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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di AGOSTO 2014

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aggiornamento al 27.08.2014

aggiornamento al 20.08.2014

aggiornamento al 13.08.2014

aggiornamento al 05.08.2014

aggiornamento all'01.08.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.08.2014

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Le dotazioni standard di parcheggi si applicano anche agli interventi di ristrutturazione.
Per risalente giurisprudenza, formatasi sull’art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150, le disposizioni che riguardano le dotazioni standard di parcheggi si applicano anche agli interventi di ristrutturazione, quantunque le stesse disposizioni parlino di nuova costruzione.
Secondo questa giurisprudenza, infatti, il concetto di “nuova costruzione” riguarda non solo la realizzazione di manufatti su aree libere, ma anche ogni intervento di ristrutturazione che renda il fabbricato oggettivamente diverso da quello preesistente, determinando un differente e più gravoso carico urbanistico.

Effettivamente, come rileva l’interessata, il recupero dei sottotetti costituisce intervento di ristrutturazione edilizia; e in ciò in base all’esplicito disposto di cui all’art. 3, comma 3, della l.r. 15.07.1996 n. 15, recante “Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti” (oggi non più in vigore ma applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis), in base al quale “gli interventi di cui alla presente legge sono classificati come ristrutturazioni ai sensi dell'art. 31, comma 1, lett. d), della legge 05.08.1978, n. 457…”.
Va tuttavia rilevato che per risalente giurisprudenza, formatasi sull’art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150, le disposizioni che riguardano le dotazioni standard di parcheggi si applicano anche agli interventi di ristrutturazione, quantunque le stesse disposizioni parlino di “nuova costruzione”. Secondo questa giurisprudenza, infatti, ai fini che qui interessano, il concetto di “nuova costruzione” riguarda non solo la realizzazione di manufatti su aree libere, ma anche ogni intervento di ristrutturazione che renda il fabbricato oggettivamente diverso da quello preesistente, determinando un differente e più gravoso carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27.09.2004, n. 6297; id., 03.02.1999 n. 98; id., 22.06.1998, n. 921; TAR Lombardia-Milano, sez. II, 03.03.2006, n. 571).
Ne consegue che l’art. 19 della NTA del PRG del Comune di Meda (quantunque tale norma faccia riferimento alle “nuove costruzioni”, richiamando in proposito proprio la diposizione di cui all’art. 41-sexies della legge n. 1150/1942), va applicato anche agli interventi di ristrutturazione.
La ricorrente soggiunge tuttavia che, anche volendo ritenere che le disposizioni in materia di parcheggi siano applicabili agli interventi di ristrutturazione, in ogni caso le stesse, in ragione della norma derogatoria contenuta nell’art. 3, comma 3, della l.r. n. 15/1996, non sarebbero applicabili al caso specifico afferente al recupero dei sottotetti.
Al riguardo si deve osservare che in base a tale norma “il recupero dei sottotetti è ammesso anche in deroga (…) agli indici o parametri urbanistici ed edilizi previsti dagli strumenti urbanistici generali vigenti ed adottati”.
La disposizione, espressione della volontà del legislatore regionale di favorire il recupero a fini abitativi dei sottotetti degli edifici esistenti, con l'obiettivo di contenere il consumo di nuovo territorio e di favorire la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici (cfr. art. 1, comma 1, della l.r. n. 15/1996), è molto chiara nel sottrarre tale attività edilizia dal rispetto degli indici e parametri contenuti negli strumenti urbanistici.
Si deve pertanto ritenere che essa comporti anche lo svincolo dall’osservanza dei parametri dettati dal Piano Regolatore in materia di parcheggi privati, perlomeno quando, come nel caso in esame, tali parametri non trovino fondamento normativo ma siano prescritti dal Piano stesso in eccedenza rispetto a quelli generali stabiliti dall’art. 41-sexies della legge n. 1150/1942.
A suffragio di tale conclusione, può altresì addursi che solo con la l.r. 11.03.2005 n. 12, è stato escluso dalla suddetta deroga l’obbligo di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali nella misura prevista dagli strumenti di pianificazione comunale (cfr. artt. 64, commi 2 e 3, e 65, comma 1-ter, della l.r. n. 12/2005, come modificati dall’art. 1 della l.r. 27.12.2005 n. 20); che le disposizioni recate dalla l.r. n. 12/2005 hanno carattere innovativo rispetto alla previgente disciplina (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 22.03.2007 n. 1408); e che, pertanto, prima dell’entrata in vigore di tali norme, l’eccezione alla deroga non era operante
Nel caso concreto (non disciplinato, ratione temporis, dalla l.r. n. 12/2005, ma dalla l.r. n. 15/1996) il Comune di Meda ha contestato all’interessata la mancata osservanza dei parametri aggiuntivi stabiliti dall’art. 19, comma III, delle NTA, il quale, come visto, attribuisce all’Amministrazione la facoltà di imporre la realizzazione di dotazioni di parcheggio esterne alla recinzione del fabbricato, in aggiunta a quelle standard di cui al citato art. 41-sexies della legge n. 1150/1942.
Tali prescrizioni delle NTA, tuttavia, per le ragioni illustrate, non potevano applicarsi al caso di specie. Ne consegue che anche questo motivo è fondato
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.04.2013 n. 892 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che il concetto di “nuova costruzione” di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 riguarda non solo la realizzazione di un manufatto su un’area libera, ma anche ogni intervento di ristrutturazione che rende un manufatto oggettivamente diverso da quello preesistente, in ragione dell’entità delle modifiche, tenendo presente che l’oggettiva diversità del manufatto, come emerge dall’art. 8 della l. n. 47/1985, si ha per il solo fatto del sussistere di un mutamento della destinazione d’uso implicante la variazione degli standard.
Con il primo motivo di ricorso viene dedotta l’illegittimità del diniego impugnato perché, al contrario di quanto sostenuto dal Comune, alla fattispecie in esame non sarebbe applicabile la disciplina posta in materia di parcheggi dalla l. n. 122/1989.
In particolare, l’art. 2 della l. n. 122 cit., nel modificare il testo dell’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942, imporrebbe una dotazione minima di aree destinate a parcheggio (in misura non inferiore a mq. 1 per ogni 10 mc. di costruzione) solo per le nuove costruzioni, ossia per le costruzioni successive all’entrata in vigore della predetta l. n. 122/1989.
Tale disciplina non riguarderebbe, pertanto, l’immobile per cui è stata richiesta la sanatoria, trattandosi di edificio risalente agli anni Venti del Novecento.
La censura non è condivisibile.
Sul punto, infatti, in disparte l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa comunale per avere la ricorrente stessa richiesto di soddisfare il fabbisogno di parcheggi indotto dalla destinazione commerciale impressa all’edificio utilizzando il cortile interno di questo, deve ritenersi infondata l’asserzione contenuta nel ricorso circa l’inapplicabilità al caso di specie della disciplina in tema di parcheggi di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942.
Ed infatti, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di “nuova costruzione” di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 riguarda non solo la realizzazione di un manufatto su un’area libera, ma anche ogni intervento di ristrutturazione che rende un manufatto oggettivamente diverso da quello preesistente, in ragione dell’entità delle modifiche, tenendo presente che l’oggettiva diversità del manufatto, come emerge dall’art. 8 della l. n. 47/1985, si ha per il solo fatto del sussistere di un mutamento della destinazione d’uso implicante la variazione degli standard (C.d.S., Sez. V, 03.02.1999, n. 98; idem, 22.06.1998, n. 921; TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 27.11.2000, n. 940).
Tanto premesso, ritiene il Collegio che nell’ora visto concetto di “nuova costruzione” ex art. 41-sexies cit. vada ricompreso anche l’immobile per cui è causa. Ed infatti, per quest’ultimo si deve ritenere intervenuto al tempo del contratto di locazione con la Villa Belvedere S.r.l., cioè nel 1997 –dunque in epoca successiva all’entrata in vigore della l. n. 122/1989– quel mutamento di destinazione d’uso (da residenziale a commerciale) implicante la variazione degli standard che si è appena visto essere il criterio che consente di qualificare l’intervento appunto come una “nuova costruzione”.
Ne segue che nella fattispecie in esame debbono senz’altro applicarsi i criteri in materia di parcheggi di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,  sentenza 03.03.2006 n. 571).

EDILIZIA PRIVATA: Pur dovendosi condividere l’orientamento espresso dalla Sezione nell’invocato precedente, che identifica il concetto di «nuova costruzione» di cui all'art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150 con ogni intervento di ristrutturazione che rende il fabbricato (o una sua porzione) oggettivamente diverso da quello preesistente, in considerazione dell'entità delle modifiche e del mutamento della destinazione di uso cui esse sono finalizzate, occorre anche rilevare che non tutte le modificazioni della destinazione d’uso comportano, per ciò stesso, la variazione per eccesso degli standard.
Se dunque, nel caso deciso con il citato precedente giurisprudenziale (trasformazione di un capannone industriale in immobile destinato a residenza, ad uffici o ad attività commerciali), alla necessità della concessione si accompagna anche l’altrettanto necessaria rideterminazione degli standard, è anche evidente che tale rideterminazione non si rende necessaria allorché il mutamento d’uso riguardi una porzione dell’edificio già ab origine gravato dalla riserva (per esserne stata autorizzata la realizzazione in vigenza della normativa che l’impone), e le modificazioni non siano tali che comportare, per i profili urbanistici, esigenze eccedenti quelle derivanti dalla originaria destinazione.

Pretestuosa è infine la censura di violazione dell’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, modificato dalla L. n. 122 del 1989 e successive modificazioni di eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria, sollevata con il ricorso introduttivo con riferimento al mancato accertamento in ordine alla sussistenza di apposito spazio da destinare a parcheggio.
E’ appena il caso di ricordare che l’edificio cui inerisce la porzione di fabbricato di cui è stato concesso il mutamento di destinazione d’uso è stato realizzato compiutamente sulla base di licenza edilizia del 24.04.1968, allorché, dunque, era già operativo il disposto dell'art. 18 della legge n. 765 del 1967 (che ha aggiunto l'art. 41-sexies alla L. 17.08.1942, n. 1150), in forza del quale "nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione".
Ne consegue che il locale a piano terra, originariamente destinato a negozio (e costituente pertanto, per i fini che interessano) costituisce una porzione che (sebbene destinata al terziario piuttosto che ad abitazione) è stata fatta oggetto di computo ai fini della riserva a parcheggio delle aree cui era già condizionata, la tempo, la licenza di costruzione.
Pur dovendosi condividere l’orientamento espresso dalla Sezione nell’invocato precedente (Sez. V, n. 98 del 03.02.1999), che identifica il concetto di «nuova costruzione» di cui all'art. 41-sexies L. 17.08.1942 n. 1150 con ogni intervento di ristrutturazione che rende il fabbricato (o una sua porzione) oggettivamente diverso da quello preesistente, in considerazione dell'entità delle modifiche e del mutamento della destinazione di uso cui esse sono finalizzate, occorre anche rilevare che non tutte le modificazioni della destinazione d’uso comportano, per ciò stesso, la variazione per eccesso degli standard.
Se dunque, nel caso deciso con il citato precedente giurisprudenziale (trasformazione di un capannone industriale in immobile destinato a residenza, ad uffici o ad attività commerciali), alla necessità della concessione si accompagna anche l’altrettanto necessaria rideterminazione degli standard, è anche evidente che tale rideterminazione non si rende necessaria allorché il mutamento d’uso riguardi una porzione dell’edificio già ab origine gravato dalla riserva (per esserne stata autorizzata la realizzazione in vigenza della normativa che l’impone), e le modificazioni non siano tali che comportare, per i profili urbanistici, esigenze eccedenti quelle derivanti dalla originaria destinazione.
Orbene, da nessuna parte risulta prescritto che dal computo della percentuale di riserva, di cui al più volte citato art,. 41-sexies, dovesse essere scorporata la quota del piano terra destinato a negozi, cosicché la destinazione ad abitazione, piuttosto che a negozio della porzione considerata è del tutto indifferente ai fini del computo prescritto dalla norma citata, con conseguente mancanza di fondamento della esaminata censura (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.09.2004 n. 6297).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’ormai abrogata l.r. n. 15/1996, gli interventi edilizi finalizzati al recupero dei sottotetti potevano comportare l'apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi per assicurare l'osservanza dei requisiti di aeroilluminazione; nonché, ove lo strumento urbanistico generale comunale vigente risultasse approvato dopo l'entrata in vigore della legge reg. 15.04.1975 n. 51, modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde, purché nei limiti di altezza massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico ed unicamente al fine di assicurare i parametri di altezza media prescritti dalla legge regionale (art. 2).
Da ciò derivava, pertanto, che le modifiche di altezza e volumetria, ai sensi della citata normativa regionale, potevano ritenersi ammissibili solo laddove strettamente necessarie a rendere abitabili i predetti volumi, con conseguente esclusione di quelle trasformazioni, che si sostanziassero nella creazione di nuove volumetrie, che venissero in qualsiasi modo ad eludere (o, meglio, ad eccedere) lo scopo unico, cui il legislatore regionale aveva funzionalizzato le modifiche medesime.
Siffatte trasformazioni potevano avvenire, come s'è visto, in déroga ad ogni previsione urbanistica comunale, comprese, quindi, quelle in tema di limiti quantitativi di natura volumetrica.
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La nuova l.r. n. 12/2005 ridefinisce ex novo la disciplina in argomento (del recupero dei sottotetti) con i seguenti tratti fondamentali:
   - scompare la definizione aprioristica di qualunque intervento sui sottotetti come intervento di ristrutturazione, sì che l’intervento proposto sarà di volta in volta da qualificarsi sulla base delle “definizioni degli interventi edilizi” recate dall’art. 27 della legge ed il titolo abilitativo necessario sarà quello previsto dagli artt. 33 e 41 in stretta relazione con la operata qualificazione;
   - scompare la possibilità di eseguire dette trasformazioni in deroga ad indici e parametri stabiliti dagli strumenti urbanistici comunali (ed in particolare dalle rispettive norme tecniche di attuazione), sì che sarà in relazione alle previsioni di questi ultimi (circa la tipologia di interventi ammissibili in ciascuna zona, circa le possibili limitazioni nell’àmbito di una determinata tipologia, circa le definizioni di volume e circa le modalità di computo della volumetria, circa gli indici di edificabilità, ecc.) che un intervento siffatto potrà essere assentito o meno;
   - rimane la sola deroga alle “condizioni di abitabilità previste dai regolamenti vigenti” (art. 63, commi 5 e 6), rappresentata da una “altezza media ponderale di m 2,40, ulteriormente ridotta a m 2,10 per i comuni posti a quote superiori a m 1000 di altitudine sul livello del mare, calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi m 1,50 per la superficie relativa”;
   - rimane la possibilità che detti interventi comportino “modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde” (salvo il perdurante impedimento rappresentato dai “limiti di altezza massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico”), nonché “l'apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi” (art. 64), ma ciò, si badi, non è previsto che avvenga in deroga alle prescrizioni di piano, sì che la norma pare indirizzata più al momento della pianificazione che a quello del rilascio o acquisizione del titolo abilitativo, che non potrebbe che adeguarsi a diverse prescrizioni di piano (salva, ovviamente, l’impugnabilità di queste ultime per contrasto con la legge regionale in caso di diniego di permesso di costruire sulle stesse fondato o di accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione di altro titolo abilitativo sempre sulle stesse basato).
Se ne può nel complesso dedurre che l'evidente ratio perseguita dal Legislatore regionale del 1996 (quella di favorire la creazione di nuove residenze attraverso il razionale recupero dei sottotetti e di evitare per tale via un ulteriore consumo di nuovo territorio altrimenti necessario per la soddisfazione dei bisogni delle famiglie) viene sì condivisa dal primo intervento legislativo del 2005, ma in un’ottica e con una disciplina più restrittiva, che si concretizza nella espunzione di quelle norme, che prima consentivano la realizzabilità degli interventi in questione in déroga agli indici o parametri urbanistici ed edilizi.
Espunzione, questa, che, a differenza di quanto ritenuto dal Giudice di primo grado (che ne ricava argomento per sostenere la persistenza implicita della previsione derogatoria), non svuota affatto la portata delle norme del Capo in argomento, le quali pur sempre fanno salva, come s’è visto, la déroga alle norme edilizie ed igieniche relative alle altezze interne degli alloggi ricavati nel sottotetto, pur sempre dettano prescrizioni per la pianificazione comunale circa l’apertura di luci e terrazzi vòlti ad assicurare i requisiti di aeroilluminazione, pur sempre, infine, mirano a limitare il disordine urbanistico e l’elusione di quelle disposizioni, che valgono a salvaguardare un corretto vivere cittadino (finalità chiara nella portata del comma 3 dell’art. 63 laddove stabilisce che “ai sensi di quanto disposto dagli articoli 36, comma 2 e 44, comma 2, il recupero volumetrico di cui al comma 2 può essere consentito solo nel caso in cui gli edifici interessati siano serviti da tutte le urbanizzazioni primarie, ovvero in presenza di impegno, da parte dei soggetti interessati, alla realizzazione delle suddette urbanizzazioni, contemporaneamente alla realizzazione dell'intervento ed entro la fine dei relativi lavori”).
Nell’ottica del legislatore della legge regionale n. 12/2005 (nella sua primigenia versione applicabile ratione temporis alla fattispecie) la controversa possibilità di déroga non può dunque assolutamente riguardare lo sviluppo dell’edificio in termini di superficie e/o di volumetria, altezze e/o distacchi; e ciò al fine di non sacrificare oltre misura gli interessi della collettività con l’aggravamento incontrollato di equilibri urbanistici spesso delicati.
A tal proposito, alle affermazioni del TAR circa la superfluità di una previsione espressa di derogabilità degli indicati indici in sede di realizzazione degli interventi in questione e circa il carattere implicito di una tale previsione, valga opporre che un siffatto argomentare pare suscettibile di comportare lo stravolgimento dei principi e delle regole essenziali per una corretta e razionale gestione del territorio comunale e, in fin dei conti, lo stesso esautoramento dei poteri pianificatòri, che l’ordinamento urbanistico demanda, in via concorrente, all’Autorità regionale ed a quella comunale, dal momento che non consente al Comune, pur in assenza di una espressa previsione della ridetta derogabilità, di opporre proprie valutazioni circa la compatibilità concreta degli interventi di recupero in argomento con le esigenze, sottese alle relative norme, di tutela ambientale, urbanistica ed edilizia.
Trattasi, invero, di valutazioni dovute:
- nel sistema della legge statale, per effetto dell'art. 4, comma 1, della legge n. 10 del 1977, il quale stabiliva che la concessione edilizia può essere rilasciata esclusivamente per gli interventi conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi (v., oggi, l’art. 20, comma 3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380); dell’art. 41-quater della legge urbanistica (v. oggi l’art. 14 del D.P.R. n. 380/2001), recante il principio per cui le concessioni in deroga possono essere rilasciate esclusivamente per la costruzione di edifici pubblici o d'interesse pubblico; dell’art. 15 della legge n. 47 del 1985, a tenore del quale le varianti in corso d'opera, che possono essere richieste prima dell'ultimazione dei lavori, devono essere conformi agli strumenti urbanistici e non devono comportare modifiche della sagoma, né delle superfici utili; dell’art. 22, comma 1, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui “sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi … che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”;
- nel sistema della legislazione regionale all’esame, in virtù del disposto dell’art. 36, comma 1, della l.r. n. 12/2005 (che stabilisce che “il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti di pianificazione, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigenti”) e dell’art. 42, comma 1, primo periodo della stessa legge (che prevede che “il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti di pianificazione vigenti ed adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”), a fronte dei quali la disciplina dettata dagli artt. 63, 64 e 65 della stessa legge per il recupero di cui trattasi, lungi dal potersi considerare, come erroneamente ritenuto dal TAR, esaustiva ed in se completa, si appalesa come meramente integrativa e correttiva di quella generale, sì che la mancata previsione, nel suo ristretto ambito, della detta valutazione di compatibilità urbanistica non può affatto condurre alla esclusione dell’applicabilità ad esso del disposto del veduto art. 36.
Si deve dunque concludere, in mancanza di una previsione esplicita di derogabilità, che la valutazione di compatibilità dell’intervento edilizio in questione va effettuata, alla luce della menzionata disciplina generale recata dalla stessa legge regionale n. 12/2005, con riguardo alla disciplina urbanistica vigente, salve le ipotesi derogatorie ivi espressamente dettate.
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La legge regionale n. 12/2005, frutto com’è di nuove discrezionali valutazioni poste in essere dal legislatore regionale nella materia de qua, ha in realtà sul punto all’esame carattere radicalmente innovativo rispetto alle previsioni della precedente legge che va a modificare, sì che essa, lungi dal chiarire il significato delle disposizioni previgenti (v., sul carattere della legge interpretativa, l’ormai risalente sentenza Corte cost. n. 118 del 1957) e dunque lungi dal potersi qualificare come legge di interpretazione, non fa altro che confermare che l’interesse dei Comuni a tutelare l’assetto urbanistico del territorio e la densità in queste degli edifici anche in relazione agli interventi de quibus può recedere solo in presenza di espresse previsioni normative, in assenza delle quali nessuna ipotesi di déroga alle norme dei piani regolatori generali e dei regolamenti edilizi locali può considerarsi “implicita” o comunque esistente per effetto di disinvolte interpretazioni estensive di ambiti derogatòri, in quanto tali assolutamente tassativi.

Ciò posto, le articolate prospettazioni sul punto svolte dall'appellante sono da condividersi, alla stregua delle argomentazioni già svolte sulla questione dalla Sezione con sentenza 21.12.2006, n. 7770, dalle quali non v’è qui motivo per discostarsi.
Ai sensi della legge della regione Lombardia n. 15 del 1996 (art. 3 ) il recupero del sottotetto a fini abitativi era qualificato come intervento di ristrutturazione, a norma dell'art. 31, comma 1, lett. d), della legge 05.08.1978, n. 457; la stessa norma, al comma 3, stabiliva che "il recupero dei sottotetti è ammesso anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni di cui agli artt. 14, 17 19 e 22 della L.R. 15.04.1975, n. 51 «Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e paesistico» e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in deroga agli indici o parametri urbanistici ed edilizi previsti dagli strumenti urbanistici generali vigenti ed adottati".
Il recupero volumetrico a scopo residenziale del piano sottotetto in base alla citata legge regionale non poteva prescindere dall'esistenza dell'edificio e del sottotetto medesimo (da intendersi come vero e proprio volume preesistente) e doveva avvenire nel rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie e di abitabilità previste dai regolamenti vigenti, salvo quanto disposto dal comma 6 dell'art. 1 della legge medesima ("il recupero abitativo dei sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l'altezza media ponderale di m 2,40, ulteriormente ridotta a m 2,10 per i comuni posti a quote superiori a m 1000 di altitudine sul livello del mare, calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi m 1,50 per la superficie relativa").
Gli interventi edilizi finalizzati al recupero dei sottotetti potevano comportare l'apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi per assicurare l'osservanza dei requisiti di aeroilluminazione; nonché, ove lo strumento urbanistico generale comunale vigente risultasse approvato dopo l'entrata in vigore della legge reg. 15.04.1975 n. 51, modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde, purché nei limiti di altezza massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico ed unicamente al fine di assicurare i parametri di altezza media prescritti dalla legge regionale (art. 2).
Da ciò derivava, pertanto, che le modifiche di altezza e volumetria, ai sensi della citata normativa regionale, potevano ritenersi ammissibili solo laddove strettamente necessarie a rendere abitabili i predetti volumi, con conseguente esclusione di quelle trasformazioni, che si sostanziassero nella creazione di nuove volumetrie, che venissero in qualsiasi modo ad eludere (o, meglio, ad eccedere) lo scopo unico, cui il legislatore regionale aveva funzionalizzato le modifiche medesime (Cons. St., IV, 30.05.2005, n. 2767).
Siffatte trasformazioni potevano avvenire, come s'è visto, in déroga ad ogni previsione urbanistica comunale, comprese, quindi, quelle in tema di limiti quantitativi di natura volumetrica.
Tale essendo il quadro risultante dall’ormai abrogata legge regionale n. 15/1996 e dagli interventi giurisprudenziali e legislativi ad essa successivi (si ricordi che tale legge è stata successivamente modificata dalla legge regionale n. 18/1997 e dalla legge regionale n. 22/1999, oltre che fatta oggetto di interpretazione autentica con l.r. n. 18/2002, tutte abrogate dall’art. 104 della citata legge n. 12/2005), il Capo I del Titolo IV della nuova legge regionale n. 12/2005 (che, dedicato alle “Attività edilizie specifiche”, disciplina, oltre ai cambi d’uso, ai parcheggi, all’attività edilizia nelle aree agricole ed alla realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate ai servizi religiosi, il recupero dei sottotetti), ribaditi il principio generale del “favor” per il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti (commi 1 e 2 dell’art. 63) e la definizione di sottotetto esistente come volume soprastante l’ultimo piano degli edifici “esistente al momento della presentazione della domanda di permesso di costruire ovvero della denuncia di inizio attività” (commi 2 e 4 dell’art. 63), ridefinisce ex novo la disciplina in argomento con i seguenti tratti fondamentali:
- scompare la definizione aprioristica di qualunque intervento sui sottotetti come intervento di ristrutturazione, sì che l’intervento proposto sarà di volta in volta da qualificarsi sulla base delle “definizioni degli interventi edilizi” recate dall’art. 27 della legge ed il titolo abilitativo necessario sarà quello previsto dagli artt. 33 e 41 in stretta relazione con la operata qualificazione;
- scompare la possibilità di eseguire dette trasformazioni in deroga ad indici e parametri stabiliti dagli strumenti urbanistici comunali (ed in particolare dalle rispettive norme tecniche di attuazione), sì che sarà in relazione alle previsioni di questi ultimi (circa la tipologia di interventi ammissibili in ciascuna zona, circa le possibili limitazioni nell’àmbito di una determinata tipologia, circa le definizioni di volume e circa le modalità di computo della volumetria, circa gli indici di edificabilità, ecc.) che un intervento siffatto potrà essere assentito o meno;
- rimane la sola deroga alle “condizioni di abitabilità previste dai regolamenti vigenti” (art. 63, commi 5 e 6), rappresentata da una “altezza media ponderale di m 2,40, ulteriormente ridotta a m 2,10 per i comuni posti a quote superiori a m 1000 di altitudine sul livello del mare, calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi m 1,50 per la superficie relativa”;
- rimane la possibilità che detti interventi comportino “modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde” (salvo il perdurante impedimento rappresentato dai “limiti di altezza massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico”), nonché “l'apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi” (art. 64), ma ciò, si badi, non è previsto che avvenga in deroga alle prescrizioni di piano, sì che la norma pare indirizzata più al momento della pianificazione che a quello del rilascio o acquisizione del titolo abilitativo, che non potrebbe che adeguarsi a diverse prescrizioni di piano (salva, ovviamente, l’impugnabilità di queste ultime per contrasto con la legge regionale in caso di diniego di permesso di costruire sulle stesse fondato o di accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione di altro titolo abilitativo sempre sulle stesse basato).
Se ne può nel complesso dedurre che l'evidente ratio perseguita dal Legislatore regionale del 1996 (quella di favorire la creazione di nuove residenze attraverso il razionale recupero dei sottotetti e di evitare per tale via un ulteriore consumo di nuovo territorio altrimenti necessario per la soddisfazione dei bisogni delle famiglie) viene sì condivisa dal primo intervento legislativo del 2005, ma in un’ottica e con una disciplina più restrittiva, che si concretizza nella espunzione di quelle norme, che prima consentivano la realizzabilità degli interventi in questione in déroga agli indici o parametri urbanistici ed edilizi; espunzione, questa, che, a differenza di quanto ritenuto dal Giudice di primo grado (che ne ricava argomento per sostenere la persistenza implicita della previsione derogatoria), non svuota affatto la portata delle norme del Capo in argomento, le quali pur sempre fanno salva, come s’è visto, la déroga alle norme edilizie ed igieniche relative alle altezze interne degli alloggi ricavati nel sottotetto, pur sempre dettano prescrizioni per la pianificazione comunale circa l’apertura di luci e terrazzi vòlti ad assicurare i requisiti di aeroilluminazione, pur sempre, infine, mirano a limitare il disordine urbanistico e l’elusione di quelle disposizioni, che valgono a salvaguardare un corretto vivere cittadino (finalità chiara nella portata del comma 3 dell’art. 63 laddove stabilisce che “ai sensi di quanto disposto dagli articoli 36, comma 2 e 44, comma 2, il recupero volumetrico di cui al comma 2 può essere consentito solo nel caso in cui gli edifici interessati siano serviti da tutte le urbanizzazioni primarie, ovvero in presenza di impegno, da parte dei soggetti interessati, alla realizzazione delle suddette urbanizzazioni, contemporaneamente alla realizzazione dell'intervento ed entro la fine dei relativi lavori”).
Nell’ottica del legislatore della legge regionale n. 12/2005 (nella sua primigenia versione applicabile ratione temporis alla fattispecie) la controversa possibilità di déroga non può dunque assolutamente riguardare lo sviluppo dell’edificio in termini di superficie e/o di volumetria, altezze e/o distacchi; e ciò al fine di non sacrificare oltre misura gli interessi della collettività con l’aggravamento incontrollato di equilibri urbanistici spesso delicati.
A tal proposito, alle affermazioni del TAR circa la superfluità di una previsione espressa di derogabilità degli indicati indici in sede di realizzazione degli interventi in questione e circa il carattere implicito di una tale previsione, valga opporre che un siffatto argomentare pare suscettibile di comportare lo stravolgimento dei principi e delle regole essenziali per una corretta e razionale gestione del territorio comunale e, in fin dei conti, lo stesso esautoramento dei poteri pianificatòri, che l’ordinamento urbanistico demanda, in via concorrente, all’Autorità regionale ed a quella comunale (Cons. St., IV, 21.06.2005, n. 3243 e 14.04.2006, n. 2170), dal momento che non consente al Comune, pur in assenza di una espressa previsione della ridetta derogabilità, di opporre proprie valutazioni circa la compatibilità concreta degli interventi di recupero in argomento con le esigenze, sottese alle relative norme, di tutela ambientale, urbanistica ed edilizia.
Trattasi, invero, di valutazioni dovute:
- nel sistema della legge statale, per effetto dell'art. 4, comma 1, della legge n. 10 del 1977, il quale stabiliva che la concessione edilizia può essere rilasciata esclusivamente per gli interventi conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi (v., oggi, l’art. 20, comma 3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380); dell’art. 41-quater della legge urbanistica (v. oggi l’art. 14 del D.P.R. n. 380/2001), recante il principio per cui le concessioni in deroga possono essere rilasciate esclusivamente per la costruzione di edifici pubblici o d'interesse pubblico; dell’art. 15 della legge n. 47 del 1985, a tenore del quale le varianti in corso d'opera, che possono essere richieste prima dell'ultimazione dei lavori, devono essere conformi agli strumenti urbanistici e non devono comportare modifiche della sagoma, né delle superfici utili; dell’art. 22, comma 1, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui “sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi … che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”;
- nel sistema della legislazione regionale all’esame, in virtù del disposto dell’art. 36, comma 1, della l.r. n. 12/2005 (che stabilisce che “il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti di pianificazione, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigenti”) e dell’art. 42, comma 1, primo periodo della stessa legge (che prevede che “il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti di pianificazione vigenti ed adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”), a fronte dei quali la disciplina dettata dagli artt. 63, 64 e 65 della stessa legge per il recupero di cui trattasi, lungi dal potersi considerare, come erroneamente ritenuto dal TAR, esaustiva ed in se completa, si appalesa come meramente integrativa e correttiva di quella generale, sì che la mancata previsione, nel suo ristretto ambito, della detta valutazione di compatibilità urbanistica non può affatto condurre alla esclusione dell’applicabilità ad esso del disposto del veduto art. 36.
Si deve dunque concludere, in mancanza di una previsione esplicita di derogabilità, che la valutazione di compatibilità dell’intervento edilizio in questione va effettuata, alla luce della menzionata disciplina generale recata dalla stessa legge regionale n. 12/2005, con riguardo alla disciplina urbanistica vigente, salve le ipotesi derogatorie ivi espressamente dettate.
Né paiono poi corretti e pertinenti gli ulteriori argomenti posti dal TAR a fondamento della declaratoria di illegittimità del provvedimento oggetto del giudizio, che invece una tale valutazione ha operato:
- né, invero, quello secondo cui non “avrebbe ragion d’essere, nell’opposta ottica di inderogabilità degli indici di piano, la previsione dell’art. 65 (secondo cui le disposizioni del capo dedicato ai sottotetti non si applicano negli ambiti per i quali i comuni ne abbiano disposto l’esclusione ai sensi dell’art. 1, comma 7, legge regionale n. 15/1996)”, dal momento che le determinazioni in tal senso adottate dai Consigli Comunali si rivelano comunque utili, nel nuovo sistema disegnato dalla l.r. n. 12/2005, ad escludere l’operatività della veduta déroga, di cui al comma 6 dell’art. 63;
- né quello che fa riferimento al più recente intervento del legislatore regionale, che, con legge 27.12.2005, n. 20 (pubblicata nel BURL del 30.12.05, spl. ord. n. 52), ha novellato l’art. 64 della legge regionale n. 12/2005, disponendo, tra l’altro (comma 2), che “il recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti è classificato come ristrutturazione edilizia ai sensi dell’articolo 27, comma 1, lettera d)” e, inoltre, che “esso non richiede preliminare adozione ed approvazione di piano attuativo ed è ammesso anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale vigenti ed adottati, ad eccezione del reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali secondo quanto disposto dal comma 3”: giacché, invece, proprio tale successivo intervento legislativo, che ha espressamente reintrodotto le previsioni derogatorie eliminate dall’originaria legge n. 12/2005 peraltro apponendo nuove prescrizioni e condizioni alla operatività delle déroghe stesse, vale a segnare, in virtù del suo obiettivo contenuto, un netto elemento di discontinuità tra le previsioni della l.r. n. 15/1996, quelle della prima versione della l.r. n. 12/2005 e quelle risultanti dalla sua successiva revisione.
La legge regionale n. 12/2005, frutto com’è di nuove discrezionali valutazioni poste in essere dal legislatore regionale nella materia de qua, ha in realtà sul punto all’esame carattere radicalmente innovativo rispetto alle previsioni della precedente legge che va a modificare, sì che essa, lungi dal chiarire il significato delle disposizioni previgenti (v., sul carattere della legge interpretativa, l’ormai risalente sentenza Corte cost. n. 118 del 1957) e dunque lungi dal potersi qualificare come legge di interpretazione, non fa altro che confermare che l’interesse dei Comuni a tutelare l’assetto urbanistico del territorio e la densità in queste degli edifici anche in relazione agli interventi de quibus può recedere solo in presenza di espresse previsioni normative, in assenza delle quali nessuna ipotesi di déroga alle norme dei piani regolatori generali e dei regolamenti edilizi locali può considerarsi “implicita” o comunque esistente per effetto di disinvolte interpretazioni estensive di ambiti derogatòri, in quanto tali assolutamente tassativi (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.03.2007 n. 1408).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 23.08.2014 n. 195 "Regolamento per la definizione delle attribuzioni e delle modalità di organizzazione dell’Albo nazionale dei gestori ambientali, dei requisiti tecnici e finanziari delle imprese e dei responsabili tecnici, dei termini e delle modalità di iscrizione e dei relativi diritti annuali" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 03.06.2014 n. 120).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 20.08.2014 n. 192, suppl. ordinario n. 72/L, "Testo del decreto-legge 24.06.2014, n. 91, coordinato con la legge di conversione 11.08.2014, n. 116, recante: «Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea»".
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 1-bis. (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni)
Art. 8-bis. (Contributo per il recupero di pneumatici fuori uso)
Art. 9. (Interventi per l'efficientamento energetico degli edifici scolastici e universitari pubblici e della segnaletica stradale)
Art. 10. (Misure straordinarie per accelerare l'utilizzo delle risorse e l'esecuzione degli interventi urgenti e prioritari per la mitigazione del rischio idrogeologico nel territorio nazionale e per lo svolgimento delle indagini sui terreni della Regione Campania destinati all'agricoltura)
Art. 11. (Misure urgenti per la protezione di specie animali, il controllo delle specie alloctone e la difesa del mare, l'operatività del Parco nazionale delle Cinque Terre, la riduzione dell'inquinamento da sostanze ozono lesive contenute nei sistemi di protezione ad uso antincendio e da onde elettromagnetiche, nonché parametri di verifica per gli impianti termici civili)
Art. 12-bis. (Soppressione della Commissione prevista dal regolamento di cui al d.P.R. 18.11.1998, n. 459, in materia di inquinamento acustico derivante da traffico ferroviario)
Art. 13. (Procedure semplificate per le operazioni di bonifica o di messa in sicurezza e per il recupero di rifiuti anche radioattivi. Norme urgenti per gestione dei rifiuti militari e per la bonifica delle aree demaniali destinate ad uso esclusivo delle forze armate. Norme urgenti per gli scarichi in mare)
Art. 14. (Ordinanze contingibili e urgenti, poteri sostitutivi e modifiche urgenti per semplificare il sistema di tracciabilità dei rifiuti. Smaltimento rifiuti nella Regione Campania - Sentenza 04.03.2010 - C 27/2010)
Art. 15. (Disposizioni finalizzate al corretto recepimento della direttiva 2011/92/UE del 13.12.2011 in materia di valutazione di impatto ambientale. Procedura di infrazione 2009/2086 e procedura di infrazione 2013/2170)
Art. 30. (Semplificazione amministrativa e di regolazione a favore di interventi di efficienza energetica del sistema elettrico e impianti a fonti rinnovabili)
Art. 30-bis. (Interventi urgenti per la regolazione delle gare d’ambito per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale)

Art. 33. (Semplificazione e razionalizzazione dei controlli della Corte dei conti)
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Per una migliore comprensione della ratio sottesa ai vari articoli si leggano anche:
Dossier del Servizio Studi SENATO DELLA REPUBBLICA sull’A.S. n. 1541-B (agosto 2014)
Dossier CAMERA DEI DEPUTATI n. 209/2 (02.08.2014)

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Prerogative sindacali nelle pubbliche amministrazioni. Articolo 7 del decreto-legge 24.06.02014 n. 90, convertito con modificazioni dalla legge n. 114 dell'11.08.2014 (circolare 20.08.2014 n. 5/2014).

SINDACATI

ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: RIFORMA DELLA P.A. – ULTIME NEW (C.S.A. di Milano, 20.08.2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G. Buscema, Novità per il DURC: in arrivo il SIRCE (25.08.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: M. R. Gheido e A. Casotti,  Pubblico impiego, cosa cambia (19.08.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI: Contributi sempre garantiti. La Corte conti sugli amministratori locali.
L'amministratore locale, lavoratore autonomo, potrà ottenere il pagamento dei contributi previdenziali anche in assenza di una formale presentazione di sospensione dell'attività, se dimostra, con idonea documentazione, di non aver esercitato la libera professione, anche in maniera residuale rispetto all'esercizio del mandato politico.

È quanto chiarito dalla Corte dei conti per la regione Abruzzo (parere 08.08.2014 n. 145), in merito alle disposizioni contenute all'art. 86, comma 2, del Tuel.
Le recenti interpretazioni della magistratura contabile sul punto hanno escluso che a un amministratore locale, lavoratore dipendente, si possano versare da parte dell'ente locale presso cui esercita il mandato gli oneri contributivi e assistenziali, in assenza di una dichiarazione che attesti la sospensione dell'attività di lavoratore autonomo. Questo, per garantire parità di condizioni nei confronti dei lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, i quali per poter accedere al beneficio sopra evidenziato dovrebbero porsi in aspettativa.
Sul punto, rispondendo a un quesito del comune di Poggiofiorito (Ch), la Corte abruzzese ha ricordato che la ratio della norma consiste nel garantire al lavoratore, autonomo o dipendente, di porsi a esclusivo servizio della collettività in via esclusiva, senza possibilità di esercitare altre attività e rinunciando alle relative retribuzioni. Pertanto, prima di riconoscere all'amministratore il beneficio de quo, l'ente locale, in assenza della prevista dichiarazione di sospensione dell'attività da parte del soggetto, deve verificare la circostanza che lo stesso non abbia continuato a svolgere attività di lavoratore autonomo, anche in forma minima.
Verifica che si potrà concretizzare con l'acquisizione di documentazione attestante il requisito dell'esclusività a favore dell'ente locale, quale, per esempio, la notifica all'ente previdenziale di appartenenza della sospensione dell'attività e la presentazione di documentazione fiscale, ovvero delle dichiarazioni dei redditi, dalle quali si evinca l'assenza di redditi percepiti a seguito di svolgimento di lavoro autonomo (articolo ItaliaOggi del 22.08.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODanno all'immagine con «soglia minima». Corte dei conti. I paletti al risarcimento.
Il danno all'immagine della pubblica amministrazione è risarcibile quando la condotta del dipendente supera la "soglia minima" dell'offesa, ed è quindi altamente lesiva al l'immagine e determina una corale disapprovazione e sfiducia nell'amministrazione.
Così ha deciso la Corte dei conti (sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, sentenza 14.03.2014 n. 47), che ha stabilito importanti princìpi su questo risarcimento.
Il caso che ha dato origine a questa sentenza è singolare e può far sorridere. Un carabiniere, che era in servizio di vigilanza, ha interrotto il servizio, si è recato "in divisa" da un barbiere e si è fatto tagliare i capelli. Un passante lo ha visto, e ha segnalato questo fatto alla locale centrale operativa. Per questo comportamento, il carabiniere è stato condannato a un mese e dieci giorni di reclusione militare e a una sanzione disciplinare.
Ma è sorto il problema della violazione dell'immagine della pubblica amministrazione e del risarcimento di questo danno. Secondo la Corte dei conti il risarcimento del danno all'immagine può avvenire soltanto come conseguenza di uno dei reati previsti nel Capo I, Titolo II, Libro secondo, del Codice penale, accertato con sentenza irrevocabile di condanna.
Non si ha quindi risarcimento per la violazione di qualsiasi dovere di servizio. Inoltre l'entità del danno al l'immagine, come stabilito dal comma 1-sexies, articolo 1, legge 20/1994 si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale o di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente.
La Corte ha anche precisato che la condotta del dipendente deve superare una "soglia minima" di offensività. Questa condotta deve essere quindi gravemente lesiva dell'immagine pubblica, così da far sorgere un corale e persistente sentimento di sfiducia verso l'amministrazione, e da determinare la convinzione che i comportamenti patologici posti in essere siano usuali nella pubblica amministrazione. Il comportamento del Carabiniere non ha –a giudizio della Corte– superato la "soglia minima", perché si è trattato di un episodio, circoscritto anche nel tempo, e non vi è stata un'ampia notizia del fatto.
La sentenza è da condividere. In contrario agli argomenti della Corte si potrebbe obiettare che, anche se si è trattato di un unico episodio, non ha di certo giovato al prestigio del l'Arma il fatto che il carabiniere sia andato a farsi tagliare i capelli "in divisa". Ma l'obiezione non sarebbe persuasiva. Infatti, sia per questo fatto, sia –e specialmente– per avere interrotto il servizio, il carabiniere è stato condannato in sede penale e disciplinare.
Per il risarcimento del danno di immagine, la sentenza ha il pregio di avere puntualizzato la necessità del superamento della "soglia minima" dell'offesa all'immagine dell'amministrazione pubblica, tale da incrinare quel rapporto di fiducia che deve necessariamente unire i cittadini e l'amministrazione pubblica
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2014).

QUESITI & PARERI

TRIBUTI: Tassa rifiuti e box auto.
Domanda
Posso pretendere di non pagare la tassa per la raccolta dei rifiuti su un box auto chiuso in autorimessa condominiale in quanto non produttivo di rifiuti?
Risposta
Di recente, chiamata a decidere circa l'applicabilità o meno della tassa sulla raccolta dei rifiuti (Tarsu) a un box auto, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso del Comune (che nei primi due gradi di giudizio aveva avuto però torto da parte delle Commissioni tributarie provinciale di Catania e regionale della Sicilia) affermando che, a termini di legge, il presupposto della Tarsu è l'occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti e che non sono soggetti alla tassa i soli locali e aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in condizioni di obiettiva inutilizzabilità, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o in una denuncia presentata successivamente e debitamente riscontrate in base a elementi obiettivi direttamente rilevabili o idoneamente documentati (Cassazione, sentenze n. 11351/2012 e 17703/2004).
La Cassazione ha così concluso che la legge presume che locali e aree, in linea generale, producano rifiuti (di regola e per loro natura) e che se ciò non accade la prova deve essere fornita dal contribuente, ma non può essere presunta dal giudice (articolo ItaliaOggi Sette del 25.08.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: Consiglieri provinciali.
Domanda
Con la legge Del Rio, i consigli provinciali scadranno tutti a fine giugno. I consiglieri provinciali uscenti che hanno incarichi nei cda delle partecipate (aeroporti, aziende di trasporto ecc.) dovranno comunque lasciare, (anche in corso di mandato), l'incarico nel Cda, dal momento che tale incarico è strettamente connesso all'esercizio della loro funzione pubblica, istituzionale, di consigliere provinciale che viene a cessare?
Se tutto ciò non avvenisse, si manterrebbe in piedi un poltronificio che permetterebbe ai consiglieri provinciali, di uscire dalla porta principale e rientrare da quella di servizio?
Risposta
L'art. 63 del dlgs 267/2000 stabilisce l'incompatibilità tra la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale o circoscrizionale e «l'amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda soggetti a vigilanza in cui vi sia almeno il 20% di partecipazione rispettivamente da parte del comune o della provincia o che dagli stessi riceva, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il 10% del totale delle entrate dell'ente».

La norma evidenzia l'incompatibilità tra la funzione di vigilanza, che è attribuita e ai consiglieri degli enti locali, e la posizione degli amministratori di una società partecipata soggetta a vigilanza. A tal proposito la giurisprudenza ha consolidato l'interpretazione secondo la quale il concetto di «vigilanza» consiste nel potere-dovere di controllo che l'ente esercita nei confronti delle partecipate.
È importante, infine, sottolineare che l'articolo 7, comma 2, del dlgs 39/2013 vieta alle Province, ai Comuni con più di 15 mila abitanti e alle Unioni con la stessa dimensione, di attribuire incarichi di amministratore, in società o organismi sottoposti al loro controllo, a soggetti che siano stati, nei due anni precedenti, amministratori locali negli enti conferenti o, nell'anno prima, amministratori locali in una provincia, in un comune o un'unione con più di 15 mila abitanti appartenenti alla stessa regione dell'amministrazione locale che conferisce l'incarico (articolo ItaliaOggi Sette del 25.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA: OSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità pro tempore. All'assessore che sostituisce il sindaco. Le regole del trattamento introdotto dalla legge 56 del 2014.
La legge 07.04.014, n. 56, ha introdotto nuovamente per i comuni fino a 3 mila abitanti la presenza di due assessori. È possibile attribuire all'assessore nominato vicesindaco un'indennità nella misura del 15% rispetto a quella prevista per il sindaco? Possono essere rimborsate le spese sostenute dall'amministratore in questione per le missioni effettuate in nome e per conto dell'ente al di fuori del territorio comunale?

Il Ministero dell'interno, con le circolari del 4 e 24.04.2014, con le quali sono stati approfonditi alcuni aspetti applicativi della legge 07.04.2014, n. 56, nell'evidenziare che l'art. 1, comma 135, della citata legge ha modificato la composizione del numero dei membri delle giunte e dei consigli comunali negli enti fino a 10 mila abitanti, ha precisato che la figura del vicesindaco dovrà essere individuata nell'ambito dei due assessori previsti dalla richiamata normativa, che avranno diritto ad una indennità di carica parametrata a quella del sindaco.
In merito alle funzioni svolte dal vice sindaco il Consiglio di stato (sez. I, par. n. 501 del 14/6/2001) ha specificato che il vicesindaco, da un punto di vista funzionale «è il “vicario” del sindaco, cioè l'organo persona-fisica stabilmente destinato ad esercitare le funzioni del titolare in ogni caso di mancanza, assenza o impedimento» e, nel caso di rimozione, decadenza o decesso del sindaco, la sostituzione ha un carattere stabile, fino a nuove elezioni.
Alla luce delle nuove disposizioni, pertanto, all'assessore che sarà incaricato di sostituire il sindaco, spetterà, per il solo periodo in cui sarà designato ad esercitare le funzioni vicarie, l'indennità di funzione pari a quella spettante al sindaco, nonché i permessi relativi di cui all'art. 79 del decreto legislativo n. 267/2000.
L'art. 136 della citata legge 56/2014, inoltre, dispone, per i comuni interessati dalla disposizione di cui al comma precedente, la necessità di provvedere a rideterminare con propri atti oneri connessi con le attività in materia di status degli amministratori locali, tra cui anche il rimborso delle spese sostenute dal vicesindaco per le missioni effettuate in nome e per conto dell'Ente, al di fuori del territorio comunale, nonché spostamenti autorizzati dal sindaco o in forza della sua posizione di vicario dello stesso.
L'amministratore interessato, dovrà fare richiesta di tale rimborso all'ente di appartenenza, corredata da valida documentazione quali: fatture di spesa carburante, pedaggi autostradali, biglietti di viaggio, eventualmente in possesso (articolo ItaliaOggi del 22.08.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Gettoni di presenza.
È possibile erogare i gettoni di presenza ai componenti della conferenza dei capogruppo, tenuto conto che il regolamento del consiglio comunale equipara la conferenza dei capogruppo alle commissioni consiliari?

Gli articoli 77 e seguenti del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 dettano puntuali disposizioni in materia di indennità e permessi spettanti agli amministratori locali.
Laddove il legislatore ha voluto riconoscere determinati diritti ai membri delle conferenze dei capogruppo, ha espressamente disposto in tal senso, come nel caso dei permessi retribuiti disciplinati dall'art. 79, comma 3, del dlgs 18.08.2000, n. 267.
Poiché analoga previsione non è contemplata dall'art. 82, comma 2, del citato decreto legislativo deve ritenersi, sulla base anche dei principi di buon andamento e contenimento della spesa pubblica, che abbiano diritto alla corresponsione del gettone di presenza solo gli amministratori locali espressamente indicati nella norma medesima (articolo ItaliaOggi del 22.08.2014).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOPermessi e distacchi sindacali dimezzati.
Madia firma la circolare per la Pa: mille revoche, entro agosto le comunicazioni dei sindacati alle amministrazioni.

Scatterà dal 1° settembre il dimezzamento alle prerogative sindacali stabilito dal dl Madia. Entro il 31 agosto tutte le sigle dovranno comunicare alle amministrazioni la revoca dei distacchi «non più spettanti» (sono interessati circa mille lavoratori che quindi tra cinque giorni rientreranno negli uffici). Il taglio del 50%, finalizzato «alla razionalizzazione e alla riduzione della spesa pubblica», interesserà anche i permessi retribuiti. Ma non i permessi sindacali attribuiti alle Rsu (questo perché non sono attribuiti alle singole organizzazioni sindacali). E la riduzione prevista dal dl Madia non si applicherà anche «alle aspettative sindacali non retribuite, ai permessi non retribuiti e ai permessi per la partecipazione a riunioni sindacali su convocazione dell'amministrazione per il solo personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia (ciò in quanto per essi non è previsto alcun contingente).
La titolare di Palazzo Vidoni, Marianna Madia, ha reso nota ieri la circolare 20.08.2014 n. 5/2014 che attua la sforbiciata del 50% alle prerogative sindacali nelle pubbliche amministrazioni prevista dall'articolo 7 del dl 90. Per le forze di polizia ad ordinamento civile e per il corpo dei vigili del fuoco si prevede, in sostituzione della riduzione del 50%, che alle riunioni sindacali indette dall'amministrazione «possa partecipare un solo rappresentante per sigla sindacale».
Sul fronte dei distacchi (che nella Pa corrispondono a un'aspettativa retribuita con la sospensione dell'attività lavorativa) la circolare specifica che la riduzione «non si applica nell'ipotesi di attribuzione all'associazione sindacale di un solo distacco». Il contingente complessivo dei distacchi, rideterminato in virtù dell'articolo 7 del dl Madia, potrà essere nuovamente ripartito tra le sigle sindacali con le relative procedure contrattuali e negoziali. In tale ambito, specifica la nota di Palazzo Vidoni, sarà possibile definire, «con invarianza di spesa», forme di utilizzo compensativo tra distacchi e permessi sindacali.
Il distacco revocato dà diritto al rientro al lavoro (il posto viene infatti accantonato). Si può tuttavia far domanda per essere trasferiti in altra sede della propria amministrazione quando si dimostri di aver svolto attività sindacale e di aver tenuto il domicilio nell'ultimo anno nella sede di richiesta ovvero in altra amministrazione anche di diverso comparto della stessa sede. Una sorta di mobilità, anche interdipartimentale, che va comunque applicata, spiega la Funzione pubblica, «nel rispetto dei principi ai quali si ispira questa disciplina con particolare riferimento ai requisiti e alle competenze professionali richiesti per il trasferimento».
Nel solo comparto Scuola per il triennio 2013-2015 sono stati autorizzati 681 distacchi (in 340 torneranno quindi nelle scuole), con un risparmio di oltre 10 milioni annui (nel caso dei docenti si eviteranno le nomine dei supplenti).
La riduzione del 50% si applica anche al monte ore complessivo dei permessi sindacali retribuiti. Nell'anno corrente, sottolinea Palazzo Vidoni, il taglio verrà effettuato secondo il metodo del calcolo «pro-rata». Vale a dire: dal 01.01.2014 al 31 agosto il contingente dei permessi sindacali spetta in misura piena, mentre dal 1° settembre al 31 dicembre, va ridotto nella misura del 50 per cento. Con la conseguenza, pertanto, che dal 1° settembre, qualora in seguito alla riduzione e alla rideterminazione del contingente le associazioni sindacali abbiano esaurito il relativo contingente a disposizione, «le medesime non potranno più essere autorizzate alla fruizione di ulteriori ore di permesso retribuito».
La circolare specifica come nel caso in cui i sindacati abbiano comunque utilizzato prerogative sindacali in misura superiore a quelle spettanti nell'anno dovranno restituire il corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti. In difetto l'amministrazione compenserà l'eccedenza l'anno successivo (fino al completo recupero). Per il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, «non è con il taglio di distacchi e permessi che si risolvono i problemi della Pa. Basta demagogia. Ci aspettiamo ora che il Governo rinnovi i contratti dei pubblici dipendenti fermi scandalosamente da ben sette anni». Il taglio «chiaramente metterà in difficoltà», ma «siamo forti e continueremo ad esercitare la nostra funzione» sottolinea Michele Gentile, responsabile Cgil dei settori pubblici
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.201).

AMBIENTE-ECOLOGIAAlbo gestori ambientali: parte la semplificazione. Rifiuti. Dal 7 settembre in vigore il nuovo regolamento.
Semplificazione amministrativa e qualificazione delle imprese.
Sono questi gli obiettivi che l'Albo nazionale gestori ambientali si è prefisso di raggiungere con il nuovo Regolamento di cui al Dm 03.06.2014, n. 120 (Gazzetta ufficiale n. 195 del 23 agosto). Il nuovo decreto ministeriale entra in vigore il prossimo 7 settembre e, dopo 16 anni di vigenza, abroga il precedente Dm 406/1998.
Il decreto ministeriale rappresenta un importante punto di arrivo del processo di semplificazione amministrativa posto in essere dall'Albo gestori e rende la relativa funzionalità più armonica con quanto attualmente previsto dalla disciplina in materia di rifiuti, che in tutti questi anni ha subito molte e profonde modifiche.
Sul fronte della semplificazione si registra, ad esempio, il fatto che gli operatori non devono più comunicare le modifiche anagrafiche al Registro imprese; queste, infatti, sono trasmesse d'ufficio e telematicamente dal Registro alla Sezione regionale dell'Albo, che le recepisce entro 30 giorni. Inoltre, è previsto l'accorpamento delle categorie di iscrizione; pertanto le imprese iscritte per il trasporto dei rifiuti non devono iscriversi per il transfrontaliero oppure gli iscritti nelle categorie 4 e 5 possono trasportare i rifiuti da sé stessi prodotti o i Raee (rifiuti elettrici ed elettronici) senza richiedere altre iscrizioni.
Per garantire nel breve periodo e a livello nazionale l'informatizzazione dell'Albo viene anche disciplinata la trasmissione telematica delle domande e delle comunicazioni. Il che consentirà di ridurre ulteriormente i tempi, già brevi, previsti per l'iscrizione e la gestione delle singole pratiche. Per il rinnovo dell'iscrizione l'impresa interessata dovrà presentare alla sezione locale dell'Albo un'autocertificazione che attesti il permanere dei requisiti previsti per l'iscrizione. L'attestazione di idoneità degli automezzi è redatta e sottoscritta dal Responsabile tecnico dell'impresa, pertanto decade l'obbligo di dimostrarla con perizia redatta e giurata da un professionista.
Tali semplificazioni, in base alla procedura di stima dei costi amministrativi di cui al Dpcm 25.01.2013, hanno evidenziato una eliminazione di costi amministrativi a carico delle imprese pari a 15.554.000 euro.
Sul fronte della qualificazione delle imprese, il nuovo regolamento la persegue anche grazie alle nuove disposizioni in materia di Responsabile tecnico (Rt). Infatti, fino ad ora, la professionalità dell'Rt poteva essere dimostrata (oltre che con il titolo di studio e l'esperienza acquisita) anche mediante la partecipazione ad appositi corsi di formazione e superamento dei relativi esami.
Le criticità indotte in molti casi da questa previsione hanno ora condotto l'Albo a prevedere una verifica iniziale della preparazione del candidato e, ogni cinque anni, una verifica ulteriore sull'aggiornamento professionale in base a contenuti, criteri e modalità di svolgimento stabiliti dal Comitato nazionale dell'Albo.
Il regime transitorio di cui all'articolo 26 del Dm 120/2014 prevede che:
- le iscrizioni effettuate al 07.09.2014 e le garanzie finanziarie già prestate restano valide ed efficaci fino alla loro scadenza;
- le iscrizioni per raccolta e trasporto dei rifiuti avviati al recupero agevolato in essere al 25.12.2010 sono valide ed efficaci fino alla loro scadenza;
- le domande di iscrizione presentate entro il 07.09.2014 sono valide ed efficaci;
- le disposizioni adottate dal Comitato nazionale dell'Albo entro il 07.09.2014 restano valide ed efficaci fino alla emanazione delle altre disposizioni. Il Comitato entro il 06.03.2015 detterà le disposizioni per il trasporto dei rifiuti all'interno della laguna di Venezia;
- restano in vigore i decreti 05.02.2004 e 05.07.2005 in materia di garanzie finanziarie
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2014).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAmianto, il degrado obbliga alla bonifica. In base alla spesa maggioranze variabili per le delibere. Sicurezza. La valutazione del rischio deve essere affidata a tecnici abilitati.
L'amianto piaceva: le sue peculiari proprietà fonoassorbenti e termoisolanti e il basso costo hanno spinto al suo utilizzo per decenni anche negli edifici condominiali. Ma, dopo aver scoperto la sua pericolosità, dato che Comune e Asl non sono tenuti a effettuare sopralluoghi negli edifici privati, l'onere grava totalmente sul condominio e, quindi, sull'amministratore.
I doveri dell'amministratore
Va precisato che l'amianto è stato applicato in due forme diverse: l'amianto compatto e quello friabile.
La differenza è rilevante anche dal punto di vista giuridico e degli obblighi dell'amministratore. Il comma 5 dell'articolo 12 della legge 257/1992 stabilisce che «presso le unità sanitarie locali è istituito un registro nel quale è indicata la localizzazione dell'amianto floccato o in matrice friabile presente negli edifici».
I proprietari (quindi l'amministratore in caso di condomìni) devono comunicare alle Asl i dati relativi alla presenza di materiali. In caso di omessa comunicazione la legge 257 stabilisce la sanzione amministrativa da 2.582 a 5.164 euro
I lavori da eseguire
Per i materiali edilizi in cemento amianto presenti in forma compatta in edifici privati e in condomìni, qualora essi siano in buono stato, non è previsto alcun obbligo né di comunicazione alla Asl né di rimozione.
Se però il manufatto compatto manifesta condizioni di degrado l'amministratore deve far effettuare un'accurata ispezione e una valutazione del rischio rivolgendosi a un tecnico o a un'impresa abilitati e accuratamente selezionati, oppure far eseguire le analisi da un laboratorio in possesso dei requisiti previsti dall'allegato 5 del Dm del 14.05.1996. Sono poi necessari controlli periodici dopo il primo intervento.
Ma che succede se l'analisi accerta la necessità di intervenire sull'amianto? In tal caso è obbligatorio rivolgersi a una ditta specializzata iscritta all'albo nazionale gestori ambientali alla categoria 10 sub categoria 10A o 10B (articolo 26 del Dlgs 81/2008).
Sull'amministratore incombono anche responsabilità nei confronti di chi lavora nei condomìni : gli articoli da 246 al 261 del Tu sulla sicurezza regolamentano la protezione dai rischi connessi all'esposizione all'amianto.
Spese e maggioranze
La spesa va ripartita tra i condòmini (articolo 12, comma 3, della legge 257/1992), con possibilità di rivalersi nei confronti della ditta costruttrice solo se l'amianto sia stato installato successivamente alla data in cui la legge ne ha vietato l'uso.
Quanto alle maggioranze assembleari per deliberare gli interventi relativi all'amianto, dato che dovrebbero qualificarsi come manutenzione ordinaria poiché l'intervento è imposto dalla legge, sarebbe sufficiente la maggioranza prevista dal terzo comma dell'articolo 1136 del Codice civile (la maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresenti almeno 1/3 dei millesimi e dei condòmini).
Invece, quando l'opera di bonifica è di rilevante entità, soprattutto economica, si ricade nella manutenzione straordinaria e quindi si applica la maggioranza prevista dal secondo comma dell'articolo 1136 del Codice civile (maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno 500 millesimi)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Pneumatici col prelievo.
Va assoggettato all'Iva il contributo ambientale per la raccolta dei pneumatici fuori uso.

Lo stabilisce l'art. 8-bis del dl 24.06.2014, n. 91, aggiunto dalla legge di conversione n. 116/2014 che ha integrato in tal senso l'art. 228 del dlgs 152/2006 (codice dell'ambiente).
Questa disposizione, allo scopo di ottimizzare il recupero dei pneumatici fuori uso e per ridurne la formazione, anche attraverso la ricostruzione, ha introdotto l'obbligo per i produttori e importatori di provvedere, singolarmente o in forma associata e con periodicità almeno annuale, alla gestione di quantitativi di pneumatici fuori uso pari a quelli da essi stessi immessi sul mercato e destinati alla vendita sul territorio nazionale, da finanziarie applicando, in tutte le fasi della commercializzazione, un contributo a carico degli utenti finali, da indicare nella fattura di vendita.
Per chiarire il trattamento Iva di tale onere e di regolarne le modalità di applicazione pratica, il dl 91/2014 integra la disposizione, prevedendo che il contributo, «parte integrante del corrispettivo di vendita, è assoggettato ad Iva ed è riportato nelle fatture in modo chiaro e distinto». Viene inoltre chiarito che il produttore o l'importatore applicano il contributo nella misura vigente alla data della immissione del pneumatico nel mercato nazionale del ricambio.
Tale misura rimane invariata in tutte le successive fasi di commercializzazione del pneumatico, con l'obbligo, per ciascun rivenditore, di specificarlo in modo trasparente nella fattura. Il trattamento Iva del contributo in questione è simile a quello applicabile, secondo quanto chiarito dalla risoluzione 55/2007 dell'Agenzia delle entrate, all'addebito del Raee (articolo ItaliaOggi del 26.08.2014).

APPALTIIn otto anni sono intervenuti tutti i quattro governi. Appalti senza tregua: norme riscritte 200 volte.
La riforma degli appalti è al sesto punto dei dieci di cui si compone il decreto Sblocca-Italia che il Governo si appresta a varare venerdì.

L'intervento sul Codice dei contratti è uno dei tasselli messi in campo da Renzi insieme alla manovra sulle infrastrutture (con 30 miliardi di opere da rimettere in moto anche attraverso semplificazioni) e a quella sui piccoli cantieri (il piano dei 6mila campanili e le oltre 1.400 segnalazioni arrivate direttamente dai sindaci su lavori fermi).
Ma la riforma del Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture non avrà il sapore della novità. Al contrario, per le imprese che negoziano con la pubblica amministrazione rischia di essere un film già visto. Molte volte. Già perché il Codice dei contratti pubblici (il Dlgs 163/2006), vecchio di soli otto anni, ha subìto finora 223 interventi, una media di oltre due al mese per tutti i cento mesi di vita del provvedimento.
Quando fu varato il decreto 163 nel 2006 fu salutato come strumento di grande innovazione proprio perché accorpava in un Testo unico tutte le norme per i contratti pubblici. L'illusione di stabilità è durata poco: a colpi di decreti legge di somma urgenza, leggi di stabilità e leggine varie il Codice è sì rimasto unico ma è stato riscritto e ritoccato appunto 223 volte (si veda la scheda a fianco). Senza contare, poi, le altre norme che senza andare a incidere direttamente sul decreto 163 hanno avuto comunque un impatto sulla materia: dalla trasparenza per la Pa al nuovo codice antimafia, all'anticorruzione tanto per citare un esempio.
Obiettivi diversi
Tutti i quattro Governi che si sono succeduti in questo arco di tempo hanno voluto sperimentare la propria ricetta per i contratti pubblici. Con obiettivi anche molto diversi tra loro. La riforma più corposa è quella a firma Berlusconi–Tremonti–Matteoli del 2011: il decreto sviluppo infatti conteneva oltre 100 modifiche del Codice. La spinta, soprattutto nelle intenzioni di Tremonti, era quella ad arginare il vorticoso aumento dei costi delle grandi opere. Si spiegano così i tetti imposti alle varianti in corso d'opera e alle riserve contabili, ovvero alle richieste di aumenti avanzate dai costruttori.
Sempre al 2011 risale il primo e più sostanzioso intervento sulla norma più tormentata del Codice appalti: l'articolo 38 sulle cause di esclusione dalle gare. Soltanto con il Dl sviluppo ha subìto 18 modifiche. Certo, l'importanza è centrale, perché è la norma che allarga o restringe il perimetro dei concorrenti e dunque il mercato. E forse è proprio per questo che l'articolo 38 è rimasto in balia delle urgenze e delle pressioni del momento: dopo la riscrittura datata maggio 2011 si è avvertita di nuovo l'esigenza di un ritocco sei mesi dopo per aprire alle Pmi (Statuto imprese) e il mese successivo per l'autocertificazione (legge di stabilità).
A febbraio 2012, in nome della semplificazione, anche Monti ha voluto lasciare un piccolo segno, rendendo più flessibile la sanzione dell'esclusione dalle gare con il Dl "semplifica-Italia". Tutto qui? No di certo. L'ultima puntata (per ora) porta la data del 18 agosto scorso, quando la legge di conversione del Dl 90/2014 ha reso sanabili alcuni errori formali nella documentazione. Per chi avesse perso il conto, in tutto fanno 22 modifiche. Nate con l'intento di semplificare e agevolare la partecipazione agli appalti, ma impossibili da "digerire" con facilità per qualsiasi operatore.
Ed è sempre la semplificazione, insieme con il sostegno ai capitali privati per le infrastrutture, la chiave di volta delle modifiche targate Monti. Il primo obiettivo è basato soprattutto sulla banca dati dei contratti pubblici (Avcpass), che doveva eliminare alle imprese l'onere di documentare i requisiti di gara, ma che tra farraginosità, ritardi e cancellazione dell'Authority non è ancora partita. Project bond, riforma della finanza di progetto e defiscalizzazione degli investimenti privati, poi, sono l'eredità dell'ex ministro banchiere, Corrado Passera. Letta si è distinto invece per la solidarietà alle aziende in crisi di liquidità, con alcuni ammorbidimenti procedurali.
Lo sblocca-Italia
Ora tocca a Renzi che ha annunciato l'ennesima riforma del Codice degli appalti («con delega legislativa»), presentando le linee guida dello Sblocca-Italia. Finora il suo Governo è intervenuto solo sull'Authority di settore, prima rafforzandone i compiti di vigilanza sulla spesa (Dl Irpef) e due mesi dopo cancellandola. Ora il ridisegno dovrebbe essere più organico. Dalla sua, stavolta, il premier ha il fatto che le modifiche sono necessarie per recepire, entro il 2016, l'ulteriore tornata di direttive europee sugli appalti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le Spa partecipate evitano gli obblighi di pensionamento. Società. La circolare sul personale.
Le società partecipate non sono soggette direttamente ai vincoli sulle assunzioni degli enti locali controllanti e per ottimizzare la gestione delle risorse umane hanno a disposizione lo strumento della mobilità.
Federutility e Federambiente forniscono con la circolare congiunta 07.08.2014 n. 4183/AG di prot. l'interpretazione applicativa delle disposizioni della legge n. 114/2014 sulle società partecipate.
Nell'analisi si evidenzia anzitutto come l'abrogazione del l'articolo 76, comma 7, della legge n. 133/2008 elimini l'obbligo di consolidare le spese delle società nei bilanci comunali al fine di controllare le politiche assunzionali dell'ente: dunque le partecipate non risultano più destinatarie dirette o indirette delle norme limitative in materia di assunzioni e spesa per il personale, nonché sulla contrattazione collettiva dettate oggi per gli enti controllanti.
In base all'innovato assetto normativo, secondo le due associazioni oggi l'ente locale socio esercita nei confronti delle società controllate un ruolo di coordinamento delle politiche di assunzione per promuovere il principio della graduale riduzione della percentuale tra spese di personale e spese correnti.
La legge 114/2014 apporta un'innovazione importante alla norma che regola i rapporti tra enti e società, individuata nel comma 2-bis dell'articolo 18 della legge n. 133/2008, eliminando il riferimento al Ccnl in vigore al 01.01.2014 e riportando la disciplina dei rapporti tra contrattazione collettiva nazionale e contrattazione collettiva di secondo livello (aziendale) alla regolamentazione tradizionale. Il contratto aziendale può tuttavia derogare a quello nazionale qualora l'atto di indirizzo dell'ente socio stabilisca criteri in tal senso.
Le due associazioni analizzano anche la disposizione prevista dal neointrodotto comma 567-bis dell'articolo 1 della legge n. 147/2013, che consente al lavoratore coinvolto in procedure di mobilità verso altre società partecipate di richiedere la ricollocazione, in via subordinata, in una qualifica inferiore, rilevando come il percorso sia caratterizzato da elementi derogatori delle previsioni del Codice civile.
La norma rafforza il quadro delle procedure di mobilità del personale delle società partecipate previsto dalla legge di stabilità 2014, sul quale Federutility, Federambiente e Asstra hanno fornito elementi di analisi applicativa nella circolare 04140/UPG del 2 luglio.
In tale analisi viene rilevato come il processo di mobilità preveda il trasferimento di personale da una società all'altra attraverso l'istituto della cessione del contratto di lavoro del personale, ma senza il consenso del lavoratore ceduto, risultando peraltro realizzabile con riferimento a tutte le società controllate direttamente o indirettamente dalla stessa amministrazione, indipendentemente dall'attività esercitata, purchè, comunque, sussista il requisito del controllo societario in base al l'art. 2359 del Codice civile. Le società emittenti strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati e le loro controllate non possono utilizzare le procedure di mobilità
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAResidui, riutilizzo da dimostrare. Prova necessaria per usufruire del regime semplificato. Dal dl Competitività nuove norme per l'allineamento alle regole europee sul recupero.
Sarà necessario provare l'effettivo riutilizzo dei residui recuperati per poter godere delle nuove deroghe all'ordinario regime dei rifiuti previste da due meccanismi introdotti dalla legge di conversione del dl 91/2014 direttamente nel «Codice ambientale», ossia: la gestione come veri e propri beni dei materiali di dragaggio processati; la conduzione sotto il regime autorizzatorio light delle operazioni di riciclo effettuate nel rispetto delle norme comunitarie sull'end of waste.

Seppur inquadrate tra le norme sulla «cessazione della qualifica di rifiuti» di derivazione comunitaria, i due nuovi meccanismi previsti dalla legge di conversione del c.d. «dl Competitività» (approvata in via definitiva dal parlamento lo scorso 07.08.2014) non appaiono aderenti alle omonime disposizioni Ue in base alle quali si ha «end of waste» (ossia fuoriuscita dei residui di produzione dal regime dei rifiuti) già con la cessione dei materiali dall'operatore che li ha trattati a un nuovo soggetto unitamente alla consegna di un «certificato di conformità» agli standard di recupero.
La disciplina «end of waste» Ue. È bene ricordare come a imporre a monte le regole che, se osservate, determinano con certezza la riabilitazione a veri e propri beni dei residui trattati è l'articolo 6 della direttiva 2008/98/Ce, in base al quale i rifiuti cessano di essere tali se, all'esito di una operazione di recupero, soddisfano le seguenti generali condizioni: sono comunemente utilizzati per scopi specifici; esiste per loro un mercato o una domanda di riferimento; rispettano requisiti tecnici e standard di prodotto; non comportano impatti negativi per ambiente e salute umana.
La stessa direttiva affida poi a regolamenti attuativi della Commissione Ue la declinazione di dette condizioni in specifici criteri per singole tipologie di rifiuti, lasciando gli stati membri liberi di stabilire, nelle more, cedevoli regole locali. Sulla base di detto articolo 6, direttiva 2008/98/Ce, la Commissione Ue ha così provveduto ad adottare precise regole (direttamente operative sul territorio degli Stati membri, in quanto veicolate da atti «self executing») per l'end of waste dei rottami di rame (regolamento n. 715/2013), vetro (n. 1179/2012) e ferro (333/2011).
Tutti regolamenti che stabiliscono come i rifiuti sottoposti a recupero cessino di essere tali al momento della loro cessione da parte dal soggetto che li ha processati al primo detentore successivo, allorché all'atto di tale trasferimento risultino soddisfatti tutti gli standard tecnici di trattamento e di riutilizzo previsti per le specifiche tipologie di materiali, e questo sia altresì attestato da un «certificato di conformità».
La trasposizione nazionale delle generali norme ex direttiva 2008/98/Ce è avvenuta mediante l'articolo 184-ter del dlgs 152/2006, il quale riportandone pedissequamente il contenuto sancisce in chiusura (e specularmente rispetto al dettato Ue) come in mancanza di criteri comunitari per singole categorie di rifiuti saranno adottate dal Minambiente le relative regole nazionali e che, ancora, fino all'adozione di tali ultime norme interne continueranno comunque a valere le vecchie disposizioni sulla produzione di «materie prime secondarie» previste dai decreti ministeriali dm 05.02.1998, 161/2002, 269/2005 e dal dl 172/2008, disposizioni che spostano (però) la cessazione della qualifica di rifiuto più avanti rispetto ai nuovi regolamenti «end of waste», imponendo oltre al rispetto di standard tecnici anche l'effettiva e oggettiva prova del nuovo utilizzo, con chiara estensione della responsabilità degli operatori della filiera.
Alla previsione dell'articolo 184-ter il legislatore nazionale ha dato una prima attuazione con il dm Ambiente 22/2013 sull'end of waste dei combustibili solidi secondari, provvedimento che in sintonia con le norme Ue, sancisce come il «Css» «cessa di essere qualificato come rifiuto con l'emissione della dichiarazione di conformità».
Le nuove regole del dl Competitività. Rispetto a tale ultimo e delineato assetto normativo le nuove regole sulla «cessazione della qualifica di rifiuti» previste dalla legge di conversione del dl 91/2014 appaiono fare un passo indietro. Appaiono farlo le norme «sull'utilizzo dei materiali di dragaggio» inserite nel dlgs 152/2006 tramite il nuovo articolo 184-quater, appaiono farlo quelle sull'ammissibilità al regime autorizzatorio semplificato delle operazioni di trattamento «end of waste» Ue introdotte nel vigente articolo 216 dello stesso Codice (dalla rubrica: «operazioni di recupero»).
Sotto il primo profilo viene, infatti, sancito come i materiali dragati sottoposti a operazioni di recupero in casse di colmata o altri impianti autorizzati «cessano di essere rifiuti» solo se: all'esito delle operazioni di recupero risultino il rispetto dei valori di inquinanti stabiliti dal dlgs 152/2006, degli standard di prodotto e di riutilizzo; sia certo fin dall'origine il sito di destinazione; almeno 30 giorni prima delle operazioni di utilizzo sia stata inviata alle Autorità pubbliche competenti una «dichiarazione di conformità» (evidentemente mediata dai citati regolamenti comunitari) attestante tutto quanto citato unitamente alle modalità di (ri)utilizzo; siano tali materiali riutilizzati nel rispetto delle citate regole tecniche.
Stessa «prova del riutilizzo» è altresì dalla nuova legge richiesta per poter godere del regime burocratico semplificato (avvio delle attività decorsi 90 giorni dalla semplice comunicazione all'Ente provinciale in luogo dell'attesa dell'autorizzazione regionale) in relazione operazioni di recupero di rifiuti condotte secondo i citati regolamenti Ue «end of waste». Anche in tale contesto, le procedure semplificate sono concesse «a condizione che siano rispettati tutti i requisiti, i criteri e le prescrizioni soggettive e oggettive previsti dai predetti regolamenti» con particolare riferimento, si legge testualmente nella nuova norma, a quelli relativi «alla destinazione dei rifiuti che cessano di essere considerati rifiuti agli utilizzi individuati».
Prescrizione, quella della cessazione della qualifica di rifiuto condizionata alla prova del successivo utilizzo, della quale però nei citati regolamenti Ue (come nella direttiva madre) non si trova traccia, avvenendo la riabilitazione a veri e propri beni, come già sottolineato, molto prima, ossia all'atto del trasferimento dei materiali trattati da colui che li ha recuperati ad altro soggetto, purché unitamente alla «certificazione» del rispetto delle relative regole tecniche (articolo ItaliaOggi Sette del 25.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGODal 1° settembre dimezzati permessi e distacchi sindacali. Decreto p.a./ circolare della funzione pubblica sulle novità valide per tutte le amministrazioni.
Il dimezzamento delle prerogative sindacali nelle p.a. scatterà il prossimo 1° settembre e riguarderà tutto il personale, sia contrattualizzato sia in regime di diritto pubblico.
È uno dei chiarimenti forniti dalla circolare 20.08.2014 n. 5/2014 della Funzione pubblica, che ha definito le modalità applicative dell'art. 7 del dl 90/2014 (conv. dalla legge 114/2014).
Tale disposizione ha previsto che, a decorrere dal 01.09.2014, i contingenti complessivi dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali già attribuiti al personale delle p.a. siano ridotti del 50% per ciascuna associazione sindacale. Per i distacchi sindacali (fra cui sono compresi anche quelli utilizzati in forma cumulata), la riduzione è operata con arrotondamento dell'eventuale frazione residua all'unità superiore e non trova comunque applicazione qualora l'associazione sindacale sia titolare di un solo distacco sindacale.
Entro il prossimo 31 agosto, tutte le associazioni sindacali rappresentative dovranno comunicare la revoca dei distacchi sindacali non più spettanti alle amministrazioni, che a loro volta lo comunicheranno alla Funzione pubblica al fine di consentire le opportune verifiche a consuntivo. Di conseguenza, la revoca non è necessaria se, al momento dell'attivazione del distacco sindacale, è stato già previsto il termine del 31.08.2014.
La circolare ricorda che il rientro nelle amministrazioni dei dirigenti sindacali oggetto dell'atto di revoca avverrà nel rispetto dell'art. 18 del Ccnq 07.08.1998, nonché delle altre disposizioni di tutela dei dirigenti sindacali previste dagli ordinamenti di settore per il personale in regime di diritto pubblico. In particolare, viene richiamata l'attenzione, sulla disposizione del comma 1 dell'art. 18, che introduce un criterio di priorità nei processi di mobilità, anche intercompartimentale. La riduzione del 50% si applica anche al monte-ore complessivo dei permessi sindacali retribuiti. La circolare chiarisce che, nell'anno corrente, il taglio deve essere effettuato secondo il metodo del calcolo pro-rata.
Pertanto, dal 01.01.2014 al 31.08.2014, il contingente spetta in misura piena, mentre il contingente relativo al periodo intercorrente tra il 01.09.2014 e il 31.12.2014 deve essere dimezzato. Fino al 31 agosto, ogni amministrazione è tenuta a concedere i permessi, qualora siano ancora disponibili in base al calcolo del monte ore spettante per l'anno in corso. A decorrere dal 1° settembre, qualora in seguito alla riduzione e alla rideterminazione del contingente le associazione sindacali abbiano esaurito il relativo contingente a disposizione, non potranno più essere autorizzate ulteriori ore di permesso retribuito.
Nel caso in cui le associazioni sindacali abbiano comunque utilizzato prerogative sindacali in misura superiore a quelle loro spettanti nell'anno, si provvederà secondo le ordinarie previsioni contrattuali e negoziali. Di conseguenza, ove le medesime organizzazioni non restituiscano il corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti, l'amministrazione compenserà l'eccedenza nell'anno successivo, detraendo dal relativo monte-ore di spettanza delle singole associazioni sindacali il numero di ore risultate eccedenti nell'anno precedente fino al completo recupero. Per le eventuali ore residue non recuperate per saturazione del monte-ore complessivo si procederà al recupero per equivalente.
La circolare precisa che il taglio, in ogni caso, non si applica ai permessi sindacali attribuiti alle Rsu, previsti dagli articoli 2 e 4 del Ccnq del 17.10.2013, nonché alle aspettative sindacali non retribuite, ai permessi non retribuiti e ai permessi per la partecipazione a riunioni sindacali su convocazione dell'amministrazione per il solo personale della carriera diplomatica e prefettizia, in quanto per essi non è previsto alcun contingente.
Per le Forze di polizia a ordinamento civile e per il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, in sostituzione della riduzione del 50%, si è previsto che alle riunioni sindacali indette dall'amministrazione possa partecipare un solo rappresentante per associazione sindacale. In caso di partecipazione di più di un rappresentante per ciascuna sigla sindacale, i relativi permessi devono essere computati nel monte ore annuo dei permessi sindacali retribuiti a carico di ciascuna associazione sindacale (articolo ItaliaOggi del 23.08.2014).

EDILIZIA PRIVATASovrintendenze con poteri limitati. Occorre l'inedificabilità assoluta per esercitare il veto alla regolarizzazione. Condono. La legge regionale della Campania fa seguito al Dl 83/2014 che cancella la conferenza di servizi.
La Regione Campania fa da apripista innovando in alcuni settori del governo del territorio, con la legge regionale 16 del 07.08.2014. Partendo dal l'ultimo condono edilizio (bloccato localmente a causa della sentenza della Corte costituzionale 49/2006, si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), nella Regione si limitano i poteri della Sovrintendenza, ritenendo che le domande di sanatoria possano fare a meno del suo parere qualora l'abuso sia avvenuto (prima dell'aprile 2003) in aeree non soggette a vincolo di inedificabilità assoluta.
La legge 16/2014 prosegue quindi un percorso che toglie forza all'articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio): inizialmente, in caso di silenzio del Sovrintendente entro 45 giorni dalla ricezione degli atti, si prevedeva (fino al maggio 2014) che il Comune potesse indire una conferenza di servizi, concludendo poi il procedimento entro 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte del sovrintendente.
Con il Dl 83 del 31.05.2014 si è previsto che, decorsi inutilmente 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte del Sovrintendente, senza che questi renda il proprio parere, l'amministrazione competente (il Comune delegato, l'Ente parco o altri) provveda comunque sulla domanda di autorizzazione, eliminando quindi la facoltà di indire una conferenza di servizi. La conferenza stessa, infatti, è stata vista con sfavore, esponendo il contenuto tecnico del parere a un meccanismo di confronto diretto con i soggetti interessati e l'ente locale.
L'eliminazione della conferenza è stata anche agevolata dalla circostanza che nel frattempo gli strumenti urbanistici si sono adeguati alle prescrizioni d'uso che riguardano i beni paesaggistici e quindi agli orientamenti dell'amministrazione centrale dei beni culturali dal quale la Sovrintendenza stessa dipende. In questo contesto, la legge della Regione Campania 16 del 2014 contribuisce ad una diversa lettura del parere della Sovrintendenza, sottolineando che solo un vincolo di inedificabilità assoluta può mantenere i più ampi poteri di veto alla Sovrintendenza.
La norma della Regione Campania, che entro 60 giorni potrebbe essere impugnata dallo Stato (per violazione degli articoli 9 e 117 della Costituzione, sulla tutela del paesaggio), contiene alcune previsioni che anticipano la legge sulle politiche pubbliche territoriali. Per esempio, il recupero dei complessi produttivi dismessi può avvenire (articolo 1, comma 73) con ristrutturazioni finalizzate la riutilizzo mediante demolizione e ricostruzione di volumi preesistenti.
Tutto ciò è affidato alla competenza degli «uffici municipali», espressione che va letta come alternativa alla precedente competenza sulla pianificazione: si supera così la necessità di una variante al piano urbanistica, affidando all'"ufficio" (e non al soggetto normalmente pianificatore, cioè Giunta o Consiglio) la gestione del recupero, ristrutturazione o delocalizzazione
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La residenza turistica diventa abitazione. Sanatorie. Risolte le situazioni che rappresentavano una grave violazione alle norme urbanistiche.
La Regione Campania vara una soluzione al problema delle residenze turistico-alberghiere (Rta) con un compromesso parzialmente sanzionatorio. Lo prevede l'articolo 1, comma 73, della legge regionale 16/2014, secondo il quale nelle aree urbanizzate i singoli edifici non superiori a 10mila metri cubi, destinati prevalentemente o anche esclusivamente a residenze turistico alberghiere, che non abbiano fruito di benefici contributivi, è consentito il mutamento di destinazione d'uso a fini abitativi.
Ciò è possibile se la volumetria modificata, in misura superiore al 35%, è destinata a edilizia residenziale sociale. Questa soluzione può essere trasferita in diverse realtà dove, in modo diffuso, attraverso le residenze turistico alberghiere (in Toscana, Liguria, Emilia Romagna), le amministrazioni locali si sono trovate dinanzi ad acquisti finalizzati a una generica residenzialità, con rilevanti problemi di standard abitativi (scuole, luoghi pubblici) e un forte affidamento da parte di acquirenti ignari.
Il regime fiscale non ha contribuito alla chiarezza del sistema in quanto gli acquisti delle unità erano ammessi ai benefici della prima casa, qualora vi fosse localizzata la residenza effettiva. In diversi casi le sanzioni urbanistiche, calibrate a un abusivismo integrale, hanno condotto alla perdita del bene, e a una paralisi operativa che rende inutilizzabili complessi di una certa consistenza.
Il sistema varato dalla Regione Campania parte dal presupposto che non vi siano stati contributi finalizzati all'edilizia alberghiera (con relativi vincoli), o che comunque tali contributi siano stati azzerati. Inoltre, le aree devono già essere urbanizzate, e cioè dotate di standard di tipo residenziale, in modo tale da poter essere utilizzate come abitazioni. I vantaggi conseguiti dal costruttore, consistenti nella possibilità di costruire residenze in zone destinate a turismo (cioè di particolare pregio, per esempio prossime al mare) viene azzerato dalla destinazione a edilizia convenzionata (residenziale sociale) con canoni concordati con l'amministrazione locale.
Emergerà probabilmente un rischio di convivenza tra più categorie di residenti, ma si risolve il problema di un utilizzo non alberghiero (con aree comuni e oneri di pubblica sicurezza), convertendoli in uso residenziale
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.08.2014).

APPALTICentrale unica in lista d'attesa. Per l'acquisto di beni e servizi se ne riparla a gennaio. RIFORMA P.A./ Le principali novità della legge di conversione del dl apparsa in G.U..
È legge la prima riforma della pubblica amministrazione targata Renzi. Sul supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 190 del 18 agosto, infatti, è stato pubblicato il testo della legge 114/2014, di conversione del dl 90 adottato dal governo lo scorso 24 giugno.
Le modifiche apportate nel corso dell'iter parlamentare sono state davvero numerose, anche se non hanno stravolto le linee essenziali del provvedimento varato dall'Esecutivo.
La novità più attesa è certamente la proroga dell'obbligo per i comuni non capoluogo di ricorrere a una centrale unica per gli acquisiti. Ora sono previste due nuove scadenze: 01.01.2015 per i beni e i servizi, 01.07.2015 per i lavori. È stata quindi recepita l'intesa sancita in Conferenza stato-città e autonomie locali lo scorso 10 luglio. Già prima dell'entrata in vigore della norma, peraltro, l'Autorità nazionale anti-corruzione aveva ripreso a rilasciare i Cig.
Parzialmente reintrodotte anche le deroghe per gli acquisti di modesto valore, ma solo per i comuni con più di 10 mila abitanti, che potranno fare da sé per importi inferiori a 40 mila euro. In caso di fusione, inoltre, l'obbligo scatta solo dal terzo successivo a quello dell'istituzione del nuovo comune. Poiché una proroga tira l'altra, è arrivato anche l'ennesimo rinvio dei termini per l'avvio delle gestioni associate dei piccoli comuni, che avranno tempo fino al 30 settembre per conferire a unioni e convenzioni altre tre funzioni fondamentali. Rimane fermo il termine del 31.12.2014 per le restanti tre funzioni.
Numerose e rilevanti anche le novità in materia di personale (per maggiori dettagli si vedano la tabella e i pezzi nella pagina accanto). Confermata la cd staffetta generazionale: per svecchiare gli organici, sono stati aboliti i trattenimenti in servizio: a partire dalla fine di ottobre, i dipendenti delle pa non potranno più restare al lavoro una volta raggiunti i requisiti pensionistici (fino ad ora era possibile farlo per altri due anni). I lavoratori pubblici, inoltre, potranno essere pensionati d'ufficio al compimento dei 62 anni, a patto che abbiano raggiunto l'anzianità contributiva massima. L'articolo 6, infine, stabilisce il divieto di affidare incarichi di studio o consulenza al personale in pensione: sarà possibile solo conferire incarichi a titolo del tutto gratuito e per non più di un anno. Stralciate, invece, le norme sulla «quota 96» per i docenti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento già nel 2012.
Per favorire il ricambio, sono stati alleggeriti i limiti del turnover. Per gli enti soggetti al Patto, il tetto è stato innalzato, dall'attuale 40 al 60% per gli anni 2014-2015, all'80% per il biennio 2016-2017, per arrivare al 100% nel 2018. Negli enti dove la spesa di personale non supera il 25% della spesa corrente, il turnover sale all'80% quest'anno e al 100% dal 2015. Spariscono, però, i regimi agevolati per le assunzioni nell'istruzione, nei servizi sociali e nella polizia locale.
Agli enti in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di personale, inoltre, non si applica più il limite del 50% sulle assunzioni con contratti flessibili. Reintrodotti, anche se solo parzialmente, gli incentivi per la progettazione ed i diritti di rogito per i segretari. L'articolo 7, infine, prevede la riduzione del 50% dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali (articolo ItaliaOggi del 22.08.2014).

ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIAssunzioni in comune facilitate. Stretta sui diritti di rogito dei segretari e sui progettisti. RIFORMA P.A./ Cosa cambia dal punto di vista della gestione del personale negli enti.
Regole per le assunzioni meno rigide, stretta sui diritti di rogito dei segretari comunali e sui compensi per i progettisti.
La riforma della pubblica amministrazione contenuta nel dl 90/2014 convertito in legge 114/2014 coinvolge molti aspetti dell'attività delle amministrazioni locali.
Spesa di personale e turnover. Già dal 2014 gli enti locali sottoposti al patto di stabilità (ma non le province, per le quali resta il divieto assoluto di assumere a tempo indeterminato) potranno assumere personale a tempo indeterminato entro il limite della spesa pari non più al 40% ma al 60% di quella relativa al personale di ruolo cessato nell'anno precedente. Tale percentuale resta invariata nel 2015, sale all'80% nel 2016 e 2017 e si assesta al 100% nel 2018.
Allo scopo di facilitare la programmazione e la gestione dei concorsi, sempre dal 2014 si potranno cumulare le risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni.
Con l'abolizione dell'articolo 76, comma 7, del dl 112/2008, convertito in legge 133/2008 saltano una serie di vincoli alle assunzioni. Cade, dunque, il divieto assoluto di assumere per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 50% delle spese correnti; allo stesso modo, non sono più necessarie le deroghe per il personale dedicato alle funzioni di polizia locale, istruzione pubblica e settore sociale. Ancora, non saranno più da computare nel calcolo della spesa di personale le spese sostenute da aziende speciali, istituzioni e società pubbliche.
La progressiva riduzione delle spese di personale prevista dall'articolo 1, comma 557, della legge 290/2006, ai sensi del nuovo comma 557-quater avrà come riferimento il valore medio del triennio precedente.
Per gli enti particolarmente virtuosi, con un'incidenza delle spese di personale sulla spesa corrente pari o inferiore al 25% saranno possibili assunzioni a tempo indeterminato già dal 2014, nel limite dell'80% della spesa relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell'anno precedente; la soglia sale al 100% a decorrere dall'anno 2015.
Il limite alle assunzioni flessibili, pari al 50% della spesa del 2009. I limiti di cui al primo e al secondo periodo non si applicano ai lavori pubblica utilità e ai cantieri di lavoro, qualora il costo del personale sia coperto da finanziamenti specifici aggiuntivi o da fondi dell'Unione europea; qualora vi sia cofinanziamento, l'esclusione vale solo per la quota finanziata da altri soggetti.
Saranno i revisori dei conti a certificare annualmente il rispetto delle disposizioni sulla spesa di personale, nella relazione di accompagnamento alla delibera di approvazione del bilancio annuale.
Demansionamento. Per il personale inserito nelle liste di disponibilità e, dunque, alle soglie del licenziamento, si introduce la possibilità di presentare, entro i sei mesi anteriori alla data di scadenza del termine di 24 mesi di iscrizione nelle liste di disponibilità, un'istanza di ricollocazione, in deroga all'art. 2103 del codice civile, nell'ambito dei posti vacanti in organico.
Si tratta della possibilità di accettare di tornare a lavorare presso l'amministrazione anche in una qualifica inferiore o in posizione economica inferiore della stessa o di inferiore area o categoria di un solo livello. La ricollocazione non può comunque avvenire prima dei trenta giorni anteriori alla data di scadenza del termine di disponibilità.
Il personale ricollocato non ha diritto all'indennità di disponibilità e potrà, comunque, essere successivamente ricollocato nella propria originaria qualifica e categoria di inquadramento, anche passando ad altre amministrazioni mediante la mobilità volontaria.
Segretari comunali. Niente più compartecipazione ai diritti di rogito per i segretari comunali aventi qualifica dirigenziale o che, pur essendone privi, prestano in enti in cui è presente la dirigenza, fruendo del «galleggiamento» dello stipendio.
Gli altri segretari comunali potranno continuare a fruire della compartecipazione, entro il tetto del quinto dello stipendio in godimento. Le modifiche all'assetto dei diritti di rogito non si applicano a quanto già maturato prima dell'entrata in vigore del dl 90/2014.
Progettisti. L'incentivo pari al 2% lordo della base di gara è abolito e sostituito da un «fondo per la progettazione e innovazione» in misura non superiore al 2% degli importi posti a base di gara: saranno gli enti, con un regolamento, a determinare la percentuale effettiva in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
Di questo fondo, l'80% può essere ripartito, secondo modalità e criteri stabiliti dalla contrattazione decentrata integrativa, che confluiscono nel regolamento. A beneficiarne saranno il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione.
Ciascun singolo dipendente non potrà percepire, nello stesso anno, incentivi finanziati dal fondo per un importo superiore del 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo. Nessun incentivo spetterà ai dirigenti.
Dirigenti a contratto e staff. La legge di conversione del dl 90/2014 ha confermato l'estensione della possibilità di assumere dirigenti esterni senza concorso fino al 30% della dotazione organica.
Allo stesso modo, si conferma la possibilità di assegnare ai dipendenti chiamati a lavorare in via fiduciaria negli staff degli organi di governo, una retribuzione parametrata a quella dei dirigenti, anche se i dipendenti risultino privi di laurea (articolo ItaliaOggi del 22.08.2014).

