnalazione tecnica dei vigili del fuoco non ha valore di accertamento tecnico in senso proprio, bensì di sollecito all’amministrazione comunale ad intervenire per quanto di sua competenza.
Come correttamente rilevato dal TAR con percorso motivazionale che si condivide, l’iter istruttorio volto ad accertare la situazione di pericolo e l’urgenza di provvedere era già stato espletato nel 1994, con l’acquisizione della perizia e del certificato di non idoneità statica dell’ing. Pietro Bianchi, posti a base dell’ordinanza contingibile e urgente n. 790 del 1994.
Non v’era dunque necessità alcuna di procedere ad un nuovo accertamento, posto che quello a suo tempo effettuato aveva già evidenziato la necessità improcrastinabile di provvedere.
Nemmeno può porsi in discussione l’aggravamento delle condizioni dell’immobile sul quale nei cinque anni intercorrenti tra la prima ordinanza contingibile e urgente e quella di demolizione, nessun intervento manutentivo era stato realizzato con la conseguenza che l’immobile era rimasto esposto all’azione degli agenti atmosferici, più incisiva a seguito della rimozione di parte del tetto per ragioni di sicurezza.
L’accertamento dei vigili del fuoco, diretto, invero, agli interventi più urgenti di loro competenza e non alla condizione di insieme del fabbricato, non smentisce o toglie valenza all’accertamento dell’ing. Bianchi del 1994.
Le fotografie prodotte dalla stessa ricorrente già nel giudizio di primo grado, evidenziano che l’immobile danneggiato è finitimo a diverse abitazioni, oltre a vie pubbliche, tanto che sarebbe impossibile estendere il transennamento in modo da garantire la sicurezza ai passanti.
I riscontrati persistenti crolli di pietre costituiscono d’altra parte indubbio pericolo per la pubblica incolumità.
In conclusione, non può che condividersi quanto affermato dal giudice di primo grado, sulla doverosità della disposta demolizione, a fronte di un accertamento tecnico con cui era stata valutata l’inidoneità dell’immobile e la necessità del suo abbattimento.
Quanto ai fatti nuovi richiamati dalla difesa dell’appellante, essi non sono idonei a provare che fosse venuto meno lo stato di pericolosità dello stabile.
La segnalazione tecnica dei vigili del fuoco non ha valore di accertamento tecnico in senso proprio, bensì di sollecito all’amministrazione comunale ad intervenire per quanto di sua competenza (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Acquisizione gratuita immobile abusivo sottoposto a sequestro penale.
L'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto d’ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi, non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso d’inottemperanza, l'acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del comune ex art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380: infatti il sequestro non rientra tra gli impedimenti assoluti che non consentono di dare esecuzione all'ingiunzione, atteso il disposto dell'art. 85 disp. att. c.p.p..
Non esiste alcun principio di preferenza per il mantenimento dell’abuso del privato, in quanto al contrario l’art. 9 Cost., considera la “tutela del paesaggio della Repubblica” come un valore fondamentale della nazione ed un bene “primario” ed assoluto”.

Il TAR non avrebbe poi considerato che la sottoposizione del manufatto a sequestro penale avrebbe impedito all'appellante di attuare la demolizione, in contrasto con alcuni precedenti giurisprudenziali.
Al contrario, si ricorda che il sequestro non costituisce un impedimento assoluto all’esecuzione dell’ingiunzione di demolizione in quanto l'art. 85 disp. att. c.p.p. prevede che le cose sequestrate possono, mediante domanda alla competente A.G., essere restituite – previa esecuzione di specifiche prescrizioni dell’A.G. e salvo il versamento di un’idonea cauzione imposta ai sensi dell’art. 2621 c.p.p. a garanzia dell’esecuzione delle prescrizioni nel termine stabilito.
L'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi, non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di inottemperanza, l'acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del comune ex art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380: infatti il sequestro non rientra tra gli impedimenti assoluti che non consentono di dare esecuzione all'ingiunzione, atteso il disposto dell'art. 85 disp. att. c.p.p. (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 08.05.2013 n. 2484; Consiglio di Stato sez. VI 09/07/2013 n. 3626; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd. 18.09.2012 n. 768).
L’interessata avrebbe dunque potuto, e dovuto, attivarsi positivamente al fine di rimuovere l’abuso realizzato in violazione del vincolo paesaggistico, per cui il provvedimento di sequestro penale a nulla rilevava sul piano della legittimità del provvedimento di demolizione (cfr. Consiglio di Stato Par. sez. I 30/01/2014 n. 1804) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2014 n. 1994 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Inapplicabilità del preavviso di rigetto al procedimento ex art. 13 della legge 394/1991.
Il procedimento scandito dall’art. 13 della legge 394/1991, (Legge quadro sulle aree protette) per il quale sono prescritte specifiche regole temporalmente determinate, le quali, similmente al consolidato e condiviso principio giurisprudenziale sull’analogo oggetto dell’autorizzazione paesaggistica, rendono inapplicabili le disposizioni dell’art. 10-bis in tema di preavviso di rigetto.
Diversamente, infatti, sarebbe reso in pratica pressoché impossibile, o comunque di estrema difficoltà, rispettare il termine stabilito per la conclusione del procedimento per i fini dell’art. 2 della stessa l. n. 241 del 1990.
Stante tale insanabilità di conflitto tra le due garanzie, si deve concludere che l’esigenza semplificatoria di speditezza del procedimento, posta a garanzia sia dell’istante che dell’azione amministrativa, prevale su quella al preavviso qui reclamato, posta a garanzia del solo istante. Del resto, non v’è chi non veda che diversamente, visto il silenzio-accoglimento previsto dalla disposizione, i tempi dialettici del preavviso renderebbero vana la possibilità stessa di un diniego di nulla osta.

La fase procedimentale nella quale si inserisce il parere di cui è causa, per il quale il Comune ha trasmesso la pratica all’ente Parco, si inserisce nel complesso procedimento iniziato a istanza di parte con la presentazione all’Amministrazione municipale del progetto ai fini dell’autorizzazione a costruire, procedimento scandito dall’art. 13 della legge 06.12.1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette).
Detto art. 13 prevede: “il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l'intervento ed è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato”.
Trattasi, quindi, di un procedimento per il quale sono prescritte specifiche regole procedimentali temporalmente determinate, le quali, similmente al consolidato e condiviso principio giurisprudenziale sull’analogo oggetto dell’autorizzazione paesaggistica, rendono inapplicabili le disposizioni dell’art. 10-bis in tema di preavviso di rigetto. Diversamente, infatti, sarebbe reso in pratica pressoché impossibile, o comunque di estrema difficoltà, rispettare il termine stabilito per la conclusione del procedimento per i fini dell’art. 2 della stessa l. n. 241 del 1990. Stante tale insanabilità di conflitto tra le due garanzie, si deve concludere che l’esigenza semplificatoria di speditezza del procedimento, posta a garanzia sia dell’istante che dell’azione amministrativa, prevale su quella al preavviso qui reclamato, posta a garanzia del solo istante.
Del resto, non v’è chi non veda che diversamente, visto il silenzio-accoglimento previsto dalla disposizione, i tempi dialettici del preavviso renderebbero vana la possibilità stessa di un diniego di nulla osta.
È noto infatti che per questa stessa ragione il parere reso al Comune ai fini paesaggistici dall’Amministrazione preposta alla tutela dello specifico interesse non è soggetto all'obbligo di comunicazione preventiva del preavviso di rigetto di cui al citato art. 10-bis, in quanto costituisce esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che intercorre tra autorità pubbliche (cfr. per tutte Cons. Stato, VI, 21.09.2011, n. 5293; VI, 20.12.2011, n. 6725; VI, 02.02.2012, n. 576, VI, 09.07.2013, n. 3616).
La circostanza che il termine ora in questione non sia come quello decadenziale, ma anzi senz’altro costitutivo dell’accoglimento, non solo non muta le cose (perché per entrambi la ratio è la medesima dell’accelerazione dell’azione amministrativa), ma spinge l’analogia fino a naturali, se non ovvie, considerazioni concludenti a fortiori.
In conclusione, il diniego del nulla osta dell’art. 13 l. n. 394 del 1990 per interventi, impianti ed opere all'interno di un parco non va preceduto dal preavviso dell’art. 10-bis l. n. 241 del 1990.
Detta conclusione, dal carattere prioritario, consente qui di prescindere dalla valutazione processuale dell’art. 21-octies, comma 2, della stessa l. n. 241 del 1990, che impone al giudice di vagliare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto se le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2014 n. 1729 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione del fabbricato e ricostruzione.
Pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato, ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, non è sufficiente, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, e che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo.
Con il secondo motivo di censura, strettamente connesso al precedente, gli appellanti sostengono che, al caso di specie, possa applicarsi il principio dei cosiddetti "commoda" della prevenzione, secondo il quale, nei casi di demolizione ed immediata ricostruzione, il proprietario conserva il diritto di ricostruire con analoga ubicazione rispetto al confine.
Orbene, deve osservarsi che nelle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica quando gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, interessano un edificio nel quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile l’ordinaria ricostruzione, poi, allorché vengano meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, le citate componenti essenziali dell’edificio preesistente e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, sopratutto, senza aumenti di volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
Diversamente, in presenza di aumenti di volumetria, si verte in ipotesi di nuova costruzione, con i relativi effetti, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui esistenti, come previsto dagli strumenti urbanistici vigenti.
Resta ferma, peraltro, la possibilità che lo strumento urbanistico estenda, con una norma espressa, le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni anche alle ricostruzioni, ovvero, alle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario (cfr. Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n. 19287 del 2009).
Quanto evidenziato, non muta anche ove si abbia riguardo al disposto della legge n. 457 del 1978, invocata dal ricorrente, atteso che, in base all’articolo 31, comma 1, lett. d), costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato, ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, "non è sufficiente, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, e che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo" (cfr. Cass. n. 22688 del 2009).
Invero, in materia urbanistica, tra gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, anche alla luce del disposto dell’articolo 31 della legge 05.08.1978, n. 457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti precedenti con costruzioni completamente nuove, purché, per quanto rimaneggiato ed in parte ricostruito, come risultato finale l’edificio conservi la struttura e la funzionalità precedenti e non si tratti di un'opera nuova, sia strutturalmente che funzionalmente.
Conseguentemente, non può essere condiviso l'assunto degli appellanti che, nel caso di specie, con l'intervenuta ricostruzione dell'immobile si possano conservare i precedenti "commoda", perché la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.04.2014 n. 1653 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego condono edilizio per parere negativo dell’Ente Parco.
L’articolo 32, comma 43-bis, del decreto legge n. 269 del 2003 si è limitato a disporre che le istanze di condono, presentate in base alle prime due leggi del 1985 e del 1994, continuano a dover essere esaminate sulla base della normativa sostanziale anteriore (più favorevole) a quella (più restrittiva) contenuta nella legge n. 326 del 2003.
Il medesimo comma 43-bis non ha affatto inciso sui poteri delle autorità preposte alla tutela dei vincoli, imposti con legge o con atto amministrativo in un’area sulla quale è stato in precedenza commesso un abuso edilizio, né ha inciso sul loro dovere di valutare l’attuale compatibilità dei manufatti realizzati abusivamente con lo speciale regime di tutela del bene compendiato nel vincolo, con cui la disposizione di legge o l’atto amministrativo hanno imposto la immodificabilità dei luoghi e, dunque, la tendenziale insanabilità (relativa) degli abusi ancora esistenti.