INCENTIVO PROGETTAZIONEPa, fondo-progetti alimentato con il 2%. Appalti. Spetterà alla contrattazione decentrata definire il riparto.
Le amministrazioni pubbliche alimentano un fondo per la progettazione e l'innovazione destinando una percentuale massima del due percento dell'importo a base di gara di ogni opera pubblica o lavoro.
La legge 114/2014 ridefinisce la regolamentazione generale delle risorse volte a sostenere le attività di progettazione interna, eliminando le disposizioni contenute nei commi 5 e 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici ed inserendo nello stesso articolo un nuovo complesso normativo che focalizza l'attenzione sulle particolarità dei lavori e sull'effettivo coinvolgimento delle risorse umane nei processi elaborativi dei progetti.
Secondo le nuove disposizioni introdotte dall'articolo 13-bis dalla riforma della Pa spetta alle amministrazioni definire con regolamento (e gli organismi di diritto pubblico possono farlo con strumenti di disciplina analoghi), entro il valore massimo del 2%, la quota effettiva rapportata alle varie tipologie di opere e lavori, secondo il loro diverso grado di complessità.
Le amministrazioni pubbliche dovranno differenziare le risorse da ricondurre al fondo in relazione al livello di importanza e di difficoltà progettuale dei lavori. L'80% delle risorse finanziarie del fondo viene ad essere ripartito, per ciascuna opera, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
Rispetto alla vecchia impostazione il nuovo quadro normativo individua in modo preciso i soggetti coinvolti nel procedimento di progettazione e realizzativo dei lavori, eliminando qualsiasi possibilità estensiva dell'applicazione del particolare modello. La definizione dei criteri di riparto è demandata alla contrattazione decentrata ed alla codificazione nel regolamento dell'amministrazione, che dovrà tener conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta. Dalle opere per le quali è previsto il riparto di risorse sono escluse quelle manutentive, ma su questo punto il legislatore ha prodotto una formulazione sintetica che assume a riferimento le indicazioni elaborate sulla normativa precedente dalla Corte dei conti, per le quali vanno esclusi dalla ripartizione i lavori di manutenzione per i quali non vi sia progettazione.
Altro aspetto innovativo è dato dalla riduzione delle risorse finanziarie ricondotte al fondo in caso di incrementi dei tempi e dei costi dell'opera (fatti salvi i tempi di sospensione).
La corresponsione delle somme è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio competente, sulla base dell'accertamento delle specifiche attività svolte dai dipendenti coinvolti nei processi di progettazione e realizzazione delle opere. In ogni caso, il particolare incentivo non può superare nell'anno il valore del cinquanta percento del trattamento economico complessivo annuo lordo del dipendente interessato.
Il venti percento restante del fondo è invece destinato all'acquisizione di beni e servizi finalizzati a sostenere innovazione tecnologica e implementazione delle banche dati per il controllo dell'efficienza della spesa.
      (articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2014).

EDILIZIA PRIVATACampania, riapre il condono. Sanatoria anche in zone vincolate se non c'è inedificabilità assoluta. Territorio. La legge pubblicata sul Bollettino regionale consente l'istruttoria per abusi compiuti fino al 2003.
Acque agitate in Campania per una legge che sembra allargare spazi per precedenti sanatorie edilizie e modificare il ruolo delle Sovrintendenze nelle aree vincolate.
La norma è l'articolo 1, comma 72, della legge regionale 16/2014, (pubblicata sul bollettino ufficiale del 7 agosto scorso). Le previsioni innovative sono due: una sposta dal 31.12.2006 al 31.12.2015 il termine per definire le domande di sanatoria presentate in Campania secondo le norme del 1985 (legge 47) e del 1994 (legge 724). Un'altra previsione rende elastico nella Regione il procedimento di condono, prevedendo un'autocertificazione anche per abusi in zone con vincoli, purché tali vincoli non siano di inedificabilità assoluta.
La prima novità, cioè lo spostamento al 31.12.2015 del termine per esaminare le domande di sanatoria in Campania, potrebbe sembrare una banale diluizione dei tempi concessi agli uffici per chiudere le pratiche: in realtà è anche possibile una diversa interpretazione, che ripeschi le domande di sanatoria presentate in quella Regione entro il 10.12.2004.
Infatti, nel 2003 il decreto legge 269, convertito nella legge 326, non prevedeva una procedura di sanatoria integralmente nuova ma richiamava le sanatorie del 1985 e del 1994: quindi, dando un significato letterale al participio passato «le domande di sanatoria presentate» (articolo 9 della legge regionale 10/2004), diventano esaminabili fino al 31.12.2015 anche le domande di sanatoria che risultino presentate entro il 10.12.2004, con le procedure delle leggi del 1985 e del 1994.
Ciò fornirebbe una soluzione ai problemi posti dalla Corte costituzionale che, con sentenza 49 del 2006, ha ritenuto illegittime alcune disposizioni del condono edilizio in Campania. Si eliminerebbe infatti la disparità di trattamento tra chi ha compiuto abusi nella Regione Campania e ha chiesto la sanatoria con una procedura dichiarata in parte incostituzionale nel 2006, rispetto a identici abusi in altre zone del territorio nazionale (dove le leggi regionali non sono state censurate).
In Campania, poi, le maglie della sanatoria si allargherebbero per gli interventi in zone definite inedificabili: la legge regionale 16/2014 ammette infatti la sanatoria tramite autodichiarazione tutte le volte che si discuta di interventi in zone con vincolo di inedificabilità non «assoluto» ma derogabile da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo. Questa elasticizzazione anticipa l'innovazione prevista nei rapporti con le Sovrintendenze nell'ormai imminente intervento governativo con il Dl «sblocca Italia». Già nella Regione Campania, infatti, si delimita alle sole aree con vincoli di inedificabilità assoluta la necessità di una autorizzazione ambientale. Inoltre, in Campania, per gli abusi oggetto di sanatoria (dichiarati entro il 10.12.2004), il parere della Sovrintendenza non è necessario se il divieto assoluto di edificazione risulta successivo all'epoca dell'intervento abusivo.
In sintesi, la Regione Campania non ha riaperto il termine del condono edilizio ma ha solamente consentito l'esame delle domande presentate entro il 10.12.2004 (per abusi compiuti entro il 31.03.2003) e rimaste nell'incertezza dopo la sentenza della Corte costituzionale 49 del 2006. Più generale, in chiara espressione di un orientamento condiviso dal Governo in tema di vincoli che non generano inedificabilità assoluta, è la previsione di una sanatoria che faccia a meno del parere della Sovrintendenza.
Appena nel giugno 2014, con il Dl 83, il parere della Sovrintendenza era stato depotenziato, eliminando il passaggio in conferenza di servizi qualora mancasse il parere vincolante della Sovrintendenza entro 45 giorni dal termine (di 40 giorni) assegnato al Comune per provvedere su domande in zone vincolate. Superando i dubbi che sorgono in caso di conflitto tra parere sfavorevole tardivo della Sovrintendenza e orientamento favorevole all'edificazione del l'ente locale il Governo sembra orientarsi per un rafforzamento dell'autorità del parere del Comune rispetto a quello della Sovrintendenza qualora questa stessa rimanga inerte: si tratta di applicare in modo generalizzato l'orientamento espresso dalla giustizia amministrativa (Tar Lecce, sentenza 321/2014) secondo il quale l'attività del parere della Sovrintendenza sussiste solamente allorquando il parere sfavorevole (o il preavviso di rigetto della domanda) sia reso entro 45 giorni dalla ricezione degli atti (Dlgs 42/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2014).

APPALTICertificazione antimafia soft. Contratti in 30 giorni dalla richiesta di documenti. Lo schema di dlgs di modifica al dlgs 218/2012 al vaglio delle commissioni parlamentari.
La p.a. può stipulare i contratti pubblici dopo 30 giorni dalla richiesta della certificazione antimafia, fatti salvi provvedimenti interdittivi del prefetto. E, in casi di urgenza, i controlli sono tutti a posteriori, potendosi firmare il contratto subito. Dalla platea dei soggetti da controllare sono esclusi i familiari minorenni dei manager, le certificazioni non scadute sono riutilizzabili e il prefetto accerta, con una apposita informazione, i tentativi di infiltrazioni mafiose nelle società, pur senza precedenti negativi.

Sono queste le novità dello schema del secondo decreto correttivo del Codice antimafia (dlgs 159/2011, modificato con il dlgs 218/2012) approvato in via preliminare dal governo il 23/07/2014 e ora all'esame delle commissioni parlamentari.
Vediamo, dunque, le novità salienti.
Comunicazioni. Le certificazioni antimafia sono distinte in comunicazioni e informazioni antimafia. Mentre la comunicazione attesta le misure di prevenzione applicate a carico di un'impresa, l'informazione ha contenuto più ampio ed evidenzia anche i tentativi di infiltrazione mafiosa.
Per i contratti pubblici di valore più basso viene acquisita, tramite le prefetture, la comunicazione mentre per gli appalti di valore più elevato ci vuole l'informazione. Il correttivo, per le comunicazioni, prevede, in relazione alla futura banca dati nazionale (un grande archivio a disposizione delle amministrazioni procedenti), l'acquisizione diretta da parte delle stazioni appaltanti. Se emergeranno notizie ostative ci vorrà comunque il provvedimento conclusivo (liberatorio o interdittivo) del prefetto della provincia di sede dell'impresa.
Sempre per le comunicazioni, viene ridotto da 45 a 30 giorni il tempo per la risposta delle prefetture. Decorso i 30 giorni le stazioni appaltanti potranno stipulare il contratto previa dichiarazione sostitutiva dell'impresa interessata. Il contratto deve, quindi, prevedere la clausola di scioglimento nel caso di provvedimento interdittivo del prefetto. Se non si tratta di appalti, ma di provvidenze pubbliche subordinate alla regolarità antimafia, sarà l'amministrazione concedente a dover decidere se procedere subito o aspettare comunque la risposta prefettizia.
In ogni caso la comunicazione antimafia dovrà essere trasmessa all'impresa, anche con posta elettronica, così da accelerare eventuali impugnative. La giurisprudenza amministrativa considera autonomamente lesivo il provvedimento interdittivo del prefetto e l'avviso consente agli interessati di poter svolgere ricorsi motivati fin da subito.
Informazioni. Il correttivo colma un vuoto e introduce l'informazione sui tentativi di infiltrazione a danno di impresa immune da cause ostative: si tratta dei casi in cui sul conto dell'impresa e del suo management non risultano applicate misure interdittive e ostative, per le quali si rischiava di avere un provvedimento liberatorio, nonostante il tentativo di infiltrazione criminale.
Inoltre si fissa in 30 giorni (prorogabile a 75) il termine per le risposte delle prefetture. Prevista, analogamente alle comunicazioni, la possibilità di stipulare decorsi 30 giorni nelle more dell'invio dell'informazione da parte della prefettura. In caso di urgenza, a banca dati nazionale operativa, si potrà stipulare subito dopo l'accesso al data base. Anche l'informazione deve essere mandata all'impresa interessata, per eventuali ricorsi.
Riciclo. Il provvedimento reintroduce la possibilità di utilizzare la documentazione antimafia non scaduta precedentemente acquisita in altri procedimenti. Questo fino a che non sarà attivata la banca dati unica.
Familiari. Le verifiche vengono compiute anche sui familiari dei titolari di incarichi nelle imprese. La limitazione viene ulteriormente precisata dal secondo correttivo, stabilendo che le verifiche riguardano solo i maggiorenni: i minorenni non hanno potere decisionale nelle compagini aziendali. Dalla riduzione dei soggetti controllati sono attese riduzioni di spese e accelerazioni dei procedimenti.
Banca dati unica. Il correttivo interviene sulla futura Banca dati unica (è all'esame del consiglio di stato il regolamento attuativo). Si prevede che potrà interconnettersi con l'Anagrafe dei residenti, per pescare i dati dei familiari dei titolari di cariche societarie, da sottoporre a verifica, senza doverli chiedere alle società interessate. In prospettiva l'impresa dovrà comunicare solo i dati non rintracciabili in sistemi informativi in possesso delle amministrazioni (come i sottoscrittori di patti parasociali).
Cciaa. È stata definitivamente abbandonata l'opzione di equiparare le comunicazioni antimafia ai certificati di iscrizione alle camere di commercio (articolo ItaliaOggi del 21.08.2014).

APPALTIGare d'appalto, stop all'esclusione per motivi formali. Dl 90/2014. Novità sul «soccorso istruttorio».
Con la definitiva entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge sulla Pubblica amministrazione (Dl 90/2014) -grazie alla pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» di ieri (n. 190 del 18 agosto)- entra a regime anche una delle principali novità in materia di appalti pubblici: l'estensione del campo applicativo del cosiddetto "soccorso istruttorio", cioè la possibilità di integrare o regolarizzare i documenti presentati in sede di gara per l'attestazione della presenza dei requisiti di legge previsti dall'articolo 38 del Codice Contratti (Dlgs 163/2006).
Fin dal titolo della norma (articolo 39 del Dl Pa convertito, «Semplificazione degli oneri formali nella partecipazione a procedure di affidamento dei contratti pubblici»), l'obiettivo dichiarato dal legislatore è quindi quello di semplificare gli adempimenti che gravano sui concorrenti nelle gare, evitando che si proceda all'esclusione automatica per errori o omissioni formali in sede di rilascio delle dichiarazioni sostitutive.
L'istituto del "soccorso istruttorio" è stato introdotto all'articolo 46 del Codice (comma 1-bis) dalla legge 106/2011, ma una formulazione poco chiara e l'interpretazione dei giudici amministrativi ne hanno finora fortemente limitato l'applicazione. In sostanza la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che, in presenza dei requisiti di legge per partecipare alla gara ma con dichiarazioni imprecise o lacunose, la Pa appaltante potesse consentire all'impresa interessata di "rimediare", senza essere esclusa così dalla gara, solo per regolarizzare la forma di documenti già presentati, e non anche ove fosse necessario allegare nuovi documenti o inserire nuovi contenuti mancanti.
Ora invece, con l'aggiunta del comma 2-bis all'articolo 38 del Codice, da parte dell'articolo 39 del Dl Pa, il soccorso istruttorio sarà sempre possibile. In caso di «irregolarità non essenziali ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili» l'ente appaltante non deve neppure chiedere la regolarizzazione. In caso invece di «mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale» circa gli «elementi e dichiarazioni sostitutive» sui requisiti di cui all'articolo 38, se l'impresa vorrà proseguire la gara dovrà pagare (secondo quanto stabilito dal bando) una sanzione tra l'1 per mille e l'1% del valore della gara (ma comunque non oltre 50mila euro), integrando la documentazione entro un termine non superiore a 10 giorni.
Un problema non da poco è però che la legge non dice nulla circa la definizione di «irregolarità essenziale» o «non essenziale», lasciando così alle stazioni appaltanti il compito di stabilirlo. Il rischio è che si apra un'altra stagione di incertezza sul soccorso istruttorio, anziché l'auspicata semplificazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità volontaria, obbligo di bando per i posti da coprire. Pubblico impiego. La riforma in «Gazzetta».
La riforma del pubblico impiego appena varata dal Parlamento riscrive le regole della mobilità obbligatoria e volontaria del personale.
A occuparsene è l'articolo 4 del decreto Pa (Dl 90/14, come convertito dalla legge 114/2014, pubblicata lunedì sulla «Gazzetta Ufficiale»; si ricorda che sul Decreto Pa il Sole 24 Ore ha dedicato un focus il 15 agosto). La legge è in vigore da ieri
La modifica delle disposizioni in materia di mobilità dei dipendenti pubblici si realizza mediante la riscrittura dei commi 1 a 2 dell'articolo 30 del Testo Unico Pubblico Impiego (decreto legislativo n. 165 del 30.03.2001); la nuova disciplina rende più semplici i percorsi di trasferimento volontario, da un lato, e più agevoli quelli di trasferimento obbligatorio, dall'altro.
Secondo la nuova disciplina, le pubbliche amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti, qualora abbiano una qualifica corrispondente a quella necessaria e siano in servizio presso altre amministrazioni. Il passaggio si attua a condizione che i dipendenti facciano domanda di trasferimento, e che l'amministrazione di appartenenza dia il proprio assenso all'operazione.
Per agevolare la diffusione delle opportunità e la conoscenza dei posti vacanti, le amministrazioni devono pubblicare sul proprio sito istituzionale, per un periodo pari almeno a 30 giorni, un bando in cui sono indicati i posti che intendono ricoprire attraverso passaggio diretto.
Il bando deve indicare anche i requisiti che deve possedere il personale interessato al passaggio.
La legge prevede, in via sperimentale, e fino all'introduzione di nuove procedure per la determinazione dei fabbisogni di personale, che per il trasferimento tra le sedi centrali di differenti ministeri, agenzie ed enti pubblici non economici nazionali non è necessario l'assenso dell'amministrazione di appartenenza. Quando ricorre questa ipotesi, il trasferimento deve essere attuato entro due mesi dalla richiesta dell'amministrazione di destinazione.
Per agevolare le procedure di mobilità il Dipartimento della funzione pubblica deve istituire un portale finalizzato all'incontro tra la domanda e l'offerta di mobilità.
Una volta attuato il trasferimento, l'amministrazione di destinazione deve provvedere alla riqualificazione dei dipendenti trasferiti, avvalendosi, ove necessario, della Scuola nazionale dell'amministrazione.
La riforma contempla una seconda modalità di trasferimento, che a differenza da quella appena vista si attua a prescindere dalla volontà del dipendente.
Secondo la nuova normativa, i dipendenti pubblici possono essere trasferiti all'interno della stessa amministrazione o, previo accordo tra gli enti interessati, in altra amministrazione, qualora la sede iniziale e quella finale si trovino nel territorio dello stesso comune. Il trasferimento può essere attuato anche quando, pur non trovandosi nello stesso comune, le due sedi si trovino a distanza non superiore a 50 chilometri. In questi casi, quindi, il dipendente non può opporsi al trasferimento (con alcune eccezioni, per i fruitori di congedi parentali e dei permessi previsti dalla legge 104).
Rispetto a questa forma di trasferimento non si applica, secondo la nuova disciplina, il terzo periodo del primo comma dell'articolo 2103 del codice civile. Si tratta della norma che vieta il trasferimento da una unità produttiva ad un'altra in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
La legge prevede la facoltà di emanare un decreto (a cura del ministro per la Pubblica amministrazione) con cui definire i criteri da applicare per realizzare i processi di mobilità obbligatoria e volontaria. Si tratta di una semplice facoltà, e quindi la mancata adozione del decreto non condiziona la possibilità di attuare i trasferimenti.
La legge, infine, dichiara nulli gli accordi, gli atti o le clausole dei contratti collettivi in contrasto con le disposizioni appena descritte
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2014).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIAPer il rumore si paga anche i danni passati. Salute. I criteri del Codice civile.
La società che gestisce un'autostrada e non installa barriere fono-assorbenti può essere chiamata a risarcire per i danni, anche esistenziali, se l'inquinamento acustico diventa intollerabile.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 25.08.2014 n. 18195, pur prendendo atto che la società autostradale aveva preso gli opportuni provvedimenti anti-rumore installando le protezioni, conferma la condanna a risarcire nove cittadini, con circa 5mila euro ciascuno.
Era la stessa società che aveva presentato un ricorso, alla base del quale c'era la scelta del criterio cosiddetto comparativo (3 decibel superiore al rumore di fondo) adottato dai giudici di merito per stabilire la soglia di "sopportazione", malgrado l'assenza di una specifica normativa di settore.
Per i giudici della Terza sezione civile, però, la mancanza di una norma ad hoc è facilmente superabile col procedimento analogico, come spesso avviene nel nostro ordinamento. Per spiegare come è perché, la Cassazione parte dalla Costituzione che, con gli articoli 2 e 32, indica come fondamentale per l'individuo il diritto alla salute. A disciplinare le immissioni, anche rumorose, nei rapporti tra privati ci pensa invece l'articolo 844 del Codice civile.
Verificato il diritto a "salvaguardare i timpani" e l'esistenza di una norma che aiuta in tal senso, i giudici non vedono impedimenti alla sua estensione anche ai rapporti tra i privati e i concessionari della pubblica amministrazione. L'operazione da fare è quella di coordinare il principio guida della normale tollerabilità, dettato dall'articolo 844, coordinandolo con il criterio comparativo, che assume come punto di riferimento il rumore di fondo della zona e che consiste «nel confrontare il livello medio del rumore di fondo con quello del rumore rilevato nel luogo soggetto alle immissioni, al fine di controllare se sussista un superamento non tollerabile del livello medio di rumore, che viene fissato in tre decibel superiore al rumore di fondo». Verificato che la soglia era stata superata, è scattato il risarcimento
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2014).

PATRIMONIO - VARI: Bimbo cade al parco, immune il comune.
Un genitore «che accompagna un bambino in un parco giochi deve avere ben presente i rischi che ciò comporta» e se si verifica una caduta non può invocare la responsabilità altrui per l'esistenza di una situazione di pericolo «che egli era tenuto doverosamente a calcolare».

Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 25.08.2014 n. 18167, dando torto -in un contenzioso con in Comune- ai genitori di un bambino che ha riportato danni permanenti al volto per la caduta da un cavallo a dondolo in un parco a Fossacesia, in Abruzzo.
Il bambino, che all'epoca aveva sei anni, era scivolato battendo il volto mentre giocava sorvegliato dalla madre. I genitori avevano fatto causa al Comune puntando sul nesso tra il gioco e l'incidente. Prima il tribunale, poi la Corte d'appello dell'Aquila avevano rilevato che le giostre era state installate da poco ed erano «pienamente conformi alla normativa» in tema di sicurezza. Anzi, secondo i giudici, l'incedente era da ricondursi all'insufficiente attenzione da parte della madre del piccolo.
La Cassazione -sentenza 18167 della terza sezione civile- conferma la ricostruzione dei giudizio di merito. E spiega che, a meno che non risulti provato che le giostre fossero difettose e quindi di per sé pericolose, non può essere invocata la responsabilità di un terzo: «l'utilizzo delle giostre», sottolinea la Corte, presuppone «una qualche vigilanza da parte degli adulti» (articolo ItaliaOggi del 26.08.2014).

CONDOMINIOTerrazza a livello come il lastrico. L'utilità per gli alloggi sottostanti coinvolge nella spesa tutti i condomini. Cassazione. L'obbligo di pagare i lavori di riparazione non grava solo sul proprietario del manufatto.
Nonostante le sostanziali differenze strutturali che caratterizzano il lastrico solare e la terrazza a livello, per i giudici di legittimità la diversità tra i due manufatti continua a restare puramente teorica e astratta. Il che significa che tutti i condomini devono comunque concorrere con il proprietario della terrazza a livello nel pagamento delle spese necessarie per la riparazione o la ricostruzione della terrazza stessa, quand'anche il suo deterioramento trovi causa nella mancata manutenzione ovvero in difetti ricollegabili alle sue caratteristiche costruttive.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 25.08.2014 n. 18164, affermando che all'obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini in concorso con il proprietario superficiario.
Questo obbligo trova infatti fondamento non già nel diritto di proprietà della terrazza medesima, ma nel principio in base al quale i condomini sono tenuti a contribuire alle spese in ragione dell'utilità che la cosa da riparare o da ricostruire è destinata a dare ai singoli appartamenti sottostanti.
Era successo che il proprietario dell'appartamento sottostante il terrazzo a livello che serviva anche da copertura dell'edificio condominiale aveva citato in giudizio il proprietario esclusivo del terrazzo per ottenere il ristoro dei danni che si erano verificati nel suo immobile a seguito, a suo dire, di negligente omissione da parte di costui nell'esecuzione di opere atte a eliminare la fonte dei danni stessi, dovuta non già a vetustà o a difetto di manutenzione, bensì a vizi originari delle opere realizzate.
Il giudizio di primo grado si era concluso in suo favore, ma i giudici supremi hanno capovolto la prima sentenza sul presupposto che in ogni caso il condominio continua a mantenere l'onere della custodia e risponde quindi, ex articolo 2051 del Codice civile, dei danni provocati negli appartamenti sottostanti al terrazzo a livello a seguito di infiltrazioni d'acqua conseguenti a difetti di manutenzione, sempre che tali danni non derivino da fatto imputabile soltanto al proprietario o a colui che ne fa uso esclusivo. Sotto questo profilo è stata peraltro negata valenza probatoria alla perizia stragiudiziale prodotta dal danneggiato che, per quanto "giurata", costituisce un atto di parte anche in ordine ai fatti che il consulente asserisce di avere direttamente accertato.
Quanto al concetto di "terrazza a livello", si intende tale una superficie scoperta posta al sommo di alcuni vani e, nel contempo, sullo stesso piano di altri, dei quali costituisce parte integrante strutturalmente e funzionalmente, talché deve ritenersi, per il modo in cui è stata realizzata, che sia destinata non solo e non tanto a coprire una parte del fabbricato, ma soprattutto a dare possibilità di espansione e di ulteriore comodità all'appartamento del quale è contigua, costituendo di esso una proiezione all'aperto.
È consolidato il principio per cui la spesa per la riparazione o la ricostruzione della terrazza a livello, al pari del lastrico solare, va sopportata dai condomini secondo il criterio di cui all'articolo 1126 del Codice civile, talché i due terzi restano a carico dei proprietari delle unità immobiliari a essa sottostanti, limitatamente alle porzioni di queste a cui la terrazza serve da copertura (Cassazione 16583/2012). Il che comporta che non solo bisogna separare i condomini che hanno l'uso esclusivo della terrazza (o del lastrico) per addebitare l'onere di un terzo della spesa per la riparazione o la ristrutturazione, ma nell'abito dei rimanenti condomini va fatta un'ulteriore distinzione fra chi ha o no l'appartamento nella zona dell'edificio coperta dalla terrazza o dal lastrico (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2014).

EDILIZIA PRIVATACirca la costruzione di box prefabbricato (31 mq. circa di superficie e 89 mc. circa di volume) non è possibile affermare la natura pertinenziale di tale manufatto, in quanto di dimensioni non modeste e privo di una funzione strumentale di servizio od ornamentale rispetto all’edificio principale.
Oltretutto, affinché un'opera possa essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua strumentalità rispetto all'immobile principale sia oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura, e non soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal possessore.
Tale nozione riguarda, quindi, soltanto opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche opere che dal punto di vista delle dimensioni e della funzione si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano, quindi, coessenziali al bene principale.

Con il primo motivo il ricorrente deduce l’illegittimità del diniego impugnato per violazione dell’art. 7 della legge n. 94/1982 e per eccesso di potere per carenza di motivazione poiché il Comune resistente avrebbe erroneamente negato la natura pertinenziale del box prefabbricato, oggetto dell’istanza ex art. 13 della legge n. 47/1985, nonostante le sue dimensioni (31 mq.) e la sua ubicazione rispetto all’immobile principale, sito in località Serra Rifusa, fossero indici inequivocabili del suo essere funzionalmente e oggettivamente posto a servizio del fabbricato di proprietà del sig. D.B..
La censura deve essere disattesa.
E, infatti, non è possibile affermare la natura pertinenziale di tale manufatto, in quanto di dimensioni non modeste (31 mq. circa di superficie e 89 mc. circa di volume) e privo di una funzione strumentale di servizio od ornamentale rispetto all’edificio principale. Oltretutto, affinché un'opera possa essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua strumentalità rispetto all'immobile principale sia oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura, e non soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal possessore.
Tale nozione riguarda, quindi, soltanto opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche opere che dal punto di vista delle dimensioni e della funzione si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano, quindi, coessenziali al bene principale (cfr. TAR Piemonte, I, 23.07.2013, n. 912).
Peraltro, della destinazione funzionale e della secondarietà del manufatto in parola rispetto a quello che si assume come principale, il ricorrente avrebbe dovuto fornire una prova adeguata, non limitandosi, com’è avvenuto nel caso in esame, ad affermarne la vicinanza –peraltro mai specificata in termini di misure- rispetto all’immobile sito in località Serra Rifusa e ad enunciarne le dimensioni, assumendone l’idoneità al ricovero di una sola vettura.
Alla luce delle considerazioni esposte il box descritto negli atti non pare, dunque, rivestire il richiesto carattere oggettivo di pertinenza rispetto ad un immobile principale, né tanto meno risulta essere stata dimostrata la enunciata funzione servente e strumentale rispetto al fabbricato di proprietà del ricorrente (TAR Basilicata, sentenza 22.08.2014 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento all'art. 9, comma 1, della legge n. 122/1989 la giurisprudenza ha chiarito che la sfera applicativa delle agevolazioni da esso contemplate, in considerazione delle finalità della legge e in relazione al suo carattere eccezionale, non può estendersi al di fuori delle ipotesi normativamente previste.
Ne discende che la costruzione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, rimane assoggettata al regime urbanistico delle nuove costruzioni fuori terra.
Pertanto, la deroga agli strumenti urbanistici è operante, solo quando i parcheggi siano realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi -e, quindi, i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche-, se non vengano a ciò adibiti i locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei fabbricati o delle aree pertinenziali.
Alla stregua di tali principi, e considerato che il ricorrente ha realizzato una nuova costruzione totalmente fuori terra, quest'ultima non può sottrarsi ai parametri ed ai vincoli imposti dal vigente strumento urbanistico sull'area di intervento con conseguente legittimità, sotto tale profilo, del diniego dell’istanza di accertamento di conformità.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’illegittimità del diniego impugnato per violazione dell’art. 9 della legge n. 122/1989 poiché la giurisprudenza prima e il legislatore poi, con l’art. 17, comma 90, della legge n. 127/1997, avrebbero seguito un’interpretazione estensiva del disposto della citata norma, non limitando la realizzazione dei parcheggi pertinenziali al solo sottosuolo dei fabbricati, ma consentendola anche nel sottosuolo delle aree pertinenziali esterne agli immobili. Ne discende, quindi, che l’amministrazione non avrebbe dovuto negare la sanatoria sulla base della sola constatazione della natura non interrata del box, ma avrebbe dovuto interrogarsi circa l’ammissibilità della detta realizzazione e soprattutto in merito alla sua compatibilità con la ratio della legge n. 122/1989.
Anche tale censura non è meritevole di condivisione e deve essere disattesa.
Con riferimento all'art. 9, comma 1, della legge n. 122/1989 la giurisprudenza ha chiarito che la sfera applicativa delle agevolazioni da esso contemplate, in considerazione delle finalità della legge e in relazione al suo carattere eccezionale, non può estendersi al di fuori delle ipotesi normativamente previste (cfr. Cons. Stato, V, 29.03.2006, n. 1608).
Ne discende che la costruzione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, rimane assoggettata al regime urbanistico delle nuove costruzioni fuori terra (cfr. Cons. Stato, V, 29.03.2004, n. 1662; Cons. Stato, V, 29.03.2006 n. 1608; Cons. Stato, IV, 26.09.2008 n. 4645; TAR Lazio, Roma, I, 16.04.2008, n. 3259).
Pertanto, la deroga agli strumenti urbanistici è operante, solo quando i parcheggi siano realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi -e, quindi, i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche-, se non vengano a ciò adibiti i locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei fabbricati o delle aree pertinenziali (cfr. TAR Campania, Napoli, VIII, 23.05.2013, n. 2724).
Alla stregua di tali principi, e considerato che il ricorrente ha realizzato una nuova costruzione totalmente fuori terra, quest'ultima non può sottrarsi ai parametri ed ai vincoli imposti dal vigente strumento urbanistico sull'area di intervento con conseguente legittimità, sotto tale profilo, del diniego dell’istanza di accertamento di conformità (TAR Basilicata, sentenza 22.08.2014 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo l’orientamento consolidato e prevalente della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, in tema di prescrizione del diritto del Comune di percepire il conguaglio dell'oblazione, la riduzione del relativo termine da 10 anni a 36 mesi, stabilita dall'art. 35, comma 18, della legge n. 47/1985, come modificato dal D.L. n. 2 del 1988, convertito nella legge n. 68/1988, non decorre prima che la relativa obbligazione possa ritenersi definitivamente accertata in tutti i suoi elementi, e ciò richiede, necessariamente, che la domanda di condono sia completa di tutta la documentazione necessaria anche ai fini della formazione del silenzio-assenso.
Muovendo da siffatto presupposto, il Collegio reputa che per il conguaglio dell'oblazione, dovuta in caso di condono edilizio, il dies a quo non possa coincidere con la presentazione della domanda, sfornita della documentazione necessaria per la disamina della stessa e richiesta ai fini della corretta e definitiva determinazione dell'entità dell'oblazione.
In altre parole, la decorrenza del termine di prescrizione di cui si discorre presuppone (tanto in favore della P.A. per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso) che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'an ed il quantum dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la ratio sottesa all'art. 2935 c.c., ai sensi del quale la prescrizione non può decorrere se non "... dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere".
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In ordine ai presupposti legittimanti la formazione del silenzio-assenso sulle domande di condono edilizio, presentate ai sensi delle leggi n. 47/1985 e n. 724/1994, la domanda di condono deve essere corredata dalla necessaria documentazione indicata dalla legge, essendo la produzione di tale documentazione indispensabile proprio al fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed oggettivi.
Infatti, sul piano oggettivo, la formazione del silenzio-assenso richiede quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente dimostrati gli ulteriori requisiti sostanziali relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'amministrazione comunale e, del pari, sotto il profilo soggettivo, deve essere dimostrata la legittimazione attiva del richiedente il condono.
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Il termine decennale di prescrizione dell'obbligazione sul pagamento degli oneri concessori decorre, nell'ipotesi di mancata esplicita definizione della domanda di condono, dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi dell'art. 35 della legge n. 47/1985, si forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di concessione.

Secondo l’orientamento consolidato e prevalente della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, in tema di prescrizione del diritto del Comune di percepire il conguaglio dell'oblazione, la riduzione del relativo termine da 10 anni a 36 mesi, stabilita dall'art. 35, comma 18, della legge n. 47/1985, come modificato dal D.L. n. 2 del 1988, convertito nella legge n. 68/1988, non decorre prima che la relativa obbligazione possa ritenersi definitivamente accertata in tutti i suoi elementi, e ciò richiede, necessariamente, che la domanda di condono sia completa di tutta la documentazione necessaria anche ai fini della formazione del silenzio-assenso (cfr. tra le tante Cons. St., IV, 03.10.2012, n. 5201; TAR Campania, Salerno, II n. 8224 del 2010).
Muovendo da siffatto presupposto, il Collegio reputa che per il conguaglio dell'oblazione, dovuta in caso di condono edilizio, il dies a quo non possa coincidere con la presentazione della domanda, sfornita della documentazione necessaria per la disamina della stessa e richiesta ai fini della corretta e definitiva determinazione dell'entità dell'oblazione.
In altre parole, la decorrenza del termine di prescrizione di cui si discorre presuppone (tanto in favore della P.A. per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso) che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'an ed il quantum dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la ratio sottesa all'art. 2935 c.c., ai sensi del quale la prescrizione non può decorrere se non "... dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere".
Fermo restando quanto innanzi rappresentato, rileva, con specifico riguardo alla questione del silenzio-assenso, quanto affermato dalla consolidata giurisprudenza in materia, secondo cui, in ordine ai presupposti legittimanti la formazione del silenzio-assenso sulle domande di condono edilizio, presentate ai sensi delle leggi n. 47/1985 e n. 724/1994, la domanda di condono deve essere corredata dalla necessaria documentazione indicata dalla legge, essendo la produzione di tale documentazione indispensabile proprio al fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed oggettivi (cfr. Cons. St. IV, 16.02.2011, n. 1005; Cons. St., V, 03.11.2010, n. 7770; Cons. St., IV, 30.06.2010, n. 4174)
Infatti, sul piano oggettivo, la formazione del silenzio-assenso richiede quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente dimostrati gli ulteriori requisiti sostanziali relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'amministrazione comunale e, del pari, sotto il profilo soggettivo, deve essere dimostrata la legittimazione attiva del richiedente il condono.
La giurisprudenza ha, infine, chiarito che il termine decennale di prescrizione dell'obbligazione sul pagamento degli oneri concessori decorre, nell'ipotesi di mancata esplicita definizione della domanda di condono, dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi dell'art. 35 della legge n. 47/1985, si forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di concessione (TAR Basilicata, sentenza 22.08.2014 n. 552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante, i provvedimenti con cui l'ente locale rivendica somme a conguaglio dovute a titolo di oblazione o di oneri concessori non abbisognano di particolare motivazione, in quanto la determinazione di tali somme costituisce il risultato di una mera operazione materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o da norme di natura regolamentare stabilite dall'Amministrazione, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente.
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Una volta che sia stata giudizialmente accertata la legittimità della pretesa dell’Amministrazione alla somma richiesta a titolo di conguaglio dell’oblazione e, quindi, con effetto retroattivo alla data in cui questa avrebbe dovuto essere versata nel suo intero importo, la pretesa da parte della stessa Amministrazione creditrice agli interessi legali segue alla loro natura di corrispettivo di un’utilità di cui l’accipiens ha potuto fruire solo con ritardo, con conseguente vantaggio patrimoniale per il solvens.
In altri termini, secondo l’indirizzo giurisprudenziale condiviso dal Collegio, l’obbligo di corresponsione degli interessi legali decorre dalla data di presentazione della domanda nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, il richiedente la sanatoria abbia commesso un errore in sede di autoliquidazione dell’oblazione.

Non coglie nel segno l’ulteriore doglianza concernente il difetto di motivazione dell’impugnato provvedimento. In senso contrario, va infatti osservato che, per giurisprudenza costante, i provvedimenti con cui l'ente locale rivendica somme a conguaglio dovute a titolo di oblazione o di oneri concessori non abbisognano di particolare motivazione, in quanto la determinazione di tali somme costituisce il risultato di una mera operazione materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o da norme di natura regolamentare stabilite dall'Amministrazione, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente (cfr. ex multis TAR Lazio, Sezione II-bis, 25.02.2014, n. 2209; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.01.2012, n. 16).
Il ricorrente, infine, deduce che gli interessi legali sulle somme dovute a titolo di differenza di oblazione e di oneri concessori dovrebbero decorrere dalla data di messa in mora e non dalla data di presentazione della domanda di condono, perché l’inerzia dell’amministrazione non potrebbe tradursi in un vantaggio per quest’ultima.
Anche questo motivo è privo di pregio. Invero, una volta che sia stata giudizialmente accertata la legittimità della pretesa dell’Amministrazione alla somma richiesta a titolo di conguaglio dell’oblazione e, quindi, con effetto retroattivo alla data in cui questa avrebbe dovuto essere versata nel suo intero importo, la pretesa da parte della stessa Amministrazione creditrice agli interessi legali segue alla loro natura di corrispettivo di un’utilità di cui l’accipiens ha potuto fruire solo con ritardo, con conseguente vantaggio patrimoniale per il solvens (cfr. TAR Basilicata, 03.05.2004, n. 305).
In altri termini, secondo l’indirizzo giurisprudenziale condiviso dal Collegio, l’obbligo di corresponsione degli interessi legali decorre dalla data di presentazione della domanda nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, il richiedente la sanatoria abbia commesso un errore in sede di autoliquidazione dell’oblazione (cfr. TAR Campania, sez. VII, 08.02.2013, n. 823; TAR Puglia, sez. III, 13.04.2011, n. 581) (TAR Basilicata, sentenza 22.08.2014 n. 548 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Il negoziante paga caro il gradino rotto. Cassazione. Alla cliente caduta vanno risarciti il danno biologico e quello morale.
Costa cara al negoziante la rovinosa caduta di un proprio cliente, all'interno del suo esercizio –nella fattispecie su «una rotta e sconnessa pavimentazione di scalini»– se l'episodio ne provoca «postumi permanenti». Il commerciante dovrà, infatti, anche corrispondere tanto il danno biologico quanto quello morale.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione (Sez. VI civile, con l'ordinanza 21.08.2014 n. 18101) in merito a un ricorso presentato dai parenti della vittima –una donna successivamente morta, dopo l'avvio della causa, risalente al 1999– stabilendo che il giudice non può limitarsi a riconoscere «i soli pregiudizi connessi all'inabilità temporanea assoluta e parziale», che era stata fissata in una quota pari al 15 per cento.
Il provvedimento ha avuto l'effetto di rimandare la questione (e il ricalcolo dei danni, compresa la determinazione delle spese processuali) alla Corte d'appello di Salerno che si era pronunciata in modo «limitato», secondo la Suprema corte. Il procedimento in questione, portato inizialmente all'attenzione del Tribunale di Nocera Inferiore, si era interrotto con il decesso della donna rimasta infortunata in modo permanente. E c'è voluta l'ostinazione dei familiari eredi per rimettere in pista il caso.
Questi, dopo il no all'istanza di indennizzo cinque anni dopo la citazione, non si scoraggiano e si rivolgono alla Corte d'appello che, alla fine, dà loro ragione, condannando i titolari del negozio dove avvenne l'infortunio, al pagamento di 3.150 euro «oltre accessori e spese di entrambi i gradi».
La sorpresa è che non è il negoziante a ribellarsi alla sentenza, ma nuovamente i parenti della vittima i quali, non soddisfatti, tornano alla carica e, tramite i propri legali, evidenziano che «il giudice di merito aveva omesso di liquidare sia il danno biologico che quello morale». E, anzi, rincarando la dose, «si dolgono della mancata attribuzione della maggiorazione del 20%» prevista da una specifica norma.
I parenti della vittima dovranno ora attendere il nuovo pronunciamento della Corte d'appello di Salerno, ma avranno almeno modo di poter dire che «giustizia è fatta»
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'intestatario di un impianto pubblicitario incorporato da un'altra società laddove quest'ultima non abbisogna che richieda al comune la "volturazione" dell'impianto medesimo.
La Unicredit non aveva alcun onere di inoltrare al Comune di Palermo una richiesta di “voltura” dell’autorizzazione precedentemente intestata al Banco di Sicilia.
Ed invero con regolare atto notarile di fusione il Banco di Sicilia è stato incorporato nella Unicredit.
Ne consegue che in forza dell’art. 2504-bis del codice civile la Unicredit ha assunto tutti i diritti e gli obblighi del Banco di Sicilia.
E poiché il Banco di Sicilia aveva titolo per utilizzare l’impianto di pubblicità per cui è causa, essendo titolare dell’autorizzazione all’uopo rilasciata dal Comune, tale diritto è automaticamente transitato in capo alla Unicredit che è subentrata al primo.
L’ordine di idee testé espresso è confermato dal pacifico orientamento della giurisprudenza, la quale afferma costantemente, al riguardo:
- che “… la fusione per incorporazione determina automaticamente l’estinzione della società incorporata ed il sub ingresso, per successione a titolo universale, della società incorporante nei rapporti sostanziali e processuali relativi alla prima …”;
- e che “… il complesso delle situazioni soggettive in precedenza proprie delle società incorporate o fuse si trasferisce ipso jure alla società incorporante o risultante dalla fusione; e ciò alla stregua del principio di continuità postulato dall’art. 2504-bis c.c.”.

Il ricorso è fondato sotto gli assorbenti profili di cui al secondo, terzo e quarto motivo di gravame.
Con il secondo mezzo di gravame la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2504-bis del codice civile ed eccesso di potere per illogicità e travisamento dei fatti, deducendo:
- che erroneamente l’Amministrazione comunale ha ritenuto che l’Unicredit -dante causa della DAMIR- non fosse regolarmente subentrata al Banco di Sicilia (non avendo illo tempore chiesto la volturazione in suo favore dell’autorizzazione a gestire l’impianto);
- che, invero, non occorreva affatto che l’Unicredit chiedesse la volturazione in proprio favore dell’autorizzazione già rilasciata al Banco di Sicilia; e ciò in quanto la prima ha “incorporato” quest’ultima mediante un regolare atto di fusione.
La doglianza merita accoglimento.
Come correttamente rilevato dalla Difesa della DAMIR, la Unicredit non aveva alcun onere di inoltrare al Comune di Palermo una richiesta di “voltura” dell’autorizzazione precedentemente intestata al Banco di Sicilia.
Ed invero con regolare atto di fusione (rogato in Notaio Andrea Ganelli, Rep. n. 19430 del 19.10.2010), il Banco di Sicilia è stato incorporato nella Unicredit.
Ne consegue che in forza dell’art. 2504-bis del codice civile la Unicredit ha assunto tutti i diritti e gli obblighi del Banco di Sicilia.
E poiché il Banco di Sicilia aveva titolo per utilizzare l’impianto di pubblicità per cui è causa, essendo titolare dell’autorizzazione all’uopo rilasciata dal Comune, tale diritto è automaticamente transitato in capo alla Unicredit che è subentrata al primo.
L’ordine di idee testé espresso è confermato dal pacifico orientamento della giurisprudenza, la quale afferma costantemente, al riguardo:
- che “… la fusione per incorporazione determina automaticamente l’estinzione della società incorporata ed il sub ingresso, per successione a titolo universale, della società incorporante nei rapporti sostanziali e processuali relativi alla prima …” (TAR Lazio, Roma, II, 24.10.2006 n. 11027; TAR Toscana, Firenze, II, 06.02.2006 n. 267; TAR Lazio, Roma, III, 23.07.2004 n. 7296);
- e che “… il complesso delle situazioni soggettive in precedenza proprie delle società incorporate o fuse si trasferisce ipso jure alla società incorporante o risultante dalla fusione; e ciò alla stregua del principio di continuità postulato dall’art. 2504-bis c.c.” (C.S., IV, 15.09.2003 n. 5150).
E poiché il Comune di Palermo era stato avvisato dell’avvenuta fusione per incorporazione con nota prot. 2011/721217 del 14.10.2011, il provvedimento non resiste sotto alcun profilo alla doglianza.
In conclusione, posto che la Unicredit era automaticamente (ipso jure, e dunque regolarmente) subentrata al Banco di Sicilia nella titolarità dell’autorizzazione a suo tempo rilasciata al Banco di Sicilia, la DAMIR ben poteva (e può) acquistare direttamente dalla Unicredit la proprietà dell’impianto, ed ottenere dal Comune la volturazione in suo favore dell’autorizzazione per cui è causa (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 21.08.2014 n. 2226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Invasione di pista. Il pedone risarcisce il ciclista danneggiato.
Il pedone che invade la pista ciclabile risarcisce il ciclista che cade per schivarlo.

La Corte di Cassazione con la sentenza 19.08.2014 n. 35957 spezza una lancia a difesa dello spazio dedicato esclusivamente alle due ruote che non può essere «usurpato» dai pedoni neppure per distrazione.
La ricorrente viene condannata a pagare 8 mila euro, più duemila euro di spese legali (l'avvocato della parte civile) per i danni provocati a causa della sua disattenzione. La donna era scesa «repentinamente e senza guardare» da un marciapiede e si era trovata sulla traiettoria della ciclista che per evitare, con successo, il contatto con lei era caduta ferendosi a un occhio.
La passante, era finita davanti al giudice di pace che l'aveva però prosciolta –per non aver commesso il fatto– dall'accusa di aver colposamente violato le norme sulla disciplina della circolazione stradale. Dopo l'appello della ciclista il Tribunale di Firenze aveva però punito l'invasione di campo, dimostrando una severità che la Cassazione condivide.
Del tutto inutile per la signora distratta far notare che lei non si era fatta nulla perché lei e la signora sulla bici non si erano neppure sfiorate. Sia la Cassazione sia i giudici di merito danno un maggior peso alla testimonianza della parte lesa che aveva riportato una ferita, guaribile in 40 giorni, pur di evitare l'ostacolo imprevisto
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2014).

APPALTINelle gare pubbliche le valutazioni in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti, e la loro incidenza sulla moralità professionale, spettano esclusivamente all'Amministrazione appaltante, e non già ai concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro in sede di domanda di partecipazione alla gara, ciò implicando un giudizio inevitabilmente soggettivo, evidentemente inconciliabile con la finalità della norma.
D'altra parte, non può sottacersi che la completezza e la veridicità, sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le sentenze penali di condanna eventualmente riportate, della dichiarazione sostitutiva di notorietà, si rende necessaria, rappresentando essa lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, capace di contemperare i contrapposti interessi in gioco, e cioè quello privato dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara e quello pubblico, delle Amministrazioni appaltanti, di poter verificare, con immediatezza e tempestività, se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi o limitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, realizzando quanto più celermente ed efficacemente possibile l'interesse pubblico perseguito con la gara di appalto.
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I reati in materia di violazione delle norme sulla repressione dell'evasione fiscale, a cui vanno ascritti quelli commessi dal legale rappresentante della ricorrente, risultano tra quelli, in astratto, idonei ad incidere sulla moralità professionale.
La stazione appaltante ha altresì valutato in concreto la gravità delle dette condotte penalmente rilevanti, con riferimento allo specifico oggetto dell’appalto, evidenziando, in particolare, il reiterarsi della medesima condotta criminosa, l’entità delle pene irrogate, la mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna sul casellario giudiziale, la non risalenza nel tempo dei fatti, e che “l’ambito nel quale si è concretizzata la condotta criminosa e la finalità della stessa sono direttamente riferibili all’attività imprenditoriale” del concorrente.

I) Preliminarmente, ed in linea generale, il Collegio richiama il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui nelle gare pubbliche le valutazioni in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti, e la loro incidenza sulla moralità professionale, spettano esclusivamente all'Amministrazione appaltante, e non già ai concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro in sede di domanda di partecipazione alla gara, ciò implicando un giudizio inevitabilmente soggettivo, evidentemente inconciliabile con la finalità della norma.
D'altra parte, non può sottacersi che la completezza e la veridicità, sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le sentenze penali di condanna eventualmente riportate, della dichiarazione sostitutiva di notorietà, si rende necessaria, rappresentando essa lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, capace di contemperare i contrapposti interessi in gioco, e cioè quello privato dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara e quello pubblico, delle Amministrazioni appaltanti, di poter verificare, con immediatezza e tempestività, se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi o limitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, realizzando quanto più celermente ed efficacemente possibile l'interesse pubblico perseguito con la gara di appalto (C.S., Sez. V, 06.03.2013 n. 1378, TAR Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, 24.11.2011 n. 537).
II) Con riferimento alla fattispecie per cui è causa, ritiene il Collegio che la valutazione di incidenza posta in essere dall’Amministrazione sia esente da profili di irragionevolezza ed arbitrarietà, atteso che, in primo luogo, i reati in materia di violazione delle norme sulla repressione dell'evasione fiscale, a cui vanno ascritti quelli commessi dal legale rappresentante della ricorrente, risultano tra quelli, in astratto, idonei ad incidere sulla moralità professionale (C.S. Sez. V, 20.03.2007 n. 1331).
La stazione appaltante ha altresì valutato in concreto la gravità delle dette condotte penalmente rilevanti, con riferimento allo specifico oggetto dell’appalto, evidenziando, in particolare, il reiterarsi della medesima condotta criminosa, l’entità delle pene irrogate, la mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna sul casellario giudiziale, la non risalenza nel tempo dei fatti, e che “l’ambito nel quale si è concretizzata la condotta criminosa e la finalità della stessa sono direttamente riferibili all’attività imprenditoriale” del concorrente.
III) Alla luce di quanto precede non colgono nel segno gli argomenti difensivi della ricorrente, secondo cui gli effetti di una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 80/2014) avrebbero comportato la sua assoluzione, atteso che, in primo luogo, la stessa ricollega tali effetti solo ad alcuni dei provvedimenti penali pronunciati a suo carico, e non quindi anche alla sentenza del 29.11.2012, e che comunque, come osservato dalla difesa comunale, la pronuncia della Corte è stata depositata successivamente alla domanda di partecipazione, che avrebbe pertanto dovuto menzionare anche tali condanne (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.08.2014 n. 2208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn linea generale, nelle procedure di gara pubblica, il potere di soccorso, previsto dall'art. 46, c. 1, D.Lgs. 12.4.2006 n. 163, si sostanzia nel dovere della stazione appaltante di consentire la regolarizzazione di certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti, consentendo di dare concreta applicazione ai principi di proporzionalità e di favor partecipationis, secondo cui il pur necessario formalismo nello svolgimento delle procedure per l'affidamento dei contratti pubblici non può giungere fino all'esclusione dal confronto di quanti abbiano presentato dichiarazioni complete, ma non del tutto univoche.
Nel caso in cui l'impresa concorrente abbia invece integralmente omesso la produzione documentale prevista, alla stazione appaltante è precluso sopperirvi con il detto rimedio della regolarizzazione.

Osserva il Collegio che, in linea generale, nelle procedure di gara pubblica, il potere di soccorso, previsto dall'art. 46, c. 1, D.Lgs. 12.4.2006 n. 163, si sostanzia nel dovere della stazione appaltante di consentire la regolarizzazione di certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti, consentendo di dare concreta applicazione ai principi di proporzionalità e di favor partecipationis, secondo cui il pur necessario formalismo nello svolgimento delle procedure per l'affidamento dei contratti pubblici non può giungere fino all'esclusione dal confronto di quanti abbiano presentato dichiarazioni complete, ma non del tutto univoche (C.S. Sez. V, 17.06.2014 n. 3093). Nel caso in cui l'impresa concorrente abbia invece integralmente omesso la produzione documentale prevista, alla stazione appaltante è precluso sopperirvi con il detto rimedio della regolarizzazione (C.S. Sez. IV, 04.07.2012 n. 3925).
Ritiene il Collegio che, nella fattispecie per cui è causa, la ricorrente versasse in una situazione di mera irregolare dimostrazione del possesso del requisito, e non di sua radicale mancata allegazione, ciò che doveva dare luogo all’applicazione, da parte della stazione appaltante, dell’istituto di cui al cit. art. 46, consentendo così di sanare l’omissione parziale in cui la stessa era incorsa. In via di fatto, va peraltro osservato che, nella stessa giornata dell’esclusione, con lettera prot. n. 62/2014, il legale rappresentante della ricorrente ha prodotto la documentazione mancante, senza pertanto che l’omessa applicazione del c.d. soccorso istruttorio potesse essere giustifica da ragioni di celerità.
Come infatti già evidenziato, la lex specialis, come interpretata dal predetto chiarimento del 24.04.2014, richiedeva ai fini della dimostrazione della capacità economica e finanziaria la produzione di due referenze bancarie, o in alternativa, di una sola referenza, di una dichiarazione sostitutiva, e di taluni bilanci. La ricorrente ha corredato la propria domanda di partecipazione con la referenza bancaria e la vista dichiarazione sostitutiva, ciò che consente di escludere che la stessa abbia radicalmente omesso di comprovare il requisito di che trattasi, che è stato invece irregolarmente documentato dalla stessa, a causa della mancata ulteriore allegazione dei detti bilanci, che avrebbero pertanto dovuto essere richiesti dalla stazione appaltante, prima di escludere la ricorrente.
Il ricorso va pertanto accolto, potendosi prescindere dallo scrutinio della domanda di risarcimento del danno, atteso che, in virtù del decreto monocratico n. 928/2014, il provvedimento impugnato non ha cagionato alcun pregiudizio alla ricorrente, che è stata comunque provvisoriamente ammessa alla procedura di gara (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.08.2014 n. 2207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa repressione degli abusi edilizi ha natura obbligatoria e vincolata per l’amministrazione che ne ha accertato l’esistenza, per cui l’esercizio del relativo potere discende dalla sola constatazione di una situazione di fatto difforme da quella di diritto e l’ordinanza che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva mediante ripristino dello stato dei luoghi è meramente finalizzata a ristabilire la legalità oggettivamente violata.
Presupposto per la sua adozione è dunque l’accertamento non di responsabilità storiche nella commissione dell’illecito ma di una situazione di fatto dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia.
Ne deriva che, ai fini dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia, è ininfluente l’elemento soggettivo della colpa, potendo l’amministrazione procedere all’adozione della misura demolitoria anche nei confronti del proprietario non autore dell’abuso, fermo restando che l’eventuale estraneità del proprietario dell’area alla realizzazione dell’abuso comporta che l’ordine di demolizione non possa costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insistono le opere abusive.
Nella sentenza invocata dal ricorrente, la Corte costituzionale ha affermato che qualora non ricorrano i presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel caso in cui l’area sia di proprietà del terzo incolpevole, la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato dall’abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi esecuzione d’ufficio. E ciò senza che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell’area che, se di proprietà del terzo estraneo all’abuso, deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d’ufficio la demolizione. Quanto sopra a condizione che risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario dell’area al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
La verifica di tali condizioni non costituisce presupposto di legittimità dell’ordinanza di demolizione, ma semmai del provvedimento di acquisizione gratuita che faccia seguito all’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione.
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Il provvedimento, che ingiunge la demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata, non richiede la previa comunicazione d’avvio del procedimento, essendo esso obbligatorio e con contenuto vincolato, tanto più quando, come nella specie, le opere abusive insistano su aree vincolate.
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Il verbale di accertamento dell’inadempienza all’ordine di demolizione, nel caso di specie, si limita a descrivere e dichiarare le operazioni effettuate durante l’accesso ai luoghi e a constatare che le opere abusive “risultano essere ancora in sito e solo in parte rimosse”, ma non riporta la misura e l’identificazione della superficie da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale.
Ne discende che il verbale impugnato, in quanto mero atto di accertamento dello stato dei luoghi e dell’inottemperanza a quanto precedentemente ordinato dall’amministrazione, non è configurabile quale espressione di esercizio di una potestà amministrativa e come tale è atto privo di carattere provvedimentale.
Sicché, come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa in analoghe fattispecie, il mero verbale redatto dagli agenti della Polizia locale ha valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia municipale, alla quale non è attribuita la competenza all’adozione di atti di amministrazione attiva, a tal uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l’esito attraverso un formale atto di accertamento produttivo degli effetti previsti dall’art. 31, comma 4, del D.P.R. n. 380/2001.

La censura non ha fondamento.
La repressione degli abusi edilizi ha natura obbligatoria e vincolata per l’amministrazione che ne ha accertato l’esistenza, per cui l’esercizio del relativo potere discende dalla sola constatazione di una situazione di fatto difforme da quella di diritto e l’ordinanza che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva mediante ripristino dello stato dei luoghi è meramente finalizzata a ristabilire la legalità oggettivamente violata. Presupposto per la sua adozione è dunque l’accertamento non di responsabilità storiche nella commissione dell’illecito ma di una situazione di fatto dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia.
Ne deriva che, ai fini dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia, è ininfluente l’elemento soggettivo della colpa, potendo l’amministrazione procedere all’adozione della misura demolitoria anche nei confronti del proprietario non autore dell’abuso, fermo restando che l’eventuale estraneità del proprietario dell’area alla realizzazione dell’abuso comporta che l’ordine di demolizione non possa costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insistono le opere abusive.
Nella sentenza invocata dal ricorrente, la Corte costituzionale ha affermato che qualora non ricorrano i presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel caso in cui l’area sia di proprietà del terzo incolpevole, la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato dall’abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi esecuzione d’ufficio. E ciò senza che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell’area che, se di proprietà del terzo estraneo all’abuso, deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d’ufficio la demolizione. Quanto sopra a condizione che risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario dell’area al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
La verifica di tali condizioni non costituisce presupposto di legittimità dell’ordinanza di demolizione, ma semmai del provvedimento di acquisizione gratuita che faccia seguito all’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione.
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Nel motivo successivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 7 l. n. 241/1990 per la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento sanzionatorio.
La censura è infondata alla luce del costante orientamento secondo cui il provvedimento, che ingiunge la demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata, non richiede la previa comunicazione d’avvio del procedimento, essendo esso obbligatorio e con contenuto vincolato (cfr., da ultimo, CdS, sez. IV 20.05.2014 n. 2568), tanto più quando, come nella specie, le opere abusive insistano su aree vincolate (CdS, sez. IV 09.05.2014, n. 2380).
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I secondi motivi aggiunti si dirigono avverso il verbale 28.01.2003 di accertamento dell’inadempienza all’ordine di demolizione.
In proposito va precisato che il citato verbale si limita a descrivere e dichiarare le operazioni effettuate durante l’accesso ai luoghi e a constatare che le opere abusive “risultano essere ancora in sito e solo in parte rimosse”, ma non riporta la misura e l’identificazione della superficie da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale.
Ne discende che il verbale impugnato, in quanto mero atto di accertamento dello stato dei luoghi e dell’inottemperanza a quanto precedentemente ordinato dall’amministrazione, non è configurabile quale espressione di esercizio di una potestà amministrativa e come tale è atto privo di carattere provvedimentale.
I secondi motivi aggiunti sono quindi inammissibili poiché -come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa in analoghe fattispecie (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 15.02.1999, n. 32; TAR Lazio, Sezione II-ter, 12.11.2001, n. 9155; TAR Campania, Sezione IV, 24.09.2002, n. 5582; Sezione VI, 17.01.2011 n. 215; Sezione II, 18.05.2005 n. 6526; 14.06.2010 n. 6555; 27.08.2010 n. 17245)- il mero verbale redatto dagli agenti della Polizia locale ha valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia municipale, alla quale non è attribuita la competenza all’adozione di atti di amministrazione attiva, a tal uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l’esito attraverso un formale atto di accertamento produttivo degli effetti previsti dall’art. 31, comma 4, del D.P.R. n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.08.2014 n. 2206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn ossequio a quell’orientamento giurisprudenziale, di recente confermato, qualora l’amministrazione, a fronte di una domanda di sanatoria incompleta, richieda all’interessato l’integrazione della documentazione, assegnandogli un termine per provvedere, quest’ultimo deve ritenersi tassativo, sicché l’inottemperanza a tale richiesta determina la chiusura della pratica e costituisce legittimo motivo di diniego della concessione edilizia in sanatoria.
È ovvio, infatti, che l’incompletezza della domanda non consente neppure lo svolgimento dell’istruttoria con la conseguenza che è irrilevante che l’amministrazione comunale, nel rigettare l’istanza di sanatoria, non abbia preventivamente acquisito i pareri che, se favorevoli, sono invece necessari per procedere al rilascio della concessione.
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Ai sensi dell’art. 13 l. 28.02.1985 n. 47, la concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante postula che le opere risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.

Le doglianze non possono essere apprezzate.
In punto di fatto va precisato che l’amministrazione comunale, con nota in data 12.10.2000, su conforme parere della commissione edilizia, ha considerato necessario acquisire, ai fini dell’esame della domanda di sanatoria, la documentazione prescritta dal Regolamento edilizio per gli impianti di radiodiffusione e ha richiesto al ricorrente di provvedere alle dovute integrazioni, entro il termine di sessanta giorni.
Come risulta dalla relazione tecnica allegata alla (non completa) documentazione integrativa prodotta, il ricorrente ha rifiutato di depositare la documentazione richiesta sostenendo che “la domanda di accertamento di conformità riguarda impianti eseguiti prima dell’entrata in vigore del regolamento che pertanto è inapplicabile per il rilascio della sanatoria”.
In tale quadro, l’infondatezza dei rilievi del ricorrente può affermarsi in ossequio a quell’orientamento giurisprudenziale, di recente confermato, secondo il quale, qualora l’amministrazione, a fronte di una domanda di sanatoria incompleta, richieda all’interessato l’integrazione della documentazione, assegnandogli un termine per provvedere, quest’ultimo deve ritenersi tassativo, sicché l’inottemperanza a tale richiesta determina la chiusura della pratica e costituisce legittimo motivo di diniego della concessione edilizia in sanatoria.
È ovvio, infatti, che l’incompletezza della domanda non consente neppure lo svolgimento dell’istruttoria con la conseguenza che è irrilevante che l’amministrazione comunale, nel rigettare l’istanza di sanatoria, non abbia preventivamente acquisito i pareri che, se favorevoli, sono invece necessari per procedere al rilascio della concessione.
Quanto, poi, alla tesi esposta anche nel sesto motivo del ricorso, circa l’applicabilità della sola disciplina vigente al momento della realizzazione dell’opera, e non anche di quella vigente al momento della presentazione dell’istanza e al tempo dell’adozione del provvedimento, il Collegio osserva che, ai sensi dell’art. 13 l. 28.02.1985 n. 47, la concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante postula che le opere risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; sez. IV, n. 6474 del 2006; sez. V, n. 1126 del 2009; sez. IV, 23.07.2009, n. 4671; sez. V, 17.09.2012, n. 4914).
Ne consegue che la legittimità del provvedimento abilitativo assume necessariamente a riferimento la normativa vigente al momento della sua adozione, sicché del tutto correttamente l’amministrazione ha assoggettato la domanda di sanatoria agli obblighi documentali introdotti dal regolamento edilizio già vigente all’epoca della sua presentazione, con prescrizioni non fatte oggetto di alcuna contestazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.08.2014 n. 2205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione la giurispruenza ha raggiunto le seguenti conclusioni:
   a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
   b) in tema di risarcimento danni nei confronti della Pubblica amministrazione, il giudice amministrativo è chiamato a valutare (art. 30, comma 3, c.p.a.), senza necessità di eccezione di parte e acquisendo anche d'ufficio gli elementi di prova all'uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento dell'atto illegittimo e dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe evitato in tutto o in parte il danno, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente;
   c) spetta all’impresa danneggiata offrire la prova della percentuale di utile che avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod. proc. amm.).
Quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, comma 1, cod. civ.;
   d) il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ. è ammesso soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull'ammontare del danno;
   e) le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente neppure nel caso di consulenza tecnica d'ufficio cosiddetta "percipiente", che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni.
Per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'"id quod plerumque accidit" (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici.
In ragione di ciò va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, sia perché non può formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale allegato l’importo a base d’asta può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo;
   g) il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione; in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, con la conseguente decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum;
   h) anche per il cd. danno curricolare il presunto danneggiato deve offrire prova puntuale del danno che asserisce di aver subito

Sulla scorta delle cennate premesse va, quindi, confermata la sentenza del primo giudice, rammentando che la giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. Stato, Sez. V, 25.06.2014, n. 3220; Sez. IV, 18.11.2013, n. 5453; Sez. IV, 12.02.2013, n. 848; Sez. V, 20.04.2012, n. 2317; Sez. V, 02.11.2011, n. 5837; Sez. V, 30.06.2011, n. 3670; Sez. VI, 21.05.2009 n. 3144; Sez. V, 06.04.2009, n. 2143; Sez. V, 17.10.2008, n. 5098; Sez. V, 05.04.2005, n. 1563; Sez. VI, 04.04.2003, n. 478) in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione ha raggiunto le seguenti conclusioni:
a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
b) in tema di risarcimento danni nei confronti della Pubblica amministrazione, il giudice amministrativo è chiamato a valutare (art. 30, comma 3, c.p.a.), senza necessità di eccezione di parte e acquisendo anche d'ufficio gli elementi di prova all'uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento dell'atto illegittimo e dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe evitato in tutto o in parte il danno, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente (Cons. St., Ad. Plen., 2011, n. 3);
c) spetta all’impresa danneggiata offrire la prova della percentuale di utile che avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod. proc. amm.). Quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, comma 1, cod. civ.;
d) il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ. è ammesso soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull'ammontare del danno;
e) le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente neppure nel caso di consulenza tecnica d'ufficio cosiddetta "percipiente", che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni. Per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'"id quod plerumque accidit" (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici. In ragione di ciò va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, sia perché non può formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale allegato l’importo a base d’asta può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo;
g) il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione; in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, con la conseguente decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum;
h) anche per il cd. danno curricolare il presunto danneggiato deve offrire prova puntuale del danno che asserisce di aver subito (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.08.2014 n. 4248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disposizione di cui al comma 18° dell’articolo 35 della legge 28.02.1985 n. 47 (la quale dà per accolta la domanda di sanatoria una volta decorso il termine di ventiquattro mesi dalla presentazione dell’istanza) non trova applicazione in relazione alle domande relative ad aree sottoposte a vincolo, quale quella che qui viene in rilievo. Non a caso, la medesima disposizione esclude in modo espresso le ipotesi di cui all’articolo 33 della stessa l. 47 del 1985, fra cui rientrano –ai fini che qui rilevano– i vincoli di tipo paesaggistico imposti prima della realizzazione delle opere.
Al riguardo, un consolidato orientamento di questo Consiglio ha stabilito che dal combinato disposto degli artt. 32, 33 e 35, l. 47 del 1985 può desumersi il principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all’uopo in ogni caso richiesto il parere espresso dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di condono.

Il primo motivo (con cui l’appellante ha lamentato l’erroneità della sentenza in epigrafe per la parte in cui ha dichiarato infondato il motivo di ricorso con il quale si era sottolineata l’intervenuta formazione del silenzio-assenso di cui al comma diciottesimo dell’articolo 35 della legge 28.02.1985, n. 47 in relazione alla domanda di condono edilizio presentata il 01.04.1986) è infondato.
Al riguardo, i primi Giudici hanno correttamente rilevato che la disposizione da ultimo richiamata (la quale dà per accolta la domanda di sanatoria una volta decorso il termine di ventiquattro mesi dalla presentazione dell’istanza) non trovi applicazione in relazione alle domande relative ad aree sottoposte a vincolo, quale quella che qui viene in rilievo. Non a caso, la medesima disposizione escludeva in modo espresso le ipotesi di cui all’articolo 33 della stessa l. 47 del 1985, fra cui rientrano –ai fini che qui rilevano– i vincoli di tipo paesaggistico imposti prima della realizzazione delle opere.
Al riguardo, un consolidato –e qui condiviso- orientamento di questo Consiglio ha stabilito che dal combinato disposto degli artt. 32, 33 e 35, l. 47 del 1985 può desumersi il principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all’uopo in ogni caso richiesto il parere espresso dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di condono (in tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, V, 02.05.2013, n. 2395; id., IV, 18.09.2012, n. 4945; id., VI, 14.08.2012, n. 4573)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.08.2014 n. 4226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Né l’articolo 7 della l. 29.06.1939, n. 1497 (si tratta della disposizione in base alla quale era stato adottato il decreto impositivo del vincolo), né l’articolo 32 della l. 47 del 1985 sanciscono in modo automatico l’incompatibilità fra un qualunque intervento sul territorio e i valori oggetto di tutela (si tratta di un effetto che può verificarsi solo nelle ipotesi di vincoli di carattere assoluto).
Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato (e qui condiviso) orientamento secondo cui in ipotesi quale quella che qui viene in rilievo l'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo è chiamata a valutare l'effettiva consistenza e la localizzazione dell’intervento, oggetto di sanatoria, al fine di confermare o escludere la concreta compatibilità dello stesso con i valori tutelati nello specifico contesto di riferimento, non potendo ritenersi sufficiente il generico richiamo ad un vincolo, con conseguente necessario apprezzamento di compatibilità, da condurre sulla base di rilevazioni e giudizi puntuali.

Allo stesso modo, la sentenza in epigrafe risulta meritevole di riforma per la parte in cui ha respinto il motivo di ricorso (qui puntualmente riproposto) con il quale si era lamentato il difetto di istruttoria e di motivazione che viziava gli atti con i quali l’amministrazione aveva affermato l’incompatibilità fra i realizzati interventi e i valori paesaggistici dell’area (sottoposta a vincolo con decreto ministeriale del 14.02.1959).
Al riguardo l’appellante ha correttamente rilevato (reiterando un motivo di ricorso già esaminato e disatteso dai primi Giudici con motivazioni non condivise da questo Giudice di appello) che il Comune di Orbetello non avesse operato un’effettiva e puntuale valutazione in ordine al pregiudizio che i più volte richiamati interventi erano idonei a sortire sui valori paesaggistici dell’area, ma si era limitato a descrivere la consistenza oggettiva degli interventi concludendo in modo automatico e sostanzialmente apodittico nel senso dell’incompatibilità degli stessi con i valori tutelati.
Sotto tale aspetto l’appellante ha condivisibilmente osservato che né l’articolo 7 della l. 29.06.1939, n. 1497 (si tratta della disposizione in base alla quale era stato adottato il decreto impositivo del vincolo), né l’articolo 32 della l. 47 del 1985 sanciscono in modo automatico l’incompatibilità fra un qualunque intervento sul territorio e i valori oggetto di tutela (si tratta di un effetto che può verificarsi solo nelle ipotesi –che qui non ricorrono– di vincoli di carattere assoluto).
Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato (e qui condiviso) orientamento secondo cui in ipotesi quale quella che qui viene in rilievo l'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo è chiamata a valutare l'effettiva consistenza e la localizzazione dell’intervento, oggetto di sanatoria, al fine di confermare o escludere la concreta compatibilità dello stesso con i valori tutelati nello specifico contesto di riferimento, non potendo ritenersi sufficiente il generico richiamo ad un vincolo, con conseguente necessario apprezzamento di compatibilità, da condurre sulla base di rilevazioni e giudizi puntuali (in tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, VI, 05.04.2012, n. 2018).
Ebbene, non avendo l’amministrazione appellata operato una siffatta, doverosa valutazione in ordine ai pertinenti elementi di fatto, essa ha effettivamente realizzato un’illegittimità attizia, conformemente alle censure nella presente sede reiterate dalla parte appellante
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.08.2014 n. 4226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio consolidato e pacifico che in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del G.O.) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita, permessa (conosciuto dal G.A.).
Il privato, che si ritiene danneggiato da un'attività edilizia autorizzata, che ha violato le norme in tema di distanza fra costruzioni o di queste con i confini, ha diritto alla c.d. "doppia tutela" che si caratterizza per essere concorrente ma separata per le diverse posizioni giuridiche di diritto soggettivo e interesse.
Pertanto per tali controversie la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, qualora si tratti di impugnazione del relativo provvedimento per l'annullamento di quest'ultimo, poiché in tal caso si fa valere una posizione di interesse legittimo, mentre spetta al giudice ordinario, qualora venga richiesto il risarcimento del danno, ovvero alla rimozione dell'opera (in tal caso infatti è implicita una richiesta di disapplicazione dell'atto medesimo).
La controversia derivante dalla impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione (anche e certamente) al giudice amministrativo.

Costituisce principio consolidato e pacifico che in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del G.O.) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita, permessa (conosciuto dal G.A.).
Il privato, che si ritiene danneggiato da un'attività edilizia autorizzata, che ha violato le norme in tema di distanza fra costruzioni o di queste con i confini, ha diritto alla c.d. "doppia tutela" che si caratterizza per essere concorrente ma separata per le diverse posizioni giuridiche di diritto soggettivo e interesse.
Pertanto per tali controversie la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, qualora si tratti di impugnazione del relativo provvedimento per l'annullamento di quest'ultimo, poiché in tal caso si fa valere una posizione di interesse legittimo, mentre spetta al giudice ordinario, qualora venga richiesto il risarcimento del danno, ovvero alla rimozione dell'opera (in tal caso infatti è implicita una richiesta di disapplicazione dell'atto medesimo) (in tal senso, tra tante, si veda Consiglio Stato, sez. V, 24.10.1996, n. 1273).
La controversia derivante dalla impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione (anche e certamente) al giudice amministrativo (cfr. CdS n. 678/2011) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.08.2014 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ infondata l’eccezione di difetto di legittimazione del condominio, in quanto lo stesso fa valere non un preteso diritto di proprietà sulle fondazioni e sulla proiezione verticale verso il basso dell’edificio ovvero un diritto pro quota dei singoli condomini, ma la pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa, cui precipuo obiettivo è quello della completa verifica della sussistenza di tutti i presupposti per il rilascio del titolo edilizio, primo fra tutti l’accertamento della sicurezza statica della erigenda costruzione nel complesso delle edificazioni in cui la stessa si inserisce, accertamento particolarmente delicato trattandosi di opera in zona sismica.
In realtà -premesso che legittimazione ed interesse a ricorrere si esauriscono nella mera affermazione (e non nella prova) della necessità di tutela giurisdizionale derivante dalla lesione di un proprio interesse, perché legittimazione ed interesse non sono altro che modalità della domanda giudiziale, ma non attengono ancora al merito- si ritiene che non possa essere fondatamente messa in discussione la legittimazione a ricorrere per opere che vengono localizzate in territorio prossimo a quello di residenza.
Sono, infatti, “legittimati all'impugnazione coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso”, e il paventato pregiudizio alla statica dell’edificio porta a ritenere sussistente l’interesse al ricorso di chi agisce contro il provvedimento che ha permesso la realizzazione delle nuove opere.

E’ altresì infondata l’eccezione di difetto di legittimazione del condominio, in quanto lo stesso fa valere non un preteso diritto di proprietà sulle fondazioni e sulla proiezione verticale verso il basso dell’edificio ovvero un diritto pro quota dei singoli condomini, ma la pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa, cui precipuo obiettivo è quello della completa verifica della sussistenza di tutti i presupposti per il rilascio del titolo edilizio, primo fra tutti l’accertamento della sicurezza statica della erigenda costruzione nel complesso delle edificazioni in cui la stessa si inserisce, accertamento particolarmente delicato trattandosi di opera in zona sismica.
In realtà -premesso che legittimazione ed interesse a ricorrere si esauriscono nella mera affermazione (e non nella prova) della necessità di tutela giurisdizionale derivante dalla lesione di un proprio interesse, perché legittimazione ed interesse non sono altro che modalità della domanda giudiziale, ma non attengono ancora al merito- si ritiene che non possa essere fondatamente messa in discussione la legittimazione a ricorrere per opere che vengono localizzate in territorio prossimo a quello di residenza.
Sono, infatti, “legittimati all'impugnazione coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso” (Trga Trento 46/2010), e il paventato pregiudizio alla statica dell’edificio porta a ritenere sussistente l’interesse al ricorso di chi agisce contro il provvedimento che ha permesso la realizzazione delle nuove opere (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.08.2014 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' incontestata acquisizione giurisprudenziale l’avviso che l’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione.
Si è infatti precisato che “la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un’istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione dell’istanza ex art. 36 cit. determina inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall’altro, occorre ritenere che l’efficacia dell’atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l’atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza. All’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso”.
Più di recente la Sezione ha ribadito che “L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione”.

Con il secondo motivo la ricorrente si duole che le opere de quibus, pur prive di titolo legittimante, sarebbero assentibili ex post mediante la c.d. sanatoria formale, nella specie rappresentata dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 presentata al Comune il 19.07.2007, non ostando alla piena conformità dell’opus realizzato, rilevanti interessi di tutela paesaggistica di contrario segno.
Tale doglianza non trova concorde il Collegio alla luce della pacifica giurisprudenza del Tribunale, espressa più volte anche dalla Sezione, in ordine all’irrilevanza inficiante l’ordinanza demolitoria che va predicata con riguardo alla successiva istanza di accertamento di conformità.
Si rammenta in proposito come sia incontestata acquisizione giurisprudenziale l’avviso che l’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione.
Si è infatti precisato che “la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un’istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione dell’istanza ex art. 36 cit. determina inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall’altro, occorre ritenere che l’efficacia dell’atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l’atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza. All’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso” (cfr. in questo senso, TAR, Campania Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961 e C.d.S., sez. IV, 19.02.2008, n. 849 ord.).
Anche la Sezione ha di recente sposato il rassegnato indirizzo: TAR Campania–Napoli, Sez. III, 05.12.2012, n. 4941; ID: 17/05/2012, n. 2887.
Più di recente la Sezione ha ribadito che “L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia (in tal senso, da ultimo TAR Campania–Napoli, Sez. III, 28.01.2013 n. 651; ID, 05.12.2012, n. 4941), decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione” (TAR Campania–Napoli, III, 22.02.2013 n. 1070)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi, escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento e l’inutilità della partecipazione del destinatario.
Più di recente la Sezione ha confermato l’avviso in ordine all’irrilevanza viziante dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento.

Con il terzo mezzo la deducente rubrica violazione dell’art. 7, L. n. 241/1990 ed eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, lamentando di non aver ricevuto la comunicazione dell’avvio del procedimento sfociato nell’adozione del provvedimento sanzionatorio impugnato.
Anche questa censura è infondata e va disattesa, poiché per giurisprudenza costante l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento (TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 17.01.2007, n. 357).
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi, escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento e l’inutilità della partecipazione del destinatario (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.2012, n. 3302).
Più di recente la Sezione ha confermato l’avviso in ordine all’irrilevanza viziante dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento: TAR Campania–Napoli, sez. III 10.10.2013 n. 4534; ID, 26.09.2013, n. 4450; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 26.06.2013 n. 3328; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 22.02.2013 n. 1069
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza anche di recente ha precisato che “Il sequestro di un immobile abusivo non determina l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione, ma soltanto l'eventuale differimento del termine fissato per la rimessa in pristino, decorrente dalla data del dissequestro penale, che sarà onere dell'interessato richiedere tempestivamente”.
Anche la Sezione aveva del resto già enunciato il principio illustrato avendo affermato che “È legittima l'ordinanza di demolizione che ha ad oggetto immobili realizzati abusivamente che siano sottoposti a sequestro penale, in quanto è onere del responsabile domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile al fine di ottemperare all'ordine di demolizione”.

Con il quarto ed ultimo motivo la ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza impugnata per non aver tenuto conto che è stata adottata per opere sottoposte a sequestro giudiziario, circostanza dalla quale discenderebbe l’impossibilità per la destinataria, di prestare ottemperanza all’intimazione di demolirle effettuata dal Comune.
La doglianza è destituita di fondamento, avendo la giurisprudenza anche di recente precisato che “Il sequestro di un immobile abusivo non determina l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione, ma soltanto l'eventuale differimento del termine fissato per la rimessa in pristino, decorrente dalla data del dissequestro penale, che sarà onere dell'interessato richiedere tempestivamente” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.01.2014 n. 1804).
Anche la Sezione aveva del resto già enunciato il principio illustrato avendo affermato che “È legittima l'ordinanza di demolizione che ha ad oggetto immobili realizzati abusivamente che siano sottoposti a sequestro penale, in quanto è onere del responsabile domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile al fine di ottemperare all'ordine di demolizione” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 13.04.2011, n. 2136)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di demolizione di immobili abusivi, attesa la natura vincolata del potere, non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può, di per sé, legittimare in via di fatto.
Inoltre, in caso di ordine di demolizione, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.

Ciò premesso, il Collegio ritiene che –previa trattazione unitaria dei motivi di gravame- i ricorsi vadano rigettati ove si consideri che, in materia di demolizione di immobili abusivi, attesa la natura vincolata del potere, non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può, di per sé, legittimare in via di fatto.
Inoltre, in caso di ordine di demolizione, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 04.02.2012, n. 227; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2012, n. 693) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.08.2014 n. 4491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
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L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e lo stesso provvedimento di acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".

Circa l’asserita violazione dell’art. 3 della Legge n. 241/1990, il Collegio osserva che, in caso di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 04.02.2012, n. 227; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2012, n. 693).
Risultano parimenti infondate le censure di natura procedimentale, coerentemente a quanto affermato dalla Sezione (da ultimo, n. 203/2014) allorché si è statuito che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e lo stesso provvedimento di acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto. I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato" (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.08.2014 n. 4490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di demolizione di immobili abusivi, attesa la natura vincolata del potere, non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può, di per sé, legittimare in via di fatto.
Per tali motivi non è meritevole di condivisione la censura che in termini di violazione di legge viene sviluppata con riguardo all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, ove si consideri che ai sensi del comma terzo dell’invocata disposizione normativa <<Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita>>.
La norma in esame conferisce evidentemente al Comune il potere di dichiarare l’acquisizione in relazione ad un’area maggiore rispetto a quella sulla quale è stata realizzata la costruzione abusiva, ma nella specie, senza avvalersi di tale facoltà, il Comune si è limitato a disporre l’acquisizione delle sole opere abusive realizzate dalla ricorrente, indicandole esattamente nell’impugnato provvedimento.
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L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza all'ordine di demolizione; né in senso ostativo all'acquisizione può assumere rilevanza l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento, sicché risulta necessario solo che in detto atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche.
Tuttavia, non potendosi ragionevolmente ritenere che il Legislatore abbia rimesso la determinazione dell'ulteriore area acquisibile al puro arbitrio dell'Amministrazione, quest’ultima è tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione.
L'acquisizione opera di diritto e automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento all'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, cosicché la sua notifica all'interessato ha una sua esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà.
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L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".

La Sezione ritiene nella fattispecie di dover premettere che, in materia di demolizione di immobili abusivi, attesa la natura vincolata del potere, non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può, di per sé, legittimare in via di fatto.
Per tali motivi non è meritevole di condivisione la censura che in termini di violazione di legge viene sviluppata con riguardo all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, ove si consideri che ai sensi del comma terzo dell’invocata disposizione normativa <<Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita>>.
La norma in esame conferisce evidentemente al Comune il potere di dichiarare l’acquisizione in relazione ad un’area maggiore rispetto a quella sulla quale è stata realizzata la costruzione abusiva, ma nella specie, senza avvalersi di tale facoltà, il Comune di Acerra si è limitato a disporre l’acquisizione delle sole opere abusive realizzate dalla ricorrente, indicandole esattamente nell’impugnato provvedimento (<<opere edili descritte…foglio n. 53 p.lla 981 sub.21>>).
Ora l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza all'ordine di demolizione; né in senso ostativo all'acquisizione può assumere rilevanza l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento, sicché risulta necessario solo che in detto atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche.
Tuttavia, non potendosi ragionevolmente ritenere che il Legislatore abbia rimesso la determinazione dell'ulteriore area acquisibile al puro arbitrio dell'Amministrazione, quest’ultima è tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione. L'acquisizione opera di diritto e automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento all'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, cosicché la sua notifica all'interessato ha una sua esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà.
Parimenti infondate sono le censure di natura procedimentale, essendo orientamento della Sezione (da ultimo, n. 203/2014) che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto. I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato" (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.08.2014 n. 4484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Poiché le procedure di gara non sono state definitivamente aggiudicate, nessun affidamento tutelabile può essere sorto in capo all’odierna ricorrente, essendo fisiologico che all’aggiudicazione provvisoria, che costituisce ancora un mero atto endoprocedimentale, possa non conseguire quella definitiva, tanto è vero che si ritiene in giurisprudenza che se l’amministrazione decide di revocare, in sede di autotutela, il provvedimento di aggiudicazione provvisoria, l'avvio del relativo procedimento non deve essere neppure notificato al soggetto provvisoriamente aggiudicatario, siccome titolare di una aspettativa di mero fatto.
Infondata è anche la censura con cui essa si duole dell’omessa ponderazione dell’affidamento che avrebbe legittimamente maturato in qualità di aggiudicataria delle due gare.
Infatti, poiché le procedure di gara non sono state definitivamente aggiudicate, nessun affidamento tutelabile può essere sorto in capo all’odierna ricorrente, essendo fisiologico che all’aggiudicazione provvisoria, che costituisce ancora un mero atto endoprocedimentale, possa non conseguire quella definitiva (cfr., ex multis, C.d.S., sez. III, 28.02.2014, n. 942), tanto è vero che si ritiene in giurisprudenza che se l’amministrazione decide di revocare, in sede di autotutela, il provvedimento di aggiudicazione provvisoria, l'avvio del relativo procedimento non deve essere neppure notificato al soggetto provvisoriamente aggiudicatario, siccome titolare di una aspettativa di mero fatto (ex ceteris, cfr. C.d.S., sez. V, 18.07.2012, n. 4189) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.08.2014 n. 4481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico che debbano intendersi per costruzioni soggette a concessione edilizia, ai sensi dell'art. 1 della l. 28.01.1977 n. 10, tutti i manufatti che alterassero lo stato dei luoghi in modo non irrilevante e non meramente occasionale, in quanto destinati a soddisfare esigenze costanti nel tempo, anche se non infissi al suolo ma semplicemente aderenti allo stesso, a prescindere dai materiali usati e dalle tecniche costruttive.
Con riferimento alla normativa vigente all’epoca, è pacifico che dovevano intendersi per costruzioni soggette a concessione edilizia, ai sensi dell'art. 1 della l. 28.01.1977 n. 10, tutti i manufatti che alterassero lo stato dei luoghi in modo non irrilevante e non meramente occasionale, in quanto destinati a soddisfare esigenze costanti nel tempo, anche se non infissi al suolo ma semplicemente aderenti allo stesso, a prescindere dai materiali usati e dalle tecniche costruttive (cfr., ex ceteris, TAR Campania, Napoli, 23.04.1999, n. 1094; C.d.S., sez. V, 20.06.1987, n. 397) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.08.2014 n. 4479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un’opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie.
Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia e che possono essere oggetto di domanda di condono in caso di realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come impianti per attività produttive all’aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Tanto premesso deve ritenersi che la natura “precaria” di un manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.

Per quanto specificamente riguarda i possibili criteri d’identificazione della natura precaria di un’opera, l’uno strutturale (precario è ciò che non è stabilmente infisso al suolo), l’altro funzionale (precario è ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea), ancora di recente è stato ribadito che occorre seguire quello funzionale: «la giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un’opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie. Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia e che possono essere oggetto di domanda di condono in caso di realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come impianti per attività produttive all’aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato. Tanto premesso deve ritenersi che la natura “precaria” di un manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo» (cfr. C.d.S., sez. V, 27.03.2013 n. 1776).
Nel caso ora in esame, non vi è alcuna evidenza e non è stato neppure allegato che il capannone fosse destinato ad una necessità temporanea e contingente.
Il ricorrente si è limitato a sostenere che per i materiali utilizzati e per il sistema di ancoraggio al suolo (peraltro, non meglio specificati) il manufatto non avrebbe potuto incidere irreversibilmente sull’assetto edilizio, ma la tesi difensiva, alla luce del condivisibile indirizzo interpretativo che si è appena ricordato, non può essere condivisa (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.08.2014 n. 4479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'interesse pubblico all'annullamento va ritenuto sottinteso e relativo alle ordinarie esigenze di salvaguardia dell'assetto territoriale come disciplinato dalla normativa di piano, come, d’altra parte, rende evidente il richiamo del provvedimento alla significativa e permanente alterazione del territorio arrecata dal manufatto autorizzato (della superficie di circa 300 mq.).
Non può configurarsi, inoltre, alcuna violazione dell'art. 21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 in relazione al tempo trascorso dal rilascio dell’autorizzazione annullata, poiché, se è vero che, ai fini della valutazione comparativa tra interessi confliggenti, l’impegno motivazionale dell’amministrazione deve essere tanto più intenso, quanto maggiore sia l'arco temporale trascorso dall'adozione dell'atto da annullare e solido appaia, pertanto, l'affidamento ingenerato nel privato, nel caso di specie l’arco temporale intercorso tra la data di adozione dell’autorizzazione annullata, ossia il 24.10.2000, e l'attivazione delle garanzie partecipative di cui al procedimento di autotutela, da ascriversi alla comunicazione di avvio del procedimento del 14.07.2003, consente di qualificare tale periodo come “ragionevole” per un valido esercizio della potestà di annullamento ai sensi dell'art. 21-nonies cit..
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Quanto alla doglianza con cui il ricorrente lamenta l’omessa valutazione della memoria presentata ai sensi dell’art. 10-bis della l. 07.08.1990 n 241, costituisce principio consolidato quello per cui la norma in questione non impone nel provvedimento finale la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso, la cui solidità non è stata scalfita neppure nel corso del presente giudizio.
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Sebbene parte ricorrente si dolga che l’annullamento in autotutela non sia stato preceduto dal parere della Commissione edilizia comunale, nonostante il principio del contrarius actus richiedesse l’osservanza delle stesse forme e della medesima procedura seguita per l’atto da annullare, non vi è evidenza alcuna che l’autorizzazione edilizia annullata fosse stata preceduta dal parere della Commissione edilizia (fermo che, per condivisibile orientamento giurisprudenziale, anche se in sede di rilascio di un titolo edilizio sia stato acquisito il parere della Commissione edilizia, si può prescindere dall’acquisire tale parere all'atto dell'annullamento d'ufficio del titolo abilitativo nelle ipotesi in cui il provvedimento di autotutela sia supportato da evidenti ragioni di tipo giuridico oppure presenti carattere vincolato e non discrezionale).

Non sono meritevoli di accoglimento neppure le rimanenti censure.
L'interesse pubblico all'annullamento va ritenuto sottinteso e relativo alle ordinarie esigenze di salvaguardia dell'assetto territoriale come disciplinato dalla normativa di piano (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 26.10.2011, n. 4923), come, d’altra parte, rende evidente il richiamo del provvedimento alla significativa e permanente alterazione del territorio arrecata dal manufatto autorizzato (della superficie di circa 300 mq.); non può configurarsi, inoltre, alcuna violazione dell'art. 21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 in relazione al tempo trascorso dal rilascio dell’autorizzazione annullata, poiché, se è vero che, ai fini della valutazione comparativa tra interessi confliggenti, l’impegno motivazionale dell’amministrazione deve essere tanto più intenso, quanto maggiore sia l'arco temporale trascorso dall'adozione dell'atto da annullare e solido appaia, pertanto, l'affidamento ingenerato nel privato, nel caso di specie l’arco temporale intercorso tra la data di adozione dell’autorizzazione annullata, ossia il 24.10.2000, e l'attivazione delle garanzie partecipative di cui al procedimento di autotutela, da ascriversi alla comunicazione di avvio del procedimento del 14.07.2003, consente di qualificare tale periodo come “ragionevole” per un valido esercizio della potestà di annullamento ai sensi dell'art. 21-nonies cit.
Quanto alla doglianza con cui il ricorrente lamenta l’omessa valutazione della memoria presentata ai sensi dell’art. 10-bis della l. 07.08.1990 n 241, costituisce principio consolidato quello per cui la norma in questione non impone nel provvedimento finale la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso, la cui solidità non è stata scalfita neppure nel corso del presente giudizio.
Infine, sebbene parte ricorrente si dolga che l’annullamento in autotutela non sia stato preceduto dal parere della Commissione edilizia comunale, nonostante il principio del contrarius actus richiedesse l’osservanza delle stesse forme e della medesima procedura seguita per l’atto da annullare, non vi è evidenza alcuna che l’autorizzazione edilizia annullata fosse stata preceduta dal parere della Commissione edilizia (fermo che, per condivisibile orientamento giurisprudenziale, anche se in sede di rilascio di un titolo edilizio sia stato acquisito il parere della Commissione edilizia, si può prescindere dall’acquisire tale parere all'atto dell'annullamento d'ufficio del titolo abilitativo nelle ipotesi in cui il provvedimento di autotutela sia supportato da evidenti ragioni di tipo giuridico oppure presenti carattere vincolato e non discrezionale: cfr. TAR Trentino Alto Adige, Trento, sez. I, 05.02.2012, n. 356; C.d.S., sez. V, 12.05.2011, n. 2821; sez. IV, 17.05.2010, n. 3126 e 31.03.2009, n. 1909).
La relazione del dirigente tecnico richiamata nell’autorizzazione annullata, invece, è palesemente un atto istruttorio endoprocedimentale del medesimo funzionario che ha adottato e sottoscritto l’atto finale e non un parere di altro ufficio od organo che dovesse essere replicato in sede di esercizio del potere di annullamento in autotutela (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.08.2014 n. 4479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
Inoltre, l'omessa attuazione delle garanzie partecipative di cui alla legge n. 241/1990 preclude, ai sensi dell'articolo 21-octies, secondo comma, prima parte, della legge n. 241/1990, l'annullamento del provvedimento sanzionatorio di un'opera abusiva, stante sia il carattere vincolato del provvedimento stesso, che l’evidenza della inidoneità della partecipazione della parte interessata al procedimento, con la conseguenza che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

In relazione alla prima censura, si deve osservare che, per pacifica giurisprudenza, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (cfr. C.d.S., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; TAR Campania, Napoli, sez. II, 07.06.2013, n. 3026).
Inoltre, sempre secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto, l'omessa attuazione delle garanzie partecipative di cui alla legge n. 241/1990 preclude, ai sensi dell'articolo 21-octies, secondo comma, prima parte, della legge n. 241/1990, l'annullamento del provvedimento sanzionatorio di un'opera abusiva, stante sia il carattere vincolato del provvedimento stesso, che l’evidenza della inidoneità della partecipazione della parte interessata al procedimento, con la conseguenza che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. C.d.S., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; C.d.S., Sez. IV, 10.04.2009, n. 2227; Cass. SS.UU., 25.06.2009, n. 14878)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A norma degli articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
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Un intervento abusivo che sia tale, per dimensioni e consistenza, da snaturare le caratteristiche dell'edificio originario è legittimamente sanzionato a termini dell'art. 31 (e non dell'art. 33), del T.U. Edilizia, che qualifica come interventi eseguiti in totale difformità del permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile, sanzionando con la rimozione o la demolizione -e, in caso di inottemperanza, con l'acquisizione di diritto del bene alla mano pubblica- l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'art. 32.

Al riguardo, occorre quindi richiamare il pacifico orientamento giurisprudenziale (C.d.S., Sez. IV, 27.11.1010, n. 8260; C.d.S., Sez. IV, 10.04.2009, n. 2227; C.d.S., Sez. V, 21.03.2011, n. 1726) secondo il quale, <<a norma degli articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera>> (cfr., altresì, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 08/05/2014, n. 2500, secondo cui <<un intervento abusivo che sia tale, per dimensioni e consistenza, da snaturare le caratteristiche dell'edificio originario è legittimamente sanzionato a termini dell'art. 31 (e non dell'art. 33), del T.U. Edilizia, che qualifica come interventi eseguiti in totale difformità del permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile, sanzionando con la rimozione o la demolizione -e, in caso di inottemperanza, con l'acquisizione di diritto del bene alla mano pubblica- l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'art. 32>>) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee.
Il carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso di costruire sono elementi sufficienti, ai sensi dell’applicata disposizione normativa di cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, a rendere legittima l'adozione dell'impugnata ordinanza di demolizione.
Infine, <<il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio>>.