Rilevato che la sentenza del Tar di cui in epigrafe –di accoglimento del ricorso proposto avverso il provvedimento comunale dell’08.01.2004, di diniego dell’istanza di condono relativa a un manufatto ubicato nel perimetro del Parco del Cilento (presentata il 16.01.1986), ed il presupposto parere negativo dell’Ente Parco del 23.12.2003–, sulla base di una lettura diacronica della legislazione in materia di ‘condono edilizio’, ha ritenuto inapplicabile alla fattispecie oggetto di causa l’art. 32 della legge n. 47 del 1985 (nel testo risultante dalla modifica introdotta dal comma 43 dell’art. 32 del decreto legge n. 296 del 2003), nella parte in cui tale disposizione impone, anche in caso di vincoli sopravvenuti all’intervento edilizio abusivo, l’acquisizione del parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, nel procedimento di sanatoria del titolo edilizio;
Ritenuta la fondatezza dell’appello proposto dall’Amministrazione soccombente avverso tale statuizione –con cui è devoluta in appello la questione di principio attinente alla compatibilità dell’abuso eseguito con la zona protetta (Parco del Cilento) in relazione al vincolo sopravvenuto ed all’esatta incidenza dell’art. 32, comma 43-bis, del decreto legge n. 269 del 2003 (c.d. terzo condono) sulle leggi di condono anteriori n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994–, in quanto, secondo ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato:
- nel caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione, l’autorità competente ad esaminare l’istanza di condono, riconducibile ai primi due condoni, deve acquisire il parere della autorità preposta alla tutela del ‘vincolo sopravvenuto’, la quale deve pronunciarsi tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi (Adunanza Plenaria, 22.07.1999, n. 20);
- il richiamato art. 32, comma 43-bis, si è limitato a disporre che le istanze di condono, presentate in base alle prime due leggi del 1985 e del 1994, continuano a dover essere esaminate sulla base della normativa sostanziale anteriore (più favorevole) a quella (più restrittiva) contenuta nella legge n. 326 del 2003;
- sarebbe, invece, stata palesemente incostituzionale (per contrasto con gli artt. 3, 9 e 117, secondo comma, Cost.) una disposizione statale che avesse inteso porre nel nulla i poteri consultivi delle autorità preposte alla tutela del vincolo, il cui esercizio –come nel caso di specie– fosse stato a lungo impedito dall’inerzia degli enti locali;
- il medesimo comma 43-bis non ha affatto inciso sui poteri delle autorità preposte alla tutela dei vincoli, imposti con legge o con atto amministrativo in un’area sulla quale è stato in precedenza commesso un abuso edilizio, né ha inciso sul loro dovere di valutare l’attuale compatibilità dei manufatti realizzati abusivamente con lo speciale regime di tutela del bene compendiato nel vincolo, con cui la disposizione di legge o l’atto amministrativo hanno imposto la immodificabilità dei luoghi e, dunque, la tendenziale insanabilità (relativa) degli abusi ancora esistenti (v. Cons. di Stato, Sez. VI, n. 231 del 2014, n. 5274 del 2013, n. 4660 del 2013, n. 3015 del 2013, n. 2367 del 2013) (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.04.2014 n. 2308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività alberghiera e destinazione turistica e commerciale.
L’esercizio dell’attività alberghiera viene solitamente accorpata concettualmente con la destinazione turistica e commerciale, sicchè sotto un tale aspetto non può negarsi un primo elemento di affinità con una destinazione del piano di fabbricazione, quella artigianale, che consente depositi commerciali , cioè manufatti comunque connessi ad attività di commercio.
Gli alberghi vanno compresi ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, del DPR 20/10/1988 n. 447 e s.m.i. negli impianti produttivi e precisamente quelli di produzione di beni e servizi, ivi inclusi quelli relativi ad attività artigianali e commerciali, turistiche ed alberghiere. Dunque sotto un profilo per così dire strutturale l’esistenza di un albergo in zona artigianale non può dirsi estranea al detto contesto urbanistico.

Passando poi all’argomentazione addotta a fondamento del disposto annullamento in autotutela di cui al suindicato sub 2), il punto fondamentale della quaestio iuris su cui s’incentra la controversa vicenda è di verificare se l’ubicazione dell’albergo come derivata dalla rilasciata concessione in variante sia compatibile con la destinazione urbanistica impressa dagli strumenti di pianificazione del territorio comunale ( come sostenuto dall’appellante) oppure si ponga in contrasto con la prevista zonizzazione (come sostenuto dal Comune e avallato dal Tar).
Dunque, la progettata struttura alberghiera viene ad insistere su area per la quale, per una parte le prescrizioni recate dal Piano di insediamenti produttivi (P.I.P.) prevedono la destinazione a verde pubblico attrezzato e per altra parte in zona D-Artigianale del vigente P.d F.
In particolare, come peraltro sottolinea il primo giudice il Piano di Fabbricazione prevede l’edificazione di depositi agricoli e commerciali e piccole industrie manifatturiere e artigianali, mentre non è consentita l’edificazione a scopo residenziale: di qui, sempre secondo il Tar, la inammissibilità d’un manufatto siffatto (l’albergo) con le destinazioni consentite nella zona artigianale del Pd F di Miglionico.
Ora, per il primo aspetto, occorre rilevare come i vincoli di destinazione recati dal P.I.P. sono venuti meno per intervenuta inefficacia temporale delle previsioni del Piano di insediamenti produttivi, restando così travolti i vincoli di destinazione ivi apposti, compreso quello di verde attrezzato che gravava sull’area de qua e che, in quanto non più vigente non può più essere validamente opposto
Rimangono quindi le previsioni recate dal P d. F., relative alla destinazione impressa alla pozione di territorio in cui si inserisce l’area de qua, specificatamente quelle che connotano la zona a destinazione artigianale: ebbene, tale zonizzazione ad avviso del Collegio non appare preclusiva per il progettato (e realizzato) albergo ove si proceda a leggere ed interpretare il regime urbanistico ivi previsto alla luce della normativa di carattere generale dettata in subjecta materia in relazione a quella di dettaglio prevista in loco e dei principi giurisprudenziali pure affermati sul punto.
Ed invero, va tenuto in primo luogo conto che l’esercizio dell’attività alberghiera viene solitamente accorpata concettualmente con la destinazione turistica e commerciale (Cons. Stato Sez. IV 04/08/2000 n. 4302) sicché sotto un tale aspetto non può negarsi un primo elemento di affinità con una destinazione del piano di fabbricazione, quella artigianale, che consente depositi commerciali , cioè manufatti comunque connessi ad attività di commercio.
Decisiva però si rivela l’osservazione secondo cui gli alberghi vanno compresi ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, del DPR 20/10/1988 n. 447 come aggiunto dall’art.1 del DPR 07/12/2000 n. 440 negli impianti produttivi e precisamente quelli di produzione di beni e servizi, ivi inclusi quelli relativi ad attività artigianali e commerciali, turistiche ed alberghiere (Cons. Stato Sez. IV 07/08/2003 n.4658): dunque esiste una formale consacrazione a livello normativo, confermata , quanto al profilo esegetico, da un preciso orientamento giurisprudenziale, che equipara tout court una struttura alberghiera ad un impianto produttivo-artigianale, sicché sotto un profilo per così dire strutturale l’esistenza di un albergo in zona artigianale non po’ dirsi estranea al detto contesto urbanistico.