In relazione al secondo, si deve osservare che le suindicate caratteristiche dei manufatti realizzati ne imponevano l’assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Oltre alla già citata giurisprudenza del giudice amministrativo, si veda, altresì, Cassazione penale, Sez. III, 8/03/2007, n. 17359, secondo cui <<la destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee>>).
Non sussistono quindi i lamentati vizi, in quanto il carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso di costruire sono elementi sufficienti, ai sensi dell’applicata disposizione normativa di cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, a rendere legittima l'adozione dell'impugnata ordinanza di demolizione.
In ordine alla richiesta di applicazione della sanzione pecuniaria, si deve poi in contrario osservare che <<il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio>> (cfr. C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n. 4982; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.
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Il provvedimento che ordina la demolizione di manufatti abusivi è atto dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e quindi non abbisogna di congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, la quale è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (- <<l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico, da indicare solo nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato>>; - <<l'ordine di demolizione di una opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione della accertata abusività dell'opera stessa>>; - <<la motivazione dell'ordine di demolizione sia pur sintetica è perfettamente compatibile con le disposizioni normative di cui alla l. n. 241 del 1990 ed assolve, in concreto, alla funzione di rendere ostensibile al destinatario l'iter logico seguito. Invero, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, salvo ipotesi particolari delle quali non ricorrono gli estremi nella fattispecie, non necessitano di alcuna motivazione in ordine alla prevalenza dell'interesse pubblico, perché la repressione degli abusi edilizi costituisce un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità al riguardo>>).

In ordine alla terza censura, occorre evidenziare che né la mera intenzione dell’interessato di presentare istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 per l’abuso contestato, né l’effettiva presentazione successiva di tale istanza incidono sulla legittimità del provvedimento di demolizione (che ovviamente va valutata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione).
Come inoltre chiarito dalla giurisprudenza anche di questa Sezione, <<la validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza. All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia>> (in termini, C.d.S., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961).
Per quanto riguarda la quinta censura, il Collegio si limita infine a rilevare che il provvedimento che ordina la demolizione di manufatti abusivi è atto dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e quindi non abbisogna di congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, la quale è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (fra le tante: cfr. C.d.S. sez. V, 09.09.2013, n. 4470, secondo cui <<l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico, da indicare solo nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato>>; C.d.S., sez. IV, 12.04.2011, n. 2266, secondo cui <<l'ordine di demolizione di una opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione della accertata abusività dell'opera stessa>>; TAR Campania Napoli, sez. II, 14.02.2011, n. 922, secondo cui <<la motivazione dell'ordine di demolizione sia pur sintetica è perfettamente compatibile con le disposizioni normative di cui alla l. n. 241 del 1990 ed assolve, in concreto, alla funzione di rendere ostensibile al destinatario l'iter logico seguito. Invero, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, salvo ipotesi particolari delle quali non ricorrono gli estremi nella fattispecie, non necessitano di alcuna motivazione in ordine alla prevalenza dell'interesse pubblico, perché la repressione degli abusi edilizi costituisce un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità al riguardo>>)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel procedimento di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, il vizio connesso alla mancata previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di sanatoria (dovuta in applicazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990) risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che, trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto stabilito.
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I provvedimenti di diniego di concessione di costruzione in sanatoria devono essere congruamente motivati con l'indicazione delle ragioni che ostano al suo rilascio e con particolare riferimento alle norme urbanistiche violate, in modo da consentire all'interessato da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione del suo progetto e di poterlo adeguare alle esigenze pubbliche che l'Amministrazione ha inteso tutelare e, dall'altro, di confutare in maniera esaustiva la legittimità del provvedimento davanti al giudice competente.
È quindi carente di motivazione, il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto del progetto edilizio con norme legislative e regolamentari in materia edilizia, dovendo, invece, diffondersi il provvedimento di diniego in ordine alle disposizioni che si assumono ostative al rilascio del provvedimento concessorio.
Nella fattispecie in esame l’impugnato diniego di sanatoria reca un generico riferimento al mancato rispetto della <<distanza dal confine>> ed al contrasto del progetto con <<gli strumenti urbanistici vigenti>>, senza la specifica, necessaria, indicazione delle norme ritenute in concreto violate.
Il suddetto diniego è pertanto illegittimo e deve essere annullato.

La prima censura deve essere disattesa, dal momento che nel procedimento di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, il vizio connesso alla mancata previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di sanatoria (dovuta in applicazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990) risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che, trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto stabilito (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VII, 06.09.2012, n. 3775; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 10.04.2013, n. 1903).
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Per pacifico principio generale, condiviso dal Collegio, <<i provvedimenti di diniego di concessione di costruzione in sanatoria devono essere congruamente motivati con l'indicazione delle ragioni che ostano al suo rilascio e con particolare riferimento alle norme urbanistiche violate, in modo da consentire all'interessato da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione del suo progetto e di poterlo adeguare alle esigenze pubbliche che l'Amministrazione ha inteso tutelare e, dall'altro, di confutare in maniera esaustiva la legittimità del provvedimento davanti al giudice competente. È quindi carente di motivazione, il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto del progetto edilizio con norme legislative e regolamentari in materia edilizia, dovendo, invece, diffondersi il provvedimento di diniego in ordine alle disposizioni che si assumono ostative al rilascio del provvedimento concessorio>> (in termini, TAR Toscana, Sez. II, 31/01/2000, n. 22; cfr., altresì, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 10/04/2001, n. 3092; TAR Liguria, sez. I, 04/04/2014, n. 525).
Nella fattispecie in esame, come correttamente sostenuto dal ricorrente, l’impugnato diniego di sanatoria reca un generico riferimento al mancato rispetto della <<distanza dal confine>> ed al contrasto del progetto con <<gli strumenti urbanistici vigenti>>, senza la specifica, necessaria, indicazione delle norme ritenute in concreto violate.
Il suddetto diniego è pertanto illegittimo e deve essere annullato
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trattasi di due edifici che sono stati realizzati, sebbene dall’allora unica proprietà, sulla base di due diversi titoli rilasciati in epoche diverse (per quanto riguarda l’edificio ora di proprietà della ricorrente, il titolo risale al 1968, per quello frontistante al 1969).
In ogni caso, anche a voler prescindere da tale dato di fatto, si osserva che il rispetto delle distanze imposte dal D.M. 1444/1968, art. 9, è norma che trova comunque applicazione, senza che assuma alcuna rilevanza l’eventuale unica proprietà dei due edifici (“...è assorbente la contestazione…che l’art. 9 del D.M. 1444/1968, laddove impone l’anzidetta distanza di 10 metri tra pareti finestrate, prevale anche sulla disciplina regionale eventualmente difforme e va pertanto applicata anche a corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa l’ipotesi di sopraelevazione).

... per l'annullamento della nota prot. n. 027008.AOO. Registro Ufficiale U. 0016870 del 09.04.2014, a firma del Dirigente del Settore Urbanistica del Comune di Chioggia avente ad oggetto: "Diniego alla domanda di permesso di costruire presentata in data 24.10.2013 con numero 45851 di protocollo", nonché di qualsivoglia atto ad esso presupposto, antecedente, conseguente e connesso.
...
Il ricorso è infondato e quindi va respinto.
Assume, invero, preliminare e dirimente rilevanza il profilo, evidenziato nel provvedimento impugnato, interessante la mancata osservanza delle distanze dettate, in termini inderogabili, dalla normativa statale (D.M. 1444/1968, artt. 8 e 9) onde assicurare il rispetto delle distanze tra pareti finestrate, nella specie in rapporto all’altezza di edifici frontistanti.
A tale proposito, va sottolineato, come comprovato dall’amministrazione, che trattasi di due edifici che sono stati realizzati, sebbene dall’allora unica proprietà, sulla base di due diversi titoli rilasciati in epoche diverse (per quanto riguarda l’edificio ora di proprietà della ricorrente, il titolo risale al 1968, per quello frontistante al 1969).
In ogni caso, anche a voler prescindere da tale dato di fatto, si osserva che il rispetto delle distanze imposte dal D.M. 1444/1968, art. 9, è norma che trova comunque applicazione, senza che assuma alcuna rilevanza l’eventuale unica proprietà dei due edifici (“...è assorbente la contestazione…che l’art. 9 del D.M. 1444/1968, laddove impone l’anzidetta distanza di 10 metri tra pareti finestrate, prevale anche sulla disciplina regionale eventualmente difforme e va pertanto applicata anche a corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa l’ipotesi di sopraelevazione (cfr. sul punto, Cass. Civ., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413)”, così, C.d.S, IV, 2483/2013).
Né, infine, è consentito, neppure in occasione dell’applicazione della normativa sul “Piano Casa”, derogare a tali parametri, essendo questi imposti al fine di assicurare le condizioni di salubrità ed evitare la creazione di dannose intercapedini (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 04.08.2014 n. 1137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce giurisprudenza amministrativa ormai consolidata che la presentazione, in epoca successiva all’ingiunzione alla demolizione, di istanza di accertamento di conformità “produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile il ricorso proposto avverso la stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa. Pertanto, il ricorso giurisdizionale avvero un provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente all'istanza di condono edilizio, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, spostandosi l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento di rigetto”.
Il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse; costituisce, infatti, giurisprudenza amministrativa ormai consolidata che la presentazione, in epoca successiva all’ingiunzione alla demolizione, di istanza di accertamento di conformità “produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile il ricorso proposto avverso la stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa. Pertanto, il ricorso giurisdizionale avvero un provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente all'istanza di condono edilizio, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, spostandosi l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento di rigetto” (Consiglio di Stato, sez. VI, 12.11.2008, n. 5846, TAR Lazio, Roma, sez. II, 10.05.2010, n. 10574) (TAR Lazio-Latina, sentenza 04.08.2014 n. 694 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn ambito amministrativo per ordinanze si intendono tutti quegli atti che creano obblighi o divieti ed in sostanza impongono ordini. Segnatamente, le ordinanze di necessità ed urgenza sono statuizioni straordinarie adottate nei casi espressamente previsti dalla legge, espressione di un potere amministrativo “extra ordinem”, al fine di fronteggiare situazioni di urgente necessità (in materia di ordine e sicurezza pubblica nonché di sanità ed igiene pubblica), là dove, all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari posti a disposizione dal legislatore.
In ordine ai limiti, entro i quali può essere esercitato il potere in questione, la recente giurisprudenza amministrativa ha, in più occasioni, rimarcato che la possibilità concessa all’amministrazione di adottare provvedimenti, in deroga alla disciplina di legge, impone il rigido rispetto di alcuni adempimenti a garanzia dell’operato della stessa pubblica amministrazione. Tra questi l’obbligo di munire i provvedimenti in questione di una motivazione adeguata: … ”in grado di far comprendere le ragioni del provvedimento e di adottare il provvedimento all’esito di un’istruttoria congrua”.
Ne consegue che il ricorso al potere extra ordinem può essere esercitato dall’amministrazione previa adeguata istruttoria e con l’espressa indicazione delle ragioni di necessità ed urgenza che lo giustificano.
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Il potere dell’Autorità comunale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti postula, per giurisprudenza costante, “la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento”.
Allo stesso tempo va rimarcato che l’amministrazione può utilizzare lo strumento in questione solo ove occorra far fronte ad un’effettiva situazione di emergenza.
In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza amministrativa secondo cui: “Il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché l'esistenza e l'indicazione nel provvedimento impugnato di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel caso in cui l'Amministrazione non intervenga prontamente”.

Con ricorso notificato il 27.07.2013, tempestivamente depositato, la sig.ra P.P. ha impugnato l’ordinanza 28.06.2013, n. 321 con cui il Sindaco del Comune di Frosinone aveva dichiarato l'inagibilità, il divieto d'accesso, l’immediato sgombero e la messa in sicurezza del fabbricato, sito in Frosinone, alla via Pozzillo, 15 (già via del cipresso, 117), sul rilievo dell’asserita inagibilità dell’immobile, anche al fine ... di salvaguardare la pubblica e privata incolumità.
...
Osserva, preliminarmente, il Collegio che in ambito amministrativo per ordinanze si intendono tutti quegli atti che creano obblighi o divieti ed in sostanza impongono ordini. Segnatamente, le ordinanze di necessità ed urgenza sono statuizioni straordinarie adottate nei casi espressamente previsti dalla legge, espressione di un potere amministrativo “extra ordinem”, al fine di fronteggiare situazioni di urgente necessità (in materia di ordine e sicurezza pubblica nonché di sanità ed igiene pubblica), là dove, all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari posti a disposizione dal legislatore.
In ordine ai limiti, entro i quali può essere esercitato il potere in questione, la recente giurisprudenza amministrativa ha, in più occasioni, rimarcato che la possibilità concessa all’amministrazione di adottare provvedimenti, in deroga alla disciplina di legge, impone il rigido rispetto di alcuni adempimenti a garanzia dell’operato della stessa pubblica amministrazione. Tra questi l’obbligo di munire i provvedimenti in questione di una motivazione adeguata: … ”in grado di far comprendere le ragioni del provvedimento e di adottare il provvedimento all’esito di un’istruttoria congrua” (cfr. Tar Lazio, sez. III-quater, 15.09.2006, n. 8614).
Ne consegue che il ricorso al potere extra ordinem può essere esercitato dall’amministrazione previa adeguata istruttoria e con l’espressa indicazione delle ragioni di necessità ed urgenza che lo giustificano.
E’ vero che l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 esclude che, in ipotesi di adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti, l’Autorità procedente abbia necessità di comunicare all’interessato, ai fini della validità del provvedimento adottato, l’avvio del procedimento; è altrettanto vero, tuttavia che, nella specie, in ragione della documentazione prodotta in atti, sembra inequivocabilmente evincersi come il provvedimento qui impugnato, pur rivestendo formalmente le sembianze di un’ordinanza contingibile ed urgente al fine di salvaguardare la pubblica e privata incolumità, non è accompagnato dai requisiti necessari che caratterizzano indefettibilmente tali atti eccezionali, attesa l’inconsistenza di idonei accertamenti istruttori.
Il potere dell’Autorità comunale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti postula, infatti, per giurisprudenza costante, “la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento”.
Allo stesso tempo va rimarcato che l’amministrazione può utilizzare lo strumento in questione solo ove occorra far fronte ad un’effettiva situazione di emergenza.
In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza amministrativa (cfr. Tar Toscana, sez. II, 09.04.2004, n. 1006), secondo cui: “Il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché l'esistenza e l'indicazione nel provvedimento impugnato di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel caso in cui l'Amministrazione non intervenga prontamente”.
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata non appare congruamente motivata là dove pone in correlazione l’inagibilità del fabbricato e l’allegato pericolo per l’igiene pubblica.
In effetti detta conclusione appare confermata dagli esiti del successivo sopralluogo (cfr verbale 05.08.2013), là dove si conferma l’assenza di elementi significativi che possano compromettere la staticità del fabbricato o che possano evidenziare pericoli imminenti per la pubblica e privata incolumità.
Per le svolte considerazioni, l’ordinanza impugnata merita di essere annullata (TAR Lazio-Latina, sentenza 04.08.2014 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione od alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro deve essere accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi quali: la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore ed, infine, la prova dell’elemento soggettivo, ovvero dell’intento persecutorio.

... occorre procedere ad una sintetica ricognizione dei principi affermati da una giurisprudenza ormai univoca e consolidata (dalla quale non si ravvisano ragioni per discostarsi) sugli elementi costitutivi dell’azione di mobbing, onde verificare se risultano rintracciabili nella fattispecie controversa.
E’ stato, innanzitutto, rilevato che per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l’ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati:
a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cons. St., sez. IV, 06.08.2013, n. 4135; sez. VI, 12.03.2012, n. 1388).
Si è, poi, ulteriormente precisato che l'azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente, deve essere posta in essere con una serie prolungata di atti e di comportamenti e deve avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi (Cons. St., sez. IV, 19.03.2013, n. 1609).
Sotto il profilo del rilievo del fattore psicologico del datore di lavoro, è stato, ancora, chiarito che la sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini dell'enucleazione del mobbing (Cons. St., sez. IV, 16.02.2012, n. 815) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 01.08.2014 n. 4105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione di un fabbricato realizzato senza titolo abilitativo, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, che non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
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L’ordinanza di demolizione non deve essere preceduta né da un avviso di avvio del relativo procedimento, né da alcuna comunicazione ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 (peraltro, neppure ipotizzabile, non essendovi stata alcuna istanza di parte), anche in considerazione della consequenziale sua intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990.
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L'art. 31, commi 2 e 3, d.P.R. n. 380 del 2001 -nelle ipotesi in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri- fa unicamente salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione … ”che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire”.

Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo dedotto è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui: “L'ordine di demolizione di un fabbricato realizzato senza titolo abilitativo, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, che non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto" (Consiglio di Stato, sez. IV 29/04/2014, n. 2228)
Analogamente deve essere respinta la seconda censura, attesa la natura del provvedimento sanzionatorio impugnato da qualificarsi atto doveroso e vincolato nel contenuto.
Ne consegue che l’ordinanza di demolizione non deve essere preceduta né da un avviso di avvio del relativo procedimento, né da alcuna comunicazione ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 (peraltro, neppure ipotizzabile, non essendovi stata alcuna istanza di parte), anche in considerazione della consequenziale sua intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990 (TAR Campania sez. VII 05/03/2014 n.332)
Anche il terzo motivo deve essere respinto, dovendosi ritenere che l'art. 31, commi 2 e 3, d.P.R. n. 380 del 2001 -nelle ipotesi in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri- fa unicamente salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione … ”che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire” (TAR Napoli sez. VII 13/02/2013 n. 873) (TAR Lazio-Latina, sentenza 01.08.2014 n. 685 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sospensione dei lavori per fatti estranei alla volontà del titolare della concessione edilizia costituisce fatto interruttivo dei termini di esecuzione delle opere.
Il termine triennale di ultimazione dei lavori deve ritenersi, infatti, interrotto o sospeso in presenza di un factum principis che determini un impedimento assoluto alla loro esecuzione, casistica nella quale ben può rientrare la sospensione lavori disposta dal Pretore ex art. 1171 c.c. per denunzia di nuova opera o di danno temuto.

L’appello è fondato e deve essere accolto.
Come emerge dai fatti rappresentati, non si sono mai verificate le condizioni per la decadenza della concessione edilizia rilasciata nel 1992 ai ricorrenti Mazzotti–Zani, atteso che l’avvio dei lavori è intervenuto nei termini, ma la loro esecuzione è stata sospesa dal Pretore di Rimini e tale sospensione si è protratta dal 1993 al 1998, fino alla sentenza della Corte di Appello di Bologna che ha escluso che i limiti derivanti dalle disposizioni del d.p.r. n. 236 del 1988 comportassero l’inedificabilità dell’area, bensì l’assunzione di particolari cautele nell’esecuzione delle opere.
La sospensione dei lavori per fatti estranei alla volontà del titolare della concessione edilizia costituisce fatto interruttivo dei termini di esecuzione delle opere, sicché impropriamente il provvedimento di autorizzazione del Comune del 1998 parla di proroga del termine.
Il termine triennale di ultimazione dei lavori deve ritenersi, infatti, interrotto o sospeso in presenza di un factum principis che determini un impedimento assoluto alla loro esecuzione, casistica nella quale ben può rientrare la sospensione lavori disposta dal Pretore ex art. 1171 c.c. per denunzia di nuova opera o di danno temuto (cfr., per tutte, Cons. stato, sez. V, 03.02.2000, n. 597; 30.09.1998, n. 1354; 23.11.1996, n. 1414; 12.12.1988, n. 885; 24.05.1988, n. 350).
La ricostruzione del succedersi temporale dei fatti e l’improprio uso del termine “proroga” evidenziano l’insussistenza dell’asserito obbligo di motivazione ravvisato nella sentenza impugnata.
L’obbligo di motivazione sussiste, infatti, ove l’amministrazione eserciti una facoltà e non già quando l’atto è doveroso, come nel caso di specie, in cui la concessione del termine è la necessaria conseguenza del venir meno del fatto interuttivo del decorso dell’originario termine di durata della concessione edilizia di cui trattasi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.07.2014 n. 4020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo le più recenti e condivisibili interpretazioni della giurisprudenza amministrativa e costituzionale, discende la riconduzione ex lege alla categoria dei beni culturali delle piazze pubbliche, vie, strade ed altri spazi aperti urbani appartenenti all’ente territoriale e realizzate da oltre settant’anni, che presentano interesse artistico o storico, indipendentemente dall’avvio del procedimento di verifica e dalla specifica dichiarazione di interesse culturale prevista dal successivo art. 13 del Codice, con la conseguente immediata applicazione del regime di tutela disciplinato dalla Parte Seconda del Codice.
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La presenza del vincolo rende quindi applicabile la disposizione dell’art. 49 (manifesti e cartelli pubblicitari) per i beni culturali, e art. 153 (cartelli pubblicitari) per i beni paesaggistici d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, entrato in vigore il 01.05.2004) -finalizzata alla cura dell’interesse culturale e paesaggistico. Questa cura, anche per ragioni costituzionali (posto che trova base nel principio fondamentale dell’art. 9 Cost., secondo cui la Repubblica tutela il patrimonio culturale), è preminente, nel senso che anche nei casi in cui altra amministrazione presume la compatibilità dell’installazione riguardo agli interessi di sua propria cura, nondimeno occorre –a consentire di legittimare definitivamente l’installazione– che vi sia, quale presupposto provvedimentale, un concreto e positivo giudizio di compatibilità culturale e paesaggistica [mediante, per i beni culturali, il “previo parere favorevole della soprintendenza sulla compatibilità della collocazione o della tipologia dell'insegna con l'aspetto, il decoro e il pubblico godimento (fruizione, nel testo dal 01.05.2004) degli edifici o dei luoghi soggetti a tutela” e, per i beni paesaggistici, con “previo parere favorevole della Regione [dal 2004: del soprintendente] sulla compatibilità della collocazione o della tipologia dell'insegna con l'aspetto, il decoro e il pubblico godimento degli edifici o dei luoghi soggetti a tutela” (dal 01.05.2004 con “con i valori paesaggistici degli immobili o delle aree soggetti a tutela”)].

... per l'annullamento:
- della disposizione n. 1115 del 07/03/2006 di rimozione impianto pubblicitario n. 888 installato in prossimità dei Giardini Principessa Jolanda e ripristino dello stato dei luoghi;
- della nota 35029 del 23.12.2005 emessa dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggio di Napoli e Provincia, che ha ordinato al Comune di Napoli il ripristino dello stato dei luoghi;
...
La società Publionda s.r.l. espone di essere titolare di autorizzazione concessa il 01.12.2005 dal Comune di Napoli, di validità nove anni, per la installazione di un impianto pubblicitario in Napoli alla via Capodimonte fronte emiciclo, della tipologia cartello monofacciale di dimensione mt 6 per 3, individuato con il n. 888, destinato all’ affissione di manifesti di natura commerciale.
Con nota del 09.02.2006 il Comune le comunicava per conoscenza l’esistenza di una denuncia della Soprintendenza per interventi abusivi su area vincolata ai sensi del D.Lgs. 42/2004, relativo all’ installazione del cartello de quo, invitando alla rimozione dello stesso, ed in data 01.03.2006 seguiva una comunicazione dell’ufficio comunale che sollecitava un intervento risolutivo della problematica.
La ricorrente contesta la qualificazione di area vincolata del sito ove è posto l’impianto, ed articola le seguenti censure.
...
La tesi non convince.
In proposito soccorre il chiaro disposto degli artt. 10, 12 e 13 d.lgs. citato, che configurano un regime di tutela dei beni elencati sino all’effettuazione della verifica di interesse culturale, per cui non è conferente l’assunto della società che, con specifico riferimento alle pubbliche piazze, strade e vie menzionate all’art. 10, comma 4, lett. g) (che riguarda il carattere di beni culturali di “pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico”), dell’art. 10, non sussisterebbe un regime vincolistico ope legis, quantomeno anteriormente alla attivazione da parte dell’ente proprietario, per ciascun luogo, della procedura di cui agli artt. 12 e 13 citati, supportata da congrua dimostrazione dell’interesse storico o artistico di dette piazze, vie e spazi urbani.
In sostanza, le citate disposizioni pongono una presunzione di interesse culturale o storico del bene individuato ex lege fino a quando non sia stata effettuata la relativa verifica , con una tutela cd. de jure di quei beni di proprietà pubblica risalenti ad oltre 50 anni (oggi ad oltre 70 anni per effetto della disposizione della legge 106/2011 in vigore dal 14.05.2011).
Dalla citata norma, secondo le più recenti e condivisibili interpretazioni della giurisprudenza amministrativa e costituzionale, discende la riconduzione ex lege alla categoria dei beni culturali delle piazze pubbliche, vie, strade ed altri spazi aperti urbani appartenenti all’ente territoriale e realizzate da oltre settant’anni, che presentano interesse artistico o storico, indipendentemente dall’avvio del procedimento di verifica e dalla specifica dichiarazione di interesse culturale prevista dal successivo art. 13 del Codice, con la conseguente immediata applicazione del regime di tutela disciplinato dalla Parte Seconda del Codice (cfr., in questi termini: Cons. Stato, sez. VI, 24.01.2011, n. 482; in precedenza, Corte cost., 08.07.2010 n. 247; da ultimo, si veda la Direttiva 11.10.2012 del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, concernente “l’esercizio di attività commerciali e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale”).
In definitiva, il vincolo in oggetto non necessita di verifiche, perché è automatico a norma dell’art. 10, comma 1, del Codice, e dunque opera dal 01.05.2004, e non risulta risolutiva la considerazione dell’avvenuto rilascio di autorizzazione da parte del Comune di Napoli alla installazione dell’impianto pubblicitario, in quanto ciò non vale né ad escludere la sussistenza del vincolo, né comporta che debbano ritenersi gravare sul Comune di Napoli tutti gli adempimenti relativi all’acquisizione della valutazione di compatibilità dell’installazione degli impianti coi i vincoli esistenti (l’art. 2 del titolo IV del piano generale degli impianti prevede che “Il richiedente è, comunque, tenuto a produrre tutti i documenti ed a fornire i dati ritenuti necessari al fine dell’esame della domanda” cfr. TAR Campania n. 1527/2012, CdS n. 4010/2013) .
Non risulta determinante neppure la circostanza, su cui parte ricorrente pone ripetutamente l’accento, che il sito in questione non rientrasse negli elenchi di cui al P.G.I., atteso che quest’ultimo è precedente l'approvazione del D.lgs. n. 42/2004.
La presenza del vincolo rende quindi applicabile la disposizione dell’art. 49 (manifesti e cartelli pubblicitari) per i beni culturali, e art. 153 (cartelli pubblicitari) per i beni paesaggistici d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, entrato in vigore il 01.05.2004) -finalizzata alla cura dell’interesse culturale e paesaggistico. Questa cura, anche per ragioni costituzionali (posto che trova base nel principio fondamentale dell’art. 9 Cost., secondo cui la Repubblica tutela il patrimonio culturale), è preminente, nel senso che anche nei casi in cui altra amministrazione presume la compatibilità dell’installazione riguardo agli interessi di sua propria cura, nondimeno occorre –a consentire di legittimare definitivamente l’installazione– che vi sia, quale presupposto provvedimentale, un concreto e positivo giudizio di compatibilità culturale e paesaggistica [mediante, per i beni culturali, il “previo parere favorevole della soprintendenza sulla compatibilità della collocazione o della tipologia dell'insegna con l'aspetto, il decoro e il pubblico godimento (fruizione, nel testo dal 01.05.2004) degli edifici o dei luoghi soggetti a tutela” e, per i beni paesaggistici, con “previo parere favorevole della Regione [dal 2004: del soprintendente] sulla compatibilità della collocazione o della tipologia dell'insegna con l'aspetto, il decoro e il pubblico godimento degli edifici o dei luoghi soggetti a tutela” (dal 01.05.2004 con “con i valori paesaggistici degli immobili o delle aree soggetti a tutela”)].
Dato che questo giudizio è procedimentalmente delineato dalla disposizione del comma 2 di entrambi gli articoli come un parere nei fatti vincolante (proprio perché attinente alla cura di altri interessi pubblici), l’autorizzazione “comunale” non può essere rilasciata se quel medesimo previo parere è sfavorevole alla istanza ovvero manchi del tutto, come nella specie.
Su tale presupposto, l’ordine di rimozione emesso dalla Soprintendenza e fatto proprio dal Comune di Napoli risulta congruamente motivato in riferimento all’esigenza di tutelare la piena fruizione, anche visiva, del bene pubblico, atteso che l’autorizzazione rilasciata dal Comune di Napoli non contiene alcuna menzione dell’intervento dell’autorità competente alla gestione del vincolo e dunque del necessario parere favorevole di compatibilità .
Del resto, anche il comunale piano generale degli impianti pubblicitari (approvato con delibera consiliare n. 419 del 24.10.1999), al titolo IV prevede all’art. 5 (“Rilascio”) la definizione del procedimento con atto complesso per gli impianti da installare in zone vincolate, richiedendo il consenso della Soprintendenza in caso vincoli storico-artistici ovvero apposito provvedimento sindacale per quelli ambientali. Pertanto, in mancanza di detto parere preventivo, il procedimento autorizzatorio non poteva neppure dirsi perfezionato.
Risulta conseguentemente legittima, in quanto atto strettamente consequenziale e vincolato, la disposizione dirigenziale 1115 del 01.03.2006 del Comune di Napoli con cui si ordina la rimozione ad horas dell’impianto pubblicitario. Quanto al verbale di accertamento di mancata rimozione adottato il 10.10.2006 dal Dipartimento di polizia municipale del Comune di Napoli con richiesta di pagamento della sanzione di Euro 413,00, osserva il Collegio che si tratta di atto privo di carattere provvedimentale, in quanto riferito ad organi di polizia amministrativa, che si sono limitati ad accertare la mancata esecuzione dell’ordine di rimozione (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Premesso che il contributo di costruzione è posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, la deroga all’onerosità della concessione ricorre nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge e, per quanto attiene in particolare la lett. f) dell’art. 9 della l. 10/1977, se sussistano due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l'uno di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente, e l'altro di carattere oggettivo per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale.
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Il titolare della concessione edilizia è una società privata che svolge un’attività commerciale e l'intervento realizzato non costituisce espletamento di un'attività istituzionale o di interesse pubblico, essendo le opere edilizie in questione (un albergo) palesemente finalizzate ad assecondare le finalità di lucro proprie del soggetto di diritto privato. Pertanto, l'intervento edilizio è oneroso.
Altresì, deve pure escludersi la configurazione dell’intervento quale opera interesse generale o di urbanizzazione secondaria, in adesione a quanto sullo specifico punto affermato dal Consiglio di Stato, con riferimento a fattispecie concernente proprio la realizzazione di un albergo a servizio dell’aeroporto di Genova.

L’art. 9, lett. f), della legge n. 10/1977 -richiamato dalla società ricorrente a sostegno del gravame- stabilisce che “il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto (…) f) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Premesso che il contributo di costruzione è posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr., C.S., V, 21.04.2006, n. 2258), la deroga all’onerosità della concessione ricorre nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge e, per quanto attiene in particolare la lett. f) dell’art. 9, citata, se sussistano due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l'uno di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente, e l'altro di carattere oggettivo per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale (cfr. C.S., V, 20.10.2004, n. 6818; C.S., VI, 05.06.2007, n. 2981; C.S., IV, 02.03.2011, n. 1332; C.S., V, 07.05.2013, n. 2467).
Nella fattispecie difettano entrambi i requisiti.
Il titolare della concessione edilizia non riveste lo status di soggetto pubblico o equiparato, essendo invece una società privata che svolge un’attività commerciale, e l'intervento realizzato non costituisce espletamento di un'attività istituzionale o di interesse pubblico, essendo le opere edilizie in questione (un albergo) palesemente finalizzate ad assecondare le finalità di lucro proprie del soggetto di diritto privato.
Sotto altro profilo deve pure escludersi la configurazione, ai fini in questione, dell’intervento quale opera interesse generale o di urbanizzazione secondaria, in adesione a quanto sullo specifico punto affermato dal Consiglio di Stato, con riferimento a fattispecie concernente proprio la realizzazione di un albergo a servizio dell’aeroporto di Genova (C.S., VI, n. 2981/2007, cit.).
Né può condividersi la questione di legittimità costituzionale prospettata da parte ricorrente, attesa la diversità delle situazioni che la legge disciplina diversamente. Non appare infatti né incongruo, né irragionevole, che l’esenzione dal pagamento del contributo de quo sia limitata alle opere pubbliche o di pregnante interesse pubblico, senza fine di lucro (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 10.07.2014 n. 1098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di mancato pagamento delle rate di contributi di concessione, non può considerarsi rilevante la circostanza che il Comune non si sia attivato per la riscossione nei confronti del fideiussore che ha concluso il contratto di garanzia a prima richiesta.
Il contratto di garanzia a prima richiesta, infatti, ha aggiunto una posizione debitoria a quella dei debitori principali, i quali, a seguito del loro inadempimento, sono risultati tenuti a pagare senz'altro le differenze dovute ai sensi dell'art. 3 della legge n. 47/1985, senza che questo, però, comporti la doverosità della contestazione della pretesa preventivamente nei confronti del garante.

Quanto, infine, alla mancata escussione del fideiussore, il collegio non ha motivo di discostarsi dalla giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato, secondo cui nel caso di mancato pagamento delle rate di contributi di concessione, non può considerarsi rilevante la circostanza che il Comune non si sia attivato per la riscossione nei confronti del fideiussore che ha concluso il contratto di garanzia a prima richiesta.
Il contratto di garanzia a prima richiesta, infatti, ha aggiunto una posizione debitoria a quella dei debitori principali, i quali, a seguito del loro inadempimento, sono risultati tenuti a pagare senz'altro le differenze dovute ai sensi dell'art. 3 della legge n. 47/1985, senza che questo, però, comporti la doverosità della contestazione della pretesa preventivamente nei confronti del garante (v. C.S., V, 09.12.2013, n. 5880; C.S., IV, 10.08.2007, n. 4419) (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 10.07.2014 n. 1098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza evidenzia come, ai fini dell'esenzione dal pagamento dagli oneri contributivi relativi alla concessione edilizia, l'art. 9, comma 1, lett. f), l. 28.01.1977 n. 10 richieda due requisiti che devono concorrere contestualmente, l'uno di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente e l'altro, di carattere oggettivo, per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale.
Pertanto l'esenzione è legittimamente negata per la costruzione di un complesso abitativo realizzato da società privata per scopo di lucro e destinato a residenza di anziani, trattandosi di opera che non soddisfa direttamente un interesse pubblico ma si pone, con riguardo ad esso, in rapporto di mera strumentalità.

La censura è fondata e va accolta.
Occorre osservare come la questione in contestazione sia relativa agli ambiti di applicazione soggettiva della disposizione di cui alla legge 28.01.1977, n. 10 “Norme per la edificabilità dei suoli” (normativa peraltro ora trasfusa nel vigente D.P.R. 06.06.2001, n. 380), che, all’art. 9 recante “Cessione gratuita”, individua i casi in cui è esclusa la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione. In particolare, questo contributo non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
La giurisprudenza in tema (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 07.05.2013 n. 2467) evidenzia come, ai fini dell'esenzione dal pagamento dagli oneri contributivi relativi alla concessione edilizia, l'art. 9, comma 1, lett. f), l. 28.01.1977 n. 10 richieda due requisiti che devono concorrere contestualmente, l'uno di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente e l'altro, di carattere oggettivo, per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale. Pertanto l'esenzione è legittimamente negata per la costruzione di un complesso abitativo realizzato da società privata per scopo di lucro e destinato a residenza di anziani, trattandosi di opera che non soddisfa direttamente un interesse pubblico ma si pone, con riguardo ad esso, in rapporto di mera strumentalità.
Per altro verso, una diversa decisione più risalente, evocata dalla parte appellata (Consiglio di Stato, sez. V, 31.10.1992 n. 1145) aveva ritenuto che anche la vendita di un terreno da parte di un privato ad un ente pubblico, nella specie proprio l’INAIL, con contestuale assunzione dell'obbligo di costruirvi un edificio da adibire a sede dell'ente stesso, costituisce un'ipotesi riconducibile nella previsione di cui all'art. 9, lett. l), l. 28.01.1977 n. 10 in forza della quale non è dovuto il contributo di concessione ove l'opera sia realizzata dall'ente istituzionalmente competente.
Osserva la Sezione come il tema del profilo soggettivo appaia in questa sede dirimente, atteso che la norma in esame impone che sia l’ente pubblico a realizzare l’opera, ovviamente anche potendosi avvalere di soggetti privati.
Il primo giudice ha ben colto la centralità della questione, tanto che il nucleo fondante della sentenza è teso a indagare sulla natura del contratto intercorso tra la Galassia Immobiliare s.r.l. e l’ INAIL. Afferma infatti il TAR che, non essendo in questione l’aspetto oggettivo “è invece in contestazione la sussistenza dell'elemento soggettivo, ossia se l'opera in esame possa essere considerata come realizzata da un ente istituzionalmente competente al riguardo, ancorché, nel caso in esame, l'esecutore materiale sia un privato imprenditore. Il Collegio ritiene di dover fare applicazione del principio giurisprudenziale secondo cui l'elemento soggettivo, che determina la gratuità della concessione, è soddisfatto ogni qualvolta sussista un collegamento giuridicamente rilevante tra l'Amministrazione pubblica e il privato che realizza l'opera per conto di essa”.
Per radicare tale conclusione, il TAR, esaminati gli elementi di fatto ampiamente descritti sopra, afferma che “in sostanza non si è trattato di una operazione economica posta autonomamente in essere dalla ricorrente per realizzare un edificio da collocare sul libero mercato immobiliare (e da offrire ad incertam personam) al fine di trarre il massimo profitto, ma di un intervento edilizio (sostanzialmente su commissione), realizzato per soddisfare le esigenze di uno specifico acquirente disposto all'acquisto (al prezzo e alle condizioni da esso ritenute congrue) una volta maturati tutti i presupposti per la sua regolare e sollecita esecuzione”.
In sintesi, il primo giudice ha ricondotto la fattispecie in esame nell’ambito dell’appalto e non in quella della vendita di cosa futura, ritenendo così sussistente il collegamento soggettivo e, conseguentemente, l’esistenza di un titolo per l’esonero dal pagamento del contributo di cui alla legge n. 10 del 1977.
La Sezione non condivide la posizione del TAR.
Occorre evidenziare come qui non sia in contestazione la correttezza dell’inquadramento della fattispecie contrattuale.
In questo senso, la giurisprudenza civile (da ultimo, Cassazione civile, sez. II, 30.04.2012, n. 6636) evidenzia come la distinzione tra appalto e vendita (e vendita di cosa futura) si basa su due elementi: da un lato, la volontà dei contraenti e, dall’altro, il rapporto fra il valore della materia (prestazione di dare) ed il valore della prestazione d'opera (prestazione di fare), da considerare non in senso oggettivo (quale valore economico della materia o dell'opera), bensì avuto riguardo alla comune intenzione dei contraenti.
Pertanto, si è in presenza d'un contratto d'appalto o d'opera se l'oggetto effettivo e prevalente dell'obbligazione assunta dal produttore-venditore è la realizzazione d'un opus unicum od anche d'un opus derivato dalla serie, ma oggetto di sostanziali adattamenti o modifiche a richiesta del destinatario, laddove la fornitura della materia è un semplice elemento concorrente nel complesso della realizzazione dell'opera e di tutte le attività a tal fine intese.
Al contrario, si è in presenza d'un contratto di compravendita, se le attività necessarie a produrre il bene costituiscono solo l'ordinario ciclo produttivo del bene, che può anche concludersi con l'assemblaggio delle sue componenti presso il destinatario, ma è la sola consegna del bene stesso, l'effettiva obbligazione del produttore-venditore, insomma, nella compravendita, oggetto dell'obbligazione è un dare, nel contratto d'appalto o d'opera, oggetto dell'obbligazione è un facere.
Ciò che è invece problematico è la possibilità stessa di dare vita ad una riqualificazione del contratto, come operata dal primo giudice, per un duplice ordine di ragioni.
La prima è assolutamente tranciante ed è di carattere oggettivo.
Non può non notarsi come l’esito della disamina del TAR sia fondamentalmente quello di affermare che, pur essendo stato pubblicato un avviso per concludere un’operazione economica di compravendita, anche di cosa futura, sarebbe possibile per la pubblica amministrazione, in questo caso l’INAIL, concludere un diverso contratto, ossia quello di appalto. E ciò nonostante che anche il rapporto contrattuale tra le parti qualifichi espressamente, all’art. 1 recante “Oggetto”, la detta operazione come condotta ex art. 1472 c.c..
In concreto, il primo giudice, pur di fronte ad una espressa qualificazione pattizia e al rispetto della procedura finalizzata alla detta compravendita, ha riqualificato l’operazione contrattuale senza rendersi conto che il contratto, come derivante dalla lettura datane del TAR, si connotava come nullo quanto meno sotto due diversi profili: in primo luogo, trattandosi di una fattispecie contrattuale formatasi in elusione della disciplina cogente sulla contrattazione pubblica, l’appalto sarebbe un contratto in frode alla legge, ex art. 1343, quindi con causa illecita, quindi nullo e quindi, per ultimo, assolutamente non produttivo di effetti (sui rapporti tra le due tipologie contrattuali, vedi Consiglio di Stato, ad. gen., 17.02.2000 n. 2 che precisa che l'istituto della compravendita di cosa futura non è stato espunto dall'ordinamento con il sopravvenire della più recente legislazione sui lavori pubblici, salvo verificare se, in concreto, l'amministrazione abbia stipulato un contratto di vendita o di appalto: verifica che tuttavia va svolta, sul piano del merito, secondo criteri di rilevazione -quali intento delle parti, obbligazioni dedotte- elaborati dalla giurisprudenza, i quali non intaccano, ma anzi presuppongono, la distinzione giuridica fra i tipi negoziali giuridicamente ammissibili); in secondo luogo, la nullità sarebbe parimenti predicabile sulla carenza dei requisiti di forma, atteso che il contratto stipulato è relativo alla fattispecie della compravendita.
La seconda connotazione è di carattere soggettivo. Il TAR ha interpretato il contratto intercorso tra Galassia Immobiliare s.r.l. e INAIL e ha usato gli esiti di questa interpretazione in malam partem contro un soggetto terzo, ossia il Comune di Crema, il quale peraltro era legato con un altro rapporto negoziale, ossia la convenzione di lottizzazione, con la stessa Galassia Immobiliare s.r.l.. In questo caso, non è stato condotto un vaglio sulla fides, di cui all’art. 1366 c.c., e quindi sull’affidamento, in questo caso dell’ente pubblico.
Le osservazioni appena svolte evidenziano quindi come la decisione del TAR non abbia tenuto conto dell’impossibilità dell’applicazione meccanica degli strumenti ermeneutici civilistici in una fattispecie strettamente regolata dalle regole pubblicistiche sugli appalti, per cui ha proposto un’interpretazione del contratto che ne avrebbe determinato la sua nullità, con le ovvie conseguenze, anche di carattere restitutorio, tra le parti.
Vero è, invece, che il contratto intercorso tra Galassia Immobiliare s.r.l. e INAIL continua a essere qualificabile unicamente come contratto di vendita di cosa futura, come peraltro dimostrato dalla circostanza che, alla data del rilascio della concessione edilizia, ossia il 23.09.2002, la Galassia Immobiliare s.r.l. non aveva alcun rapporto negoziale con l'INAIL, né in relazione alla vendita, atteso che il contratto che è stato stipulato oltre un anno dopo, ossia il 18.12.2003; né in merito ad un presunto contratto d'appalto, mai stipulato fra le parti.
Assodato che quindi il rapporto negoziale è quello disciplinato dall’art. 1472 c.c., recante “Vendita di cose future”, come desumibile sia dall’offerta di INAIL del 07.06.2000 come pure dall’art. 1 dello stesso contratto del 18.12.2003, deve ritenersi carente il requisito soggettivo indispensabile per l’applicazione dell’art. 9, lett. f), della legge 10 del 1977.
È, infatti, sicuramente vero che la ratio della disposizione ora citata sia quella di incentivare l'esecuzione di opere dalle quali la collettività possa trarre un utile ed evitare che il soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento. Il beneficio dello sgravio si traduce, quindi, in un abbattimento dei costi a cui corrisponde un minore aggravio di oneri per gli utenti.
Tuttavia, nel caso in esame, la tipologia contrattuale e la costruzione del regolamento negoziale rendevano del tutto indipendenti le due diverse serie procedimentali, per cui non può concordarsi, nemmeno dal punto di vista funzionale, sulla ricostruzione proposta dal primo giudice (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.07.2014 n. 3421 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Appalti con responsabilità solidale. Tribunale di Reggio Emilia. In caso di vizi di progettazione.
In caso di vizi di progettazione negli appalti la responsabilità è solidale se i danni sono provocati da più soggetti e il committente può rivolgersi a tutti per ottenere l'intero risarcimento. Il debitore escusso avrà poi regresso verso ciascuno degli altri responsabili per la ripetizione della parte da ognuno di essi dovuta, da presumersi uguale se non c'è accertamento contrario. Per ritenere la solidarietà di tutti nel risarcimento, è sufficiente che le azioni o le omissioni di ciascuno abbiano concorso a produrre l'evento.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Reggio Emilia, Sez. II civile, sentenza 27.06.2014 n. 988, (tratta da www.dirittodelrisparmio.it) in una controversia relativa a lavori di progettazione e installazione di un impianto termico.
I committenti, supponendo che il cattivo funzionamento dell'apparecchiatura fosse dovuto a un errore nel progetto, avevano chiamato in causa solo il progettista, chiedendo il risarcimento dei danni. Il convenuto chiamava in garanzia anche l'appaltatore, il direttore dei lavori e il fornitore dei materiali. In corso di causa veniva dunque disposta una perizia tecnica che chiariva la sussistenza dei vizi e dei malfunzionamenti del l'impianto nonché la responsabilità, diretta o indiretta, a vario titolo e in misura diversa, di tutti i convenuti, con obbligo di risarcitorie in solido.
Il giudice ha evidenziato:
a) che il progettista deve risarcire il danno conseguente agli errori del l'opera progettuale a lui riconducibile;
b) che l'appaltatore (vincolato da una obbligazione di risultato) deve rispondere in solido, sia nel caso in cui si sia accorto degli errori e non li abbia denunciati al committente, sia nel caso in cui, pur non essendosi accorto degli stessi, lo avrebbe potuto fare con l'uso della normale diligenza;
c) lo stesso dicasi per il fornitore dei materiali, nel caso in cui questi non si sia limitato a vendere il materiale, ma abbia proceduto a un sopralluogo senza segnalare le carenze funzionali;
d) infine, il direttore dei lavori (obbligato a riscontrare la conformità del l'opera al progetto) risponde per i vizi derivanti sia dal mancato rispetto del progetto quanto da carenze progettuali.
L'impegno dell'appaltatore di provvedere all'eliminazione dei vizi, che può anche essere assunto tramite comportamenti concludenti, implica il riconoscimento unilaterale della loro esistenza, e costituisce un'obbligazione nuova rispetto a quella ordinaria, soggetta a prescrizione decennale
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2014).
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Massima
Appalto – vizi dell’opera per errori di progettazione – responsabilità solidale di appaltatore e direttore lavori – sussiste – limiti e condizioni - Artt. 1667 e 2055 c.c.

Nel caso di vizi dell’opera derivanti da una carente progettazione, l’appaltatore risponde, in solido col progettista, sia nel caso in cui si sia accorto degli errori e non li abbia tempestivamente denunciati, sia nel caso in cui, pur non essendosi accorto degli errori, lo avrebbe potuto fare con l’uso della normale diligenza; conseguentemente, l’appaltatore è esentato da responsabilità solo ove dimostri che gli errori non potevano essere riconosciuti con l’ordinaria diligenza richiesta all’appaltatore stesso, ovvero nel caso in cui, pur essendo gli errori stati prospettati e denunciati al committente, questi ha però imposto l’esecuzione del progetto, posto che in tale eccezionale caso l’appaltatore ha agito come nudus minister, a rischio del committente e con degradazione del rapporto di appalto a mero lavoro subordinato.
Il direttore dei lavori risponde nei confronti del committente non solo nel caso in cui i vizi dell’opera derivino dal mancato rispetto del progetto, posto che tra gli obblighi del direttore stesso vi è quello di riscontrare la progressiva conformità dell’opera al progetto; ma risponde anche, in solido con progettista e appaltatore, anche nel caso i vizi derivino da carenze progettuali, posto che è suo obbligo quello di controllare che le modalità dell’esecuzione dell’opera siano in linea non solo con il progetto, ma anche con le regole della tecnica, fino al punto di provvedere alla correzione di eventuali carenze progettuali.
L’impegno dell’appaltatore di provvedere all’eliminazione dei vizi dell’opera, che può anche essere assunto tramite comportamenti concludenti, implica il riconoscimento unilaterale dell’esistenza dei vizi stessi, e dà vita ad un’obbligazione nuova rispetto a quella ordinaria, svincolata dai termini di decadenza e di prescrizione di cui all’art. 1667 c.c. e soggetta invece all’originaria prescrizione decennale
(massima tratta da www.dirittodelrisparmio.it).

EDILIZIA PRIVATALa concessione urbanistica non esonera dal rispetto delle norme.
Con la sentenza 09.06.2014 n. 12956, la Corte di Cassazione ha riaffermato il consolidato principio secondo cui
nelle controversie tra privati derivanti dall'esecuzione di opere edilizie non conformi alle prescrizioni di leggi o degli strumenti urbanistici viene sempre e soltanto in rilievo la lesione di diritti soggettivi attribuiti ai privati dalle norme medesime, anche se trattasi di norme non integrative di quelle dettate dal codice civile in materia di distanze fra le costruzioni, mentre la rilevanza giuridica della concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra l'amministrazione e il richiedente.
La conseguenza è che, ove dette norme siano state violate, il diritto del vicino alla riduzione in pristino (o al risarcimento del danno) non trova deroga per il fatto che la costruzione sia stata realizzata in base a concessione edilizia e resta pertanto tutelabile davanti al giudice ordinario, senza necessità di una preventiva decisione del giudice amministrativo in ordine alla legittimità o meno del provvedimento di concessione e senza che occorra neppure una delibazione di detto provvedimento, in via meramente incidentale, da parte del giudice ordinario.
Il permesso a costruire della Pa - Ne consegue che l'esistenza di un permesso a costruire rilasciato dalla pubblica amministrazione non esonera dal rispetto delle norme dettate in tema di distanze legali, per cui, in caso di loro inosservanza, ben può il proprietario vicino chiedere la riduzione in pristino mediante eliminazione dell'opera. In altre parole, i rapporti tra i privati restano regolati alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune, con le consentite integrazioni della normativa speciale ed alle norme in ordine al diritto di proprietà ed alle relative limitazioni, legali o convenzionali.
I precedenti - Il principio riprende un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il titolo edilizio assentivo è un atto amministrativo che rende legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico e regola il rapporto che in relazione a quell'attività si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a tale soggetto diritti soggettivi verso i terzi al riguardo dell'attività stessa, la cui liceità, rispetto a costoro, deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune.
Per converso, ha avuto modo di precisare la giurisprudenza, è da precisare che il solo fatto che una costruzione sia sorta in mancanza del prescritto permesso a costruire, ove non si sia avuta violazione delle norme cui sono riconnesse le conseguenze previste dall'articolo 872, comma 2, del Cc, non può essere causa di danno risarcibile a favore del confinante, atteso che questo, anche se lamenti la lesione di un suo personale interesse a seguito della costruzione eseguita senza concessione, non è titolare di un diritto soggettivo, la cui lesione possa dar luogo al risarcimento del danno, a fronte delle norme che regolano, in ordine allo jus aedificandi, il potere della Pa ispirato alla tutela dell'interesse generale all'ordinato sviluppo edilizio.
In altri termini, la conformità o meno della costruzione al permesso a costruire o perfino la costruzione senza permesso è, nei rapporti tra privati, del tutto irrilevante, trovando la tutela del diritto di proprietà fondamento soltanto nelle norme che regolano i rapporti privatistici e non invece in quelle, dirette alla Pa, intese a regolare, nel prevalente interesse pubblico, l'ordinato sviluppo dell'attività edilizia (tratto da www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com).

CONDOMINIO: Copertura dei box: pagano i proprietari e il condominio. Immobili. Manutenzione ripartita al 50 per cento.
Le spese necessarie per la manutenzione e il rifacimento dell'area condominiale adibita a parcheggio che svolge anche la funzione di copertura dei box sottostanti vanno sostenute in parti uguali dal condominio e dai proprietari delle sottostanti proprietà esclusive.
Lo ha ribadito il TRIBUNALE di Trento con la sentenza 01.04.2014 n. 417, che ha respinto l'impugnazione proposta da un condomino contro la delibera di riparto delle spese assunta dall'assemblea.
Per il giudice, infatti, allo stato di degrado dell'area in questione avevano contribuito due fattori: il traffico dei veicoli e l'omessa manutenzione da parte dei condomini. Nella determinazione del criterio di riparto delle spese è inoltre necessario considerare l'utilità derivante dal bene comune; se è vero che l'area di transito è utilizzata da tutti i condomini per accedere o per recedere oppure per parcheggiare, è anche innegabile che nel contempo essa riveste l'importante funzione di riparo e copertura dei locali che stanno al di sotto.
Tenuto peraltro conto che, nel caso esaminato, gli interventi non hanno riguardato solo la pavimentazione dell'area a parcheggio, ma soprattutto l'impermeabilizzazione della soletta, il giudice, peraltro aderendo a precedenti giurisprudenziali (come la sentenza 15841/2011 della Cassazione), ha applicato in via analogica l'articolo 1125 del Codice civile, secondo cui le spese per la manutenzione e ricostruzione di volte e solai sono sostenute in parti uguali dai proprietari dei due piani uno all'altro sovrastanti.
Nel caso esaminato dal tribunale di Trento, non si ha una utilizzazione particolare del solaio di copertura da parte di un condomino rispetto agli altri, ma una utilizzazione conforme alla destinazione tipica, anche se non esclusiva, di tale manufatto da parte di tutti i condomini. L'area è infatti utilizzata da questi ultimi sia come parcheggio, sia per andare alle proprie unità immobiliari, ma riveste contemporaneamente la funzione di riparo e copertura del l'autorimessa.
Con questi presupposti, non può essere accolta la tesi del condomino impugnante per cui, trattandosi di interventi concernenti la praticabilità dell'area, le spese si sarebbero dovute porre a carico dei proprietari utilizzatori della stessa.
Va escluso invece che possa trovare giustificazione una diversa misura di addebito tra i comproprietari in ragione di un terzo al condominio e due terzi ai proprietari dei locali sottostanti, come invece avevano in precedenza ritenuto alcune sentenze, applicando l'analogo principio dettato per i lastrici solari e andando in tal modo a penalizzare i proprietari dei box, spesso vittime incolpevoli di una cattiva manutenzione della sovrastante area comune e di una incuria nella gestione di essa.
Non va peraltro dimenticato che il condominio è custode di tutti i beni comuni e quindi anche dell'area adibita a parcheggio. In tale veste risponde dei danni conseguenti a negligenza nella manutenzione o, in genere, di quelli per cui non abbia adottato tutte le necessarie misure per evitarli.
La principale fonte di danni, in questi casi, è costituita dalle infiltrazioni d'acqua. La responsabilità per quelli causati alle unità immobiliari sottostanti all'area comune, se dovuti a mancanza di manutenzione e/o di ricostruzione, ha natura extracontrattuale e trova origine dalla violazione del dovere di custodia previsto dall'articolo 2051 del Codice civile
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Legittimità diniego sanatoria ex art. 181 del D.Lgs. 42/2004 per traliccio porta antenne.
Il giudizio negativo è giustificato dal fato che il traliccio costituisce: “una presenza estremamente stridente nel pregevole contesto circostante”, che “comporta un’alterazione sostanziale sullo stato dei luoghi”, che “rappresenta un elemento avulso e fortemente prevaricante all’interno della zona collinare cittadina riconosciuta di notevole interesse pubblico”, per ritenere conseguente l’affermazione finale secondo cui si reputa che “la presenza della struttura in questione pregiudichi fortemente l’immagine della zona collinare cittadina e rappresenti un intervento lesivo dei valori storici, architettonici e paesaggistici tutelati dal vincolo”.
Si deve in ogni caso chiarire che il d.lgs. n. 259/2003 ha disciplinato un procedimento semplificato per la realizzazione delle infrastrutture delle comunicazioni elettroniche ai soli fini urbanistici, edilizi ed igienico sanitari, che è destinato a prevalere unicamente sulla disciplina edilizia dettata con il T.U. di cui al d.p.r. 380/2001, restando salva invece la piena applicabilità delle norme a tutela paesaggistica.
Non è corretta la tesi secondo la quale la realizzazione degli impianti in questione tralicci compresi, persino se risalenti nel tempo, dovrebbe ritenersi consentita sull'intero territorio nazionale con riferimento a qualsiasi tipo di destinazione di zona omogenea, concetto questo chiaramente riferibile unicamente alle destinazioni di tipo urbanistico. Infatti, è lo stesso d.lgs n. 259/2003, all'art. 86, co. 4, a prevedere espressamente la soggezione degli interventi di cui trattasi alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 42/2004.

5.1. L’eccezione è infondata.
5.2. Premessa la natura fondamentalmente duale, ovvero complessa, dell’atto impugnato con il ricorso in primo grado, data la natura vincolante e non solamente obbligatoria del parere ostativo della Sovrintendenza (definibile, sulla scorta di autorevole dottrina, come una vera e propria “decisione preliminare”), è evidente che il Ministero ha interesse a rivendicare l’applicabilità alla fattispecie in contestazione del d.lgs. 42/2004, non fosse altro perché in tale ambito il suo eventuale dissenso non è superabile e ha quindi efficacia ostativa, a differenza di quanto previsto invece dal d.lgs. 259/2003.
5.3. Né rileva, in senso contrario, il fatto che il Comune non abbia proposto appello alla sentenza, sembrando prestare acquiescenza ad essa (per quanto della conferenza di servizi annunciata all’indomani della sentenza non si sia più avuto alcuna comunicazione ufficiale), ove si consideri la natura della procedura che è all’origine della vicenda e gli interessi che vengono in evidenza e di cui, si vedrà, l’Amministrazione dei beni culturali è principale tutore.
6. Infatti, è necessario ricordare e precisare come alla base dell’atto di diniego impugnato con il ricorso in primo grado vi fosse una richiesta di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, presentata dalla proprietà a norma dell’art. 181, co. 1-quater, del d.lgs. 42/2004, nell’ambito di un procedimento sanzionatorio già avviato dall’Autorità per un’ipotesi di abuso che, come noto, può avere rilevanza non solo sul piano amministrativo.
6.1. Sul presupposto, peraltro non contestato neppure in questa sede, che la zona in questione fosse sottoposta a vincolo paesaggistico e che dovesse applicarsi la disciplina prevista per i beni soggetti a tutela, era stata quindi la stessa proprietà del bene a chiedere un accertamento sulla compatibilità paesaggistica degli interventi effettuati in precedenza sul proprio bene, senza richiamare né invocare in alcun modo la disciplina di cui al d.lgs. 259/2003.
Il che si spiega anche in ragione del fatto che era stato contestato un abuso (non semplicemente edilizio) e che non si trattava di realizzare un nuovo intervento ma, semmai, di sanare un intervento già realizzato, anni prima, in assenza di autorizzazione paesaggistica.
6.2. In tale contesto, nel dare corso ad una domanda proposta in tal senso, l’Amministrazione non poteva non fare coerente e conseguente applicazione della disciplina che la stessa parte privata aveva invocato per prima, finendo per accertare, attraverso il parere della Sovrintendenza, l’incompatibilità dell’intervento in questione, date anche le dimensioni del traliccio, nell’ordine di 20 metri di altezza.
Solamente in quel momento, e solamente quindi a seguito del diniego ricevuto, la strategia difensiva dell’originaria ricorrente è mutata radicalmente, spostando la propria attenzione sul Codice delle comunicazioni elettroniche.
6.3. Al riguardo si deve in ogni caso chiarire come il d.lgs. n. 259/2003 abbia disciplinato un procedimento semplificato per la realizzazione delle infrastrutture delle comunicazioni elettroniche ai soli fini urbanistici, edilizi ed igienico sanitari (cfr. Cons. St., VI, n. 889/2006), che è destinato a prevalere unicamente sulla disciplina edilizia dettata con il T.U. di cui al d.p.r. 380/2001 (cfr. TAR Lazio, Roma, II, n. 6056/2006), restando salva invece la piena applicabilità delle norme a tutela paesaggistica (cfr., già TAR Marche, n. 52/2004 e TAR Lazio, n. 2737/2007).
Non si reputa, pertanto, pertinente la giurisprudenza richiamata dalle controparti (v., ad esempio, Cons. St., VI, n. 4557/2010), secondo la quale la realizzazione degli impianti in questione –tralicci compresi, persino se risalenti nel tempo- dovrebbe ritenersi consentita sull'intero territorio nazionale con riferimento a qualsiasi tipo di destinazione di zona omogenea, concetto questo chiaramente riferibile unicamente alle destinazioni di tipo urbanistico.
La citata giurisprudenza, infatti, si riferisce alla disciplina urbanistico-edilizia e non anche a quella paesaggistica, rispetto alla quale è significativamente lo stesso d.lgs. n. 259/2003, all'art. 86, co. 4, a prevedere espressamente la soggezione degli interventi di cui trattasi alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 42/2004.
6.4. Tanto chiarito in ordine a quale disciplina fosse da applicare a fronte della domanda presentata in sede amministrativa dalla proprietà, venendo ora ad esaminare il parere della Sovrintendenza, reputa il Collegio che il giudizio negativo in esso formulato si fondi su una motivazione sufficientemente dettagliata e che rivela l’esistenza di un’istruttoria all’apparenza completa ed approfondita.
6.5. E’ sufficiente osservare, infatti, come il giudizio negativo sia giustificato sul rilievo che il traliccio “costituisce una presenza estremamente stridente nel pregevole contesto circostante”, che “comporta un’alterazione sostanziale sullo stato dei luoghi”, che “rappresenta un elemento avulso e fortemente prevaricante all’interno della zona collinare cittadina riconosciuta di notevole interesse pubblico”, per ritenere conseguente l’affermazione finale secondo cui si reputa che “la presenza della struttura in questione pregiudichi fortemente l’immagine della zona collinare cittadina e rappresenti un intervento lesivo dei valori storici, architettonici e paesaggistici tutelati dal vincolo”.
6.6. Giudizi circostanziati e articolati avverso i quali, a ben vedere, la proprietà non ha opposto contestazioni di sostanza, limitandosi a sostenere la tesi che in nome della prevalenza delle comunicazioni elettroniche la tutela dei beni culturali sarebbe per definizione recessiva (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.01.2014 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Vincoli urbanistici non indennizzabili.
I vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla previsione dell’articolo 2 della L. 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono invece essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 della Costituzione.

2.3. Fermo il detto convincimento, aderente al dato letterale ivi contenuto, neppure persuade la ratio della necessità di una interpretazione restrittiva della detta disposizione, siccome postulato da parte appellante.
2.4. E’ ben vero che la legislazione nazionale è ancorata al binomio vincolo conformativo/durata indeterminata, vincolo espropriativo/scadenza prefissata.
Ma è altresì vero, che tale scissione concettuale “nasce” a tutela della posizione del privato e si rende necessaria alla stregua dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la “storica” sentenza 20.05.1999, n. 179 (dichiarativa dell'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della L. 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo comma, della L. 19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di un indennizzo).
Il che ha portato la uniforme giurisprudenza amministrativa ad affermare (ex multis Cons. Stato Sez. V, 13.04.2012, n. 2116) che “i vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della L. 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono invece essere indennizzati, sono: a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta; b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi; c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 Cost..”.
Non apparirebbe quindi contrario ad alcun principio, né collidente con la valutazione espressa dal Giudice delle leggi, una prescrizione contenuta in una legge regionale che prevedesse la perdita di efficacia anche dei vincoli conformativi (mentre, al contrario, lo sarebbe certamente, l’inversa ipotesi di una durata sine die di quelli espropriativi).
E d’altro canto, allorché l’appellante richiama la consolidata interpretazione del Giudice delle Leggi secondo la quale “categorie” ed “istituti” contenuti del TU edilizia e nel TU espropriazioni hanno natura generale e vincolano i Legislatori regionali (ex aliis Corte Cost. n. 303 del 2003) è poi “costretto” a mentovare una disposizione del dPR n. 327/2001 (l’art. 9) che ben poco ausilio può portare alla tesi dallo stesso patrocinata, in quanto ivi è certamente affermato il principio della decadenza del vincolo preordinato all’esproprio, ma non il divieto di disporlo per quello zonizzante, per cui non è agevole comprendere quale prescrizione “nazionale” avrebbe violato il Legislatore regionale (e/o il Tar nell’interpretare secondo lettera la prescrizione legislativa regionale surriportata)
Se così è, e non pare al Collegio di ciò si possa dubitare, non v’è ragione né esigenza di forzare la lettera della prescrizione regionale in esame, limitandola ai vincoli di natura espropriativa, laddove invece esse fa generico ed indeterminato richiamo al “piano attuativo di iniziativa privata” senza aggettivazioni (vedasi punto 5 della memoria depositata in primo grado dalla resistente amministrazione comunale e datata 20.02.2012).
2.5. Ne consegue che: stante la univoca interpretazione della succitata norma, e la incontestata circostanza che l’atto d’obbligo venne sottoscritto a più di 5 anni di distanza dall’approvazione del RU non v’era neppure necessità di interrogarsi sulla natura della prescrizione attingente il compendio immobiliare di parte appellante, e ciò sarebbe sufficiente a disattendere l’appello.
2.6. A fortiori, osserva comunque il Collegio che neppure sotto tale ultimo angolo prospettico la critica appellatoria è fondata.
Come è noto, per costante considerazione della dottrina e della giurisprudenza i vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della L. 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono invece essere indennizzati, sono: a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta; b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi; c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 Cost..
2.7. Nel caso di specie l’art. 7, lett. L.L.3 delle Norme Urbanistiche del R.U., non contiene previsioni conformative (siccome inesattamente affermato da parte appellante), bensì sostanzialmente espropriative nella parte in cui contempla la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria quali la strada di collegamento tra le due vie esistenti (che include la realizzazione di un ponte), ed un parcheggio pubblico (opere di urbanizzazione che si trovano poi specificamente dettagliate nel progetto approvato con Deliberazione G.C. 07.07.2008, n. 90 (doc. 9), che, in particolare, individua un’area complessiva di 1.670 mq. di proprietà dell’Istituto Diocesano, da cedere gratuitamente al Comune ai sensi dell’art. 127, comma 11, l.reg. n. 1/2005 previa realizzazione delle opere sopra ricordate).
Anche ad avviso del Collegio tale previsione avrebbe natura sostanzialmente espropriativa. In particolare, non vale a conferirle natura conformativa, contrariamente a quanto si prospetta ex adverso, il fatto che sia attuabile ad iniziativa privata: laddove la disciplina urbanistica prevede la realizzazione di un’opera pubblica che comporta l’azzeramento del diritto di proprietà dell’area su cui deve essere costruita in quanto ne annulla ogni possibilità di sfruttamento economico, essa configura un vincolo sostanzialmente espropriativo.
Costante giurisprudenza che proprio in tema di opere di urbanizzazione da realizzare a scomputo dei relativi oneri ha avuto modo di affermare che le relative previsioni urbanistiche, indipendentemente dal fatto che la realizzabilità dell’opera sia per mano pubblica o privata, hanno natura sostanzialmente espropriativa, in quanto determinano ex le
ge (v. art. 16 d.P.R. n. 380/2001 e il già citato art. 127 l.reg. n. 1/2005) la cessione gratuita della proprietà dell’opera e della relativa area all’ente pubblico, sottraendo la stessa al regime dell’economia di mercato (in questo senso: Cons. Giust. Amm. Sic., 19.12.2008, n. 1113; Tar Puglia, Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 07.05.2010, n. 6465; id., 22.04.2010, n. 5716).
Per altro verso, neppure può affermarsi che, avuto riguardo alla concreta natura delle opere predette, si trattasse di opere sfruttabili dal privato (ponte, strada, e parcheggio pubblico).
Solo per quest’ultima (parcheggio) potrebbe residuare qualche dubbio, sennonché anche la giurisprudenza “aperturista” (di recente TAR Puglia Lecce Sez. III, 24.06.2011, n. 1142) nel sottolineare che la destinazione nel P.R.G. a parcheggio pubblico, non costituisce necessariamente e ontologicamente un vincolo espropriativo, fa presente che dipende tale qualificazione, in concreto, dalla effettiva incidenza che la relativa previsione esplica sul contenuto del diritto di proprietà, elemento questo che necessariamente va coordinato con l'onere della prova.
Può dirsi pertanto che la destinazione a parcheggio pubblico, impressa dallo strumento urbanistico, concreta vincolo preordinato ad esproprio in quanto esula dall'ottica della suddivisione zonale del territorio e mira a individuare beni singolarmente determinati in vista della creazione di un'area non edificata all'interno di zona a spiccata vocazione edificatoria (Cassazione civile, sez. I, 07.02.2006, n. 2613), privando il bene di qualsiasi utilità economica (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2014 n. 44 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono l. 326 del 2003, nozione di strutture realizzate.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la nozione di “strutture realizzate”, necessitanti di lavori di completamento funzionale, postula che i manufatti abbiano acquistato una fisionomia tale da renderne riconoscibile il disegno progettuale e la destinazione debbano solo essere completati ai fini della loro funzionalità, pertanto, l’art. 43, comma 5, l. 28.02.1985, n. 47, nella parte in cui prevede il completamento di opere, va inteso nel senso che deve trattarsi di semplici lavori strutturalmente necessari alla funzionalità di quanto già edificato e non anche di integrazione delle dette opere con interventi edilizi che danno luogo di per sé a nuove strutture. Infatti, la norma non impiega la dizione di costruzioni o opere “ultimate”, cioè un manufatto completo almeno al rustico, privo solo delle finiture, ma la diversa nozione di “strutture realizzate”.
Quindi, si deve ritenere che la realizzazione delle strutture può dirsi verificata anche se difettano le tamponature esterne, nei termini in cui questo risultato consenta comunque di percepire la concreta fisionomia del manufatto e la sua destinazione: cioè di identificare nei tratti essenziali l’opera da straordinariamente sanare e completare.

1.2 A quest’ultimo riguardo, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la nozione di “strutture realizzate”, necessitanti di lavori di completamento funzionale, postula che i manufatti “abbiano acquistato una fisionomia tale da renderne riconoscibile il disegno progettuale e la destinazione debbano solo essere completati ai fini della loro funzionalità” (Cons. Stato, VI, 27.06.2008, n. 3286; V, 24.02.1999, n. 192), pertanto, l’art. 43 cit., nella parte in cui prevede il completamento di opere, va inteso nel senso che deve trattarsi di semplici lavori strutturalmente necessari alla funzionalità di quanto già edificato e non anche di integrazione delle dette opere con interventi edilizi che danno luogo di per sé a nuove strutture (Cons. Stato, IV, 30.06.2005, n. 3542; V, 19.10.2011, n. 5625).
Il detto precedente di questa VI sezione n. 3286/2008, invocato dall’appellante, ha ritenuto sanabile la struttura priva delle tamponature esterne (non così quello della IV sezione n. 3542/2005).
1.3 Il Collegio è dell’avviso che debba darsi continuità al precedente di questa Sezione.
Come ivi evidenziato, infatti, la norma non impiega la dizione di costruzioni o opere “ultimate”, cioè un manufatto completo almeno al rustico, privo solo delle finiture, ma la diversa nozione di “strutture realizzate”. Come in quel precedente, si deve ritenere che la realizzazione delle strutture può dirsi verificata anche se difettano le tamponature esterne, nei termini in cui questo risultato consenta comunque -come qui appare- di percepire la concreta fisionomia del manufatto e la sua destinazione: cioè di identificare nei tratti essenziali l’opera da straordinariamente sanare e completare.
2. Come osserva l’appellante, inoltre, non è pertinente il riferimento, operato dal giudice di primo grado, all’art. 35, comma 13, l. n. 47 del 1985, a norma della quale il presentatore di domanda di sanatoria può completare le opere abusive purché abbia notificato al comune “il proprio intendimento”, e abbia inoltre presentato alla stessa autorità perizia giurata o documentazione avente data certa “in ordine allo stato dei lavori abusivi”.
Questo onere comunicativo concerne però una fattispecie di sanatoria diversa da quella qui in contestazione, vale a dire quella generale di cui all’art. 31 della medesima l. n. 47 del 1985, concernente “le costruzioni e di altre opere che risultino essere state ultimate” alla data ultima di condonabilità. Le quali costruzioni o altre opere sono quelle di cui stato realizzato il rustico ed occorra ancora provvedere alle relative finiture.
Per contro, nel presente caso viene in rilievo la diversa fattispecie, eccezionale, di edifici di cui sia stata realizzata la sola struttura portante e non siano state ultimate a causa di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali di sequestro (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Alta velocità necessità barriere fonoassorbenti. Illegittimità variante per interventi di mitigazione acustica su ricettori isolati.
La mitigazione del rumore con apposite barriere è una misura di prevenzione materiale degli effetti dell’inquinamento acustico che va applicata secondo scelte tecniche da operare non in ragione del solo costo economico ma anche, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, degli effetti e della incidenza sugli interessi potenzialmente lesi da quell’inquinamento.
Una barriera di mitigazione materiale del rumore da alta velocità ferroviaria applicata al ricettore anziché alla sorgente appare irragionevole e sproporzionata. Essa infatti appare muovere dalla considerazione del fenomeno dell’inquinamento acustico come danno da circoscrivere a un puntuale immobile che ne sia destinatario nella sua oggettiva materialità e nel suo uso dal solo interno, quasi si tratti di un bilaterale rapporto di scontato danno a cose anziché di prevenzione di un effetto diffuso nell’ambiente circostante.
Invece si tratta di contenere l’emissione, piuttosto che prevenire l’immissione, di danni e disagi diffusi, da propagazione in incertam personam, che compromettono beni primari come la salute umana e la qualità della vita (quiete) e la stessa consistenza materiale delle cose altrui.

Nel merito, gli appelli sono infondati in quanto non può condividersi l’interpretazione, prospettata dagli appellanti RFI-Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e Consorzio Alta Velocità Torino-Milano, dell’art. 4 (Infrastrutture di nuova realizzazione con velocità di progetto superiore a 200 km/h) del d.P.R. 18.11.1998, n. 459 (Regolamento recante norme di esecuzione dell'articolo 11 della legge 26.10.1995, n. 447, in materia di inquinamento acustico derivante da traffico ferroviario), secondo cui valutazioni di opportunità, basate anche solo su mere ragioni di convenienza economica, potrebbero giustificare l’imposizione di soluzioni di mitigazione acustica sul ricettore anziché sulla sorgente del rumore.
Invero, la mitigazione del rumore con apposite barriere è una misura di prevenzione materiale degli effetti dell’inquinamento acustico che va applicata secondo scelte tecniche da operare non in ragione del solo costo economico ma anche, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, degli effetti e della incidenza sugli interessi potenzialmente lesi da quell’inquinamento.
In questo quadro, una barriera di mitigazione materiale del rumore da alta velocità ferroviaria applicata al ricettore anziché –come qui domandato- alla sorgente appare irragionevole e sproporzionata. Essa infatti appare muovere dalla considerazione del fenomeno dell’inquinamento acustico come danno da circoscrivere a un puntuale immobile che ne sia destinatario nella sua oggettiva materialità e nel suo uso dal solo interno, quasi si tratti di un bilaterale rapporto di scontato danno a cose anziché di prevenzione di un effetto diffuso nell’ambiente circostante. Invece si tratta di contenere l’emissione, piuttosto che prevenire l’immissione, di danni e disagi diffusi, da propagazione in incertam personam, che compromettono beni primari come la salute umana e la qualità della vita (quiete) e la stessa consistenza materiale delle cose altrui. Dunque va considerato che, ai fini dell’abbattimento del rumore ferroviario mediante schermi fonoassorbenti o altri mezzi passivi di contenimento, l’immobile andava seriamente preso in considerazione come un ambiente di vita, con tanto di spazio circostante, dal quale si va e si viene, ed eventualmente (come è qui stato rappresentato) anche di una fonte di reddito d’impresa.
Del resto, lo stesso art. 2, comma 1, della legge 26.10.1995, n. 447 (Legge quadro sull'inquinamento acustico) definisce (lett. a)) “inquinamento acustico” tra l’altro “l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno”; e (lett. e)) per “ricettore” non solo l’edificio ma anche “le relative aree esterne di pertinenza” ed altre aree all’aperto. E l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 459 del 1998 enuncia con evidenza il principio di una preferenza per le opere di mitigazione sulla sorgente che non può, anche ai fini di un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 3 e 32 Cost.), non essere considerato come tendenzialmente generale.
Perciò, nei termini in cui è materialmente possibile, la mitigazione materiale va senz’altro applicata “a monte”, vale a dire nella maggior prossimità possibile alla sorgente del rumore, in quanto posizione che massimizza l’effetto schermante. A fronte di tali considerazioni circa i beni sostanziali toccati, non appaiono ragionevoli valutazioni restrittive, che possono apparire surrettiziamente tese a mantenere integra, in loro danno, l’esternalizzazione del costo dell’inquinamento.
Il quadro normativo di riferimento imponeva dunque, nel caso di specie, all’Amministrazione di seguire, come bene ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale, una linea di priorità volta a privilegiare, sulla base delle tecnologie disponibili, la soluzione meno gravosa per la proprietà e la vita limitrofa.
Poiché tale priorità è stata disattesa senza alcuna plausibile motivazione, la scelta progettuale adottata risulta illegittima. La sentenza appellata merita, quindi, conferma (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità ordinanza demolizione al proprietario attuale anche se non responsabile dell’abuso.
Secondo la prevalente giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e che l'adozione dell’ordinanza, di carattere ripristinatorio, non richiede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.
Con il quinto mezzo l’istante sostiene che essa non potrebbe rispondere delle violazioni, né potrebbe subirne le conseguenti sanzioni, essendo estranea all’esecuzione dell’opera.
Al riguardo è sufficiente osservare che, secondo la prevalente giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e che l'adozione dell’ordinanza, di carattere ripristinatorio, non richiede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato (per tutte, TAR Lazio, Latina, n. 1026/2008, TAR Umbria, n. 477/2007, TAR Piemonte, I, 25.10.2006, n. 3836; TAR Campania, Salerno, II, 15.02.2006, n. 96; TAR Lazio, Roma, II, 02.05.2005, n. 3230; TAR Valle d'Aosta, 12.11.2003, n. 188) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.12.2013 n. 5567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Le norme in materia di partecipazione al procedimento non vanno applicate necessariamente e formalmente a qualunque ipotesi di azione amministrativa.
Così, ad esempio, attribuendosi valore decisivo al profilo funzionale della partecipazione procedimentale, si è ritenuto, talvolta, che non sussista l'obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento qualora non vi sia alcuna utilità all'azione amministrativa che scaturisca dalla comunicazione stessa; l'obbligo sarebbe sancito in funzione dell'arricchimento che deriva all'azione amministrativa, sul piano del merito e della legittimità, dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, e, qualora questo non sussista, tale comunicazione sarebbe superflua e quindi l'obbligo non sussiste.
Analogamente, si è ritenuto che l'omissione della comunicazione di inizio del procedimento comporti l'illegittimità dell'atto conclusivo soltanto nel caso in cui il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento stesso, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni che avrebbero avuto la ragionevole possibilità di avere un'incidenza causale nel provvedimento finale.
Nel caso in esame l'azione amministrativa è stata determinata dalla necessità di ripristinare tempestivamente la legittimità della stessa, violata attraverso l’abusiva realizzazione delle opere in questione.

È ormai orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa quello secondo cui le norme in materia di partecipazione al procedimento non vanno applicate necessariamente e formalmente a qualunque ipotesi di azione amministrativa.
Così, ad esempio, attribuendosi valore decisivo al profilo funzionale della partecipazione procedimentale, si è ritenuto, talvolta, che non sussista l'obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento qualora non vi sia alcuna utilità all'azione amministrativa che scaturisca dalla comunicazione stessa; l'obbligo sarebbe sancito in funzione dell'arricchimento che deriva all'azione amministrativa, sul piano del merito e della legittimità, dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, e, qualora questo non sussista, tale comunicazione sarebbe superflua e quindi l'obbligo non sussiste (TAR Lazio, Sez. III, 17.06.1998, n. 1405).
Analogamente, si è ritenuto che l'omissione della comunicazione di inizio del procedimento comporti l'illegittimità dell'atto conclusivo soltanto nel caso in cui il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento stesso, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni che avrebbero avuto la ragionevole possibilità di avere un'incidenza causale nel provvedimento finale.
Nel caso in esame l'azione amministrativa è stata determinata dalla necessità di ripristinare tempestivamente la legittimità della stessa, violata attraverso l’abusiva realizzazione delle opere in questione.

Anche il contesto di fatto in cui si è mossa l'Amministrazione presenta aspetti certi e incontestabili, in quanto connesso a opere già eseguite, senza quindi la necessità di acquisire l'apporto partecipativo del privato, il quale non ha introdotto elementi tali da evidenziare l’utilità della sua partecipazione al procedimento (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.12.2013 n. 5567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità ordinanza demolizione di una barriera metallica sopraelevata su preesistente
La mera sopraelevazione mediante saldatura sui monconi di una preesistente ed autorizzata recinzione con paletti in ferro, non è assoggettata al regime del permesso di costruire, poiché la trasformazione edilizia è già diretta conseguenza dell’opera preesistente autorizzata e il mero prolungamento in altezza della pregressa barriera metallica non aggiunge alcunché sotto il profilo urbanistico.
2.1. Fondato ed assorbente è il secondo motivo di gravame, con il quale si rubrica violazione e falsa applicazione degli artt. 31 e 37 del d.p.r. n. 380/2001 ed eccesso di potere per difetto di presupposto.
In particolare la deducente lamenta che per l’abuso contestatole, consistente nella sistemazione del fondo di sua proprietà mediante estirpazione di arbusti, livellamento del terreno con posa di pietrisco e completamento della recinzione preesistente regolarmente autorizzata, non era necessario il previo permesso di costruire, ragion per cui la sanzione demolitoria è illegittima, presidiando la demolizione la sola realizzazione di opere senza il prescritto permesso di costruire, atteso che quanto alla posa di pali in ferro sulla preesistente recinzione, tutt’al più poteva essere ritenuta necessaria la DIA, la cui mancanza comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria ma non di quella reale demolitoria.
La censura è fondata avuto riguardo alle concreta attività edilizia posta in essere dalla deducente.
Orbene, va debitamente considerato che la medesima già era titolare del permesso di costruire in sanatoria n. 2/2007, concernente la realizzazione di paletti in ferro ancorati alla muratura perimetrale. L’abuso contestato con l’ordinanza odiernamente al vaglio del Collegio si risolve, dunque, nel prolungamento di detti preesistenti paletti metallici mediante saldatura sui monconi di una propaggine degli stessi, fino a raggiungere un’altezza di mt. 1,30.
2.2. Non sfugge, peraltro al Collegio che di recente la Sezione è intervenuta in materia di titoli edilizi necessari per realizzare opere di recinzione, distinguendo il caso delle recinzioni precarie e facilmente amovibili, non infisse al suolo con opere di muratura e perciò inidonee ad immutare lo stato dei luoghi e a determinare trasformazione edilizia, da quello delle recinzioni consistenti, infisse al suolo con opere rilevanti e pertanto stabili e non amovibili, integranti nuova costruzione e come tali assoggettate al permesso di costruire.
Ha di recente precisato, infatti, che “Al fine di stabilire se una recinzione sia assoggettata o meno a permesso di costruire, occorre infatti accertarne la facile rimuovibilità, la natura precaria o meno e l’idoneità ad incidere o meno sull’assetto edilizio del territorio. E siffatti caratteri vanno sicuramente ascritti al manufatto realizzato dalla deducente, siccome stabilmente infisso al suolo ed idoneo ad alterare permanentemente l’assetto edilizio del territorio”, concludendo come in quel caso “I paletti in questione risultano invece pacificamente stabilmente infissi nel suolo, discendendone la necessità del previo ottenimento del titolo abilitativo” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 26.06.2013, n. 3328).
Pur tuttavia, nel caso in esame, malgrado si sia al cospetto della posa di una barriera metallica di 1,30 mt. di altezza, deve fondatamente affermarsi che non era necessario il permesso di costruire, in considerazione della circostanza che la ricorrente era già titolare del permesso di costruire in sanatoria n. 2/2007 che la legittimava a detenere una barriera metallica composta da paletti in ferro (presumibilmente infissi su cordolo di muratura).
La trasformazione edilizia era quindi già conseguenza di un titolo autorizzatorio, ancorché in sanatoria, ragion per cui l’abuso contestato alla deducente si risolve nel mero prolungamento, mediante saldatura sui monconi, della preautorizzata barriera metallica con paletti in ferro fino a raggiungere la complessiva altezza suindicata.
2.3. Ritiene al riguardo il Collegio che la mera sopraelevazione mediante saldatura sui monconi, di una preesistente ed autorizzata recinzione con paletti in ferro, non sia assoggettata al regime del permesso di costruire, poiché la trasformazione edilizia è già diretta conseguenza dell’opera preesistente autorizzata e il mero prolungamento in altezza della pregressa barriera metallica non aggiunge alcunché sotto il profilo urbanistico.
Ne consegue l’illegittimità della sanzione della demolizione ingiunta con l’ordinanza impugnata, in violazione degli artt. 31 e 37 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
L’annullamento dell’ordinanza di demolizione importa conseguentemente l’accoglimento anche del ricorso per motivi aggiunti, diretto contro i conseguenziali provvedimenti di acquisizione al patrimonio previo accertamento dell’inottemperanza alla demolizione (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.12.2013 n. 5616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Legittimità annullamento autorizzazione ex art. 151 D.Lgs. 490/1999, per 2 vasche idromassaggio all’interno di stabilimento balneare.
Quanto alla motivazione che deve assistere l’autorizzazione paesaggistica, la giurisprudenza ha ripetutamente osservato come, anche in caso di provvedimento positivo, l’Amministrazione sia tenuta ad esplicitare le ragioni della ritenuta effettiva compatibilità dell’intervento con gli specifici valori paesaggistici dei luoghi, e debba per questo fornire tutti gli elementi utili al riscontro dell’idoneità dell’istruttoria, dell’apprezzamento delle varie circostanze di fatto rilevanti nel singolo caso e della non manifesta irragionevolezza del giudizio formulato circa la prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria, di modo che l’insufficienza della motivazione, costituendo un vizio di legittimità dell’atto, ne giustifica per ciò solo l’annullamento da parte dell’Autorità statale investita della verifica in sede di controllo.
Se, poi, l’annullamento è fondato su più vizi dell’autorizzazione paesaggistica, il giudice chiamato a sindacare la legittimità del provvedimento dell’Autorità statale può limitarsi ad accertare la sussistenza del vizio di motivazione dell’atto annullato senza necessità di vagliare le altre irregolarità rilevate, alla luce del consolidato principio per cui, quando il provvedimento amministrativo sia sorretto da una pluralità di ragioni giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente la fondatezza anche di una sola di esse perché l’atto rimanga legittimo.

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E’ legittimo l’annullamento del Soprintendente dell'autorizzazione del Comune di Rimini ex art. 151 D.Lgs. n. 490/1999, per l'installazione di 2 vasche idromassaggio completamente interrate con pedana in legno all’interno di stabilimento balneare.
Rileva la Soprintendenza che l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’Amministrazione comunale era nella circostanza priva di indicazioni puntuali circa l’impatto dell’intervento edilizio sull’area vincolata e circa la tollerabilità di una simile trasformazione del territorio rispetto alla salvaguardia dell’integrità dei valori ambientali oggetto di tutela, e, pertanto, legittimamente ha annullato il provvedimento abilitativo sottoposto al suo controllo.

2.Il ricorso è infondato.
In linea di diritto va osservato che, quanto alla motivazione che deve assistere l’autorizzazione paesaggistica, la giurisprudenza ha ripetutamente osservato come, anche in caso di provvedimento positivo, l’Amministrazione sia tenuta ad esplicitare le ragioni della ritenuta effettiva compatibilità dell’intervento con gli specifici valori paesaggistici dei luoghi, e debba per questo fornire tutti gli elementi utili al riscontro dell’idoneità dell’istruttoria, dell’apprezzamento delle varie circostanze di fatto rilevanti nel singolo caso e della non manifesta irragionevolezza del giudizio formulato circa la prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria, di modo che l’insufficienza della motivazione, costituendo un vizio di legittimità dell’atto, ne giustifica per ciò solo l’annullamento da parte dell’Autorità statale investita della verifica in sede di controllo (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 22.03.2007 n. 1362).
Se, poi, l’annullamento è fondato su più vizi dell’autorizzazione paesaggistica, il giudice chiamato a sindacare la legittimità del provvedimento dell’Autorità statale può limitarsi ad accertare la sussistenza del vizio di motivazione dell’atto annullato senza necessità di vagliare le altre irregolarità rilevate, alla luce del consolidato principio per cui, quando il provvedimento amministrativo sia sorretto da una pluralità di ragioni giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente la fondatezza anche di una sola di esse perché l’atto rimanga legittimo (v. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 29.07.2008 n. 2195).
3. Nel caso concreto l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal comune ha ritenuto che l’intervento sia compatibile con il piano territoriale di coordinamento provinciale; che non è ancora in vigore uno specifico programma pianificatorio “piano dell’arenile”, a cui rimanda il PRG, che regolamenti la localizzazione e le caratteristiche di volumi analoghi al caso in esame nell’ambito territoriale di specie; che l’area sulla quale si interviene è situata nella fascia di arenile tradizionalmente riservata ai servizi, a ridosso della strada litoranea e quindi più arretrata rispetto alla linea di battigia; che l’intervento in oggetto si configura come installazione di strutture precarie, amovibili e temporanee; che la struttura presenta dimensioni e caratteristiche tali da non precludere ulteriormente la permeabilità visuale tra la spiaggia e l’abitato retrostante; che per l’installazione delle strutture di cui si tratta, non si prevede una impermeabilizzazione aggiuntiva dei suoli.
4. Orbene, venendo al caso di specie, la Soprintendenza, nel lamentare che l’intervento edilizio risulta incoerente con la percezione armonica del paesaggio, -tenuto conto che “la spiaggia per il suo rapporto fra l’interno e la battigia rappresenta un’area in cui le visuali prospettiche dall’entroterra verso il mare e da un punto all’altro della costa si sommano e si concentrano in modo tale da esprimere con grande intensità i valori paesaggistici dell’ambiente del mare“ e che gli interventi in parola “addensano l’aggregato della spiaggia, alterano in tal modo lo spazio circostante pertinente l’intero sistema della costa, ormai abbondantemente compresso anche dalle costruzioni degli anni passati”-, pone a fondamento delle proprie conclusioni critiche anche un inadeguato esercizio delle funzioni di pertinenza dell’Amministrazione comunale, cui sostanzialmente rimprovera di avere omesso di “…verificare la compatibilità dell’opera che si intende realizzare con la salvaguardia dei valori paesistici protetti dal vincolo …” giacché non è “…concesso in sede autorizzatoria di derogare all’accertamento di detti valori contenuto nel relativo provvedimento …”; appare, insomma, lampante che tra le censure mosse all’ente locale, allorché denuncia che il “…provvedimento … è viziato da eccesso di potere …”, l’Autorità statale abbia inteso riferirsi ad un difetto di motivazione, per non avere l’ente dato rigorosamente conto delle valutazioni operate e delle logiche seguite al fine di approdare alla scelta di ammissibilità di un intervento preordinato all’attuazione di valori diversi da quello tutelato in via primaria.
In sostanza, rileva la Soprintendenza, con argomentazione condivisa da questo TAR, che l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’Amministrazione comunale era nella circostanza priva di indicazioni puntuali circa l’impatto dell’intervento edilizio sull’area vincolata e circa la tollerabilità di una simile trasformazione del territorio rispetto alla salvaguardia dell’integrità dei valori ambientali oggetto di tutela, e, pertanto, legittimamente ha annullato il provvedimento abilitativo sottoposto al suo controllo.
Né, d’altra parte, persuade l’assunto secondo cui, a ben vedere, una più approfondita motivazione sul punto non sarebbe stata necessaria –a fronte della preesistenza di un piano particolareggiato che avrebbe già a suo tempo accertato la conformità degli interventi in loco rispetto al piano territoriale paesistico regionale e al piano territoriale di coordinamento provinciale–, in quanto, ad avviso del Collegio, in una pianificazione attuativa, sia paesistica che urbanistica, per quanto minuziosa, non sono certamente definite in concreto le dettagliate caratteristiche delle opere edilizie che si possono realizzare, essendo questo livello di specificazione proprio della successiva fase di progettazione delle opere stesse e non potendo la compatibilità ambientale ovviamente prescindere da ciò che in realtà dovrà essere edificato.
5. Quanto alla dedotta violazione dell’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento innanzi alla Soprintendenza, si deve osservare che costituisce un orientamento consolidato di questo Tribunale quello della non necessità di un formale avviso di avvio del procedimento quando l'interessato abbia avuto conoscenza del procedimento aliunde.
Ciò sia con riferimento alla legge n. 241 del1990 che disciplina la generalità dei procedimenti amministrativi, sia con riferimento allo speciale procedimento oggetto di causa (vedi tra le tante Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 22.02.2010, n. 1013; Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 10.12.2009, n. 7756; Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 09.02.2007, n. 533; TAR Campania–Napoli, sez. II, 08.01.2010, n. 19; TAR per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 344 del 10/03/2004, TAR per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 148 del 26/02/2013).
5.1.Nel caso concreto il provvedimento di autorizzazione comunale specifica che il Ministero dei beni Culturali può annullarlo nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione, il che dà notizia del fatto che l’amministrazione avrebbe trasmesso copia del provvedimento stesso al Ministero.
In tale contesto i ricorrenti conoscevano la pendenza del procedimento davanti alla Soprintendenza; pertanto le esigenze partecipative cui è preordinato l’articolo 7 della legge 241 del '90 citata sono state, nel caso concreto, soddisfatte.
5.2. Va, inoltre, osservato che, a fronte di un vizio –carenza di motivazione in sede di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica– che per le sue caratteristiche si sottrae ad apporti del privato suscettibili di colmare la lacuna, in alcun modo la partecipazione della ricorrente avrebbe potuto nella fattispecie dare luogo ad un differente esito dell’attività di riscontro della Soprintendenza per i Beni architettonici e per il Paesaggio di Ravenna, sicché è legittimo invocare il disposto di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (cfr. TAR per l’Emilia Romagna, Bologna, sez. I, n. 13 del 10/01/2013) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 05.12.2013 n. 790 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diversità ontologica tra contributi per spese di urbanizzazione e contributi dovuti per monetizzazione di aree standard.
Fra i contributi per spese di urbanizzazione e i contributi dovuti per monetizzazione di aree standard vi è una diversità ontologica.
Infatti, i contributi della prima specie sono dovuti per realizzare dette opere senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l'area interessata all'imminente trasformazione edilizia, e quindi, per così dire, a titolo di contributo per i costi generali del Comune; i contributi della seconda specie per contro riguardano aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all'interno della specifica zona di intervento, ovvero i costi specifici inerenti all’intervento stesso.
In tale ordine di idee, quindi, non vi è giustificazione alcuna a scomputare dai primi l’importo dei secondi, trattandosi di distinti e ugualmente necessari costi che l’amministrazione deve sopportare per la sostenibilità dell’intervento.

2. Infondato è anzitutto il primo motivo di ricorso, col quale la società ricorrente sostiene, in buona sostanza, di aver titolo per scomputare da quanto dovuto a titolo di contributo spese di urbanizzazione quanto versato a titolo di monetizzazione di standard. In sintesi estrema, il ragionamento che sta alla base della relativa domanda di restituzione del corrispondente importo è il seguente: chi realizza opere di urbanizzazione a propria cura e spese non paga in danaro il contributo per spese di urbanizzazione, perché trasferendo le opere al Comune lo paga in natura per il valore corrispondente. La società ricorrente, in luogo di realizzare opere di urbanizzazione, le ha monetizzate, quindi si è impegnata a pagare il valore corrispondente; ha quindi titolo ad uno sconto di pari importo sul contributo spese di urbanizzazione.
3. Tale ordine di idee, apparentemente convincente, peraltro sta e cade con una premessa non esplicitata, ovvero la natura omogenea delle opere di urbanizzazione e delle aree standard. Solo se si trattasse di entità omogenee, infatti, si potrebbe sostenere la possibilità che il valore di entrambe, corrisposto che sia in natura o in danaro, vada a scomputo del contributo del relativo contributo spese di urbanizzazione.
4. Secondo la giurisprudenza, peraltro, la premessa descritta non è corretta. Fra i contributi per spese di urbanizzazione e i contributi dovuti per monetizzazione di aree standard vi è infatti una “diversità ontologica”, nei termini ribaditi da ultimo da C.d.S. sez. IV 08.01.2013 n. 32, da cui si cita e che ribadisce un orientamento formatosi, quanto alle sentenze edite, a partire da C.d.S. sez. IV 16.02.2011 n. 1013.
5. Infatti, i contributi della prima specie sono dovuti per realizzare dette opere “senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l'area interessata all'imminente trasformazione edilizia”, e quindi, per così dire, a titolo di contributo per i costi generali del Comune; i contributi della seconda specie per contro riguardano “aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all'interno della specifica zona di intervento”, ovvero i costi specifici inerenti all’intervento stesso. In tale ordine di idee, quindi, non vi è giustificazione alcuna a scomputare dai primi l’importo dei secondi, trattandosi di distinti e ugualmente necessari costi che l’amministrazione deve sopportare per la sostenibilità dell’intervento (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.11.2013 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione con ampliamento di un edificio, la quale come nella specie porti a realizzare un edificio più ampio e funzionale, va assoggettata a contributo come se si trattasse di opera nuova, dato che il carico urbanistico del nuovo manufatto va valutato tenendo conto della sua consistenza complessiva, e non è a priori riducibile alla somma del carico urbanistico dell’organismo preesistente e di quello corrispondente alla nuova superficie.
Infondato è anche il secondo motivo, per cui, a dire della ricorrente, i contributi versati al Comune si sarebbero dovuti commisurare non già, come fatto, alla superficie dell’intero edificio così come risultante dall’intervento, ma al solo ampliamento realizzato rispetto al fabbricato preesistente.
In proposito, vale il principio che si desume da C.d.S. sez. V 16.06.2009 n. 3847, nel senso che la ricostruzione con ampliamento di un edificio, la quale come nella specie porti a realizzare un edificio più ampio e funzionale, va assoggettata a contributo come se si trattasse di opera nuova, dato che il carico urbanistico del nuovo manufatto va valutato tenendo conto della sua consistenza complessiva, e non è a priori riducibile alla somma del carico urbanistico dell’organismo preesistente e di quello corrispondente alla nuova superficie (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.11.2013 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Disapplicazione regolamento comunale in contrasto con D.M. n. 1444/1968.
Non può costituire esenzione dall’obbligo del rispetto della distanza dei dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, la normativa di tipo derogatorio recata dalle NTA del Comune.
Dovendosi qui ancora una volta sottolineare come, stante il carattere tassativo e inderogabile del limite di distanza in controversia, non è ammessa deroga alla disposizioni recate dal D.M. n. 1444/68 e, conseguentemente ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite va disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale della fonte normativa sovraordinata costituita appunto dall’art. 9 del D.M. citato.

Passando alle doglianze relative al merito della controversia all’esame, le critiche rivolte alle osservazioni e statuizioni rese dal primo giudice non colgono nel segno.
Nella specie è accaduto che il permesso in contestazione consente la realizzazione di un manufatto lungo il confine della proprietà. Cosi, in aderenza con il box costruito a pianterreno e soprattutto, (circostanza, questa , decisiva) detto manufatto è in sopraelevazione nel senso che supera in altezza il piano di copertura così come ne supera la dimensione in lunghezza., fronteggiando il fabbricato dell’appellata ad una distanza inferiore a metri dieci, dandosi qui atto che tale ultimo dato non risulta essere stato smentito nella sua esistenza fisiologica.
Rimane altresì il fatto che la parete del fabbricato di proprietà Cosi ( quello posto a ridosso del box e che si eleva per due piani fuori terra ), nei confronti della quale si erge la parete del manufatto in ampliamento dell’Albergo Victoria, è contrassegnata ( come evidenziato nella documentazione agli atti) dalla presenza di finestre, di guisa che viene a concretizzarsi la violazione della disposizione di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968 n. 1444 che fissa inderogabilmente la distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
La prescrizione in questione, avuto riguardo alle finalità di salvaguardia di esigenze igienico sanitarie dalla stessa perseguite è tassativa ed inderogabile (ex plurimis Cons. Stato Sez. IV 12.06.2007 n. 3094; idem 09.05.2011 n. 2749 e 27.10.2011 n. 5759) e nella specie le caratteristiche tipologiche degli immobili coinvolti impongono senz’altro l’applicazione del divieto di autorizzare una costruzione quale il manufatto in ampliamento dell’albergo de quo ad una distanza inferiore a quella stabilita dal citato art. 9, come in concreto, invece, avvenuto.
Parte appellante deduce a giustificazione della legittimità del posizionamento dell’erigendo manufatto, due circostanze, a suo avviso di carattere derogatorio, ebbene:
a) quanto alla circostanza per cui il box della controinteressata sarebbe stato realizzato sul confine e a meno di 5 metri di distanza, l’esimente può valere solo per una costruzione in parallelo al box che però sia omologa al medesimo in quanto ad altezza e lunghezza, ma non fa venir meno lo standard fissato dal D.M. n. 1444/1968 laddove come nel caso di specie il manufatto successivamente autorizzato sopravanza il piano di copertura del preesistente box, ponendosi a meno di 10 metri dalla parete finestrata del fabbricato posto di fronte.
b) il fatto che l’art. 9 non si applichi ad interventi di mera ristrutturazione, come si qualificherebbe l’intervento in ampliamento, ma solo a nuove costruzioni, neppure appare configurabile come causa giustificativa di esenzione dall’obbligo de quo, ove si rilevi che l’ampliamento autorizzato costituisce sicuramente “nuova costruzione”, esattamente coincidente con la tipologia edilizia sancita dalla norma de qua, non potendosi certo qualificare come modesto ampliamento o intervento di ristrutturazione o risanamento il manufatto da realizzarsi di fronte alla proprietà Cosi.
Infine non può costituire esenzione dall’ obbligo del rispetto della distanza dei dieci metri la normativa di tipo derogatorio recata dalle NTA del Comune di Gallipoli, dovendosi qui ancora una volta sottolineare come, stante il carattere tassativo e inderogabile del limite di distanza in controversia, non è ammessa deroga alla disposizioni recate dal D.M. n. 1444/1968 e, conseguentemente ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite va disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale della fonte normativa sovraordinata costituita appunto dall’art. 9 citato ( Cons. Stato, Sez. IV 12.02.2013 n. 844) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.11.2013 n. 5633 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposti per il rilascio del certificato di agibilità.
Ai sensi dell'art. 24, comma 1, T.U. dell’Edilizia 06.06.2001 n. 380, il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, ma tale accertamento fa proprio anche l'integrale conformità delle opere realizzate al progetto approvato come attestato dalla licenza di abitabilità.
Al tempo stesso l'accertamento della piena conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie ed alle prescrizioni del permesso di costruire, nonché alle disposizioni di convenzione urbanistica, costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità.

Il motivo di appello è infondato.
La tesi di parte appellante era di poter rioccupare l’immobile pur senza il prescritto certificato di agibilità, in virtù di autocertificazione semplificata redatta dal progettista; ciò sarebbe stato consentito dalla natura limitata degli interventi effettuati.
Il Collegio osserva che già con la prima ingiunzione del 2009, non impugnata, il Comune aveva vietato l’utilizzo dell’immobile fino al positivo rilascio del certificato di agibilità.
Con la successiva comunicazione del 12.02.2010, rispondendo ad e-mail della parte appellante, l’amministrazione si era limitata a confermare quanto già espresso con la precedente determinazione.
Pertanto, è immune da vizi di censura la sentenza appellata nella parte in cui ha concluso per la inammissibilità del ricorso originario, per mancata tempestiva impugnazione dell’atto presupposto realmente lesivo.
Soltanto quando l'antecedente determinazione della stessa amministrazione, non impugnata, viene successivamente sottoposta a riesame nell'ambito di una nuova attività istruttoria, seppure con esito sostanzialmente confermativo, non incorre nel termine decadenziale l'interessato che promuove ricorso nei riguardi della sol determinazione finale successiva e degli atti riesaminati, che ne hanno rappresentato il presupposto per l'adozione (in tal senso, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 07.02.2011, n. 813).
Nella specie, come detto, non si dava luogo ad alcuna attività istruttoria nuova.
La successiva comunicazione, poi impugnata, si limitava a richiamare la precedente ingiunzione del 24.09.2009, ma non riesaminava la possibilità di rioccupare l’edificio senza certificato di agibilità, e semplicemente si limitava a ribadire il divieto già impartito.
Senza acquisizione di nuovi elementi di fatto e senza alcuna valutazione –in sostanza senza alcuna nuova istruttoria- sono state tenute ferme le statuizioni in precedenza già adottate, in modo da non toccare la portata precettiva del provvedimento originario non impugnato.
Non vale il ragionamento di parte appellante, che sostiene che la comunicazione del febbraio 2010 avrebbe portata differente da quella del settembre 2009, in quanto riguarderebbe la situazione abusiva in essere in quel momento.
Infatti, l’ordinanza precedente ordina il ripristino dello stato legittimo, vietando la rioccupazione senza rilascio di un nuovo certificato di agibilità; la esigenza di munirsi del certificato di agibilità non può intendersi limitato alla sola fase anteriore al ripristino dell’abuso, in quanto la normativa generale pretende –senza distinzioni- la conformità dell’immobile alla normativa edilizia.
Ai sensi dell'art. 24, comma 1, t.u. 06.06.2001 n. 380 il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, ma tale accertamento fa proprio anche l'integrale conformità delle opere realizzate al progetto approvato come attestato dalla licenza di abitabilità.
Al tempo stesso l'accertamento della piena conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie ed alle prescrizioni del permesso di costruire, nonché alle disposizioni di convenzione urbanistica, costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità (tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 24.10.2012, n. 5450) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.11.2013 n. 5523 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Nozione di bosco ex art. 2, co. 6, D. Lgs. 18/05/2001, n. 227.
Alla luce della nozione generale sostanziale stabilita dall’art. 2, co. 6, del D. Lgs. 18/05/2001, n. 227, non ogni formazione di vegetazione arborea e/o arbustiva può condurre al riconoscimento di un’area boscata, ma solo quelle normativamente specificate ed enumerate come tali e solo tra esse quelle che hanno i requisiti di dimensioni previste dalla legge.
Con un primo motivo di appello, riproponendo il primo motivo di censura del ricorso originario, si deduce in sostanza che, sulla base della dizione normativa di cui all’art. 2 della legge 227 del 2001, che definisce come bosco i terreni con estensione non inferiore a metri quadrati 2000, larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, si desume che non ogni formazione vegetazionale arborea e/o arbustiva può ritenersi per forza area boscata, ma soltanto quelle formazioni normativamente specificate e elencate nella disposizione e solo quelle, tra esse, dalle caratteristiche dimensionali definite dalla norma, mentre il primo giudice ha considerato a tal fine solo le caratteristiche dimensionali; sostiene di avere dedotto come, per caratteristiche intrinseche delle vegetazioni, non poteva qualificarsi bosco l’area in questione, a prescindere dalle caratteristiche di dimensioni; può infatti essere considerato bosco solo la formazione vegetazionale (diversa da giardini e frutteti) costituente un ecosistema completo; la perizia giurata depositata in atti era idonea a comprovare che l’area in questione non conteneva alcuna delle vegetazioni previste dalla disciplina normativa (vegetazione forestale arborea o arbustiva, castagneto, sughereto, macchia mediterranea) né potevano considerarsi sufficienti i resti di un frutteto (escluso comunque dalla nozione di bosco) o i giardini privati.
In definitiva, sarebbe erronea la sentenza di prime cure laddove ha sostenuto la mancanza di prova circa la insussistenza del bosco e al fine si chiede disporsi, ove necessario, consulenza tecnica di ufficio o verificazione sulla inconsistenza arborea.
Il D.Lgs.227 del 18.05.2001 (Gazz. Uff., 15 giugno, n. 137) all’art. 2 definisce il bosco e l’arboricoltura da legno nel modo seguente: "1. Agli effetti del presente decreto legislativo e di ogni altra normativa in vigore nel territorio della Repubblica i termini bosco, foresta e selva sono equiparati.
2. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo le regioni stabiliscono per il territorio di loro competenza la definizione di bosco e:
a) i valori minimi di larghezza, estensione e copertura necessari affinché un'area sia considerata bosco;
b) le dimensioni delle radure e dei vuoti che interrompono la continuità del bosco;
c) le fattispecie che per la loro particolare natura non sono da considerarsi bosco.
3. Sono assimilati a bosco:
a) i fondi gravati dall'obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, qualità dell'aria, salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della biodiversità, protezione del paesaggio e dell'ambiente in generale;
b) le aree forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva a causa di utilizzazioni forestali, avversità biotiche o abiotiche, eventi accidentali, incendi;
c) le radure e tutte le altre superfici d'estensione inferiore a 2000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco non identificabili come pascoli, prati e pascoli arborati (1).
4. La definizione di cui ai commi 2 e 6 si applica ai fini dell'individuazione dei territori coperti da boschi di cui all'articolo 146, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490.
5. Per arboricoltura da legno si intende la coltivazione di alberi, in terreni non boscati, finalizzata esclusivamente alla produzione di legno e biomassa. La coltivazione è reversibile al termine del ciclo colturale
.".
Il comma 6 prevede che “nelle more dell'emanazione delle norme regionali di cui al comma 2 e ove non diversamente già definito dalle regioni stesse si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d'arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi comprese, le formazioni forestali di origine artificiale realizzate su terreni agricoli a seguito dell'adesione a misure agro ambientali promosse nell'ambito delle politiche di sviluppo rurale dell'Unione europea una volta scaduti i relativi vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini produttivi. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla base esterna dei fusti. È fatta salva la definizione bosco a sughera di cui alla legge 18 luglio 1956, n. 759. Sono altresì assimilati a bosco i fondi gravati dall'obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, qualità dell'aria, salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della biodiversità, protezione del paesaggio e dell'ambiente in generale, nonché le radure e tutte le altre superfici d'estensione inferiore a 2000 metri quadri che interrompono la continuità del bosco non identificabili come pascoli, prati o pascoli arborati o come tartufaie coltivate”.
Pertanto, secondo la tesi appellante, sono necessari sia un requisito di tipo qualitativo che un requisito a carattere dimensionale.
Il primo giudice avrebbe dichiarato erroneamente inammissibile il motivo sulla base della asserita mancanza di principio di prova; secondo la tesi appellante, al contrario, la perizia di parte, nel descrivere lo spazio antistante retrostante il fabbricato esistente come totalmente libero da piantumazioni di alcun tipo nonché la descrizione degli alberi presenti ai margini della stessa area di pertinenza come sparsi in piccoli gruppi (il tutto all’interno di una particella catastale della estensione di 75,5 are) e comprovando a mezzo del rilievo celerimetrico in perizia e la documentazione fotografica le “inconsistenze arboree”, ritiene di avere soddisfatto l’onere del principio di prova relativamente alla inconsistenza dimensionale e qualitativa rispetto alla categoria normativa di bosco.
In effetti, la definizione normativa alla quale deve rifarsi l’interprete prevede quale requisito necessario, ma non sufficiente, il dato dimensionale, la cui assenza, secondo il primo giudice, non è stata dimostrata.
In realtà, come deduce parte appellante, il dato normativo, valevole in mancanza di normativa regionale (in tal senso questa sezione, 06.08.2012, n.4502), prevede anche una componente naturalistica qualitativa costituita da: vegetazione forestale, castagneti, sugherete, macchia mediterranea. Nella specie, dalla perizia depositata in atti, si evince che l’area in questione non comprende alcuna delle formazioni di vegetazione sopra elencate.
Pertanto, non ogni formazione di vegetazione arborea e/o arbustiva può condurre al riconoscimento di un’area boscata, ma solo quelle normativamente specificate ed enumerate come tali e solo tra esse quelle che hanno i requisiti di dimensioni previste dalla legge e tenute in considerazione dal primo giudice.
I rilievi fotografici e la perizia hanno dimostrato: la totale assenza di formazioni vegetazionali riconducibili alla nozione di bosco; lo spazio antistante e retrostante il fabbricato esistente è totalmente libero da piantumazioni di alcun tipo e gli alberi presenti ai margini della stessa area di pertinenza, sparsi in piccoli gruppi, rappresentano i resti di un frutteto, allo stato incolto, privo ontologicamente di caratteristiche forestali.
Pertanto, è fondato il primo motivo di appello e deve ritenersi la assenza, in relazione all’area di proprietà di parte appellante, dei requisiti qualitativi per sostenere la presenza di un bosco ai fini di legge, con conseguente illegittimità della destinazione impressa di “Area boscata” e le consequenziali previsioni di minore edificabilità (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2013 n. 5452 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I beni costituenti bellezze naturali possono formare oggetto di distinte forme di tutela ambientale, anche in via cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è perfettamente compatibile con quella urbanistica o ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione, preordinate a curare, con diversi strumenti, distinti interessi pubblici, e che il Comune conserva la titolarità, nella sua attività pianificatoria generale, della competenza ad introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al soddisfacimento di interessi paesaggistici.
Il rapporto fra piano regolatore generale o sue varianti da un lato, e vincoli e destinazioni di zone a vocazione storica, ambientale e paesistica, dall'altro, fa sì che i beni costituenti bellezze naturali possono formare oggetto di distinte forme di tutela ambientale, anche in via cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è perfettamente compatibile con quella urbanistica o ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione, preordinate a curare, con diversi strumenti distinti interessi pubblici, e che il Comune conserva la titolarità, nella sua attività pianificatoria generale, della competenza a introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al soddisfacimento di interessi paesaggistici.
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L’Amministrazione ha inteso tutelare il territorio, noto per suo pregio ambientale, storico ed artistico attraverso restrizioni edificatorie della zona agricola, la cui funzione non è solo quella di valorizzare l'attività agricola vera a propria, ma altresì quella di garantire ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell'espansione dell'aggregato urbano.
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In sede di adozione del p.r.g., il Comune può legittimamente introdurre vincoli o limitazioni di carattere ambientale; l’art. 1 l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto del p.r.g. anche all'indicazione dei "vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico", legittima l'autorità comunale titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni.
Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un p.r.g.; il p.r.g., nell'indicare i limiti da osservare per l'edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli disposti dalle commissioni competenti nel perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse storico, artistico o ambientale; la distinzione tra le forme di tutela previste dalla legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte alla valorizzazione di complessi edilizi di interesse culturale, storico ed ambientale non risiede nel dato quantitativo relativo all'ambito, puntuale o meno, degli oggetti interessati dalle determinazioni limitative, quanto nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che permea le rispettive statuizioni amministrative; il p.r.g. può recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali "zone", quante volte la scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell'immobile "ex se" considerato ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il singolo immobile assume nel contesto dell'assetto territoriale.
In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione rispetto alla sfera di azione della legislazione statale di settore, in quanto il pregio del bene, pur se non sufficiente al fine di giustificare l'adozione di un provvedimento impositivo di vincolo culturale o paesaggistico in base alla considerazione atomistica delle caratteristiche del bene, viene valutato come elemento di particolare valore urbanistico e può quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di scelta pianificatoria.
L'art. 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto del piano regolatore generale anche all'indicazione dei vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesisticoo, legittima l'Autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle Amministrazioni competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni; ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un piano regolatore generale.

Il motivo è infondato.
I beni costituenti bellezze naturali possono formare oggetto di distinte forme di tutela ambientale, anche in via cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è perfettamente compatibile con quella urbanistica o ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione, preordinate a curare, con diversi strumenti, distinti interessi pubblici, e che il Comune conserva la titolarità, nella sua attività pianificatoria generale, della competenza ad introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al soddisfacimento di interessi paesaggistici (Consiglio Stato sez. IV, 13.10.2010, n. 7478).
Il rapporto fra piano regolatore generale o sue varianti da un lato, e vincoli e destinazioni di zone a vocazione storica, ambientale e paesistica, dall'altro, fa sì che i beni costituenti bellezze naturali possono formare oggetto di distinte forme di tutela ambientale, anche in via cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è perfettamente compatibile con quella urbanistica o ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione, preordinate a curare, con diversi strumenti distinti interessi pubblici, e che il Comune conserva la titolarità, nella sua attività pianificatoria generale, della competenza a introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al soddisfacimento di interessi paesaggistici.
Nella specie, le delibere comunali non hanno determinato il blocco dell'attività edilizia, poiché hanno mantenuto la possibilità di edificare, sia pure nei contenutissimi limiti previsti all'origine, facendo un equilibrato uso dei propri poteri pianificatori, costituendo affermato principio in giurisprudenza quello secondo cui l'Amministrazione può utilizzare lo strumento della variante per risolvere specifici problemi di disciplina urbanistica, anche solo con scopo di tutela del territorio.
L’Amministrazione ha inteso tutelare il territorio, noto per suo pregio ambientale, storico ed artistico attraverso restrizioni edificatorie della zona agricola, la cui funzione non è solo quella di valorizzare l'attività agricola vera a propria, ma altresì quella di garantire ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell'espansione dell'aggregato urbano (così in tal senso Cons. Stato, IV Sez., n. 4818 del 2005).
Di recente questo Consesso (Consiglio di Stato sez. V, 24.04.2013, n. 2265) ha avuto modo di affermare che in sede di adozione del p.r.g., il Comune può legittimamente introdurre vincoli o limitazioni di carattere ambientale; l’art. 1 l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto del p.r.g. anche all'indicazione dei "vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico", legittima l'autorità comunale titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni.
Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un p.r.g.; il p.r.g., nell'indicare i limiti da osservare per l'edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli disposti dalle commissioni competenti nel perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse storico, artistico o ambientale; la distinzione tra le forme di tutela previste dalla legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte alla valorizzazione di complessi edilizi di interesse culturale, storico ed ambientale non risiede nel dato quantitativo relativo all'ambito, puntuale o meno, degli oggetti interessati dalle determinazioni limitative, quanto nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che permea le rispettive statuizioni amministrative; il p.r.g. può recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali "zone", quante volte la scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell'immobile "ex se" considerato ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il singolo immobile assume nel contesto dell'assetto territoriale.
In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione rispetto alla sfera di azione della legislazione statale di settore, in quanto il pregio del bene, pur se non sufficiente al fine di giustificare l'adozione di un provvedimento impositivo di vincolo culturale o paesaggistico in base alla considerazione atomistica delle caratteristiche del bene, viene valutato come elemento di particolare valore urbanistico e può quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di scelta pianificatoria (Consiglio di Stato sez. V, 24.04.2013, n. 2265).
L'art. 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto del piano regolatore generale anche all'indicazione dei vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesisticoo, legittima l'Autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle Amministrazioni competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni; ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un piano regolatore generale
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2013 n. 5452 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Delocalizzazione di impianto ripetitore per telefonia cellulare.
Deve considerarsi legittima la previsione di spostamento di un impianto per telefonia cellulare inserita nel piano di localizzazione delle stazioni radio base di un comune, integrando essa una prescrizione non generalizzata attinente all'urbanistica ed alla pianificazione del territorio che ha natura consentita dalla legge quadro n. 36/2001.
L'autorizzazione di cui all'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 è necessaria, perché espressamente prevista anche per “la modifica delle caratteristiche di emissione" e l’intervento eseguito nella fattispecie, per le sue connotazioni innovative concrete, non può considerarsi di mera manutenzione dell’esistente ma (essendo anche assimilato in via normativa ad un incremento dell’urbanizzazione primaria) non può ritenersi sottratto ad una doverosa valutazione pure sotto il profilo urbanistico.
Il silenzio-assenso di cui al comma 9 dell’art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 non può ritenersi formato in mancanza di conformità dell'opera realizzata alle prescrizioni contenute nell’anzidetto piano di localizzazione
(massima tratta da e link a www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2013 n. 39415).

EDILIZIA PRIVATA: Chiusura portico.
La chiusura del portico e la sua nuova utilizzazione come vano residenziale determinano indiscutibilmente un aumento di volumetria non riconducibile alla categoria della ristrutturazione edilizia, nozione che presuppone comunque la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra vecchio e nuovo edificio.
Per quanto riguarda la chiusura del portico al piano seminterrato, non è fondata la pretesa dei ricorrenti volta all’applicazione in via di analogia della deroga prevista dall’art. 33 comma 5 legge regionale sopra citata, che, ai fini della sanatoria, esonera dai limiti dimensionali gli “interventi di chiusura di logge o balconi”.
E’ evidente, infatti che, essendo contenuta in una norma eccezionale, e quindi di stretta interpretazione, la deroga non può estendersi oltre ai limiti specificati, e, in particolare, non può essere applicata per la sanatoria della chiusura del portico, manufatto diverso, sia strutturalmente, sia funzionalmente, da quelli esplicitamente contemplati (logge e balconi).
Come ha puntualmente rilevato il Tribunale amministrativo, inoltre, la chiusura del portico e la sua nuova utilizzazione come vano residenziale hanno determinato indiscutibilmente un aumento di volumetria non riconducibile alla categoria della ristrutturazione edilizia, nozione che presuppone comunque la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra vecchio e nuovo edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.06.2010 n. 3744) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.08.2013 n. 4089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo una consolidata giurisprudenza occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.

Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
Risulta infondata la censura incentrata sulla natura pertinenziale delle opere abusive in questione. Infatti secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, Sez. II, 04.02.2005, n. 1036) occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Nel caso di specie, la ricorrente vive in un edificio sito in una via diversa da quella del parcheggio a raso (via Michelangelo n. 33) e cioè a centinaia di metri di distanza dall’abitazione. È evidente che il concetto di pertinenza non può essere inteso in senso così ampio (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.05.2013 n. 2655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia e permesso a costruire.
La realizzazione di una tettoia è soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide sull’assetto edilizio preesistente.
In secondo luogo, come correttamente eccepito dall’Amministrazione resistente, la ricorrente ha realizzato un’opera diversa da quella oggetto di dia (una tettoia con struttura fissa, anziché amovibile, ancorata al suolo in acciaio e plastica di circa 37 mq. e di mt. 2,65 di altezza); e come ai sensi dell’art. 2 del R.E. del Comune le tettoie e pensiline debbano essere a servizio delle residenze, requisito che manca nel caso di specie.
Né si deve dimenticare che, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 19.12.2005, n. 20427; 29.07.2005, n. 10479; 02.12.2004, n. 18027), la realizzazione di una tettoia è soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide sull’assetto edilizio preesistente. Tale principio è certamente applicabile ad una tettoia di rilevanti dimensioni, come quella realizzata nel caso di specie (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.05.2013 n. 2655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di pertinenza urbanistica.
La pertinenza urbanistica ha caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice civile: si fonda su dati desumibili anche dalla normativa catastale; comporta l'impossibilità di destinazioni ed utilizzazioni autonome; si sostanzia nei requisiti della destinazione strumentale alle esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore economico rispetto alla cosa principale e dall'assenza del cosiddetto carico urbanistico.
In definitiva, la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio del bene principale. In tal caso l'impatto volumetrico proprio, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio è assoggettabile a permesso di costruire con conseguente applicabilità del regime demolitorio in caso di abusività.

Né hanno pregio le residue censure con cui parte ricorrente rivendica la natura meramente pertinenziale del manufatto in contestazione.
Dirimenti in senso ostativo alla pretesa attorea si rivelano, infatti, la consistenza dell’opera e l’assenza di un vincolo di strumentalità funzionale ad altra res, che nella specie non è apprezzabile in modo oggettivo, ma resta affidato –in modo del tutto inappagante– alle sole dichiarazioni di parte (secondo cui i volumi in questione sarebbero destinati ad ospitare sia la caldaia che i contatori idrici).
La cd. pertinenza urbanistica ha, infatti, caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice civile: si fonda su dati desumibili anche dalla normativa catastale; comporta l'impossibilità di destinazioni ed utilizzazioni autonome; si sostanzia nei requisiti della destinazione strumentale alle esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore economico rispetto alla cosa principale e dall'assenza del cosiddetto carico urbanistico (cfr. Cass. Sez. III, sent. n. 4056 del 21.03.1997; Cfr. Cass. Sez. III, sent. n. 1970 del 27.02.1985; Cass. Sez. III, sent. n. 702 del 19.01.1990; Sez. III, sent. n. 1731 del 09.02.1990; Sez. III, ord. n. 1108 del 13.07.1992; Sez. III, sent. n. 8353 del 23.07.1994; Sez. III, sent. n. 5652 del 12.05.1994; Sez. III, sent. n. 10709 del 25.11.1997; Sez. III, sent. n. 4134 del 03.04.1998), profili qui non riscontrabili.
In definitiva, la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio del bene principale. In tal caso l'impatto volumetrico proprio, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio è assoggettabile a permesso di costruire con conseguente applicabilità del regime demolitorio in caso di abusività (ancora, TAR Campania Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.05.2013 n. 2638 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale, non vale a surrogare il titolo abilitativo edilizio.
E’ legittima la demolizione d’ufficio di un chiosco abusivo per la vendita di alimenti e bevande, fornito di autorizzazioni alla vendita. La pluralità dei titoli amministrativi ottenuti dagli odierni e dai precedenti soggetti gestori del chiosco (autorizzazione alla occupazione di suolo pubblico, autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale, autorizzazione rilasciata a sanatoria di alcune irregolarità igienico-sanitarie) non vale a surrogare il titolo abilitativo edilizio.
Risulta irrilevante la circostanza che l’originario gestore del chiosco fosse iscritto ante 1967 tra gli esercenti il commercio ambulante nel Comune di Venezia. L’allegazione non prova, neppure in via mediata ed indiretta, che l’assetto e le dimensioni del manufatto fossero illo tempore conformi a quelle attuali.

L’appello è infondato e va respinto.
L’appellante torna a prospettare in questo grado le censure, già disattese dal giudice di prime cure, che si rilevano non condivisibili sul piano giuridico per le seguenti brevi considerazioni.
La pluralità dei titoli amministrativi ottenuti dalla appellante e dai precedenti soggetti gestori del chiosco destinato alla vendita di cibi e bevande (autorizzazione alla occupazione di suolo pubblico, autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale, autorizzazione rilasciata a sanatoria di alcune irregolarità igienico-sanitarie) non vale a surrogare l’unico titolo abilitativo (quello edilizio), il cui rilascio avrebbe potuto consentire all’appellante, nel concorso delle altre condizioni, di contrastare efficacemente la pretesa della amministrazione comunale alla rimozione delle opere edilizie abusive realizzate in un’area così qualificata del centro storico comunale.
Le dedotte circostante dimostrano caso mai che l’amministrazione avrebbe potuto o dovuto agire già da tempo per ristabilire l’ordine giuridico violato, senza tuttavia che tale ritardo possa comportare conseguenze di sorta (e tampoco estintive) sull’illecito edilizio, che è di natura permanente e legittima pertanto senza limiti di tempo l’intervento sanzionatorio dell’autorità.
L’appellante non può di certo dolersi del decorso del tempo successivo alla commissione dell’illecito, in quanto ne ha tratto addirittura un indebito vantaggio.
Del pari risulta irrilevante la circostanza che l’originario gestore del chiosco fosse iscritto ante 1967 tra gli esercenti il commercio ambulante nel Comune di Venezia. L’allegazione non prova, neppure in via mediata ed indiretta, che l’assetto e le dimensioni del manufatto fossero illo tempore conformi a quelle attualmente nella disponibilità dell’appellante, ma anzi avvalora la tesi del Comune di Venezia secondo cui l’originaria struttura, di più modeste dimensioni rispetto a quella attuale, avesse natura precaria e che la sua trasformazione in un chiosco saldamente infisso al terreno di proprietà comunale sia avvenuta sine titulo e giustifichi pertanto la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, disposta, ai sensi dell’art. 35 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a mezzo dei provvedimenti in primo grado impugnati.
Ad ulteriore conferma del quadro fattuale che denota la sussistenza dei presupposti legittimanti l’esercizio del potere sanzionatorio comunale, vale richiamare il diniego di concessione in sanatoria adottato dal Comune di Venezia nel 1982 sulla istanza prodotta da un precedente titolare del chiosco (tal sig. Miani) e della persistenza attuale delle ragioni ostative alla realizzazione di un chiosco del tipo di quello in titolarità della società appellante, proprio a motivo della incompatibilità delle opere realizzate con quanto consentito dall’art. 19 delle norme tecniche di attuazione della variante al PRG comunale per la città antica (che ammette solo opere amovibili realizzate con materiali della tradizione locale).
Pienamente condivisibili, infine, risultano le considerazioni del giudice di primo grado, oggetto di specifica censura in questo giudizio, riguardo al carattere vincolato del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi, della carenza di un affidamento da tutelare nonostante il tempo trascorso, tenuto conto del carattere abusivo del manufatto e della natura permanente dell’illecito edilizio e della adeguata istruttoria e motivazione dei provvedimenti adottati dalla amministrazione comunale a salvaguardia dell’ordinato assetto urbanistico-edilizio della città lagunare (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.05.2013 n. 2721 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione da agricolo ad agrituristica.
La Corte Costituzionale ha affermato che i limiti alla utilizzabilità per fini agrituristici dei fabbricati rurali sono posti dalla legge per regolare in modo razionale l’inserimento nei territori agricoli di attività connesse, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, destinate alla ricezione ed all’ospitalità, mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata (art. 2135 Cod. civ.).
La ratio del principio fondamentale posto dalla legge statale e recepito dalla legge regionale «è quella di promuovere l’attività agrituristica, senza tuttavia consentire edificazioni nuove ed estranee allo svolgimento delle attività agricole in senso stretto, allo scopo di garantire il mantenimento della natura peculiare del territorio e preservarlo così dalla proliferazione di fabbricati sorti in vista soltanto dell’esercizio di attività ricettive in immobili non facenti parte, ab origine, dell’azienda agricola».
Si vuole in sostanza prevenire, si sottolinea nella sentenza costituzionale, «il sorgere ed il moltiplicarsi di attività puramente turistiche, che finiscano con il prevalere su quelle agricole, in violazione della norma codicistica prima citata e con l’effetto pratico di uno snaturamento del territorio, usufruendo peraltro delle agevolazioni fiscali previste per le vere e proprie attività ricettive connesse al prevalente esercizio dell’impresa agricola».

Con un terzo motivo si assume che, anche qualora si volesse ritenere esistente una nuova costruzione, la disposizione regionale, sopra riportata, sarebbe contraria:
a) all’art. 3 Cost., perché l’esclusione dal campo di applicazione della norma degli edifici di nuova costruzione sarebbe priva di adeguata giustificazione e imporrebbe una non semplice distinzione tra interventi di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione;
a.1.) all’art. 3 Cost., in quanto creerebbe una ingiustificata «discriminazione tra i soggetti non proprietari di un edificio da recuperare e coloro che, invece, di tali fabbricati sono titolari, consentendo solo a questi ultimi di esercitare l’attività di agriturismo»;
b) all’art. 41 Cost., comportando una illegittima compromissione della libertà di iniziativa economica;
c) all’art. 42 Cost., in quanto, prevedendo una ingiustificata limitazione del diritto di proprietà, «si limiterebbero gli intereventi di trasformazione dei fondi agricoli, senza tener conto delle concrete caratteristiche degli stessi e, quindi, delle diversità che possono presentarsi nella realtà».
Il motivo non è fondato.
La Corte costituzionale, con sentenza 18.04.2012, n. 96, ha già avuto modo di esaminare la questione posta con l’atto di appello.
Con riferimento all’art. 3 della Costituzione, la Corte ha affermato che i limiti alla utilizzabilità per fini agrituristici dei fabbricati rurali sono posti dalla legge per regolare in modo razionale l’inserimento nei territori agricoli di attività connesse, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, destinate alla ricezione ed all’ospitalità, mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata (art. 2135 Cod. civ.).
La ratio del principio fondamentale posto dalla legge statale e recepito dalla legge regionale «è quella di promuovere l’attività agrituristica, senza tuttavia consentire edificazioni nuove ed estranee allo svolgimento delle attività agricole in senso stretto, allo scopo di garantire il mantenimento della natura peculiare del territorio e preservarlo così dalla proliferazione di fabbricati sorti in vista soltanto dell’esercizio di attività ricettive in immobili non facenti parte, ab origine, dell’azienda agricola».
Si vuole in sostanza prevenire, si sottolinea nella sentenza costituzionale, «il sorgere ed il moltiplicarsi di attività puramente turistiche, che finiscano con il prevalere su quelle agricole, in violazione della norma codicistica prima citata e con l’effetto pratico di uno snaturamento del territorio, usufruendo peraltro delle agevolazioni fiscali previste per le vere e proprie attività ricettive connesse al prevalente esercizio dell’impresa agricola».
L’indicata ragione giustificativa della norma consente anche di ritenere che la differenza di trattamento tra i soggetti proprietari o non proprietari di un edificio è giustificata.
Con riferimento all’art. 41 Cost., la Corte ha affermato che gli stessi motivi che portano ad escludere la manifesta irragionevolezza della disposizione censurata valgono a ritenerla immune da tale ulteriore vizio di legittimità costituzionale. Infatti, «l’iniziativa economica privata in campo agrituristico è libera, in quanto a nessuno è inibito l’accesso a questo settore di attività imprenditoriale, purché segua determinate modalità, uguali per tutti, ritenute dal legislatore nazionale e da quello regionale indispensabili a mantenere le attività agrituristiche nel proprio alveo, senza sovrapposizioni prevaricanti sull’attività agricola o aggiramenti della prescrizione fondamentale contenuta nell’art. 2135 Cod. civ.».
Non vi è quindi «un limite all’avvio di nuove iniziative, né alla concorrenza tra gli imprenditori del settore, ma solo una restrizione nell’uso di beni immobili, allo scopo di preservare razionalmente il territorio e di valorizzarne le caratteristiche specifiche, in coerenza con le finalità perseguite da tutte le leggi in materia di urbanistica».
Con riferimento, infatti, all’art. 42 Cost. (parametro non esaminato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza), deve qui ritenersi che la normativa (statale e) regionale, richiedendo il requisito dell’esistenza del fabbricato, valorizza, contrariamente a quanto affermato dall’appellante, la situazione reale del bene introducendo un regime giuridico differenziato in ragione proprio della natura del fondo. Sicché la questione appare manifestamente infondata (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.05.2013 n. 2665 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Illegittimità Ordinanza di demolizione impianto radioelettrico (SRB)
Nel contesto del procedimento in corso (l’ordinanza si riferisce erroneamente ad una SRB invece che ad impianto radio televisivo sperimentale) non è sufficiente affermare che l’impianto in questione determina una modificazione permanente urbanistica ed edilizia in assenza del titolo abilitativo.
L’impianto è lì infatti in attesa della autorizzazione all’uso delle frequenze per una sperimentazione temporanea, e, fin quando permane questa situazione, è dunque per definizione temporaneo. Il Comune può sì affermare che l’attesa non è a tempo indefinito e che la scadenza fa venir meno l’autorizzazione, ma una volta che viene avanzata una richiesta sia pure tardiva di proroga, ha il dovere di esaminarla con piena cognizione di causa, con preciso riferimento alla natura dell’impianto e del procedimento in corso e alla normativa che la regola.

6. - L’appello è fondato salvo che per la richiesta di risarcimento danni.
6.1. - Il provvedimento adottato dal Comune è illegittimo in quanto non adeguatamente motivato con riferimento all’oggetto specifico concernente un impianto per la trasmissione radiotelevisiva (e non impianto di telefonia mobile) e ai provvedimenti precedentemente adottati dallo stesso Comune nonché al procedimento tuttora in corso per iniziativa dello stesso Comune per ottenere l’assegnazione delle frequenze da parte del Ministero delle Comunicazioni necessarie a consentire la sperimentazione di tecnologie avanzate, per la quale l’impianto era stato sia pure temporaneamente autorizzato dallo stesso Comune.
6.2. – Alla luce dei principi che regolano la materia degli impianti di telecomunicazione l’autorizzazione a suo tempo concessa dal Comune il 07.02.2007 per l’impianto in questione può correttamente definirsi un atto ricognitivo come la qualifica la sentenza del TAR anche tenendo conto della disciplina prevista dall’art. 36 del D.Lgs. n. 259/2003, ma in tal caso essa è un atto strettamente connesso alla richiesta di autorizzazione all’uso delle frequenze rivolta al Ministero e deve evidentemente seguirne le vicende salvo che, alla scadenza del termine, senza che le frequenze siano state concesse o utilizzate subentrino nuove valutazioni da parte del Comune che deve però puntualmente esplicitarle.
6.3. - Nel contesto del procedimento in corso non è invece sufficiente affermare che l’impianto in questione determina una modificazione permanente urbanistica ed edilizia in assenza del titolo abilitativo. L’impianto è lì infatti in attesa della autorizzazione all’uso delle frequenze per una sperimentazione temporanea, e, fin quando permane questa situazione, è dunque per definizione temporaneo. Il Comune può sì affermare che l’attesa non è a tempo indefinito e che la scadenza fa venir meno l’autorizzazione, ma una volta che viene avanzata una richiesta sia pure tardiva di proroga, ha il dovere di esaminarla con piena cognizione di causa, con preciso riferimento alla natura dell’impianto e del procedimento in corso e alla normativa che la regola.
6.4. – Nel valutare la richiesta di proroga sia pure tardivamente presentata dagli interessati in sede di procedimento ex art. 10 della legge n. 241/1990, avrebbe dunque riconsiderare l’intera questione e il procedimento a suo tempo avviato ancora in corso e assumere conseguenti e pertinenti determinazioni. il cui rigetto doveva essere motivato con specifico riferimento a tali aspetti. Non è invece sufficiente adottare un provvedimento motivato solo dalla constatazione della mancanza di un valido titolo abilitativo a determinare modificazioni rilevanti sul piano edilizio e urbanistico. Inoltre il Comune avrebbe dovuto contestualmente revocare la propria richiesta al Ministero competenti di assegnazione delle frequenze di trasmissione.
6.5. – La decisione adottata è invece incompleta e immotivata e pertanto deve essere annullata (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.05.2013 n. 2642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Innalzamento della linea di gronda di 25cm. va computato come volume tecnico
Un innalzamento della linea di gronda di cm. 25 rispetto al progetto assentito, non può essere configurata come “totale difformità”, né come “variazione essenziale”, ma va computato come volume tecnico, in quanto irrilevante ai fini del calcolo della volumetria per il suo carattere meramente interno e non utilizzabile o praticabile direttamente.
Il Collegio ritiene dirimente ai fini della decisione il fatto rappresentato nel terzo motivo riguardante l’intervenuto giudicato penale di cui alla sentenza del pretore di Pontassieve n. 42 del 04.05.1989, con la quale è stata esclusa la sussistenza di una parziale difformità dell’intervento contestato rispetto alla concessione edilizia al tempo rilasciata.
E’ pacifico che l’immobile abbia subìto un innalzamento della linea di gronda di cm. 25 rispetto al progetto assentito, in quanto il solaio posto tra piano terreno e piano primo, che doveva inizialmente collocarsi a m. 2,70 dal pavimento dell’autorimessa al piano terreno, è stato poi realizzato a m. 2,95, visto che la preesistente apertura ad arco non consentiva una rottura muraria per il connesso abbassamento senza provocare lesioni strutturali.
Ed è conseguentemente altrettanto pacifico che la riduzione in pristino, nel caso l’eliminazione dell’aumento della quota di imposta, avrebbe comportato sia problemi ingegneristici radicali, sostanzialmente una demolizione e ricostruzione quasi totali, sia un pregiudizio alla struttura, come riportato nel precedente capoverso; quindi appare erronea –si veda il secondo motivo dell’atto di appello– l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata di un’assenza di prova riguardo al pregiudizio derivante alla costruzione dall’assunzione della sanzione demolitoria.
In ogni caso, comunque, prevale il riconoscimento svolto dal pretore, secondo il quale la maggiore altezza ricavata non può essere configurata come “totale difformità”, né come “variazione essenziale”, ma va computata come volume tecnico, in quanto irrilevante ai fini del calcolo della volumetria per il suo carattere meramente interno e non utilizzabile o praticabile direttamente.
Visto quindi il disposto dell’art. 654 c.p.p., i fatti accertati nella sentenza n. 42 del 04.05.1989 devono assurgere a giudicato nel presente appello che deve dunque essere accolto (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.05.2013 n. 2587 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione per opere abusive su edificio realizzate prima o dopo della legge n. 765 del 1967.
L’ordine di demolizione per la sua natura vincolata può essere emesso, in ragione della riscontrata abusività delle opere, quando l’edificio sia stato realizzato dopo la data di entrata in vigore della legge n. 765 del 1967, ovvero quando l’edificio sia stato realizzato prima di tale data, ma vi siano obiettivi elementi che inducano a ritenere che successivamente ad essa sia stato commesso un abuso (come risulta dai verbali di accertamento, da ordini di sospensione dei lavori, dai materiali adoperati, ecc.).
Se invece, per un edificio realizzato sulla base di un legittimo titolo edilizio, emesso in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967, sia riscontrata una difformità, riferibile a una data imprecisata, rispetto al progetto a suo tempo approvato, l’Amministrazione non può senz’altro emanare l’ordine di demolizione, ma deve consentire al proprietario di partecipare al procedimento sanzionatorio, affinché siano eventualmente acquisiti elementi oggettivi che possano chiarire se la difformità risalga al periodo anteriore all’entrata in vigore della medesima legge.
In tal caso, l’ordine di demolizione va emesso se, all’esito di tale istruttoria, non emergono elementi tali da indurre a ritenere che l’abuso sia stato commesso prima dell’entrata in vigore della medesima legge.

Ritiene al riguardo la Sezione che l’ordine di demolizione per la sua natura vincolata può essere senz’altro emesso, in ragione della riscontrata abusività delle opere, quando l’edificio sia stato realizzato dopo la data di entrata in vigore della legge n. 765 del 1967, ovvero quando l’edificio sia stato realizzato prima di tale data, ma vi siano obiettivi elementi che inducano a ritenere che successivamente ad essa sia stato commesso un abuso (come risulta dai verbali di accertamento, da ordini di sospensione dei lavori, dai materiali adoperati, ecc.).
Se invece –per un edificio realizzato sulla base di un legittimo titolo edilizio, emesso in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967- sia riscontrata una difformità, riferibile a una data imprecisata, rispetto al progetto a suo tempo approvato, l’Amministrazione non può senz’altro emanare l’ordine di demolizione, ma deve consentire al proprietario di partecipare al procedimento sanzionatorio, affinché siano eventualmente acquisiti elementi oggettivi che possano chiarire se la difformità risalga al periodo anteriore all’entrata in vigore della medesima legge.
In tal caso, l’ordine di demolizione va emesso se, all’esito di tale istruttoria, non emergono elementi tali da indurre a ritenere che l’abuso sia stato commesso prima dell’entrata in vigore della medesima legge.
Al riguardo, possono rilevare le risultanze catastali o fotografiche (di data incontestabile), i verbali della polizia municipale, l’identità dei materiali e la stretta riconducibilità delle opere aggiuntive alla struttura portante dell’edificio, il fatto che l’intero edificio risulti costruito con una determinata sagoma, ovvero se solo per un appartamento risulti realizzata la veranda.
Nella specie, l’appellante ha supportato le proprie deduzioni, sulla avvenuta realizzazione dell’edificio negli anni Cinquanta con la veranda oggetto del giudizio, con una perizia giurata a firma dell’ingegner M. (depositata in atti in una con il ricorso introduttivo), la quale ha concluso nel senso che “(…) è possibile asserire che la costruzione della veranda in argomento è coeva alla costruzione del corpo di fabbrica (nel 1951), in quanto le strutture sono concatenate, i getti di calcestruzzo continui e caratterizzati dai medesimi componenti e mineralogie”.
Concludendo sul punto, la sentenza in epigrafe è meritevole di riforma, poiché, in primo luogo, non ha rilevato che l’ordine di rimessione in pristino risulta illegittimo per la mancata comunicazione di avvio del relativo procedimento.
Sotto tale aspetto, va ribadito che l’ordine di demolizione può e deve senz’altro essere emesso quando sia incontestata l’abusività delle opere (in tal senso –ex plurimis-: Cons. Stato, IV, 17.09.2012, n. 4925; id., IV, 18.04.2012, n. 2286; id., IV, 15.12.2011, n. 6618). Ebbene, nel caso in questione, la realizzazione della veranda in un edificio legittimamente assentito nel 1951 e le sue caratteristiche strutturali (tipiche dell’edilizia dell’epoca) avrebbero dovuto indurre l’Amministrazione ad approfondire, in contraddittorio con la proprietaria, la questione della effettiva data di realizzazione del manufatto, evidente essendo che il corretto accertamento di tale presupposto di fatto ha un rilievo dirimente per la legittimità dell’ordine di demolizione.
In secondo luogo, il TAR avrebbe dovuto valutare le deduzioni di parte (supportate dalla circostanziata perizia), con le quali l’odierna appellante aveva rilevato l’insussistenza dei presupposti di fatto per l’adozione dell’impugnato ordine di rimessione in pristino (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. I materiali inerti da scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo sono considerati rifiuti.
E’ legittimo l’art. 1, primo comma, lettera b), del decreto del 03.07.2007 del Ministero dell’Ambiente, secondo il quale “i materiali inerti da scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo sono considerati rifiuti e pertanto devono essere gestiti ai sensi della vigente normativa sui rifiuti”.
Dunque, la Regione, non può utilizzare i materiali inerti da scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo, senza alcun controllo delle loro caratteristiche. Con tale decreto il Ministero autorizza la Regione Valle d’Aosta per gli interventi di bonifica e messa in sicurezza permanente delle ex cave e delle discariche di amianto.

4. Il giudice di primo grado ha ritenuto apodittica la statuizione contenuta nel provvedimento di autorizzazione all’avvio dei lavori, in base alla quale “i materiali inerti da scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo sono considerati rifiuti e pertanto devono essere gestiti ai sensi della vigente normativa sui rifiuti”.
In base all’art. 185 del d.lgs. 156/2006, comma 1, lett. l), non rientra fra i rifiuti: “Il materiale litoide estratto da corsi d’acqua, bacini idrici ed alvei, a seguito di manutenzione disposta dalle autorità competenti”.
L’art. 186, a sua volta recita: “1. Le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati non costituiscono rifiuti e sono, perciò, esclusi dall’ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale … sempreché la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3”.
Le disposizioni, sopra riportate, fanno degli opportuni distinguo fra materiale inquinato e non, ai fini della loro qualificazione quali “rifiuti” e del loro conseguente utilizzo.
Secondo il giudice di primo grado, non può essere condiviso l’assunto della difesa statale, laddove ritiene che la statuizione contestata sarebbe in linea con l’orientamento espresso dall’Unione Europea, dalla Corte di Giustizia e con quanto stabilito nell’art. 185 e 186 del d.lgs. n. 152 del 2006 recante norme in materia ambientale, come modificato con il d.lgs. 16.01.2008, n. 4, dove i materiali inerti da scavo e i fanghi di dragaggio sarebbero ex se da qualificarsi “rifiuti”.
In effetti è proprio la lettura anche di tali nuove disposizioni (l’art. 185 elenca le tipologie di materiali non ritenuti “rifiuti” ed il 186 indica i limiti di utilizzabilità delle “terre e rocce da scavo”) che induce a contrastare la tesi dell’amministrazione.
5. Il Ministero dell’ambiente ha proposto ricorso in appello evidenziando come gli articoli 185 e 186 del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo vigente prima delle modifiche introdotte dall’art. 4 del d.lgs. n. 4 del 2008, prevedono che solo a determinate condizioni i materiali litoidi e le terre e rocce da scavo possano essere reimpiegate nel ciclo produttivo e quindi sottrarsi alla classificazione come rifiuti; il che dunque sottende, piuttosto che escludere, la loro tendenziale equiparazione ai rifiuti sotto il profilo della disciplina applicabile. L’art. 186 infatti esclude dalla categorie dei rifiuti le terre e le rocce da scavo sempre che la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione superiore ai limiti previsti dalle legge vigenti e dal decreto Ministro dell’ambiente 25.10.1999, n. 471.
6. Il Ministero appellante sottolinea che era onere della Regione fornire la prova che i materiali non fossero ascrivibili alla categoria dei rifiuti.
Dal verbale della conferenza di servizi istruttoria del 13.07.2006, emerge che il rappresentante del Ministero dell’ambiente osservava che i materiali inerti da scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo sono considerati rifiuti e pertanto devono essere gestiti ai sensi della vigente normativa sui rifiuti ed “esprime(va) la non condivisione … in merito all’utilizzo dei fanghi di drenaggio e disalveo come riempimento del cratere dell’ex cava. Detti materiali non rispettano né i limiti del d.m. 471/1999 né i limiti del d.m. 05.02.1998". Inoltre i predetti materiali così come certificato dall’ARPA della Valle d’Aosta <<non sono stai sufficientemente caratterizzati>>”.
7. La sentenza di accoglimento, qui impugnata, ha ritenuto illegittimo l’art. 1, primo comma, lettera b), del decreto del 03.07.2007, secondo il quale “i materiali inerti da scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo sono considerati rifiuti e pertanto devono essere gestiti ai sensi della vigente normativa sui rifiuti”.
La conseguenza di tale accoglimento era la possibilità, per la Regione, di utilizzare i materiali inerti da scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo, senza alcun controllo delle loro caratteristiche.
8. La Sesta Sezione, con ordinanza 28.10.2008, ha accolto l’istanza cautelare, sospendendo l’efficacia della sentenza impugnata, “atteso che la formulazione testuale delle norme accredita l’idea –specie per quanto riguarda il materiale inerte da scavo– che la qualificazione come rifiuti sia la regola, salvo contrarie risultanze”.
9. Così riassunte le vicende che hanno condotto alla presente fase del giudizio, ritiene la Sezione che il ricorso in appello è fondato per l’assorbente profilo del mancato assolvimento dell’onere della prova in ordine alle caratteristiche dei materiali che la Regione avrebbe dovuto utilizzare per il riempimento della cava.
La Regione, nella “dichiarazione a verbale” allegata alla conferenza di servizi di cui sopra, ha preso atto che “la messa in sicurezza del cratere dovrà avvenire mediante l’uso di materiale da scavo caratterizzato ed avente le caratteristiche richieste dell’art. 186, del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 e/o da materiale naturale”.
Tale affermazione costituiva il riconoscimento della attendibilità delle osservazioni svolte dal rappresentante del Ministero dell’ambiente durante lo svolgimento della conferenza.
Il dispositivo contenuto nel decreto impugnato, e ritenuto illegittimo dalla sentenza, era conforme a quanto accettato dalla Regione con la dichiarazione “a verbale”.
Tale circostanza avrebbe dovuto indurre il giudice di primo grado a rilevare l’infondatezza dello stesso ricorso, piuttosto che ad annullare la disposizione, la cui assenza avrebbe consentito l’utilizzazione di materiali che non corrispondono a quanto previsto dagli articoli 185 e 186 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
Del resto, risulta dalla documentazione acquisita che la Regione non ha a suo tempo provato la non contaminazione dei materiali (peraltro risultati provenienti dal bacino idoelettrico di Brusson, con metalli vari al di sopra limiti imposti).
10. Il ricorso in appello va quindi accolto con conseguente rigetto del ricorso di primo grado (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2542 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di una bussola-veranda in metallo e pannelli in plexiglas presso l'ingresso dell’abitazione.
L’intervento non rientra nel concetto di risanamento conservativo neppure volendo considerare l’esigenza di proteggere l’ingresso dell’edificio dalle intemperie: gli interventi di restauro e risanamento, infatti, debbono compendiarsi in un insieme sistematico di opere tese a mantenere la funzionalità e la fisionomia dell’organismo edilizio preesistente, potendo tradursi anche nella eliminazione degli elementi ad esso estranei: eventuali manufatti con funzione protettiva possono quindi rientrare nel concetto di risanamento solo se inseriti nell’ambito di un più vasto progetto di risanamento dell’immobile ed a patto che abbiano una funzione di mero completamento e non inducano nell’organismo edilizio elementi estranei allo stesso.
Inoltre la realizzazione di una bussola/veranda neppure è qualificabile come pertinenza, giacché di fatto attua un ampliamento della superficie e della volumetria utile del fabbricato senza possedere quelle dimensioni estremamente modeste che debbono caratterizzare la c.d. pertinenza urbanistica.

Per quanto riguarda la qualificazione dell’intervento il Collegio é dell’opinione che la veranda, o bussola, realizzata abusivamente dalla ricorrente non rientri tra gli interventi di restauro o risanamento conservativo, né tra gli interventi di ristrutturazione e neppure nel concetto di pertinenza urbanistica.
Sia gli interventi di restauro e risanamento conservativo che quelli di ristrutturazione sono invero caratterizzati dal fatto che coinvolgono in via diretta elementi già esistenti di un fabbricato, che tendono a rinnovare in misura più ampia evidente. Di conseguenza laddove, come nel caso di specie, l’intervento edilizio si compendi nella mera aggiunta, all’organismo edilizio preesistente, di una nuova costruzione che non risulti in alcun modo correlata e consequenziale ad altre modifiche apportate al fabbricato (si tratta ad esempio della realizzazione di un nuovo locale tecnico per l’allocazione di caldaie o contatori), si esula per principio dal concetto di ristrutturazione o di risanamento.
In particolare va rilevato che l’intervento di che trattasi non pare sussumibile nel concetto di risanamento conservativo neppure volendo considerare l’esigenza, affermata dalla ricorrente, di proteggere l’ingresso dell’edificio dalle intemperie: gli interventi di restauro e risanamento, infatti, debbono compendiarsi in un insieme sistematico di opere tese a mantenere la funzionalità e la fisionomia dell’organismo edilizio preesistente, potendo tradursi anche nella eliminazione degli elementi ad esso estranei: eventuali manufatti con funzione protettiva possono quindi rientrare nel concetto di risanamento solo se inseriti nell’ambito di un più vasto progetto di risanamento dell’immobile ed a patto che abbiano una funzione di mero completamento e non inducano nell’organismo edilizio elementi estranei allo stesso. La bussola/veranda realizzata dalla ricorrente non può quindi ricondursi al concetto di risanamento trattandosi di intervento isolato, slegato financo da interventi di manutenzione straordinaria, e per di più manifestamente eccessivo rispetto alla finalità protettiva dell’ingresso, che avrebbe potuto essere perseguita anche mediante una bussola di ben più modeste dimensioni.
Infine l’abuso in esame neppure é qualificabile come pertinenza, giacché di fatto attua un ampliamento della superficie e della volumetria utile del fabbricato senza possedere quelle dimensioni estremamente modeste che debbono caratterizzare la c.d. pertinenza urbanistica.
Al proposito appare dirimente la considerazione che la struttura portante risulta stabilmente ancorata al muro perimetrale dell’edificio; che essa racchiude una superficie di oltre 5 mq. per una altezza di oltre mt. 2.20; e che quantunque essa presentasse un varco d’apertura al momento in cui il tecnico comunale effettuava il sopralluogo, tale varco può agevolmente essere chiuso in qualsiasi momento con la semplice aggiunta di un ulteriore pannello di plexiglas su supporto mobile, che ne consenta l’apertura e la chiusura. Si tratta quindi di una vera e propria veranda che in periodo primaverile ed estivo ben può garantire un ambiente supplementare di vita, e comunque anche nel periodo invernale é idonea a fungere da “tampone”, ad evitare cioè la dispersione di calore dall’interno dell’immobile, ed inoltre a collocarvi alcuni arredi da ingresso.
Non é quindi condivisibile l’assunto della ricorrente secondo il quale la costruzione di che trattasi sarebbe assentibile a mezzo di semplice autorizzazione e non sarebbe pertanto sanzionabile con la demolizione. Da qui l’infondatezza del terzo e quarto dei motivi di ricorso
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.05.2013 n. 612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 13, comma 2, della L. 47/1985 afferma che “Sulla richiesta di concessione o di autorizzazione in sanatoria il sindaco si pronuncia entro sessanta giorni, trascorsi i quali l’istanza si intende respinta”, ed é quindi estremamente chiaro nell’annettere al mero decorso del termine ivi indicato, senza che nel frattempo sia intervenuto alcun provvedimento esplicito, la valenza di provvedimento di diniego, ossia di silenzio-rigetto: in tal senso, del resto, si é orientata la giurisprudenza con orientamento ormai consolidato da tempo, che ne ha tratto l’ulteriore corollario che il decorso del termine di sessanta giorni assegnato alla Amministrazione per provvedere fa anche venir meno l’obbligo del comune di provvedere, già sussistendo un provvedimento negativo soggetto ad impugnazione.
La giurisprudenza ha tuttavia ulteriormente precisato che l’Amministrazione non perde il potere di provvedere dopo il formarsi del silenzio-rigetto previsto dall’art. 13 L. 47/1985; correlativamente l’atto con il quale essa confermi in maniera espressa il diniego già formatosi, sulla base di una determinata motivazione esplicitata, non può considerarsi meramente confermativo del diniego tacito precedente, con il risultato che nei confronti di esso si riaprono i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale, che non può considerarsi inammissibile in ragione della mancata impugnazione del silenzio-rigetto.

L’art. 13, comma 2, della L. 47/1985 afferma che “Sulla richiesta di concessione o di autorizzazione in sanatoria il sindaco si pronuncia entro sessanta giorni, trascorsi i quali l’istanza si intende respinta”, ed é quindi estremamente chiaro nell’annettere al mero decorso del termine ivi indicato, senza che nel frattempo sia intervenuto alcun provvedimento esplicito, la valenza di provvedimento di diniego, ossia di silenzio-rigetto: in tal senso, del resto, si é orientata la giurisprudenza con orientamento ormai consolidato da tempo (ex multis, si veda C.d.S. sez. IV n. 1757 del 26.03.2012), che ne ha tratto l’ulteriore corollario che il decorso del termine di sessanta giorni assegnato alla Amministrazione per provvedere fa anche venir meno l’obbligo del comune di provvedere, già sussistendo un provvedimento negativo soggetto ad impugnazione (TAR Piemonte Sez. II n. 494 del 20.05.2011).
La giurisprudenza ha tuttavia ulteriormente precisato che l’Amministrazione non perde il potere di provvedere dopo il formarsi del silenzio-rigetto previsto dall’art. 13 L. 47/1985; correlativamente l’atto con il quale essa confermi in maniera espressa il diniego già formatosi, sulla base di una determinata motivazione esplicitata, non può considerarsi meramente confermativo del diniego tacito precedente, con il risultato che nei confronti di esso si riaprono i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale, che non può considerarsi inammissibile in ragione della mancata impugnazione del silenzio-rigetto (TAR Lazio-Latina n. 532 del 03.07.2012; TAR Campania-Napoli sez. IV n. 1542 del 03.04.2012; C.d.S. sez. I n. 386 del 02.09.2011)
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.05.2013 n. 612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Illegittimità autorizzazione “temporanea” per un impianto sportivo per la pratica del motocross in area vincolata.
L’autorizzazione “temporanea” per un impianto sportivo per la pratica del motocross, di fatto potenzialmente illimitata, appare piuttosto come un espediente utilizzato per aggirare i vincoli di legge attualmente ostativi, alla permanenza in loco dell’attività motoristica.
Infatti, è stata autorizzata un’attività potenzialmente dannosa per il contesto ambientale sottoposto a specifica tutela vincolistica per un periodo di tempo allo stato indefinito e indefinibile, in assenza del necessario e preventivo espletamento delle procedure di legge volte a verificare l’impatto e la compatibilità ambientale dell’insediamento.

2. Nel merito, si osserva quanto segue.
2.1. Come si è esposto in premessa, l’impianto di motocross di Valmanera è insediato di fatto fin dai primi anni ’70 in una zona del territorio del comune di Asti incompatibile dal punto di vista urbanistico, in quanto a vocazione “agricola” e soggetta a vincolo paesistico, oltre che sito di interesse comunitario.
2.2. Il tentativo del Comune di Asti di regolarizzare l’insediamento verso alla fine degli anni ’90 attraverso una variante parziale del PRGC contemplante la modifica della destinazione urbanistica del sito da “agricola” a “servizi per lo sport”, non ha superato il vaglio della Regione e non ha avuto più seguito.
2.3. Nel maggio 2010 la Provincia di Asti ha addirittura vietato l’esercizio dell’attività motoristica, sia competitiva che non competitiva, nell’impianto di Valmanera, in carenza dell’espletamento dei procedimenti di Valutazione d’Incidenza e di verifica della procedura di VIA; e solo dopo che il gestore ha provveduto a presentare l’istanza per l’avvio della fase di verifica del procedura di VIA, la Provincia ha rilasciato l’autorizzazione in deroga a svolgere l’attività motoristica, peraltro limitandola a quella competitiva e secondo un preciso calendario di gare, che in sostanza ha limitato la deroga a soli dieci giorni l’anno.
2.4. Questa situazione è rimasta sostanzialmente invariata fino alla data di adozione dell’atto impugnato nel presente giudizio, con cui il Comune di Asti, facendo seguito agli accordi programmatici assunti con la Provincia di Asti e con l’associazione sportiva cross club Asti con convenzione del 12.07.2011, ha autorizzato il gestore dell’impianto, non solo a continuare l’esercizio dell’attività competitiva di motocross nei pochi giorni già autorizzati in deroga dalla Provincia nel 2010, ma a tenere aperto tutti i giorni dell’anno, feriali e festivi, nella fascia oraria 10-13, 14.30-18, per l’svolgimento dell’attività non competitiva.
2.5. Il tutto in deroga, non solo alla destinazione urbanistica dell’area, ma anche ai limiti acustici di cui al Piano di Classificazione Comunale.
2.6. E tali determinazioni sono state assunte senza che nel frattempo siano state portate a compimento le verifiche di compatibilità ambientali dell’impianto, ma sul semplice accordo che le stesse sarebbero state avviate ad iniziativa del gestore e quindi ultimate in un arco temporale di circa 2 anni (740 giorni).
2.7. Si tratta, secondo il collegio, di una decisione irragionevole e contraddittoria rispetto alle determinazioni assunte, anche in epoca di poco precedente, dalle stesse amministrazioni: basti considerare che ancora nell’agosto 2010 (quindi meno di un anno prima dell’accordo procedimentale del 12.07.2011), la stessa Provincia di Asti aveva ritenuto necessario sottoporre il progetto dell’impianto alla Valutazione di Impatto Ambientale alla luce delle numerose criticità rilevate nella precedente fase di verifica ai fini della sottoposizione a VIA.
2.8. Analoghe valutazioni erano state svolte dai rappresentanti di Provincia, Regione, ARPA e ASL nei primi mesi del 2011 sede di Conferenza di Pianificazione, dove erano state espresse forti perplessità sull’attuale localizzazione dell’impianto, segnalando l’opportunità di una rilocalizzazione dello stesso in un sito maggiormente compatibile dal punto di vista ambientale.
2.9 Ebbene, è in tale contesto di palese criticità per la permanenza dell’impianto nel sito di Valmanera, che è intervenuto l’accordo procedimentale del luglio 2011; accoro col quale la Provincia, il Comune e il gestore dell’impianto si sono accordati nel senso di avviare le procedura di VAS e di Valutazione d’Incidenza prodromici all’approvazione di una futura variante del Piano Regolatore (che dovrebbe regolarizzare l’impianto nell’attuale localizzazione), fissando al riguardo un “cronoprogramma” di circa 2 anni e autorizzando nelle more il gestore a “continuare” l’attività motoristica, non più però nei limiti dei 7-10 giorni già autorizzati “in deroga”, ma per tutti i giorni dell’anno per più di sei ore al giorno, in deroga pure ai limiti acustici.
2.10. Allo stato, come risulta dalla documentazione acquisita dal collegio in sede istruttoria, la fase di VAS non è affatto conclusa (come frettolosamente riferito in udienza dal patrono del controintessato): il Comune di Asti riferisce che il procedimento di VAS verrà avviato “non prima di 250/300 giorni a decorrere dal 18.02.2013”, data in cui il gestore dell’impianto ha restituito agli uffici le copie degli elaborati relativi al procedimento di VAS sottoscritti per accettazione delle condizioni in esse riportate.
2.11. Quanto ai procedimenti di VIA e di Valutazione di Incidenza, gli stessi - riferisce sempre il Comune – “potranno essere avviati solo a seguito della conclusione positiva dei procedimenti di VAS e di variante al PRGC”.
2.12. In sostanza, allo stato, non è certo cosa attesterà la VAS; non è certo se la VAS condurrà all’approvazione di una variante al PRGC in senso compatibile alla permanenza dell’impianto (se anche il Comune l’adottasse, non si può prevedere cosà deciderà la Regione in sede di approvazione, viste le criticità già rilevate in passato, sia dalla Regione che dalla Provincia); non è certo, infine, quale sarà il risultato delle fasi di VIA e di Valutazione di Incidenza che dovrebbero essere avviate dopo l’ipotetica approvazione della variante urbanistica.
2.13. I tempi per l’espletamento di tali incombenti sono lunghi e incerti: i due anni approssimativi stabiliti nel cronoprogramma attengono solo alla fase di VAS, ma non considerano gli ulteriori tempi necessari per l’approvazione (del tutto ipotetica, peraltro) della variante urbanistica e per l’espletamento della VIA e della Valutazione d’incidenza.
2.14. In tale contesto, l’autorizzazione impugnata nel presente giudizio, benché qualificata “temporanea”, è potenzialmente illimitata, apparendo piuttosto come l’espediente utilizzato dalle parti per aggirare i vincoli di legge attualmente ostativi alla permanenza in loco dell’attività motoristica.
3. Alla luce di tali considerazioni, sussistono in definitiva le violazioni di legge denunciate dalla ricorrente, dal momento che con l’atto impugnato è stata autorizzata un’attività potenzialmente dannosa per il contesto ambientale sottoposto a specifica tutela vincolistica per un periodo di tempo allo stato indefinito e indefinibile, in assenza del necessario e preventivo espletamento delle procedure di legge volte a verificare l’impatto e la compatibilità ambientale dell’insediamento di cui si discute (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.05.2013 n. 600 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo fascia di rispetto corsi d’acqua dai confini incerti.
La disposizione dettata dall’art. 1, lett. c), L. 431/1985 sottopone a vincolo paesaggistico i fiumi, i torrenti e i corsi d’acqua e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 mt. ciascuna.
La misurazione della fascia di rispetto deve partire dagli elementi predetti (sponde o piede degli argini) e, solo ove gli stessi siano incerti, dal punto nel quale si colloca il livello di piena ordinaria, che include le sponde, le rive interne e l’area del corso fluviale soggetta ad essere sommersa dalla piena.

Nel merito, il ricorso è solo parzialmente fondato.
Va innanzitutto respinto il primo motivo di censura.
Nella sua argomentazione, la parte ricorrente prende le mosse dalla disposizione dettata dall’art. 1, lett. c), L. 431/1985 che sottopone a vincolo paesaggistico i fiumi, i torrenti e i corsi d’acqua e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 mt. ciascuna. Sottolinea, quindi, come la misurazione della fascia di rispetto debba dipartire dagli elementi predetti (sponde o piede degli argini) e, solo ove gli stessi siano incerti, dal punto nel quale si colloca il livello di piena ordinaria. Conclude, infine, che il provvedimento impugnato avrebbe violato il menzionato criterio, in quanto avrebbe fatto riferimento al limite demaniale riportato sulla cartografia catastale, determinato, in mancanza di una sua evidenza in sito, attraverso il riferimento “a capisaldi inamovibili e a punti fiduciari catastali” (cfr. relaz. arch. Gandino del 14.10.1998).
Va tuttavia rilevato che, in corso di giudizio, il Comune di Rocca Grimalda ha depositato (in allegato alla memoria 13.03.2013) una relazione tecnica a firma del responsabile del servizio tecnico comunale, nella quale si dà atto della ragionevolezza del limite demaniale come termine di misurazione della fascia di 150 mt.: nella relazione si evidenzia come plurimi elementi di indagine planimetrica e geomorfologica confermino la corretta individuazione, attraverso il criterio del limite demaniale, del terrazzo alluvionale intermedio (indicato con la sigla TA2) come sede del flusso idrico durante gli eventi di piena ordinaria. Il documento tecnico in esame appare risolutivo, pertanto, in quanto i rilievi ivi contenuti -in alcun modo confutati dalla società ricorrente- dimostrano che la misurazione effettuata dal Comune, pur riferendosi al limite demaniale, ha individuato il livello della piena ordinaria, che include le sponde, le rive interne e l’area del corso fluviale soggetta ad essere sommersa dalla piena (cfr. Cass. civile sez. un., 13.11.2012, n. 19703), e dal quale, per giurisprudenza pacifica, va misurata la fascia di protezione di m. 150 sottoposta a vincolo paesaggistico ex art. 1, lett. c), l. 08.08.1985 n. 431 (cfr. Pretura Reggio Emilia, 15.05.1992).
In altri termini, la prima misurazione posta a base dei provvedimenti comunali, pur assunta sulla base di rilievi topografici, è risultata corretta anche alla stregua delle indagini condotte in loco, in quanto coincidente con l’effettiva linea del livello di piena ordinaria, da assumere quale termine del computo della fascia di rispetto di 150 mt..
La società ricorrente invoca un diverso criterio di misurazione, che assume a riferimento non già il limite della piena ordinaria ma l’argine artificiale ubicato sulla sponda olografica destra. Si tratta tuttavia di riferimento improprio, poiché il calcolo dal piede esterno dell'argine è legittimo solo se quest'ultimo esplica una funzione analoga alla sponda nel contenimento delle piene ordinarie (Pretura Cremona, 24.09.1990).
In conclusione, essendosi la misurazione comunale basata sul limite della piena ordinaria, risulta infondata la contestazione della correttezza del criterio di misurazione applicato. D’altra parte, la società ricorrente non ha in alcun modo contrastato le risultanze dell’indagine geomorfologica che hanno condotto a fornire conferma della correttezza del criterio applicato (in particolare per quanto attiene alla individuazione della linea di piena ordinaria, dalla quale si diparte la fascia di protezione dei 150 mt.) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 08.05.2013 n. 578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere abusive su immobile soggetto a vincolo paesaggistico ai sensi dei DD.MM. 01/08/1985 (c.d. "Galassini").
Nel caso di opere abusive realizzate su immobile soggetto a vincolo paesaggistico ai sensi dei DD.MM. 01/08/1985 (c.d. "Galassini"), secondo costante giurisprudenza, la norma di cui all'art. 1-quinquies della legge n. 431 del 1985 ha implicato una novazione retroattiva del d.m. 28.03.1985, fonte normativa dei decreti di divieto di modificazione dell'assetto territoriale, comportando la permanenza dei vincoli nelle zone da questo indicate, a fronte di opere edilizie iniziate ed in corso di esecuzione, qualora esse non abbiano ancora raggiunto uno stadio di realizzazione tale da compromettere ogni possibilità di recupero del territorio, da difendere nel suo valore paesaggistico e ambientale.
Rileva il Collegio che l'immobile oggetto di sanatoria ricade in ambito di tutela paesaggistica determinato dai DD.MM. 01/08/1985 denominati "Galassini", pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 19.12.1985 n. 298 e le opere oggetto di condono edilizio in tipologia 1, relative all'ampliamento di edificio residenziale con chiusura terrazzo, non sono conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di entrata in vigore del D.L. n. 269/2003 del 01/10/2003, così come ulteriormente precisato nella Circolare n. 2699 del 07/12/2005 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in quanto trattasi di ampliamento residenziale con chiusura terrazzo di edificio trifamiliare (tre unità immobiliari), e, pertanto, in contrasto con l'art. 14.10 e 14.13 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G.C. in variante — Parziale 2 — approvato con deliberazione C.C. n. 20 del 15/05/2000, e l'art. 53 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G.C. approvato con Deliberazione di C.C. n. 12 del 28/02/2002, in regime di salvaguardia ai sensi dell'art. 58 della l.r. n. 56 del 1977 s.m.i..
Ciò premesso va rilevato che non è ammissibile a condono l'ampliamento di edificio residenziale con chiusura di terrazzo, trattandosi di opere in tipologia 1 ai sensi L. 326 del 2003 realizzate in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
La sopra citata lettera d) del comma 27 dell'art. 32 della Legge n. 326 del 2003 introduce, infatti, una doppia condizione al fine di escludere la sanabilità, ossia che l'opera abusiva sia stata realizzata su immobili soggetti a determinati vincoli istituiti prima dell'esecuzione delle stesse e che non sussista la conformità urbanistica.
L'istanza di sanatoria non è, pertanto, accoglibile, in quanto, ai sensi della lettera d) del comma 27 dell'art. 32 della Legge n. 326 del 20/2003, si tratta di opere abusive realizzate su immobile soggetto a vincolo paesaggistico ai sensi dei DD.MM. 01/08/1985 (c.d. "Galassini") istituito prima della realizzazione delle suddette opere (31/12/1998) in assenza del Titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (tipologia 1).
Con riguardo alla sussistenza del vincolo va richiamata la costante giurisprudenza (Cons. Stato Sez. VI, 25.01.1995, n. 78) secondo la quale la norma di cui all'art. 1-quinquies della legge n. 431 del 1985 ha implicato una novazione retroattiva del d.m. 28.03.1985, fonte normativa dei decreti (c.d. Galassini) di divieto di modificazione dell'assetto territoriale, comportando la permanenza dei vincoli nelle zone da questo indicate, a fronte di opere edilizie iniziate ed in corso di esecuzione, qualora esse non abbiano ancora raggiunto uno stadio di realizzazione tale da compromettere ogni possibilità di recupero del territorio, da difendere nel suo valore paesaggistico e ambientale.
Il D.L. 27.06.1985 n. 312 (“disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale”) all’art. 1-quinquies prevede (articolo aggiunto dall'art. 1 della legge di conversione 08.08.1985, n. 431), che “le aree e i beni individuati ai sensi dell'articolo 2 del decreto ministeriale 21.09.1984, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 265 del 26.09.1984, sono inclusi tra quelli in cui è vietata, fino all'adozione da parte delle regioni dei piani di cui all'articolo 1-bis, ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché ogni opera edilizia, con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici”.
Giova ricordare che la Corte costituzionale con sentenza 21-28.07.1995, n. 417 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1-quinquies, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 42, secondo e terzo comma, e 97 della Costituzione.
Pertanto, annullato il D.M. 21.09.1984, da cui derivava all'Amministrazione il potere di imporre misure di salvaguardia in previsione dell'adottando piano paesistico, il recupero, operato dall'art. 1-quinquies della legge 08.08.1985 n. 431, dei provvedimenti emessi sulla base del decreto annullato non è stato limitato soltanto a quelli relativi ai beni afferenti alle categorie astrattamente indicate dall'art. 1, comma primo, della stessa legge, ma ha riguardato "tutte le aree e i beni (nessuno escluso) individuati ai sensi dell'art. 2 del D.M. 21.09.1984"; pertanto, la convalidazione ha riguardato anche le misure di salvaguardia imposte su beni non compresi nell'astratta elencazione di cui al primo comma della legge stessa e che, per essere inseriti in un programma pluriennale di attuazione, erano esclusi per il futuro dalla salvaguardia stessa ai sensi del secondo comma, della medesima legge n. 431 del 1985 (Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 180 del 01.02.1990).
Con l'art. 1-quinquies introdotto dalla legge 08.08.1985 n. 431 di conversione del D.L. 27.06.1985 n 312 è stato operato, infatti, un recupero legislativo degli effetti già prodotti dagli atti amministrativi emanati su attuazione dell'art. 2 del D.M. 21.09.1984 e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale anteriormente all'entrata in vigore della legge medesima.
Conseguentemente, ai sensi dell'art. 1-quinquies del D.L. n. 312/1985, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 431/1985, le aree e i beni individuati ai sensi dell'art. 2 del D.M. 21.09.1984 sono inclusi tra quelli in cui è vietata, fino all'adozione da parte delle Regioni dei piani di cui all'art. 1-bis, ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché ogni opera edilizia, con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 4778 del 08.08.2006) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 07.05.2013 n. 552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Potere regolamentare del Comune di intervenire sulla struttura minima degli alloggi.
In una località balneare la creazione di alveari composti per la loro totalità da unità abitative di minimo taglio assolutamente inidonee al normale vivere civile, finisce comunque per creare dei quartieri fantasma di seconde case che restano praticamente deserte per nove mesi all’anno, mentre i relativi oneri di illuminazione, acqua, rifiuti, pulizia, ecc. restano comunque a carico della collettività dei residenti per 12 mesi.
Inoltre, la crisi di un turismo esclusivamente basato sull’eccessivo sviluppo di seconde case di piccolissimo taglio, l’eccessivo affollamento (con l’inevitabile traffico, baccano notturno e diurno, lievitazione irragionevole dei prezzi, ecc.), conseguente all’inevitabile saturazione di presenze dei mesi estivi ha finito con il pregiudicare definitivamente proprio quelle entrate di provenienza turistica garantite dagli originari valori ambientali e “di vivibilità” delle località marine. Del tutto ragionevolmente il Comune ha, dunque, inteso limitare lo scempio del territorio e il mantenimento di una qualità della vita.
Del tutto insussistente è poi l’affermata indebita compressione della “libertà di iniziativa economica, costituzionalmente garantita” all’imprenditore, in quanto, come è noto, l’art. 41 della Cost. prevede che “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, e comunque deve “.. essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

L’assunto è fondato.
Deve, infatti, rilevarsi che, come esattamente segnalato nel primo motivo di appello, fin dall’art. 33 della legge 17.08.1942, n. 1150 e s.m.i., ed oggi con l’art. 4 del D.P.R. 08.06.2001 n. 327 T.U. Edilizia, “Il regolamento che i comuni adottano ai sensi dell'articolo 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi.”
L’amplissima latitudine della disposizione da sola giustifica il potere regolamentare del Comune di intervenire sulla struttura minima degli alloggi.
Inoltre la norma deve essere collocata nell’alveo del D.M. 05.07.1975 “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896”, relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione (ulteriormente modificato con D.M. 09.06.1999), “concernente la compilazione dei regolamenti locali sull'igiene del suolo e dell'abitato”, nonché nella scia delle norme di cui agli artt. 220-222 del R.D. 1265/1934 - T.U.L.S.; queste stabiliscono la superficie minima abitabile per persona, quelle minime per le stanze da letto, quelle di soggiorno ed i monolocali; prevedono l’obbligo del riscaldamento, della presenza di finestre almeno per i vani abitativi principali; fissano in 1/8 il rapporto tra superficie finestrata apribile e quella del pavimento, prevedono i casi in cui è ammessa la ventilazione forzata, ecc…
Nel regolamento edilizio, oltre alle modalità concernenti gli oneri procedimentali e documentali, possono, dunque, essere collocate le disposizioni concernenti: i requisiti igienici; il rispetto delle regole estetiche e d’ornato; nonché le specifiche regole tecniche sull'attività costruttiva, quali, per l’appunto, fissazione quelle sui limiti generali di dimensionamento degli alloggi in esame.
Nel caso, poi, anche il riferimento fatto dal Comune appellante all’art. 16 della L.R. Abruzzo 12.04.1983, n. 18 primo comma è corretto, in quanto la predetta legge regionale demanda al regolamento “l'indirizzo e il controllo della qualità edilizia attraverso la definizione dei livelli minimi di prestazione delle opere edilizie …”.
Appare utile, per contrasto, anche il richiamo al comma 4° dell’art. 16 della cit. L.R. n. 18, che esclude dal regolamento –e quindi rimanda alle Norme Tecniche di attuazione– le indicazioni di carattere tipicamente programmatorio, quali “…le densità edilizie, le altezze, le distanze, le destinazioni d'uso nonché l'indicazione e definizione degli interventi edilizi ammessi”.
In sostanza, pur dovendosi riconoscere che si tratta di valutazioni sostanzialmente rimesse all’autonomia normativa del Comune, si deve comunque rilevare in linea generale che sia il regolamento edilizio che le norme tecniche di attuazione contengono prescrizioni a contenuto generale.
In conseguenza al Regolamento edilizio fanno propriamente capo le disposizioni di natura normativa-regolamentare, mentre nella NTA devono essere contenute le prescrizioni di natura più propriamente programmatica-pianificatoria, destinate, cioè, a regolare la futura attività edilizia.
Nel caso non vi sono dubbi che la disposizione concernente le superfici minime ammissibili delle singole unità, riguardando l’intero territorio comunale, aveva carattere generale, per cui esattamente il Comune ha ritenuto di provvedere alla sua introduzione attraverso la modifica del R.E..
L’ampiezza del riferimento alle “modalità costruttive” comporta in sostanza che il regolamento edilizio ben possa riguardare tutti gli aspetti –nessuno escluso- destinati a regolare le singole edificazioni.
Si tratta di un fascio di profili inerenti al diritto fondamentale alla casa dei cittadini, che è sostanzialmente unitario sotto il profilo teleologico, in quanto tali profili sono diretti ad assicurare, in concreto, la salubrità e la vivibilità delle residenze.
L’art. 4 del T.U. Edilizia implica che al Regolamento edilizio dei Comuni debba essere demandata la specificazione delle regole fondamentali dell’edificazione sotto i profili tecnici, estetici (secondo le antiche regole d’ornato), funzionali, igienico-sanitari e  soprattutto per quello che qui interessa- “di vivibilità” in senso ampio degli abitati.
Quest’ultima considerazione mostra l’erroneità della premessa logico-giuridica, su cui il Primo Giudice ha fondato la sua decisione, alla cui stregua non vi sarebbe stato supporto normativo al provvedimento del Comune..
Sotto altra angolazione, ancora, il provvedimento impugnato in prime cure appare del tutto esente da manifeste illogicità o irragionevolezze o comunque da mende motivazionali.
Contrariamente a quanto vorrebbe la società appellata, infatti, un’offerta di abitazioni di 45 m² (e quindi addirittura inferiore ai 54 m² totali previsti per l’ERP in Abruzzo) configura una tipologia tipicamente destinata a villeggianti più che a residenti.
Come esattamente rilevato dall’appellante nel secondo motivo, la minima tipologia costruttiva finisce di fatto per rendere del tutto impossibile ai residenti -e soprattutto alle famiglie con figli- la naturale reperibilità di abitazioni di un taglio ragionevole; per cui del tutto fuori luogo appare la petizione di principio del “libero mercato”, come fattore miracolistico di autoregolazione perfetta dell’offerta.
Al contrario, come la Sezione ha avuto già modo di rilevare, in una località balneare, la creazione di alveari composti per la loro totalità da unità abitative di minimo taglio assolutamente inidonee al normale vivere civile, finisce comunque per creare dei quartieri fantasma di seconde case che restano praticamente deserte per nove mesi all’anno, mentre i relativi oneri di illuminazione, acqua, rifiuti, pulizia, ecc. restano comunque a carico della collettività dei residenti per 12 mesi (cfr. Consiglio Stato, Sez. IV 22.01.2013 n.361).
Come dimostra -specialmente nelle regioni del mezzogiorno- la crisi di un turismo esclusivamente basato sull’eccessivo sviluppo di seconde case di piccolissimo taglio, l’eccessivo affollamento (con l’inevitabile traffico, baccano notturno e diurno, lievitazione irragionevole dei prezzi, ecc.), conseguente all’inevitabile saturazione di presenze dei mesi estivi ha finito con il pregiudicare definitivamente proprio quelle entrate di provenienza turistica garantite dagli originari valori ambientali e “di vivibilità” delle località marine.
Del tutto ragionevolmente il Comune appellante ha, dunque, inteso limitare lo scempio del territorio e il mantenimento di una qualità della vita.
In sostanza, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, sussistevano puntuali ragioni di interesse pubblico e “prevalenti …e pregnanti ragioni di carattere sociale”, che, sul piano funzionale, supportavano la legittimità e la ragionevolezza della decisione del Comune.
Del tutto insussistente è poi l’affermata indebita compressione della “libertà di iniziativa economica, costituzionalmente garantita” all’imprenditore, in quanto, come è noto, l’art. 41 della Cost. prevede che “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (primo co.), e comunque deve “... essere indirizzata e coordinata a fini sociali“ (secondo co.).
In tale direzione è rilevante il fatto che, con la modifica regolamentare “de qua”, l'amministrazione comunale non ha affatto negato in radice lo "ius edificandi" della società, ma ne ha preteso un uso più conforme all’interesse pubblico.
In conseguenza, del tutto inconferenti si rivelano i riferimenti all’asserita igienicità degli alloggi di 45 m² , in relazione alla Legge in materia di ERP.
Qui, infatti, non è tanto in discussione l’ammissibilità, o meno, di tale tipologia nel caso singolo, ma l’indiscriminata generalizzazione di tale taglio a tutto il territorio comunale.
Sulla base delle precedenti considerazioni deve dunque concludersi che:
- sul piano giuridico, è esatto che la superficie minima abitativa per alloggio costituisce un elemento significativo delle “modalità costruttive” medesime, per cui la potestà di regolare le dimensioni dei nuovi alloggi deve essere ricondotta all’art. 4 del D.P.R. 08.06.2001 n. 327 T.U. Edilizia ed alle altre norme ricordate, che consentono al Comune di porre dei limiti regolamentari al fine di assicurare la vivibilità delle costruzioni;
- anche sotto il profilo della ragionevolezza, inoltre, l’aver consentito la creazione di alloggi di 45 m² per ben il 25 % dell’intero fabbricato (il che non è poco) e di soli 60 m² per la restante parte appare comunque un ragionevole contemperamento tra esigenze naturalmente conflittuali, del costruttore al perseguimento del massimo lucro e della collettività dei residenti a pervenire ad un’idonea sistemazione abitativa (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.05.2013 n. 2433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Differenza tra nulla-osta del Parco e autorizzazione paesaggistica.
Le distinte autorità (ente Parco e Soprintendenza diverse per oggettività giuridica pubblica e perciò non sovrapponibili) sono chiamate a compiere autonome valutazioni: mentre l’ente parco deve valutare la compatibilità dell’intervento limitatamente alle esigenze di salvaguardia, fruizione e valorizzazione del Parco e con le sue specifiche destinazioni di zona, l’autorità paesaggistica è chiamata a svolgere una diversa disamina della compatibilità dell’intervento proposto, che ha come parametro i valori paesaggistici riconosciuti dei luoghi, in funzione della tutela del bene paesaggistico.
Quanto all’autorizzazione rilasciata dall’ente Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano e al suo asserito carattere assorbente rispetto alle valutazioni della competente autorità paesaggistica, il Collegio non condivide quanto osservato sul punto dalla parte appellante.
In disparte la laconicità di questo parere, appare comunque dirimente che le distinte autorità (ente Parco e Soprintendenza diverse per oggettività giuridica pubblica e perciò non sovrapponibili) sono chiamate a compiere autonome valutazioni: mentre l’ente parco deve valutare la compatibilità dell’intervento limitatamente alle esigenze di salvaguardia, fruizione e valorizzazione del Parco e con le sue specifiche destinazioni di zona, l’autorità paesaggistica è chiamata a svolgere una diversa disamina della compatibilità dell’intervento proposto, che ha come parametro i valori paesaggistici riconosciuti dei luoghi, in funzione della tutela del bene paesaggistico
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2013 n. 2410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine fissato alla soprintendenza competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente subdelegato), nel regime transitorio di cui al citato art. 159, comma 3, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (che riproduce la norma già contenuta dapprima nell’art. 82 d.PR 24.07.1977, n. 616 –come modificato dall’art. 1 l. 08.08.1985, n. 431, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27.06.1985, n. 312- e poi nell’art. 151 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), per quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini dell’adozione dell’eventuale provvedimento di annullamento e non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati. In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è sufficiente che l’atto sia adottato nel termine per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del termine stesso l’attività successiva di partecipazione di conoscenza dell’atto ai suoi destinatari.
A tali conclusioni la giurisprudenza è pervenuta in considerazione della natura non recettizia di questo tutorio annullamento, che è espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico, e della conseguente ininfluenza, ai fini della sua validità, della comunicazione ai diretti interessati nell’arco temporale fissato dalla legge per l’adozione del provvedimento.
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La giurisprudenza ha unanimemente riconosciuto che il potere ministeriale di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche, pur non essendo espressione di un potere di riesame nel merito del provvedimento di base, investe tuttavia ogni aspetto della legittimità dell’atto sottoposto al suo scrutinio, ivi compreso l’eccesso di potere per vizio di motivazione.
In quest’ambito, pertanto, l’autorità ministeriale non è impedita di –e anzi deve, ad estrema difesa del vincolo- vagliare, in relazione alla fattispecie concreta, la congruenza del giudizio di compatibilità paesaggistica dell’intervento.

Va anzitutto disattesa la censura –già affrontata in primo grado e qui riproposta- relativa alla tardività dell’atto di annullamento adottato dal soprintendente di Salerno, dedotta sotto il profilo che il provvedimento della soprintendenza sarebbe stato comunicato agli interessati dopo il decorso del termine di sessanta giorni previsto dall’art. 159 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004 (applicabile ratione temporis alla fattispecie in oggetto).
La censura non è meritevole di condivisione.
Secondo il consolidato orientamento della sezione (tra le tante, Cons. Stato, VI sez., 08.03.2006 n. 1261; VI, 29.12.2008, n. 6586), dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, il termine fissato alla soprintendenza competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente subdelegato), nel regime transitorio di cui al citato art. 159, comma 3, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (che riproduce la norma già contenuta dapprima nell’art. 82 d.PR 24.07.1977, n. 616 –come modificato dall’art. 1 l. 08.08.1985, n. 431, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27.06.1985, n. 312- e poi nell’art. 151 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), per quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini dell’adozione dell’eventuale provvedimento di annullamento e non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati. In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è sufficiente che l’atto sia adottato nel termine per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del termine stesso l’attività successiva di partecipazione di conoscenza dell’atto ai suoi destinatari.
A tali conclusioni la giurisprudenza è pervenuta in considerazione della natura non recettizia di questo tutorio annullamento, che è espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico (Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), e della conseguente ininfluenza, ai fini della sua validità, della comunicazione ai diretti interessati nell’arco temporale fissato dalla legge per l’adozione del provvedimento.
Correttamente la sentenza impugnata ha escluso il carattere invalidante della mancata tempestiva comunicazione dell’annullamento, una volta accertato che la sua adozione è avvenuta nel rispetto del termine per provvedere.
Per quanto attiene alla questione della lamentata illegittimità dell’annullamento ministeriale per omessa istruttoria e motivazione, e comunque per aver la Soprintendenza esorbitato dai limiti propri del suo potere, con intromissione nel merito di valutazioni paesaggistiche riservate all’autorità locale, va ricordato, in ordine agli aspetti sostanziali della potestà in esame, che la giurisprudenza ha unanimemente riconosciuto che il potere ministeriale di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche, pur non essendo espressione di un potere di riesame nel merito del provvedimento di base, investe tuttavia ogni aspetto della legittimità dell’atto sottoposto al suo scrutinio, ivi compreso l’eccesso di potere per vizio di motivazione (tra le altre, Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; Cons. Stato, VI, 09.04.2001 n. 2152).
In quest’ambito, pertanto, l’autorità ministeriale non è impedita di –e anzi deve, ad estrema difesa del vincolo (cfr. Corte cost., 27.061986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437)- vagliare, in relazione alla fattispecie concreta, la congruenza del giudizio di compatibilità paesaggistica dell’intervento.
Non appare che, nel caso oggetto dell’odierna controversia, la Soprintendenza abbia esorbitato dai detti suoi poteri, avendo al contrario soltanto evidenziato la carenza motivazionale che inficia, sotto distinti profili, l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Pisciotta, tenuto conto in particolare:
a) della carenza di un’autorizzazione paesaggistica sull’atto presupposto approvativo della lottizzazione;
b) del carattere massivo e di rilevante impatto paesaggistico dell’intervento edificatorio, che prevede la realizzazione di 19 fabbricati e 51 unità abitative su una superficie complessiva di mq 12.655;
c) della natura seriale, stereotipata e contraddittoria degli atti con cui la Commissione per il paesaggio, nella seduta del 07.07.2009, ha ritenuto, in relazione ai “seriali fabbricati previsti”, il rispetto “delle tipologie figurative dei paesaggi “Cilentano” e, nel contempo, delle “forme dell’architettura contemporanea”;
d) della carenza della documentazione richiesta dal d.P.C.M. 12.12.2005 ai fini del rilascio della prescritta autorizzazione paesaggistica, con particolare riferimento alla sezione longitudinale degli elaborati di progetto, alla carenza delle quote nella planimetria generale, alla carenza di uno studio e di un’adeguata rappresentazione del progetto delle aree da destinare a verde;
e) della intervisibilità del sito con altre aree oggetto di tutela e, in ogni caso, del fatto che le opere assentite “sono tali da stravolgere la stessa identità dei luoghi, introducendo nell’ambito paesaggistico tutelato elementi di forte impatto, peraltro apprezzabili da numerosi punti di vista accessibili al pubblico (quali, ad esempio, la viabilità comunale e le alture circostanti)
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2013 n. 2410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggio multipiano e D.M. 1444/1968.
In merito alla computabilità ai fini volumetrici dei parcheggi non pertinenziali, la giurisprudenza si è espressa in senso positivo, giacché le autorimesse edificate fuori terra vanno qualificate come nuove costruzioni.
Non rileva che il parcheggio multipiano sia utile per la collettività in funzione dell’auspicato decongestionamento del traffico automobilistico della zona, perché una simile finalità è a ben vedere propria di qualunque tipo di struttura privata adibita a parcheggio di autovetture, indipendentemente dalle sue caratteristiche, anche quando utilizzabile in via temporanea da terzi, previo pagamento, nell’àmbito di un insediamento commerciale di interesse collettivo.
Il legislatore ha riservato un regime differenziato ai soli parcheggi c.d. “pertinenziali”, facendo soggiacere tutti gli altri alle comuni regole edilizio-urbanistiche delle nuove costruzioni, ivi compreso il rispetto della cubatura consentita per la zona territoriale di effettiva localizzazione dell’autorimessa (nella fattispecie zona B).
Non può neppure essere messa in dubbio l’immediata operatività del d.m. n. 1444 del 1968, trattandosi di normativa che costituisce fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici, con la conseguenza che le relative prescrizioni non sono derogabili dalle normative urbanistiche locali, per essere le prime in realtà norme imperative e di ordine pubblico, per cui in sede di redazione e revisione degli strumenti urbanistici i comuni sono obbligati a non discostarsi dalle regole ivi fissate, le quali prevalgono sulla disciplina locale eventualmente difforme e sono applicabili dal giudice in via sostitutiva.