Con specifico riferimento poi alla fattispecie, in base alle previsioni del vigente P.d. F. è pacifico che nella zona artigianale sono consentite espressamente piccole industrie manifatturiere artigianali, di talché anche in relazione al criterio di interpretazione logico- letterale delle previsioni all’uopo recate dal P d F, in dette aree potrebbe trovare collocazione la realizzazione di un albergo che consta di sole dieci stanze e che perciò stesso può farsi rientrare in quelle piccole industrie manifatturiere che la disciplina urbanistica comunale ha inteso espressamente consentire nella zona in cui è situata l’area in discussione.
In definitiva deve ritenersi non sussistere una situazione di non compatibilità tra l’albergo a suo tempo autorizzato e realizzato e la previsione di zona artigianale recata dal P.d.F. in relazione all’area interessata a detto insediamento, il che sta a significare che l’annullamento disposto in autotutela e il conseguente provvedimento che dispone la rimessa in pristino dello stato dei luoghi per l’albergo in questione si basano su erronei presupposti di fatto e di diritto, perciò stesso non idonei a supportare le determinazioni di carattere negativo assunte nei confronti dell’appellante Società e che perciò stesso vanno annullate (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.04.2014 n. 1592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e buona fede dell’acquirente.
Non può essere utilmente invocata una presunta buona fede degli istanti, i quali sono tutti aventi causa dal frazionamento “in prima battuta”, e non terzi che hanno acquistato da altri soggetti che fossero stati i primi beneficiari dello stesso.
Al riguardo occorre precisare che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi terzi estranei all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri d’informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione.

8. Quanto all’ultimo motivo di tutti gli appelli qui riuniti, anche questo è privo di pregio, non potendo essere utilmente invocata una presunta buona fede degli istanti, i quali –giova sottolinearlo– sono tutti aventi causa dal frazionamento “in prima battuta”, e non terzi che hanno acquistato da altri soggetti che fossero stati i primi beneficiari dello stesso.
Al riguardo, va innanzi tutto richiamata la giurisprudenza penale che, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi terzi estranei all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione (cfr. Cass. pen., sez. III, 13.02.2014, nr. 2646; id., 03.12.2013, nr. 51710; id., 27.04.2011, nr. 21853).
Per converso, dal punto di vista amministrativo, un condivisibile indirizzo di primo grado assume che è irrilevante l’asserita buona fede degli acquirenti, i quali in ipotesi facciano risalire la responsabilità della lottizzazione abusiva esclusivamente ai loro danti causa, trattandosi di una situazione in cui rileva, dal punto di vista urbanistico, la sussistenza di un abuso oggettivo, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti di buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell’alienante.
Quanto sopra rende giustizia anche degli principi in materia di sanzioni amministrative di cui alla legge 24.11.1981, nr. 689, evocati dalle parti odierne appellanti, dal momento che –anche ammesso che nella specie si controverta di sanzioni riconducibili a detta disciplina- quanto rilevato in ordine alla responsabilità penale per lottizzazione abusiva non può non valere, stante l’identità di ratio, anche per gli eventuali illeciti amministrativi ravvisabili nelle medesime condotte
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.04.2014 n. 1589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Se l’intento lottizzatorio è desumibile anche solo da elementi esteriori alle caratteristiche fisiche dei lotti ricavati dal frazionamento, ne discende necessariamente che il complesso di elementi indiziari idoneo e sufficiente a individuare la lottizzazione abusiva non presuppone necessariamente un’attività edificatoria già in itinere su ciascuna porzione di suolo, ben potendo esservene anche solo su talune di esse (beninteso, in sinergia con altri e diversi elementi sintomatici dell’intento di sottrarre il terreno alla sua destinazione urbanistica).
Ma a questo punto, non essendo smentito neanche dagli odierni appellanti che su altri lotti derivati dal medesimo frazionamento siano state realizzate opere abusive, il problema diventa quello di verificare quale sia la soglia minima degli elementi indiziari sulla base dei quali l’Amministrazione, ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380 (e in precedenza dell’art. 18 della legge 25.02.1985, nr. 47), può ritenere la sussistenza di una lottizzazione abusiva: se, in particolare, per sostenere che il frazionamento di un suolo sia strumentale a un intento edificatorio sia necessario verificare la presenza di opere edili, o quanto meno di un loro principio di esecuzione, su ciascuno dei lotti ricavati dalla suddivisione.
Che la risposta a quest’ultimo interrogativo sia negativa si evince già solo dalla circostanza –opportunamente evidenziata dal primo giudice– che il legislatore abbia costruito l’illecito de quo anche come condotta meramente “cartolare” o negoziale, oltre che come attività materiale; in altri termini, se l’intento lottizzatorio è desumibile anche solo da elementi esteriori alle caratteristiche fisiche dei lotti ricavati dal frazionamento, ne discende necessariamente che il complesso di elementi indiziari idoneo e sufficiente a individuare la lottizzazione abusiva non presuppone necessariamente un’attività edificatoria già in itinere su ciascuna porzione di suolo, ben potendo esservene anche solo su talune di esse (beninteso, in sinergia con altri e diversi elementi sintomatici dell’intento di sottrarre il terreno alla sua destinazione urbanistica).
Dai rilievi appena svolti emerge l’infondatezza anche del secondo e del terzo mezzo, con i quali gli appellanti sostengono l’insussistenza nella specie di sufficienti elementi indiziari idonei a sostenere la sussistenza di una lottizzazione abusiva, intesa sia in senso “materiale” che in senso “cartolare”.
Più specificamente, sono del tutto inconferenti gli argomenti spesi col secondo motivo degli appelli in ordine ai tempi e alle modalità delle operazioni di divisione e vendita del suolo, essendo evidente dalle emergenze documentali più sopra richiamate che nel caso che occupa l’Amministrazione ha inteso contestare una lottizzazione materiale, e non meramente negoziale.