Nel merito, il Collegio ritiene degna di favorevole considerazione, e assorbente di ogni altra doglianza, la censura incentrata sulla violazione dei limiti volumetrici di cui all’art. 7 del d.m. n. 1444 del 1968 (“…Zone B): … Qualora le previsioni di piano consentano trasformazioni per singoli edifici mediante demolizione e ricostruzione, non sono ammesse densità fondiarie superiori ai seguenti limiti: … 6 mc/mq per comuni tra 200 mila e 50 mila abitanti; … Sono ammesse densità superiori ai predetti limiti quando esse non eccedano il 70% delle densità preesistenti …”).
In questo senso la Sezione si era già espressa allorquando aveva annullato nel 1990 la concessione edilizia successivamente oggetto di rinnovo (“…il D.M. 02.04.1968 … stabilisce –in tema di limiti di densità edilizia per le diverse zone territoriali omogenee– che nelle zone B non sono ammesse densità fondiarie superiori al limite di 6 mc/mq. per comuni tra 200.000 e 50.000 abitanti (art. 7). Va osservato che sia il comune di Modena, sia la società controinteressata non contestano espressamente che, nel caso in esame, si abbia in concreto un superamento dei limiti volumetrici predetti … Va, d’altra parte, considerato che le autorimesse come quella in esame possono fors’anche configurarsi genericamente come infrastrutture, ma costituiscono essenzialmente e principalmente degli esercizi pubblici, per il loro carattere e natura ben diversi da quelli di normali parcheggi sulla pubblica via. La loro esclusione dai limiti volumetrici di densità fondiaria appare, dunque, difficilmente configurabile, non solo nella fattispecie in esame, ma anche in sede teorica …”).
La circostanza, poi, che quella pronuncia avesse ritenuto nella fattispecie superati i limiti di volumetria ammessi dalla legge rendeva sufficiente per i ricorrenti la mera riformulazione della censura, sicché non convince l’obiezione dell’Amministrazione secondo cui sarebbe mancata la puntuale e documentata indicazione dell’entità della cubatura eccedente la soglia consentita, spettando semmai all’ente locale, che detiene la relativa documentazione, fornire a questo punto la prova dell’erroneità dell’assunto; prova che, però, non è stata data, così venendo indirettamente confermata la correttezza, in punto di fatto, della doglianza, tanto più che nella memoria difensiva depositata il 28.03.2013 gli interessati hanno quantificato in 32.000 mc. la volumetria del fabbricato e in 23.000 mc. il limite desumibile dalla legge.
Quanto, ancora, alla computabilità ai fini volumetrici dei parcheggi non pertinenziali, la giurisprudenza si è espressa in senso positivo (v. TAR Friuli Venezia Giulia 12.06.2006 n. 426), giacché le autorimesse edificate fuori terra vanno qualificate come nuove costruzioni (v. Cons. Stato, Sez. IV, 17.05.2012 n. 2847 e 26.09. 2008 n. 4645).
D’altra parte, non rileva che il parcheggio multipiano oggetto della presente controversia sia utile per la collettività in funzione dell’auspicato decongestionamento del traffico automobilistico della zona, perché una simile finalità è a ben vedere propria di qualunque tipo di struttura privata adibita a parcheggio di autovetture, indipendentemente dalle sue caratteristiche –anche quando utilizzabile in via temporanea da terzi, previo pagamento, nell’àmbito di un insediamento commerciale di interesse collettivo–, e tuttavia il legislatore ha riservato un regime differenziato ai soli parcheggi c.d. “pertinenziali”, facendo soggiacere tutti gli altri alle comuni regole edilizio-urbanistiche delle nuove costruzioni, ivi compreso il rispetto della cubatura consentita per la zona territoriale di effettiva localizzazione dell’autorimessa (nella fattispecie zona B).
Non può neppure essere messa in dubbio l’immediata operatività del d.m. n. 1444 del 1968, trattandosi di normativa che costituisce fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici, con la conseguenza che le relative prescrizioni non sono derogabili dalle normative urbanistiche locali –per essere le prime in realtà norme imperative e di ordine pubblico–, per cui in sede di redazione e revisione degli strumenti urbanistici i comuni sono obbligati a non discostarsi dalle regole ivi fissate, le quali prevalgono sulla disciplina locale eventualmente difforme e sono applicabili dal giudice in via sostitutiva (v., ex multis, TAR Piemonte, Sez. I, 10.10.2008 n. 2565); il che, pertanto, consente di prescindere nel caso di specie dal nuovo strumento urbanistico del 1991, onde non osta all’accoglimento della domanda giudiziale il disposto dell’art. 81.6 delle n.t.a. (laddove, nell’àmbito delle «aree destinate a parcheggi», prevedendo che le “…superfici destinate al rimessaggio non concorrono al computo della superficie utile …”, possa intendersi, direttamente o indirettamente, derogatorio della disciplina di cui al d.m. n. 1444/1968), né una preclusione si rinviene nell’art. 101.112 delle n.t.a. (che, nell’àmbito della «zona elementare n. 443», autorizza sì la “…realizzazione per iniziativa privata di un parcheggio multipiano a servizio del centro storico e delle adiacenze …” ma senza indicazione della volumetria ammessa) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 02.05.2013 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo distacchi ex art. 9 DM 1444/1968.
Ai fini del calcolo della distanza ex art. 9 DM 1444/1968, non devono prendersi in considerazione elementi meramente decorativi e privi di rilievo volumetrico dell’edificio, quali gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronda e i loro sostegni.
Il gravame merita accoglimento, per le ragioni che seguono.
L’ordinanza (cfr. doc. 1 dei ricorrenti), richiama la documentazione prodotta dalle parti interessate e le risultanze del sopralluogo del 15.03.2012, per giustificare la circostanza dell’avvenuta edificazione a distanza inferiore a quella di cui all’art. 9 del DM 1444/1968.
In realtà, come agevolmente si desume dalla documentazione in atti (cfr. il doc. 10 dei ricorrenti), il tecnico degli esponenti, geom. L., ha effettuato due distinti rilievi ai fini del calcolo della distanza, entrambi peraltro con la medesima strumentazione topografica e tali rilevi hanno portato a due diverse misurazioni: 10,316 metri il primo rilievo del 12.10.2011 e 9,82 metri il secondo rilievo del 09.03.2012 (cfr. sul punto, anche i documenti n. 7 e n. 9 dei ricorrenti).
Il tecnico del sig. S., geom. U., dal canto suo, ha indicato al Comune una terza e differente misura (cfr. il doc. 7 del resistente).
Tale discrasia di misurazione, come ben spiegato dal tecnico degli esponenti nel già citato doc. 10 dei medesimi, si giustifica per il fatto che gli edifici di cui è causa non si fronteggiano direttamente, sicché il calcolo non riguarda la distanza fra due facciate parallele, bensì quella fra un punto/angolo della facciata dello stabile degli esponenti, proiettato su un piano inclinato, rappresentato dalla facciata dell’edificio del sig. S. (cfr. il già menzionato doc. 10, pag. 2).
Ciò premesso, è sufficiente un’inclinazione –anche se impercettibile– della facciata del fabbricato degli esponenti rispetto a quella del confinante, per determinare diversi valori di misurazione (sul punto, cfr. anche i documenti versati in giudizio dalla parte resistente ai numeri 4 e 5, che confermano come non si tratti della misura della distanza fra edifici paralleli).
Si aggiunga ancora, come del resto evidenziato al Comune dal legale dei ricorrenti nel corso del procedimento amministrativo, che ai fini del calcolo della distanza non devono prendersi in considerazione elementi meramente decorativi e privi di rilievo volumetrico dell’edificio, quali lesene od altro (cfr. i docc. 6 e 6a del Comune ed, in giurisprudenza, le sentenze del Consiglio di Stato, sez. IV, 17.05.2012, n. 2847 e sez. V, 02.11.2010, n. 7731, per la quale: <<Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronda e i loro sostegni>>; oltre a TAR Lombardia, sez. IV, 04.05.2011, n. 1174) e non risulta, da parte del Comune di Lambrugo, alcuna considerazione di tali elementi nel corso dell’attività istruttoria.
Di conseguenza, attesa l’oggettiva e non contestata difficoltà di un’esatta misurazione della distanza –viste le particolari caratteristiche dei luoghi– appare opportuno e non illogico che l’Amministrazione intimata possa attenersi ad una misura media, alla luce anche dell’esiguità della asserita violazione della distanza minima di dieci metri (9,82 metri anziché 10, con uno scaro di 18 centimetri) e tenuto conto dell’eventuale presenza di lesene o analoghi elementi architettonici.
Si badi che in questa sede non è certo in discussione l’orientamento costante della giurisprudenza amministrativa, al quale aderisce anche la scrivente Sezione, sulla assoluta inderogabilità della citata distanza di dieci metri di cui all’art. 9 del DM 1444/1968; ciò che invece rileva è il palese difetto di istruttoria ed il travisamento dei fatti in cui è incorso il Comune di Lambrugo all’atto della misurazione della distanza stessa.
Si conferma –pertanto– l’accoglimento del ricorso, con conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata n. 12/2012 (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.04.2013 n. 1124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dopo iniziali incertezze, è ormai opinione pacifica in giurisprudenza quella secondo la quale la denuncia di inizio attività, in quanto mero atto del privato, non costituisce titolo amministrativo: l’attività edilizia, realizzabile a seguito di denuncia, è attività completamente liberalizzata cui si correla un potere di controllo dell’Amministrazione, la quale può intervenire per inibirla o rimuoverne gli effetti qualora accerti il suo contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente.
Si distingue, in particolare, fra potere inibitorio, esercitabile nel breve termine previsto dalla legge, decorrente dal momento di presentazione della denunzia (il quale presuppone unicamente il mero accertamento della non compatibilità urbanistico–edilizia dell’intervento), e potere di “autotutela” che può essere invece esercitato senza limiti temporali prestabiliti (e che, come vedremo, presuppone accertamenti più complessi).
Si tratta in realtà di un potere di “autotutela” sui generis in quanto, come detto, non incidente su un precedente provvedimento amministrativo. Tale potere tuttavia condivide con il classico potere di autotutela le regole di disciplina sostanziali e procedurali; sicché il suo esercizio presuppone:
a) l’avvio di un nuovo procedimento e, di conseguenza, la comunicazione agli interessati dell’avviso di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990;
b) lo svolgimento di un’attività di comparazione fra interesse pubblico, volto alla ripristino dello status quo ante, e interesse del privato, teso invece a conservare l’intervento, al fine di stabilire se effettivamente il primo prevalga sul secondo (il potere non è dunque attivabile al mero fine di ripristinare la legalità violata).

Ciò premesso, si osserva che, dopo iniziali incertezze, è ormai opinione pacifica in giurisprudenza quella secondo la quale la denuncia di inizio attività, in quanto mero atto del privato, non costituisce titolo amministrativo: l’attività edilizia, realizzabile a seguito di denuncia, è attività completamente liberalizzata cui si correla un potere di controllo dell’Amministrazione, la quale può intervenire per inibirla o rimuoverne gli effetti qualora accerti il suo contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. 29.07.2011 n. 15).
Si distingue, in particolare, fra potere inibitorio, esercitabile nel breve termine previsto dalla legge, decorrente dal momento di presentazione della denunzia (il quale presuppone unicamente il mero accertamento della non compatibilità urbanistico–edilizia dell’intervento), e potere di “autotutela” che può essere invece esercitato senza limiti temporali prestabiliti (e che, come vedremo, presuppone accertamenti più complessi).
Si tratta in realtà di un potere di “autotutela” sui generis in quanto, come detto, non incidente su un precedente provvedimento amministrativo. Tale potere tuttavia condivide con il classico potere di autotutela le regole di disciplina sostanziali e procedurali; sicché il suo esercizio presuppone: a) l’avvio di un nuovo procedimento e, di conseguenza, la comunicazione agli interessati dell’avviso di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990; b) lo svolgimento di un’attività di comparazione fra interesse pubblico, volto alla ripristino dello status quo ante, e interesse del privato, teso invece a conservare l’intervento, al fine di stabilire se effettivamente il primo prevalga sul secondo (il potere non è dunque attivabile al mero fine di ripristinare la legalità violata).
Nel caso concreto, l’Autorità amministrativa, con il provvedimento del 29.03.2002 (recante “diniego della DIA”), ha nella sostanza esercitato il suddetto potere di autotutela: invero, il termine previsto per l’esercizio del potere inibitorio (all’epoca, in base all’art. 4, comma 11, del d.l. 05.10.1993 n. 398, convertito in legge 04.12.1993, n. 493, pari venti giorni) era ormai abbondantemente decorso.
Tale intervento, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte, non era precluso all’Autorità: la scadenza del termine entro il quale esercitare il potere inibitorio, come detto, non determina la completa consumazione del potere, residuando la possibilità di agire in autotutela; tuttavia, per le ragioni illustrate, il provvedimento avrebbe dovuto essere preceduto dall’avviso di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990, nonché dall’effettuazione dell’attività di comparazione fra interesse pubblico ed interesse privato di cui sopra si è fatto cenno
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.04.2013 n. 892 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decadenza ex art. 15, comma 2, del d.P.R. 380/2001.
Per impedire la decadenza di cui all’art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 è necessario che gli interventi intrapresi denotino l’effettiva volontà di realizzare l’opera assentita.
In particolare sono ritenuti idonei ad impedire la decadenza quegli interventi che presuppongono una effettiva installazione di un cantiere, è cioè una significativa concentrazione di uomini e mezzi sul luogo delle lavorazioni.
Non possono invece considerarsi rilevanti i lavori consistenti in meri sbancamenti, sondaggi, recinzioni dell’area di cantiere ecc..

75. Per completezza il Collegio deve dare atto che lavorazioni compiute sono idonee ad impedire la decadenza di cui all’art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001.
76. Al riguardo va rilevato, infatti, che secondo la giurisprudenza, per evitare facili elusioni, è necessario che gli interventi intrapresi denotino l’effettiva volontà di realizzare l’opera assentita. In particolare sono ritenuti idonei ad impedire la decadenza quegli interventi che presuppongono una effettiva installazione di un cantiere, è cioè una significativa concentrazione di uomini e mezzi sul luogo delle lavorazioni (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 18.06.2008 n. 3030). Non possono invece considerarsi rilevanti i lavori consistenti in meri sbancamenti, sondaggi, recinzioni dell’area di cantiere ecc. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 08.03.2007 n. 372).
77. Nel caso concreto, come detto, le opere realizzate in data 05.10.2010 consistono nella demolizione delle pareti interne dell’immobile oggetto dell’intervento assentito.
78. Ritiene, pertanto, il Collegio che tali opere siano idonee a dimostrare l’effettiva volontà della controinteressata a dare inizio ai lavori assentiti, considerato che, nonostante l’esiguo lasso di tempo a disposizione (in data 07.10.2010 è infatti intervenuto il decreto presidenziale che ha sospeso gli effetti del permesso di costruire), esse hanno comunque entità significativa; e che le stesse presuppongono una effettiva installazione di un cantiere con concentrazione di uomini e mezzi rapportati alle opere stesse
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.04.2013 n. 847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 10, comma primo, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, sono considerati interventi di ristrutturazione edilizia anche quegli interventi che determinano modifiche del volume o della sagoma dell’edificio sul quale sono realizzati (cd. “ristrutturazione pesante”).
Gli artt. 3, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 380/2001 e 27, comma primo, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12 (nella formulazione risultante in esito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011) stabiliscono invece che, nel caso in cui si proceda alla completa demolizione e ricostruzione del preesistente fabbricato, è necessario mantenere inalterata sagoma e volume.
Queste ultime disposizioni, tuttavia, in base al loro chiaro tenore letterale, si applicano solo quando si procede alla radicale demolizione del fabbricato preesistente ed alla conseguente ricostruzione del medesimo; se al contrario non vi è completa demolizione, trova applicazione la regola generale, contenuta nel citato art. 10 il quale, come visto, ammette la possibilità di modifiche di sagoma.

24. In base all’art. 10, comma primo, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, sono considerati interventi di ristrutturazione edilizia anche quegli interventi che determinano modifiche del volume o della sagoma dell’edificio sul quale sono realizzati (cd. “ristrutturazione pesante”).
25. Gli artt. 3, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 380/2001 e 27, comma primo, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12 (nella formulazione risultante in esito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011) stabiliscono invece che, nel caso in cui si proceda alla completa demolizione e ricostruzione del preesistente fabbricato, è necessario mantenere inalterata sagoma e volume.
26. Queste ultime disposizioni, tuttavia, in base al loro chiaro tenore letterale, si applicano solo quando si procede alla radicale demolizione del fabbricato preesistente ed alla conseguente ricostruzione del medesimo (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 09.06.2009 n. 3939); se al contrario non vi è completa demolizione, trova applicazione la regola generale, contenuta nel citato art. 10 il quale, come visto, ammette la possibilità di modifiche di sagoma.
27. Nel caso concreto è del tutto pacifico che l’intervento assentito con il titolo impugnato non comporta la radicale demolizione del fabbricato che ne costituisce oggetto (l’opera consiste nella realizzazione di un sopralzo sull’edificio preesistente di m. 2,60); ne consegue che il limite di identità di sagoma non è nella fattispecie operante
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.04.2013 n. 847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il giudizio tecnico-discrezionale circa la compatibilità paesaggistico-ambientale di un intervento edilizio costituisce espressione di una scelta di merito formulata dall’autorità amministrativa; scelta che il giudice amministrativo non può sindacare se non nei limiti del vizio dell’eccesso di potere, riscontrabile quando vi sia un errato apprezzamento della situazione fattuale ovvero quando le valutazioni effettuate siano macroscopicamente illogiche o contraddittorie.
41. Con il terzo motivo, si deduce l’illogicità dei pareri rilasciati dalla Commissione edilizia comunale integrata dall’esperto in materia paesaggistica, evidenziandosi che il fabbricato oggetto dell’intervento assentito è sottoposto a vincolo paesistico e che lo stesso intervento presenta caratteristiche che lo renderebbero incompatibile con il suddetto vincolo.
42. In proposito si osserva che il giudizio tecnico-discrezionale circa la compatibilità paesaggistico-ambientale di un intervento edilizio costituisce espressione di una scelta di merito formulata dall’autorità amministrativa; scelta che il giudice amministrativo non può sindacare se non nei limiti del vizio dell’eccesso di potere, riscontrabile quando vi sia un errato apprezzamento della situazione fattuale ovvero quando le valutazioni effettuate siano macroscopicamente illogiche o contraddittorie (cfr. TAR Cagliari Sardegna sez. II, 13.07.2010 n. 1863).
43. Nel caso concreto, non sono rilevabili palesi irrazionalità di ragionamento; né risulta che l’Autorità preposta al rilascio del parere paesistico-ambientale sia incorsa in errori evidenti nell’apprezzamento della situazione di fatto.
44. I ricorrenti sostengono, invero, come anticipato, che l’intervento assentito sarebbe in contrasto con il contesto paesistico della zona (in particolare lamentano il forte impatto delle vetrate che si intendono realizzare); ma in tal modo, lungi dal mettere in risalto contraddizioni o illogicità di ragionamento, pretendono, in maniera del tutto inammissibile, di sostituire le proprie valutazioni a quelle formulate dall’Autorità preposta che ha diversamente apprezzato l’impatto dell’intervento.
45. Anche la doglianza in esame non può quindi trovare accoglimento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.04.2013 n. 847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli aspetti riguardanti la sostenibilità statica dell’intervento e le cautele da adottare all’atto di manomissioni di manufatti in amianto, non costituiscono profili valutabili in sede di rilascio del titolo edilizio, il quale presuppone esclusivamente, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, la conformità dell’intervento alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e, più in generale, della disciplina urbanistico–edilizia vigente.
Invero:
- le disposizioni contenute nel d.m. 14.01.2008, non impongono l’allegazione di uno studio di fattibilità, che certifichi la sostenibilità statica dell’intervento, all’istanza di rilascio del permesso di costruire.
I controlli di idoneità statica vanno invero compiuti in una fase successiva a quella di rilascio del permesso di costruire e, precisamente, in fase di rilascio del certificato di agibilità che, ai sensi dell’art. 25, comma primo, del d.P.R. n. 380/2001, deve attestare, fra l’altro, la sussistenza delle condizioni di sicurezza dell’edificio, valutate secondo quanto disposto dalla vigente normativa. Per ciò che concerne poi in particolare le opere composte da strutture in cemento armato, come quelle di cui è causa, è previsto, dall’art. 25, comma 3, lett. b), dello stesso d.P.R. n. 380/2001, che il certificato di agibilità venga rilasciato solo previo esperimento di collaudo statico, effettuato ai sensi dell’art. 67 del d.P.R. n. 380/2001; e che, comunque (cfr. art. 65 del d.P.R. n. 380/2001), prima dell’inizio lavori, venga depositata presso lo sportello unico comunale una denuncia cui va allegata una relazione, firmata dal progettista incaricato, nella quale vengano riportati i calcoli che attestino l’idoneità statica dell’intervento;
- nessuna disposizione impone di allegare all’istanza di rilascio del titolo edilizio un piano di smaltimento dei materiali in fibrocemento; fermo restando ovviamente il potere delle competenti autorità di verificare il rispetto, in fase esecutiva, delle vigenti disposizioni in materia.

46. Con il quarto motivo, che sarà esaminato congiuntamente al quinto, viene dedotta la violazione dell’art. 8 del d.m. 14.01.2008, in quanto il progetto assentito non sarebbe corredato da adeguato studio di fattibilità che certifichi la sostenibilità statica dell’intervento.
47. Con il quinto motivo viene dedotto eccesso di potere per violazione del Piano Regionale Amianto Lombardia (PRAL), approvato con DGR 22.12.2005 n. VIII/1526, in quanto l’intervento assentito comporterebbe la manomissione di canne fumarie realizzate in fibrocemento (eternit), senza che siano state previste le misure di bonifica necessarie per scongiurare pericoli per la salute umana.
48. In proposito va osservato che, come messo in luce in sede cautelare, gli aspetti riguardanti la sostenibilità statica dell’intervento e le cautele da adottare all’atto di manomissioni di manufatti in amianto, non costituiscono profili valutabili in sede di rilascio del titolo edilizio, il quale presuppone esclusivamente, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, la conformità dell’intervento alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e, più in generale, della disciplina urbanistico–edilizia vigente (cfr. TAR Sardegna, 30.12.1999 n. 1685)
49. In particolare, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, le disposizioni contenute nel d.m. 14.01.2008, non impongono l’allegazione di uno studio di fattibilità, che certifichi la sostenibilità statica dell’intervento, all’istanza di rilascio del permesso di costruire.
50. I controlli di idoneità statica vanno invero compiuti in una fase successiva a quella di rilascio del permesso di costruire e, precisamente, in fase di rilascio del certificato di agibilità che, ai sensi dell’art. 25, comma primo, del d.P.R. n. 380/2001, deve attestare, fra l’altro, la sussistenza delle condizioni di sicurezza dell’edificio, valutate secondo quanto disposto dalla vigente normativa. Per ciò che concerne poi in particolare le opere composte da strutture in cemento armato, come quelle di cui è causa, è previsto, dall’art. 25, comma 3, lett. b), dello stesso d.P.R. n. 380/2001, che il certificato di agibilità venga rilasciato solo previo esperimento di collaudo statico, effettuato ai sensi dell’art. 67 del d.P.R. n. 380/2001; e che, comunque (cfr. art. 65 del d.P.R. n. 380/2001), prima dell’inizio lavori, venga depositata presso lo sportello unico comunale una denuncia cui va allegata una relazione, firmata dal progettista incaricato, nella quale vengano riportati i calcoli che attestino l’idoneità statica dell’intervento (Nel caso concreto queste prescrizioni sono state peraltro rispettate, avendo la controinteressata depositato presso gli uffici comunali, in data 4 ottobre 2010, e quindi prima dell’inizio lavori, la suddetta denuncia, nella quale viene attestata, dal progettista incaricato, l’idoneità statica del realizzando intervento, anche con riferimento ai riflessi sulla struttura sottostante).
51. Allo stesso modo, nessuna disposizione impone di allegare all’istanza di rilascio del titolo edilizio un piano di smaltimento dei materiali in fibrocemento; fermo restando ovviamente il potere delle competenti autorità di verificare il rispetto, in fase esecutiva, delle vigenti disposizioni in materia.
52. Anche il quarto ed il quinto motivo sono quindi infondati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.04.2013 n. 847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accertamento conformità ex art. 36 del d.P.R. 380/2001 relativo soltanto ad una parte degli interventi.
Non è possibile ottenere un accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, relativo soltanto ad una parte degli interventi, essendo al contrario necessaria una valutazione complessiva dell’opera abusivamente realizzata che, per essere sanata, deve essere integralmente compatibile con la disciplina urbanistica.
Il motivo è infondato.
Va invero rilevato che l’istanza di sanatoria presentata dalla ricorrente è stata rigettata in quanto il Comune ha ritenuto che la stessa non si fosse limitata a realizzare un muro (di altezza superiore a quello che in precedenza divideva le due proprietà); ma abbia altresì provveduto a mutare la quota del terreno di sua proprietà innalzandola rispetto a quella precedente.
L’abuso edilizio, dunque, non si limita, secondo la prospettazione di parte resistente, alla realizzazione del muro, ma si sostanzia anche nella predetta opera di riempimento che ha determinato un innalzamento della quota del terreno contenuto dal muro stesso.
Ciò precisato va evidenziato che, per la prevalente giurisprudenza, non è possibile ottenere un accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. 06.06.2001 n. 380, relativo soltanto ad una parte degli interventi; essendo al contrario necessaria una valutazione complessiva dell’opera abusivamente realizzata che, per essere sanata, deve essere integralmente compatibile con la disciplina urbanistica (cfr. ex multis Cass. pen. sez. III, 18.02.2009 n. 6910).
Da quanto sopra discende che, una volta che il Comune ha constato un abuso consistente in un’opera complessa (innalzamento del terreno e realizzazione di un muro di contenimento), correttamente ha negato la sanatoria rilevando che la relativa istanza aveva ad oggetto solo una parte dell’intervento (l’innalzamento del muro) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2013 n. 840 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 20.08.2014

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla mancata rivalutazione annuale, in base ai coefficienti Istat, delle tariffe stabilite per la cd. “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistici.
Quanto all'elemento soggettivo della “gravità” della colpa, esso è senz'altro ravvisabile in capo all'arch. N., nella sua qualità di Responsabile del Servizio Programmazione Territoriale Urbanistica – Ambiente, la quale ha seguito i procedimenti in questione, in ogni loro fase.
Si tratta, infatti, comunque si voglia ricostruire la vicenda in punto di diritto, della commissione di un errore grossolano, non scusabile, essendo stati in definitiva monetizzati degli standard urbanistici, senza alcuna spiegazione valida, sulla base di valori nominali di mercato risalenti al 1992, di cui era peraltro espressamente prevista la rivalutazione annuale.

Delle due l'una: o la delibera n. 45 del 1992 era applicabile, per cui la rivalutazione non poteva essere omessa neppure da un impiegato di minima diligenza o la delibera n. 45 del 1992 non era applicabile, per cui l'individuazione del valore di mercato per le aree da monetizzare avrebbe dovuto avvenire con motivati e trasparenti criteri oggettivi di stima, secondo ragionevolezza, non potendosi certamente far riferimento arbitrario a valori storici del 1992.
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Le stesse considerazioni valgono per l'Assessore T. il quale, pur sostenendo (o avendo il dubbio, o dovendo avere il dubbio, per tutti i motivi da lui stesso esposti nelle proprie difese) che la delibera n. 45 del 1992 non fosse applicabile ai PEC in giudizio, non si domandò mai il perché essa fosse espressamente richiamata in pressoché tutte le bozze di convenzioni sottoposte all'approvazione del Consiglio comunale, né si pose mai il problema di quale criterio si dovesse utilizzare per monetizzare aree diverse da quelle prese in considerazione dalla delibera in parola (cioè diverse dalla A1, A2 e B1).
Si noti che, per quanto l'operazione di rivalutazione degli importi fissati nel 1992 fosse relativamente semplice (di qui la gravità della colpa per averla del tutto trascurata), la problematica generale della “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistico non poteva certo rappresentare un aspetto marginale della materia urbanistica per il Comune.
La deroga agli standard urbanistici dovrebbe costituire, invero, ipotesi a carattere eccezionale e residuale, da affrontare con la dovuta cautela ed attenzione; la relativa monetizzazione, comportando al contempo un interesse non solo urbanistico, ma anche finanziario per l'ente, costituisce un aspetto assai delicato del quale un assessore all'urbanistica, almeno negli aspetti generali, non può disinteressarsi, schermandosi dietro la responsabilità esclusiva del livello tecnico-dirigenziale.

Non è infatti pensabile né accettabile che in un Comune come Arquata Scrivia l'Assessore competente, pur constandogli conclamate lacune normative (con i connessi profili di incertezza) su un argomento di portata generale e di particolare interesse pubblico, qual è quello della monetizzazione, trascuri di affrontare il problema e di assumere ogni iniziativa a garanzia del buon andamento dell'ente amministrato.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri la contestuale qualità di presidente o membro della Commissione Edilizia comunale rivestita dall'Assessore medesimo.
Non giova all'assessore, nel caso di specie, l’esimente “politica” di cui all’art. 1, co. 1-ter, della legge 14.01.1994, n. 20 (ai sensi del quale “nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione”), non tanto perché, essendo qui in contestazione l'omesso adeguamento delle tariffe di monetizzazione alla svalutazione monetaria (o l'omessa predisposizione di tariffe), non v'è a monte un “atto” cui l'organo politico si sia adeguato, quanto perché il compito di dare compiuta disciplina alla materia non può considerarsi competenza esclusiva degli uffici tecnici o amministrativi. Infine, cade opportuno ricordare che la buona fede dell'interessato per essere esimente deve essere ovviamente incolpevole, cioè non deve derivare da un difetto d'esame delle questioni sottopostegli.
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Né è persuasiva la lettura delle norme del t.u.e.l. proposta dal convenuto, ove si tenga anche a mente che:
- ai sensi dell'art. 48 la giunta collabora nel governo dell'ente con il sindaco, il quale è responsabile della relativa amministrazione (art. 50);
- ai sensi dell'art. art 77 gli assessori rientrano nella nozione di “amministratore locale” e ai sensi dell'art. 78, comma 3, i componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato (a dimostrazione non solo della intrinseca delicatezza delle materia in questione, da sempre oggetto di grande attenzione da parte della collettività in quanto crocevia di rilevanti interessi economici e ambientali, privati e pubblici, ma anche del ruolo centrale che gli assessori rivestono nelle suddette materie, dalle quali non possono affatto ritenersi estranei);
- ai sensi dell'art. 107, agli amministratori dell'ente competono i poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo, mentre ai dirigenti compete la relativa attuazione, compresa l'adozione dei “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie” (nella specie, la materia della monetizzazione degli standard, almeno per le aree diverse dalle A1, A2 e B1 e per interventi non commerciali, è rimasta priva di atti generali di indirizzo, malgrado tutte le problematiche normative e applicative ben descritte in atti dallo stesso assessore T.);
- ai sensi dell'art. 93 la responsabilità patrimoniale dinanzi alla Corte dei conti può essere fatta valere tanto nei confronti degli amministratori, quanto del personale degli enti locali, secondo la disciplina prevista per gli impiegati civili dello Stato.

Infine,
non giova ai convenuti neppure il principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, a fronte di fattispecie manifestamente irragionevoli e pregiudizievoli per l'ente amministrato (per quanto fin qui esposto).
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Non è invece ravvisabile, in radice, l'elemento psicologico della colpa grave in capo al Sindaco M. dalla quale, nella sua qualità di organo di vertice dell'amministrazione comunale, non poteva pretendersi una minuziosa verifica dell'operato di tutti gli uffici comunali e di tutti i propri assessori, tanto più in un settore a connotazione tecnica cui erano preposti un assessore e un Responsabile di un Servizio.
Deve cioè considerarsi come errore “fisologico”, in linea di principio, ai fini della responsabilità amministrativo-contabile, quello commesso da un Sindaco che, in buona fede, abbia fatto affidamento sulla correttezza dell'operato degli Uffici comunali e dell'attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta su di essi del proprio assessore, competente per materia.

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1. La Procura Regionale ha citato in giudizio dinanzi a questa Corte i signori M., T. e N. (nella loro rispettiva qualità di Sindaco, di Assessore all'Urbanistica, di Responsabile del Servizio di Programmazione Territoriale Urbanistica ed Ambiente del Comune di Arquata Scrivia, all'epoca dei fatti in contestazione) contestandogli l'erronea applicazione delle tariffe stabilite per la c.d. “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistici e chiedendone quindi la condanna al risarcimento in favore dell'ente locale della somma di euro 193.360,24, oltre spese ed accessori.
In particolare, nella citazione si riferisce che:
- con nota del 15.01.2009 l’Assessore all’Urbanistica del Comune di Omissis (AL) segnalava il danno procurato alle finanze dell’Ente dalla precedente amministrazione a causa della mancata rivalutazione annuale, in base ai coefficienti Istat, delle tariffe stabilite per la cd. “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistici;
- il Comune di Omissis aveva, infatti, previsto nel proprio Piano Regolatore valori di dotazione minima di aree per standard conformi alla normativa regionale, disciplinando minuziosamente (artt. 14 e ss. del Titolo IV delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G.C.) la possibilità per l’amministrazione di acconsentire alla monetizzazione;
- con deliberazione consiliare del 21.07.1992, n. 45, il Comune di Omissis aveva determinato il valore del corrispettivo in denaro da porre a carico del privato promotore del Piano Esecutivo Convenzionato (P.E.C.) in caso di monetizzazione delle aree destinate a parcheggio, quantificando le tariffe in lire 400.000 fino a 15 mq e in lire 40.000 per ogni mq eccedente i 15;
- al punto 2, lettera f), di quest'ultima deliberazione era stabilito l’obbligo di adeguamento annuale delle tariffe “sulla base della svalutazione risultante dai dati ISTAT”;
- l’amministrazione comunale, invece, non aveva mai provveduto all’adeguamento, fino alla determinazione del Responsabile del Servizio Urbanistica n. 04-URB del 31.03.2008;
- pertanto, per tutti i P.E.C. precedentemente approvati erano state applicate le tariffe fissate dalla citata deliberazione n. 45/1992 senza operare la rivalutazione;
- in particolare, con riferimento ai P.E.C. denominati “Omissis”, “Omissis”, “F.I.M.”, “Omissis”, variante “Omissis”, era stata applicata la tariffa di € 20,66 (equivalenti alle 40.000 lire fissate dalla predetta deliberazione);
- relativamente al P.E.C. approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 37 del 30.09.2005, denominato “Centro intermodale integrato – Omissis” (area a destinazione produttiva), poi, era stata applicata una tariffa addirittura inferiore, pari a € 13,00 al mq.;
- peraltro, le tariffe di monetizzazione di cui alla deliberazione n. 45/1992 erano applicabili anche alle aree produttive, giusta le precisazioni fornite al CO.RE.CO. in data 06.08.1992, che costituiscono parte integrante della deliberazione medesima (… per la determinazione del corrispettivo relativo alla monetizzazione delle aree a parcheggio sono stati presi in considerazione i valori di mercato delle aree residenziali e produttive stabilendo, di conseguenza, un valore ritenuto congruo per dette aree...); inoltre, nello schema di convenzione del P.E.C. “Omissis” il soggetto attuatore si obbligava all’art. 5 “a monetizzare le aree di standard di cui non è prevista la cessione al Comune al prezzo stabilito dalle vigenti delibere in materia nel Comune di Omissis”, cioè con la citata delibera n. 45/1992;
- analoga questione si era posta inizialmente anche per la vendita di un terreno alla Società A. (fattispecie per la quale, peraltro, la Procura attrice non ha poi mosso contestazioni nell'atto di citazione, in adesione all'eccezione di prescrizione sollevata dai presunti responsabili nelle deduzioni difensive in fase pre-processuale);
- il mancato adeguamento delle tariffe ha causato al Comune un danno pari a € 193.360,24 (da suddividersi, salvo migliore valutazione della Sezione, in parti uguali tra i convenuti), oltre accessori e spese di giustizia;
- agli effetti degli artt. 1219 e 2943 c.c. il P.M. aveva costituito in mora i presunti responsabili con lettere raccomandate del 27.10.2010; all'interruzione della prescrizione aveva provveduto anche il Sindaco di Omissis con atti ricevuti il 29.10.2010 dalla signora M., il 30.10.2010 dalla signora N. e il 03.11.2010 dal signor T.;
- ai fini della prescrizione, il momento di decorrenza va individuato nella data di pagamento degli oneri di “monetizzazione” e non nella data di approvazione delle bozze di convenzione da parte del Consiglio Comunale;
- costituisce un’omissione gravemente colposa, da parte di coloro che avevano il dovere di eseguire la citata delibera C.C. n. 45/92, il mancato adeguamento alla svalutazione monetaria dei valori per la monetizzazione in discorso; infatti, nel comportamento omissivo la gravità della colpa discende dalla consapevolezza dell’omissione di un’attività doverosa e, nella specie, va tenuto in considerazione che la citata delibera n. 45/92 non era certo di difficile interpretazione o applicazione e che la sua esecuzione non presentava alcuna difficoltà, risolvendosi in un calcolo di semplicità elementare;
- il Sindaco, signora M., ai sensi dell’art. 50 del t.u.e.l., benché titolare degli atti di indirizzo politico e tenuta a rispettare l’autonomia dirigenziale, aveva comunque l’onere di un costante e diligente controllo sul buon andamento degli uffici comunali;
- l’Assessore con delega all’Urbanistica, signor T., il quale partecipava ratione materiae degli stessi poteri e delle responsabilità del Sindaco, non ha adottato gli opportuni provvedimenti per l’attuazione delle disposizioni riguardanti il suo specifico settore;
- il Responsabile del settore Urbanistica, signora N., che ha sottoscritto tutte le convenzioni, in quanto organo “tecnico”, non poteva ignorare l’obbligo dell’adeguamento periodico; a lei, in primis, competeva il dovere di operare la rivalutazione, ai sensi degli artt. 107 e ss. del t.u.e.l., non certo al Consiglio comunale o alle Commissioni consiliari (non essendovi nulla da deliberare, ma solo da applicare la rivalutazione, la quale è operazione automatica e prettamente tecnica);
- sotto altro profilo, non poteva configurarsi né la “tacita abrogazione” della delibera n. 45/1992, né una integrazione o modifica della stessa da parte delle convenzioni successivamente stipulate con i privati per i singoli P.E.C.;
- l'interpretazione difensiva che afferma l'applicabilità delle tariffe di monetizzazione fissate con la delibera n. 45/1992 alle sole aree residenziali a capacità insediativa esaurita e aree di insediamento storico, con riguardo agli interventi di tipo commerciale, quindi l'inapplicabilità alle aree interessate dai P.E.C. in contestazione, ad avviso del P.M. contrasta con il fatto incontestabile che la delibera, nelle convenzioni stesse, era stata espressamente richiamata ed applicata (ma senza rivalutazione);
- ai fini del requisito della “attualità” del danno in contestazione il Pubblico Ministero non condivide la tesi difensiva secondo cui l’Amministrazione sarebbe ancora in grado di adeguare i corrispettivi e di recuperare le somme dovute per rivalutazione, non essendo ancora maturata la prescrizione; ciò perché, ad avviso della Procura, il danno derivante dalla mancata acquisizione di entrate deve ritenersi attuale anche nelle ipotesi in cui sia possibile o addirittura in corso un’attività di recupero, per tacere del fatto che la prospettata possibilità di recupero dei maggiori oneri di monetizzazione da parte del Comune parrebbe alquanto dubbia.
...
V. Venendo al merito, la questione cruciale dell'intero giudizio si incentra sulla necessità o meno di applicare, ai fini della determinazione dell'importo con cui monetizzare gli standard delle aree a parcheggio, in contestazione, la tariffa stabilita con la citata deliberazione consiliare n. 45 del luglio 1992. Su questa problematica di fondo si innestano le ulteriori questioni relative alla possibilità di applicare comunque la tariffa in discorso ma senza rivalutazione annuale Istat, nonché alle modalità di computo dell'adeguamento stesso.
Al riguardo, le tesi difensive non appaiono fino in fondo convincenti.
In disparte le marginali contraddizioni che, comunque, traspaiono in diversi passaggi delle difese stesse (nella misura in cui parrebbero affermare che il PRGC all'epoca vigente non prevedesse, e quindi verosimilmente neppure consentisse, la monetizzazione degli standard per le aree su cui insistono i PEC in discussione, in quanto diverse dalle aree B1, A1 e A2 destinate a interventi di tipo commerciale, le sole per le quali sarebbe stata per l'appunto prevista la monetizzazione), resta il fatto che le convenzioni “Omissis” e “La Omissis”, qui in esame, hanno fatto espresso richiamo alla citata deliberazione n. 45 del 1992, senza alcuna riserva o distinguo, dunque nella sua interezza.
Nello specifico, al di là delle giustificazioni fornite ex post dai convenuti, non può ignorarsi che:
- per il PEC “Omissis”, l'art. 5 della convenzione, dopo aver previsto che il proponente si impegnava a monetizzare le aree a standard per mq. 547 stabiliva testualmente che “si richiama la delibera della Giunta Comunale n. 45 del 21.07.1992 al fine della quantificazione matematica degli stessi” e che “di conseguenza la monetizzazione delle aree a standard urbanistici è così quantificata (...): mq. 547 x € 20,66 = € 11.301,00”;
- per la variante “La Omissis”, l'art. 4 al par. 4 stabiliva testualmente che “il valore delle aree oggetto di monetizzazione è determinato in euro 41.200,00 pari a euro 20,66 al mq (come da delibera C.C. n. 45 del 21.07.1992)”.
Un caso a se stante è costituito dal PEC “Omissis”, il cui art. 5 prevedeva che “il soggetto attuatore, nei limiti quantitativi previsti dal PEC, si obbliga a monetizzare le aree di standard di cui non è prevista la cessione al Comune al prezzo stabilito dalle vigenti delibere in materia nel Comune di Omissis”: su questo aspetto si tornerà tra breve.
Il rinvio puro e semplice alla delibera n. 45 del 1992 (che era comunque l'unica esistente “in materia”), senza precisare che il richiamo doveva intendersi ad una sola parte della delibera stessa (cioè alla fissazione originaria del valore nominale di monetizzazione) e quindi senza esclusione della previsione applicativa che sanciva la necessità di rivalutare annualmente il valore originario, corrobora l'assunto della Procura, secondo cui la disquisizione sulla applicabilità o meno della delibera n. 45 del 1992 risulta superata, di fatto, dall'avvenuta applicazione della stessa (sebbene incompleta).
Ad ogni modo,
per scrupolo di motivazione, va osservato che ove si volesse ipotizzare, con le difese dei convenuti, che la delibera n. 45 del 1992 non fosse applicabile alle convenzioni in questione (perché riguardante aree ed interventi diversi da quelli previsti in convenzione), ancor meno comprensibile sarebbe il ragionamento per cui, nell'ambito asseritamente rientrante nelle proprie scelte discrezionali, l'ente locale avrebbe deciso di monetizzare gli standard in base al valore “storico” indicato nella suddetta delibera, ritenuta inapplicabile (valore calcolato prendendo in considerazione “i valori di mercato delle aree residenziali e produttive stabilendo, di conseguenza, un valore ritenuto congruo per dette aree (…) tenuto conto del costo di esecuzione delle opere che dovrebbero essere realizzate in aree già urbanizzate; v. nota 9471 del 1992, in risposta alla richiesta di chiarimenti del Co.Re.Co.) anziché in base al valore di mercato corrente tra il 2005 e il 2006 o, comunque, a quello nominale del 1992 attualizzato alla data dei singoli PEC, secondo il criterio applicativo espressamente fissato dalla stessa delibera n. 45 del 1992 (art. 2, lett. f) e ritenuto corretto dalla Procura.
In particolare,
anche ove si volesse ammettere che le aree in questione fossero effettivamente monetizzabili e che il relativo corrispettivo potesse essere liberamente pattuito tra il privato proponente e l'ente locale, nella propria discrezionalità ma in misura non inferiore al costo di acquisizione di aree idonee a soddisfare il rispetto dello standard, nella specie non è dato rinvenire agli atti di causa alcun elemento oggettivo (salvo il semplice rinvio alla delibera del 1992) del procedimento logico di fissazione del corrispettivo stesso; per contro, appare del tutto irragionevole far riferimento scientemente a valori di mercato e a costi di realizzazione delle opere rilevati nel 1992 (non essendo verosimile e non essendo stato infatti documentato che nel periodo 1992-2005 vi sia stata una flessione dei suddetti valori di mercato e dei costi di realizzazione delle opere tale da compensare il tasso di inflazione).
Neppure per il PEC “Omissis” è stato in alcun modo esplicitato il criterio logico che ha condotto a fissare il corrispettivo della monetizzazione in euro 13, né le difese non sono state in grado di spiegare a quali delibere del Comune vigenti “in materia” di monetizzazione e fissazione del relativo prezzo avesse voluto far riferimento la convenzione (posto che esisteva solo la delibera n. 45 del 1992 ma che la stessa, secondo la tesi difensiva, non poteva applicarsi all'area del “Omissis”; il rinvio della convenzione, quindi, sarebbe un rinvio “a vuoto” inserito quale clausola di mero stile, sicché il costo di monetizzazione di fatto non era fissato nella convenzione, ma restava rimesso a successivi atti discrezionali).
Ne consegue che, stando agli atti, l'invocata discrezionalità amministrativa si è rivelata, nel suo concreto esercizio, in contrasto con i criteri elementari di ragionevolezza, trasparenza e imparzialità dell'azione amministrativa (come se il Comune avesse venduto un proprio terreno sulla base di una stima di valore fatta tredici anni prima). La supposta mancanza di una deliberazione applicabile alle operazioni in parola (cioè la mancanza di una tariffa comunale prestabilita) imponeva, semmai, un'istruttoria ancor più rigorosa e ben motivata, volta a determinare il congruo corrispettivo di monetizzazione sulla base di elementi oggettivi ed uniformi (quali non possono considerarsi, ragionevolmente, i valori e i costi di mercato rilevati nel 1992 e successivamente mai aggiornati).
Questa Corte, dunque, soppesati tutti gli argomenti contenuti negli atti di causa, è pervenuta al convincimento che
il Responsabile del Servizio competente e l'Assessore all'Urbanistica (sul punto, v. infra), ove realmente avessero rilevato o dubitato che non esisteva nessuna delibera comunale e nessun criterio prefissato ed oggettivo di determinazione dei valori di monetizzazione, per le aree non ricomprese nella precedente delibera n. 45 del 1992, avrebbero dovuto in ogni caso farsi carico del problema, che non era certo di poco conto, promuovendo l'adozione di una nuova delibera che regolasse la materia o comunque assicurando una istruttoria adeguata per individuare il prezzo congruo di monetizzazione per i PEC in corso di approvazione, sulla base di stime aggiornate.
VI. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, ritiene la Sezione che il danno per il Comune di Arquata Scrivia sia stato correttamente commisurato alla (omessa) rivalutazione del prezzo di “monetizzazione” fissato nel luglio 1992 (non essendovi state contestazioni né sull'indice applicato, né sul periodo di rivalutazione preso in considerazione dalla Procura, come esplicitati in citazione). Si tratta di una stima prudenziale ed equa, basata sulla constatazione, in fatto, dell'avvenuto richiamo alla delibera n. 45 del 1992 (cioè alla sola delibera comunale esistente “in materia”) operato nelle convenzioni stesse; quest'ultima delibera costituisce quindi, in mancanza di altre stime svolte all'epoca dei fatti, un parametro equo ed attendibile di liquidazione del differenziale di introito negativo per il Comune.
Il danno non difetta del requisito di certezza ed attualità, in quanto i minori incassi per il Comune sono stati pattuiti in convenzioni già perfezionatesi, eseguite e giuridicamente vincolanti per le parti (salvo future eventuali azioni da parte del Comune nei confronti delle controparti private, peraltro con esito che non è possibile prevedere con certezza in questa sede).
VII. Quanto all'elemento soggettivo della “gravità” della colpa, esso è senz'altro ravvisabile in capo all'arch. N., nella sua qualità di Responsabile del Servizio Programmazione Territoriale Urbanistica – Ambiente, la quale ha seguito i procedimenti in questione, in ogni loro fase. Si tratta, infatti, comunque si voglia ricostruire la vicenda in punto di diritto, della commissione di un errore grossolano, non scusabile, essendo stati in definitiva monetizzati degli standard urbanistici, senza alcuna spiegazione valida, sulla base di valori nominali di mercato risalenti al 1992, di cui era peraltro espressamente prevista la rivalutazione annuale.
Delle due l'una: o la delibera n. 45 del 1992 era applicabile, per cui la rivalutazione non poteva essere omessa neppure da un impiegato di minima diligenza o la delibera n. 45 del 1992 non era applicabile, per cui l'individuazione del valore di mercato per le aree da monetizzare avrebbe dovuto avvenire con motivati e trasparenti criteri oggettivi di stima, secondo ragionevolezza, non potendosi certamente far riferimento arbitrario a valori storici del 1992 (per i PEC “Omissis” e “Omissis”) o al valore di 13,00 euro per mq (per il PEC “Omissis”).
VIII. Le stesse considerazioni valgono per l'Assessore T. il quale, pur sostenendo (o avendo il dubbio, o dovendo avere il dubbio, per tutti i motivi da lui stesso esposti nelle proprie difese) che la delibera n. 45 del 1992 non fosse applicabile ai PEC in giudizio, non si domandò mai il perché essa fosse espressamente richiamata in pressoché tutte le bozze di convenzioni sottoposte all'approvazione del Consiglio comunale, né si pose mai il problema di quale criterio si dovesse utilizzare per monetizzare aree diverse da quelle prese in considerazione dalla delibera in parola (cioè diverse dalla A1, A2 e B1).
Si noti che, per quanto l'operazione di rivalutazione degli importi fissati nel 1992 fosse relativamente semplice (di qui la gravità della colpa per averla del tutto trascurata), la problematica generale della “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistico non poteva certo rappresentare un aspetto marginale della materia urbanistica per il Comune. La deroga agli standard urbanistici dovrebbe costituire, invero, ipotesi a carattere eccezionale e residuale, da affrontare con la dovuta cautela ed attenzione; la relativa monetizzazione, comportando al contempo un interesse non solo urbanistico, ma anche finanziario per l'ente, costituisce un aspetto assai delicato del quale un assessore all'urbanistica, almeno negli aspetti generali, non può disinteressarsi, schermandosi dietro la responsabilità esclusiva del livello tecnico-dirigenziale.
Non è infatti pensabile né accettabile che in un Comune come Arquata Scrivia l'Assessore competente, pur constandogli conclamate lacune normative (con i connessi profili di incertezza) su un argomento di portata generale e di particolare interesse pubblico, qual è quello della monetizzazione, trascuri di affrontare il problema e di assumere ogni iniziativa a garanzia del buon andamento dell'ente amministrato.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri la contestuale qualità di presidente o membro della Commissione Edilizia comunale rivestita dall'Assessore medesimo.
Non giova all'assessore, nel caso di specie, l’esimente “politica” di cui all’art. 1, co. 1-ter, della legge 14.01.1994, n. 20 (ai sensi del quale “nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione”), non tanto perché, essendo qui in contestazione l'omesso adeguamento delle tariffe di monetizzazione alla svalutazione monetaria (o l'omessa predisposizione di tariffe), non v'è a monte un “atto” cui l'organo politico si sia adeguato, quanto perché il compito di dare compiuta disciplina alla materia non può considerarsi competenza esclusiva degli uffici tecnici o amministrativi. Infine, cade opportuno ricordare che la buona fede dell'interessato per essere esimente deve essere ovviamente incolpevole, cioè non deve derivare da un difetto d'esame delle questioni sottopostegli.
Né è persuasiva la lettura delle norme del t.u.e.l. proposta dal convenuto, ove si tenga anche a mente che:
- ai sensi dell'art. 48 la giunta collabora nel governo dell'ente con il sindaco, il quale è responsabile della relativa amministrazione (art. 50);
- ai sensi dell'art. art 77 gli assessori rientrano nella nozione di “amministratore locale” e ai sensi dell'art. 78, comma 3, i componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato (a dimostrazione non solo della intrinseca delicatezza delle materia in questione, da sempre oggetto di grande attenzione da parte della collettività in quanto crocevia di rilevanti interessi economici e ambientali, privati e pubblici, ma anche del ruolo centrale che gli assessori rivestono nelle suddette materie, dalle quali non possono affatto ritenersi estranei);
- ai sensi dell'art. 107, agli amministratori dell'ente competono i poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo, mentre ai dirigenti compete la relativa attuazione, compresa l'adozione dei “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie” (nella specie, la materia della monetizzazione degli standard, almeno per le aree diverse dalle A1, A2 e B1 e per interventi non commerciali, è rimasta priva di atti generali di indirizzo, malgrado tutte le problematiche normative e applicative ben descritte in atti dallo stesso assessore T.);
- ai sensi dell'art. 93 la responsabilità patrimoniale dinanzi alla Corte dei conti può essere fatta valere tanto nei confronti degli amministratori, quanto del personale degli enti locali, secondo la disciplina prevista per gli impiegati civili dello Stato.

Infine,
non giova ai convenuti neppure il principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, a fronte di fattispecie manifestamente irragionevoli e pregiudizievoli per l'ente amministrato (per quanto fin qui esposto).
IX. Ad avviso di questi Giudici non è invece ravvisabile, in radice, l'elemento psicologico della colpa grave in capo al Sindaco M. dalla quale, nella sua qualità di organo di vertice dell'amministrazione comunale, non poteva pretendersi una minuziosa verifica dell'operato di tutti gli uffici comunali e di tutti i propri assessori, tanto più in un settore a connotazione tecnica cui erano preposti un assessore e un Responsabile di un Servizio. Deve cioè considerarsi come errore “fisologico”, in linea di principio, ai fini della responsabilità amministrativo-contabile, quello commesso da un Sindaco che, in buona fede, abbia fatto affidamento sulla correttezza dell'operato degli Uffici comunali e dell'attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta su di essi del proprio assessore, competente per materia: nella specie, va considerato non grave l'errore del Sindaco per aver confidato nell'applicabilità della delibera n. 45 del 1992 a tutte le “monetizzazioni” di standard urbanistici e nella correttezza della liquidazione dell'importo dovuto ad opera del Servizio competente, in mancanza di elementi di segno opposto segnalati dai soggetti preposti al settore o comunque venuti a conoscenza del Sindaco medesimo.
X. In conclusione, il danno in giudizio (liquidabile in complessivi euro 145.593,69 essendo prescritte le poste relative ai Pec “Omissis” e “Omissis”) va addebitato a titolo di responsabilità amministrativa ai signori T. e N..
Meritano peraltro accoglimento le domande subordinate di ampia riduzione equitativa dell'addebito, considerata l'entità del danno, la natura non dolosa della fattispecie e l'insieme di tutte le circostanze oggettive e soggettive descritte in atti le quali, se non valgono ad escludere la responsabilità, comunque possono essere prese in considerazione ai fini dell'esercizio del potere in parola. Si ritiene, perciò, di poter limitare l'addebito all'importo complessivo di euro 95.000,00 (pari a poco meno del 60% del danno, debitamente aumentato di rivalutazione Istat).
L'addebito va ripartito tra i signori T. e N., in ragione del contributo causale riferibile a ciascuno di essi, secondo le quote rispettive del 40% e del 60%, per un totale di euro 38.000,00 (trentottomila/00) a carico del signor T. e di euro 57.000,00 (cinquantasettemila) a carico della signora N..
Sulla somma di condanna spettano gli interessi legali dalla data della sentenza al saldo (Corte dei Conti, Sez. giursdiz. Piemonte, sentenza 16.04.2012 n. 56).

     Dobbiamo precisare che il caso de quo (basato sull'applicazione -o meno- di una deliberazione consiliare "datata" e sulla mancata rivalutazione ISTAT del valore stabilito nella medesima) non riguarda, almeno, la Lombardia laddove in materia di monetizzazione delle aree a standard la norma regionale è chiara.
     Infatti, l'art. 46, comma 1, lett. a) della l.r. 12/2005 così recita:

Art. 46. (Convenzione dei piani attuativi)
1. La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l'acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica;

     Quindi, qualora si dovesse procedere con la monetizzazione -in luogo della cessione- si deve sempre e comunque procedere a redigere idonea perizia di stima per il caso di specie e non utilizzare un importo di monetizzazione deliberato dal Consiglio Comunale che vale per l'intero territorio comunale.
     Tra l'altro, quest'ultima illegittima prassi era stata più volte censurata dal CO.RE.CO. (Comitato Regionale di Controllo) già in illo tempore prima che il legislatore statale prevedesse la sua soppressione (
Previsti dalla legge 10.02.1953 n. 62 (cosiddetta Legge Scelba) in attuazione dell'art. 130 della Costituzione, i CO.RE.CO. iniziarono ad operare solo nel 1971, quando fu attuato l'ordinamento regionale. Sono stati aboliti per effetto della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, che ha riformato il Titolo V della Costituzione. La legge costituzionale, in realtà, non ha soppresso espressamente i CO.RE.CO. ma si è limitata ad abrogare l'art. 130 Cost. che ne prevedeva l'istituzione, il che aveva fatto sorgere dubbi circa la possibilità per le regioni di mantenerli comunque in vita; in ogni caso tutte le regioni hanno scelto di sopprimerli - commento tratto da http://it.wikipedia.org).
      Purtroppo, dobbiamo constatare che qualche U.T.C. -ancora oggi- opera con la deliberazione di C.C. anziché procedere a periziare di volta in volta: problemi loro, "faranno i conti" -presto o tardi che sia- dinanzi al Procuratore regionale della Corte dei Conti ... e non foss'altro, quanto meno, per rendere giustizia a quei pubblici dipendenti che, con immane fatica quotidiana mettendoci la faccia, si spendono generosamente nell'operare "secondo legge" e senza cercare facili e discutibili scorciatoie, magari, per ingraziarsi gli Amministratori locali e/o i dirigenti ....
20.08.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

 

IN EVIDENZA

Per cosa si può spendere il cospicuo gruzzolo accantonato in banca su un capitolo vincolato, anno dopo anno, e costituito dalla monetizzazione delle aree a standard??

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALa monetizzazione costituisce un’ obbligazione alternativa alla cessione da parte dei privati di aree che potrebbero risultare non utili ai fini dell’interesse pubblico.
Pertanto
tale entrata non può che essere classificata, secondo quanto previsto dal DPR 31.01.1996, n. 194, al titolo IV –Entrate derivanti da alienazioni, da trasferimenti di capitale e da riscossione di crediti– e, come tale, essere destinata al finanziamento di spese di investimento, ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1, lett. a), della legge regionale 11.03.2005, n. 12 alla realizzazione degli interventi previsti nel Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese correnti costituirebbe un manifesto depauperamento del patrimonio comunale, configurando un evidente pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’Ente Locale.
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Con nota n. 5416 del 16/12/2005 pervenuta a questa Sezione regionale di controllo il 20.12.2005 il sindaco del Comune di Castel Rozzone, dopo aver premesso che con l’entrata in vigore del TU in materia di edilizia approvato con DPR 06.06.2001 n. 380 è venuto meno il vincolo di destinazione dei proventi derivanti da contributi di costruzione, ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di considerare estensibile tale liberalizzazione anche ai proventi derivanti dalle monetizzazioni (compensazioni per la mancata cessione da parte dei privati di aree da destinare per attrezzature pubbliche e di interesse generale previste nei piani dei servizi) e cioè di poter attribuire alla piena discrezionalità dell’Amministrazione Comunale l’utilizzo di detti proventi che potranno essere, quindi, destinati al finanziamento di investimenti ovvero alla manutenzione del patrimonio comunale.
...
Questa Sezione con la richiamata deliberazione n. 1 del 04.11.2004 ha già avuto modo di pronunciarsi circa l’avvenuta cessazione del vincolo di destinazione delle entrate provenienti dai contributi di costruzione in conseguenza dell’entrata in vigore del DPR 380/2001.
Va peraltro segnalato che la normativa vigente all’atto dell’adozione della citata deliberazione è stata successivamente modificata dall’art. 1, comma 43, della legge 30.12.2004 n. 311 che ha posto un nuovo limite alla destinazione dei contributi di costruzione al finanziamento della spesa corrente fissato al 75% per l’anno 2005 e al 50% per il 2006.
Occorre tuttavia osservare che mentre il contributo di costruzione risulta un provento connesso al rilascio del permesso di costruire commisurato, secondo quanto disposto dall’art. 16 DPR 380/01, a tariffe determinate dal Consiglio Comunale i proventi della monetizzazione trovano fondamento nelle convenzioni che consentono a soggetti privati obbligati a cedere la proprietà di aree a favore dei Comuni di corrispondere, in alternativa totale o parziale, una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non superiore al costo di acquisto di altre aree avente analoghe caratteristiche.
La monetizzazione costituisce un’ obbligazione alternativa alla cessione da parte dei privati di aree che potrebbero risultare non utili ai fini dell’interesse pubblico.
Pertanto
tale entrata non può che essere classificata, secondo quanto previsto dal DPR 31.01.1996, n. 194, al titolo IV –Entrate derivanti da alienazioni, da trasferimenti di capitale e da riscossione di crediti– e, come tale, essere destinata al finanziamento di spese di investimento, ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1, lett. a), della legge regionale 11.03.2005, n. 12 alla realizzazione degli interventi previsti nel Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese correnti costituirebbe un manifesto depauperamento del patrimonio comunale, configurando un evidente pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’Ente Locale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 26.06.2006 n. 6).

     Il parere sopra riportato (per aver cercato a destra e a manca nel web) parrebbe essere l'unico -ad oggi- rilasciato dalle varie Sezioni di controllo della Corte dei Conti e, quindi, vale come oro in termini di corretto espletamento dell'azione amministrativa se non si vuole rischiare col proprio portafoglio ...
     Ma vediamo di ricostruire il punto saliente della questione.
     In Lombardia, circa l'utilizzo delle somme incassate a titolo di monetizzazione delle aree a standard la norma di riferimento è l'art. 46, comma 1, lett. a), della L.R. n. 12/2005 il quale così dispone:

Art. 46. (Convenzione dei piani attuativi)
1. La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l'acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica;

     Quindi, la destinazione di tali somme parrebbe essere vincolata per le spese sopra menzionate e non altro. Tuttavia, non sempre è possibile spendere in toto le somme de quibus con tale destinazione e, pertanto, non è infrequente che sul relativo capitolo vincolato di bilancio, anno dopo anno, si accumuli un bel gruzzolo (di fatto infruttifero).
     Ebbene, la Corte dei Conti lombarda, con il suddetto parere, afferma che tali somme possono essere utilizzate anche per finanziare le spese di investimento:
ma cosa sono quest'ultime??
     Per trovare una definizione legislativa delle
spese di investimento bisogna ricercare la Legge 24.12.2003 n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004) laddove all'art. 3, comma 18, così recita:

18.   Ai   fini   di  cui  all'articolo  119,  sesto  comma,  della Costituzione, costituiscono investimenti:
   a)   l'acquisto,   la   costruzione,  la  ristrutturazione  e  la manutenzione straordinaria di beni immobili, costituiti da fabbricati sia residenziali che non residenziali;
   b)  la  costruzione,  la  demolizione,  la  ristrutturazione,  il recupero e la manutenzione straordinaria di opere e impianti;
   c)    l'acquisto    di    impianti,    macchinari,   attrezzature tecnico-scientifiche,  mezzi  di  trasporto  e  altri  beni mobili ad utilizzo pluriennale;
   d) gli oneri per beni immateriali ad utilizzo pluriennale;
   e) l'acquisizione di aree, espropri e servitù onerose;
   f)  le partecipazioni azionarie e i conferimenti di capitale, nei limiti  della  facoltà  di  partecipazione  concessa ai singoli enti mutuatari dai rispettivi ordinamenti;
   g)  i  trasferimenti  in  conto capitale destinati specificamente alla  realizzazione  degli  investimenti  a  cura di un altro ente od organismo appartenente al settore delle pubbliche amministrazioni;
   h)  i  trasferimenti  in  conto  capitale  in  favore di soggetti concessionari  di  lavori  pubblici  o  di  proprietari  o gestori di impianti, di reti o di dotazioni funzionali all'erogazione di servizi pubblici   o  di  soggetti  che  erogano  servizi  pubblici,  le  cui concessioni  o contratti di servizio prevedono la retrocessione degli investimenti   agli   enti  committenti  alla  loro  scadenza,  anche anticipata.  In  tale  fattispecie rientra l'intervento finanziario a
favore  del  concessionario  di cui al comma 2 dell'articolo 19 della legge 11.02.1994, n. 109;
   i)  gli  interventi  contenuti  in  programmi generali relativi a piani  urbanistici  attuativi,  esecutivi,  dichiarati  di preminente interesse  regionale  aventi  finalità  pubblica volti al recupero e alla valorizzazione del territorio.

QUINDI??

     Quindi, in questi tempi di "magra" dove le casse comunali sono sempre più vuote e la crisi economico-finanziaria sembra aver mai fine, attingere dal capitolo vincolato delle somme incassate quali monetizzazione delle aree a standard può essere addirittura vitale, laddove un bilancio annuale di previsione "asfittico" non consente di realizzare quelle pur minime opere ordinarie di manutenzione del patrimonio immobiliare.
    
Attenzione però: in primis, come già sopra detto, la destinazione di tali somme è quella di cui all'art. 46, comma 1, lett. a), della L.R. n. 12/2005 laddove necessariamente ogni anno, in fase di redazione del programma triennale delle opere pubbliche, bisognerà stilare l'elenco delle opere pubbliche da realizzare con relativo fabbisogno economico.
     Solo laddove, paradossalmente, il piano triennale delle oo.pp. prevedesse poco o nulla allora in questo caso il cospicuo gruzzolo (infruttifero) depositato in banca potrà essere utilizzato per finanziare, come già ricordato, le spese di investimento.
     E' scontato ma lo vogliamo comunque ricordare:
ovviamente, alla base di tutto ci deve essere una "robusta" motivazione dell'atto amministrativo che spieghi, nel dettaglio, perché tali somme non vengono utilizzate per la loro primaria destinazione ma, al contrario, per finanziare le spese di investimento.
20.08.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

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PUBBLICO IMPIEGO: Edilizia, controlli senza indennità. GEOMETRI/ Sentenza Consiglio di stato.
Il geometra dell'ufficio tecnico che svolge controlli edilizi non può pretendere l'erogazione dell'indennità di vigilanza che compete solo al personale inserito nell'area della polizia locale.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 17.07.2014 n. 3799.
Un Comune aveva riconosciuto ai propri dipendenti dell'ufficio edilizia-urbanistica l'indennità di vigilanza in relazione ai controlli svolti sul territorio ma il Tar aveva annullato questa determinazione e il Consiglio di stato ha confermato il rigetto. L'indennità di vigilanza prevista dal dpr 268/1987 spetta solo al personale inserito nell'area polizia urbana, specifica il collegio. In buona sostanza lo svolgimento di mansioni ispettive in materia edilizia da parte dei dipendenti dell'ufficio tecnico comunale non comporta il riconoscimento dell'indennità di vigilanza, prosegue la sentenza.
Questo emolumento è infatti riservato ai dipendenti degli enti locali che svolgono funzioni di controllo a tempo pieno come i vigili urbani, inseriti organicamente nell'area vigilanza. L'esercizio di una attività di controllo da parte di un dipendente comunale non determina di per sé un inserimento automatico del soggetto nell'area in questione, conclude la sentenza.
In buona sostanza essere investiti sporadicamente di una qualifica di polizia giudiziaria non è sufficiente per inquadrare il soggetto nell'area vigilanza e riconoscergli la relativa indennità
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2014).
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La rigorosa definizione del campo di applicazione dell’indennità di vigilanza di cui agli artt. 26 d.P.R. n. 347/1983 e 34 d.P.R. n. 268/1987, che è stata espressa da questa Sezione con le decisioni n. 1200/1996 e n. 1579/1997, cui il primo Giudice si è puntualmente uniformato, ha trovato conferma nelle articolate motivazioni delle successive pronunce della Sez. IV 08.07.2003, n. 4038, e 22.09.2003, n. 5368.
E la giurisprudenza dei TT.AA.RR., orientata in senso conforme a tale prevalente indirizzo, ha coerentemente escluso la spettanza dell’emolumento ai dipendenti degli uffici tecnici comunali che pure esplicassero attività di vigilanza in materia edilizia.
Invero, l’art. 26, comma 4, lett. f), del d.P.R. n. 347/1983 attribuisce l’indennità in questione “al personale di vigilanza (urbana, ittica, venatoria, sanitaria, silvo-pastorale, annonaria etc.) nonché ai vigili stradali delle province, inquadrati nella quinta qualifica funzionale”.
Come le due decisioni da ultimo citate hanno confermato, però, questa previsione, attribuendo tale indennità al personale di vigilanza (sia questa urbana, ittica, venatoria, sanitaria, silvo-pastorale, annonaria), non ha certamente inteso così attribuire un elemento accessorio allo stipendio dei dipendenti degli enti locali connesso in via generale ed astratta all'esercizio materiale di compiti di vigilanza, bensì introdurre un trattamento riservato soltanto a determinati e formali profili professionali di inquadramento, aventi ad oggetto “puntuale, prevalente ed univoco” proprio siffatta prestazione di controllo, che di quei determinati profili deve pertanto costituire elemento qualificante ed essenziale.
Orbene, siffatta condizione non è ravvisabile per il personale degli uffici tecnici comunali, che svolge funzioni complesse ed eterogenee. E, del resto, anche nell’All. A) del d.P.R. n. 347/1983 l’area tecnico-progettuale è tenuta distinta da quella di vigilanza.
Ancora più chiaro è poi il dettato dell’art. 34, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 268/1987, che accorda l’indennità a “tutto il personale dell'area di vigilanza in possesso dei requisiti e per l'esercizio delle funzioni di cui agli articoli 5 e 10 della legge 07.03.1986, n. 65”.
Con questa norma, ed il successivo art. 45 del d.P.R. n. 333/1990, si è passati dalla generica dizione di “personale di vigilanza” al riferimento ad una c.d. “area di vigilanza”, concetto che individua, nel contesto della disciplina posta dagli accordi collettivi di lavoro del comparto degli enti locali, uno dei settori in cui specificamente si articola l'ordinamento del personale di tali enti.
Ciò comporta che l'esercizio, da parte di un dipendente, di un’attività di controllo non determina, di per sé, un suo automatico inserimento nell'area di vigilanza.
L’indennità di cui si tratta compete, inoltre, solamente al personale che nell'area di vigilanza sia ricompreso, oltre a versare in possesso dei requisiti di cui agli artt. 5 e 10 della legge n. 65 del 1986.
Il precedente giurisprudenziale da ultimo richiamato ha perciò condivisibilmente escluso che ai fini in discussione sia determinante l’ascrivibilità –anche qui rivendicata- della qualifica di agente di polizia giudiziaria.
“Lo schema funzionale-retributivo risultante dal quadro normativo e contrattuale del personale degli enti locali individua, infatti, le qualifiche funzionali di appartenenza di detto personale con riferimento alle aree di attività; sì che, come s'è detto, una determinata figura professionale è inserita in una determinata area proprio perché la funzione tipica e qualificante della figura risulta essere propria di quell'area (nella fattispecie, quella di vigilanza).
Invece, il meccanismo di attribuzione della qualifica di agente (o ufficiale) di polizia giudiziaria esula del tutto dal veduto schema e dalla stessa materia del rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti locali, trattandosi di una "investitura", che consente soltanto di configurare le attività in concreto esercitate (anche in via accessoria e residuale) da un determinato soggetto come attività di polizia giudiziaria.
… L'esercizio, insomma, di funzioni di polizia giudiziaria da parte di chi rivesta a tal fine la qualità di agente (od ufficiale) di polizia giudiziaria non vale di per sé, ai fini che ne occupano, a far rientrare il personale stesso nell'"area di vigilanza”.

L’appello è infondato.
1. Forma oggetto di controversia la spettanza all’appellante, dipendente del Comune di San Vito con la qualifica di geometra in servizio presso il Settore “servizi tecnici – patrimonio – edilizia – urbanistica”, e nelle more del giudizio divenuto responsabile dell’Ufficio Tecnico, dell’indennità di vigilanza prevista dall'art. 26, comma quarto, lettera f), del d.P.R. n. 347/1983, ed in seguito dall'art. 34, lettera a), del d.P.R. n. 268/1987.
La voce retributiva era stata riconosciuta dall’Amministrazione, ma la relativa deliberazione aveva formato oggetto di annullamento tutorio.
Il provvedimento di controllo impugnato era sorretto dalla seguente motivazione. L'Amministrazione comunale aveva ritenuto erroneamente, ed in violazione del citato art. 34, lettera a), d.P.R. n. 268/1987, che “le indennità previste dalla stessa norma a favore del personale di vigilanza possano estendersi a dipendenti che seppure svolgono funzioni di polizia siano organicamente inseriti in diversa area funzionale quale quella tecnica.
Non appare infatti condivisibile la determinazione adottata dall'Ente atteso che la formulazione letterale della norma invocata è tale da rendere inequivocabile il fatto che il beneficio di che trattasi non sia estensibile al personale svolgente funzioni spesso sporadiche e limitate, connesse al solo “esercizio” di vigilanza ed appartenente ad aree diverse da quella di vigilanza
”.
2. Il primo Giudice ha ritenuto corretta la censura dell’organo tutorio, osservando che l’interpretazione delle norme di riferimento da questo seguita aveva trovato conferma presso la giurisprudenza amministrativa.
In particolare, il TAR ha ricordato che secondo quest’ultima “l'indennità di vigilanza prevista dall'art. 26 D.P.R. 25.06.1983 n. 347 spetta esclusivamente ai dipendenti degli Enti locali appartenenti alla quinta qualifica funzionale che appartengano all'«area di vigilanza»” (C.d.S., Sez. V, n. 1200 del 07.10.1996), e, inoltre, che “l'individuazione dei destinatari dell'indennità di vigilanza prevista dall'art. 34 lett. a) D.P.R. 13.05.1987 n. 268 è definita dalla norma citata in modo chiaro ed univoco (appartenenti all'area della vigilanza e della polizia urbana)” (Sez. V, n. 1579 del 18.12.1997).
Il Tribunale ha precisato, inoltre, che lo svolgimento di mansioni ispettive e di controllo in materia edilizia da parte del personale addetto agli uffici tecnici comunali non comporta il riconoscimento dell'indennità di vigilanza, la quale spetta esclusivamente al personale compreso nell'area di vigilanza in possesso dei requisiti di cui agli artt. 5 e 10 L. 07.03.1986 n. 65.
3. Con il presente appello l’interpretazione testé esposta viene contestata.
Nel riferirsi alla previsione dell’art. 26 d.P.R. n. 347/1983, l’appellante assume che le forme di vigilanza ivi considerate avrebbero carattere solo esemplificativo. Inoltre, si fa notare che nell’All. A) di tale decreto sarebbero ricomprese, nella parte relativa alle aree di vigilanza locale, anche le attività di polizia locale solo genericamente considerate, e cioè tutte le forme di polizia amministrativa, tra le quali non potrebbe quindi non rientrare anche quella edilizia. Ciò in quanto gli ispettori edili svolgono un’attività di vigilanza vera e propria, che l’appellante, d’altra parte, non avrebbe disimpegnato solo sporadicamente, come affermato dal Co.Re.Co., bensì in modo continuativo.
La formale appartenenza degli ispettori edili ad un’area (quella tecnico-progettuale) diversa da quella della vigilanza non sarebbe perciò rilevante ai fini di causa.
Quanto alla previsione dell'art. 34, lett. a), d.P.R. 13.05.1987 n. 268, questa avrebbe correlato l’indennità di cui si tratta all’esercizio della vigilanza da parte di chiunque vi sia chiamato.
Viene ricordato, inoltre, che ai fini della spettanza dell’emolumento occorre che accanto alle relative funzioni istituzionali figuri anche il disimpegno di funzioni di polizia di sicurezza, stradale o giudiziaria. Si precisa infine che svariate norme dell’ordinamento demandano ai tecnici degli enti locali funzioni di agenti di polizia giudiziaria, facendoli così rientrare nello spettro dell’art. 5 del d.P.R. n. 65/1986 (richiamato appunto dall’art. 34 d.P.R. n. 268/1987).
La lettura patrocinata dall’appellante troverebbe conferma nel precedente di questa Sezione 12.11.2003, n. 7232, con il quale l’indirizzo seguito dal primo Giudice sarebbe stato superato.
4. Queste argomentazioni non sono persuasive.
La rigorosa definizione del campo di applicazione dell’indennità di vigilanza di cui agli artt. 26 d.P.R. n. 347/1983 e 34 d.P.R. n. 268/1987, che è stata espressa da questa Sezione con le decisioni n. 1200/1996 e n. 1579/1997, cui il primo Giudice si è puntualmente uniformato, ha trovato conferma nelle articolate motivazioni delle successive pronunce della Sez. IV 08.07.2003, n. 4038, e 22.09.2003, n. 5368. E la giurisprudenza dei TT.AA.RR., orientata in senso conforme a tale prevalente indirizzo, ha coerentemente escluso la spettanza dell’emolumento ai dipendenti degli uffici tecnici comunali che pure esplicassero attività di vigilanza in materia edilizia (cfr. ad es. TAR Marche, 13.06.2011, n. 476, e TAR Basilicata, 16.12.2008, n. 953, recanti ulteriori citazioni).
4a. Invero, l’art. 26, comma 4, lett. f), del d.P.R. n. 347/1983 attribuisce l’indennità in questione “al personale di vigilanza (urbana, ittica, venatoria, sanitaria, silvo-pastorale, annonaria etc.) nonché ai vigili stradali delle province, inquadrati nella quinta qualifica funzionale”.
Come le due decisioni da ultimo citate hanno confermato, però, questa previsione, attribuendo tale indennità al personale di vigilanza (sia questa urbana, ittica, venatoria, sanitaria, silvo-pastorale, annonaria), non ha certamente inteso così attribuire un elemento accessorio allo stipendio dei dipendenti degli enti locali connesso in via generale ed astratta all'esercizio materiale di compiti di vigilanza, bensì introdurre un trattamento riservato soltanto a determinati e formali profili professionali di inquadramento, aventi ad oggetto “puntuale, prevalente ed univoco” proprio siffatta prestazione di controllo, che di quei determinati profili deve pertanto costituire elemento qualificante ed essenziale.
Orbene, siffatta condizione non è ravvisabile per il personale degli uffici tecnici comunali, che svolge funzioni complesse ed eterogenee. E, del resto, anche nell’All. A) del d.P.R. n. 347/1983 l’area tecnico-progettuale è tenuta distinta da quella di vigilanza.
4b. Ancora più chiaro è poi il dettato dell’art. 34, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 268/1987, che accorda l’indennità a “tutto il personale dell'area di vigilanza in possesso dei requisiti e per l'esercizio delle funzioni di cui agli articoli 5 e 10 della legge 07.03.1986, n. 65”.
Con questa norma, ed il successivo art. 45 del d.P.R. n. 333/1990, si è passati dalla generica dizione di “personale di vigilanza” al riferimento ad una c.d. “area di vigilanza”, concetto che individua, nel contesto della disciplina posta dagli accordi collettivi di lavoro del comparto degli enti locali, uno dei settori in cui specificamente si articola l'ordinamento del personale di tali enti.
Ciò comporta che l'esercizio, da parte di un dipendente, di un’attività di controllo non determina, di per sé, un suo automatico inserimento nell'area di vigilanza (Sez. IV, n. 4038/2003).
L’indennità di cui si tratta compete, inoltre, solamente al personale che nell'area di vigilanza sia ricompreso, oltre a versare in possesso dei requisiti di cui agli artt. 5 e 10 della legge n. 65 del 1986.
Il precedente giurisprudenziale da ultimo richiamato ha perciò condivisibilmente escluso che ai fini in discussione sia determinante l’ascrivibilità –anche qui rivendicata- della qualifica di agente di polizia giudiziaria.
Lo schema funzionale-retributivo risultante dal quadro normativo e contrattuale del personale degli enti locali individua, infatti, le qualifiche funzionali di appartenenza di detto personale con riferimento alle aree di attività; sì che, come s'è detto, una determinata figura professionale è inserita in una determinata area proprio perché la funzione tipica e qualificante della figura risulta essere propria di quell'area (nella fattispecie, quella di vigilanza).
Invece, il meccanismo di attribuzione della qualifica di agente (o ufficiale) di polizia giudiziaria esula del tutto dal veduto schema e dalla stessa materia del rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti locali, trattandosi di una "investitura", che consente soltanto di configurare le attività in concreto esercitate (anche in via accessoria e residuale) da un determinato soggetto come attività di polizia giudiziaria.
… L'esercizio, insomma, di funzioni di polizia giudiziaria da parte di chi rivesta a tal fine la qualità di agente (od ufficiale) di polizia giudiziaria non vale di per sé, ai fini che ne occupano, a far rientrare il personale stesso nell'"area di vigilanza
” (sentenza n. 4038/2003 cit.).
Sicché la pretesa di parte appellante si rivela infondata anche nel quadro del d.P.R. n. 268/1987.

EDILIZIA PRIVATA: Apertura pareti finestrate.
L'apertura di pareti finestrate sul prospetto di un edificio necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si tratta d'intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore".
Quanto al secondo motivo, con cui la difesa censura l'impugnata sentenza per aver ritenuto penalmente rilevante la realizzazione delle luci sulla parete, la Corte d'Appello ha chiarito che ciò aveva determinato una modifica del prospetto, sicché era necessario il permesso di costruire o, in alternativa la c.d. SuperDIA, con conseguente rilevanza penale del fatto (v. Sez. 3, n. 9894 del 20.01.2009 - dep. 05.03.2009, Tarallo, Rv. 243099).
Sul punto, peraltro, deve rilevarsi che, nel caso in esame, l'intervento riguardava la realizzazione di pareti finestrate, ciò che comportava, in ogni caso, la modifica dei prospetti; per "pareti finestrate", infatti, ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi non (soltanto) le pareti munite di "vedute" ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008, n. 2565; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Ne discende, conclusivamente, che l'apertura di pareti finestrate sul prospetto di un edificio necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si tratta d'intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore".
Infatti, il permesso di costruire è richiesto, per il disposto dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia (pur a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 30, comma 1, lett. c), legge n. 98 del 2013) per le ristrutturazioni che comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici (ovvero si riconnettano a mutamenti di destinazione d'uso limitatamente agli immobili comprese nelle zone omogenee A).
Può, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto:
«L'apertura di pareti finestrate sul prospetto di un edificio necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si tratta d'intervento comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore"» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.07.2014 n. 30575 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pur persistendo il potere della Soprintendenza di pronunciarsi oltre il termine dei 45 giorni, il decorso di quest’ultimo periodo di tempo impedisce alla Soprintendenza di emanare un parere vincolante in grado di condizionare la decisione dell’Amministrazione comunale che, in quanto tale, dovrà comunque pronunciarsi a prescindere dall’eventuale portata del potere tardivo.
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Le valutazioni espresse dalla Soprintendenza hanno natura tecnica e, in quanto tali, sono sindacabili esclusivamente se, riscontrata l'esistenza di una figura sintomatica dell'eccesso di potere, si dimostra la violazione del principio di ragionevolezza tecnica. Non è, pertanto, sufficiente la mera opinabilità delle scelte effettuate.
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L'eccepita insistenza di precedenti costruzioni non può servire, di per sé, ad escludere il grave pregiudizio paesaggistico prodotto nell'area vincolata dalla costruzione censurata, a fronte di una puntuale motivazione addotta a sostegno del parere negativo espresso dalla Soprintendenza, la cui discrezionalità, in materia, non può contestarsi attraverso generiche invocazioni di compatibilità fondate sull'asserita vetustà della costruzione, ovvero sulla presenza di precedenti costruzioni.

2. Ciò premesso è possibile esaminare l’eccezione di nullità proposta nell’ultima memoria presentata dalla parte ricorrente.
Con riferimento a detta ultima censura ne va sancita, sin d’ora, la sua infondatezza e, ciò, sia in quanto proposta avverso il parere del 23/01/2013 (impugnativa peraltro ora dichiarata improcedibile) sia, ancora, in quanto riferita al preavviso di rigetto del 06/09/2013 (provvedimento impugnato con successivi motivi aggiunti).
Detta eccezione è argomentata ritenendo violato il termine di 45 giorni, previsto dal comma 8 dell’art. 146 del D.Lgs. 42/2004, entro il quale il Soprintendente deve emanare il parere di compatibilità paesaggistica, ritenendo che in entrambe le ipotesi sopra ricordate i provvedimenti impugnati siano stati stessi emessi in carenza di potere da parte dell’Amministrazione competente.
2.1 Sul punto risulta dirimente constatare come dal testo della disposizione in esame è possibile desumere come decorso il termine sopra citato, l’Amministrazione perde il potere di emanare un provvedimento vincolante.
2.2 Pur persistendo il potere della Soprintendenza di pronunciarsi oltre il termine dei 45 giorni, il decorso di quest’ultimo periodo di tempo impedisce alla Soprintendenza di emanare un parere vincolante in grado di condizionare la decisione dell’Amministrazione comunale che, in quanto tale, dovrà comunque pronunciarsi a prescindere dall’eventuale portata del potere tardivo (in questo senso si veda TAR sez. I Lecce, Puglia del 06/02/2014 n. 321).
2.3 L’eccezione di nullità del preavviso di diniego del 06/09/2013 è, pertanto, infondata.
3. Per quanto concerne i motivi di impugnazione, relativi a detto ultimo provvedimento e contenuti nei successivi motivi aggiunti, è necessario premettere come sia possibile condividere quanto affermato dalla parte ricorrente, laddove evidenzia il carattere di “atto finale” del preavviso di rigetto del 06/09/2013.
3.1 Pur ricordando come il preavviso di rigetto integri comunemente la fattispecie di un atto endoprocedimentale, va attribuito rilievo al contenuto “peculiare” dell’atto impugnato e, ciò, nella parte in cui (a pagina 4) è diretto a fare proprio il contenuto del precedente provvedimento di rigetto del 23/01/2013.
3.2 A dette conclusioni è, presumibile, che sia giunta anche la stessa Avvocatura dello Stato nella parte in cui ha ritenuto di non contestare la qualificazione di “atto finale” dell’atto del 06/09/2013, eccepita dalla ricorrente negli stessi motivi aggiunti di cui ora si tratta.
4. Ciò premesso l’impugnazione così proposta va respinta sia, per quanto concerne i vizi derivati sia, ancora, per quanto riguarda i vizi propri.
Detti vizi sono suscettibili di una trattazione unitaria in considerazione del fatto che parte ricorrente, anche nel ricorso per motivi aggiunti, si è limitata, di fatto, a contestare la valutazione paesaggistica di incompatibilità e, ciò, sulla base dell’esistenza di un asserito eccesso di potere per contraddittorietà della motivazione.
4.1 L’esame dei “motivi ostativi” all’accoglimento dell’istanza non consente di evincere l’esistenza di detto vizio di contraddittorietà e, ciò, considerando come la Soprintendenza si sia profusa a motivare le ragioni di incompatibilità dell’intervento e, ciò, a fronte di censure della parte ricorrente che, al contrario, sono circoscritte a contestare le scelte e le valutazioni espresse dall’Amministrazione.
4.2 Sul punto va ricordato la vigenza di quel costante orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, VI, 14.08.2013, n. 4174) che ha sancito che ”le valutazioni espresse dalla Soprintendenza hanno natura tecnica e, in quanto tali, sono sindacabili esclusivamente se, riscontrata l'esistenza di una figura sintomatica dell'eccesso di potere, si dimostra la violazione del principio di ragionevolezza tecnica. Non è, pertanto, sufficiente la mera opinabilità delle scelte effettuate”.
4.3 Non può essere condivisa, altresì, l’argomentazione diretta ad attribuire rilievo alla circostanza in base alla quale parte ricorrente aveva provveduto a modificare, ripetutamente, il progetto in precedenza presentato.
A tutto concedere, infatti, i ripetuti provvedimenti di diniego sono suscettibili di dimostrare solo che la Soprintendenza aveva ritenuto che l'intervento fosse contrastante, nella sua interezza, con la tutela del paesaggio e, ciò, a prescindere dal fatto che in alcuni pareri risulti accentuata l’incompatibilità di determinati presupposti rispetto ad altri.
4.4 Nemmeno è possibile condividere i rilievi diretti ad evidenziare l’esistenza di precedenti pareri favorevoli su precedenti e/o analoghi progetti, ritenendo sul punto applicabile quell’orientamento giurisprudenziale (per tutti Cons. Giust. Amm. Sic., del 26.08.2013, n. 726) in base al quale “l'eccepita insistenza di precedenti costruzioni non può servire, di per sé, ad escludere il grave pregiudizio paesaggistico prodotto nell'area vincolata dalla costruzione censurata, a fronte di una puntuale motivazione addotta a sostegno del parere negativo espresso dalla Soprintendenza, la cui discrezionalità, in materia, non può contestarsi attraverso generiche invocazioni di compatibilità fondate sull'asserita vetustà della costruzione, ovvero sulla presenza di precedenti costruzioni”.
4.5 La Soprintendenza, nel preavviso da ultimo impugnato, ha ribadito che l’intervento proposto, se realizzato, avrebbe determinato delle modifiche che non rispettano i valori paesaggistici esistenti.
4.6 Si è, altresì, evidenziato come la sproporzione del nuovo intervento costituisca uno dei motivi di contrasto con la disciplina a fondamento dell’apposizione del vincolo, nella parte in cui quest’ultima vieta specificatamente “l’eventuale inserimento di edifici non proporzionati” e, ciò, conformemente ai precedenti pareri sul punto emessi.
4.7 L’atto del 06/09/2013 esprime, allora, una valutazione di incompatibilità paesaggistica, sia in funzione del vincolo che grava sull’area agricola sia, ancora, in considerazione delle specificità del progetto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.05.2014 n. 583 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La circostanza che la convenzione urbanistica preveda l’obbligo di asservire a parcheggio pubblico una parte della superficie, e che la spesa per la realizzazione di queste attrezzature sia stata posta a carico della ricorrente, non introduce elementi di irragionevolezza o di contraddittorietà.
L’adeguamento delle aree a standard è una prassi costante nel caso delle lottizzazioni, ed è espressamente previsto dall’art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 e dall’art. 46 della LR 12/2005.
L’asservimento all’uso pubblico è un sostituto della cessione, gli oneri di adeguamento alla finalità pubblica sono assimilabili a quelli sostenuti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
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Il contributo sul costo di costruzione non si presta a compensazioni con le spese sostenute dal privato per realizzare infrastrutture di uso pubblico.
Mentre gli oneri di urbanizzazione trovano una controprestazione nelle opere eseguite dall’amministrazione per urbanizzare l’area in cui si inserisce la nuova edificazione (e possono dunque essere in tutto o in parte sostituiti dall’esecuzione diretta dei lavori da parte del privato), il contributo sul costo di costruzione ha invece natura sostanzialmente tributaria. Con il contributo sul costo di costruzione viene infatti operato un prelievo sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato dallo sfruttamento del territorio. Si tratta di un incremento presunto e parametrato a costi standard.
Non vi è quindi la possibilità di detrarre da un’imposta di tipo patrimoniale, dotata di una specifica base di calcolo, le spese effettivamente sostenute in esecuzione della convenzione urbanistica per realizzare i servizi necessari all’utilizzazione del nuovo edificio.

Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
...
(f) dunque il riconoscimento a posteriori della presenza della destinazione commerciale D8 su una parte del lotto non è idoneo a ricollegare l’edificio che presenta (in parte) la suddetta destinazione all’aliquota agevolata (5%) prevista dalla deliberazione consiliare n. 28/1990 per le zone D1-D3 (industriali e commerciali).
Tale disciplina di favore deve essere contestualizzata all’interno della pianificazione dell’epoca, e pertanto deve essere riferita (come espressamente indicato nelle motivazioni della predetta deliberazione) non ai singoli edifici ma alle zone urbanistiche dove l’amministrazione intendeva incentivare l’espansione mediante la realizzazione di grandi capannoni e depositi commerciali. Non vi sono ragioni per applicare in via analogica un simile incentivo a un lotto dove l’espansione perseguita è invece di natura prevalentemente residenziale ed è regolata autonomamente dalla disciplina speciale della convenzione urbanistica;
(g) la circostanza che la convenzione urbanistica preveda l’obbligo di asservire a parcheggio pubblico una parte della superficie, e che la spesa per la realizzazione di queste attrezzature sia stata posta a carico della ricorrente, non introduce elementi di irragionevolezza o di contraddittorietà.
L’adeguamento delle aree a standard è una prassi costante nel caso delle lottizzazioni, ed è espressamente previsto dall’art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 e dall’art. 46 della LR 12/2005. L’asservimento all’uso pubblico è un sostituto della cessione, gli oneri di adeguamento alla finalità pubblica sono assimilabili a quelli sostenuti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
(h) il contributo sul costo di costruzione non si presta a compensazioni con le spese sostenute dal privato per realizzare infrastrutture di uso pubblico.
Mentre gli oneri di urbanizzazione trovano una controprestazione nelle opere eseguite dall’amministrazione per urbanizzare l’area in cui si inserisce la nuova edificazione (e possono dunque essere in tutto o in parte sostituiti dall’esecuzione diretta dei lavori da parte del privato), il contributo sul costo di costruzione ha invece natura sostanzialmente tributaria (v. CS Sez. IV 20.12.2013 n. 6160; CS Sez. V 15.12.2005 n. 7140; TAR Brescia Sez. II 25.03.2011 n. 469; TAR Brescia Sez. I 03.12.2007 n. 1268). Con il contributo sul costo di costruzione viene infatti operato un prelievo sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato dallo sfruttamento del territorio. Si tratta di un incremento presunto e parametrato a costi standard (v. TAR Brescia Sez. I 15.04.2009 n. 859).
Non vi è quindi la possibilità di detrarre da un’imposta di tipo patrimoniale, dotata di una specifica base di calcolo, le spese effettivamente sostenute in esecuzione della convenzione urbanistica per realizzare i servizi necessari all’utilizzazione del nuovo edificio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 03.05.2014 n. 464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La rideterminazione del contributo sul costo di costruzione effettuata dal Comune il 17.10.2013, a oltre quattro anni dal rilascio del permesso di costruire (13.07.2009), corrisponde al ristabilimento dell’esatto contenuto di un’obbligazione di diritto pubblico. L’esigenza di rimediare a un precedente errore di diritto (applicazione della normativa regolamentare non più in vigore) giustifica l’intervento in autotutela.
Le ragioni di interesse pubblico sono implicite nel recupero di un importo dovuto ex lege, a maggior ragione nel caso del contributo sul costo di costruzione, che può essere assimilato a un tributo locale e fuoriesce, come si è visto sopra, da logiche di compensazione.
Poiché ai contributi concessori si applica l’ordinario termine di prescrizione decennale, decorrente in mancanza di altri elementi dalla data di rilascio del titolo edilizio, la richiesta di conguaglio risulta legittima.
L’affidamento del privato può trovare tutela solo in via gradata, nella forma della rateizzazione del debito, qualora l’esborso immediato dell’intero non sia economicamente sostenibile.

(i) la rideterminazione del contributo sul costo di costruzione effettuata dal Comune il 17.10.2013, a oltre quattro anni dal rilascio del permesso di costruire (13.07.2009), corrisponde al ristabilimento dell’esatto contenuto di un’obbligazione di diritto pubblico. L’esigenza di rimediare a un precedente errore di diritto (applicazione della normativa regolamentare non più in vigore) giustifica l’intervento in autotutela.
Le ragioni di interesse pubblico sono implicite nel recupero di un importo dovuto ex lege, a maggior ragione nel caso del contributo sul costo di costruzione, che può essere assimilato a un tributo locale e fuoriesce, come si è visto sopra, da logiche di compensazione.
Poiché ai contributi concessori si applica l’ordinario termine di prescrizione decennale, decorrente in mancanza di altri elementi dalla data di rilascio del titolo edilizio (v. CS Sez. VI 31.05.2013 n. 2996), la richiesta di conguaglio risulta legittima. L’affidamento del privato può trovare tutela solo in via gradata, nella forma della rateizzazione del debito, qualora l’esborso immediato dell’intero non sia economicamente sostenibile (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 03.05.2014 n. 464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIL’Iva in edilizia - Le operazioni con aliquota agevolata del 10% (articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014).