Sotto tale profilo, il complesso degli elementi indiziari che si è sopra richiamato, corrispondendo a quelli che comunemente sono gli indici rivelatori di una suddivisione operata a scopo edificatorio, appare idoneo a rendere non manifestamente infondate né irragionevoli le conclusioni cui il Comune è pervenuto: discendendone, pertanto, l’infondatezza del terzo motivo di gravame.
In particolare, non si rinviene alcun elemento che corrobori l’assunto degli appellanti secondo cui l’acquisto dei lotti era strumentale, nelle loro intenzioni, a recuperarne la vocazione originaria attraverso l’installazione di nuove aziende agricole; al riguardo, è sufficiente evidenziare che neanche la perizia di parte prodotta in giudizio smentisce il dato rilevato dall’Amministrazione, secondo cui nel 2002 –e, quindi, a distanza di molti anni dall’acquisto dei lotti da parte degli odierni istanti– i terreni erano ancora totalmente incolti
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.04.2014 n. 1589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità diniego installazione di un impianto tecnologico (interrato) di cogenerazione a servizio dell’albergo.
Si tratta di un impianto tecnologico a servizio dell’edificio principale e non comporta modificazione dei volumi e delle superfici delle singole unità immobiliari o delle destinazioni d’uso, non potendosi considerare volume urbanisticamente rilevante un volume completamente interrato.
Al più potrebbe rientrare negli interventi di risanamento conservativo, ugualmente ammissibili ai sensi dell’art. 31 della l. n. 457 del 1978, atteso che gli interventi di restauro e risanamento conservativo di cui all’articolo 31, comprendono “l’allestimento e l’adeguamento di servizi tecnologici e degli impianti tecnici richiesti dalle esigenze dell’uso”.

3.1- L’impianto di cui trattasi, quale definito nella relazione tecnica presentata dalla società a corredo dell’istanza di autorizzazione, riguarda la sostituzione del vecchio impianto di riscaldamento con un nuovo impianto di cogenerazione che consente di risparmiare energia primaria, salvaguardare l’ambiente, diminuire le emissioni di CO2 e diminuire i costi di energia elettrica.
Il progetto prevede la sistemazione dell’impianto in un volume tecnico interrato di metri quadrati 62 da realizzare nel terreno di proprietà della società pertinenziale all’albergo, contrassegnato in catasto con il mappale n. 274.
L’intervento, in quanto relativo ad impianto tecnologico, come correttamente evidenziato dal TAR, è ascrivibile agli interventi di manutenzione straordinaria, che ai sensi dell’art. 31 della l. n. 457 del 1978 comprendono anche la realizzazione e l’integrazione dei servizi tecnologici.
Trattasi, peraltro, di intervento compatibile con il vincolo paesaggistico, essendo stato autorizzato dalla Regione Liguria (la Regione Liguria, alla quale era stata chiesta l’autorizzazione paesaggistica, riconosceva che “l’intervento è tale da non compromettere gli equilibri ambientali della zona interessata in quanto la soluzione progettuale prospettata ne definisce adeguatamente le caratteristiche tipologiche–compositive sia in relazione alle situazioni esistenti nell’immediato contorno che in rapporto ai valori di insieme del quadro paesaggistico nel quale l’intervento si colloca”), nel mentre la Soprintendenza dei beni culturali non ha esercitato il potere di annullamento di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999.
4.- Assume il Comune di Santa Margherita Ligure che l’impianto non può essere considerato di manutenzione straordinaria ai sensi dell’art. 31 della l. n. 457 del 1978 e, pertanto, non può essere insediato nell’area interessata, caratterizzata da un vincolo di strumento urbanistico generale decaduto, nel quale in base alla l. regionale n. 30 del 1992, articoli 1 e 2 non sono consentiti nuovi interventi ma solo opere di manutenzione ordinaria e straordinaria.
L’assunto del Comune non può essere condiviso.
Come correttamente rilevato dal TAR, l’impianto di cui trattasi è un impianto tecnologico a servizio dell’edificio principale e non comporta modificazione dei volumi e delle superfici delle singole unità immobiliari o delle destinazioni d’uso, non potendosi considerare volume urbanisticamente rilevante un volume completamente interrato.
Al più potrebbe rientrare negli interventi di risanamento conservativo, ugualmente ammissibili ai sensi dell’art. 31 della l. n. 457 del 1978, atteso che gli interventi di restauro e risanamento conservativo di cui al citato articolo 31, comprendono “l’allestimento e l’adeguamento di servizi tecnologici e degli impianti tecnici richiesti dalle esigenze dell’uso”.
Si tratta quindi di opera che può essere realizzata anche nelle aree a vincolo decaduto.
4.1- Peraltro la decadenza del vincolo non è ostativa ad interventi conformi alle previsioni di piano, ove il proprietario non opponga la decadenza del vincolo, essendo interesse del soggetto privato e non già dell’amministrazione comunale opporre l’avvenuta decadenza di destinazioni di piano regolatore comportanti l’inedificabilità assoluta delle aree o destinazioni di natura vincolistica.
Sta di fatto che, in base alle previsioni c.d. decadute di piano, l’area era destinata a servizi pubblici di quartiere, disciplinata dall’art. 45 delle NA del PRG che ammette anche l’incremento volumetrico fino al 30% della preesistenza per conseguire miglioramenti funzionali o qualitativi del complesso edilizio preesistente, sicché la doglianza dell’amministrazione comunale risulta, invero, incomprensibile, senza considerare, poi, che la natura dell’opera, che ha quale effetto immediato la riduzione dei consumi di energia elettrica in misura considerevole e, quindi, l’interesse pubblico in senso ampio dell’intervento, ne consentirebbero comunque l’autorizzazione in deroga alla destinazione di piano (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.03.2014 n. 1544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Norme sanzionatorie riferite non all’autore ma al responsabile dell’abuso.
Le norme sanzionatorie relative alle opere abusivamente eseguite in area demaniale si riferiscono, non all’autore, ma al responsabile dell’abuso, tale dovendo intendersi non solo lo stesso esecutore materiale, ma anche il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per disporne, al momento dell’emissione della misura repressiva (e quindi, per quanto qui interessa, il concessionario, per opere eseguite su suolo demaniale).