LAVORI PUBBLICIModulistica appalti ll.pp..
PROCEDURA NEGOZIATA – SCHEMI AGGIORNATI DELLE LETTERE DI INVITO E DEI CAPITOLATI PREDISPOSTI DAGLI UFFICI DEL COMUNE DI BRESCIA AGGIORNATI AL GIUGNO 2014 (06.08.2014 - link a www.ancebrescia.it).

VARIFISCO E CASA: ACQUISTO E VENDITA (Agenzia delle Entrate, agosto 2014 - link a www.fiscooggi.it).
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Vendere o acquistare la casa: il vademecum per non sbagliare.
Indicazioni chiare e dettagliate, approfondimenti, esempi pratici: queste le caratteristiche principali dell’opuscolo che indica i percorsi da seguire per una compravendita sicura.

A soli due giorni dalla pubblicazione del pratico manuale diretto a inquilini e proprietari di immobili, arriva on-line, sul sito internet delle Entrate, la nuova guida “Fisco e Casa: acquisto e vendita”, l’ultima arrivata della serie “L’Agenzia Informa”. Primi destinatari, coloro che intendono comperare o vendere una casa senza imbattersi in spiacevoli sorprese. Si tratta di un sintetico manuale che accompagna il contribuente nei diversi passaggi che caratterizzano questo tipo di transazioni.
Quattro capitoli, per 35 pagine, che spiegano, in maniera strutturata, i passi da compiere prima e dopo l’acquisto, gli accertamenti che è bene sbrigare in anticipo rispetto al “compromesso”, le imposte da pagare e la base imponibile su cui calcolarle, le eventuali agevolazioni e detrazioni fruibili, cosa accade se l’abitazione arriva in seguito a una successione o una donazione.
(... continua) (link a www.fiscooggi.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: G.U. 18.08.2014 n. 190, suppl. ordinario n. 70/L, "Testo del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, coordinato con la legge di conversione 11.08.2014, n. 114, recante: «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari»".
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 1. (Disposizioni per il ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni)
Art. 3. (Semplificazione e flessibilità nel turn-over)
Art. 4. (Mobilità obbligatoria e volontaria)
Art. 5. (Assegnazione di nuove mansioni)
Art. 6. (Divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza)
Art. 7. (Prerogative sindacali nelle pubbliche amministrazioni)
Art. 9. (Riforma degli onorari dell'Avvocatura generale dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici)
Art. 10. (Abrogazione dei diritti di rogito del segretario comunale e provinciale e abrogazione della ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria)
Art. 11. (Disposizioni sul personale delle regioni ed egli enti locali)
Art. 13. (Abrogazione dei commi 5 e 6 dell’articolo 92 del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, in materia di incentivi per la progettazione)
Art. 13-bis. (Fondi per la progettazione e l’innovazione)

Art. 16. (Nomina dei dipendenti nelle società partecipate)
Art. 17. (Ricognizione degli enti pubblici e unificazione delle banche dati delle società partecipate)
Art. 17-bis. (Divieto per le pubbliche amministrazioni di richiedere dati già presenti nell’Anagrafe nazionale della popolazione residente)
Art. 18. (Soppressione delle sezioni staccate di Tribunale amministrativo regionale e del Magistrato delle acque, Tavolo permanente per l'innovazione e l'Agenda digitale italiana)
Art. 19. (Soppressione dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e definizione delle funzioni dell'Autorità nazionale anticorruzione)
Art. 23. (Interventi urgenti in materia di riforma delle province e delle città metropolitane nonché norme speciali sul procedimento di istituzione della città metropolitana di Venezia e disposizioni in materia di funzioni fondamentali dei comuni)
Art. 23-bis. (Modifica all’articolo 33 del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, in materia di acquisizione di lavori, beni e servizi da parte dei comuni)
Art. 23-ter. (Ulteriori disposizioni in materia di acquisizione di lavori, beni e servizi da parte degli enti pubblici)
Art. 24. (Agenda della semplificazione amministrativa e moduli standard)
Art. 29. (Nuove norme in materia di iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa)
Art. 31. (Modifiche all'art. 54-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001)
Art. 32. (Misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell'ambito della prevenzione della corruzione)
Art. 35. (Divieto di transazioni della pubblica amministrazione con società o enti esteri aventi sede in Stati che non permettono l'identificazione dei soggetti che ne detengono la proprietà o il controllo)
Art. 36. (Monitoraggio finanziario dei lavori relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi)
Art. 37. (Trasmissione ad ANAC delle varianti in corso d'opera)
Art. 39. (Semplificazione degli oneri formali nella partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici)
Art. 40. (Misure per l'ulteriore accelerazione dei giudizi in materia di appalti pubblici)
Art. 41. (Misure per il contrasto all'abuso del processo)
Art. 47. (Modifiche in materia di indirizzi di posta elettronica certificata della pubblica amministrazione)
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Per una migliore comprensione della ratio sottesa ai vari articoli si leggano anche:
Dossier del Servizio Studi SENATO DELLA REPUBBLICA sull’A.S. n. 1582 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari" (agosto 2014)
Dossier CAMERA DEI DEPUTATI n. 196/3 - Elementi per l'esame in Assemblea (30.07.2014)

APPALTI: G.U. 14.08.2014 n. 188 "Problematiche in ordine all’uso della cauzione provvisoria a definitiva (articoli 75 e 133 del Codice)" (Autorità Nazionale Anticorruzione, determina 29.07.2014 n. 1).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 12.08.2014 n. 186 "Individuazione dei rapporti medi dipendenti popolazione validi per gli enti in condizioni di dissesto, per il triennio 2014-2016" (Ministero dell'Interno, decreto 24.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 08.08.2014 n. 183 "Individuazione delle disposizioni che si applicano agli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali e alle manifestazioni fieristiche tenendo conto delle particolari esigenze connesse allo svolgimento delle relative attività" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Ministero della Salute, decreto 22.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 08.08.2014 n. 183 "Modifica al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, in materia di professionisti dei beni culturali, e istituzione di elenchi nazionali dei suddetti professionisti" (Legge 22.07.2014 n. 110).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Mezzi pubblicitari e istanze fraudolente (15.08.2014 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: P. Giampietro e M. Petronzi, La Cassazione insiste sulla “temporaneità” dell’art. 186, T.U.A. (“Terre e rocce da scavo”), con irretroattività del D.M. 161/2012, ai fini penali - (nota a sentenza 14.03.2014 n. 12229, sui residui di lavorazione dei marmi: rifiuti recuperabili o sottoprodotti?) (31.07.2014 - link a www.ambientediritto.it).
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Sommario
1. Applicazione (retroattiva) del D.M. n. 161/2012, ai sensi dell’art. 2, commi 2 e 4, codice penale e il quadro normativo preesistente.
1.1. I precedenti conformi della Corte di Cassazione.
2. La vicenda esaminata (di recupero agevolato di residui-rifiuti di lavorazione dei marmi) e la conferma del dispositivo, con rettifica della motivazione.
2.1 La supposta continuità normativa.
2.2 Le ragioni di una “parziale rettifica”.
2.3. Delimitazione del periodo di efficacia dell’art. 186, come norma “temporanea” e presunta compatibilità con l’art. 15, del D.M. 161/2012.
3. Rilievi critici: i fatti contestati precedono il periodo di (presunta) temporaneità dell’art. 186.
4. Ulteriori inesattezze e forzature della motivazione.
5. L’anomalia delle “norme integratrici temporanee ex post” nel nostro sistema penale.
5.1. Confutazione dell’assunto e richiami a una dottrina isolata e non condivisa.
6. Sulla presunta “non sovrapponibilità dell’abrogazione differita alle norme penali sulla abolitio criminis.
7. Abrogazione differita e inaccettabilità di misure straordinarie di criminalizzazione temporanea.
8. La disciplina transitoria dell’art. 15, D.M. 161/2012 smentisce le conclusioni del giudice di legittimità.
9. Conclusioni.

URBANISTICA: F. Conti Guglia, Criteri per la configurabilità del reato di lottizzazione abusiva e cd. reato progressivo nell’evento - Nota a Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2014 n. 25182 (31.07.2014 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Vergine, Brevi osservazioni sulla competenza amministrativa a rilasciare il parere di Valutazione di Impatto Ambientale delle opere di connessione alla rete di trasmissione nazionale (31.07.2014 - link a www.ambientediritto.it).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Negli staff dei sindaci non possono esserci volontari, ma solo assunti.
I componenti degli staff dei sindaci e delle giunte non possono essere «volontari», operanti nelle strutture comunali senza retribuzione. Non è, dunque, possibile che degli uffici previsti dall'articolo 90 del dlgs 267/2000 faccia parte personale il cui rapporto non risulti regolato da un contratto di lavoro subordinato.

È la Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Campania che con il parere 05.06.2014 n. 155 accerta l'impossibilità dell'instaurazione con il personale di «staff» di rapporti di collaborazione di incerta qualificazione.
La magistratura contabile esclude che il rapporto fiduciario, pur esistente, tra gli organi di governo e gli uffici di staff, possa legittimare un rapporto di volontariato.
Al di là della circostanza, puntualmente richiamata dal parere, che il lavoro volontario e gratuito è ammesso esclusivamente nei casi e alle condizioni stabiliti dalla legge (per esempio l'articolo 3 della legge 266/1991, in merito al lavoro svolto a favore delle «organizzazioni di volontariato»), occorre tenere presente che il personale operante negli staff degli organi di governo svolge comunque una funzione amministrativa all'interno dell'ente locale.
Per quanto, come ricorda la magistratura contabile campana, agli staff sia preclusa la gestione operativa delle attività, l'articolo 90 del Tuel è molto chiaro nell'attribuire al personale di staff il compito di coadiuvare gli organi di governo nello svolgimento delle proprie attività di indirizzo e controllo. Dunque, gli staff letteralmente comunque svolgono attività che presuppongono maneggio di informazioni e mezzi propri dell'ente locale, sotto la diretta direzione degli organi di governo.
Appare del tutto evidente che nessuno possa maneggiare strumentazioni, dotazioni e informazioni di una pubblica amministrazione in assenza di un titolo legittimo. La fiduciarietà dei rapporti tra organi politici e staff, insomma, non può far sì che il rapporto amicale ed informale consenta a un «estraneo» all'ente di svolgere al suo interno delle attività, al di là del rispetto delle regole basilari di gestione della cosa pubblica.
La Corte dei conti non può non sottolineare che i dipendenti degli staff sono inseriti nell'organizzazione pubblica: il che implica necessariamente la loro «soggezione al potere di controllo e di indirizzo necessario alla realizzazione delle finalità istituzionali, con le conseguenze di legge che si ricollegano alla instaurazione a un «rapporto di servizio».
Ma basti pensare, per esempio, che in particolare proprio i componenti degli staff risultano a particolare rischio, ai fini delle cautele anticorruzione: l'instaurazione di un rapporto di servizio tipico è fondamentale, anche ai fini della loro soggezione al codice di comportamento contenuto nel dpr 62/2014. La necessità di attivare col personale in staff un rapporto di servizio è la ragione, conclude la Corte dei conti, per la quale l'articolo 90 del Tuel prevede che «il rapporto contrattuale che può essere instaurato dall'ente locale con i componenti degli uffici di supporto è quello tipico del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, al quale si applicano integralmente le norme del contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali». Il che esclude la possibilità di costituire col personale in staff rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o, comunque, di lavoro autonomo
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSono esclusi dall’ambito di applicazione del divieto di monetizzazione solo i rapporti di lavoro la cui cessazione sia caratterizzata dall’imprevedibilità o dalla non volontarietà del dipendente. In altri termini, il divieto si riferisce a fattispecie in relazione alle quali la prevedibilità della cessazione del rapporto di lavoro o la volontà del lavoro di determinare la cessazione del rapporto stesso (es. dimissioni) consentirebbero all’amministrazione una valutazione circa l’adozione delle misure necessarie per assicurare la fruibilità delle ferie compatibilmente con le esigenze personali del lavoratore e dell’organizzazione amministrativa.
Per converso, le ipotesi in cui la il rapporto di lavoro subisce una cessazione imprevista e non dipendente dalla volontà del lavoratore (es. decesso) non rientrano nell’alveo applicativo del d.l. 95/2012.
Altresì, rientrano nell’ambito di applicazione del divieto di monetizzazione di cui al d.l. 95/2012 anche le fattispecie in cui le ferie siano state maturate (anche prima dell’entrata in vigore della riferita disposizione) e il rapporto di lavoro non sia cessato, consentendo la sua prosecuzione la perdurante possibilità di fruire delle ferie stesse.

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Il Comune di Paternò chiede un parere riguardo all’interpretazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012, che ha introdotto il divieto di “monetizzazione” delle ferie non godute.
In particolare, il Comune di Paternò pone i seguenti quesiti:
1) se, nel caso di ferire maturate e non godute prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 95/2012, qualora il dipendente non sia ancora cessato dal servizio e le ferie siano state formalmente richieste e reinviate per motivi di servizio, sia possibile collocare il dipendente in ferie d’ufficio e, senza il suo consenso, imputare le ferie così fruite ad anni precedenti a quello in corso (oltre i diciotto mesi) o se, viceversa, le ferie non godute nei tempi contrattualmente stabiliti diano comunque luogo a diritto di fruire di indennità monetaria;
2) per il dipendente cessato dal servizio con residui di ferie maturate prima dell’entrata in vigore del d.l. e non godute, quali requisiti occorre porre a base di una loro eventuale monetizzazione;
3) se, in ipotesi di monetizzazione per mancata fruizione delle ferie per ragioni di servizio, si possa configurare una responsabilità del datore di lavoro.
...
La richiesta di parere, in relazione ai primi due quesiti, è ammissibile, mentre, in relazione al terzo, è inammissibile.
Il terzo quesito, infatti, implica una valutazione di un comportamento amministrativo oggetto di eventuali iniziative proprie della Procura Regionale. Un parere al riguardo da parte di questa Sezione, pertanto, potrebbe prefigurare soluzioni non conciliabili con eventuali successive pronunce della sezione giurisdizionale.
Nel merito, si osserva quanto segue.
L’art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012 prevede che: “le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile. Il presente comma non si applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in questione di fruire delle ferie”.
Preliminarmente va ricordato che, in forza dei principi generali dell’ordinamento che governano l’interpretazione della legge, quest’ultima dispone solo per l’avvenire e, salvo diversa previsione espressa, non ha efficacia retroattiva (art. 11 disp. prel. cod. civ.).
L’entrata in vigore del decreto legge 06.07.2012, n. 95 è stata fissata al 07.07.2012 e non vi sono disposizione relative a un eventuale regime transitorio.
In assenza di un regime transitorio, devono ritenersi salvaguardate le situazioni di diritto consolidatesi prima dell’entrata in vigore del citato decreto legge, al fine di non attribuire effetti retroattivi alla norma, non previsti dalla norma stessa e non consentiti dai richiamati principi generali dell’ordinamento.
Di conseguenza,
devono ritenersi esclusi dal campo di applicazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. 95 del 2012 i rapporti di lavoro già cessati alla data di entrata in vigore del citato decreto, nonché le fattispecie in cui le giornate di ferie siano state maturate prima dell’entrata in vigore dello stesso decreto e ne risulti incompatibile la fruizione a causa della sopravvenuta cessazione del rapporto di lavoro.
Occorre al riguardo precisare che
non ogni sopravvenuta cessazione del rapporto di lavoro consente la monetizzazione delle ferie maturate prima dell’entrata in vigore del d.l. 95/2012.
Dal tenore letterale della disposizione normativa in esame e dalla sua ratio (il contenimento della spesa pubblica) si deduce che
sono esclusi dall’ambito di applicazione del divieto di monetizzazione solo i rapporti di lavoro la cui cessazione sia caratterizzata dall’imprevedibilità o dalla non volontarietà del dipendente. In altri termini, il divieto si riferisce a fattispecie in relazione alle quali la prevedibilità della cessazione del rapporto di lavoro o la volontà del lavoro di determinare la cessazione del rapporto stesso (es. dimissioni) consentirebbero all’amministrazione una valutazione circa l’adozione delle misure necessarie per assicurare la fruibilità delle ferie compatibilmente con le esigenze personali del lavoratore e dell’organizzazione amministrativa.
Per converso, le ipotesi in cui la il rapporto di lavoro subisce una cessazione imprevista e non dipendente dalla volontà del lavoratore (es. decesso) non rientrano nell’alveo applicativo del d.l. 95/2012.
Tale conclusione consente di attribuire effettività alla volontà del legislatore, il quale, con il divieto di monetizzazione, ha inteso anche evitare abusi dovuti all’eccessivo ricorso al fenomeno della monetizzazione delle ferie non fruite a causa dell’assenza di programmazione e di controlli da parte dell’amministrazione in relazione alla gestione del personale, così intendendo il legislatore favorire anche una maggiore responsabilizzazione nel godimento del diritto alle ferie.
In linea di logica continuità con la riferita conclusione, deriva che
rientrano nell’ambito di applicazione del divieto di monetizzazione di cui al d.l. 95/2012 anche le fattispecie in cui le ferie siano state maturate (anche prima dell’entrata in vigore della riferita disposizione) e il rapporto di lavoro non sia cessato, consentendo la sua prosecuzione la perdurante possibilità di fruire delle ferie stesse (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 05.06.2014 n. 77).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAOSSERVATORIO VIMINALE/ Animali, decide il comune. Sindaci responsabili di bovini ed equini vaganti. Se il proprietario non viene individuato, è l'ente che deve farsene carico.
Al fine della tutela della pubblica incolumità nel territorio, a chi spetta la competenza in materia di funzioni di intervento su bovini ed equini vaganti apparentemente privi di proprietario?

Secondo il ministero della salute, dipartimento della sanità pubblica veterinaria, della sicurezza alimentare e degli organi collegiali per la tutela della salute, per gli animali liberi e non riconducibili a un proprietario occorre fare riferimento agli articoli 823 e 826 del codice civile cui si fa risalire la previsione della tutela di detti animali in capo all'autorità amministrativa.
L'articolo 3 del dpr del 31.03.1979 attribuisce ai comuni la funzione di vigilanza sull'osservanza di leggi e regolamenti generali locali relativi alla protezione degli animali e alla difesa del patrimonio zootecnico, mentre, la responsabilità del sindaco scaturisce anche dal ruolo allo stesso riconosciuto di autorità sanitaria locale.
Il citato dicastero argomenta che «la presenza di equini e bovini vaganti non identificati involge anche aspetti relativi alle emergenze sanitarie che interessano queste specie animali, alcune delle quali a carattere zoonotico, tali quindi, da poter risultare rischiose anche per la salute umana». Il sindaco pertanto, risulta il «diretto responsabile degli adempimenti volti alla tutela degli animali coinvolti, ricadendo su di esso i compiti di coordinamento e di garanzia degli interventi da effettuare».
Il sindaco, altresì, deve «assicurarsi che sussistano mezzi e personale adeguati per le operazioni di cattura, nonché l'individuazione di luoghi fisici in cui compiere l'identificazione degli animali e gli eventuali interventi sanitari sugli stessi. L'Azienda sanitaria locale, presso cui è presente un servizio veterinario di reperibilità continuata, deve, d'altra parte, garantire lo svolgimento dei propri compiti, relativi all'identificazione e all'accertamento sanitario sugli animali».
Ciò posto, nei casi in cui si individui il proprietario degli animali vaganti, questi sarà tenuto al pagamento degli oneri per le attività di cattura, identificazione e ricovero e per gli accertamenti sanitari effettuati, comprese le sanzioni previste dalla normativa vigente. Qualora il proprietario non venga individuato, la proprietà degli animali deve essere ricondotta in capo al responsabile, cioè al sindaco, il quale, al fine di definire la destinazione degli animali, dovrà richiedere un parere alle autorità territorialmente competenti, sentito il ministero della salute
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Permessi del presidente.
Di quali permessi può fruire il presidente del consiglio comunale, agente della polizia di stato?

La materia dei permessi, indennità, oneri previdenziali e assicurativi è disciplinata al capo IV, artt. 77 e ss. del dlgs 18.08.2000, n. 267.
In particolare, l'art. 79 del citato dlgs n. 267/2000 dispone, al comma 1, che i consiglieri comunali hanno diritto di assentarsi per la partecipazione alle riunioni consiliari per la effettiva durata delle stesse, e tale diritto comprende il tempo necessario per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro.
Il richiamato comma 4 del medesimo articolo prevede, inoltre, che il presidente del consiglio e il presidente dei gruppi consiliari comunali con popolazioni superiori a 15.000 abitanti, oltre ai permessi di cui ai precedenti commi, hanno diritto di assentarsi dal posto di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative mensili, configurando nello stesso il tempo necessario per raggiungere il luogo della riunione e il rientro al posto di lavoro.
Le attestazioni di cui al comma 6 del citato art. 79 Tuel, devono essere prontamente e puntualmente documentate e rilasciate dal dirigente competente ai sensi dell'art. 107, comma terzo, lett. h), del dlgs n. 267/2000
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Pubblicità consulenze.
Domanda
Vorrei sapere quali sono le conseguenze e le responsabilità in caso di mancata pubblicità degli incarichi di consulenza affidati dalla Pubblica amministrazione
Risposta
L'art. 1, comma 127, della legge n. 662/1996 prevede un duplice obbligo per le Pubbliche amministrazioni: quello di pubblicare gli elenchi degli incarichi di consulenza conferiti e quello di comunicare copia di tali elenchi al Dipartimento della funzione pubblica.
La legge n. 244/2007 (Finanziaria 2008) ha previsto espressamente, per il dirigente che ometta tali adempimenti, il procedimento disciplinare e la responsabilità erariale. Con l'art. 53 del dlgs 165/2001, modificato con la legge 190/2012, il legislatore ha dettato disposizioni volte ad impedire alle Pubbliche amministrazioni di conferire nuovi incarichi fino all'avvenuta pubblicazione e comunicazione di quelli precedenti.
Il dlgs n. 33/2013 ha precisato che, la pubblicazione sul sito internet dell'Amministrazione e la comunicazione alla Funzione pubblica degli incarichi conferiti, costituiscono «condizioni per l'acquisizione di efficacia dell'atto e per la liquidazione dei relativi compensi».
Per il dirigente che abbia disposto il pagamento, senza la preventiva pubblicazione dell'affidamento dell'incarico, è previsto il pagamento di una sanzione pari alla somma corrisposta, oltre all'eventuale risarcimento del danno.
Con la sentenza 15.05.2014, n. 424, la Corte dei conti ha precisato che l'art. 53, comma 15, del dlgs 165/2001, che vieta l'affidamento di ogni nuovo incarico fino all'avvenuta comunicazione di quelli precedenti, deve considerarsi norma di «ordine pubblico» e, in quanto tale, suscettibile di determinare la nullità tutti i contratti stipulati in assenza della prescritta condizione di legge
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Requisiti consulenze.
Domanda
Quali sono i presupposti di legittimità per il conferimento di consulenze esterne da parte della Pubblica amministrazione?
Risposta
L'art. 7, comma 6, del dlgs 165/2001 subordina, l'affidamento di incarichi a personale estraneo alla Pubblica amministrazione, a una serie di presupposti di legittimità.
Tali prescrizioni hanno lo scopo di circoscrivere gli spazi di discrezionalità dell'amministrazione pubblica attribuendo, all'adozione di simili misure organizzative, un carattere di eccezionalità.
La legittimità della stipula di contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa con professionisti esterni, è condizionata ai seguenti presupposti: l'oggetto del contratto deve rientrare nei compiti istituzionali dell'amministrazione conferente; deve essere stata preliminarmente verificata l'utilizzabilità delle risorse interne; la prestazione da affidare deve avere necessariamente durata limitata nel tempo; devono essere determinati durata, luogo, oggetto e compenso.
La legge prescrive espressamente, in caso di conferimento di incarichi esterni, al di fuori di tali condizioni, una causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i relativi contratti.
Si evidenzia, infine, che allo scopo di dare la massima visibilità alla scelta dell'amministrazione pubblica di affidare un incarico esterno e, contemporaneamente, di consentire un controllo da parte della collettività sull'utilizzo delle risorse pubbliche, il legislatore ha ritenuto di assoggettare tali contratti a un rigido regime di pubblicità
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

APPALTI: Partecipazione negli appalti.
Domanda
Quali sono i limiti dell'Amministrazione pubblica nel determinare i requisiti di partecipazione a una gara d'appalto?
Risposta
Il Consiglio di stato, con la sentenza 28.05.2014, n. 2775, ha precisato che, nei limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, c'è un potere discrezionale della stazione appaltante nel fissare, nel capitolato speciale di gara, i requisiti soggettivi specifici di partecipazione alla gara.
I giudici amministrativi evidenziano che, ai sensi degli artt. 41 e 42 del dlgs 163/2006, c.d. Codice dei contratti pubblici, le stazioni appaltanti hanno il potere discrezionale di fissare, nel disciplinare di gara, i requisiti soggettivi specifici di partecipazione attraverso l'esercizio di un potere discrezionale che conosce i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità.
Il Consiglio di stato ha affermato che la stazione appaltante può introdurre nella gara d'appalto disposizioni che limitano la platea dei concorrenti, al fine di consentire la partecipazione di soggetti particolarmente qualificati, specialmente per ciò che attiene al possesso di requisiti di capacità tecnica e finanziaria, se tale scelta non sia eccessivamente o irragionevolmente limitativa della concorrenza.
Una simile scelta può essere sindacata dal giudice amministrativo in sede di legittimità solo in quanto sia manifestamente irragionevole, irrazionale, arbitraria, sproporzionata, illogica o contraddittoria
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

ENTI LOCALI - VARI: Trasformazione delle concessioni cimiteriali da perpetue a temporanee.
Secondo il prevalente orientamento della giustizia amministrativa, le concessioni perpetue esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 92, comma 2, primo periodo, del D.P.R. 285/1990 e, non essendo soggette alla revoca ivi prevista, mantengono il carattere di perpetuità.
Ciò nonostante, un recente filone ritiene, invece, ammissibile la trasformazione delle concessioni cimiteriali da perpetue a temporanee, in considerazione della natura demaniale dei cimiteri, che non consentirebbe di attribuire diritti a privati senza limiti di tempo.

Il Comune -che ha già formulato alcuni quesiti nella stessa materia
[1]- trasmette un articolo di dottrina [2], concernente una sentenza del TAR Puglia [3], in base alla quale risulterebbe ammissibile procedere alla trasformazione delle concessioni cimiteriali da perpetue a temporanee, e chiede un parere al riguardo.
Preliminarmente, si ritiene utile ricordare che la perpetuità delle concessioni cimiteriali, consentita tanto dal regio decreto 25.07.1892, n. 448
[4], quanto dal regio decreto 21.12.1942, n. 1880 [5], non è più stata contemplata dai successivi regolamenti statali di polizia mortuaria, adottati con decreti del Presidente della Repubblica 21.10.1975, n. 803 e 10.09.1990, n. 285, i quali hanno disposto che le concessioni «sono a tempo determinato e di durata non superiore a 99 anni, salvo rinnov[6] ed hanno previsto che «Le concessioni a tempo determinato di durata eventualmente eccedente i 99 anni», rilasciate anteriormente alla data di entrata in vigore del D.P.R. 803/1975, «possono essere revocate, quando siano trascorsi 50 anni dalla tumulazione dell'ultima salma, ove si verifichi una grave situazione di insufficienza del cimitero rispetto al fabbisogno del comune e non sia possibile provvedere tempestivamente all'ampliamento o alla costruzione di nuovo cimitero.» [7].
Benché la predetta facoltà di revoca faccia espresso riferimento alle concessioni 'a tempo determinato', l'estensione dell'istituto alle concessioni perpetue, operata da alcuni comuni, ha comportato la necessità, per l'autorità giudiziaria, di valutarne la legittimità.
Si segnala che la giurisprudenza, sul punto, non appare univoca.
Secondo un primo filone, le concessioni perpetue esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 92, comma 2, primo periodo, del D.P.R. 285/1990 e, non essendo soggette alla revoca ivi prevista, mantengono il carattere di perpetuità
[8].
Nell'ambito di tale filone, viene affermato che l'art. 92 del D.P.R. 285/1990 «non regola affatto le esistenti concessioni cimiteriali perpetue [...]. La norma in questione si limita infatti a stabilire che le future concessioni cimiteriali debbano essere ricondotte a due tipologie a tempo determinato e che non possano quindi essere più rilasciate concessioni per l'uso perpetuo di aree cimiteriali. Nessuna norma invece prevede che le concessioni perpetue esistenti debbano trasformarsi in una delle tipologie previste dal D.P.R. citato e quindi esse rimangono assoggettate al regime giuridico secondo il quale sono sorte potendo quindi essere modificate solo da espressa disposizione di legge, da novazioni consensuali o dal concretarsi dei casi di estinzione (soppressione del cimitero, ecc.)»
[9].
Un secondo orientamento radica, invece, la propria tesi sul disposto dell'art. 824
[10], secondo comma, del codice civile, ai sensi del quale i cimiteri sono soggetti al regime del demanio comunale -«i cui atti dispositivi non sono legittimamente configurabili senza limiti di tempo» [11]- rilevando, innanzitutto, che la concessione cimiteriale, di natura traslativa, crea, nel privato concessionario, un diritto soggettivo perfetto di natura reale, opponibile agli altri privati e precisando che, nei confronti dell'ammini-strazione pubblica, tale diritto si affievolisce, degradando ad interesse legittimo, qualora lo richiedano esigenze di pubblico interesse per la tutela dell'ordine e del buon governo del cimitero [12], indipendentemente dall'eventuale irrevocabilità o perpetuità del diritto di sepolcro [13].
Sulla scorta di tali premesse, parte della giurisprudenza ritiene legittime:
- la revoca di concessioni rilasciate sine die
[14], sempreché sussistano i presupposti previsti dalla normativa di settore [15];
- la previsione regolamentare comunale che dispone la trasformazione delle concessioni perpetue in concessioni temporanee
[16].
In relazione alla predetta trasformazione, si ritiene utile riportare l'avviso espresso dal TAR Sicilia
[17], il quale -ricordando che la giurisprudenza amministrativa si è in passato pronunciata in termini non univoci- ritiene che «la natura demaniale dei cimiteri sia di ostacolo alla configurazione della perpetuità delle concessioni cimiteriali che, nella sostanza, in tal modo, finirebbero per occultare un vero e proprio diritto di proprietà su un bene demaniale».
Infatti -chiarisce quel giudice- un bene demaniale è, per sua natura, pubblico, cioè destinato a vantaggio dell'intera collettività. Tale carattere non esclude che il bene possa anche venire riservato (attraverso una concessione) ad un uso limitato in favore di alcuni soggetti, «ma tale uso privato deve necessariamente essere temporalmente limitato e non perpetuo», atteso che, diversamente, il bene verrebbe definitivamente sottratto alla sua ontologica finalità pubblica».
[18]
La medesima motivazione è stata ripresa dal TAR Puglia
[19], nella pronuncia alla quale il Comune fa riferimento, ove, ricordato che lo ius sepulchri, nei confronti della pubblica amministrazione concedente, costituisce un 'diritto affievolito' in senso stretto, soggiacendo ai poteri regolativi e conformativi di stampo pubblicistico, afferma che, a fronte di una concessione cimiteriale perpetua, l'amministrazione ha il potere di disporne unilateralmente la modifica, mediante la previsione di un termine di durata, oltre il quale la concessione deve essere rinnovata.
In conclusione, si suggerisce al Comune di valutare attentamente le determinazioni da assumere, anche considerato che la possibilità di operare la trasformazione delle concessioni cimiteriali perpetue in concessioni temporanee, in relazione alla quale sono intervenute pronunce giudiziali non univoche, risulta, ad oggi, affermata solo da giurisprudenza amministrativa di primo grado.
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[1] Ai quali questo Ufficio ha fornito riscontro con pareri 22.10.2010, prot. n. 23893; 10.08.2012, prot. n. 26709 e 24.10.2012, prot. n. 33954.
[2] G. Pelizzaro, TAR Puglia: è possibile trasformare le concessioni cimiteriali da perpetue a temporanee, in Notiziario ANUSCA, aprile 2014.
[3] Lecce - Sez. II, 31.01.2014, n. 289.
[4] Il cui art. 100 prevedeva che «Il posto per sepolture private potrà essere concesso per tempo determinato o a perpetuità.».
L'art. 104 stabiliva, poi, che nel caso di soppressione del cimitero, i soggetti legati al comune da regolare contratto avessero diritto di ottenere, nel nuovo cimitero, «per il tempo che loro ancora spetta o a perpetuità», un posto corrispondente in superficie a quello già concesso, oltre al trasporto delle spoglie mortali.
[5] Il cui art. 70 disponeva che le concessioni cimiteriali «si distinguono in temporanee, ossia per un tempo determinato, e perpetue. Queste ultime si estinguono con la soppressione del cimitero, salvo quanto è disposto nel seguente articolo 76».
L'art. 76, primo comma, del R.D. 1880/1942 confermava -precisandone la gratuità- gli stessi diritti contemplati dall'art. 104 del R.D. 448/1892, per l'ipotesi della soppressione del cimitero.
[6] Così tanto l'art. 93, primo comma, del D.P.R. 803/1975, quanto l'art. 92, comma 1, del D.P.R. 285/1990.
[7] Così tanto l'art. 93, secondo comma, primo periodo, del D.P.R. 803/1975, quanto l'art. 92, comma 2, primo periodo, del D.P.R. 285/1990.
Ai sensi del secondo periodo delle predette disposizioni «Tutte le concessioni si estinguono con la soppressione del cimitero», salvo quanto previsto, rispettivamente, dall'art. 99 del D.P.R. 803/1975 e dall'art. 98 del D.P.R. 285/1990, secondo i quali, in tale evenienza, i soggetti legati al comune da regolare atto di concessione hanno diritto di ottenere gratuitamente, nel nuovo cimitero, «per il tempo residuo spettante secondo l'originaria concessione, o per la durata di 99 anni nel caso di maggiore durata o di perpetuità della concessione estinta», un posto corrispondente in superficie a quello già concesso ed il trasporto delle spoglie mortali.
[8] V. Consiglio di Stato - Sez. V, 12.05.1987, n. 279; TAR Trentino Alto Adige-Trento 09.09.1999, n. 318; Consiglio di Stato - Sez. V, 08.10.2002, n. 5316; TAR Sardegna-Cagliari, Sez. II, 30.01.2006, n. 95; TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, 05.08.2010, n. 9197; Consiglio di Stato - Sez. V, 08.02.2011, n. 842 (che conferma il predetto TAR Trentino Alto Adige-Trento, n. 318/1999).
In dottrina, v. S. Scolaro, La polizia mortuaria. Guida pratica alla gestione funeraria e cimiteriale, Maggioli, 2007, pag. 291 e segg., secondo il quale la differenza tra le concessioni a tempo determinato e quelle a perpetuità è sostanziale ed implica che «i sepolcri privati sorti nel passato e regolati, per quanto riguarda la durata, in modo difforme da quelli che sono i limiti attuali (tempo determinato e termine temporale massimo), continuano ad essere assoggettati al regime temporale originario».
[9] V. TAR Trentino Alto Adige-Trento, n. 318/1999, cit., TAR Sardegna-Cagliari, Sez. II, n. 95/2006, cit. e Consiglio di Stato - Sez. V, n. 842/2011, cit..
[10] «I beni della specie di quelli indicati dal secondo comma dell'articolo 822, se appartengono alle province o ai comuni, sono soggetti al regime del demanio pubblico.
Allo stesso regime sono soggetti i cimiteri e i mercati comunali.».
[11] V. Consiglio di Stato - Sez. V, 28.05.2001, n. 2884.
[12] V. Cassazione civile - Sezz. Unite, 07.10.1994, n. 8197 e Sez. II, 30.05.2003, n. 8804; Consiglio di Stato - Sez. V, 07.10.2002, n. 5294 e 26.06.2012, n. 3739; TAR Campania-Napoli, Sez. VII, 23.07.2013, n. 3792, 29.07.2013, n. 3981, 14.10.2013, n. 4589, 05.11.2013, n. 4901, 09.12.2013, n. 5635 e 10.02.2014, n. 920.
[13] V. Cassazione civile - Sezz. Unite, 27.07.1988, n. 4760 e 16.01.1991, n. 375.
[14] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 2884/2001, cit.; TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, 13.03.2007, n. 794 e 18.01.2012, n. 70.
[15] V. l'art. 92, comma 2, primo periodo, del D.P.R. 285/1990, richiamato nel testo. Sulla necessità della contestuale ricorrenza delle tre condizioni previste dalla legge per poter procedere alla revoca della concessione v. TAR Trentino Alto Adige-Trento, n. 318/1999, cit.; TAR Sardegna-Cagliari, Sez. II, n. 95/2006, cit.; TAR Sicilia-Catania, 08.04.2010, n. 1056; TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, n. 9197/2010, cit.; Consiglio di Stato - Sez. V, n. 842/2011, cit..
[16] V. TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, 02.12.2013, n. 2341; TAR Puglia-Lecce, Sez. II, n. 289/2014.
[17] Palermo, Sez. III, n. 2341/2013, cit..
[18] Conclusivamente, il TAR afferma che risulta corretto il regolamento comunale, nella parte in cui ha disposto la trasformazione delle concessioni perpetue in concessioni temporanee di lunga durata, «in quanto così facendo ha in realtà corretto una disposizione dell'originaria concessione che deve ritenersi nulla, per contrasto con i principi imperativi dell'ordinamento».
[19] Lecce - Sez. II, n. 289/2014, cit.
(06.08.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Contributi, l'aut aut dei comuni. I politici-lavoratori autonomi devono astenersi dal lavoro. Il Viminale conferma la tesi della Corte conti sul versamento degli oneri previdenziali.
L'obbligo per gli enti locali di versare i contributi per gli amministratori che siano lavoratori autonomi è subordinato alla espressa rinuncia da parte di questi ultimi all'espletamento dell'attività lavorativa durante lo svolgimento del mandato.

Lo ha ribadito il parere 04.08.2014 reso dal Ministero dell'interno (class. n. 15900/TU/00/86) in risposta al quesito posto da un comune, confermando la tesi restrittiva sostenuta da alcuni pareri della Corte dei conti e già fatta propria dal Viminale in un altro parere 09.04.2014.
Il problema riguarda l'interpretazione dell'art. 86 del Tuel.
Il comma 1 di tale disposizione prevede che l'amministrazione locale provveda a proprio carico al versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e assicurativi per le tipologie di amministratori ivi individuati (sindaci, presidenti di province, comunità montane, unioni di comuni e consorzi, assessori provinciali e di comuni con più di 10.000 abitanti, presidenti dei consigli provinciali e dei consigli dei comuni con più di 50.000 abitanti) che siano collocati in aspettativa non retribuita. Il successivo comma 2 dispone che agli amministratori locali che non siano lavoratori dipendenti e che rivestano le predette cariche l'amministrazione locale provveda, «allo stesso titolo previsto dal comma 1», al pagamento di una cifra forfettaria annuale, versata per quote mensili.
In proposito, alcune sezioni regionali della Corte dei conti (per prima quella della Basilicata, seguita, poi, da Lombardia, Liguria e Piemonte), hanno sostenuto che l'inciso «allo stesso titolo previsto dal comma 1» deve intendersi come riferito non già solo all'oggetto del pagamento (i contributi), ma anche alla ragione che causalmente lo giustifica, da rinvenirsi nel sostegno che l'ordinamento assicura a favore di chi opta per l'esclusività dell'incarico di amministratore. Tale opzione o scelta non può essere differentemente misurata per il lavoratore dipendente rispetto al lavoratore non dipendente, né rileva il fatto che, per questi ultimi, non sia previsto l'istituto dell'aspettativa senza assegni e quindi sia diffide, nella pratica, verificare il mancato esercizio contemporaneo della professione.
In passato, invece, il ministero era rimasto fermo sulla tesi contraria, espressa con chiarezza in un parere emesso in data 17.02.2004. Esso, partendo dalla considerazione secondo cui, a differenza dei lavoratori dipendenti, i lavoratori autonomi non hanno la possibilità di porsi in aspettativa e difficilmente possono sospendere l'attività professionale, concludeva affermando che il versamento dei contributi costituisce un beneficio che va accordato a prescindere dall'incidenza dell'espletamento della carica elettiva sull'effettivo esercizio dell'attività professionale.
Ora, come detto, il Viminale ha cambiato idea, ritenendo maggiormente condivisibili le argomentazioni della giurisprudenza contabile. Diversamente opinando, infatti, l'assunzione da parte dell'ente locale degli oneri contributivi si tradurrebbe nell'equivalente di un loro sgravio netto a favore del lavoratore non dipendente che accede alla carica di amministratore locale e di una loro contestuale fiscalizzazione con aggravio del bilancio comunale, senza alcuna corrispettiva dedizione del tempo lavorativo ai soli compiti di amministratore locale. Se si ammettesse, inoltre, che il lavoratore non dipendente possa, in pendenza di mandato, svolgere ugualmente la sua professione facendo gravare sul bilancio dell'ente il pagamento dei contributi (da lui altrimenti dovuti) nella misura minima prevista, si finirebbe per consentire l'alterazione delle condizioni di mercato, dal momento che l'amministratore locale esercente la professione, l'arte o il mestiere, non gravato degli oneri contributivi, avrebbe margini di ricavo più ampi rispetto alla concorrenza.
A questo punto, gli enti locali non possono che uniformarsi e dovranno individuare, nell'ambito della propria autonomia organizzativa e gestionale, le opportune modalità di accertamento e verifica circa la sussistenza dei presupposti che consentono di procedere all'erogazione. Come chiarisce il parere in commento, infatti, rimane nella competenza di dirigenti e amministratori locali, ciascuno per la parte di rispettiva competenza, l'applicazione di dettaglio ai casi concreti, con l'eventuale ausilio del segretario comunale
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2014).
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OGGETTO: Art. 86 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
Si fa riferimento all’unita nota con la quale il comune di XXX chiede un parere circa le modalità di applicazione dell’obbligo di versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per gli amministratori lavoratori autonomi, alla luce dell’orientamento -condiviso anche da questo Ministero- indicato dalle sezioni regionali della Corte dei Conti della Basilicata e della Lombardia con delibere, rispettivamente, del 15.01.2014 e del 05.03.2014.
Al riguardo, si ritiene opportuno ricordare i contenuti dell’art. 86 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 ove, al comma 1, è previsto che l'amministrazione locale provvede a proprio carico, al versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e assicurativi, per le tipologie di amministratori ivi individuati, che siano collocati in aspettativa non retribuita.
Il successivo comma 2 dispone che agli amministratori locali che non siano lavoratori dipendenti e che rivestano le cariche di cui al citato comma 1, l'amministrazione locale provvede, allo stesso titolo previsto dal comma 1, al pagamento di una cifra forfetaria annuale, versata per quote mensili.
Le sezioni regionali della Corte dei Conti, sono state chiamate ad esprimere il proprio parere sulla questione ovvero se anche per i lavoratori non dipendenti –per i quali l’istituto del collocamento in aspettativa non esiste– debba subordinarsi la concessione del beneficio alla espressa e concreta rinuncia all’espletamento dell’attività lavorativa svolta, così da garantire che l’incarico istituzionale sia effettuato nelle medesime condizioni di esclusività previste per i lavoratori dipendenti.
Il citato comma 2 dell’art. 86 del T.U.O.E.L. nulla dispone al riguardo.
Le sezioni regionali dell’organo di controllo hanno precisato che la disposizione in argomento, nella parte in cui prevede, in favore dell’amministratore che non sia lavoratore dipendente, il pagamento di una cifra forfetaria da effettuarsi “allo stesso titolo previsto dal comma 1” deve intendersi come riferita non già solo all’oggetto del pagamento (gli oneri previdenziali, assistenziali e assicurativi) ma anche alla ragione che causalmente lo giustifica, da rinvenirsi nel sostegno che l’ordinamento assicura a favore di chi opta per l’esclusività dell’incarico di amministratore. Tale opzione o scelta non può essere differentemente misurata per il lavoratore dipendente rispetto al lavoratore non dipendente.
Osserva al riguardo la Corte dei Conti che la mancanza, per i lavoratori che non siano dipendenti, dell’istituto dell’aspettativa senza assegni, previsto per i soli lavoratori dipendenti, e la pratica difficoltà di verificare il mancato esercizio contemporaneo della professione da parte dell’amministratore locale, non può essere argomento per sostenere che l’art. 86, commi 1 e 2, del TUOEL, abbia ad oggetto fattispecie diversamente costruite a seconda che si abbia riguardo ai lavoratori dipendenti (comma 1) o ai lavoratori non dipendenti (comma 2). Le due disposizioni, ad avviso dell’Organo di controllo, hanno la medesima ratio, e unificano il trattamento dedicato a differenti categorie di lavoratori-amministratori locali, costruendo una fattispecie che ha, per entrambi, i medesimi presupposti.
La circostanza che il decreto interministeriale del 25.05.2001 garantisca ai lavoratori non dipendenti la contribuzione minima non starebbe a significare, ad avviso delle sezioni regionali di controllo, che il lavoratore interessato possa accedervi solo perché rivesta una delle prescritte cariche di amministratore locale. Così opinando, infatti, l’assunzione da parte dell’Ente locale degli oneri contributivi si tradurrebbe nell’equivalente di un loro sgravio netto a favore del lavoratore non dipendente che accede alla carica di amministratore locale e di una loro contestuale fiscalizzazione con aggravio del bilancio comunale, senza alcuna corrispettiva dedizione del tempo lavorativo ai soli compiti di amministratore locale.
Se si ammettesse, inoltre, che il lavoratore non dipendente possa, in pendenza di mandato, svolgere ugualmente la sua professione facendo gravare sul bilancio dell’Ente il pagamento dei contributi (da lui altrimenti dovuti) nella misura minima prevista, si finirebbe per consentire l’alterazione delle condizioni di mercato, dal momento che l’amministratore locale esercente la professione, l’arte o il mestiere, non gravato degli oneri contributivi, avrebbe margini di ricavo più ampi rispetto alla concorrenza.
Né si ritiene possa essere validamente eccepito che, dalla circostanza che il più volte citato comma 2 dell'art. 86 del T.U.O.E.L. nulla dispone circa l'obbligo di astenersi dall'attività professionale da parte del lavoratore non dipendente durante lo svolgimento del mandato elettorale, ne può derivare un’assenza di tale obbligo espressamente voluta dal legislatore.
Ciò posto, tenuto anche conto dei generali principi di buon andamento e di contenimento della spesa pubblica, si ritengono condivisibili le argomentazioni formulate dalle citate sezioni regionali di controllo in merito all'ambito applicativo dell'art. 86, comma 2, del T.U.O.E.L..
In merito alle modalità applicative delle disposizioni di cui al succitato comma 2 richieste dall’ente, occorre precisare che questo Ufficio fornisce consulenza in ordine alla enucleazione di principi giuridici con riferimento ad ampie problematiche conseguenti ad innovazioni legislative o orientamenti giurisprudenziali. Rimane nella competenza dei dirigenti ed amministratori locali, ciascuno per la parte di rispettiva competenza, l’applicazione di dettaglio ai casi concreti, con l’eventuale ausilio del segretario comunale (parere 04.08.2014 - link a http://incomune.interno.it).

ENTI LOCALI: Membro esterno di commissione comunale. Lite pendente e causa d'incompatibilità.
L'art. 63 TUEL prevede che sia colpito da incompatibilità 'colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo...con il comune': la norma però ha come destinatari espressi gli amministratori locali. Non esiste invece una norma del TUEL che estenda ai componenti esterni delle commissioni comunali l'applicazione di detto art. 63.
Peraltro, nell'ambito dell'autonomia normativa ed organizzativa dell'ente locale, rientra anche il potere di estendere, con disposizione regolamentare, dette cause d'incompatibilità ai componenti esterni delle commissioni comunali.

Il Comune, con riferimento alla ricostituzione di una commissione comunale consultiva, riferisce che tra i componenti esterni è stato designato, da una categoria interessata, un soggetto che ha lite pendente con l'Amministrazione comunale, avendo lo stesso presentato un ricorso contro un'ordinanza ingiunzione per violazione di disposizioni relative proprio alla materia trattata in detta commissione.
Ciò premesso, l'Ente chiede se sia 'possibile procedere con la nomina in commissione di una persona per la quale potrebbero profilarsi possibili conflitti d'interesse o imparzialità'.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti osservazioni.
L'art. 63 TUEL prevede che sia colpito da incompatibilità 'colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo...con il comune': la norma però ha come destinatario espresso il 'sindaco ed il consigliere comunale'
[1].
Non esiste invece una norma del TUEL che estenda ai componenti esterni delle commissioni comunali l'applicazione di detto art. 63.
Peraltro, nell'ambito dell'autonomia normativa ed organizzativa dell'ente locale rientra anche il potere di estendere, con disposizione regolamentare, dette cause d'incompatibilità ai componenti esterni delle commissioni comunali.
In assenza di disposizioni legislative o regolamentari che stabiliscano l'incompatibilità in argomento, si reputa che la situazione di lite pendente non sia ostativa alla nomina.
Si ritiene peraltro che, per il superiore principio costituzionale (art. 97 Cost.) di buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione, il componente esterno che risulti concretamente, di volta in volta, in situazione di conflitto d'interessi sia tenuto ad astenersi dalla discussione e dalla votazione dei pareri che la commissione è deputata ad esprimere.
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[1] Nonché gli assessori esterni, ai sensi dell'art. 47 TUEL (04.08.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATACasa, ecobonus del 65% anche nel 2015. Deduzione fiscale del 20% sulle spese per l'acquisto di nuovi immobili destinati all'affitto.
Conferma anche nel 2015 dello sgravio Irpef del 65% per i lavori di risparmio energetico. Una detrazione "potenziata" e generalizzata per i lavori di prevenzione sismica, oscillante fra il 50 e il 65% della spesa, in proporzione alla riduzione di rischio indotta dall'intervento. E un incentivo nuovo di zecca per chi compra una casa appena costruita o pesantemente ristrutturata, che abbia prestazioni energetiche di classe A o B, con l'impegno di affittarla per almeno otto anni a canone concordato.

C'è anche un robusto "pacchetto casa" nelle prime norme messe a punto sotto il coordinamento di Palazzo Chigi per il decreto sblocca-Italia che vedrà la luce il 29 agosto. I fedelissimi di Renzi ci stanno lavorando con i ministeri delle Infrastrutture e dell'Economia. E, in attesa di capire se anche il bonus del 50% per le ristrutturazioni semplici andrà verso la riconferma nel 2015 (misura che per ora il governo non ha considerato), la novità più interessante è proprio quella che si ispira alla legge Scellier, entrata in vigore in Francia nel 2009 con notevole successo: una deduzione fiscale del 20% delle spese di acquisto o di costruzione, riservato alle persone fisiche, a valere sull'Irpef su un arco di otto anni, fino a un limite di 300mila euro, per costruire direttamente o comprare da un costruttore un alloggio da destinare al mercato dell'affitto.
La norma –afferma la relazione allegata– «utilizza lo strumento fiscale per dare una risposta immediata alla stagnazione sia del mercato della compravendita, sia a quello delle locazioni a canone concordato», che vale la pena ricordare, possono usufruire anche della tassazione in forma di cedolare secca al 10% per il quadriennio 2014-2017. Per lo stesso periodo varrebbe anche il nuovo incentivo fiscale che, fra i diversi obiettivi, si pone evidentemente anche quello di alleviare il problema dell'invenduto rimasto in carico ai costruttori, purché offra prestazioni energetiche di livello eccellente o ottimo (che è un'altra finalità implicita della norma).
Sulla riconferma del più generale incentivo energetico del 65% sembra prevalere, per ora, la linea di Palazzo Chigi, ispirata dal presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, renziano della prima ora: confermare solo questo incentivo e non anche il 50% sulle ristrutturazioni semplici.
Una linea di politica selettiva, che comprenderebbe –altro "pallino" di Realacci– le agevolazioni a robusti investimenti di prevenzione sismica, ma escluderebbe i generici lavori in casa. In questo modo, risulterebbe massima la convenienza a spostare risorse, anche nella ristrutturazione della propria abitazione, esclusivamente verso interventi che abbiano come primo obiettivo il risparmio energetico.
Di diversa idea il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che ha già proposto a Palazzo Chigi anche la riconferma agli attuali livelli dello sgravio del 50% che, viceversa, sarebbe destinato a scendere al 40%, come da legge di stabilità 2014.
Un argomento che non sarà indifferente nelle scelte del governo –e in particolare in quelle del ministero dell'Economia– è il costo dei due strumenti per le casse dello Stato: secondo le stime del Rapporto Camera dei deputati-Cresme, l'investimento agevolato delle famiglie nel 2014 ammonterebbe a 28,2 miliardi per le ristrutturazioni semplici, con uno sgravio spalmato nei dieci anni di 14,1 miliardi (1,4 miliardi l'anno), mentre l'investimento per il risparmio energetico ammonterebbe a 4,8 miliardi, con una detrazione di 3,1 miliardi spalmati in dieci anni (310 milioni l'anno).
Un discorso a sé merita anche la politica di prevenzione antisismica, per cui si sta cercando uno strumento più articolato e duraturo di incentivazione fiscale, tale da garantire investimenti di lungo periodo, come sono quelli "pesanti" di intervento sul "cappotto" o sui pilastri degli edifici. Non solo: il ministero delle Infrastrutture ha l'ambizione di inserire gli interventi antisimici nelle più generali politiche di trasformazione territoriale e di riqualificazione urbana. Per questo sta lavorando da alcuni mesi al ministero un gruppo di lavoro che dovrebbe creare una metodologia e uno standard per la misurazione e la classificazione del rischio sismico. Questo consentirebbe di definire obiettivi di prevenzione e di legare a questi le agevolazioni.
Oggi sono 7 milioni le costruzioni realizzate prima del 1971 e quindi precedenti a qualunque normativa antisismica: equivalgono al 60% del patrimonio immobiliare nazionale. A queste devono aggiungersi anche 2 milioni di strutture realizzate fra il 1972 e il 1981, 1,3 milioni realizzate fra il 1982 e il 1991 e 800mila edifici nati fra il 1992 e il 2001 che sono stati realizzati prima dell'entrata in vigore delle attuali norme tecniche sulle costruzioni e dell'attuale zonizzazione antisismica. Gli incentivi allo studio si estenderebbero anche agli edifici produttivi. Il ministero stima che due quinti dei 326mila fabbricati produttivi esistenti siano stati costruiti fra il 1971 e il 1990 e che 95mila capannoni siano localizzati in zone ad alto rischio sismico
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.08.2014).

EDILIZIA PRIVATASemplificazione per le imprese con la super-Scia. Burocrazia. Meno oneri su avvio e attività.
C'è anche il recupero della super-Scia stralciata dal decreto competitività nello sblocca-Italia con cui il governo Renzi rilancerà il 29 agosto, in Consiglio dei ministri, le politiche per la crescita.
Al termine di una estate segnata dall'allarmante dato Istat del Pil nel 2° trimestre (-0,2%) e dal richiamo del Governatore Bce, Mario Draghi, a fare rapidamente e bene le riforme per rilanciare gli investimenti (soprattutto privati), lo sblocca-Italia è nell'idea del premier Matteo Renzi il modo per ripartire bene dando risposte a tutti questi temi. Fin dal suo primo concepimento, a fine maggio, del resto, lo sblocca-Italia era nato proprio per dare una drastica sforbiciata alla burocrazia e favorire il rilancio degli investimenti, a partire dall'edilizia che negli ultimi cinque anni è stato il settore che più ha pagato questo crollo (con una riduzione pari all'80% del totale).
Con questa idea centrale il pacchetto sblocca-Italia, che nel frattempo è diventato molto altro, ha svolto il primo passaggio in Consiglio dei ministri il 1° agosto e sempre più con questo pilastro centrale anti-burocrazia sta crescendo, con i testi che vengono scambiati dagli uffici di Palazzo Chigi con gli uffici legislativi dei ministeri competenti. Tutto questo in vista di una seconda riunione di coordinamento lunedì prossimo (la prima è stata l'8 agosto) e del Cdm che darà il via libera definitivo il 29.
Nella lotta alla burocrazia, centrale e locale, il pacchetto di misure che sta prendendo forma è molto ambizioso. Non solo il colpo durissimo all'inerzia delle Sovrintendenze nelle autorizzazioni paesaggistiche e il rafforzamento del potere decisionale delle conferenze di servizi contro assenze e meline "tecniche" delle amministrazioni partecipanti (si veda il Sole 24 Ore del 15 agosto), ma anche norme rivoluzionarie come il regolamento edilizio unico standard per gli 8mila comuni italiani (salva la possibilità di apportare correzioni e modifiche), l'inserimento di un termine di sei mesi per l'esercizio del potere di autotutela delle amministrazioni in caso di silenzio-assenso per il rilascio dei permessi di costruire o in caso di presentazione delle Dia e Scia per i lavori in casa, il potenziamento dello sportello edilizio unico anche con poteri di accertamento dei termini trascorsi per il silenzio-assenso.
Tutte norme in fase di scrittura che daranno un duro colpo ai poteri di veto e alle meline della burocrazia se effettivamente verranno portate al traguardo dell'approvazione. E la notizia più recente di voler recuperare la Super-Scia sarebbe il fiore all'occhiello di questo capitolo dello sblocca-Italia: comparsa fugacemente con un emendamento relatori-governo nel decreto competitività, fu stralciata per ridurre l'eterogeneità di quel provvedimento diventato omnibus.
Ma la misura sarebbe recuperata nella sua interezza. Lo scopo è quello di dare attuazione a una norma del decreto Berlusconi-Tremonti che risale addirittura alle vicende drammatiche dell'agosto 2011 e che prevede che tutte le attività di impresa siano libere e consentite salvo quelle che risultino vietate espressamente da vincoli comunitari, disposizioni indispensabili sulla sicurezza o sulla protezione dell'ambiente, della salute e del patrimonio culturale. Una norma –è bene precisarlo– che non si riferisce solo all'inizio attività (per esempio la nascita di impresa) ma allo svolgimento di qualunque attività imprenditoriale, ricomprendendo anche e soprattutto le attività di investimento.
Ebbene, la norma, che ora viene riproposta dopo la stralcio dal Dl competitività, dispone una liberalizzazione a 360 gradi: se gli attesi regolamenti attuativi, che hanno tenuto congelata la iniziale disposizione legislativa, non arriveranno entro il 31 dicembre 2014, qualunque attività imprenditoriale, commerciale o artigianale si potrà svolgere, a scelta dell'imprenditore, con Scia o con autocertificazione e i controlli dovranno avvenire soltanto ex post
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.08.2014).

APPALTIAppalti, stop al contenzioso.
Frenato l'uso strumentale della giustizia amministrativa: 45 giorni per arrivare a sentenza, liti temerarie sanzionate, sospensive con cauzioni e atti difensivi tagliati.

Il governo sceglie la linea dura contro l'uso strumentale della giustizia amministrativa che ha finito per trasformare ogni appalto in un percorso di guerra dai tempi e dagli esiti imprevedibili. Da anni, infatti, non esiste una procedura di appalto che non finisca per generare uno o più ricorsi: in alcune materie (es. mense scolastiche) il contenzioso giudiziario è una vera e propria strategia d'impresa.
Non c'è dubbio che la degenerazione di questi meccanismi ha avuto come conseguenza il lievitare continuo dei costi e dei tempi, con imprese e pubbliche amministrazioni più impegnate nelle aule dei tribunali amministrativi che nei cantieri.
Con il decreto legge n. 90 di riforma della Pubblica amministrazione (la legge di conversione è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale di oggi) si è deciso di darci un taglio. Da un lato intervenendo sui tempi del processo che vengono drasticamente ridotti con l'obiettivo preciso di chiudere le controversie in 45 giorni, in assenza di problemi particolari (quando ciò le parti sono presenti e non c'è bisogno di attività istruttoria). Questo significa naturalmente incidere anche sul lavoro dei giudici: anche se non si tratta di termini perentori, il rispetto dei termini previsti è infatti un elemento importante nella valutazione del lavoro degli stessi magistrati.
Dall'altro lato si cerca di disincentivare l'accesso alla giustizia amministrativa con l'introduzione di multe per lite temeraria (e questa è una novità assoluta) che vengono calcolate in proporzione al valore del contratto. Non mancano altre forme di sanzioni piuttosto incisive, con l'obiettivo di disincentivare i ricorsi meramente dilatori o di disturbo, come l'inserimento, a discrezione del giudice, di una cauzione (che può raggiungere cifre molto alte essendo calcolata in base allo 0,5% del valore dell'opera) che potrà essere imposta alla parte ricorrente quando questa ottiene dal Tar la sospensiva, con tutti i costi, anche finanziari, che questo comporta. In pratica se il ricorrente alla fine del processo non vede riconosciute le ragioni in base alle quali ha ottenuto la sospensiva rischia di perdere la cauzione, che potrebbe essere assorbita dall'eventuale condanna al risarcimento del danno causato dalla perdita di tempo.
Altra novità del rito degli appalti, forse più di colore che di sostanza, è il numero massimo di pagine concesse agli avvocati per far valere le loro ragioni. Attualmente il codice del processo amministrativo prevede già il principio generale di sinteticità degli atti. Altra cosa però è fissare un numero di pagine massimo oltre quale ciò che viene scritto si ha come non presentato (ci sarebbe quasi da consigliare agli avvocati tendenti alla grafomania di utilizzare caratteri molto compatti, come l'
helvetica narrow, se non fosse che ormai gli atti vengono letti quasi tutti a video e questo trucchetto potrebbe in qualche caso addirittura comprometterne la comprensione).
Insomma, il governo Renzi ha deciso di proseguire in modo sempre più convinto un percorso già iniziato dagli esecutivi precedenti con l'aumento del contributo giudiziario, la riduzione del numero dei Tar, e gli altri strumenti per frenare l'abuso della giustizia amministrativa. In realtà questo è solo uno degli aspetti dell'inefficienza del sistema degli appalti che, oltre all'esplosione del contenzioso, sconta anche grossi problemi di corruzione, infiltrazioni mafiose, scarsa qualità della progettazione, mancanza di risorse adeguate. Ma questa è un'altra partita
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014).

APPALTIAppalti, il processo si velocizza Atti contenuti e sentenze sprint. Le novità nella legge 114/14 che ha convertito il decreto 90/14 di riforma della p.a..
Sforbiciati gli atti difensivi nei processi degli appalti: ricorsi da promuovere solo quando si ha chance di vittoria (a pena di salatissime multe per le liti temerarie) e da chiudere il più in fretta possibile (sentenze in non più di tre mesi). Il dl 90/2014, convertito in legge 114/14 (G.U. del 18/08/2014), velocizza lo speciale giudizio che si celebra presso i tribunali amministrativi e il consiglio di stato. E stabilisce un tetto al numero di pagine che gli avvocati hanno a disposizione per illustrare le proprie difese.
La legge affida a un decreto del presidente di palazzo Spada l'individuazione del numero massimo, che potrà essere stabilito secondo una scaletta che tenga conto della complessità della materia. Sta di fatto che un orientamento, già presente in linea generale nel codice del processo amministrativo (dlgs 104/10) e che ha già avuto attuazione con l'indicazione delle 20 pagine per atto; ora si precisa, a livello normativo, proprio come numero limite di pagine.
Certo si potrà tener conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti; ed inoltre dai limiti dimensionali saranno escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto; e, infine, saranno stabilite eccezioni alla regola.
La nuova normativa consente al giudice di esaminare solo le questioni trattate nelle pagine rientranti nei limiti; e solo il mancato esame di queste questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello. In sostanza il giudice potrà trascurare quanto scritto nelle pagine successive all'ultima ammessa.
Lo snellimento della procedura non riguarda solo il rito degli appalti, la cui conclusione, compreso il deposito della sentenza, è prevista in poco più di tre mesi. Nell'ambito del giudizio amministrativo si cerca di colpire l'abuso del processo con sanzioni pecuniarie, molto salate soprattutto per gli appalti, nel caso di ricorsi manifestamente infondati (la disposizione è stata migliorata rispetto alla versione del decreto legge, che lasciava eccessiva discrezionalità al giudice nel valutare i presupposti di applicazione della sanzione).
Inoltre sia nell'ambito del processo amministrativo che di quello civile, l'aspettativa dello snellimento deriva dall'entrata a regime del processo telematico. Quello civile viene perfezionato in alcuni aspetti (niente firma dei testimoni sul verbale, depositi telematici ammessi fino alle ore 24 del giorno di scadenza, allegati pesanti trasmessi con più invii, esecuzioni mobiliari con vendite online, promozione delle notifiche in proprio degli avvocati a mezzo Pec, preventivata estensione del telematico anche alle corti di appello); il processo telematico amministrativo viene programmato a tappe forzate, con l'applicazione delle norme regolamentari sui depositi telematici. Si incide, poi, a livello organizzativo con l'istituzione dell'ufficio del processo, in cui inserire personale che dovrebbe essere liberato da compiti delle cancellerie (il cui orario di aperture viene ridotto a 4 ore nei giorni feriali).
Ma, infine, la deflazione processuale si realizza anche con una manovra sui costi della giustizia e, in particolare, con un nuovo aumento generalizzato del contributo unificato, che avrà senz'altro un effetto disincentivante l'avvio di una causa, soprattutto se di basso valore
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAScarti vegetali, conta l'obiettivo. Combustione libera se si punta al reimpiego dei residui. Il dl Competitività riscrive le regole per i rifiuti provenienti da attività agricola o forestale.
La combustione di materiale proveniente da attività agricola o forestale nel luogo di produzione può essere condotta liberamente solo se finalizzata al reimpiego dei residui verdi come concimante o ammendante.

A ridisegnare per l'ennesima volta, restringendoli, i confini legali della nota pratica è la legge di conversione del dl 91/2014 (c.d. «dl Competitività») approvata in via definitiva il 07.08.2014.
Il provvedimento (il terzo che interviene in materia, dopo il dl 136/2013, la legge 6/2014 e la formulazione originaria dell'ultimo citato decreto legge) affianca alle altre già previste due condizioni che legittimano l'operazione (ossia il rispetto di limiti quantitativi giornalieri e di eventuali divieti temporanei posti dagli Enti locali) il terzo parametro del necessario «riutilizzo».
La rinnovata disciplina. Mediante la diretta modifica del dlgs 152/2006, la legge in parola stabilisce infatti che è considerata «normale pratica agricola», e non gestione di rifiuti, l'attività di raggruppamento e abbruciamento del materiale vegetale ex articolo 185, comma 1, lettera f), dello stesso Codice ambientale (coincidente con il materiale agricolo o forestale esclusivamente naturale e non pericoloso), effettuati nel rispetto delle seguenti condizioni:
- combustione effettuata nel luogo di produzione dei residui (come già previsto dalla pregressa disciplina);
- in cumuli non superiori a 3 metri steri per ettaro (pedissequamente alle precedenti norme);
- al fine del reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti (vera novità sostanziale);
- fuori dai periodi vietati dagli enti locali (tra i quali, ulteriore novità, a fianco di Regione e Comune fanno ora il loro esordio «le altre amministrazioni competenti in materia ambientale»).
Nel rispetto di suddette condizioni e finalità l'abbruciamento del materiale in questione (anche, secondo la nuova disposizione dettata dal provvedimento in esame, se «derivato da verde pubblico o privato») sarà dunque conducibile senza necessità di autorizzazione ambientale.
Diversamente la stessa pratica potrà integrerà, in base alla concreta condotta posta in essere, «attività di gestione di rifiuti non autorizzata» (ex articolo 256, Codice ambientale) o uno dei reati di «combustione illecita di rifiuti» previsti e puniti dall'articolo 256-bis, dlgs 152/2006. E l'attenzione degli operatori dovrà essere in particolare posta, vista la proliferazione di cui si è accennato, sui diversi enti ora legittimati a inibire (rendendola penalmente rilevante) la pratica in parola.
Le Regioni potranno infatti vietare la combustione nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi.
I Comuni e le «altre amministrazioni competenti» (tra cui sicuramente rientrano le Agenzie regionali meglio note come «Arpa») potranno invece sospendere, differire o vietare l'abbruciamento se sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (Pm10).
Il contesto normativo. L'innovazione della disciplina in parola è dal Legislatore introdotta nell'ordinamento giuridico mediante l'intervento su due precisi articoli del «Codice ambientale»: il 182 (in materia di «smaltimento dei rifiuti») e il citato 256-bis (sulla «combustione illecita di rifiuti»), sui quali è bene soffermarsi per meglio comprendere gli effetti operativi della riforma.
In primo luogo, è infatti proprio nell'articolo 182 del dlgs 152/2006 che viene inserito (mediante il nuovo comma «6-bis») il «reimpiego» dei residui agricoli verdi quale condizione indefettibile per poter procedere alla loro combustione fuori dal regime dei rifiuti, in tal modo stabilendo (coerentemente con la logica del «Codice ambientale») come non vi sia spazio per analoga eccezione qualora l'abbruciamento sia invece finalizzato al «disfarsi» degli stessi materiali.
Così riformulata, la disciplina della «combustione in deroga» ben si affianca all'altra eccezione al regime dei rifiuti già prevista dall'articolo 185, comma 1, lettera f) per gli stessi residui, articolo a mente del quale non sono oggetto della disciplina dei rifiuti «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana.».
In secondo luogo, sempre dal punto di vista sistematico, è nel comma 6 dell'articolo 256-bis, dlgs 152/2006 che il Legislatore inserisce (con un nuovo periodo) la disposizione per la quale l'abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale condotto nei dettami del citato e nuovo comma 6-bis, articolo 182 (quello che impone, tra altre condizioni, il «reimpiego»), non integra la fattispecie di «combustione illecita»; e questo mantenendo parallelamente in vita la disposizione recata dal primo periodo dello stesso comma 6 (articolo 256-bis) che continua invece a punire la combustione «dei rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali», rifiuti classificati dall'articolo 184, comma 2, lett. e), come «urbani» e costituenti (come già ricordato dal Ministero dell'ambiente con nota 18.03.2011 n. 8890) una categoria diversa dai «rifiuti da attività agricole e agro-industriali» inquadrati dallo stesso articolo 184, comma 3 come «speciali».
Dunque, oggi come ieri il regime di favore del Legislatore pare continui a valere esclusivamente per la combustione di residui vegetali da parte d'imprese agricole o agroforestali, con la novità di ricomprende tra questi ultimi anche quelli «derivati» (sempre ad opera di tali soggetti) da verde pubblico o privato, nessuna deroga (sempre al regime dei rifiuti) essendo prevista per l'abbruciamento da parte di altre utenze dei propri scarti verdi.
Così, per i residui vegetali prodotti da privati (o aziende diverse dalle agricole) nell'ambito della cura del proprio verde le uniche strade percorribili continueranno ad essere quelle già espressamente previste dal dlgs 152/2006, ossia:
- in caso di intenzione di «disfarsene», il conferimento degli scarti a terzi autorizzati alla gestione rifiuti;
- in caso di volontà di reimpiego, l'autocompostaggio dei residui organici ai fini dell'utilizzo in sito del materiale prodotto
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014).

VARI: Prima casa, imposte a due vie. Fisco diverso se il venditore è un privato o un'impresa. L'Agenzia delle entrate ha pubblicato un dossier sulle compravendite immobiliari.
Imposte sulla prima casa a due vie a seconda se l'acquisto è effettuato da un privato o da un'impresa si dovrà versare un imposta di registro al 2 o al 4% e non effettuare il pagamento Iva. Al momento del rogito occhio a indicare le modalità di pagamento del corrispettivo e le spese sostenute per l'attività di mediazione, indicando, anche in quest'ultimo caso come è stato pagato il mediatore.

Sono queste alcune delle indicazioni che arrivano dalla bussola per orientarsi nell'acquisto della casa, preparata dall'Agenzia delle entrate e pubblicata ieri.
In particolare, con riferimento all'acquisto della prima casa il dossier ricorda che le imposte da versare sono più basse rispetto a un acquisto di immobile non prima casa.
Nel caso di acquisto da privato (o da impresa, ma con vendita esente da Iva) imposta di registro del 2%; imposta ipotecaria fissa di 50 euro; imposta catastale fissa di 50 euro.
Nel caso di acquisto da impresa, con vendita soggetta a Iva: Iva al 4%, imposta ipotecaria fissa di 200 euro, imposta catastale fissa di 200 euro, imposta di registro fissa di 200 euro.
Per completare il quadro, bisogna aggiungere che l'imposta di registro proporzionale non può comunque essere di importo inferiore a 1.000 euro e che i trasferimenti assoggettati a tale imposta sono esenti dall'imposta di bollo, dai tributi speciali catastali e dalle tasse ipotecarie.
Nelle informazioni da indicare nell'atto di compravendita l'Agenzia delle entrate ricorda che occorre inserire nel rogito una «dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà» in cui segnalare: le modalità di pagamento del corrispettivo (assegno, bonifico ecc.); se per l'operazione si è fatto ricorso ad attività di mediazione e, in caso affermativo, tutti i dati identificativi del titolare, se persona fisica, o la denominazione, la ragione sociale e i dati identificativi del legale rappresentante, se soggetto diverso da persona fisica, ovvero del mediatore non legale rappresentante che ha operato per la stessa società, la partita Iva, il codice fiscale, il numero di iscrizione al ruolo degli agenti di affari in mediazione e della Camera di commercio; le spese sostenute per l'attività di mediazione, con le analitiche modalità di pagamento.
Dopo aver acquistato casa una serie di adempimenti da effettuare attendono il neoproprietario. Ogni atto immobiliare, infatti, va registrato, trascritto nei registri immobiliari e volturato nella banca dati catastale. Adempimenti che spetta al notaio eseguire con l'invio online di un unico modello.
A ogni modo, è bene tenere a mente che i compensi pagati al mediatore, cioè all'agenzia immobiliare, per l'acquisto dell'immobile da adibire ad abitazione principale si possono detrarre nella misura del 19%, con un tetto massimo di 1.000 euro. Se i compratori sono più d'uno allora la detrazione va ripartita. Inoltre, in caso il compratore abbia stipulato un mutuo ipotecario per acquistare l'abitazione principale è possibile detrarre dall'Irpef il 19% degli interessi passivi, degli oneri accessori e delle quote di rivalutazione pagati all'istituto di credito. In questo caso, il tetto massimo è di 4.000 euro l'anno.
Comunque, l'immobile acquistato produce anche un reddito che è dato dalla rendita catastale rivalutata o dal canone d'affitto e che va dichiarato dal nuovo proprietario, nel modello 730 o nell'Unico.
In caso si decidesse di vendere l'abitazione si deve tener conto che ne può derivare una plusvalenza, cioè una differenza positiva tra quanto incassato dalla vendita e il prezzo d'acquisto, aumentato dei costi inerenti l'immobile stesso. Questo valore rientra nella categoria dei «redditi diversì» e come tale va tassato con le normali aliquote Irpef o, in alternativa, il venditore può optare per l'applicazione di un'imposta sostitutiva di quella del reddito pari al 20%. Comunque, vi sono delle eccezioni, come, per esempio, quando viene venduta l'abitazione principale, oppure, l'immobile ceduto è pervenuto per successione o per usucapione. In questi casi, infatti, e in altri, la plusvalenza non è tassabile
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2014).

ENTI LOCALIProvince, scoppia il caos giunte. I consiglieri delegati non saranno assessori mascherati. La legge Delrio ha eliminato l'organo esecutivo affidando la funzione di governo al presidente.
Nelle province scoppia il caos giunte. La legge Delrio (legge n. 56/2014) ha eliminato nelle province l'organo giunta, senza prevedere al suo posto un diverso organo collegiale. L'assemblea dei sindaci, nuovo organo specificamente operante nelle amministrazioni provinciali, dispone di precise e limitate competenze, finalizzate all'approvazione di statuti, regolamenti ed atti di pianificazione. E il consiglio provinciale non ha guadagnato, in conseguenza del diverso assetto istituzionale nelle province, le funzioni della giunta.
In assenza di previsioni esplicite diverse, si deve ritenere che la funzione di governo operativa nelle province, prima spettante alle giunte, una volta effettuate le elezioni del prossimo autunno sia riservata elusivamente al presidente della provincia.

Le previsioni della legge Delrio, però, sono tutt'altro che chiare e certamente apriranno fronti di controversie e dibattiti. Infatti, l'articolo 1, comma 66, della legge 56/2014 a questo proposito dispone: «Il presidente della provincia può altresì assegnare deleghe a consiglieri provinciali, nel rispetto del principio di collegialità, secondo le modalità e nei limiti stabiliti dallo statuto» (analoga norma si ritrova per le città metropolitane).
Non mancherà chi veda nella previsione la possibilità di ricostituire giunta e assessori, facendo coincidere questi con i «consiglieri delegati».
Tale ricostruzione, tuttavia, non appare persuasiva e corretta, per almeno due ordini di ragioni. La prima è pratica e di opportunità. I componenti dei consigli provinciali saranno sindaci o consiglieri comunali. È abbastanza chiaro che il ruolo di «assessore» o, comunque, di «consigliere operativo» molto difficilmente può essere assegnato contestualmente a un altro. Non è casuale, infatti, che nei comuni il ruolo di assessore è esclusivo, tanto che negli enti con popolazione oltre i 15 mila abitanti è prevista proprio l'incompatibilità con quello di consigliere.
Conciliare il ruolo di consigliere o, ancor peggio, di sindaco, di enti diversi con quello di «assessore» o «consigliere operativo» risulterebbe ancora più complicato e difficilmente sostenibile sul piano organizzativo ed istituzionale.
Sul piano strettamente giuridico, se il consiglio svolge funzioni di indirizzo e controllo, è evidentemente improponibile che suoi componenti possano ricevere deleghe operative, sulle quali l'organo di appartenenza dovrebbe, poi, esercitare il controllo stesso: sarebbe un evidente caso di conflitto di interessi e coincidenza controllore-controllato.
Ancora, ai sensi dell'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione è riservato alla legge dello Stato occuparsi degli organi degli enti locali. Se la legge elimina le giunte, allora, esse non possono essere ripristinate sotto mentite spoglie mediante gli statuti.
Si deve, dunque, ritenere che il presidente delle province non possa delegare ai consiglieri funzioni tali da ripristinare l'organo giunta, facendo di fatto dei consiglieri delegati una sorta di assessori, con nome diverso.
Le deleghe dovranno essere limitate a poche competenze del presidente, sul presupposto che la nuova configurazione degli organi politici delle province (e delle città metropolitane) essendo di «secondo grado» dovranno svolgere contemporaneamente più funzioni, nei comuni di provenienza e nelle province, sì da non poter garantire un presidio totale costante e continuo.
Non si comprende appieno, per altro, cosa intenda il legislatore quando, nell'ammettere la possibilità per il presidente di delegare i consiglieri, prevede di rispettare il «principio di collegialità», principio che con l'istituto della delega non ha nulla a che vedere.
Si potrebbe intendere che le deleghe ai consiglieri non debbono ledere il principio di collegialità che regge il funzionamento del consiglio provinciale: in altre parole, i consiglieri non assumerebbero ruolo di organo autonomo, ma rimarrebbero pur sempre membri del collegio cui appartengono, senza che la delega ne modifichi status e poteri. Ma, in realtà, la delega ovviamente incrementa i poteri dei consiglieri delegati
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2014).

EDILIZIA PRIVATATermini perentori di 45 giorni per esprimere il parere nelle autorizzazioni paesaggistiche. Altolà all'inerzia dei Sovrintendenti.
Un colpo ai poteri di veto e alle inerzie delle Sovrintendenze, un rafforzamento della capacità decisionale delle conferenze di servizi, un rinvio al 01.01.2015 dell'obbligo per le stazioni appaltanti di acquisire i documenti relativi a gare e contratti dall'Avcpass (la banca dati dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ora assorbita nell'Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone), una norma che vieta livelli di sicurezza nelle infrastrutture superiori alle prescrizioni minime Ue per contenere costi e tempi di esecuzione.
Nelle prime norme del decreto sblocca-Italia che andrà al Consiglio dei ministri il 29 agosto non ci sono solo le privatizzazioni (parziali) delle società partecipate e il rilancio di progetti di sviluppo su aree demaniali (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). Molte le disposizioni finalizzate a semplificare interventi pubblici e privati e a eliminare ostacoli, veti, paralisi amministrativa, inerzie che spesso rallentano il percorso di autorizzazione, progettazione e realizzazione delle opere.
Di grande valore politico le quattro norme che riguardano il ministero dei Beni culturali, le Sovrintendenze, le autorizzazioni paesaggistiche. C'è già stato uno scontro politico con l'annuncio del premier, Matteo Renzi, di voler intervenire a ridimensionare i poteri ostativi delle Sovrintendenze. Scontro poi rinviato in occasione del decreto sui beni culturali, probabile che il decreto sblocca-Italia sia il terreno giusto per queste decisioni.
Il primo intervento è quello che attribuisce il carattere di perentorietà al termine di 45 giorni che le Sovrintendenze hanno per il rilascio del parere in materia di autorizzazione paesaggistica. Decorso il termine perentorio, la decisione spetta all'amministrazione proponente che potrà comunque agire in autotutela qualora l'interesse paesaggistico sia meritevole di tutela. La proposta, oltre a essere in linea con la recente giurisprudenza amministrativa (Tar Puglia, Lecce, sez. I, 06.02.2014, n. 321), è volta -afferma la relazione- «a rendere il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica più certo e celere, senza incidere sul livello di tutela degli interessi pubblici né sulla competenza delle autorità coinvolte in tale procedimento».
Un secondo emendamento punta a semplificare eliminando ridondanze nella sfera di intervento delle Sovrintendenze. In particolare, «il parere del Sovrintendente non è richiesto qualora il ministero abbia valutato positivamente, su richiesta della regione interessata, l'avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici alle prescrizioni d'uso dei beni paesaggistici tutelati».
C'è poi il caso di reperimento di «cose immobili di interesse archeologico» nel corso di lavori di un'opera pubblica. Qui l'obiettivo è evitare l'approccio meramente conservativo largamente dominante oggi rispetto a quello della valorizzazione del bene. Entro 90 giorni dalla scoperta «il Sovrintendente determina le misure idonee a tutela del bene ritrovato, prendendo in esame le proposte progettuali del soggetto realizzatore dell'opera, volte a rendere compatibile la realizzazione della stessa con la valorizzazione e/o conservazione delle cose ritrovate». Il soggetto realizzatore dell'opera può fare ricorso contro le decisioni del Sovrintendente al ministero per i beni e le attività culturali che deciderà entro 90 giorni, previo parere di una commissione per la tutela archeologica.
Sulla conferenza di servizi, lo sblocca-Italia dovrebbe intervenire con almeno due norme: la prima mira ad allineare i termini di validità ed efficacia di tutti i pareri, autorizzazioni, concessioni, nulla osta o atti di dissenso comunque denominati espressi nell'ambito del procedimento amministrativo. Questo per evitare che molti pareri o atti, espressi anche molto tempo prima del provvedimento autorizzativo finale, vedano già notevolmente ridotti i tempi di validità nel momento in cui i lavori vengono avviati.
L'altra norma punta invece a escludere che impediscano l'assunzione della delibera conclusiva l'assenza di una delle amministrazioni invitate o la mancanza dei poteri rappresentativi in capo al soggetto presente a rappresentarla o anche il dissenso privo delle specifiche indicazioni progettuali necessarie per esprimere parere negativo. In caso di motivato dissenso, invece, da parte di un'amministrazione centrale o locale, sarà comunque possibile esprimere una delibera finale positiva qualora entro sette giorni esprimano assenso gli organi politici dell'amministrazione dissenziente, ministro o assessore competente.
Infine, sempre entro il termine di sette giorni, devono essere resi tutti i pareri e gli atti di assenso: qualora questo non avvenga, si intenderanno positivamente acquisiti
 
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2014).

APPALTIAppalti pubblici, più forte l'Autorità anticorruzione. Incorporate le funzioni dell'Autorità contratti.
L'autorità anticorruzione acquisisce un ruolo più forte nelle attività di vigilanza sugli appalti pubblici, mentre le stazioni appaltanti devono sanzionare i concorrenti che partecipano alle gare omettendo dichiarazioni indispensabili.
Con la conversione del decreto legge 90/2014 l'autorità nazionale anticorruzione incorpora l'autorità di vigilanza sui contratti pubblici, assumendone le funzioni.
L'Anac ha peraltro la possibilità di combinare le proprie attività in materia di anticorruzione con quelle di vigilanza sugli appalti, potendo peraltro acquisire elementi specifici anche da segnalazioni di illeciti.
In questa prospettiva risulta particolarmente importante l'obbligo, per le stazioni appaltanti, di trasmettere all'autorità le varianti superiori al 10% dell'importo originario del contratto per gli appalti soprasoglia e all'osservatorio regionale per quelli sottosoglia.
L'autorità ha anche compiti specifici in ordine agli appalti di Expo 2015, ma che ne configurano l'intervento straordinario anche in relazione ad altri macroprocessi: l'articolo 32 consente, infatti, l'intervento su imprese appaltatrici o concessionarie di lavori che siano coinvolte in fatti corruttivi.
Il decreto di riforma della Pubblica amministrazione introduce elementi di notevole impatto anche nelle regole procedurali delle gare di appalto. L'articolo 39 stabilisce, infatti, che quando un concorrente non renda una o più delle dichiarazioni sostitutive relative ai requisiti di ordine generale oppure le renda in modo incompleto o con irregolarità essenziali, la stazione appaltante lo deve sanzionare e deve richiedergli di produrre la dichiarazione mancante, di completarla o di sanare gli elementi irregolari.
La sanzione deve essere esplicitamente indicata dall'amministrazione nel bando, con determinazione del valore compresa tra l'uno per mille e l'uno per cento della base d'asta, dovendo peraltro considerare che è previsto comunque un tetto massimo di 50mila euro.
Per rimediare alle dichiarazioni mancanti, incomplete o con irregolarità essenziali la stazione appaltante concede all'operatore economico un termine non superiore a dieci giorni: qualora gli elementi dovuti non siano resi entro tale scadenza, l'amministrazione esclude il concorrente.
La disposizione è peraltro applicabile a tutte le tipologie di dichiarazioni sostitutive che devono essere rese in gara in base alla legge o al disciplinare, quindi risulta applicabile alle modalità dichiarative di tutti i requisiti (compresi quelli di partecipazione).
Le stazioni appaltanti, in tal senso, dovranno distinguere chiaramente le dichiarazioni sostitutive da quelle di impegno o di conoscenza (spesso mescolate impropriamente nei bandi di gara), facendo rientrare solo le prime nel sistema sanzionatorio introdotto nel codice dei contratti. Inoltre, le amministrazioni devono chiarire nei bandi anche quali siano gli elementi essenziali che comportano l'applicazione del particolare sistema sanzionatorio.
L'articolo 23-ter sposta al 01.01.2015 per i beni e servizi, nonché al 01.07.2015 per i lavori, l'obbligo, per i Comuni non capoluogo, di gestire gli appalti mediante ricorso a centrali di committenza, stazioni uniche appaltanti presso le Province, unioni di Comuni o accordi con altri Comuni.
La disposizione salvaguarda le procedure avviate alla data di entrata in vigore del Dl 90/2014 e stabilisce anche un'importante eccezione applicativa per i Comuni colpiti dal sisma d'Abruzzo e da quello dell'Emilia-Romagna.
Per tutti i Comuni non capoluogo con popolazione superiore ai 10mila abitanti, una volta entrata a regime la disposizione comportante gli obblighi aggregativi, sarà comunque possibile procedere autonomamente ad acquisizioni di beni, servizi e lavori entro i 40mila euro, mentre i Comuni di minori dimensioni dovranno in ogni caso procedere con le forme aggregate
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2014).

APPALTI - ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALISTATALI IN PENSIONE CON «USCITE» RIGIDE. Il Dl Pa taglia il lavoro «lungo» e conferma la risoluzione unilaterale.
Abolizione del trattenimento in servizio, risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro al raggiungimento dei requisiti per la pensione anticipata e divieto di conferire incarichi dirigenziali a soggetti collocati in quiescenza.

Sono alcune delle novità contenute nel Dl 90/2014 –convertito in legge la scorsa settimana– per migliorare l'efficienza nella Pa e negli uffici giudiziari, innestandosi peraltro su altre novità degli ultimi anni (si veda a pagina 32). Nel pubblico impiego il lavoratore deve lasciare il posto a 65 anni se a tale età ha maturato un qualsiasi diritto a pensione (si veda il Sole 24 Ore dell'8 agosto). In caso contrario il rapporto proseguirà fino ai nuovi limiti previsti per il conseguimento della pensione di vecchiaia (66 anni 3 mesi). In funzione di quale requisito risulterà prima perfezionato il rapporto di lavoro si intenderà risolto senza che l'interessato possa chiedere di proseguire il rapporto di lavoro per un altro biennio.
L'articolo 16 della riforma Amato (Dlgs 503/1992) aveva introdotto tale facoltà per posticipare il pensionamento e rinviare la relativa spesa. Nel corso degli anni diversi interventi normativi sono stati, però, attuati sull'articolo 16. In principio, se il dipendente ne chiedeva l'applicazione, la concessione da parte dell'ente era obbligatoria, mentre successivamente (dal 31.05.2010) fu previsto che se l'ente concedeva il trattenimento, esso costituiva nuova assunzione.
I trattenimenti già in essere cesseranno la loro efficacia dal 31.10.2014 o fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore. Per il comparto scuola, stante la specificità del settore e per salvaguardare la continuità didattica, i trattenimenti cesseranno, tuttavia, il prossimo 31 agosto. La norma generale trova poi una limitazione per i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari al fine di assicurare la funzionalità degli uffici giudiziari. Per costoro, se hanno i requisiti, il trattenimento potrà arrivare fino al 31.12.2015 o fino alla loro scadenza naturale, se prevista in data anteriore.
Il nuovo decreto ha eliminato il riferimento temporale per quanto riguarda le risoluzioni unilaterali del rapporto di lavoro da parte delle Pubbliche amministrazioni nei confronti del proprio personale in possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione anticipata. Prima della riforma gli enti avrebbero potuto esercitare la risoluzione fino al 31.12.2014. Le Pa, con decisione motivata e con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, possono –a decorrere dalla maturazione del requisito di anzianità contributiva per l'accesso al pensionamento anticipato come disciplinato dal decreto Salva Italia (Dl 201/2011)– risolvere il rapporto di lavoro e il contratto individuale anche del personale dirigenziale con un preavviso di sei mesi. Nel caso in cui dovessero operare le penalità (1%-2% sulle quote retributive) per pensionamenti con età inferiori a 62 anni, gli enti dovranno attendere il raggiungimento di tale età o comunque un periodo sufficiente a far sì che le decurtazioni non trovino più applicazione. Salvi dalla risoluzione in parola sono il personale di magistratura, i professori universitari e i responsabili di struttura complessa del Servizio sanitario nazionale, mentre troverà applicazione ai dirigenti medici e del ruolo sanitario non prima del 65º anno di età.
Stretta anche al conferimento degli incarichi a pensionati. Le pubbliche amministrazioni, nonché gli enti inseriti nel conto economico consolidato della Pa così come individuati dall'Istat, le autorità indipendenti e la Consob non potranno attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza. Agli stessi soggetti non potranno essere conferiti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni in parola e degli enti e società da esse controllati.
Salvi i componenti delle giunte degli enti territoriali e i componenti o titolari degli organi elettivi di ordini e collegi professionali, nonché di enti aventi natura associativa. Gli incarichi e le collaborazioni sono tuttavia consentiti a titolo gratuito e per la durata massima di un anno. Non sono previste né proroghe, né rinnovi e i rimborsi spese eventualmente corrisposti dovranno essere rendicontati. Tali disposizioni troveranno comunque applicazione agli incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore del decreto (25.06.2014).
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1 | MOBILITÀ DEI DIPENDENTI
Spostamento obbligato entro un'area di 50 km
Il Governo, viste le ristrettezze di bilancio, risponde alle richieste di nuove assunzioni potenziando la mobilità dei dipendenti, di cui individua tre tipi. La prima è la mobilità volontaria, in cui assume rilievo la richiesta del dipendente di essere trasferito. Preliminarmente l'amministrazione deve fissare i requisiti e le competenze richieste. Il testo originario del decreto legge, al contrario, imponeva l'individuazione dei criteri di scelta. Bisognerà, quindi, procedere a una immediata revisione della regolamentazione sulla mobilità per recepire le novità introdotte dalla legge di conversione.
In tale regolamentazione si deve prevedere, altresì, l'obbligo di pubblicazione sul sito internet dell'ente di un apposito avviso per almeno 30 giorni. Il termine può essere anche superiore e possono essere individuati ulteriori mezzi di informazione per la pubblicità del bando. L'ente definisce anche soggetti, modalità e tempi per l'individuazione del dipendente pubblico idoneo a ricoprire il posto vacante; dipendente che deve già possedere una qualifica corrispondente a tale posto ed essere munito dell'assenso dell'amministrazione di appartenenza.
Il secondo e il terzo tipo di mobilità si possono definire obbligatori, in quanto si prescinde dall'assenso del dipendente. Può avvenire all'interno della stessa amministrazione o fra due enti diversi, previo accordo fra gli stessi. In questi casi, però, il trasferimento deve avvenire nello stesso comune oppure a una distanza dalla sede di servizio non superiore a 50 chilometri. Anche in queste fattispecie è necessario che l'ente, per garantire la massima trasparenza e oggettività, fissi preliminarmente i criteri con cui vengono individuati i dipendenti da trasferire e le modalità con le quali si procede alla individuazione dell'amministrazione con cui stipulare l'accordo. Un'ultima tipologia di mobilità dei lavoratori prescinde anche dalla volontà degli enti interessati ed è decisa con decreto del ministro per la Semplificazione e la pubblica amministrazione, consultate le organizzazioni sindacali e previa intesa in sede di conferenza unificata.
Le mobilità per le quali non è previsto il consenso del lavoratore non operano nel caso di dipendente con figli minori di tre anni, con diritto al congedo parentale o quando il lavoratore ha diritto ai tre giorni di permesso di cui all'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992.
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2 | POLITICHE OCCUPAZIONALI
Si ampliano gli spazi per nuove assunzioni
Per aumentare la possibilità delle Pa e, in particolare dei Comuni e delle Regioni, di effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato e determinato il Dl 90/14 contiene numerosi interventi.
Si abroga, anzitutto, il divieto di dare corso ad assunzioni per gli enti con un rapporto tra spesa del personale e corrente superiore al 50 per cento. Il che determinerà in Sicilia la stabilizzazione di buona parte degli oltre 20mila precari. Importante è la scelta di assumere, dal 2014, come tetto alla spesa del personale negli enti soggetti al patto di stabilità, quello medio del triennio 2011-2013 e non più quello dell'anno precedente.
Il che determina il superamento del vincolo alla progressiva riduzione della spesa del personale in favore –come già avveniva per gli enti non soggetti al patto con il riferimento al 2008– dell'ancoraggio a una base certa. Così viene tolto un pesante vincolo alle assunzioni: spesso con gli oneri da esse determinate si finiva con il superare il tetto della spesa del personale dell'anno precedente, per cui esse venivano subordinate alla realizzazione di risparmi ulteriori, quali quelli determinati da nuove cessazioni.
La possibilità di effettuare assunzioni viene, inoltre, accresciuta. Per quelle a tempo indeterminato il tetto è fissato non più nel 40% della spesa del personale cessato, ma nel 60% per il biennio 2014-2015, nell'80% per il biennio 2016-2017 e nel 100% dal 2018. Per gli enti in cui il rapporto tra spesa del personale e spesa corrente è inferiore al 25% il tetto alle assunzioni a tempo indeterminato sale allo 80% per il 2014 e al 100% dal 2015. In controtendenza rispetto a queste scelte si colloca, invece, il superamento delle deroghe in tema d'incidenza sulla spesa per le nuove assunzioni dei vigili e del personale da utilizzare nelle funzioni servizi sociali e pubblica istruzione.
Aumentano, infine, le possibilità di ricorrere anche alle assunzioni flessibili. Non sono incluse nel relativo tetto alla spesa gli oneri per Lsu, Lpu e cantieri di lavoro finanziati da altri soggetti. E, soprattutto, si può superare il tetto del 50% della spesa sostenuta a tale titolo nel 2009 in tutti gli enti in cui viene rispettato il vincolo alla spesa del personale. Vi sono, inoltre, deroghe al tetto di spesa complessivo per quelle dei vigili nei piccoli Comuni turistici
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3 | SEGRETARI COMUNALI
Ridotti i compensi per i diritti di rogito
I compensi dei segretari comunali e provinciali sono ridotti dalle limitazioni introdotte alla fruizione del diritto di rogito. Il testo della legge di conversione è meno duro rispetto alla previsione iniziale, la quale disponeva l'abrogazione di questo compenso che i segretari hanno fin qui percepito in misura molto differenziata e i cui costi sono a carico dei privati. La disposizione pone dei dubbi di legittimità sia per la possibile lesione del principio di eguaglianza, sia perché essa incide su un ambito attualmente disciplinato dal contratto nazionale. Con questa disposizione affluiranno ai Comuni più risorse, obiettivo che, unitamente alla «calmierazione» dei compensi che hanno «un adeguato rilievo» dei segretari, il Governo –come si legge nella relazione illustrativa– ha voluto perseguire. Restando tutti i proventi ai Comuni, vengono però anche chiusi i canali di finanziamento della ex Agenzia dei segretari e della formazione. Questi finanziamenti possono essere recuperati con tagli ai trasferimenti ai Comuni, ma si perde la destinazione specifica alla formazione dei segretari, attività assai importante che rischia di essere penalizzata.
I punti centrali della nuova disciplina sono due. In primo luogo sono esclusi dalla fruizione del compenso i segretari che svolgono la loro attività negli enti con i dirigenti e quelli che hanno una qualifica dirigenziale. Dal testo della disposizione si trae la conclusione che nei Comuni privi di dirigenti il compenso sia dovuto a tutti i segretari e che nei Comuni con i dirigenti sia dovuto solo ai segretari senza qualifica dirigenziale. La disposizione solleva un dubbio applicativo rilevante: chi sono i segretari che hanno la qualifica dirigenziale? Non vi sono infatti disposizioni né contrattuali, né legislative che lo stabiliscono.
La seconda limitazione si concretizza con la fissazione di un tetto abbassato da 1/3 del trattamento economico in godimento a 1/5. Tale limitazione è, in parte, bilanciata dal fatto che il tetto non sembra doversi più calcolare sul 75% degli incassi ma su tutto quanto i privati hanno versato al Comune per queste attività.
I compensi maturati per le attività svolte fino al 24 giugno, cioè al giorno precedente l'entrata in vigore del decreto, devono essere corrisposti. Le nuove regole si completano con la previsione che l'attività di rogito, che in precedenza era una possibilità, deve essere necessariamente svolta su richiesta dell'ente.
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4 | INCENTIVI DI PROGETTAZIONE
Tetto alla quota del 2% sull'importo base di gara
Riscritta la disciplina sugli incentivi per la progettazione, per i quali le Pa devono costituire un apposito fondo, con conseguente necessità di riportare la materia in sede di contrattazione decentrata integrativa per una revisione dei criteri e delle modalità di riparto. Poi si dovrà rimettere mano al regolamento interno degli incentivi, il quale dovrà fissare la percentuale effettiva dell'incentivo nell'ambito del tetto da destinare al fondo stabilito dalla norma, pari al 2% dell'importo posto a base di gara comprensivo degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione.
Due criteri da tener presenti nella individuazione della percentuale sono suggeriti dalla stessa disposizione, ossia l'entità e la complessità dell'opera da realizzare, ma viene esplicitato che vanno escluse le manutenzioni. I beneficiari sono gli stessi del passato: il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori. Ma a questi dipendenti va l'80% dell'incentivo stabilito, mentre il 20% va destinato all'acquisto di beni e tecnologie per la progettazione interna.
Il regolamento deve prevedere come suddividere l'importo fra gli aventi diritto all'incentivo, con riduzione delle somme a disposizione se alcune fasi della progettazione sono affidate all'esterno. Vengono, altresì, introdotti tre parametri per il riparto: la responsabilità che il dipendente si assume, i tempi e i costi di realizzazione dell'opera previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il mancato rispetto di tempi e costi deve comportare una riduzione del compenso nella misura stabilita dal regolamento.
Ridotto il tetto complessivo del compenso a livello di singolo dipendente: si passa da un importo pari al trattamento economico complessivo lordo annuo al suo 50%, considerando anche le somme riconosciute per il medesimo titolo da altre amministrazioni. Tra i beneficiari vanno esclusi i dirigenti per il principio di onnicomprensività della loro retribuzione. Il regolamento dovrà tener conto di questa previsione quando disciplina il riparto delle somme a disposizione, destinando a economie di bilancio gli importi previsti per i beneficiari con qualifica dirigenziale.
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5 | GARE E INCARICHI
Fascicoli più scarni per abbreviare le liti
La legge di conversione del Dl 90/2014 incentiva l'informatica nel processo amministrativo, prevedendo inoltre un'abbreviazione dei termini per concludere le liti in circa due mesi. Quest'ultima novità riguarda il settore degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, in cui più si percepiva l'esigenza di rapidità.
Alle disposizioni sulla posta certificata e sulla informatizzazione si aggiunge l'innovazione su forme e quantità degli atti giudiziari. Si tratta di limiti nelle liti in materia di gare e incarichi professionali di progettazione, in cui già ci sono tempi accelerati con cadenze di poche decine di giorni. L'articolo 40 prevede ora che il processo non debba eccedere una consistenza standard, individuata in poche decine di pagine. Si tratta quindi del primo tentativo nella giustizia nazionale di condizionare le modalità di difesa. Finora gli eccessi potevano essere sanzionati unicamente in udienza dal giudice, o in sentenza con generiche misure pecuniarie senza tuttavia che eventuali eccessi, divagazioni, ridondanze potessero influire negativamente sulle sorti della lite.
L'articolo 40 del decreto è innovativo perché impedisce di valutare tutto ciò che è scritto in eccedenza rispetto le pagine consentite, indipendentemente dalla fondatezza delle affermazioni, con l'aggravante che nemmeno il giudice d'appello può interessarsi di ciò che risulta graficamente collocato nelle pagine eccedenti. Sistemi analoghi sono già collaudati nelle offerte di gara, limitate quantitativamente per evitare descrizioni eccessivamente dettagliate, ma se le preclusioni trasmigrano negli atti giudiziari rischiano di limitare le possibilità di difesa, cioè diritti di specifica e incomprimibile consistenza.
Nel settore delle gare pubbliche l'articolo 39 introduce un meccanismo per limitare le liti dovute a escursioni per irregolarità formali: si prevede, infatti, che il concorrente escluso per mancanza, incompletezza o irregolarità di dichiarazioni e di elementi richiesti dal bando, possa essere ammesso alla gara previo pagamento di una sanzione pecuniaria.
Altre innovazioni nella legge riguardano la cauzione che accompagna i provvedimenti cautelari in materia di appalti: questo contrappeso processuale, di matrice economica, diventa facoltativo e non più obbligatorio.
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6 | CAMERE DI COMMERCIO
Scattano i tagli sui diritti annuali
La legge di conversione del Dl 90/2014, con una prima riduzione del diritto annuale versato dalle imprese, avvia l'attuazione di uno degli obiettivi prioritari posti dal Governo nell'ambito della riforma delle Camere di commercio.
L'articolo 28 del decreto ha optato per una riduzione progressiva del diritto annuale, che nel 2015 sarà del 35%, nel 2016 del 40% e nel 2017 del 50 per cento. Di fatto si è accolta la proposta indicata nel documento di revisione della spesa varato dal commissario Cottarelli il 13.03.2014.
Considerato che dal conto economico 2012 di tutte le 105 Camere pubblicato dall'Istat l'entrata per il diritto annuale è stata di quasi 1,2 miliardi, il risparmio nel 2015 per il sistema delle imprese sarà di circa 420 milioni. Nel decreto si precisa che la riduzione progressiva si interromperà nel momento della «eliminazione» del diritto, che dovrebbe avvenire con l'entrata a regime della normativa di riordino delle Camere delineato, in sintesi, nell'articolo 9 del Ddl 1577 presentato al Senato dal Governo.
Il solo interrogativo riguarda la modalità di applicazione del taglio del 35%, ossia se il Governo la applicherà a tutti gli importi previsti nel 2014 per le diverse tipologie di imprese oppure, com'è sua facoltà in base alla legge 580/1993, coglierà l'occasione per modulare la riduzione degli importi. L'articolo 28 impone inoltre una revisione degli attuali livelli dei diritti di segreteria versati soprattutto per le pratiche, i certificati, le visure e delle tariffe per i servizi richieste dalle Camere (ad esempio per i controlli metrologici).
L'entrata più consistente è fornita dai diritti, che nel 2012 sono ammontati a 263 milioni. Diritti e tariffe saranno fissati sulla base dei costi standard sui quali dovranno incidere, ovviamente con beneficio per gli utenti, le operazioni di accorpamento delle Camere e delle loro aziende speciali e lo svolgimento di servizi in forma associata.
La riduzione del 35% non inciderà sui servizi obbligatori forniti dalle Camere a tutte le imprese, ai professionisti, ai cittadini e alle altre pubbliche amministrazioni. Si imporrà, invece, un ridimensionamento e una razionalizzazione di diversi tipi di iniziative facoltative di promozione del territorio che ciascuna Camera organizza in autonomia direttamente o tramite sovvenzioni a soggetti privati
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2014).