L’Amministrazione è tenuta a sanzionare in qualsiasi momento l’esecuzione di opere senza titolo, che hanno carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio (non anche sotto il profilo della responsabilità penale) corrisponde un’esigenza di rimessa in pristino, da far valere appunto nei confronti dei soggetti che abbiano la proprietà o comunque la disponibilità del bene, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi, nei confronti degli esecutori materiali delle opere, sulla base dei rapporti interni intercorsi.

Ugualmente infondata risulta l’ulteriore censura, riferita all’assenza di responsabilità del medesimo appellante per la realizzazione degli abusi edilizi contestati.
Le norme sanzionatorie si riferiscono, infatti, non all’”autore”, ma al “responsabile” dell’abuso, tale dovendo intendersi non solo lo stesso esecutore materiale, ma anche il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per disporne, al momento dell’emissione della misura repressiva (e quindi, per quanto qui interessa, il concessionario, per opere eseguite su suolo demaniale); quanto sopra, essendo l’Amministrazione tenuta a sanzionare in qualsiasi momento l’esecuzione di opere senza titolo, che hanno carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio (non anche sotto il profilo della responsabilità penale) corrisponde un’esigenza di rimessa in pristino, da far valere appunto nei confronti dei soggetti che abbiano la proprietà o comunque la disponibilità del bene, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi, nei confronti degli esecutori materiali delle opere, sulla base dei rapporti interni intercorsi (cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. V, 08.06.1994, n. 614 e Consiglio Giust. Amm. Sic. 29.07.1992, n. 229) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.03.2014 n. 1517 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. SRB illegittimità obbligo conferma della validità dell’autorizzazione posseduta alla data di entrata in vigore del regolamento comunale.
Esula dai poteri riconosciuti dall’art. 8, comma 6, della l. n. 36/2001 ai Comuni la potestà di aggravare, senza che ve ne siano le specifiche ragioni da tale legge previste, il procedimento finalizzato al rilascio dei titoli abilitativi contemplati dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche, onerando gli operatori, di nuove e/o periodiche procedure di “conferma” di titoli già validi ed efficaci, ai sensi della normativa nazionale, sotto comminatoria di decadenza, dato che tale potestà non si può mai tradurre nel potere di sospendere la efficacia e validità dei titoli abilitativi formati e di incidere, come appunto accade nel caso di specie, sul procedimento di formazione della d.i.a. presentata per l’ammodernamento tecnologico dell’impianto, così introducendo un’inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile.
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La potestà assegnata ai Comuni dall’art. 8, comma 6, della legge quadro n. 36/2001 (che prevede la possibilità che i Comuni adottino un regolamento c.d. di minimizzazione finalizzato a garantire "il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e a minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici") deve tradursi nell’introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di particolare pregio ambientale, paesaggistico o storico-artistico (ovvero, per ciò che riguarda la minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, nell’individuazione di siti che per destinazione d’uso e qualità degli utenti possano essere considerati sensibili alle immissioni radioelettriche), senza trasformarsi in limitazioni alla localizzazione degli impianti di telefonia mobile per intere ed estese porzioni del territorio comunale, in assenza di una plausibile ragione giustificativa.
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L’autorizzazione, di cui all’art. 87 del d.lgs. 259/2003, non costituisce atto che presuppone o è presupposto a quello richiesto dal testo unico in materia edilizia, ma assorbe in sé e sintetizza, all’esito del procedimento previsto dallo stesso art. 87, anche la valutazione urbanistico-edilizia che presiede al titolo, facendo salve le sole disposizioni, non rilevanti nel caso all’esame, del D.Lgs. n. 42/2004.
Laddove infatti il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire, ma ad abbinarsi a quello edilizio ordinario, verrebbero di fatto vanificati i principi ispiratori del Codice delle Comunicazioni Elettroniche e, in particolare, quelli della previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione e della riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti nonché della regolazione uniforme dei medesimi.
Deve insomma escludersi, in applicazione degli ordinari principi in materia di gerarchia delle fonti, che i regolamenti comunali possano derogare al modulo procedimentale previsto in materia dalla legge, ispirato alla ratio di semplificazione e di concentrazione al suo interno di tutte le relative valutazioni di carattere urbanistico-edilizio ed igienico-sanitario.

15.1. È anzitutto evidente che il Regolamento comunale abbia imposto agli operatori e, in particolare, ad H3G s.p.a. un ingiustificato aggravio procedimentale, richiedendo la “conferma” dei titoli autorizzatori già rilasciati, addirittura a pena di decadenza dei titoli stessi, con una previsione che è contraria alla ratio di semplificazione e di speditezza, che informa l’intera disciplina dettata dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche in questa materia; aggravio che appare tanto più irragionevole e penalizzante, nel caso di specie, quanto più si consideri che H3G s.p.a., già dotata di regolare autorizzazione, aveva richiesto solo l’ammodernamento tecnologico del proprio impianto ai sensi dell’art. 87-bis del d.lgs. n. 259/2003.
15.2. Esula invero dai poteri riconosciuti dall’art. 8, comma 6, della l. n. 36/2001 ai Comuni la potestà di aggravare, senza che ve ne siano le specifiche ragioni da tale legge previste, il procedimento finalizzato al rilascio dei titoli abilitativi contemplati dal Codice delle Comunicazioni Eletrtroniche, onerando gli operatori, come nel caso di specie, di nuove e/o periodiche procedure di “conferma” di titoli già validi ed efficaci, ai sensi della normativa nazionale, sotto comminatoria di decadenza, dato che tale potestà non si può mai tradurre nel potere di sospendere la efficacia e validità dei titoli abilitativi formati e di incidere, come appunto accade nel caso di specie, sul procedimento di formazione della d.i.a. presentata per l’ammodernamento tecnologico dell’impianto, così introducendo un’inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 15.06.2011, n. 3646).
15.3. Vero è che la Sezione non ha mancato di ribadire, nella sua costante giurisprudenza e ancor di recente, che il favor assicurato, soprattutto dagli artt. 86 ss. del d.lgs. 259/2003, alla diffusione delle infrastrutture a rete della comunicazione elettronica, se comporta una forte compressione dei poteri urbanistici conformativi ordinariamente spettanti ai Comuni, non arriva a derogare alle discipline poste a tutela degli interessi differenziati (in quanto espressione di principi fondamentali della Costituzione), come quello naturalistico-ambientale.
15.4. Ma questa stessa Sezione ha anche chiaramente precisato, nel solco della giurisprudenza costituzionale (cfr., tra le altre, Corte cost. n. 331/2003, n. 307/2003 e n. 336/2005 ), che la potestà assegnata ai Comuni dall’art. 8, comma 6, della legge quadro n. 36/2001 (che prevede la possibilità che i Comuni adottino un regolamento c.d. di minimizzazione finalizzato a garantire "il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e a minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici") deve tradursi nell’introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di particolare pregio ambientale, paesaggistico o storico-artistico (ovvero, per ciò che riguarda la minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, nell’individuazione di siti che per destinazione d’uso e qualità degli utenti possano essere considerati sensibili alle immissioni radioelettriche), senza trasformarsi in limitazioni alla localizzazione degli impianti di telefonia mobile per intere ed estese porzioni del territorio comunale, in assenza di una plausibile ragione giustificativa (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1873).
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16.3. Il Collegio non può al riguardo che ribadire, anche in questa sede, il consolidato orientamento di questo Consiglio, secondo cui l’autorizzazione, di cui all’art. 87 del d.lgs. 259/2003, non costituisce atto che presuppone o è presupposto a quello richiesto dal testo unico in materia edilizia, ma assorbe in sé e sintetizza, all’esito del procedimento previsto dallo stesso art. 87, anche la valutazione urbanistico-edilizia che presiede al titolo, facendo salve le sole disposizioni, non rilevanti nel caso all’esame, del D.Lgs. n. 42/2004.
16.4. Laddove infatti il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire, ma ad abbinarsi a quello edilizio ordinario, verrebbero di fatto vanificati i principi ispiratori del Codice delle Comunicazioni Elettroniche e, in particolare, quelli della previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione e della riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti nonché della regolazione uniforme dei medesimi (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 12.01.2011, n. 98).
Deve insomma escludersi, in applicazione degli ordinari principi in materia di gerarchia delle fonti, che i regolamenti comunali possano derogare al modulo procedimentale previsto in materia dalla legge, ispirato alla ratio di semplificazione e di concentrazione al suo interno di tutte le relative valutazioni di carattere urbanistico-edilizio ed igienico-sanitario.
16.5. Ne deriva, quindi, l’illegittimità del provvedimento di diniego anche nella parte in cui, in pretesa applicazione dell’art. 22 del d.P.R. 380/2001, ha richiesto ad H3G s.p.a. il nominativo dell’impresa commissionaria degli interventi, aggiungendo indebitamente requisiti ulteriori rispetto a quelli esclusivamente richiesti, in subiecta materia, dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche e dal modello B da esso previsto, sicché l’impugnata sentenza, anche laddove ha ritenuto legittima tale richiesta, ha fatto erronea applicazione del d.P.R. 380/2001 in tale materia, sì da non poter essere condivisa e meritare quindi riforma
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.03.2014 n. 1361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esclusione riduzione fascia di rispetto cimiteriale per interessi privati.
Per consolidata giurisprudenza, il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quarto comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un’area a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della fascia di rispetto, pertanto, è dunque, in ogni caso, soltanto quello finalizzato agli interventi di cui all’art. 338, settimo comma, del citato r.d. n. 1265 del 1934 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico –per i motivi anzidetti– la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione.

Quanto al secondo ordine di censure, riferito alla richiesta declaratoria dell’obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di un privato, avente ad oggetto la riduzione della fascia di rispetto cimiteriale, il Collegio deve porsi d’ufficio la questione di ammissibilità del gravame, in rapporto al principio del ne bis in idem, mutuato dai canoni comuni di cui agli articoli 2909 Cod. civ. e 324 Cod. proc. civ., che escludono una nuova pronuncia del giudice in materia coperta da giudicato fra le medesime parti (cfr., per l’applicabilità del principio nel processo amministrativo, Cons. Stato, IV, 28.10.2013, n. 5197; VI, 03.07.2013, n. 3553).
Risulta infatti che, con sentenza del medesimo Tribunale amministrativo 13.12.2012, n. 3020, la legittimità delle ordinanze di rimessa in pristino nn. 110 e 77 del 2011 fosse stata ravvisata anche in rapporto all’insussistenza dell’obbligo di provvedere dell’Amministrazione in merito all’istanza di riduzione della fascia di rispetto cimiteriale, proposta dall’interessato. Il fatto che il principio enunciato attenesse ad un’azione di annullamento e non di accertamento non esclude di ritenere qui presente e vincolante il cosiddetto giudicato sostanziale, formatosi sulla questione interpretativa anzidetta fra le medesime parti e nell’ambito della medesima vicenda edificatoria, vale a dire circa l’insussistenza di quel medesimo interesse pretensivo.
In presenza di non perfetta identità di petitum e causa petendi rispetto all’oggetto della citata sentenza n. 3020/2012, tuttavia, il Collegio ritiene preferibile vagliare il merito dell’accertamento richiesto.
Questo non può che concludersi in senso sfavorevole per l’appellante.
Il silenzio-rifiuto disciplinato dall’ordinamento, infatti, è riconducibile a un’inadempienza dell’Amministrazione in rapporto ad un sussistente obbligo di provvedere (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 10.03.1978, n. 10). Un tale obbligo può discendere dalla legge, da un regolamento o eventualmente da un atto di autolimitazione dell’Amministrazione stessa, e in ogni caso deve corrispondere ad una situazione soggettiva protetta, qualificata come tale dall’ordinamento (cfr. art. 21-bis l. 06.12.1971, n. 1034, nel testo introdotto dall’art. 2 l. 21.07.2000, n. 205, nonché, per il principio Cons. Stato, IV, 04.09.1985, n. 333 e 6 febbraio 1995, n. 51; V, 06.06.1996, n. 681 e 15.09.1997, n. 980).
La fattispecie del silenzio produttivo di effetti giuridici, come mera inerzia dei pubblici poteri contrastante con i principi di buon andamento, trasparenza, pubblicità e tempestività dell’azione amministrativa, è rapportabile a fattispecie anche diverse da procedure su istanza di parte, essendo ipotizzabili lesioni di interessi protetti (di tipo sia oppositivo che pretensivo), connesse a omissioni dell’Amministrazione in ordine all’emanazione di atti dovuti (es. Cons. Stato, VI, 19.03.2008, n. 1188; IV, 07.07.2008, n. 3384).