EDILIZIA PRIVATACertificati camerali e Durc per allestimenti temporanei. Sicurezza. A conferma dell'idoneità tecnico-professionale.
Per l'allestimento dei palchi per spettacoli e per le manifestazioni fieristiche sono operative le norme in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro contenute nel decreto 22.07.2014 interministeriale Lavoro–Salute e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell'8 agosto.
Il decreto attua l'articolo 32, comma, 1, lettera g-bis, del decreto legge 69/2013 che aveva esteso le disposizioni previste dal titolo IV del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) anche agli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali nonché alle manifestazioni fieristiche e individua le particolari esigenze connesse allo svolgimento di tali attività.
Il decreto si articola in due capi riguardanti, rispettivamente, gli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali, nonché le manifestazioni fieristiche. Le disposizioni del Capo I, nell'individuare il campo di applicazione, si rivolgono alle attività di montaggio e smontaggio di opere temporanee, compreso il loro allestimento e disallestimento con impianti audio, luci e scenotecnici, realizzate per spettacoli musicali, cinematografici teatrali e di intrattenimento, con esclusione, tra l'altro, del montaggio/smontaggio di pedane di altezza fino a 2 metri rispetto al piano stabile, non connesse ad altre strutture o supportanti altre strutture.
Il decreto tiene in particolare conto le attività che si svolgono con la compresenza di più imprese esecutrici, di un elevato numero di lavoratori, subordinati o autonomi, anche di diverse nazionalità, con la necessità di realizzare i lavori in tempi brevi e in spazi ristretti, soggetti a vincoli architettonici e ambientali.
Per queste attività, come per quelle fieristiche, ai fini della individuazione dell'idoneità tecnico-professionale delle imprese esecutrici è prevista l'acquisizione del certificato di iscrizione alla Camera di commercio e la presentazione del documento unico di regolarità contributiva (Durc), nonché una particolare informazione, formazione ed addestramento del personale addetto.
Per quanto concerne le manifestazioni fieristiche, il decreto, tra l'altro, definisce quale gestore il soggetto giuridico che gestisce il quartiere fieristico; organizzatore quello che organizza la manifestazione fieristica; quartiere fieristico la struttura fissa o altro spazio destinato a ospitare la manifestazione, dotata di una propria organizzazione logistica e relativa agibilità, destinata allo svolgimento di manifestazioni fieristiche; allestitore il soggetto che è titolare del contratto di appalto per montaggio e smontaggio dello stand ed eventuale realizzazione di strutture espositive.
Il committente, ai fini del Testo unico, è individuato nel soggetto gestore, organizzatore o espositore che ha titolarità e che esercita i poteri decisionali e di spesa.
Nel definire il campo di applicazione, il decreto fa riferimento alle attività di approntamento e smantellamento di strutture allestitive o tendostrutture per manifestazioni fieristiche con esclusione di quelle di altezza inferiore a 6 metri rispetto al piano stabile e di quelle biplanari con superficie fino a 50 metri quadrati.
Nelle attività previste dal decreto interministeriale, le copie del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e del piano operativo di sicurezza (Pos) devono essere messi a disposizione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza prima dell'inizio dei lavori.
Gli allegati al decreto riguardano le informazioni minime sul sito di installazione dell'opera temporanea, il modello di dichiarazione di idoneità tecnico professionale delle imprese straniere, i contenuti minimi del Psc e del Pos, le informazioni minime sul quartiere fieristico, i contenuti minimi del Duvri in base all'articolo 26 del Testo unico
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.08.2014).

PUBBLICO IMPIEGODisabili, assistenza allargata. Coniuge o genitori non possono? Permesso ai parenti. Dal ministero alcuni chiarimenti sul diritto per i familiari di assentarsi dal lavoro.
Permessi mensili a maglie più larghe per i familiari di disabili. Per fruire dei tre giorni di congedo per assistenza, infatti, è sufficiente che a ciò non possa provvedere o il coniuge o nessuno dei genitori del disabile; non è necessario, invece, che «tutti» (coniuge e genitori) non possano provvedervi.
In questi casi, il diritto ai tre giorni di permesso mensili declina a favore di un parente o di un affine entro il terzo grado del soggetto disabile, senza nessun ordine di priorità: chiunque può fruirne.

A precisarlo è stato il ministero del lavoro nell'
interpello 26.06.2014 n. 19/2014.
Permessi mensili. I chiarimenti sono stati chiesti dall'Associazione nazionale quadri amministrazioni pubbliche (Anquad) e dal Cida (manager e altre professionalità Italia). Le associazioni hanno chiesto di conoscere il parere del ministero del lavoro in ordine alla corretta interpretazione dell'art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992, come modificato dall'art. 24, della legge n. 183/2010, che disciplina il diritto del lavoratore dipendente di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito per l'assistenza al familiare con handicap in situazione di gravità.
In particolare, è stato chiesto di precisare se l'estensione del diritto a tre giorni di permesso al parente o affine entro il terzo grado possa prescindere dall'eventuale presenza nella famiglia dell'assistito di parenti o affini di primo e secondo grado che siano nelle condizioni di assisterlo. In caso di risposta negativa, pertanto, per il diritto ai permessi basterebbe comprovare esclusivamente una delle particolari condizioni del coniuge e/o dei genitori della persona in situazione di gravità.
I tre giorni di permesso mensili. I lavoratori dipendenti, coniuge, parenti o affini della persona in situazione della disabilità grave, entro il secondo grado possono usufruire di tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore. A titolo esemplificativo sono parenti di primo grado: genitori, figli; sono parenti di secondo grado: nonni, fratelli, sorelle, nipoti in quanto figli dei figli; sono affini di primo grado: suocero/a, nuora, genero; sono affini di secondo grado: i cognati. I tre giorni di permesso mensili possono essere fruiti anche dai parenti e dagli affini del minore di tre anni in situazione di disabilità grave. Inoltre il diritto ai permessi può essere esteso ai parenti e agli affini di terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità, qualora i genitori o il coniuge della persona in situazione di disabilità grave abbia compiuto i 65 anni d'età oppure sia affetto da patologie invalidanti o sia deceduto o mancante.
Secondo l'Inps l'espressione «mancante» (che consente il passaggio del diritto ai permessi dai parenti di secondo a quelli di terzo grado) va intesa non solo come situazione di un'assenza naturale e giuridica (celibato oppure stato di figlio naturale non riconosciuto), ma deve ricomprendere anche ogni altra condizione a essa giuridicamente assimilabile, continuativa e debitamente certificata dall'autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità, quale divorzio, separazione legale o abbandono.
Per quanto concerne le patologie invalidanti, secondo l'Inps ai fini della loro individuazione vanno prese a riferimento soltanto quelle, a carattere permanente, indicate dall'art. 2, comma 1, lettera d), numeri 1, 2 e 3 del dm n. 278/2000 (regolamento recante disposizioni di attuazione dell'art. 4 della legge n. 53/2000) concernente congedi per eventi e cause particolari, che individua le ipotesi in cui è possibile accordare il congedo per gravi motivi (di cui all'art. 4, comma 2, della legge n. 53/2000), vale a dire:
1) patologie acute o croniche che determinano temporanea o permanente riduzione o perdita dell'autonomia personale, ivi incluse le affezioni croniche di natura congenita, reumatica, neoplastica, infettiva, dismetabolica, post-traumatica, neurologica, neuromuscolare, psichiatrica, derivanti da dipendenze, a carattere evolutivo o soggette a riacutizzazioni periodiche;
2) patologie acute o croniche che richiedono assistenza continuativa o frequenti monitoraggi clinici, ematochimici e strumentali;
3) patologie acute o croniche che richiedono la partecipazione attiva del familiare nel trattamento sanitario.
Pertanto, nell'ipotesi in cui il coniuge o i genitori del soggetto in situazione di disabilità grave siano affetti dalle patologie sopra elencate, l'assistenza potrà essere esercitata anche da parenti o affini entro il terzo grado (il «come» e il «quando» sono l'oggetto delle precisazioni da parte del ministero). In tal caso alla domanda deve essere allegata, in busta chiusa indirizzata al Centro medico legale territorialmente competente dell'Inps, idonea documentazione del medico specialista del servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato o del medico di medicina generale o della struttura sanitaria nel caso di ricovero o intervento chirurgico, da cui risulti una delle patologie sopra indicate.
Diritto a maglie larghe. La risposta del ministero all'interpello è stata affermativa. La fruizione dei permessi da parte di parenti o di affini entro il terzo grado è subordinata esclusivamente alla circostanza che il coniuge e/o i genitori della persona con handicap grave si trovino in una delle specifiche condizioni stabilite dalla norma (vale a dire aver compiuto i 65 anni di età oppure essere anche loro affetti da patologie invalidanti o essere deceduti o mancanti).
In altre parole, non deve anch'essere riscontrata la impossibilità a prestare l'assistenza da parte di parenti oppure affini di primo e di secondo grado, eventualmente presenti nell'ambito familiare. Peraltro, evidenzia infine il ministero del lavoro, è sufficiente che le predette condizioni (65 anni di età oppure lo stato invalidante o la morte o la mancanza) si riferiscano a uno solo dei soggetti menzionati dalla norma, ossia o al coniuge oppure ai genitori. Una diversa interpretazione, quella cioè di consentire l'estensione al terzo grado solo quando tutti i soggetti prioritariamente interessati (coniuge, parente o affine entro il secondo grado) si trovino nell'impossibilità di assistere il disabile, finirebbe per restringere fortemente la platea dei soggetti interessati.
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Diritto solo ai lavoratori dipendenti.
Per fruire dei permessi per assistenza a disabili occorre:
• essere lavoratori dipendenti, anche se con rapporto di lavoro part-time, ed essere assicurati per le prestazioni economiche di maternità presso l'Inps;
• che la persona che chiede o per la quale si chiedono i permessi sia in situazione di handicap «grave» (ex art. 3 della legge n. 104/1992, si veda tabella in pagina) riconosciuta dall'apposita commissione della Asl;
• la persona in situazione di disabilità grave non è ricoverata a tempo pieno; per ricovero a tempo pieno s'intende quello, per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa.
Fanno eccezione all'ultimo presupposto (ricovero a tempo pieno):
• l'interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente certificate;
• il ricovero a tempo pieno di un disabile in situazione di gravità in stato vegetativo persistente e/o con prognosi infausta a breve termine;
• il ricovero a tempo pieno di un minore con disabilità in situazione di gravità per il quale risulti documentato dai sanitari della struttura ospedaliera il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare, ipotesi già prevista per i bambini fino a tre anni di età
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, gestione semplificata. Spinta sul Sistri e regole snelle per il recupero dei residui. La legge di conversione del dl 91/2014 per la competitività riscrive il codice ambientale.
Rilancio del Sistri, istruzioni ad hoc per la classificazione dei rifiuti, regole light per recupero residui ed oli usati.

Numerose le novità in materia di beni a fine vita previste dalla legge di conversione del dl 91/2014 (decreto Competitività) approvata in via definitiva dal senato il 07.08.2014.
Il provvedimento di consolidamento rimodula anche, limitandone la portata, le disposizioni dell'originario dl 91/2014 su procedure semplificate di bonifica, combustione di materiali vegetali e potere di ordinanza degli enti locali. E ne rivede, snellendole, le regole sull'adeguamento dell'ordinamento interno alle norme Ue sull'end of waste dei residui.
Sistri. Oltre a confermare l'obbligo previsto dall'originario dl 91/2014 a carico del Minambiente di garantire interoperatività e funzionalità del Sistri, la legge di conversione rilancia il nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti allargandone l'accesso al Corpo forestale dello Stato e disponendo le regole di dettaglio sulle modalità alternative di tenuta dei registri di carico/scarico da parte di quelle imprese agricole che, non essendo obbligate al Sistri ex dm 24.04.2014, non aderiscono volontariamente al sistema, le quali potranno farlo tramite la conservazione delle «schede Sistri» loro inoltrate dal destinatario dei rifiuti in «formato fotografico digitale».
La stessa legge abbassa altresì da sei a tre mesi il termine entro cui i soggetti legittimati ad agire fuori Sistri e ammessi ad effettuare raccolta e trasporto dei propri rifiuti in deroga alle regole abilitative ordinarie devono denunciare alle autorità (ora la provincia) la mancata ricezione della copia del formulario di trasporto da impianti oltreconfine per essere esentati dall'eventuale illecita gestione altrui.
Classificazione dei rifiuti. Fanno il loro esordio nel dlgs 152/2006 nuove regole per procedere all'identificazione dei rifiuti in base ai codici Cer: in caso di rifiuti con «codici specchio» (ossia da classificare come pericolosi in presenza di determinate caratteristiche) sarà obbligo dell'operatore, in virtù del principio di precauzione, prendere come riferimento sempre i composti chimicamente peggiori e, in caso di dubbio, considerare i residui senz'altro come pericolosi.
Rifiuti «spiaggiati». A condizione che siano condotte in loco e nel tempo tecnico strettamente necessario non necessiteranno di autorizzazione (in quanto considerata fuori dall'attività di gestione di rifiuti) tutte le operazioni che precedono la raccolta (identificate come prelievo, raggruppamento, cernita, deposito preliminare alla raccolta) dei materiali naturali (anche frammisti ad elementi antropici) depositatisi a seguito di eventi atmosferici o meteorici (come mareggiate e piene).
Miscelazione rifiuti. Alleggerito il divieto di miscelazione dei rifiuti previsto dal dlgs 152/2006. Le legge scavalca le restrizioni in materia introdotte nel Codice ambientale dal dlgs 205/2010 permettendo agli impianti autorizzati prima della citata revisione del 2010 di continuare a operare in base alle precedenti regole. Con specifico riferimento agli oli usati, la legge prevede invece la secca possibilità di poter procedere alla loro miscelazione, imponendo solo di tenere costantemente separati, per quanto possibile, quelli destinati a trattamenti diversi.
Riciclo semplificato. I rifiuti a minor impatto ambientale (come rottami di metallo, plastiche e legno) contemplati dalla «lista verde» ex regolamento Ce n. 1013/2006 sui trasporti transfrontalieri (e in conseguenza di ciò oggetto di meno restrizioni) potranno essere riciclati negli impianti industriali in possesso di autorizzazione integrata ambientale dietro semplice rispetto delle norme su trasporto di rifiuti e formulario di identificazione, ma a condizione che: siano rispettate le migliori tecniche disponibili (requisito base per il rilascio dell'Aia); sia stata effettuata relativa comunicazione all'Autorità pubblica competente entro i 45 giorni precedenti le attività.
Bonifiche semplificate. La legge di conversione ritocca la procedura semplificata per le operazioni di bonifica inserita nel dlgs 152/2006 (nuovo articolo 242-bis) dal testo originario del dl 91/2014. Rispetto alla disposizione iniziale, la certificazione dell'avvenuta bonifica si avrà non più con la semplice validazione dei «risultati di caratterizzazione» da parte dell'Arpa, ma sarà necessaria l'approvazione del «piano di campionamento di collaudo finale» da parte dello stesso Ente.
Resta però ferma la possibilità per gli operatori interessati di riutilizzare i siti contaminati dopo aver ridotto nei limiti di legge i soli valori inquinanti relativi al suolo, essendo loro consentito mettere a norma quelli relativi alle acque di falda in successivo momento.
Ordinanze locali sui rifiuti. Circoscritti e ridimensionati i «super poteri» di ordinanza in materia di gestione rifiuti attribuito dall'originario dl 91/2014 a tutti gli enti locali, che la legge di conversione riserva ora alle sole Autorità locali della Regione Lazio (le quali potranno procedere alla requisizione degli impianti di trattamento e di utilizzarne il relativo personale).
End of waste e «Mps». Confermata e allargata l'applicabilità del regime autorizzatorio semplificato alle operazioni di recupero dei beni a fine vita svolte secondo le norme comunitarie sull'end of waste dei residui. Le attività di trattamento potranno infatti essere avviate decorsi 90 giorni dalla semplice comunicazione all'Ente provinciale (in luogo del previo rilascio dell'autorizzazione regionale) a condizione che vengano rispettati i requisiti tecnici sanciti dai regolamenti comunitari sulle singole categorie di rifiuti, non essendo più necessario (anche) l'ossequio dei limiti nazionali stabiliti dai decreti ministeriali sulle materie prime secondarie (dm Ambiente 05.02.1998, dm 161/2002, dm 269/2005).
Gli enti e le imprese che effettuano le attività di gestione ai sensi dei predetti decreti ministeriali dovranno però adeguarsi alle regole Ue entro 6 mesi. In attesa di regole «Eow» ad hoc, sarà altresì consentito fin da subito il riutilizzo delle materie prime secondarie ottenute da rifiuti inerti (acquisite da impianti di recupero autorizzati in via semplificata) per opere di recupero ambientale, rilevati, sottofondi stradali, ferroviari e aeroportuali, piazzali.
I materiali dragati potranno essere gestiti come normali beni a condizione che, dopo le necessarie operazioni di recupero in casse di colmata: presenteranno valori inquinanti sotto le «concentrazioni soglia di contaminazione» ex dlgs 152/2006; saranno destinati a riutilizzo diretto in sito certo e senza rischi per ambiente; rispetteranno i requisiti tecnici standard per prodotti o materie prime; saranno accompagnati nei vari passaggi da una «dichiarazione di conformità» del produttore o detentore (comunicata alle Autorità pubbliche di competenza) e dai documenti di trasporto previsti dalla normativa di settore
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

COMPETENZE PROGETTUALIProfessionisti dei beni culturali. Estese ai senza albo la protezione e la valorizzazione. In G.U. la legge che prevede l'istituzione entro sei mesi degli elenchi nazionali al ministero.
Tutela e valorizzazione dei beni culturali ad ampio raggio. Oltre ad architetti e ingegneri, dal 23.08.2014 saranno chiamati in causa anche altri professionisti: dagli archeologi agli antropologi fisici.

Per effetto della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 183 dell'08.08.2014 della legge 22.07.2014, n. 110, entra in vigore la modifica al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, in materia di professionisti dei beni culturali.
Dunque, fatte salve le competenze degli operatori delle professioni già regolamentate, gli interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonché quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi, saranno affidati alla responsabilità e all'attuazione, secondo le rispettive competenze, di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell'arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale.
Per queste «nuove» professioni saranno istituiti presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo i rispetti elenchi nazionali.
Il ministero competente, sentito il Miur e coinvolgendo le regioni e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, entro sei mesi con apposito decreto stabilirà le modalità e i requisiti per l'iscrizione dei professionisti nei citati elenchi nonché le modalità per la tenuta degli stessi (che saranno pubblicati sul sito del ministero) in collaborazione con le associazioni professionali. I nuovi elenchi, chiarisce la legge in commento, «non costituiscono sotto alcuna forma albo professionale»
(articolo ItaliaOggi del 09.08.2014).

GIURISPRUDENZA

CONDOMINIO: La ristrutturazione «cancella» il danno. Locazioni. L'inquilino non risarcisce.
L'inquilino non paga i danni che ha fatto all'immobile se il proprietario, appena rientra in possesso della casa, la ristruttura radicalmente. Il nuovo "volto" dato all'appartamento cancella i mancati interventi di manutenzione e fa venire meno il pregiudizio economico che giustificherebbe la richiesta del locatore.
Con la sentenza 14.08.2014 n. 17964, la Corte di Cassazione, Sez. III civile, fornisce un assist agli inquilini che non brillano per accuratezza nel mantenere in buono stato la casa. Nel caso esaminato a salvare gli eredi dell'affittuario dal pagamento dei danni, nei quali era compresa anche la spesa della perizia per verificarli, è la voglia di rinnovamento del proprietario che, subito dopo la consegna delle chiavi, aveva stravolto la fisionomia dell'appartamento al punto da dividerlo in tre unità abitative.
A fronte dell'abbattimento dei muri, del rifacimento dei bagni come dei pavimenti, che rilevanza poteva avere -si chiedono i giudici- il fatto che il conduttore avesse restituito l'immobile con il tubo del gas non incassato, le prese dell'impianto elettrico mancanti e una tinteggiatura dei muri «non omogenea»?
Il risultato dell'incuria non può costituire un danno reale, che scatta solo in caso di un pregiudizio effettivamente subito. Nel caso esaminato la ristrutturazione costituiva la «sopravvenienza di un fatto autonomo, non collegato causalmente con la condotta del responsabile» che per i giudici è idoneo a eliminare il danno.
La Suprema corte avalla la decisione della Corte d'Appello di Firenze favorevole al ricorrente, a differenza di quella dei giudici di primo grado secondo i quali per i danni provocati gli eredi dovevano invece pagare.
Per la Cassazione la lettura corretta è quella dei giudici di seconda istanza, in linea con le previsioni del codice civile.
Nell'ambito delle relazioni tra soggetti di diritto privato, infatti, l'obbligo di risarcire non ha, di regola, lo scopo di sanzionare, ma la funzione primaria di compensare il pregiudizio «restaurando almeno per equivalente la situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima dell'illecito».
È evidente, quindi, che per il diritto al risarcimento sia indispensabile che si sia verificato un danno effettivo e concretamente sofferto, mentre non basta la semplice «potenzialità configurabile in astratto».
I giudici della terza sezione sottolineano che l'inadempimento totale o inesatto dell'obbligo contrattuale non fa scattare di per sé il danno patrimoniale, che si configura solo quando l'illecito ha una conseguenza sul patrimonio del creditore, il che può anche non verificarsi. Un principio che si applica anche alla riconsegna in buono stato dell'immobile (articolo 1590).
Accertato che la riconsegna era strumentale alla realizzazione di un nuovo progetto di casa, sul quale il deterioramento non aveva influito in alcun modo -non era aumentato il costo dei lavori né diminuito il valore del bene- l'incuria non si era tradotta in un danno patrimoniale risarcibile
 
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2014).

CONDOMINIOIl negozio paga l'impianto. Condominio. Per la Cassazione non rileva che il contatore sia autonomo.
I proprietari dei negozi devono partecipare alle spese relative agli impianti elettrici del condominio, anche se hanno un ingresso su strada.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 12.08.2014 n. 17880, ribalta il verdetto della Corte d'Appello che aveva dato ragione al commerciante.
I giudici di seconda istanza avevano accolto le ragioni del negoziante che negava di dover pagare i lavori per mettere in sicurezza l'impianto elettrico, come previsto dalla legge 46 del 1990, perché, oltre ad avere l'entrata del suo esercizio commerciale sulla via, aveva all'interno del locale sia i contatori Enel sia i quadri elettrici, come era risultato anche dal sopralluogo del consulente tecnico, che aveva verificato anche l'assenza di contatori all'interno dello stabile riferibili alla rivendita.
Su queste basi la Corte d'Appello aveva affermato l'applicazione dell'articolo 1123 del codice civile che detta due criteri di ripartizione delle spese: uno in funzione del valore della proprietà e l'altro in proporzione all'uso che il singolo può fare della parte condominiale. Per questo il soggetto che non ha alcuna titolarità sulla porzione che è stata motivo di spesa, non sarebbe tenuto neppure al pagamento pro quota.
Diverso il parere della Cassazione che applica invece l'articolo 1117, n. 3 del codice civile, il quale considera, in mancanza di titolo contrario, l'impianto elettrico comune a tutti i condomini. Sbagliato quindi citare l'articolo 1132 che si applica alle spese effettuate su parti e servizi comuni «destinati a fornire utilità diverse ai singoli condomini», mentre l'impianto elettrico è di tutti
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.08.2014).

EDILIZIA PRIVATAL'identificazione catastale è richiesta al fine di consentire la trascrizione che non ha alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla limitata funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in caso di conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile.
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Nel giudizio di impugnazione dell'ordinanza repressiva di un abuso edilizio è onere del privato fornire la prova dello "status quo ante", in quanto la p.a. non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio.
Chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza, proprio in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c..
In tali casi, il privato dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di valutazione quali fotografie con data certa dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il progetto originario e i suoi allegati, ecc..
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La giurisprudenza civile in numerose pronunce, sia di merito (App. Roma Sez. I Sent., 23.11.2009: “non può pronunciarsi una sentenza sostitutiva dell’obbligo di concludere il contratto definitivo di compravendita di immobile ex art. 2932 c.c. qualora sia giudizialmente accertata la differenza tra le risultanze catastali e l’effettiva consistenza dei beni immobili al momento del trasferimento, in mancanza di concessione edilizia o di successiva regolarizzazione di esse, e qualora il promettente venditore non abbia provveduto alla regolarizzazione con dichiarazione sostitutiva di notorietà”) che di legittimità (ex aliis Cass. civ. Sez. II, 19.11.2004, n. 21885 “nei contratti in materia di compravendita immobiliare ai fini dell'individuazione dell'immobile oggetto del trasferimento della proprietà l'indicazione dei confini -che concerne punti oggettivi di riferimento esterni consentendo perciò la massima precisione- assume valore decisivo e prevalente rispetto alle altre risultanze probatorie e, in particolare, ai dati catastali, allorché si risolva nella descrizione dell'intero perimetro e, a maggior ragione, quando trovi conferma in altri dati obiettivi incontrovertibilmente conducenti al fine, come la specificazione della superficie e la dettagliata descrizione della composizione e della collocazione dell'unità immobiliare nell'ambito di un più vasto complesso così eliminando ogni margine di dubbio circa la materiale consistenza dell'unità stessa. A tali fini, pertanto, il ricorso ai dati catastali -che non solo hanno natura tecnica e sono preordinati essenzialmente all'assolvimento di funzioni tributarie ma anche spesso sfuggono alla diretta percezione da parte dei contraenti- ha solo carattere sussidiario, essendo ammesso unicamente nell'ipotesi di indicazioni inadeguate o imprecise in ordine ai confini”) ha rimarcato la impossibilità di far discendere la prova della pregressa consistenza dell’immobile dalle dette risultanze catastali.
La giurisprudenza amministrativa, dal canto proprio interrogandosi sui concetti di “ripristino” e “ristrutturazione”, ha avuto modo di enunciare taluni importanti principi.
In particolare, nella condivisibile decisione prima indicata si è avuto modo di chiarire che con il termine "ripristino" s'intende, in campo edilizio, l'operazione volta ad ottenere la ricostruzione di una cosa persa, non più esistente, di cui lo strumento di pianificazione, come nel caso di specie pure ne ha ritenuto corretta la riproposizione.
In altri termini, quanto al suo contenuto, il ripristino deve tendere a ricostituire lo status edilizio quo ante, per cui il risultato finale di un siffatto intervento su un immobile non più presente perché demolito o comunque venuto meno per ragioni svariate è appunto la ricostruzione dell'edificio dov'era e com'era (nelle forme e consistenza originariamente possedute dall'edificio).
Si è detto in particolare che anche laddove la disciplina urbanistica comunale ritenga compatibile con la categoria del restauro e quella del risanamento l'intervento di ripristino, è necessario però che le parti originarie da ricostruirsi siano documentate in modo "incontrovertibile", nel senso che attraverso elementi oggettivi -caratterizzati dalla assoluta certezza- deve essere comprovata la preesistenza di quanto si vuole riedificare.
Se così è, è fuori discussione l'ammissibilità in linea generale di un intervento di riedificazione di ciò che in passato è stato (dal punto di vista edilizio) a mezzo, appunto, della modalità del ripristino diventa dirimente l'accertamento dell'esistenza incontrovertibile del precedente manufatto e della sua effettiva consistenza.
Analoghi principi, peraltro, sono predicabili peraltro allorché ci si voglia rifare alla categoria edilizia della ristrutturazione, la cui nozione impone di assicurare la piena conformità di volume, sagoma, e superficie tra vecchio e nuovo fabbricato.
In sintesi ed in via generale: per ri-edificare si deve provare che “pregresso” v’era, ed esatta consistenza del pregresso: in carenza di tale prova non v’è spazio per il rilascio di provvedimenti ampliativi.

Il Collegio ritiene di dovere premettere, rispetto al partito esame delle censure dedotte, il proprio convincimento circa la piena condivisibilità ed attualità del principio (ex multis, Cass. civ. Sez. II, 11.08.2005, n. 16853) secondo il quale l'identificazione catastale è richiesta al fine di consentire la trascrizione che non ha alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla limitata funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in caso di conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile.
Il principio, nel caso di specie, può essere nella sostanza accostato a quello, -pure a più riprese predicato dalla giurisprudenza amministrativa- secondo il quale (Cons. Stato Sez. IV, 14.02.2012, n. 703) “nel giudizio di impugnazione dell'ordinanza repressiva di un abuso edilizio è onere del privato fornire la prova dello "status quo ante", in quanto la p.a. non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio. Chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza, proprio in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c.. In tali casi, il privato dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di valutazione quali fotografie con data certa dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il progetto originario e i suoi allegati, ecc.”.
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La premessa dalla quale è necessario trarre le mosse (e che in parte è stata anticipata nell’incipit della presente motivazione) riposa nella considerazione che certamente le risultanze catastali, ex se considerate, non possono rivestire una simile valenza.
La giurisprudenza civile di ciò è ben consapevole, ed in numerose pronunce, sia di merito (App. Roma Sez. I Sent., 23.11.2009: “non può pronunciarsi una sentenza sostitutiva dell’obbligo di concludere il contratto definitivo di compravendita di immobile ex art. 2932 c.c. qualora sia giudizialmente accertata la differenza tra le risultanze catastali e l’effettiva consistenza dei beni immobili al momento del trasferimento, in mancanza di concessione edilizia o di successiva regolarizzazione di esse, e qualora il promettente venditore non abbia provveduto alla regolarizzazione con dichiarazione sostitutiva di notorietà”) che di legittimità (ex aliis Cass. civ. Sez. II, 19.11.2004, n. 21885 “nei contratti in materia di compravendita immobiliare ai fini dell'individuazione dell'immobile oggetto del trasferimento della proprietà l'indicazione dei confini -che concerne punti oggettivi di riferimento esterni consentendo perciò la massima precisione- assume valore decisivo e prevalente rispetto alle altre risultanze probatorie e, in particolare, ai dati catastali, allorché si risolva nella descrizione dell'intero perimetro e, a maggior ragione, quando trovi conferma in altri dati obiettivi incontrovertibilmente conducenti al fine, come la specificazione della superficie e la dettagliata descrizione della composizione e della collocazione dell'unità immobiliare nell'ambito di un più vasto complesso così eliminando ogni margine di dubbio circa la materiale consistenza dell'unità stessa. A tali fini, pertanto, il ricorso ai dati catastali -che non solo hanno natura tecnica e sono preordinati essenzialmente all'assolvimento di funzioni tributarie ma anche spesso sfuggono alla diretta percezione da parte dei contraenti- ha solo carattere sussidiario, essendo ammesso unicamente nell'ipotesi di indicazioni inadeguate o imprecise in ordine ai confini”) ha rimarcato la impossibilità di far discendere la prova della pregressa consistenza dell’immobile dalle dette risultanze catastali.
La giurisprudenza amministrativa, dal canto proprio (ex aliis si veda la completa ricostruzione contenuta nella sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato 18.10.2010, n. 7540) interrogandosi sui concetti di “ripristino” e “ristrutturazione”, ha avuto modo di enunciare taluni importanti principi.
In particolare, nella condivisibile decisione prima indicata si è avuto modo di chiarire che con il termine "ripristino" s'intende, in campo edilizio, l'operazione volta ad ottenere la ricostruzione di una cosa persa, non più esistente, di cui lo strumento di pianificazione, come nel caso di specie pure ne ha ritenuto corretta la riproposizione.
In altri termini, quanto al suo contenuto, il ripristino deve tendere a ricostituire lo status edilizio quo ante, per cui il risultato finale di un siffatto intervento su un immobile non più presente perché demolito o comunque venuto meno per ragioni svariate è appunto la ricostruzione dell'edificio dov'era e com'era (nelle forme e consistenza originariamente possedute dall'edificio).
Si è detto in particolare che anche laddove la disciplina urbanistica comunale ritenga compatibile con la categoria del restauro e quella del risanamento l'intervento di ripristino, è necessario però che le parti originarie da ricostruirsi siano documentate in modo "incontrovertibile", nel senso che attraverso elementi oggettivi -caratterizzati dalla assoluta certezza- deve essere comprovata la preesistenza di quanto si vuole riedificare.
Se così è, è fuori discussione l'ammissibilità in linea generale di un intervento di riedificazione di ciò che in passato è stato (dal punto di vista edilizio) a mezzo, appunto, della modalità del ripristino diventa dirimente l'accertamento dell'esistenza incontrovertibile del precedente manufatto e della sua effettiva consistenza.
Analoghi principi, peraltro, sono predicabili peraltro allorché ci si voglia rifare alla categoria edilizia della ristrutturazione, la cui nozione (pur comprendendo la demolizione e la fedele e integrale ricostruzione: cfr Cons. Stato, Sez. IV, 28.07.2005, n. 4011; Sez. V, 30.08.2006, n. 5061) impone di assicurare la piena conformità di volume, sagoma, e superficie tra vecchio e nuovo fabbricato (in tal senso Cons. Stato Sez. V 07.09.2004 n. 5791).
In sintesi ed in via generale: per ri-edificare si deve provare che “pregresso” v’era, ed esatta consistenza del pregresso: in carenza di tale prova non v’è spazio per il rilascio di provvedimenti ampliativi
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2014 n. 4208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAPiù volte, sin dagli anni Novanta, questo Consiglio ha affermato che –quando uno strumento urbanistico subordina il rilascio di un titolo edilizio alla previa approvazione di uno strumento attuativo– né in sede amministrativa né in sede giurisdizionale possono essere effettuate indagini sulla situazione dei luoghi per verificare se l’area sia urbanizzata.
Una tale regola –già desumibile dalla legge n. 1150 del 1942– è stata espressamente prevista dall’art. 9 del testo unico sull’edilizia.
E’ dunque in palese contrasto con la legge ogni tesi che voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del giudice amministrativo la verifica della situazione dei luoghi, al fine di escludere la necessità del piano attuativo, previsto dallo strumento urbanistico e che l’art. 9 del testo unico sull’edilizia ha espressamente qualificato come presupposto legale per l’edificazione.
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Per definizione la previsione della necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole volte al miglioramento dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una ‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona.
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento attuativo soltanto nell'ipotesi –per lo più di scuola– in cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione, previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie, esposto al rischio della compromissione di valori urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
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Fino alla approvazione del piano di recupero è radicalmente vietato ogni ulteriore consumo di suolo.

Più volte, sin dagli anni Novanta, questo Consiglio ha affermato che –quando uno strumento urbanistico subordina il rilascio di un titolo edilizio alla previa approvazione di uno strumento attuativo– né in sede amministrativa né in sede giurisdizionale possono essere effettuate indagini sulla situazione dei luoghi per verificare se l’area sia urbanizzata.
Una tale regola –già desumibile dalla legge n. 1150 del 1942– è stata espressamente prevista dall’art. 9 del testo unico sull’edilizia.
E’ dunque in palese contrasto con la legge ogni tesi che voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del giudice amministrativo la verifica della situazione dei luoghi, al fine di escludere la necessità del piano attuativo, previsto dallo strumento urbanistico e che l’art. 9 del testo unico sull’edilizia ha espressamente qualificato come presupposto legale per l’edificazione.
Neppure risulta fondata la tesi dell’appellante, secondo cui rileverebbe nella specie una ‘pressoché completa edificazione della zona’ addirittura incompatibile con un piano attuativo.
In primo luogo, per definizione la previsione della necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole volte al miglioramento dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una ‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 27.04.2012, n. 2470).
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento attuativo soltanto nell'ipotesi –per lo più di scuola– in cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione, previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie, esposto al rischio della compromissione di valori urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 15.05.2002, n. 2592).
Nella specie, come rilevato, ci si trova in un’area degradata da organizzare urbanisticamente e qualificare sotto il profilo ambientale e paesistico, recuperando le superfici minime previste dal D.M. n. 1144 del 1968, e che va assoggettata ad un piano di recupero, con obbligo di riqualificare l’intera superficie nei termini anzidetti, obbligo che non può che essere attuato con uno specifico piano di recupero, attuativo del P.R.G.
In tali aree, il piano di recupero si pone a presidio dello sviluppo programmato di aree ancora edificabili nell’ambito di zone degradate e non assolve la sola funzione di recupero edilizio di compendi immobiliari fatiscenti.
In altri termini, fino alla approvazione del piano di recupero è radicalmente vietato ogni ulteriore consumo di suolo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.08.2014 n. 4133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni, meno rischi. Ridurre la volumetria non fa scattare l'illecito edilizio. Tar Napoli: i parametri preesistenti costituiscono lo standard massimo di edificabilità.
Non siamo in presenza di un abuso edilizio quando in caso di ristrutturazione edilizia di un immobile si riducono i volumi preesistenti. La volumetria preesistente costituisce lo standard massimo di edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso che sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione, essendone precluso soltanto un aumento. Cosa questa desumibile dalle modifiche della normativa di riferimento (l'art. 3 dpr 380/2001) intervenute nel tempo, posto che si è passati dalla necessità di una «fedele ricostruzione» a una ricostruzione «con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente», e oggi alla «demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica». Con evidente intento del legislatore di impedire soltanto aumenti della complessiva cubatura degli edifici esistenti, ma non diminuzioni della stessa.
Il principio è stato espresso dal TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la sentenza 25.07.2014 n. 4265.
Per effetto di tale pronuncia, d'ora in poi ristrutturare un edificio con volumi inferiori rispetto a quelli preesistenti non fa incorre nell'abuso edilizio.
Ai fini della conformità urbanistica della ristrutturazione edilizia, laddove realizzata mediante ricostruzione dell'edificio demolito e il mantenimento di tutti i parametri urbanistico edilizi preesistenti quali la volumetria, la sagoma, l'area di sedime e il numero delle unità immobiliari, il parametro di riferimento è rappresentato dalla disciplina vigente all'epoca della realizzazione del manufatto come attestata dal titolo edilizio e non da quella sopravvenuta al momento della esecuzione dei lavori di ristrutturazione dovendosi fare salvo, in capo all'interessato, il diritto acquisito al mantenimento, conservazione e ristrutturazione dell'immobile esistente giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito.
Evoluzione della definizione. La recente legislazione statale ha modificato in più occasioni la definizione di «ristrutturazione edilizia». In particolare la modalità della demolizione e ricostruzione (che costituisce una specie di ristrutturazione edilizia) è stata progressivamente ampliata.
Infatti, dapprima la ricostruzione era rigidamente ammessa (in quanto vincolata alla fedele riproposizione dell'edificio preesistente identico nella sagoma, nel volume, nell'area di sedime e nelle caratteristiche dei materiali) e ora, dopo il dl 69/2013, si è giunti a qualificare nella ristrutturazione edilizia anche la ricostruzione del fabbricato con la stessa volumetria di quello demolito. Sono stati quindi progressivamente superati i limiti che circoscrivevano l'ambito di applicazione della modalità di intervento in oggetto, ad eccezione del volume che è l'unico requisito da osservare nell'intervento ricostruttivo.
La rivisitazione. Con la legge 09.08.2013, n. 98, di conversione del dl 21.06.2013, n. 69 («decreto del Fare»), in vigore dal 21.08.2013, è stata rivisitata la definizione di «ristrutturazione edilizia» contenuta nel Testo unico edilizia eliminando all'art. 3, comma 1, lett. d), del dpr 380/2001 il riferimento alla «sagoma».
Dal 21.08.2013, quindi, sono compresi tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli che consistono nella demolizione e ricostruzione di un immobile con la stessa volumetria di quello precedente, senza che sia necessario rispettarne la sagoma. Sono compresi nella ristrutturazione anche gli interventi «volti al ripristino degli edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza».
Ciò premesso, dal 21.08.2013, qualora l'intervento abbia le caratteristiche per configurarsi come ristrutturazione edilizia (ossia l'immobile non sia soggetto a vincolo ai sensi del dlgs 42/2004 e facendo attenzione, nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro del lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e in quelle equipollenti, secondo l'eventuale diversa denominazione adottata dalle leggi regionali, alla perimetrazione prevista dal comma 4 dell'art. 23-bis del Testo unico), si ritengono agevolabili ai sensi delle detrazioni gli interventi che consistono nella demolizione di un immobile e nella sua ricostruzione mantenendone la volumetria originaria.
La riduzione dei volumi preesistenti. La normativa sulla ricostruzione degli edifici è volta a incentivare il miglioramento e la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.
Il termine «stessa volumetria» rappresenta il limite non superabile nell'intervento ricostruttivo, e che pertanto l'identità del volume non è la caratteristica necessaria dell'intervento ricostruttivo affinché lo stesso rientri nella ristrutturazione edilizia.
L' interpretazione secondo cui la ricostruzione di un edificio con una cubatura ridotta rispetto a quella preesistente può essere ricondotta nella ristrutturazione edilizia deriva dalle seguenti considerazioni: l'intervento di ricostruzione con volume ridotto riguarda edifici esistenti e dunque non interviene su aree inedificate, ma su aree dove la trasformazione era già avvenuta con l'edificazione demolita e la possibilità di realizzare una cubatura inferiore a quella demolita non muta le caratteristiche fondamentali dell'intervento di ristrutturazione, i cui lavori sistematici possono portare a un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza anche di questo Tribunale è consolidata nel porre a carico del ricorrente (in materia di abusivismo edilizio) l’onere della prova circa il periodo di realizzazione del manufatto, in modo ragionevolmente certo, non potendo l’autorità comunale verificare la data di realizzazione, sul proprio territorio, di tutti gli immobili ivi realizzati.
Tale onere deve essere assolto mediante riscontri documentali, eventualmente anche indiziari (quali fatture, utenze, ecc.) purché idonei a comprovare la ragionevole certezza circa l’epoca di realizzazione dell’opera, non essendo sufficiente la semplice produzione in giudizio di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, anche se proveniente da un terzo, la quale non può in alcun modo assurgere al rango di prova neppur presuntiva, sull'epoca di realizzazione dell'abuso.
Nel caso di specie il ricorrente, indicando quale principale rectius unico elemento di prova la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà del 25.12.2011 effettuata dal sig. R.A., suo dante causa -per altro avente sicuro interesse alla decisione del giudizio- non fornisce elementi utili al riguardo; del tutto generica se non assertiva è poi la indicazione della tipologia e delle modalità realizzative, dei materiali impiegati e dello stato di conservazione, tutti elementi -per altro non supportati da documentazione fotografica- parimenti privi di valore probatorio.
In definitiva, il periodo di realizzazione delle opere asseritamente abusive è dunque elemento fattuale rientrante nella disponibilità della parte che invoca la non necessità della preventiva autorizzazione edilizia, non essendo l’Amministrazione comunale in grado di verificare la data di realizzazione, sul proprio territorio, di tutti gli immobili ivi realizzati.
Non può pertanto dirsi provata la circostanza, meramente assertiva, in merito alla presunta realizzazione del manufatto da parte del precedente proprietario dell’appartamento nell’anno 1956 o in periodo antecedente l’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765, con conseguente infondatezza di tutte le doglianze mosse al I motivo di gravame, poiché presupposto per il consolidamento di una posizione di affidamento qualificato e tutelabile è proprio la prova del periodo di realizzazione dell’abuso stesso.

E’ materia del contendere la legittimità del provvedimento emesso il 13.06.2012 con il quale il Comune di Terni ha ordinato al ricorrente la rimozione di opere abusive consistenti in ampliamento di un garage per circa mq 7,20, su area di pertinenza condominiale, pacificamente realizzate dal precedente proprietario e dante causa del Makaj.
Deve premettersi che le opere oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione, per caratteristiche e dimensioni, debbano ritenersi oggi sottoposte al permesso a costruire ai sensi degli artt. 3, c. 1, lett. e), e 10 d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (e a concessione edilizia quanto al regime prendente) in quanto suscettibili di arrecare una sensibile trasformazione del territorio, trattandosi di ampliamento di circa mq. 7,20 per una maggiore volumetria di 21,50 mc..
Dalla documentazione depositata in giudizio e dalla prospettazione delle parti emerge la sostanziale estraneità del ricorrente alla realizzazione del descritto ampliamento abusivo, posto in essere comunque sicuramente prima dell’acquisto dell’appartamento e dell’annessa autorimessa, avvenuto nel 2009, anche se risulta del tutto incerto il periodo di realizzazione.
La giurisprudenza anche di questo Tribunale è consolidata (TAR Umbria 18.08.2009, n. 492; id. 18.03.2008, n. 102; id. 13.05.2013, n. 293; id. 01.07.2013 n. 346; 30.08.2013, n. 461) nel porre in subiecta materia a carico del ricorrente l’onere della prova circa il periodo di realizzazione del manufatto, in modo ragionevolmente certo, non potendo l’autorità comunale verificare la data di realizzazione, sul proprio territorio, di tutti gli immobili ivi realizzati.
Nel caso di specie, risulta carente di riscontri l’asserita realizzazione dell’opera nel 1956 o comunque nel periodo antecedente l’entrata in vigore della legge n. 765/1967, non allegando il ricorrente al riguardo alcun riferimento documentale diretto od indiretto, e/o considerazioni oggettive in merito alle tipologie e modalità realizzative, ai materiali impiegati, allo stato di conservazione ecc..
Tale onere deve essere assolto mediante riscontri documentali, eventualmente anche indiziari (quali fatture, utenze, ecc.) purché idonei a comprovare la ragionevole certezza circa l’epoca di realizzazione dell’opera, non essendo sufficiente la semplice produzione in giudizio di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, anche se proveniente da un terzo, la quale non può in alcun modo assurgere al rango di prova neppur presuntiva, sull'epoca di realizzazione dell'abuso (ex multis TAR Liguria sez. I, 04.12.2012, n. 1565; TAR Toscana sez. III, 16.05.2012, n. 940; TAR Umbria 13.03.2014, n.153).
Nel caso di specie il ricorrente, indicando quale principale rectius unico elemento di prova la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà del 25.12.2011 effettuata dal sig. Ricci Adolfo, suo dante causa -per altro avente sicuro interesse alla decisione del giudizio- non fornisce elementi utili al riguardo; del tutto generica se non assertiva è poi la indicazione della tipologia e delle modalità realizzative, dei materiali impiegati e dello stato di conservazione, tutti elementi -per altro non supportati da documentazione fotografica- parimenti privi di valore probatorio.
In definitiva, il periodo di realizzazione delle opere asseritamente abusive è dunque elemento fattuale rientrante nella disponibilità della parte che invoca la non necessità della preventiva autorizzazione edilizia, non essendo l’Amministrazione comunale in grado di verificare la data di realizzazione, sul proprio territorio, di tutti gli immobili ivi realizzati.
Non può pertanto dirsi provata la circostanza, meramente assertiva, in merito alla presunta realizzazione del manufatto da parte del precedente proprietario dell’appartamento nell’anno 1956 o in periodo antecedente l’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765, con conseguente infondatezza di tutte le doglianze mosse al I motivo di gravame, poiché presupposto per il consolidamento di una posizione di affidamento qualificato e tutelabile è proprio la prova del periodo di realizzazione dell’abuso stesso (ex multis TAR Umbria 13.05.2013, n. 293)
(TAR Umbria, sentenza 25.07.2014 n. 419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 31, c. 2, del vigente testo unico edilizia include anche il proprietario tra i destinatari dell’ordine di ripristino, oltre naturalmente al responsabile dell’abuso, fornendo un robusto appiglio letterale a supporto della tesi, peraltro decisamente tutt’ora prevalente, dell’irrilevanza dell’elemento soggettivo.
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Deve confermarsi come a differenza della sanzione amministrativa che per finalità di prevenzione generale e speciale è indirizzata a punire il responsabile della violazione di un precetto, a prescindere dalla sussistenza di un danno, la misura ripristinatoria edilizia ha invece ad oggetto la “res” allo scopo di ripristinare l’equilibrio di carattere urbanistico alterato dalla violazione. Ciò comporta, tra l’altro, anche l’inapplicabilità dei principi di cui alla legge generale sul potere sanzionatorio amministrativo (L. n. 689/1981) ivi compreso il principio di personalità.
Giova evidenziare al riguardo come la stessa Consulta nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, c. 3, della legge 47/1985, abbia riconosciuto come insita nel sistema la funzione ripristinatoria dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva, pur escludendo nei confronti del terzo incolpevole la sola ulteriore conseguenza, di per sé invece sanzionatoria, dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime. Non a caso, il comma terzo dell’art. 31 del T.U. edilizia, diversamente dal comma secondo, considera esclusivamente il responsabile dell’abuso ai soli fini dell’eventuale acquisizione dell’area di sedime in ipotesi di inosservanza dell’ordine di demolizione, senza introdurre come vorrebbe il ricorrente alcun principio di responsabilità personale.
Va pertanto ribadito il criterio dell’indifferenza ai fini dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia dell’elemento soggettivo della colpa, potendo l’Amministrazione procedere all’adozione della misura demolitoria (priva di contenuto sanzionatorio) anche nei confronti del proprietario attuale non autore dell’abuso e ad esso completamente estraneo, fermo naturalmente restando nei rapporti civilistici l’esperimento di azione risarcitoria nei confronti del dante causa.

Non merita condivisione neppure la doglianza di cui al II motivo, secondo cui ai sensi dell’art. 5, c. 1, della L.R. 21/2001 e 31, c. 3, del d.P.R. 380/2001, sarebbe illegittima l’emanazione dell’ordinanza di demolizione nei confronti del ricorrente, non responsabile dell’abuso, per l’invocata necessità, in buona sostanza, di un principio di personalità della sanzione edilizia.
In relazione alla individuazione dei soggetti responsabili delle sanzioni in materia edilizia con particolare riferimento alla persona del proprietario attuale non coincidente con l’autore dell’abuso, deve rilevarsi l’esistenza di obiettivo contrasto giurisprudenziale, dal momento che secondo la tesi prevalente (richiamata dalla difesa comunale) l’elemento della colpa sarebbe irrilevante stante il carattere ripristinatorio e non già sanzionatorio (ex multis TAR Campania-Napoli, sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; Consiglio di Stato sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Puglia-Bari sez. II, 28.02.2012, n. 450; TAR Lazio-Roma sez. I-quater, 26.03.2012, n. 2830); secondo altra tesi vi sarebbe invece una presunzione di responsabilità (TAR Veneto sez. II, 13.03.2008, n. 605; TAR Sicilia-Palermo sez. III, 21.02.2006, n. 426) mentre secondo ulteriore opzione ermeneutica, la responsabilità del proprietario non potrebbe mai prescindere dall’accertamento in concreto del relativo contributo colposo alla realizzazione dell’abuso (TAR Emilia Romagna-Bologna 12.07.2007, n. 685; TAR Liguria sez. I, 05.07.2011, n. 1051).
La difesa della ricorrente, a supporto della succitata ultima tesi, invoca tra l’altro recente pronuncia del Consiglio di Stato (sez. V, 15.07.2013, n. 3847) la quale pur ribadendo l’insussistenza di affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero trascorrere del tempo non può legittimare, ritiene -in sintesi- che in ipotesi di attivazione del potere repressivo a distanza di molto tempo nei confronti degli acquirenti ignari del carattere abusivo, debba imporsi a carico dell’Amministrazione uno specifico onere motivazionale quale contrappeso alla imprescrittibilità dell’esercizio del potere repressivo.
Non ritiene il Collegio di poter condividere le pur argomentate e pregevoli considerazioni della difesa del ricorrente, sotto più profili.
Va evidenziato anzitutto come l’art. 31, c. 2, del vigente testo unico edilizia includa anche il proprietario tra i destinatari dell’ordine di ripristino, oltre naturalmente al responsabile dell’abuso, fornendo un robusto appiglio letterale a supporto della tesi, peraltro decisamente tutt’ora prevalente, dell’irrilevanza dell’elemento soggettivo (TAR Puglia-Lecce, sez. III, 03.09.2008, n. 2247).
In secondo luogo, difetta nel caso di specie proprio l’elemento temporale del lungo lasso di tempo trascorso, essendo -come detto- incerto il periodo di realizzazione dell’opera abusiva.
Da ultimo, deve confermarsi come a differenza della sanzione amministrativa che per finalità di prevenzione generale e speciale è indirizzata a punire il responsabile della violazione di un precetto, a prescindere dalla sussistenza di un danno, la misura ripristinatoria edilizia ha invece ad oggetto la “res” allo scopo di ripristinare l’equilibrio di carattere urbanistico alterato dalla violazione. Ciò comporta, tra l’altro, anche l’inapplicabilità dei principi di cui alla legge generale sul potere sanzionatorio amministrativo (L. n. 689/1981) ivi compreso il principio di personalità.
Giova evidenziare al riguardo come la stessa Consulta (sent. 15.07.1991, n. 345) nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, c. 3, della legge 47/1985, abbia riconosciuto come insita nel sistema la funzione ripristinatoria dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva, pur escludendo nei confronti del terzo incolpevole la sola ulteriore conseguenza, di per sé invece sanzionatoria, dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime. Non a caso, il comma terzo dell’art. 31 del T.U. edilizia, diversamente dal comma secondo, considera esclusivamente il responsabile dell’abuso ai soli fini dell’eventuale acquisizione dell’area di sedime in ipotesi di inosservanza dell’ordine di demolizione, senza introdurre come vorrebbe il ricorrente alcun principio di responsabilità personale.
Va pertanto ribadito il criterio dell’indifferenza ai fini dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia dell’elemento soggettivo della colpa, potendo l’Amministrazione procedere all’adozione della misura demolitoria (priva di contenuto sanzionatorio) anche nei confronti del proprietario attuale non autore dell’abuso e ad esso completamente estraneo, fermo naturalmente restando nei rapporti civilistici l’esperimento di azione risarcitoria nei confronti del dante causa (TAR Campania-Salerno, sez. II, 08.11.2004, n. 1985)
(TAR Umbria, sentenza 25.07.2014 n. 419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il novero dei soggetti legittimati al rilascio del titolo in sanatoria risulta più ampio rispetto a quanto concerne il rilascio dell’ordinario titolo abilitativo edilizio, laddove secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, occorre la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale o anche obbligatorio a condizione del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della relativa potestà edificatoria.
Il regime, infatti, della concessione edilizia è del tutto diversificato, quanto a presupposti ed elementi propri, da quello della sanatoria. L’affermazione è consapevolmente recepita da parte della giurisprudenza in riferimento alla sanatoria c.d. impropria di cui all’art. art. 13 della legge n. 47/1985 secondo cui la dichiarazione di conformità disciplinata dalla norma prevede che la sanatoria ivi disciplinata sia accordata al "responsabile dell'abuso"; la norma, quindi, a differenza di quanto previsto dall'art. 4 della legge n. 10 del 1977 non trova applicazione solo in presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro titolare di diritto reale in quanto l'abuso sia al medesimo ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata da colui che, dell'abuso, è comunque responsabile in quanto, sanato l'abuso, non potrebbe essere più chiamato a rispondere sul piano sanzionatorio penale e/o amministrativo.
Va pertanto affermato che legittimati all’istanza di accertamento di conformità (così come di condono edilizio ex L. n. 724/1994) sono oltre coloro che hanno titolo a richiedere la concessione edilizia/permesso di costruire, anche il promissario acquirente o il conduttore e, più in generale, tutti coloro che vi abbiano interesse, senza il necessario consenso ed anche, al limite, contro la volontà del proprietario del bene.
Nel caso di specie il ricorrente, quale comproprietario dell’area condominiale, a prescindere dal consenso degli altri condomini, vanta indubbio interesse ad ottenere l’accertamento di conformità, al fine di paralizzare l’esercizio del potere repressivo, trattandosi di opera, secondo quanto emerso in giudizio, del tutto sanabile.

Per i suesposti motivi il ricorso è infondato e va respinto, fermo restando la facoltà del ricorrente anche ai fini di conformare la successiva attività comunale, di presentare la preannunciata istanza di accertamento di conformità, pur insistendo le opere abusive su sedime di proprietà condominiale.
Infatti, osserva incidentalmente il Collegio che il novero dei soggetti legittimati al rilascio del titolo in sanatoria risulta più ampio rispetto a quanto concerne il rilascio dell’ordinario titolo abilitativo edilizio, laddove secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, occorre la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale o anche obbligatorio a condizione del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della relativa potestà edificatoria (Consiglio di Stato sez. V, 28.05.2001 n. 2881; TAR Emilia Romagna-Bologna 21.02.2007, n. 53, TAR Lombardia Milano, sez II, 31.03.2010, n. 842).
Il regime, infatti, della concessione edilizia è del tutto diversificato, quanto a presupposti ed elementi propri, da quello della sanatoria. L’affermazione è consapevolmente recepita da parte della giurisprudenza (TAR Campania Napoli sez VIII, 14.01.2011, n. 196) in riferimento alla sanatoria c.d. impropria di cui all’art. 13 della legge n. 47/1985 secondo cui la dichiarazione di conformità disciplinata dalla norma prevede che la sanatoria ivi disciplinata sia accordata al "responsabile dell'abuso"; la norma, quindi, a differenza di quanto previsto dall'art. 4 della legge n. 10 del 1977 non trova applicazione solo in presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro titolare di diritto reale in quanto l'abuso sia al medesimo ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata da colui che, dell'abuso, è comunque responsabile in quanto, sanato l'abuso, non potrebbe essere più chiamato a rispondere sul piano sanzionatorio penale e/o amministrativo.
Va pertanto affermato che legittimati all’istanza di accertamento di conformità (così come di condono edilizio ex L. n. 724/1994) sono oltre coloro che hanno titolo a richiedere la concessione edilizia/permesso di costruire, anche il promissario acquirente o il conduttore (Corte di Appello Firenze sez II, 04.05.2010 n. 594; TAR Puglia-Bari 09.07.2011, n. 1057) e più in generale tutti coloro che vi abbiano interesse, senza il necessario consenso ed anche, al limite, contro la volontà del proprietario del bene.
Nel caso di specie il ricorrente, quale comproprietario dell’area condominiale, a prescindere dal consenso degli altri condomini, vanta indubbio interesse ad ottenere l’accertamento di conformità, al fine di paralizzare l’esercizio del potere repressivo, trattandosi di opera, secondo quanto emerso in giudizio, del tutto sanabile
(TAR Umbria, sentenza 25.07.2014 n. 419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione.
Pertanto se per la posa in opera di una semplice recinzione con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, o per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie non è necessaria alcuna richiesta di provvedimento concessorio, per la realizzazione di una recinzione in muratura (come quella in questione che è peraltro sovrapposto da barriere metalliche e munita di cancello d'accesso) è necessario il permesso di costruire, incidendo l’opera in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio.

Infine, quanto al muretto di cinta frontale sovrapposto da barriere metalliche, al cancello d'accesso, e al muro divisorio centrale, sempre stante quanto indicato, il Collegio aderisce a quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui opere simili necessitano del permesso di costruire.
In particolare, la giurisprudenza cui ci si richiama afferma che la valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione (TAR Lazio Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968).
Pertanto se per la posa in opera di una semplice recinzione con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, o per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie non è necessaria alcuna richiesta di provvedimento concessorio (TAR Campania Napoli, sez. IV, 08.05.2007, n. 4821; TAR Lazio Roma, sez. II, 05.11.2004, n. 12554; TAR Puglia Lecce, sez. I, 23.09.2003, n. 6196), per la realizzazione di una recinzione in muratura (come quella in questione che è peraltro sovrapposto da barriere metalliche e munita di cancello d'accesso) è necessario il permesso di costruire, incidendo l’opera in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio (TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897; TAR Liguria Genova, Sez. I, 11.09.2002, n. 961) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di inottemperanza, l'acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del comune (ex art. 31 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 - T.U. Edilizia), non rientrando il sequestro tra gli impedimenti assoluti che non consentano di dare esecuzione all'ingiunzione.
Ciò dal momento che è possibile motivatamente domandare all’autorità giudiziaria il dissequestro dell’immobile proprio al fine di ottemperare all’ingiunzione a demolire e costituisce onere del responsabile dell’abuso motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile.
Nel caso in cui, pertanto, come nel caso di specie, il soggetto obbligato neppure dimostri di aver richiesto il dissequestro del bene allo scopo di demolirlo, non può successivamente far valere la circostanza del sequestro quale causa di forza maggiore impeditiva della demolizione.
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il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di opere abusivamente realizzate ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione, con la conseguenza che, trattandosi atto dovuto, non è subordinato ad alcuna valutazione sulla compatibilità delle opere con gli interessi urbanistici e ambientali e sull'utilizzabilità delle stesse a fini pubblici e risulta sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione.
In materia di abusivismo edilizio l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile abusivo non rappresenta un atto provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione. In senso ostativo all'acquisizione non può assumere quindi rilevanza né il tempo trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né l'affidamento eventualmente riposto dall'interessato sulla legittimità delle opere realizzare, né l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione.
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Ad avviso del Collegio l’esatta individuazione delle opere abusive e delle aree di sedime non appare soddisfatta con questo tipo di descrizione. L’individuazione non può essere limitata alla descrizione ma deve essere accompagnata dall’attribuzione di precisi riferimenti catastali previo, se del caso, specifici frazionamenti.
Non si deve dimenticare che l’atto di acquisizione gravato è in sostanza l’atto di formale accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (che non deve essere confuso con il mero verbale di constatazione di inadempienza, avente carattere endoprocedimentale e dichiarativo delle operazioni effettuate durante l’accesso ai luoghi), che facendo riferimento all'esito del verbale di constatazione costituisce il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate.
L’atto gravato costituisce quindi titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ora se la mera descrizione delle opere senza l’esatta individuazione sul terreno a mezzo di precisi e specifici riferimenti catastali può essere sufficiente per l’immissione nel possesso, sicuramente non lo è ai fini della trascrizione alla Conservatoria dei registri immobiliari che necessita di specifici riferimenti, in assenza dei quali la trascrizione verrà fatta, come nel caso specifico è stata fatta, sull’intera particella su cui insistono le aree di sedime da acquisire.
Entro questi limiti quindi il provvedimento gravato si presenta quale illegittimo nel senso che non specifica i precisi riferimenti catastali delle aree da acquisire, facendo riferimento alle intere particella su cui insistono dette aree.
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Il provvedimento che dispone l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune del manufatto abusivo non deve essere preceduto dall'avviso dell'inizio del procedimento, sia perché quest'ultimo consegue, come atto dovuto, all'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, sia perché nel sistema sanzionatorio in materia di abusivismo edilizio la contestazione assolve pienamente alle esigenze cui è preordinata la comunicazione di avvio del procedimento, presentandosi l’acquisizione come atto meramente consequenziale all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
In ogni caso, poi, il Collegio riterrebbe comunque applicabile il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Del pari destituita di fondamento giuridico è la censura dedotta con il secondo motivo di ricorso per motivi aggiunti, relativa alla circostanza che l’immobile era sotto sequestro penale e, pertanto, le parti ricorrenti erano impossibilitati ad adempiere alla diffida di riduzione in pristino.
Al riguardo è sufficiente evidenziare che l'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di inottemperanza, l'acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del comune (ex art. 31 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 - T.U. Edilizia), non rientrando il sequestro tra gli impedimenti assoluti che non consentano di dare esecuzione all'ingiunzione (Cons. Stato Sez. VI, 09.07.2013, n. 3626; TAR Emilia-Romagna, sez. I, n. 284/2012).
Ciò dal momento che è possibile motivatamente domandare all’autorità giudiziaria il dissequestro dell’immobile proprio al fine di ottemperare all’ingiunzione a demolire e costituisce onere del responsabile dell’abuso motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile.
Nel caso in cui, pertanto, come nel caso di specie, il soggetto obbligato neppure dimostri di aver richiesto il dissequestro del bene allo scopo di demolirlo, non può successivamente far valere la circostanza del sequestro quale causa di forza maggiore impeditiva della demolizione (TAR Campania sez. III, sent. 6792/2007).
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Infondato è anche il quarto motivo del ricorso per motivi aggiunti incentrato sulla carenza di istruttoria e di motivazione, in quanto risulterebbe essere stata omessa la valutazione della suscettibilità delle opere e dell’area ad essere utilizzate a fini pubblici. Inoltre, sempre secondo le parti ricorrenti, il provvedimento di acquisizione non avrebbe valutato la portata pregiudizievole per gli interessi urbanisti ed edilizi.
Al riguardo il Collegio ritiene sia sufficiente rilevare che il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di opere abusivamente realizzate ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione, con la conseguenza che, trattandosi atto dovuto, non è subordinato ad alcuna valutazione sulla compatibilità delle opere con gli interessi urbanistici e ambientali e sull'utilizzabilità delle stesse a fini pubblici e risulta sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione (TAR Campania Napoli Sez. IV, 12.05.2006, n. 4179; TAR Campania, Sez. IV, Napoli, 17.06.2002, n. 3620).
In materia di abusivismo edilizio l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile abusivo non rappresenta un atto provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione. In senso ostativo all'acquisizione non può assumere quindi rilevanza né il tempo trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né l'affidamento eventualmente riposto dall'interessato sulla legittimità delle opere realizzare, né l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione (Cons. Stato Sez. VI, 08.02.2013, n. 718; TAR Campania-Napoli, sez. II, n. 588/2012).
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Nel quinto motivo del ricorso per motivi aggiunti le parti ricorrenti hanno dedotto che sarebbe assente nel provvedimento l’esatta perimetrazione dell’area in contestazione, “così precludendosi la compiuta identificazione della res colpita dall’atto espropriativo”.
In sostanza non risulterebbero ben identificati i beni e le aree acquisite, anche ai fini dell’immissione in possesso e della trascrizione del bene acquisito.
I motivo di ricorso è fondato nei termini e limiti che seguono.
I comma 3 e 4 del D.P.R. n. 380/2001 dispongono: “3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al precedente comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente
”.
Nel caso in esame l’acquisizione è intervenuta solo per le opere abusive e per le relative aree di sedime, e non ha riguardato l'ulteriore area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.
L’acquisizione dell'area di sedime discende in via automatica e “ope legis” dall‘inottemperanza all'ordine di demolizione, tanto è che, a differenza rispetto all'acquisizione dell'ulteriore area, non è necessaria una motivazione sull’identificazione delle aree acquisite, essendo solo necessario che siano esattamente individuate ed elencate le opere (Cons. Stato, Sez. V, 17.06.2014 n. 3097).
Nel caso di specie le opere abusive e, conseguentemente, l’area di sedime sono state descritte sia nel provvedimento di demolizione che nell’atto di acquisizione.
Viene altresì indicato che le stesse ricadono nelle particelle -OMISSIS- non esaurendone però l’intera estensione.
L’acquisizione non può quindi essere relativa all’intera particella ma solo alle aree di sedime delle opere abusive.
Conformemente a ciò l’atto gravato indica testualmente nella parte dispositiva “l’acquisizione gratuita al patrimonio dell’opera abusiva e della sua" -OMISSIS-
Non le intere particelle vengono acquisite ma solo le opere ed aree di sedime ricadenti in tali particelle, che però non vengono specificamente identificate con precisi dati catastali.
Ora ad avviso del Collegio l’esatta individuazione delle opere abusive e delle aree di sedime non appare soddisfatta con questo tipo di descrizione. L’individuazione non può essere limitata alla descrizione ma deve essere accompagnata dall’attribuzione di precisi riferimenti catastali previo, se del caso, specifici frazionamenti.
Non si deve dimenticare che l’atto di acquisizione gravato è in sostanza l’atto di formale accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (che non deve essere confuso con il mero verbale di constatazione di inadempienza, avente carattere endoprocedimentale e dichiarativo delle operazioni effettuate durante l’accesso ai luoghi), che facendo riferimento all'esito del verbale di constatazione costituisce il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate (Cons. Stato, Sez. V, 17.06.2014 n. 3097).
L’atto gravato costituisce quindi titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri immobiliari (Cons. Stato, sez. V, 06.09.1999, n. 1015).
Ora se la mera descrizione delle opere senza l’esatta individuazione sul terreno a mezzo di precisi e specifici riferimenti catastali può essere sufficiente per l’immissione nel possesso, sicuramente non lo è ai fini della trascrizione alla Conservatoria dei registri immobiliari che necessita di specifici riferimenti, in assenza dei quali la trascrizione verrà fatta, come nel caso specifico è stata fatta, sull’intera particella su cui insistono le aree di sedime da acquisire.
Entro questi limiti quindi il provvedimento gravato si presenta quale illegittimo nel senso che non specifica i precisi riferimenti catastali delle aree da acquisire, facendo riferimento alle intere particella su cui insistono dette aree.
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Con il settimo motivo di ricorso per motivi aggiunti le parti ricorrenti hanno lamentato la violazione art. 7 legge n. 241/1990, per l’omessa comunicazione di avvio del procedimento di acquisizione.
Il motivo è infondato in quanto la comunicazione di avvio del procedimento non era necessaria.
Il provvedimento che dispone l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune del manufatto abusivo, difatti, non deve essere preceduto dall'avviso dell'inizio del procedimento, sia perché quest'ultimo consegue, come atto dovuto, all'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, sia perché nel sistema sanzionatorio in materia di abusivismo edilizio la contestazione assolve pienamente alle esigenze cui è preordinata la comunicazione di avvio del procedimento, presentandosi l’acquisizione come atto meramente consequenziale all’inottemperanza dell’ordine di demolizione (TAR Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, 13.12.2006, n. 807).
In ogni caso poi, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, il Collegio riterrebbe comunque applicabile il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è pacificamente orientata nel ritenere che per l'ordinanza di demolizione non sussiste alcun obbligo della P.A. di comunicare l'avvio del procedimento, essendo questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per il quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, stante la natura dell’atto.
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L'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e che l'adozione dell'ordinanza, di carattere ripristinatorio, non richiede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.
Pertanto, non si prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui s'imputa la trasgressione e l'Amministrazione non è tenuta a svolgere alcun tipo di indagine circa la responsabilità delle opere, in quanto quest'ultima rappresenta un elemento del tutto irrilevante ai fini della legittimità del provvedimento impugnato.

Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, la giurisprudenza è pacificamente orientata nel ritenere che per l'ordinanza di demolizione non sussiste alcun obbligo della P.A. di comunicare l'avvio del procedimento, essendo questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per il quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, stante la natura dell’atto (ex plurimis, solo per citare alcune tra le più recenti, Cons. St., sez. VI 31.05.2013 n. 3010; id., 24.05.2013 n. 2873; sez. V, 06.06.2012, n. 3337; TAR Napoli, sez. VIII, 26.03.2014 n. 1780; id., sez. III, 20.03.2014, n. 1596; sez. VII, 05.03.2014, n. 1332; id., 01.10.2012, n. 4005; sez. II, 14.12.2012, n. 5214; sez. IV, 17.01.2014, n. 314; id., 08.04.2013, n. 1830).
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Per giurisprudenza, anche in questo caso, pacifica, l'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e che l'adozione dell'ordinanza, di carattere ripristinatorio, non richiede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato (ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 04.10.2013 n. 4913; TAR Napoli, sez. II, 05.12.2013, n. 5567; sez. VI, 23.10.2013, n. 4679; TAR Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619).
Pertanto, non si prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui s'imputa la trasgressione e l'Amministrazione non è tenuta a svolgere alcun tipo di indagine circa la responsabilità delle opere, in quanto quest'ultima rappresenta un elemento del tutto irrilevante ai fini della legittimità del provvedimento impugnato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl ricorrente sostiene l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza di motivazione e difetto di istruttoria, in quanto il lungo lasso di tempo intercorso tra la commissione dell'abuso e l'adozione delle misure repressive avrebbe ingenerato un legittimo affidamento a causa dell'inerzia dell'Amministrazione, con la conseguenza che ai fini della legittimità dell'ordinanza di demolizione, l'Amministrazione dovrebbe dare conto, motivando, della valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati confliggenti, non essendo sufficiente soltanto il carattere di atto dovuto del provvedimento sanzionatorio e l'interesse pubblico al ripristino della legalità.
Al di là del fatto che la giurisprudenza amministrativa ha ribadito, anche di recente, che in questi casi non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto, va anche aggiunto che le opere abusive sono state realizzate in zona sottoposta a vincolo ambientale.
Pertanto, nessun legittimo affidamento al possibile permanere di dette opere può essersi ingenerato nel privato e nessun obbligo di motivazione gravava in capo al Comune.

Con il terzo motivo il ricorrente sostiene l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza di motivazione e difetto di istruttoria, in quanto il lungo lasso di tempo intercorso tra la commissione dell'abuso e l'adozione delle misure repressive avrebbe ingenerato un legittimo affidamento a causa dell'inerzia dell'Amministrazione, con la conseguenza che ai fini della legittimità dell'ordinanza di demolizione, l'Amministrazione dovrebbe dare conto, motivando, della valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati confliggenti, non essendo sufficiente soltanto il carattere di atto dovuto del provvedimento sanzionatorio e l'interesse pubblico al ripristino della legalità.
Al di là del fatto che la giurisprudenza amministrativa ha ribadito, anche di recente (ex plurimis Cons. St., sez. IV, 29.04.2014 n. 2228) che in questi casi non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto, va anche aggiunto che –come prospettato dalla difesa del Comune- le opere abusive sono state realizzate in zona sottoposta a vincolo con D.M. del 11.01.1955 (ben noto al ricorrente, vedi IV motivo), emesso ai sensi del D.Lgs. del 22/01/2004 n. 42, parte III (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), come emerge chiaramente dal contenuto dell'ordinanza di demolizione e dalla istruttoria tecnica completata il 19/10/2005, entrambe in atti.
Pertanto, nessun legittimo affidamento al possibile permanere di dette opere può essersi ingenerato nel privato e nessun obbligo di motivazione gravava in capo al Comune
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' irrilevante se l'opera sia o meno ultimata, in quanto l’art. 27 del d.P.R. 380/2001, a seguito delle modifiche apportare con il d.l. n. 269 del 2003, è applicabile tanto se venga accertato l'inizio quanto l'avvenuta esecuzione di opere abusive su aree vincolate, per cui non può trovare accoglimento la prospettazione dell'inapplicabilità della norma a causa dell'avvenuto completamento dei lavori.
In merito al IV motivo di impugnazione (violazione art. 27 d.P.R. 380/2001; violazione D.M. 11.01.1955; eccesso di potere; inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto; illogicità; difetto di istruttoria), col quale si lamenta la irragionevolezza della sanzione della demolizione, in quanto detta norma sarebbe applicabile solo a lavori non ultimati e solo per ragioni cautelari, il collegio rileva che è pacifico che è irrilevante se l'opera sia o meno ultimata, in quanto l’art. 27 del d.P.R. 380/2001, a seguito delle modifiche apportare con il d.l. n. 269 del 2003, è applicabile tanto se venga accertato l'inizio quanto l'avvenuta esecuzione di opere abusive su aree vincolate, per cui non può trovare accoglimento la prospettazione dell'inapplicabilità della norma a causa dell'avvenuto completamento dei lavori (TAR Napoli, sez. VI 06.02.2014 n. 791)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa l'ordine di demolizione (di opera abusiva) è sufficiente che lo stesso sia notificato anche a uno solo dei comproprietari e anche nel caso egli non sia il responsabile dell’abuso.
Infatti, l'ordinanza di demolizione notificata ad uno solo dei comproprietari è valida ed efficace, poiché la notificazione costituisce una condizione legale di efficacia dell'ordinanza di demolizione (trattandosi di atto recettizio impositivo di obblighi ai sensi dell'art. 21-bis, l. n. 241 del 1990), vale a dire un presupposto di operatività dell'atto nei confronti dei suoi diretti destinatari, con la conseguenza che la relativa omissione è censurabile esclusivamente dal soggetto nel cui interesse la comunicazione stessa è posta, in ragione della funzione assolta dall'istituto, consistente nell'esigenza di portare a conoscenza dell'atto il suo destinatario onde ottenere la sua personale e soggettiva collaborazione necessaria per il conseguimento del fine. Ne consegue che alcun pregiudizio può discendere in capo a chi ha ricevuto ritualmente la notificazione dell'atto per effetto della mancata notifica del provvedimento agli altri comproprietari del bene.

Con il sesto motivo si prospetta l’assenza di notifica del provvedimento sanzionatorio a tutti i comproprietari del bene, in considerazione della carenza di istruttoria che lo caratterizza. Inoltre, esso è stato notificato ad un soggetto non responsabile dell’abuso (le opere abusive sarebbero state realizzate dal padre del Pastore, e suo avente causa).
Il motivo è infondato, essendo sufficiente la notifica anche a uno solo dei comproprietari e anche nel caso egli non sia il responsabile dell’abuso.
Infatti, l'ordinanza di demolizione notificata ad uno solo dei comproprietari è valida ed efficace, poiché la notificazione costituisce una condizione legale di efficacia dell'ordinanza di demolizione (trattandosi di atto recettizio impositivo di obblighi ai sensi dell'art. 21-bis, l. n. 241 del 1990), vale a dire un presupposto di operatività dell'atto nei confronti dei suoi diretti destinatari, con la conseguenza che la relativa omissione è censurabile esclusivamente dal soggetto nel cui interesse la comunicazione stessa è posta, in ragione della funzione assolta dall'istituto, consistente nell'esigenza di portare a conoscenza dell'atto il suo destinatario onde ottenere la sua personale e soggettiva collaborazione necessaria per il conseguimento del fine. Ne consegue che alcun pregiudizio può discendere in capo a chi ha ricevuto ritualmente la notificazione dell'atto per effetto della mancata notifica del provvedimento agli altri comproprietari del bene (ex plutimis TAR Napoli, sez. VIII, 07.11.2013 n. 4960)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sia il capannone che le restanti opere sono state realizzate (abusivamente) in area sottoposta a vincolo paesaggistico e, pertanto, è del tutto irrilevante la natura pertinenziale di tali opere, posto che la demolizione s’impone sempre in mancanza di titolo emesso da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
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Con riguardo all'applicazione della sanzione non vigente all'epoca dell'abuso, va rilevato che l'illecito edilizio ha natura permanente, violando con la sua realizzazione l'ordinato e programmato assetto urbanistico del territorio: colui che ha realizzato l'abuso mantiene, pertanto, inalterato nel tempo l'obbligo di eliminare l'opera abusiva; stante, quindi, il carattere permanente dell'infrazione della norma edilizia, anche il potere di repressione può essere esercitato retroattivamente, cioè anche per fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore della norma che disciplina tale potere; conferma di tale orientamento è data dal dettato normativo della stessa l. n. 47 del 1985, la quale espressamente ha inteso estendere il nuovo regime sanzionatorio anche alle opere ultimate prima della data del 01.10.1983 e non condonate.

Infondato è anche il VII motivo di gravame (violazione art. 27 e 30 d.P.R. 380/2001; violazione d.m. 11.01.1955; difetto di motivazione; inesistenza dei presupposti), basato sul carattere pertinenziale delle opere in questione (sia la tettoia che il capannone sono strumentali alla attività agricola; la tettoia è del 1950) e sull’impossibilità di demolirli proficuamete.
Il collegio sottolinea che sia il capannone che le restanti opere sono state realizzate in area sottoposta a vincolo paesaggistico con D.M. 11/01/1955 e, pertanto, è del tutto irrilevante la natura pertinenziale di tali opere, posto che la demolizione s’impone sempre in mancanza di titolo emesso da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (TAR Lazio, sez. I, 10.04.2012 n. 3265).
In ogni caso, entrambe avrebbero dovuto essere munite di titolo legittimamente la loro costruzione, in quanto incidono significativamente sull’assetto edilizio preesistente creando volumetria o, come nel caso della tettoia, modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce (cfr. Tar Salerno, 12.04.2012, n. 728).
Inoltre, "con riguardo all'applicazione della sanzione non vigente all'epoca dell'abuso, va rilevato che l'illecito edilizio ha natura permanente, violando con la sua realizzazione l'ordinato e programmato assetto urbanistico del territorio: colui che ha realizzato l'abuso mantiene, pertanto, inalterato nel tempo l'obbligo di eliminare l'opera abusiva; stante, quindi, il carattere permanente dell'infrazione della norma edilizia, anche il potere di repressione può essere esercitato retroattivamente, cioè anche per fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore della norma che disciplina tale potere; conferma di tale orientamento è data dal dettato normativo della stessa l. n. 47 del 1985, la quale espressamente ha inteso estendere il nuovo regime sanzionatorio anche alle opere ultimate prima della data del 01.10.1983 e non condonate" (TAR Veneto, sez. II, 11.12.2013, n. 1397)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA seguito della decadenza per mancato completamento dei lavori il titolare del permesso deve chiedere un nuovo permesso di costruire per poter realizzare la parte di lavori non eseguita salvo che essi rientrino tra quelli soggetti a denuncia di inizio di attività e salvo eventuale ricalcolo del contributo di costruzione.
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La proroga presuppone che il permesso di costruire non sia ancora decaduto (in altri termini la proroga –che oltretutto presuppone fatti sopravvenuti non dipendenti dalla volontà del titolare del permesso– va chiesta prima della scadenza del termine di ultimazione dei lavori).

Quale che sia la soluzione, è però innegabile che al più tardi alla data del 26.04.2008 il permesso di costruire n. 54 del 2004 aveva perduto ogni attitudine a produrre effetti giuridici.
Di conseguenza esso non avrebbe potuto essere oggetto di proroga, dato che a seguito della decadenza per mancato completamento dei lavori il titolare del permesso deve chiedere un nuovo permesso di costruire per poter realizzare la parte di lavori non eseguita salvo che essi rientrino tra quelli soggetti a denuncia di inizio di attività e salvo eventuale ricalcolo del contributo di costruzione (cfr. articolo 15, comma 3, D.P.R. 06.06.2001, n. 380).
E’ quindi in base a questo principio che va operata la qualificazione dell’atto di proroga del 14.07.2009 del comune, tenendo presente che gli atti amministrativi devono essere qualificati in base alle loro oggettive caratteristiche a prescindere dal nomen usato.
Ciò premesso è evidente la volontà del redattore dell’atto di limitarsi a una proroga del precedente permesso (sintomatico è che quest’ultimo sia richiamato e che l’efficacia della proroga sia limitata a un anno, mentre se si fosse trattato del rilascio del permesso di costruire per la parte di lavori non eseguiti sarebbero stati richiesti e acquisiti elaborati grafici e sarebbero stati fissati nuovi termini per inizio e completamento dei lavori); nella fattispecie quindi si tratta di proroga; tuttavia l’atto è chiaramente illegittimo dato che la proroga presuppone che il permesso di costruire non sia ancora decaduto (in altri termini la proroga –che oltretutto presuppone fatti sopravvenuti non dipendenti dalla volontà del titolare del permesso– va chiesta prima della scadenza del termine di ultimazione dei lavori) (TAR Lazio-Latina, sentenza 24.07.2014 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto concerne il rispetto del procedimento dell’articolo 35, va rilevato che esso prescrive che al responsabile dell’abuso vada data una “diffida non rinnovabile” al ripristino e che, ove essa resti inadempiuta, il comune debba disporre la demolizione d’ufficio a sua cura e a spese del responsabile.
Questo è quanto avvenuto nella fattispecie; la tesi dei ricorrenti implicherebbe che alla diffida non rinnovabile e prima dell’ordine di demolizione d’ufficio debba farsi luogo a un nuovo ordine di demolizione; ma non solo di ciò non vi è traccia nell’articolo ma un simile modus procedenti si porrebbe in contrasto con la previsione della “non rinnovabilità” della diffida.
La comunicazione all’ente titolare dell’area oggetto di abuso è adempimento che tutela chiaramente interessi di quest’ultimo, per cui della sua omissione non può giovarsi il responsabile dell’abuso.
Quanto infine all’articolo 41, va rilevato che la valutazione da parte della giunta riguarda non l’emissione del provvedimento che ordina la demolizione d’ufficio –che costituisce un atto dovuto– ma la sua esecuzione.

Può ora passarsi all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione.
A parte il vizio di illegittimità derivata, i ricorrenti sostengono che il comune non ha rispettato le prescrizioni dettate dall’articolo 35 per l’ipotesi in cui le opere abusive siano realizzate su suolo di enti pubblici.
L’articolo 35 citato dispone che “qualora sia accertata la realizzazione … di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina al responsabile dell'abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo”.
Nella fattispecie risulta che la diffida alla rimozione dell’opera è stata data con il provvedimento del 09.08.2013 che ha confermato l’annullamento del permesso di costruire del 2004; non avendo i ricorrenti provveduto con il successivo provvedimento del 23.09.2013 il comune ha disposto la demolizione d’ufficio.
Ad avviso dei ricorrenti vi sarebbero due deviazioni dallo schema procedimentale delineato dall’articolo 35; il comune avrebbe infatti disposto di provvedere alla demolizione d’ufficio senza prima ordinare la demolizione al responsabile dell’abuso; non risulta che il provvedimento di demolizione sia stato accompagnato dalla prevista comunicazione all’ente proprietario del suolo. A ciò si aggiunge la violazione dell’articolo 41 D.P.R. n. 380 secondo cui “in tutti i casi in cui la demolizione deve avvenire a cura del comune, essa è disposta dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale su valutazione tecnico-economica approvata dalla giunta comunale”.
Le censure sono infondate.
Per quanto concerne il rispetto del procedimento dell’articolo 35, va rilevato che esso prescrive che al responsabile dell’abuso vada data una “diffida non rinnovabile” al ripristino e che, ove essa resti inadempiuta, il comune debba disporre la demolizione d’ufficio a sua cura e a spese del responsabile; questo è quanto avvenuto nella fattispecie; la tesi dei ricorrenti implicherebbe che alla diffida non rinnovabile e prima dell’ordine di demolizione d’ufficio debba farsi luogo a un nuovo ordine di demolizione; ma non solo di ciò non vi è traccia nell’articolo ma un simile modus procedenti si porrebbe in contrasto con la previsione della “non rinnovabilità” della diffida; la comunicazione all’ente titolare dell’area oggetto di abuso è adempimento che tutela chiaramente interessi di quest’ultimo, per cui della sua omissione non può giovarsi il responsabile dell’abuso. Quanto infine all’articolo 41, va rilevato che la valutazione da parte della giunta riguarda non l’emissione del provvedimento che ordina la demolizione d’ufficio –che costituisce un atto dovuto– ma la sua esecuzione (TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.02.2009, n. 661) (TAR Lazio-Latina, sentenza 24.07.2014 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa problematica introdotta può sostanziarsi nel seguente quesito: se un’attività solo parzialmente ricettiva, com’è incontestatamente quella di “bed and breakfast” integri il requisito di “impianti produttivi di beni e servizi” previsto dall’art. 1, DPR n. 447/1998 per l’affidamento all’unica unica struttura del comune (SUAP) dell'intero procedimento concernente la realizzazione, ampliamento, cessazione, riattivazione, localizzazione e rilocalizzazione di impianti produttivi, ivi incluso il rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie (art. 23, D.Lgs. n. 112/1998).
La giurisprudenza di primo grado è orientata in senso restrittivo: l’effettiva inerenza ad una attività produttiva, che, per la procedura di SUAP in variante al piano urbanistico generale, deve emergere con chiarezza dagli atti, è richiesta da TAR Lombardia (Brescia sez. I, 04.02.2013, n. 126) mentre la necessaria dimostrazione della diretta strumentalità tra il manufatto da realizzare e le esigenze di produzione è affermata da TAR Sardegna (Cagliari sez. II, 05.03.2010, n. 246).
Il Collegio è indotto a preferire l’opzione più restrittiva sia perché più confacente alla vocazione “produttiva” del DPR n. 447/1998, sia perché più consona all’esclusione di qualsiasi utilizzo del territorio in forma residenziale (ivi compreso quello indiretto o misto che si realizza con il bed and breakfast) impressa dallo strumento urbanistico locale.