I principi acquisiti in tema di illegittimità del silenzio dell’amministrazione non paiono però rapportabili alla pretesa di un privato di riduzione della fascia di rispetto cimiteriale a norma dell’art. 338, quarto comma, r.d. 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) sul vincolo di inedificabilità per fascia di rispetto cimiteriale, secondo cui “Il Consiglio Comunale può approvare, previo parere favorevole delle competete azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari
”.
La norma riportata ha carattere derogatorio ed eccezionale rispetto alla regola enunciata al primo comma secondo cui “I cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E’ vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici[…]”.
Per consolidata giurisprudenza, il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quarto comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un’area a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (cfr. Cass., I, 23.06.2004, n. 11669; Cons. Stato., II, 07.03.1990, parere n. 1109; Cons. Stato, IV, 11.10.2006, n. 6064; V, 02.04.1991, n. 379, 29.03.2006, n. 1593; 03.05.2007, n. 1934 e 14.09.2010, n. 6671).
A parte ogni ulteriore considerazione di base circa la discrezionalità sul se provvedere, il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della fascia di rispetto, pertanto, è dunque, in ogni caso, soltanto quello finalizzato agli interventi di cui all’art. 338, settimo comma, del citato r.d. n. 1265 del 1934 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico –per i motivi anzidetti– la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.03.2014 n. 1317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Comune dove sarà collocato impianto di trattamento di rifiuti solidi urbani, legittimità impugnazione provvedimento autorizzativo.
Non vi è ragione per discostarsi dal prevalente e condivisibile indirizzo giurisprudenziale che riconosce la legittimazione dei comuni, nei cui territori sono destinati ad essere collocati impianti di trattamento di rifiuti solidi urbani, ad impugnare i provvedimenti di approvazione dei relativi progetti, sia in quanto incidenti sulle destinazioni di zona e sulle caratteristiche del territori, sia quali enti esponenziali della collettività che risiedono nell’ambiente comunale, perché, per un verso, la tutela dell’ambiente assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore di diversi beni della vita che nell’ambiente si collocano e, per altro verso, l’ambiente è un bene pubblico non suscettibile di appropriazione individuale, indivisibile, non attribuibile, unitario e multiforme.
Né la legittimazione può essere subordinata alla prova puntuale della concreta pericolosità dell’impianto, essendo sufficiente una ragionevole prospettazione di temute ripercussioni sul territorio comunale collocato nelle immediate vicinanze dell’impianto da realizzare.

6.2. Passando all’esame del merito, la Sezione osserva che non è meritevole di favorevole accoglimento il primo motivo di gravame, con il quale, lamentando “Errore nel giudicare: inammissibilità del ricorso dei Comuni di Cesano Maderno, Limbiate e Bovisio Masciago per difetto di legittimazione ad agire”, la Regione Lombardia ha sostenuto che quelle amministrazioni non avevano provato il concreto ed effettivo pregiudizio che sarebbe loro derivato dalla realizzazione dell’impianto in argomento e quindi la loro stessa legittimazione a ricorrere, non essendo a tal fine sufficiente la sola circostanza che l’impianto ricadesse nel loro territorio (circostanza che peraltro neppure ricorreva quanto ai Comuni di Limbiate e di Bovisio Msciago), tanto più che esse non erano titolari di competenze primarie per la cura degli interessi pubblici rilevanti nel procedimento di valutazione di impatto ambientale (spettanti invero al Parco delle Groane), mentre le censure sollevate dal Comune di Cesano Maderno non erano neppure direttamente inerenti agli interessi sottesi alla valutazione di impatto ambientale, ma solo alla compatibilità urbanistica dell’impianto da realizzare.
6.2.1. In realtà, anche a voler tacere del fatto che l’eventuale accoglimento di tale censura non inciderebbe sulla (non contestata) legittimazione della Provincia di Monza e Brianza (subentrata alla Provincia di Milano, originaria ricorrente), così che potrebbe addivenirsi ad una pronuncia di totale inammissibilità del ricorso di primo grado (e di conseguente definitiva legittimità del provvedimento impugnato in primo grado, cui aspira la società appellante), non vi è ragione per discostarsi dal prevalente ( e condivisibile) indirizzo giurisprudenziale che riconosce la legittimazione dei comuni, nei cui territori sono destinati ad essere collocati impianti di trattamento di rifiuti solidi urbani, ad impugnare i provvedimenti di approvazione dei relativi progetti, sia in quanto incidenti sulle destinazioni di zona e sulle caratteristiche del territorio (Cons. Stato, sez. V, 28.11.2008, n. 5910), sia quali enti esponenziali della collettività che risiedono nell’ambiente comunale, perché, per un verso, la tutela dell’ambiente assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore di diversi beni della vita che nell’ambiente si collocano e, per altro verso, l’ambiente è un bene pubblico non suscettibile di appropriazione individuale, indivisibile, non attribuibile, unitario e multiforme (Cons. Stato, sez. V, 30.06.2011, n. 3921).
Né la legittimazione può essere subordinata alla prova puntuale della concreta pericolosità dell’impianto, essendo sufficiente una (ragionevole) prospettazione di temute ripercussioni sul territorio comunale collocato nelle immediate vicinanze dell’impianto da realizzare (Cons. Stato, sez. V, 16.09.2001, n. 5193; sez. VI, 05.12.2001, n. 6657).
Tali principi (ribaditi anche recentemente, Cons. Stato, sez. V, 10.07.2012, n. 4068; sez. IV, 17.09.2012, n. 4926)) ben si attagliano al caso in esame, in cui viene in rilievo un progetto di ampliamento di un impianto di depurazione di acque reflue industriali già esistente (mediante la realizzazione della sezione fisico–chimica per il trattamento di rifiuti pericolosi e non pericolosi), come tale astrattamente idoneo ad incidere, secondo l’id quod plerumque accidit, sul contesto ambientale in cui si colloca e a pregiudicare (potenzialmente) il territorio (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.03.2014 n. 1058 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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