Al di là della frammentazione, la problematica introdotta può sostanziarsi nel seguente quesito: se un’attività solo parzialmente ricettiva, com’è incontestatamente quella di “bed and breakfast” integri il requisito di “impianti produttivi di beni e servizi” previsto dall’art. 1, DPR n. 447/1998 per l’affidamento all’unica unica struttura del comune (SUAP) dell'intero procedimento concernente la realizzazione, ampliamento, cessazione, riattivazione, localizzazione e rilocalizzazione di impianti produttivi, ivi incluso il rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie (art. 23, D.Lgs. n. 112/1998).
La giurisprudenza di primo grado è orientata in senso restrittivo: l’effettiva inerenza ad una attività produttiva, che, per la procedura di SUAP in variante al piano urbanistico generale, deve emergere con chiarezza dagli atti, è richiesta da TAR Lombardia (Brescia sez. I, 04.02.2013, n. 126) mentre la necessaria dimostrazione della diretta strumentalità tra il manufatto da realizzare e le esigenze di produzione è affermata da TAR Sardegna (Cagliari sez. II, 05.03.2010, n. 246).
La ragione va, evidentemente, individuata nel rischio di uno stravolgimento del sistema insito nella deroga alle procedure ordinarie di pianificazione territoriale, per l’estensione della competenza dello sportello unico per le attività produttive anche alle opere edilizie, il cui ampliamento oltre misura è suscettibile di porre fine alla fase propriamente produttiva dell’area: dalla “ratio” della speciale disciplina dello sportello unico di semplificare le procedure amministrative connesse all’esercizio dell’attività imprenditoriale discende l’esigenza della stretta connessione fra quest’ultima e la trasformazione del territorio.
L’incertezza sui limiti della procedura dello sportello unico discende probabilmente dall’indeterminatezza delle semplificazioni iniziate con la L. n. 59/1997, delle quali l’art. 23, segg. D.Lgs. n. 112/1998 costituisce attuazione sotto l’aspetto del conferimento (alle regioni e) agli enti locali di funzioni e compiti amministrativi onde valorizzarne il ruolo nella gestione territoriale dello sviluppo economico e delle attività produttive e, al contempo, nell’offerta alle imprese di strumenti più agili per avviare e sviluppare le attività produttive evitando iter amministrativi complessi e con molteplici interlocutori.
Nell’ambito delle funzioni soggette a trasferimento l’art. 25, D.Lgs. n. 112/1998 precisa, a proposito dell'insediamento delle attività produttive, che il procedimento dev'essere unico e ne demanda la definizione ad uno o più regolamenti di delegificazione da emanare ex art. 17, co. 2, L. n. 400/1988 e con i criteri dell'art. 20, co. 5, L. n. 59/1997, tra i quali l’uniformità dei procedimenti del medesimo tipo e l’individuazione delle procedure e delle responsabilità inerenti alle attività di verifica e controllo.
In questo quadro normativo, il DPR n. 447/1998 prevede la procedura “semplificata” per attività relative ad impianti industriali in senso stretto e per quelle riguardanti gli esercizi commerciali, artigianali e le società di servizi, preliminare rispetto alla quale è l'individuazione delle aree da destinare agli insediamenti produttivi.
A tal fine, il regolamento prevede che siano salvaguardate “le eventuali prescrizioni dei piani territoriali sovracomunali” nell’individuazione da parte dei comuni “delle aree da destinare all'insediamento di impianti produttivi” in conformità alle tipologie generali e ai criteri determinati dalle regioni e che la variante sia approvata, in caso di contrasto gli strumenti urbanistici comunali vigenti, tramite procedure individuate dalla legge regionale, con criteri finalizzati all'adeguamento degli standards urbanistici e diretti ad accelerare l'esame delle domande di concessione e di autorizzazione edilizia.
Il suesposto quadro normativo induce il Collegio a preferire l’opzione più restrittiva sia perché più confacente alla vocazione “produttiva” del DPR n. 447/1998, sia perché più consona all’esclusione di qualsiasi utilizzo del territorio in forma residenziale (ivi compreso quello indiretto o misto che si realizza con il bed and breakfast) impressa dallo strumento urbanistico locale.
Il motivo in esame va perciò respinto in tutte le sue possibili implicazioni: l’esigenza che l’attività sia diretta alla produzione di beni o servizi, ne rende irrilevante la modalità di esercizio (imprenditoriale o non): il carattere non esclusivamente produttivo (ma anche residenziale) del “bed and breakfast” non necessita di specifica motivazione del divieto ai relativi insediamenti e/o di approfondita relazione tecnica alle clausole impeditive del corrispondente utilizzo (entrambe sub specie esaustive); l’insufficiente approfondimento giurisprudenziale della problematica in esame non crea alcun vincolo nella decisione del presente giudizio (TAR Umbria, sentenza 23.07.2014 n. 406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce jus receptum il principio a mente del quale va reputato illegittimo il provvedimento recante sostanziale diniego di titolo edilizio laddove lo stesso sia solo giustificato sulla base di un generico contrasto con la disciplina vigente ovvero sulla base di una valutazione meramente estetica non suffragata dal richiamo alle sottostanti puntuali norme di piano o regolamentari vigenti, in quanto tale tipologia di statuizioni autoritative deve motivare l'effettivo contrasto tra l'opera realizzata e gli strumenti urbanistici, e tale contrasto deve essere evidenziato in maniera intellegibile, così da consentire al soggetto interessato di contestare la decisione e prospettare la rispettiva interpretazione delle norme urbanistiche.
In generale, costituisce jus receptum ribadito ancora di recente dalla sezione il principio a mente del quale va reputato illegittimo il provvedimento recante sostanziale diniego di titolo edilizio laddove lo stesso sia solo giustificato sulla base di un generico contrasto con la disciplina vigente ovvero sulla base di una valutazione meramente estetica non suffragata dal richiamo alle sottostanti puntuali norme di piano o regolamentari vigenti, in quanto tale tipologia di statuizioni autoritative deve motivare l'effettivo contrasto tra l'opera realizzata e gli strumenti urbanistici, e tale contrasto deve essere evidenziato in maniera intellegibile, così da consentire al soggetto interessato di contestare la decisione e prospettare la rispettiva interpretazione delle norme urbanistiche
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Circa la necessità che la non ammissibilità di manufatti pertinenziali quali le piscine debba essere prevista espressamente (oltre che ragionevolmente) dal piano, la giurisprudenza ha statuito alcuni principi quali:
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in primo luogo è stato evidenziato come in linea generale l'installazione di una piscina di non rilevanti dimensioni oggettive (fatta salva la rilevanza paesaggistica per l’evidente trasformazione visiva) non integri di per sé, dal punto di vista edilizio, la violazione degli indici di copertura che riguardano interventi edilizi né degli standard, atteso che non si determina un aumento del carico urbanistico della zona, rilevando solo in termini di sistemazione esterna del terreno, e che i vani per impianti tecnologici sono per tale natura consentiti;
- in secondo luogo, la sezione ha già ribadito che la realizzazione di una piscina in generale costituisce opera pertinenziale che non implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche;
- in terzo luogo, è già stato evidenziato (e con riferimento a contesti di particolare pregio, paesaggisticamente vincolati) che l'introduzione dell'elemento piscina di per sé non comporta l'eliminazione di essenze arboree e migliora significativamente l'impatto ambientale.
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In definitiva, rispetto alla genericità del diniego ed all’assenza di specifici divieti, vale il principio generale a mente del quale una piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa ad un fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha natura obiettiva di pertinenza e costituisce un manufatto adeguato all'uso effettivo e quotidiano del proprietario dell'immobile principale.
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Analogamente va concluso, con la prevalente giurisprudenza, che nella pianificazione urbanistica il vincolo a verde agricolo assolve essenzialmente la funzione di preservare una determinata area da un'eccessiva espansione edilizia che ne comprometta i valori ambientali, ma non preclude la realizzazione di specifici manufatti aventi una destinazione non agricola, ove gli stessi non rechino turbativa all'assetto territoriale, risultando ininfluente che l'opera realizzata (nella specie, una piscina scoperta) non sia destinata al servizio di una residenza rurale in senso stretto.

In linea generale, circa la necessità che la non ammissibilità di manufatti pertinenziali quali le piscine debba essere prevista espressamente (oltre che ragionevolmente) dal piano, vanno richiamati alcuni principi già espressi dalla giurisprudenza prevalente e dalla sezione.
In primo luogo è stato evidenziato come in linea generale l'installazione di una piscina di non rilevanti dimensioni oggettive (fatta salva la rilevanza paesaggistica per l’evidente trasformazione visiva) non integri di per sé, dal punto di vista edilizio, la violazione degli indici di copertura che riguardano interventi edilizi né degli standard, atteso che non si determina un aumento del carico urbanistico della zona, rilevando solo in termini di sistemazione esterna del terreno, e che i vani per impianti tecnologici sono per tale natura consentiti (cfr. ad es. CdS 1951/2014). In secondo luogo, la sezione ha già ribadito che la realizzazione di una piscina in generale costituisce opera pertinenziale che non implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche (cfr. ad es. sent n. 299/2008). In terzo luogo, è già stato evidenziato (e con riferimento a contesti di particolare pregio, paesaggisticamente vincolati) che l'introduzione dell'elemento piscina di per sé non comporta l'eliminazione di essenze arboree e migliora significativamente l'impatto ambientale (cfr. ad es. Tar Campania 11565/2007).
Quanto da ultimo indicato conferma anche sotto un diverso angolo prospettico l’insufficienza, genericità ed inadeguatezza delle argomentazione svolte a fondamento del diniego circa la presunta necessità di mantenimento della ruralità e delle caratteristiche del contesto.
In proposito va evidenziato come nel caso di specie non sussista alcun vincolo paesaggistico, in relazione al quale la giurisprudenza, condivisa dal Collegio ha evidenziato che l’Amministrazione, nell'adottare un provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche (cfr. ad es. Tar Lazio 8829/2008 proprio in tema di piscine in zona vincolata). A maggior ragione tale principio vale nei casi quale quello in esame di (invero rara, nelle zone di pregio della nostra Regione) area non vincolata.
Peraltro, tornando alla verifica della concreta fattispecie in esame, un attento studio della disciplina di piano sembra all’opposto, nei termini dedotti da parte ricorrente, ammettere espressamente la realizzabilità di piccole piscine, quale quella progettata dall’odierna parte ricorrente.
Infatti, la stessa norma invocata, cioè l’art. 18 nta, rinvia al successivo art. 23c –in tema di aree agricole– con esclusione di nuovi volumi di cui al comma 6; orbene, fra le disposizioni richiamate, contenute nella parte di art. 23c ammessa, si rinvia all’art. 23 che, a propria volta, fra le infrastrutture agrarie e i manufatti integrativi prevede in maniera indiretta ma evidente la possibilità di realizzazione di piscine, laddove si limita a non ammettere l’allaccio alla rete idrica comunale per la fornitura d’acqua a piscine di ogni genere.
In definitiva, l’unico richiamo espresso ai manufatti in questione nelle zone agricole, lungi dal manifestare quanto genericamente ed apoditticamente posto a fondamento del diniego, ne ammette pacificamente l’esistenza escludendone solo il possibile allaccio alla rete idrica comunale, con la conseguenza che le stesse dovranno essere riempite altrimenti.
In definitiva, rispetto alla genericità del diniego ed all’assenza di specifici divieti, vale il principio generale a mente del quale una piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa ad un fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha natura obiettiva di pertinenza e costituisce un manufatto adeguato all'uso effettivo e quotidiano del proprietario dell'immobile principale (cfr. ad es. Cons. Stato, Sez. V, 13.10.1993, n. 1041/1993 e 1951/2014 cit).
Analogamente va concluso, con la prevalente giurisprudenza, che nella pianificazione urbanistica il vincolo a verde agricolo assolve essenzialmente la funzione di preservare una determinata area da un'eccessiva espansione edilizia che ne comprometta i valori ambientali, ma non preclude la realizzazione di specifici manufatti aventi una destinazione non agricola, ove gli stessi non rechino turbativa all'assetto territoriale, risultando ininfluente che l'opera realizzata (nella specie, una piscina scoperta) non sia destinata al servizio di una residenza rurale in senso stretto (cfr. ad es. Tar Piemonte 2552/2009)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa normativa sulla ristrutturazione dei sottotetti, se prevede la possibilità di deroghe allo strumento urbanistico, non consente, invece, deroga alla normativa sulle distanze, in quanto la norma sulla distanza minima di dieci metri di cui all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 infatti è norma che limita la potestà legislativa regionale e sostituisce ope legis limiti inferiori contenuti negli strumenti urbanistici.
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Se per un verso si è chiarito che il recupero dei sottotetti ex l.r. 24 del 2001 -formula di sintesi che designa genericamente l’utilizzazione a fini abitativi di spazi tecnici accessori in preesistenti fabbricati- è suscettibile di essere realizzato mediante diverse modalità progettuali ed esecutive, tutte riconducibili –entro gli estremi del risanamento conservativo fino alla costruzione di una (vera e propria) nuova costruzione– ai tipi d’intervento edilizi definiti (cfr. art. 10) nel testo unico dell’edilizia, per un altro e connesso verso si è altresì ribadito che, qualora il progettato intervento di recupero del sottotetto dia luogo ad un nuovo volume sarà applicabile la disciplina edilizia prevista per le nuove costruzioni, sì da osservare (per esempio, come più volte affermato in giurisprudenza) la norma sulla distanza minima di cui all’art. 9 d.m. 1444 del 1968 fra edifici fronteggianti.
- atteso che la presente controversia ha ad oggetto il provvedimento di cui in epigrafe, recante diniego di permesso di costruire per un recupero di sottotetto a fini abitativi, basato sulla qualificazione dell’intervento quale nuova costruzione che non rispetta i limiti di distanza minima da pareti finestrate;
- considerato che le censure, dedotte in termini di violazione della normativa in materia, del difetto di motivazione anche rispetto alle osservazioni procedimentali, non colgono nel segno, in termini di manifesta infondatezza tali da imporre l’applicazione dell’art. 74 cod. proc. amm.;
- atteso che in primo luogo assume rilievo il contenuto degli atti procedimentali nonché in specie la congrua e completa motivazione posta a fondamento del diniego;
- considerato che, inoltre, tale ordito motivazionale si pone in totale adesione alla prevalente –e condivisa dal Collegio– opinione giurisprudenziale a mente della quale la normativa sulla ristrutturazione dei sottotetti, se prevede la possibilità di deroghe allo strumento urbanistico, non consente, invece, deroga alla normativa sulle distanze, in quanto la norma sulla distanza minima di dieci metri di cui all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 infatti è norma che limita la potestà legislativa regionale e sostituisce ope legis limiti inferiori contenuti negli strumenti urbanistici (cfr. ex multis Tar Liguria n. 256/2013);
- atteso che, in contrario avviso, non possono assumere rilievo né, anche a fronte dell’epoca di adozione degli atti nonché la mancanza di normativa attuativa, l’invocata modifica normativa di cui al d.l. 69/2013, né l’invocato recente orientamento della sezione (sentenze 1005/2014 e 1406/2013);
- considerato che, a quest’ultimo proposito, se per un verso si è chiarito che il recupero dei sottotetti ex l.r. 24 del 2001 -formula di sintesi che designa genericamente l’utilizzazione a fini abitativi di spazi tecnici accessori in preesistenti fabbricati- è suscettibile di essere realizzato mediante diverse modalità progettuali ed esecutive, tutte riconducibili –entro gli estremi del risanamento conservativo fino alla costruzione di una (vera e propria) nuova costruzione– ai tipi d’intervento edilizi definiti (cfr. art. 10) nel testo unico dell’edilizia, per un altro e connesso verso si è altresì ribadito che, qualora il progettato intervento di recupero del sottotetto dia luogo ad un nuovo volume sarà applicabile la disciplina edilizia prevista per le nuove costruzioni, sì da osservare (per esempio, come più volte affermato in giurisprudenza) la norma sulla distanza minima di cui all’art. 9 d.m. 1444 del 1968 fra edifici fronteggianti (cfr., Tar Liguria, sez. I, 1406/2013 e 1005/2014; ancor prima, ID, n. 1621 del 2009);
- rilevato che, pertanto, contrariamente alla prospettazione da ultimo proposta, resta pienamente efficace il necessario rispetto della normativa sulle distanze, correttamente applicata dal Comune all’epoca del procedimento in esame;
- atteso che nel caso de quo la consistenza dell’opera, come emerge dall’analisi degli atti di causa, non può che seguire la qualificazione del nuovo volume e della nuova costruzione, in specie nella parte che prevede un innalzamento della quota di gronda di metri 1.30 e del colmo del tetto pari a metri 1.70 (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI  LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIn linea generale, va ribadito che nella materia dei pubblici concorsi (in assenza di una disposizione limitatrice quale quella posta nella diversa materia delle pubbliche gare di appalto dal comma 4 dell'articolo 83 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163) non risulta illegittima la scelta dell'amministrazione di articolare i criteri e le macro-voci di valutazione in ulteriori sub-criteri, purché tale articolazione si traduca in una mera specificazione dei richiamati criteri e macro-voci e non si traduca nell'introduzione di nuovi e diversi parametri valutativi.
Parimenti in linea generale, la commissione esaminatrice di un concorso pubblico è titolare di un'ampia discrezionalità in ordine sia all'individuazione dei criteri per l'attribuzione ai candidati dei punteggi spettanti per i titoli da essi vantati nell'ambito del punteggio massimo stabilito dal bando, per rendere concreti e attuali gli stessi criteri del bando, sia alla valutazione dei singoli tipi di titoli; di conseguenza l'esercizio di tale discrezionalità sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, riguardando il merito dell'azione amministrativa, salvo che il suo uso non sia caratterizzato da macroscopici vizi di eccesso di potere per irragionevolezza e arbitrarietà.
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L'insindacabilità del giudizio della commissione esaminatrice da parte del giudice amministrativo viene meno nei casi in cui tale giudizio risulti viziato da profili di palese illogicità, irragionevolezza, arbitrarietà, superficialità, incompletezza, incongruenza e manifesta disparità, emergenti dalla stessa documentazione, tali da configurare un palese eccesso di potere, ed in presenza di tali profili, proprio per via della loro evidenza, il giudice amministrativo non entra comunque nel merito della valutazione; sicché, in merito valutazione dei titoli il sindacato è ammissibile solo in presenza di una articolazione dei motivi e un riscontro probatorio sufficientemente dettagliati.
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L'espressione di un voto numerico sintetizza ed esprime il giudizio tecnico-discrezionale operato dalla commissione esaminatrice e, in correlazione ai criteri di valutazione formulati dalla lex specialis, dalla stessa commissione o comunque dall'organo competente.
In materia, la valutazione comparativa che la commissione esaminatrice di un concorso è chiamata a svolgere consiste in un raffronto globale delle capacità e dei titoli dei vari candidati. Ciò implica che dei candidati deve essere costruito il profilo complessivo risultante dalla confluenza degli elementi che lo compongono, i quali sono apprezzati in tale quadro non isolatamente ma in quanto correlati nell'insieme secondo il peso che assumono in una interazione di sintesi oggetto di un motivato giudizio unitario.
Ne consegue ancora che la suddetta valutazione specifica dei titoli deve essere svolta, ma non con dettaglio tale da instaurare una valutazione comparativa puntuale di ciascun candidato rispetto agli altri per ciascuno dei titoli, poiché si perderebbe, altrimenti, la contestualità sintetica della valutazione globale, risultando perciò necessario e sufficiente che i detti titoli siano stati acquisiti al procedimento e vi risultino considerati nel quadro della detta valutazione.

Dall’analisi della documentazione versata in atti emerge come la commissione abbia ragionevolmente provveduto a chiarire alcuni aspetti dei criteri esistenti tali da costituire possibile fonte di equivoco, ciò anche in presumibile adeguamento alle chiare indicazioni contenute nella precedente sentenza resa dalla sezione sul concorso stesso.
In linea generale, va ribadito che nella materia dei pubblici concorsi (in assenza di una disposizione limitatrice quale quella posta nella diversa materia delle pubbliche gare di appalto dal comma 4 dell'articolo 83 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163) non risulta illegittima la scelta dell'amministrazione di articolare i criteri e le macro-voci di valutazione in ulteriori sub-criteri, purché tale articolazione si traduca in una mera specificazione dei richiamati criteri e macro-voci e non si traduca nell'introduzione di nuovi e diversi parametri valutativi (cfr. ad es. C.d.S. n. 5288/2013).
Parimenti in linea generale, secondo un principio che troverà piena applicazione anche in ordine alle restanti censure, la commissione esaminatrice di un concorso pubblico è titolare di un'ampia discrezionalità in ordine sia all'individuazione dei criteri per l'attribuzione ai candidati dei punteggi spettanti per i titoli da essi vantati nell'ambito del punteggio massimo stabilito dal bando, per rendere concreti e attuali gli stessi criteri del bando, sia alla valutazione dei singoli tipi di titoli; di conseguenza l'esercizio di tale discrezionalità sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, riguardando il merito dell'azione amministrativa, salvo che il suo uso non sia caratterizzato da macroscopici vizi di eccesso di potere per irragionevolezza e arbitrarietà (cfr. ad es. C.d.S. n. 4229/2011).
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Ad analoghe conclusioni negative deve giungersi rispetto al secondo ordine di rilievi, con cui parte ricorrente contesta, in termini invero di estrema genericità, la mancanza della necessaria valutazione dei titoli e, inoltre, la legittimità dell’attribuzione di voti frazionati e non a punteggio intero.
Nella prima direzione, in assenza della specifica indicazione di concrete carenze valutative, assume rilievo dirimente il principio predetto, ancora riassumibile nei seguenti termini: l'insindacabilità del giudizio della commissione esaminatrice da parte del giudice amministrativo viene meno nei casi in cui tale giudizio risulti viziato da profili di palese illogicità, irragionevolezza, arbitrarietà, superficialità, incompletezza, incongruenza e manifesta disparità, emergenti dalla stessa documentazione, tali da configurare un palese eccesso di potere, ed in presenza di tali profili, proprio per via della loro evidenza, il giudice amministrativo non entra comunque nel merito della valutazione; sicché, in merito valutazione dei titoli il sindacato è ammissibile solo in presenza di una articolazione dei motivi e un riscontro probatorio sufficientemente dettagliati (cfr. ad es. Tar Salerno 237/2014).
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Le considerazioni appena svolte trovano ulteriore conferma in ordine al terzo ed ultimo ordine di rilievi, con cui si contestano singole valutazioni.
Infatti, l’attenta disamina degli atti conferma una completa e non illogica valutazione priva di errori di calcolo ovvero di carenze qualificabili come travisamento dei fatti o manifesta illogicità. Neppure è ricavabile alcuna disparità di trattamento, atteso che le eventuali labili carenze valutative hanno interessato entrambe le candidate.
In assenza della dimostrazione e comunque dell’emersione di qualsivoglia carenza, nei limitati termini di sindacato ammessi secondo i principi più volte richiamati, occorre ancora una volta rifarsi alla giurisprudenza prevalente: infatti, secondo il consolidato orientamento del Consiglio di Stato —manifestato sia in termini generali, con riguardo ai concorsi pubblici, sia specificamente in tema di esami per l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato— l'espressione di un voto numerico sintetizza ed esprime il giudizio tecnico-discrezionale operato dalla commissione esaminatrice e, in correlazione ai criteri di valutazione formulati dalla lex specialis, dalla stessa commissione o comunque dall'organo competente (nella specie: la commissione centrale presso il Ministero della giustizia), consente il sindacato giurisdizionale sul potere amministrativo (C.d.S. n. 401/2014 e 5079/2013)
In materia, la valutazione comparativa che la commissione esaminatrice di un concorso è chiamata a svolgere consiste in un raffronto globale delle capacità e dei titoli dei vari candidati. Ciò implica che dei candidati deve essere costruito il profilo complessivo risultante dalla confluenza degli elementi che lo compongono, i quali sono apprezzati in tale quadro non isolatamente ma in quanto correlati nell'insieme secondo il peso che assumono in una interazione di sintesi oggetto di un motivato giudizio unitario.
Ne consegue ancora che la suddetta valutazione specifica dei titoli deve essere svolta, ma non con dettaglio tale da instaurare una valutazione comparativa puntuale di ciascun candidato rispetto agli altri per ciascuno dei titoli, poiché si perderebbe, altrimenti, la contestualità sintetica della valutazione globale, risultando perciò necessario e sufficiente che i detti titoli siano stati acquisiti al procedimento e vi risultino considerati nel quadro della detta valutazione
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione di terreno al giudice ordinario. Una sentenza sulla liquidazione dell'indennità spettante.
Spetta al giudice ordinario decidere sulla domanda volta alla liquidazione dell'indennità spettante per il periodo di occupazione legittima del terreno, trovando applicazione l'art. 53, comma 2, del dlgs n. 325 del 2001, come modificato dal dlgs n. 104 del 2010.

Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con sentenza 17.07.2014 n. 1190.
I giudici amministrativi calabresi, in ossequio anche con una consolidata giurisprudenza, hanno osservato che: «ricade pressoché interamente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, lett. f), c.p.a., che devolve a quest'ultimo le controversie, anche risarcitorie, [le questioni] che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a. e che solo per accidenti successivi hanno perso la propria connotazione eminentemente pubblicistica».
Esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell'amministrazione -hanno, poi, sostenuto i giudici del Tar- l'ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un'opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario.
Né la realizzazione dell'opera pubblica rappresenta un impedimento alla possibilità di restituire l'area illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno (si veda C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Pertanto è sempre necessario «un passaggio intermedio, finalizzato all'acquisto della proprietà del bene da parte dell'ente espropriante (cfr. Cons. stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; Tar Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sull'affidamento dell'incarico di "Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione" onnicomprensivo di euro 1.500,00, manifestamente e palesemente incongruo e inadeguato.
L’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 dispone che “L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”. I suddetti principi sono ribaditi anche dal successivo art. 27, il quale stabilisce che anche i c.d. “contratti esclusi” sono affidati “nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”.
A tutela della qualità delle prestazioni, poi, il legislatore nazionale ha posto specifiche norme volte a garantire che il corrispettivo offerto dall’appaltatore nelle gare pubbliche sia proporzionato e sufficiente rispetto all’oggetto dell’appalto. Ci si riferisce agli articoli 86 e seguenti del d.lgs. n. 163/2006 in materia di verifica dell’anomalia delle offerte, la cui finalità “è quella di evitare che offerte troppo basse espongano l'Amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella richiesta, o con modalità esecutive in violazione di norme, con la conseguenza di far sorgere contestazioni e ricorsi. L'appalto deve quindi essere aggiudicato a soggetti che abbiano prestato offerte che, avuto riguardo alle caratteristiche specifiche della prestazione richiesta, risultino complessivamente proporzionate sotto il profilo economico all'insieme dei costi, rischi ed oneri che l'esecuzione della prestazione comporta a carico dell'appaltatore…”.
Ancora, “Il meccanismo previsto per l’eliminazione delle offerte ingiustificatamente anomale dal novero di quelle ammesse ad una gara è teso ad evitare che possa risultare aggiudicataria di una gara una ditta che, per l’esiguità del prezzo offerto, non sia poi in grado di assicurare una prestazione adeguata alle esigenze che l’amministrazione vuole soddisfare con l’appalto indetto”.
La ratio del sub procedimento di verifica dell’anomalia è, pertanto, quella di accertare la serietà, la sostenibilità e la sostanziale affidabilità della proposta contrattuale, in maniera da evitare che l’appalto sia aggiudicato a prezzi eccessivamente bassi, tali da non garantire la qualità e la regolarità dell’esecuzione del contratto oggetto di affidamento.
Se tanto è vero “a valle” delle procedure di aggiudicazione, a maggior ragione, parallelamente, lo stesso principio deve fondare l’attività della Pubblica Amministrazione “a monte” della procedura stessa, e cioè nella fase dell’individuazione dell’importo determinato proprio dalla stazione appaltante quale corrispettivo del servizio da acquisire.
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Nel caso specifico, a fronte della prestazione professionale complessa e specializzata richiesta, l’Istituto scolastico ha previsto un compenso omnicomprensivo di euro 1.500,00, manifestamente e palesemente incongruo e inadeguato.
Tanto è ancora più evidente se si considera che il predetto importo include anche le spese vive da sostenere per l’espletamento dell’incarico (spese di viaggio, assicurazione, materiale di consumo, disponibilità di specifici programmi) e, inoltre, che lo stesso incarico deve essere espletato su due plessi scolastici situati in Comuni diversi (Galatina e Galatone), distanti quasi 20 chilometri uno dall’altro.
Sicché l’importo palesemente esiguo offerto potrebbe indurre il professionista ad una non corretta esecuzione dell’incarico ed essere foriera di probabili futuri contenziosi. Ciò è tanto più grave in relazione alla delicatezza dell’oggetto dell’incarico, che coinvolge la vita e la sicurezza degli operatori scolastici e degli alunni.
Il Collegio osserva, inoltre, che la stazione appaltante non ha motivato in ordine alle modalità seguite nella determinazione del compenso. Al riguardo, non è condivisibile il rilievo opposto dall’Istituto resistente relativo alla mancanza di parametri tabellari professionali minimi inderogabili.
Il Collegio non ignora che l’articolo 9 del decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito con legge 24.03.2012, n. 27, ha disposto, al comma 1, l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. E’ evidente, pertanto, che le stesse non possono essere più indicate nemmeno quale possibile riferimento per l’individuazione del valore della prestazione.
Tuttavia, lo stesso art. 9, al comma 4, pur con specifico riferimento al mercato privato, fornisce indicazioni utili anche per la determinazione dell’importo relativo ai compensi per l’espletamento di incarichi affidati dalle Pubbliche Amministrazioni, stabilendo che, in ogni caso, la misura del compenso “deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi”.
Da tale disposizione si ricava che la determinazione dell’importo dell’affidamento non può essere connotata da arbitrarietà: le stazioni appaltanti non possono, quindi, porre a base di gara un importo senza un minimo di analisi che consenta di comprendere le modalità esatte di determinazione dell’importo e senza motivare il percorso tecnico-logico seguito nella determinazione del valore stesso.
L’interpretazione di cui innanzi risulta, altresì, coerente con quanto prescritto dalla lettera d) del comma 1) dell’articolo 264 del d.P.R. n. 207 del 2010, nella parte in cui dispone che nel bando di gara devono essere indicate le modalità di calcolo del corrispettivo. Difatti, se il riferimento alla possibilità di utilizzo delle tariffe professionali è da ritenersi abrogato, è tuttavia da considerare ancora del tutto vigente l’obbligo di illustrare le predette modalità.
A questi fini le stazioni appaltanti non possono limitarsi ad una generica e sintetica indicazione del compenso, ma devono specificare con accuratezza ed analiticità i singoli elementi che compongono la prestazione, nonché dare conto del percorso motivazionale seguito per la determinazione del suo valore.
Tali principi sono stati espressi anche dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici con la deliberazione n. 49 del 03.05.2012.
Nel caso di specie, al contrario, nel bando di gara non vi è traccia alcuna dei criteri di calcolo specificamente utilizzati dall’Istituto per la quantificazione del corrispettivo.
Fermo restando quanto innanzi esposto, la Sezione osserva, infine, che, in extrema ratio, l’Amministrazione avrebbe potuto motivare l’esiguità del corrispettivo fissato anche ricorrendo a giustificazioni di natura diversa, inerenti, ad esempio, la necessità di conciliare l’esiguità delle risorse di bilancio disponibili con l’adempimento di obblighi di legge (quale, appunto, quello relativo alla prevenzione e protezione), o, ancora, la richiesta di collaborazione e disponibilità ai professionisti eventualmente interessati. Tanto avrebbe, altresì, consentito di evitare quella lesione della “dignità professionale”, in considerazione della quale l’ordine ricorrente si è determinato a respingere la richiesta della Stazione appaltante di pubblicazione sul proprio albo dell’avviso in questione.
Al riguardo, si richiama il condivisibile ed autorevole orientamento giurisprudenziale, secondo il quale è stata riconosciuta la possibilità della prestazione gratuita per l’attività professionale: in tal senso è la sentenza della Cassazione Civile, 17.08.2005, n. 16966, per la quale “Come più volte affermato da questa Corte, poiché l'onerosità costituisce un elemento normale del contratto d'opera intellettuale, ma non essenziale ai fini della sua validità, è consentita al professionista la prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi più vari che possono consistere nell'affectio o nella benevolentia, o in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio”.
... per l'annullamento del bando di gara prot. n. 7367/C12, relativo al conferimento di incarico di "Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione", indetto dal Dirigente Scolastico dell'Istituto Professionale I.I.S.S. "Falcone e Borsellino" di Galatina pubblicato sull'Albo Pretorio on-line dell'Istituto il 24.12.2013, nella parte in cui prevede quale compenso per il professionista aggiudicatario l'importo di euro 1.500,00 omnicomprensivo;
...
E’, invece, fondato ed assorbente il rilievo relativo alla violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e logicità (in uno, degli obblighi motivazionali), nei limiti di seguito indicati.
Il Collegio osserva che l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 dispone che “L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”. I suddetti principi sono ribaditi anche dal successivo art. 27, il quale stabilisce che anche i c.d. “contratti esclusi” sono affidati “nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”.
A tutela della qualità delle prestazioni, poi, il legislatore nazionale ha posto specifiche norme volte a garantire che il corrispettivo offerto dall’appaltatore nelle gare pubbliche sia proporzionato e sufficiente rispetto all’oggetto dell’appalto. Ci si riferisce agli articoli 86 e seguenti del d.lgs. n. 163/2006 in materia di verifica dell’anomalia delle offerte, la cui finalità “è quella di evitare che offerte troppo basse espongano l'Amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella richiesta, o con modalità esecutive in violazione di norme, con la conseguenza di far sorgere contestazioni e ricorsi. L'appalto deve quindi essere aggiudicato a soggetti che abbiano prestato offerte che, avuto riguardo alle caratteristiche specifiche della prestazione richiesta, risultino complessivamente proporzionate sotto il profilo economico all'insieme dei costi, rischi ed oneri che l'esecuzione della prestazione comporta a carico dell'appaltatore…” (ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2063 del 15.04.2013).
Ancora, “Il meccanismo previsto per l’eliminazione delle offerte ingiustificatamente anomale dal novero di quelle ammesse ad una gara è teso ad evitare che possa risultare aggiudicataria di una gara una ditta che, per l’esiguità del prezzo offerto, non sia poi in grado di assicurare una prestazione adeguata alle esigenze che l’amministrazione vuole soddisfare con l’appalto indetto”( TAR Sicilia, Palermo, Sentenza 07/09/2011 n. 1608).
La ratio del sub procedimento di verifica dell’anomalia è, pertanto, quella di accertare la serietà, la sostenibilità e la sostanziale affidabilità della proposta contrattuale, in maniera da evitare che l’appalto sia aggiudicato a prezzi eccessivamente bassi, tali da non garantire la qualità e la regolarità dell’esecuzione del contratto oggetto di affidamento.
Se tanto è vero “a valle” delle procedure di aggiudicazione, a maggior ragione, parallelamente, lo stesso principio deve fondare l’attività della Pubblica Amministrazione “a monte” della procedura stessa, e cioè nella fase dell’individuazione dell’importo determinato proprio dalla stazione appaltante quale corrispettivo del servizio da acquisire.
Nel caso specifico, a fronte della prestazione professionale complessa e specializzata richiesta (si veda l’articolo 2 del bando), l’Istituto scolastico ha previsto un compenso omnicomprensivo (articolo 7 del bando) di euro 1.500,00, manifestamente e palesemente incongruo e inadeguato.
Tanto è ancora più evidente se si considera che il predetto importo include anche le spese vive da sostenere per l’espletamento dell’incarico (spese di viaggio, assicurazione, materiale di consumo, disponibilità di specifici programmi) e, inoltre, che lo stesso incarico deve essere espletato su due plessi scolastici situati in Comuni diversi (Galatina e Galatone), distanti quasi 20 chilometri uno dall’altro.
Sicché l’importo palesemente esiguo offerto potrebbe indurre il professionista ad una non corretta esecuzione dell’incarico ed essere foriera di probabili futuri contenziosi. Ciò è tanto più grave in relazione alla delicatezza dell’oggetto dell’incarico, che coinvolge la vita e la sicurezza degli operatori scolastici e degli alunni.
Il Collegio osserva, inoltre, che la stazione appaltante non ha motivato in ordine alle modalità seguite nella determinazione del compenso. Al riguardo, non è condivisibile il rilievo opposto dall’Istituto resistente relativo alla mancanza di parametri tabellari professionali minimi inderogabili.
Il Collegio non ignora che l’articolo 9 del decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito con legge 24.03.2012, n. 27, ha disposto, al comma 1, l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. E’ evidente, pertanto, che le stesse non possono essere più indicate nemmeno quale possibile riferimento per l’individuazione del valore della prestazione.
Tuttavia, lo stesso art. 9, al comma 4, pur con specifico riferimento al mercato privato, fornisce indicazioni utili anche per la determinazione dell’importo relativo ai compensi per l’espletamento di incarichi affidati dalle Pubbliche Amministrazioni, stabilendo che, in ogni caso, la misura del compenso “deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi”.
Da tale disposizione si ricava che la determinazione dell’importo dell’affidamento non può essere connotata da arbitrarietà: le stazioni appaltanti non possono, quindi, porre a base di gara un importo senza un minimo di analisi che consenta di comprendere le modalità esatte di determinazione dell’importo e senza motivare il percorso tecnico-logico seguito nella determinazione del valore stesso.
L’interpretazione di cui innanzi risulta, altresì, coerente con quanto prescritto dalla lettera d) del comma 1) dell’articolo 264 del d.P.R. n. 207 del 2010, nella parte in cui dispone che nel bando di gara devono essere indicate le modalità di calcolo del corrispettivo. Difatti, se il riferimento alla possibilità di utilizzo delle tariffe professionali è da ritenersi abrogato, è tuttavia da considerare ancora del tutto vigente l’obbligo di illustrare le predette modalità.
A questi fini le stazioni appaltanti non possono limitarsi ad una generica e sintetica indicazione del compenso, ma devono specificare con accuratezza ed analiticità i singoli elementi che compongono la prestazione, nonché dare conto del percorso motivazionale seguito per la determinazione del suo valore.
Tali principi sono stati espressi anche dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici con la deliberazione n. 49 del 03.05.2012.
Nel caso di specie, al contrario, nel bando di gara non vi è traccia alcuna dei criteri di calcolo specificamente utilizzati dall’Istituto per la quantificazione del corrispettivo.
Fermo restando quanto innanzi esposto, la Sezione osserva, infine, che, in extrema ratio, l’Amministrazione avrebbe potuto motivare l’esiguità del corrispettivo fissato anche ricorrendo a giustificazioni di natura diversa, inerenti, ad esempio, la necessità di conciliare l’esiguità delle risorse di bilancio disponibili con l’adempimento di obblighi di legge (quale, appunto, quello relativo alla prevenzione e protezione), o, ancora, la richiesta di collaborazione e disponibilità ai professionisti eventualmente interessati. Tanto avrebbe, altresì, consentito di evitare quella lesione della “dignità professionale”, in considerazione della quale l’ordine ricorrente si è determinato a respingere la richiesta della Stazione appaltante di pubblicazione sul proprio albo dell’avviso in questione.
Al riguardo, si richiama il condivisibile ed autorevole orientamento giurisprudenziale, secondo il quale è stata riconosciuta la possibilità della prestazione gratuita per l’attività professionale: in tal senso è la sentenza della Cassazione Civile, 17.08.2005, n. 16966, per la quale “Come più volte affermato da questa Corte (v. Cass. 7741/1999; Cass. 8787/2000), poiché l'onerosità costituisce un elemento normale del contratto d'opera intellettuale, ma non essenziale ai fini della sua validità, è consentita al professionista la prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi più vari che possono consistere nell'affectio o nella benevolentia, o in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio”.
Tuttavia, neanche in tal senso l’Istituto Scolastico ha motivato nel bando di che trattasi.
Pertanto, il ricorso è fondato e deve essere accolto per difetto di motivazione dell’atto impugnato (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.07.2014 n. 1844 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel processo amministrativo le dichiarazioni sostitutive di notorietà non hanno alcun valore sul piano probatorio; esse costituiscono al più semplici indizi, comunque inidonei a smentire i risultati dell'attività istruttoria compiuta dall'Amministrazione in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti.
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L'ordine di demolizione dell'abuso edilizio è atto vincolato alla constatata abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
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L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive e i successivi provvedimenti connessi e/o conseguenti non devono essere preceduti dall'avviso di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atti dovuti, che vengono emessi quale sanzione, rispettivamente per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche e per l'inottemperanza all'ingiunzione di rimessione in prestino, secondo un procedimento di natura vincolata, disciplinato rigidamente dalla legge.
Si aggiunga che l'omessa comunicazione di avvio del procedimento non inficia la legittimità del provvedimento anche alla luce di quanto stabilito dall'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 1990.
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L'ordinanza di demolizione è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente istruttoria e motivazione allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati e l'individuazione della violazione commessa (realizzazione di manufatti in assenza del prescritto permesso di costruire).

Con ricorso notificato il 14.12.2013 e ritualmente depositato il successivo 10.01.2014, il Sig. Luigi Di Marino impugna gli atti di cui in epigrafe, con i quali il Comune di Cava de’ Tirreni ha ordinato la sospensione e demolizione di opere edilizie ritenute abusive, consistenti in: “1) struttura in muratura di mt. 3,30 x 4,30 per una altezza di mt. 2,30 con copertura a solaio piano in c.a.;
2) struttura in muratura di mt. 2,30 x 5,70 con copertura inclinata costituita da struttura precaria mista in legno e pannelli di lamiera, con altezza parte alta mt. 2,60 e parte bassa mt. 2,20;
3) struttura in muratura di mt. 4,60 x 4,70. Detti corpi di fabbrica sono coperti da una tettoia con struttura portante in ferro e lamiera in ferro…inoltre si riscontra una tettoia…un varco d’accesso…una struttura in c.a. adibita a deposito….Inoltre al di sotto della rampa di accesso sono stati creati tre locali…
”.
...
Il ricorso è infondato e, in relazione alle articolate censure, per le seguenti ragioni:
1) parte ricorrente non ha adeguatamente comprovato l’epoca di realizzazione delle opere contestate e, comunque, dalla documentazione istruttoria versata in atti a cura del Comune resistente (relazione prot. n. 13959 del 07.02.2014) risulta verosimilmente che le stesse sono successive alla predetta data; parte ricorrente produce dichiarazione sostituiva rilasciata dallo stesso ricorrente in ordine all’epoca di realizzazione delle opere contestate, ma l’atto è privo dell’auspicato rilievo probatorio, in quanto “Nel processo amministrativo le dichiarazioni sostitutive di notorietà non hanno alcun valore sul piano probatorio; esse costituiscono al più semplici indizi, comunque inidonei a smentire i risultati dell'attività istruttoria compiuta dall'Amministrazione in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti” (cfr. TAR Brescia–Lombardia - sez. I 28.04.2014 n. 452); in ordine al preteso difetto motivazionale, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento, di recente confermato dal Supremo Consesso di G.A., secondo cui “L'ordine di demolizione dell'abuso edilizio è atto vincolato alla constatata abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr. Consiglio di Stato sez. V 30.06.2014 n. 3281);
2) in ordine alla lamentata pretermissione del diaframma dialogico ex art. 7 l. n. 241/1990, il Collegio ritiene all’orientamento, di recente ribadito in giurisprudenza, secondo cui “L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive e i successivi provvedimenti connessi e/o conseguenti non devono essere preceduti dall'avviso di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atti dovuti, che vengono emessi quale sanzione, rispettivamente per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche e per l'inottemperanza all'ingiunzione di rimessione in prestino, secondo un procedimento di natura vincolata, disciplinato rigidamente dalla legge. Si aggiunga che l'omessa comunicazione di avvio del procedimento non inficia la legittimità del provvedimento anche alla luce di quanto stabilito dall'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 1990” (cfr. TAR Napoli-Campania - sez. VIII 26.03.2014 n. 1780);
3) l’invocata norma di cui all’art. 27 T.U.E. non preclude all’Amministrazione di disporre contestualmente la sospensione e demolizione delle opere;
4) l'ordinanza di demolizione è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente istruttoria e motivazione allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati e l'individuazione della violazione commessa (realizzazione di manufatti in assenza del prescritto permesso di costruire) (cfr. TAR Napoli (Campania) sez. VIII 10.10.2012 n. 4052);
5) le opere edilizie contestate, per la loro natura e consistenza, sono senz’altro riconducibili al regime del permesso di costruire e pertanto sono assoggettati a sanzione demolitoria;
6) trova quindi applicazione, contrariamente a quanto si assume in ricorso, l’art. 31 T.U.E., appunto rubricato “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire…”;
7) la sanzione demolitoria va doverosamente applicata non richiedendosi il previo accertamento della sua conformità o meno alla vigente disciplina urbanistica (TAR Napoli–Campania - sez. VI 05.03.2012 n. 1111);
8) il provvedimento demolitorio impugnato è adeguatamente giustificato dall’abusività delle opere accertate, di guisa che il richiamo all’art. 167 del d.lgs. 42/2004, anche se, a tutto concedere ai rilievi di parte, risultasse ultroneo ed ingiustificato, non è in grado di inficiare la sua legittimità;
9) la censura relativa alla pretesa incompetenza del Comune all’adozione dell’ordine di sospensione dei lavori a norma degli artt. 96 e 97 T.U.E. non è a sua volta tale da inficiare la legittimità dell’atto impugnato, in quanto la qualificazione del potere esercitato non può prescindere dall’art. 27 T.U.E., a sua volta espressamente richiamato in seno all’atto impugnato, che attribuisce agli uffici comunali il potere di ordinare l’immediata sospensione dei lavori;
10) inammissibile per difetto di interesse è, infine, la censura relativa al difetto di legittimazione passiva in capo alla sig.ra Maria Bruno, siccome soggetto estraneo al presente giudizio.
Tanto premesso, il ricorso è da respingere siccome del tutto infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 16.07.2014 n. 1381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La violazione dell'art. 10-bis della l. 07.08.1990 n. 241 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendosi interpretare la disposizione sul c.d. preavviso di diniego alla luce del successivo art. 21-octies della medesima legge, in base alla quale, laddove sia dedotto un vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati.
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L'art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l'aumento di superfici utili o di volumi” e, d’altro canto, “non sussiste alcun obbligo in capo all'amministrazione di imporre prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile con l'area tutelata, in quanto tale finalità non rientra nei compiti d'istituto, dovendo l'amministrazione limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già per suggerire attività ulteriori volte a legalizzare comportamenti contra legem.
L’intervento, al fine di verificarne la compatibilità con il paesaggio va inteso unitariamente e comunque ogni valutazione tecnico-discrezionale è interdetta dalla preclusiva formulazione della norma testé esaminata, con conseguente superfluità del contributo dialogico che il ricorrente avrebbe potuto rendere in caso di comunicazione di preavviso di diniego; per le medesime ragioni non ha alcuna attitudine patologica quanto dedotto dal ricorrente a proposito del novero dei vincoli realmente insistenti sull’area.
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Parte ricorrente lamenta, al riguardo, la violazione dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, per la mancata comunicazione dell’ordine di ripristino alla Soprintendenza, ma in senso contrario va osservato che “In applicazione dell'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, in presenza di esecuzione di opere senza titolo su aree assoggettate a vincoli paesaggistici, l'adozione delle misure repressive demanda direttamente ed immediatamente al dirigente o al responsabile”.
invero, “L'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, nel prevedere la competenza sia del Comune sia della Soprintendenza in ordine alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, non priva certo il primo della funzione di controllo urbanistico-edilizio che gli appartiene”.
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L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Infatti, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia.
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria della demolizione.

Fatta questa necessaria premessa e, transitando al merito delle articolate censure, se ne ravvisa l’infondatezza per i seguenti motivi:
- la deprecata convergenza, nel contesto di un unico atto, della duplice determinazione reiettiva -riferita, rispettivamente, alle domande di condono e dell’accertamento di conformità- non assume l’auspicato rilievo patologico, riguardando il medesimo immobile; né da ciò deriva la pur lamentata perplessità del provvedimento in ordine al potere in concreto esercitato, potendosi agevolmente ricavare, dalle diffuse ed articolate ragioni poste a base dell’interposto diniego, i profili ritenuti aventi carattere ostativo al rilascio dei sospirati provvedimenti;
- la lamentata pretermissione del momento dialogico scolpito dall’art. 10-bis della l. n. 47/1985 non è in grado di inficiare gli atti impugnati, in quanto, per le ragioni che si esporranno, il ricorrente non ha fornito dimostrazione dell’utilità del contributo istruttorio che avesse ricevuto il preavviso di diniego; ritenuto infatti di aderire all’orientamento giurisprudenziale, affermato anche di recente (TAR Napoli–Campania - sez. VII 07.01.2014 n. 1), secondo cui “la violazione dell'art. 10-bis della l. 07.08.1990 n. 241 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendosi interpretare la disposizione sul c.d. preavviso di diniego alla luce del successivo art. 21-octies della medesima legge, in base alla quale, laddove sia dedotto un vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati”; va altresì osservato che il ricorrente ha comunque avuto modo di interloquire con l’Amministrazione nel corso del lungo ed articolato sviluppo procedimentale, come detto, contrassegnato da ripetuti accessi e sopralluoghi, tanto da ricevere comunicazione di “avvio del procedimento emesso ai sensi dell’art. 7 della legge 241/1990 prot. 14816 del 18.11.2010 regolarmente ricevuta in data 24.11.2010, avente all’oggetto tra l’altro la richiesta di integrazione alla succitata domanda di condono edilizio” (cfr. atto impugnato, pag. 2); a tal riguardo, il ricorrente contesta la mancata comunicazione di tale richiesta a tutti gli eredi dell’istante deceduto, ed in particolare alla sig.ra Buonocore Lucia (madre del ricorrente e abitante il primo piano del fabbricato) ma la censura, riflettendo un interesse partecipativo ascrivibile non al ricorrente ma a soggetto estraneo al presente giudizio, è da ritenere inammissibile;
- parte ricorrente fonda le proprie doglianze sull’assunto che le opere abusive sarebbero state realizzate nel 1980, quindi prima dell’entrata in vigore del P.U.T., con la conseguenza che non troverebbe applicazione il vincolo di inedificabilità assoluta (conseguente alla collocazione del fabbricato in zona territoriale 1A del P.U.T.) ritenuto dall’Amministrazione ostativo all’accoglimento delle istanze; ebbene, tale circostanza non è stata in alcun modo documentata dal ricorrente nel corso del giudizio e non trova comunque riscontro negli atti di causa, in quanto, come evidenziato in seno all’atto impugnato, la pratica relativa alla domanda di condono presentata dal sig. Casola Alfonso “risulta priva di documentazioni grafiche/fotografiche atte alla individuazione certe delle opere abusive per cui si richiede la sanatoria”; va soggiunto che, come agevolmente si ricava dalla successione temporale dei sopralluoghi espletati dagli organi accertatori, le opere abusive sono abbondantemente proseguite, sia al piano primo che al piano secondo, successivamente al sopralluogo del 24.02.2006;
- parte ricorrente contesta la legittimità del diniego di accertamento di conformità urbanistica e di compatibilità paesaggistica avendo trascurato che il ricorrente aveva manifestato la disponibilità a demolire le opere non sanabili perché tali da determinare un incremento di volume e di superficie (ripristino cisterna e scannafosso), chiedendo quindi la sanatoria solo delle restanti opere abusive prive di rilevanza in termini plano volumetrici, ma la censura non convince; premesso che il diniego si fonda sul rilevato contrasto con il vincolo di inedificabilità insistente sull’area e sulla stessa formulazione dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004 –laddove esclude la compatibilità paesaggistica, tra l’altro, “per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”– occorre osservare che, come di recente ribadito dal Supremo Consesso di G.A. (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 20.06.2013 n. 3373) “L'art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l'aumento di superfici utili o di volumi” e, d’altro canto, “non sussiste alcun obbligo in capo all'amministrazione di imporre prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile con l'area tutelata, in quanto tale finalità non rientra nei compiti d'istituto, dovendo l'amministrazione limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già per suggerire attività ulteriori volte a legalizzare comportamenti contra legem” (cfr. TAR Firenze–Toscana - sez. III 16.10.2012 n. 1623);
- l’intervento, al fine di verificarne la compatibilità con il paesaggio va inteso unitariamente e comunque ogni valutazione tecnico-discrezionale è interdetta dalla preclusiva formulazione della norma testé esaminata, con conseguente superfluità del contributo dialogico che il ricorrente avrebbe potuto rendere in caso di comunicazione di preavviso di diniego; per le medesime ragioni non ha alcuna attitudine patologica quanto dedotto dal ricorrente a proposito del novero dei vincoli realmente insistenti sull’area;
- anche l’ordine di demolizione impugnato risulta immune dalle articolate censure, venendo in considerazione un intervento che assume piena rilevanza planovolumetrica avendo determinato la complessiva trasformazione dell’immobile rispetto alla sua originaria consistenza di vetusto fabbricato rurale; la conseguente riconducibilità dell’intervento, nella sua complessiva consistenza, al regime del permesso di costruire (invece che della d.i.a., come divisato in ricorso) lo rende meritevole di essere assoggettato alla irrogata sanzione demolitoria;
- parte ricorrente lamenta, al riguardo, la violazione dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, per la mancata comunicazione dell’ordine di ripristino alla Soprintendenza, ma in senso contrario va osservato che “In applicazione dell'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, in presenza di esecuzione di opere senza titolo su aree assoggettate a vincoli paesaggistici, l'adozione delle misure repressive demanda direttamente ed immediatamente al dirigente o al responsabile” (TAR Napoli–Campania - sez. VI 23.10.2013 n. 4679); invero, “L'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, nel prevedere la competenza sia del Comune sia della Soprintendenza in ordine alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, non priva certo il primo della funzione di controllo urbanistico-edilizio che gli appartiene” (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 18.04.2013 n. 2150);
- parte ricorrente lamenta, infine, il difetto di motivazione, ma in senso contrario va rilevato che “L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Infatti, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia; l'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria della demolizione” (cfr. TAR Napoli (Campania) sez. VI 20.03.2014 n. 1616).
Tanto premesso, il ricorso va respinto siccome del tutto infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 16.07.2014 n. 1380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo costante orientamento giurisprudenziale, confermato di recente dal Supremo Consesso di G.A., “Il decorso dei termini fissati dall'art. 35, comma 18, l. 28.02.1985, n. 47 per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute presuppone la completezza della domanda di sanatoria”.
Anche questa Sezione ha osservato che per la formazione del silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione dovuta e degli oneri di concessione, che dell'avvenuto deposito di tutta la documentazione prevista per l'istanza di condono, affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale; di conseguenza il decorso dei termini per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio presuppone necessariamente la completezza della domanda di sanatoria, sicché il titolo abilitativo tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa.
La formazione tacita del provvedimento favorevole è quindi preclusa laddove, come nel caso di specie, sia stata richiesta integrazione dei documenti allegati all’istanza di condono.
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Tenuto conto della specialità del procedimento di condono rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché dell'assenza di una specifica previsione in ordine alla necessità del parere della Commissione Edilizia Integrata, l'acquisizione di tale parere, ai fini del rilascio della concessione edilizia in sanatoria, non è obbligatoria, bensì meramente facoltativa.
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L’orientamento della giurisprudenza consolidata, una volta riconosciuto che nel provvedimento amministrativo la motivazione per relationem corrisponde ad una tecnica motivazionale pienamente ammessa dall’art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, specie allorquando il provvedimento sia preceduto da atti istruttori o da pareri, reputa sufficiente che “l'interessato sia messo in grado di prenderne visione” e, quindi, che gli atti dell'istruttoria a cui si fa rinvio siano indicati e resi disponibili.
La giurisprudenza amministrativa formatasi al riguardo è infatti costante nell'affermare che tale norma è rispettata mediante l'indicazione degli estremi e la messa a disposizione dell'interessato degli atti endoprocedimentali o comunque che dal tenore motivazionale del provvedimento emerga che l'autorità decidente si è basata su di essi.

Occorre premettere alle articolate censure che il provvedimento di diniego impugnato presenta la seguente testuale motivazione: “la richiesta prot. 34208 del 17/12/1998, notificata in data 08/01/1999 allo stesso G.G., con la quale l’Ente assegnava al richiedente la sanatoria il termine di 90 giorni per integrare l’istanza con la documentazione necessaria per l’istruttoria della stessa, con l’avvertenza che qualora non si fosse ottemperato a quanto richiesto si sarebbe proceduto ad esprime PARERE SFAVOREVOLE al rilascio della concessione edilizia in sanatoria ai sensi e per gli effetti dell’art. 49, comma 7, della legge 449/1997; ACCERTATO che al 08/04/1999, termine ultimo per la presentazione della documentazione minima richiesta per legge, l’interessato non aveva ottemperato a quanto richiesto con la nota sopra menzionata…”.
Ebbene, parte ricorrente, dopo aver evidenziato, in punto di fatto, di avere provveduto “all’obbligo di presentazione di tutta la documentazione necessaria per l’esame della domanda di condono” (cfr. pag 1 del ricorso), contesta, con i primi due motivi di censura, meritevoli per il loro tenore di trattazione congiunta, che si sarebbe formato il silenzio assenso ex art. 35 della l. n. 47/1985 e che pertanto occorreva l’attivazione del contraddittorio nelle forme dell’art. 7 della legge n. 241/1990 prima di provvedere negativamente sull’istanza di condono.
Il rilievo non persuade il Collegio, avuto riguardo alla stessa documentazione versata in atti, in quanto dalla domanda di condono prot. n. 10787 del 30.04.1986, presentata dal sig. G.G., risulta che alla stessa, come espressamente riportato in calce, è stata allegata la sola “attestazione oblazione versata 1/3”. Ciò non può reputarsi sufficiente ai fini della formazione del titolo per silentium, come preteso in ricorso.
Infatti, secondo costante orientamento giurisprudenziale, confermato di recente dal Supremo Consesso di G.A., “Il decorso dei termini fissati dall'art. 35, comma 18, l. 28.02.1985, n. 47 per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute presuppone la completezza della domanda di sanatoria” (cfr. Consiglio di Stato sez. V 17.06.2014 n. 3076).
Anche questa Sezione (sentenza n. 2354 del 27/11/2013) ha osservato che per la formazione del silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione dovuta e degli oneri di concessione, che dell'avvenuto deposito di tutta la documentazione prevista per l'istanza di condono, affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale; di conseguenza il decorso dei termini per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio presuppone necessariamente la completezza della domanda di sanatoria, sicché il titolo abilitativo tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa.
La formazione tacita del provvedimento favorevole è quindi preclusa laddove, come nel caso di specie, sia stata richiesta integrazione dei documenti allegati all’istanza di condono.
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Nemmeno coglie nel segno il rilievo col quale si lamenta la mancanza del parere della Commissione Edilizia, atteso che questa Sezione Distaccata (sez. I 15.01.2014 n. 137) si è già espressa, di recente, nel senso che “Tenuto conto della specialità del procedimento di condono rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché dell'assenza di una specifica previsione in ordine alla necessità del parere della Commissione Edilizia Integrata, l'acquisizione di tale parere, ai fini del rilascio della concessione edilizia in sanatoria, non è obbligatoria, bensì meramente facoltativa”.
Peraltro di tale contributo consultivo non si appalesa la necessità, stante la mancata integrazione della documentazione richiesta dalla normativa in materia, che preclude l’accoglimento della domanda senza la necessità di espletare valutazione di carattere tecnico-discrezionale di pertinenza dell’organo consultivo che sarebbe stato indebitamente pretermesso. Il motivo è quindi da respingere.
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Col quarto ed ultimo motivo di gravame, parte ricorrente lamenta il difetto di motivazione, denunciando -da un lato- la inidoneità della mancata integrazione documentale a suffragare il diniego, dall’altro, la mancata trasmissione al ricorrente della relazione istruttoria del tecnico responsabile del procedimento.
In senso contrario va in primo luogo osservato che, come è dato agevolmente evincere dal tratto testuale del provvedimento, l’Amministrazione ha dato ampia contezza delle ragioni poste a base del diniego, esattamente connesse all’inottemperanza alla notificata richiesta di integrazione documentale.
Ne consegue l’infondatezza già del primo profilo di censura, non avendo l’Amministrazione denegato la domanda di condono senza dare la possibilità all’istante di integrare la documentazione presentata, avendolo stimolato con apposita richiesta rimasta inevasa.
Con il secondo profilo di censura, parte ricorrente richiama i principi espressi in giurisprudenza in materia di motivazione per relationem, assumendo che in sede pretoria sarebbe richiesta la comunicazione, a cura della stessa Amministrazione procedente, al destinatario del provvedimento conclusivo, dell’atto esterno recepito in sede decisoria.
In senso contrario è sufficiente osservare che l’orientamento della giurisprudenza consolidata, una volta riconosciuto che nel provvedimento amministrativo la motivazione per relationem corrisponde ad una tecnica motivazionale pienamente ammessa dall’art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, specie allorquando il provvedimento sia preceduto da atti istruttori o da pareri, reputa sufficiente che “l'interessato sia messo in grado di prenderne visione” (Consiglio di Stato sez. V 24.03.2014 n. 1420) e quindi che gli atti dell'istruttoria a cui si fa rinvio siano indicati e resi disponibili.
La giurisprudenza amministrativa formatasi al riguardo è infatti costante nell'affermare che tale norma è rispettata mediante l'indicazione degli estremi e la messa a disposizione dell'interessato degli atti endoprocedimentali o comunque che dal tenore motivazionale del provvedimento emerga che l'autorità decidente si è basata su di essi (C. Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6169, 22.03.2013, n. 1632, 03.08.2010, n. 5150; Sez. VI, 17.01.2014, n. 227, 15.10.2013, n. 5008, 04.10.2013, n. 4896, 20.09.2012, n. 4984, 24.02.2011, n. 1156).
Nel caso di specie, non solo l’Amministrazione ha esattamente riportato gli estremi (“in data 10/08/01 prot. gen. n. 22665”) della relazione istruttoria alla quale ha fatto rinvio, ma ha comunque esplicitato, nel quadro motivazionale posto a corredo dell’atto, le ragioni poste a base del diniego
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 16.07.2014 n. 1378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In esito alle innovazioni apportate dall’art. 5, comma 2, lett. a), n. 3, del d.l. n. 70/2011, conv. in l. n. 106/2011, il legislatore, in omaggio alla regola generale di semplificazione amministrativa codificata nell’art. 20 della l. n. 241/1990, ha, dunque, espressamente esteso al procedimento di rilascio del permesso di costruire il regime del silenzio-assenso, fatte salve le deroghe previste in ipotesi di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Di conseguenza, una volta decorso inutilmente il termine per la definizione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la conclusione dell’istruttoria + 30 o, in caso di preavviso di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), salvo sospensione per modifiche al progetto ovvero interruzione per integrazioni documentali, senza che il dirigente o il responsabile dell'ufficio abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire deve intendersi formato il titolo abilitativo tacito.
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Il titolo abilitativo tacito ex art. 20, comma 8, del d.p.r. n. 380/2001 non può essere considerato tamquam non esset dall'amministrazione, che per rimuoverne gli effetti dovrà esperire il procedimento di autotutela.
A tale ultimo riguardo, occorre precisare che, se, da un lato, il perfezionarsi del silenzio-assenso non priva, di per sé, l’amministrazione del potere di negare il provvedimento ampliativo derivante ex lege dall’oggettiva integrazione dello schema semplificatorio, tale potere deve essere, d’altro lato, indeclinabilmente esercitato mediante il ricorso agli ordinari strumenti dell’autotutela, ossia nell’osservanza dei presidi sostanziali e procedimentali ex artt. 21-quinquies o 21-nonies della l. n. 241/1990, così come espressamente previsto dal precedente art. 20, comma 3 (“nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinques e 21-nonies”).
In particolare, tra gli evocati presidi sostanziali e procedimentali non può non annoverarsi la comunicazione di avvio ex art. 7 della l. n. 241/1990, la quale deve indefettibilmente precedere l’intervento in autotutela sul titolo abilitativo tacito, e la motivazione in ordine all’interesse pubblico, specifico e concreto, giustificativo del ricorso all’autotutela, ed alla sua prevalenza rispetto a quello antagonista del privato.
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In perfetta simmetria con quanto prima affermato, anche in riferimento al c.d. “silenzio-assenso”, l’attività giurisprudenziale interpretativa in chiave perimetrativa si è strutturata su più versanti. Avuto riguardo alle qualità intrinseche che la istanza deve possedere affinché possa validamente formarsi un silenzio-assenso giuridicamente rilevante e produttivo di effetti ampliativi, si è posto in luce che “una fattispecie di tacito accoglimento può aver luogo in presenza di istanze assistite da requisiti minimali (afferenti alla legittimazione del richiedente, alla corretta individuazione dell'oggetto del provvedere, alla competenza dell'ente chiamato a pronunciarsi, ecc.), tali da poter ricondurre al dato obiettivo della loro presentazione, unitamente al decorso del termine assegnato per provvedere, l'accoglimento per silentium.
Da tale principio si è fatta discendere la conseguenza che “non può formarsi il silenzio-assenso sull'istanza di concessione edilizia quando non è accompagnata ab initio da tutti i requisiti previsti dalla legge (in primis la perizia giurata di un tecnico qualificato), necessari perché il silenzio possa essere equiparato a rilascio della concessione edilizia” e che, comunque, “il privato deve chiarire sin da subito quale sia il provvedimento favorevole cui aspira non potendosi invocare la formazione di un provvedimento tacito di accoglimento laddove si presentino all'amministrazione istanze articolate in più sottorichieste comportanti termini e procedimenti diversi. Una diversa interpretazione condurrebbe all'inevitabile conseguenza della completa incertezza, per l'Amministrazione così come per il privato, sul valore da attribuire al comportamento inerte dell'Amministrazione e sul provvedimento tacito che si è formato”.
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La formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio-assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo l'inutile decorso del tempo dalla presentazione dell'istanza senza che sia intervenuta risposta dall'Amministrazione, ma la ricorrenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l'avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui l'interessato abbia rappresentato una situazione di fatto difforme da quella reale.
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Il diniego esplicito, sopravvenuto alla formazione del silenzio-assenso, non può considerarsi atto inesistente, ma atto che si sostituisce all'assenso tacito, quale ulteriore rinnovata espressione del potere di cui l'amministrazione era e rimane titolare, quanto meno in via di autotutela; il diniego, quindi, può, se mai, ritenersi illegittimo -in quanto non conforme all'esercizio del potere di autotutela-, ma non nullo (facendone peraltro discendere –in un quadro legislativo precedente all’art. 5-bis dell’art. 20 della legge n. 241 del 1990 introdotto dall'articolo 2, comma 1-sexies, del D.L. 05.08.2010, n. 125- la conseguenza che il diniego stesso e gli atti che ne costituiscono esecuzione debbono essere sindacati non dall'A.g.o., ma dal giudice amministrativo, in quanto oggetto del contendere è un asserito non corretto uso dei poteri amministrativi).
A fronte di un silenzio-assenso legittimamente formatosi, si sosteneva –da parte di una qualificata corrente dottrinaria e giurisprudenziale- che sarebbe potuto pur sempre intervenire un provvedimento a contenuto negativo; quest’ultimo, se reso con le forme procedimentali proprie degli atti “di secondo grado”, rientranti nell’alveo dei provvedimenti di autotutela, doveva essere tempestivamente impugnato: altrimenti si sarebbe consolidato, con effetto annullatorio dell’“assenso-silenzioso”.
La giurisprudenza più recente ha, però, espresso non poche critiche verso questo modo di provvedere delle Amministrazioni, affermando che sarebbe illegittimo l'atto di diniego successivamente emesso, considerato che il potere di provvedere sulla domanda si è consumato e residua solo eventualmente in capo all'ente pubblico la potestà di autotutela, da attuarsi con provvedimento di annullamento e in presenza dei relativi presupposti, tra cui l'indicazione dei profili di illegittimità.
L’elaborazione pretoria ha trovato conferma in un successivo intervento legislativo: l'art. 20, terzo comma, L. n. 241 del 1990 (legge sul procedimento amministrativo), nel testo modificato dalla L. n. 80 del 2005, dispone che, nei casi in cui il silenzio equivale ad accoglimento della domanda, l'Amministrazione competente può soltanto assumere determinazioni in via di autotutela, secondo le previsioni dei successivi artt. 21-quinquies e 21-nonies, L. n. 241 del 1990.
L’amministrazione non può, quindi, limitarsi a provvedere tardivamente sull’istanza, ma deve avviare un vero e proprio procedimento di secondo grado finalizzato alla rimozione dell’atto (che si assume illegittimo) formatosi per silentium.
In senso parzialmente contrario, altra corrente “sostanzialistica” della giurisprudenza di primo grado ha sostenuto che non sarebbe precluso alla p.a. di determinarsi in contrario con un provvedimento esplicito, ma, trattandosi di un atto implicito di autotutela, essa dovrebbe comunicare all'interessato l'avvio del relativo procedimento, pena l'illegittimità dell'atto.
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Nell’ipotesi di silenzio-assenso, viceversa, si è ritenuto che “l'inerente potere di autotutela assorba in sé anche profili valutativi che normalmente ineriscono all'esercizio della funzione amministrativa di primo grado, ma che l'Amministrazione non è stata a suo tempo in grado di esercitare.
La funzione sollecitatoria a cui si ispira l'istituto del silenzio-assenso non può, infatti, a pena di insanabile contrasto della relativa disciplina legislativa con la sovraordinata fonte costituzionale (art. 97 cost.), pregiudicare la possibilità di un pieno e ponderato esercizio dell'attività di valutazione e comparazione dei diversi interessi pubblici e privati coinvolti dall'esercizio della funzione amministrativa.
Pertanto, in sede di annullamento d'ufficio di un silenzio assenso, deve essere restituito integro il potere-dovere di compiere, per la prima volta, quelle valutazioni che a suo tempo l'Amministrazione avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell'esercizio della funzione istituzionale di primo grado ad essa spettante.
Correlativamente, è stato reputato legittimo il provvedimento di annullamento d'ufficio del silenzio assenso, ove l'Amministrazione, pur senza enucleare specifici profili di illegittimità dell'atto da annullare e specifiche, distinte, ragioni di interesse pubblico giustificanti l'annullamento medesimo, abbia svolto una completa ed approfondita disamina dell'assetto di interessi scaturente dal provvedimento tacito, in rapporto a quello inerente alla funzione tipica cui è preordinata l'attività amministrativa di primo grado, pervenendo, ove ne abbia riscontrato la dissonanza, alla rimozione dell'assetto ritenuto "contra legem" ed al ripristino di quello risultante conforme all'interesse pubblico da perseguire -l'interesse pubblico sotteso al legittimo esercizio del potere di autotutela può rinvenirsi anche nella necessità di ripristinare l'equilibrio delle posizioni private coinvolte, che non costituisce un aspetto di disciplina dei rapporti intersoggettivi di natura privata, ma costituisce l'essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che devono ricevere adeguata tutela nell'ordinamento, rimanendo escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni-".

In esito alle innovazioni apportate dall’art. 5, comma 2, lett. a), n. 3, del d.l. n. 70/2011, conv. in l. n. 106/2011, il legislatore, in omaggio alla regola generale di semplificazione amministrativa codificata nell’art. 20 della l. n. 241/1990, ha, dunque, espressamente esteso al procedimento di rilascio del permesso di costruire il regime del silenzio-assenso, fatte salve le deroghe previste in ipotesi di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Di conseguenza, una volta decorso inutilmente il termine per la definizione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la conclusione dell’istruttoria + 30 o, in caso di preavviso di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), salvo sospensione per modifiche al progetto ovvero interruzione per integrazioni documentali, senza che il dirigente o il responsabile dell'ufficio abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire deve intendersi formato il titolo abilitativo tacito (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. III, 18.09.2012, n. 1677; TAR Lazio, Latina, 25.02.2013, n. 192).
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Alla stregua delle osservazioni svolte, deve, pertanto, ritenersi che –come fondatamente denunciato da parte ricorrente– illegittimamente il Comune di Salerno, nell’adozione del provvedimento sfavorevole alla richiesta della parte non ha tenuto conto del silenzio-assenso medio tempore intervenuto.
Ed invero, il titolo abilitativo tacito ex art. 20, comma 8, del d.p.r. n. 380/2001 non può essere considerato tamquam non esset dall'amministrazione, che per rimuoverne gli effetti dovrà esperire il procedimento di autotutela (cfr. TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.04.2013, n. 704; TAR Abruzzo, Pescara, 15.11.2013, n. 555).
A tale ultimo riguardo, occorre precisare che, se, da un lato, il perfezionarsi del silenzio-assenso non priva, di per sé, l’amministrazione del potere di negare il provvedimento ampliativo derivante ex lege dall’oggettiva integrazione dello schema semplificatorio, tale potere deve essere, d’altro lato, indeclinabilmente esercitato mediante il ricorso agli ordinari strumenti dell’autotutela, ossia nell’osservanza dei presidi sostanziali e procedimentali ex artt. 21-quinquies o 21-nonies della l. n. 241/1990, così come espressamente previsto dal precedente art. 20, comma 3 (“nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinques e 21-nonies”).
In particolare, tra gli evocati presidi sostanziali e procedimentali non può non annoverarsi la comunicazione di avvio ex art. 7 della l. n. 241/1990, la quale deve indefettibilmente precedere l’intervento in autotutela sul titolo abilitativo tacito, e la motivazione in ordine all’interesse pubblico, specifico e concreto, giustificativo del ricorso all’autotutela, ed alla sua prevalenza rispetto a quello antagonista del privato.
Orbene, nella specie, non si ravvisa l’adozione di presidi, avendo l’amministrazione direttamente rigettato la domanda di permesso di costruire del 18.12.2012, senza curarsi dell’avvenuta formazione del silenzio assenso.
Invero, l’amministrazione comunale, nella propria memoria, mostra di non condividere la surriportata ricostruzione giurisprudenziale, appellandosi ad una pronuncia del Tar Lazio, Roma, Sez. I n. 8155 del 06.09.2013, a mente delle cui conclusioni in ipotesi come quelle esaminate, la mancata adozione del provvedimento entro i termini stabiliti non costituisce silenzio assenso, bensì silenzio-rifiuto ”che va inteso come mero inadempimento che è pertanto ovviabile quando il provvedimento espresso intervenga in un momento successivo ancorché in ritardo”.
Il Collegio non condivide le rassegnate difese, condividendo, al contrario, quel percorso giurisprudenziale maggioritario sinteticamente espresso, ex multis, da Cons. St. n. 1767/2014 che di seguito si riporta: “In perfetta simmetria con quanto prima affermato, anche in riferimento al c.d. “silenzio-assenso”, l’attività giurisprudenziale interpretativa in chiave perimetrativa si è strutturata su più versanti. Avuto riguardo alle qualità intrinseche che la istanza deve possedere affinché possa validamente formarsi un silenzio-assenso giuridicamente rilevante e produttivo di effetti ampliativi, si è posto in luce che “una fattispecie di tacito accoglimento può aver luogo in presenza di istanze assistite da requisiti minimali (afferenti alla legittimazione del richiedente, alla corretta individuazione dell'oggetto del provvedere, alla competenza dell'ente chiamato a pronunciarsi, ecc.), tali da poter ricondurre al dato obiettivo della loro presentazione, unitamente al decorso del termine assegnato per provvedere, l'accoglimento per silentium” (Consiglio di Stato, Sezione VI, 21.09.2010 n. 7012).
Da tale principio si è fatta discendere la conseguenza che “non può formarsi il silenzio-assenso sull'istanza di concessione edilizia quando non è accompagnata ab initio da tutti i requisiti previsti dalla legge (in primis la perizia giurata di un tecnico qualificato), necessari perché il silenzio possa essere equiparato a rilascio della concessione edilizia” (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 05.10.2010 n. 1239), e che, comunque, “il privato deve chiarire sin da subito quale sia il provvedimento favorevole cui aspira non potendosi invocare la formazione di un provvedimento tacito di accoglimento laddove si presentino all'amministrazione istanze articolate in più sottorichieste comportanti termini e procedimenti diversi. Una diversa interpretazione condurrebbe all'inevitabile conseguenza della completa incertezza, per l'Amministrazione così come per il privato, sul valore da attribuire al comportamento inerte dell'Amministrazione e sul provvedimento tacito che si è formato” (Tar Campania, Napoli, Sezione III n. 17583, del 04.10.2010).
Con una affermazione che suona quale “clausola di chiusura del sistema”, si è di recente puntualizzato che “la formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio-assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo l'inutile decorso del tempo dalla presentazione dell'istanza senza che sia intervenuta risposta dall'Amministrazione, ma la ricorrenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l'avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui l'interessato abbia rappresentato una situazione di fatto difforme da quella reale” (Tar Piemonte, 14.01.2011 n. 16).
Come è noto, poi, analoga cautela ha improntato le valutazioni giurisprudenziali in riferimento agli accadimenti intervenuti in un momento successivo al decorso del termine previsto ex lege per la formazione del silenzio-assenso.).
La questione si è posta in passato, con una certa frequenza, laddove il provvedimento espresso sopravvenuto abbia contenuto reiettivo (e quindi si ponga in contrasto con il “provvedimento silenzioso” già formatosi).
Si è detto, infatti, a più riprese, in passato (tra le tante Consiglio Stato, sez. VI, 10.03.1994, n. 298 ma anche Consiglio Stato, sez. V, 17.03.2003, n. 1381), che il diniego esplicito, sopravvenuto alla formazione del silenzio-assenso, non può considerarsi atto inesistente, ma atto che si sostituisce all'assenso tacito, quale ulteriore rinnovata espressione del potere di cui l'amministrazione era e rimane titolare, quanto meno in via di autotutela; il diniego, quindi, può, se mai, ritenersi illegittimo -in quanto non conforme all'esercizio del potere di autotutela-, ma non nullo (facendone peraltro discendere –in un quadro legislativo precedente all’art. 5-bis dell’art. 20 della legge n. 241 del 1990 introdotto dall'articolo 2, comma 1-sexies, del D.L. 05.08.2010, n. 125- la conseguenza che il diniego stesso e gli atti che ne costituiscono esecuzione debbono essere sindacati non dall'A.g.o., ma dal giudice amministrativo, in quanto oggetto del contendere è un asserito non corretto uso dei poteri amministrativi).
A fronte di un silenzio-assenso legittimamente formatosi, si sosteneva –da parte di una qualificata corrente dottrinaria e giurisprudenziale- che sarebbe potuto pur sempre intervenire un provvedimento a contenuto negativo; quest’ultimo, se reso con le forme procedimentali proprie degli atti “di secondo grado”, rientranti nell’alveo dei provvedimenti di autotutela, doveva essere tempestivamente impugnato: altrimenti si sarebbe consolidato, con effetto annullatorio dell’“assenso-silenzioso”.
La giurisprudenza più recente ha, però, espresso non poche critiche verso questo modo di provvedere delle Amministrazioni, affermando che sarebbe illegittimo l'atto di diniego successivamente emesso, considerato che il potere di provvedere sulla domanda si è consumato e residua solo eventualmente in capo all'ente pubblico la potestà di autotutela, da attuarsi con provvedimento di annullamento e in presenza dei relativi presupposti, tra cui l'indicazione dei profili di illegittimità.
L’elaborazione pretoria ha trovato conferma in un successivo intervento legislativo: l'art. 20, terzo comma, L. n. 241 del 1990 (legge sul procedimento amministrativo), nel testo modificato dalla L. n. 80 del 2005, dispone che, nei casi in cui il silenzio equivale ad accoglimento della domanda, l'Amministrazione competente può soltanto assumere determinazioni in via di autotutela, secondo le previsioni dei successivi artt. 21-quinquies e 21-nonies, L. n. 241 del 1990.
L’amministrazione non può, quindi, limitarsi a provvedere tardivamente sull’istanza (tra le tante, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 03.05.2010, n. 2266), ma deve avviare un vero e proprio procedimento di secondo grado finalizzato alla rimozione dell’atto (che si assume illegittimo) formatosi per silentium.
In senso parzialmente contrario, altra corrente “sostanzialistica” della giurisprudenza di primo grado (si veda TAR Friuli Venezia Giulia Trieste, sez. I, 28.10.2010, n. 719) ha sostenuto che non sarebbe precluso alla p.a. di determinarsi in contrario con un provvedimento esplicito, ma, trattandosi di un atto implicito di autotutela, essa dovrebbe comunicare all'interessato l'avvio del relativo procedimento, pena l'illegittimità dell'atto.
Per chiudere con questo –necessario, seppur sintetico- excursus, va anche evidenziato che neppure v’è pieno accordo in ordine alla latitudine applicativa del detto eventuale atto di autotutela.
Se è, infatti, certo che esso deve essere assunto nel rispetto delle cautele infraprocedimentali proprie dei procedimenti di secondo grado (primo tra tutti, l’obbligo di dare avviso dell’avvio del procedimento finalizzato alla rimozione dell’atto: ex multis, si veda Consiglio Stato, sez. VI, 28.02.2006, n. 887), il nuovo provvedimento secondo parte della giurisprudenza amministrativa, non sarebbe soggetto ai limiti applicativi (sussistenza di ragioni di interesse pubblico, termine ragionevole ponderazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati) di cui all’art. 21-novies della legge 07.08.1990 n. 241.
Tali limiti all’adozione di un atto di autotutela ricorrerebbero soltanto in ipotesi di rimozione di un provvedimento espresso.
Nell’ipotesi di silenzio-assenso, viceversa, si è ritenuto che “l'inerente potere di autotutela assorba in sé anche profili valutativi che normalmente ineriscono all'esercizio della funzione amministrativa di primo grado, ma che l'Amministrazione non è stata a suo tempo in grado di esercitare. La funzione sollecitatoria a cui si ispira l'istituto del silenzio-assenso non può, infatti, a pena di insanabile contrasto della relativa disciplina legislativa con la sovraordinata fonte costituzionale (art. 97 cost.), pregiudicare la possibilità di un pieno e ponderato esercizio dell'attività di valutazione e comparazione dei diversi interessi pubblici e privati coinvolti dall'esercizio della funzione amministrativa. Pertanto, in sede di annullamento d'ufficio di un silenzio assenso, deve essere restituito integro il potere-dovere di compiere, per la prima volta, quelle valutazioni che a suo tempo l'Amministrazione avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell'esercizio della funzione istituzionale di primo grado ad essa spettante. Correlativamente, è stato reputato legittimo il provvedimento di annullamento d'ufficio del silenzio assenso, ove l'Amministrazione, pur senza enucleare specifici profili di illegittimità dell'atto da annullare e specifiche, distinte, ragioni di interesse pubblico giustificanti l'annullamento medesimo, abbia svolto una completa ed approfondita disamina dell'assetto di interessi scaturente dal provvedimento tacito, in rapporto a quello inerente alla funzione tipica cui è preordinata l'attività amministrativa di primo grado, pervenendo, ove ne abbia riscontrato la dissonanza, alla rimozione dell'assetto ritenuto "contra legem" ed al ripristino di quello risultante conforme all'interesse pubblico da perseguire -l'interesse pubblico sotteso al legittimo esercizio del potere di autotutela può rinvenirsi anche nella necessità di ripristinare l'equilibrio delle posizioni private coinvolte, che non costituisce un aspetto di disciplina dei rapporti intersoggettivi di natura privata, ma costituisce l'essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che devono ricevere adeguata tutela nell'ordinamento, rimanendo escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni-” (Tar Campania, Napoli, 10.09.2010 n. 17398)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.07.2014 n. 1359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione n. 98/2013, il P.A. era mantenuto provvisoriamente in vita dall’istanza di proroga (antecedente alla scadenza del P.A.) sul quale il Comune non aveva ancora provveduto dichiarando la definitiva decadenza del medesimo piano attuativo, con la conseguenza che doveva trovare applicazione al caso in esame la proroga automatica prevista dall’art. 30, comma 3-bis, della L. n. 98/2013.
... per l'annullamento della deliberazione della Giuta Comunale di Vicenza n. 51/2014 (comunicata con nota del direttore del settore urbanistica del 01.04.2014, prot. n. 25648) con cui è stata respinta l'istanza di proroga dei termini di efficacia del PIRUEA "Pomari", del successivo provvedimento del direttore del settore urbanistica emesso in data 09/05/2014, prot. n. 36804, confermativo della delibera n. 51/2014, nonché di ogni altro atto connesso, presupposto ai provvedimenti impugnati, ivi compreso, per quanto necessario, della nota della Avvocatura Comunale n. 75477 del 09/10/2013.
...
Il ricorso è fondato.
In particolare merita accoglimento il primo motivo con il quale è stata dedotta la violazione dell’art. 30, comma 3-bis, della L. n. 98/2013, norma che ha disposto la proroga triennale dei piani e degli accordi stipulati fino al 31.12.2012.
Nel caso di specie il PIRUEA “Pomari” è stato approvato con delibera della Giunta Regionale n. 288 del 07.02.2003, pubblicata l’11.03.2003.
In data 10.01.2013, prima della scadenza del piano (11.03.2013), la ricorrente ha formulato motivata richiesta di proroga dei termini di scadenza del PIRUEA.
In data 20.08.2013 è entrata in vigore la L. n. 98/2013, che, nel convertire con modifiche il D.L. n. 69/2013, ha introdotto il meccanismo di proroga di cui si è detto.
Il Comune di Vicenza ha provveduto, nel marzo 2014, negando, con la delibera impugnata, la richiesta di proroga formulata dalla ricorrente.
In particolare il Comune ha ritenuto la legge suddetta inapplicabile al caso di specie, essendo il piano attuativo scaduto al momento dell’entrata in vigore della stessa legge di conversione.
Rileva, al contrario, il Collegio, come sia evidente che, al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione n. 98/2013, il PIRUEA era mantenuto provvisoriamente in vita dall’istanza di proroga (antecedente alla scadenza del PIRUEA), sulla quale il Comune non aveva ancora provveduto dichiarando la definitiva decadenza del medesimo piano attuativo, con la conseguenza che doveva trovare applicazione al caso in esame la proroga automatica prevista dall’art. 30, comma 3-bis, della L. n. 98/2013.
Il ricorso deve pertanto essere accolto con l’annullamento dell’atto impugnato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.07.2014 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA: Circa la contestata incompetenza del dirigente ad adottare provvedimenti previsti dall’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152 (ordinanza a rimuovere rifiuti abbandonati) è intervenuta in corso di causa la di ratifica da parte del Sindaco, organo competente in materia, adottata ai sensi dell’art. 6 della legge n. 249 del 1968 e, come è noto, l'esercizio di tale potere di ratifica sana con efficacia retroattiva l'atto viziato da incompetenza relativa, nonostante questo sia oggetto di ricorso giurisdizionale ancora pendente, e comporta la dichiarazione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse delle censure di incompetenza.
Peraltro il provvedimento di ratifica resiste alle censure proposte con i secondi motivi aggiunti, di violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241.
Infatti va in primo luogo sottolineato che, come chiarito dalla giurisprudenza, la ratifica di un atto amministrativo non richiede una specifica motivazione sull'interesse pubblico in quanto l’interesse pubblico che lo sorregge è la perdurante persistenza di quello perseguito dall’atto da convalidare.
In secondo luogo va osservato che l’esigenza di salvaguardare l’ambiente e le matrici ambientali dalla contaminazione derivante dall’abbandono dei rifiuti, obbliga l’Amministrazione ad individuare i responsabili e ad ottenere da loro il ripristino delle condizioni ambientali precedenti e, contrariamente a quanto dedotto, il potere di ratifica risulta esercitato entro un termine ragionevole, tenuto conto della circostanza che alla data del provvedimento di ratifica non era stato ancora presentato il programma di smaltimento, e l’abbandono dei rifiuti configura un illecito di carattere permanente.
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La ratio perseguita con l'art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 deve ritenersi soddisfatta, nonostante la mancanza della rituale comunicazione di avvio, ogniqualvolta l'interessato abbia avuto comunque compiuta conoscenza dell'avvio del procedimento.

Deve invece essere dichiarata l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse delle censure con le quali la parte ricorrente lamenta l’incompetenza del dirigente ad adottare provvedimenti previsti dall’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152.
Infatti rispetto al provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo ed alla diffida impugnata con i primi motivi aggiunti è intervenuta in corso di causa la di ratifica da parte del Sindaco, organo competente in materia, adottato ai sensi dell’art. 6 della legge n. 249 del 1968 e, come è noto, l'esercizio di tale potere di ratifica sana con efficacia retroattiva l'atto viziato da incompetenza relativa, nonostante questo sia oggetto di ricorso giurisdizionale ancora pendente, e comporta la dichiarazione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse delle censure di incompetenza.
Peraltro il provvedimento di ratifica resiste alle censure proposte con i secondi motivi aggiunti, di violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241.
Infatti va in primo luogo sottolineato che, come chiarito dalla giurisprudenza, la ratifica di un atto amministrativo non richiede una specifica motivazione sull'interesse pubblico (cfr. Consiglio Stato Sez. V, 30.08.2005, n. 4419) in quanto l’interesse pubblico che lo sorregge è la perdurante persistenza di quello perseguito dall’atto da convalidare (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 07.09.2001, n. 771; Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.09.1983, n. 683).
In secondo luogo va osservato che l’esigenza di salvaguardare l’ambiente e le matrici ambientali dalla contaminazione derivante dall’abbandono dei rifiuti, obbliga l’Amministrazione ad individuare i responsabili e ad ottenere da loro il ripristino delle condizioni ambientali precedenti e, contrariamente a quanto dedotto, il potere di ratifica risulta esercitato entro un termine ragionevole, tenuto conto della circostanza che alla data del provvedimento di ratifica non era stato ancora presentato il programma di smaltimento, e l’abbandono dei rifiuti configura un illecito di carattere permanente.
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Il secondo motivo del ricorso introduttivo, con il quale la parte ricorrente lamenta la mancata acquisizione del suo apporto procedimentale mediante la comunicazione di avvio del procedimento deve essere respinta.
Il Comune nelle proprie difese ha infatti evidenziato, senza essere contraddetto sul punto, che la parte ricorrente è stata fin dall’inizio resa edotta delle problematiche emerse, partecipando in contradditorio non solo al procedimento, ma anche ai sopralluoghi, nel corso dei quali ha addirittura messo a disposizione il proprio escavatore meccanico per effettuare sondaggi geognostici (cfr. pagg. 11 e 12 della memoria del Comune del 16 agosto 2008).
Orbene, tenuto conto che la ratio perseguita con l'art. 7, della legge 07.08.1990, n. 241, deve ritenersi soddisfatta, nonostante la mancanza della rituale comunicazione di avvio, ogniqualvolta l'interessato abbia avuto comunque compiuta conoscenza dell'avvio del procedimento (cfr. Tar Lazio, Roma, 06.03.2013, n. 2391; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 12.12.2012, n. 1167; Consiglio di Stato, Sez. V, 07.09.2011, n. 5032; Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.03.2011, n. 1476; id. 04.12.2009, n. 7607; Consiglio di Stato, Sez. IV, 04.03.2009, n. 1207), la censura deve essere respinta
(TAR Veneto, Sez. III, sentenza 16.07.2014 n. 1031 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAvvalimento/1 Nei contratti al bando generiche menzioni.
I contratti di avvalimento non soddisfano i necessari requisiti di specificità e determinatezza, se contengono una generica menzione della messa a disposizione delle risorse necessarie, senza la necessaria indicazione dei mezzi, del personale e degli strumenti organizzativi di cui la società ausiliata potrà fare uso per eseguire le prestazioni a suo carico.

Ad affermarlo sono stati i giudici della V Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 15.07.2014 n. 3716.
I giudici amministrativi hanno sottolineato come «l'art. 49 del codice dei contratti pubblici prevede, al primo comma, che il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato, in relazione a una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione Soa avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell'attestazione Soa di altro soggetto. Il secondo comma della stessa disposizione prevede che, «ai fini di quanto previsto nel comma 1», il concorrente allega, «oltre all'eventuale attestazione Soa propria e dell'impresa ausiliaria», tra l'altro:
- una sua dichiarazione, «attestante l'avvalimento dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con specifica indicazione dei requisiti stessi e dell'impresa ausiliaria» (lettera a);
- «una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente» (lettera d);
- in originale o copia autentica il contratto in virtù del quale l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell'appalto (lettera f). La stessa disposizione prevede, al comma 4, che «il concorrente e l'impresa ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto».
Si tratta evidentemente di un procedimento negoziale complesso composto dai negozi atti unilaterali del concorrente (lettera a), dell'impresa ausiliaria (lettera d), indirizzati alla stazione appaltante, nonché da un contratto tipico di avvalimento (lettera f) stipulato tra il concorrente e l'impresa ausiliaria
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

APPALTIAvvalimento/2 Mezzi e personale rispettosi del principio di qualità.
Nel contratto di avvalimento è necessario che risulti chiaramente che la parte ausiliaria presti le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, rispettando il requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti).

Ad affermarlo sono stati i giudici della V Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 15.07.2014 n. 3716.
Nel contratto in commento è inoltre necessaria una puntuale individuazione del suo oggetto, e tale individuazione, «oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico, nella generale previsione codicistica che configura quale causa di nullità di ogni contratto l'indeterminatezza (e indeterminabilità) del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure contrattuali del settore pubblico, nella necessità di non permettere, fin troppo, agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche (requisiti pur solennemente prescritti e, di solito, attentamente verificati nei confronti dei concorrenti che se ne dichiarino titolari in proprio)».
Rilevante è stato poi quanto osservato dai supremi giudici amministrativi, i quali in ossequio ad una ormai consolidata giurisprudenza hanno affermato che: «la pratica della mera riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle «risorse necessarie di cui è carente il concorrente» (o espressioni similari) si appalesa, oltre che tautologica (e, come tale, indeterminata per definizione), inidonea a permettere qualsivoglia sindacato, da parte della stazione appaltante, sull'effettività della messa a disposizione dei requisiti».
È stato, poi, osservato, che l'esigenza di determinazione dell'oggetto del contratto di avvalimento esiste anche con riferimento alla dichiarazione unilaterale in quanto «nell'istituto dell'avvalimento l'impresa ausiliaria non è semplicemente un soggetto terzo rispetto alla gara, dovendosi essa impegnare non soltanto verso l'impresa concorrente ausiliata ma anche verso la stazione appaltante a mettere a disposizione del concorrente le risorse di cui questi sia carente, sicché l'ausiliario è tenuto a riprodurre il contenuto del contratto di avvalimento in una dichiarazione resa nei confronti della stazione appaltante» (Cons. stato, VI, 13.05.2010, n. 2956).
Ciò in quanto occorre soddisfare esigenze di certezza dell'amministrazione, essendo la dichiarazione dell'impresa ausiliaria «volta a soddisfare l'interesse della stazione appaltante ad evitare, dopo l'aggiudicazione, l'insorgere di contestazioni sugli obblighi dell'ausiliario» (Cons. stato, VI, n. 2956 del 2010, cit.)
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

ATTI AMMINISTRATIVIÈ scusabile l'omissione dei termini per il ricorso. CONSIGLIO DI STATO/ I presupposti validi per la p.a..
Sussiste il presupposto per il riconoscimento dell'errore scusabile in sede processuale nell'ipotesi in cui l'Amministrazione pubblica abbia solo omesso di indicare nel provvedimento rivolto al privato i termini entro i quali ricorrere.

Lo hanno sostenuto i giudici della V Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 15.07.2014 n. 3710.
I giudici hanno, poi, sottolineato come l'errore scusabile rappresenti un istituto inteso a garantire l'effettività della tutela giurisdizionale, suscettibile di trovare applicazione sia quando siano ravvisabili situazioni di obiettiva incertezza normativa, connesse a difficoltà interpretative o ad oscillazioni giurisprudenziali, sia quando si sia di fronte a comportamenti, indicazioni o avvertenze fuorvianti provenienti dalla medesima Amministrazione, da cui possa conseguire difficoltà nella domanda di giustizia ed un'effettiva diminuzione della tutela giustiziale.
Il riconoscimento dell'errore scusabile, secondo il Consiglio di stato, può avvenire solo previo rigoroso accertamento, caso per caso, dei presupposti e, quindi, ex art. 37 del c.p.a., in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto. Pertanto, hanno affermato i giudici che: «La violazione dell'art. 3, comma 4, della legge n. 241/1990, secondo cui in ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità alla quale è possibile ricorrere, pur non comportando un vizio del procedimento e l'illegittimità dell'atto, è invece idonea a determinare la scusabilità dell'errore del destinatario circa i termini di impugnazione dell'atto stesso. Quindi, a maggior ragione, qualora l'atto amministrativo impugnato indichi, come richiesto dall'art. 3, comma 4, della legge n. 241/1990, il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere, ma lo faccia in modo erroneo, l'interessato che lo impugni entro il termine e davanti al giudice indicati incorre in errore scusabile».
È quindi doveroso ritenere scusabile l'errore del ricorrente che impugni un provvedimento amministrativo oltre il termine di decadenza, ove esso errore trovi radice nell'errata indicazione del termine contenuta nel provvedimento impugnato (Consiglio di stato, sez. IV, 07.09.2000, n. 4725; sez. VI, 16.06.2003, n. 3384) e ove la corretta durata del termine non sia univocamente desumibile dalla normativa vigente (Consiglio di stato, sez. VI, 18.10.2000, n. 5605).
E inoltre «anche se, ai sensi dell'art. 37 del c.p.a., nel processo amministrativo la rimessione in termini per errore scusabile ha carattere eccezionale, in quanto deroga al principio della perentorietà dei termini di impugnazione, e la disposizione relativa deve essere considerata di stretta interpretazione (Consiglio di stato, ad. plen., 09.08.2012, n. 32), tuttavia -hanno osservato i giudici amministrativi- il beneficio può essere riconosciuto in presenza di un quadro normativo da poco assestatosi o di un orientamento giurisprudenziale ancora in via di consolidazione» (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

EDILIZIA PRIVATAIl silenzio-assenso formatosi sulla domanda di permesso di costruire può essere rimosso mediante l’esercizio del potere di annullamento di ufficio da parte del Comune e che tale misura di autotutela consente di contemperare il ripristino della legalità con l’esigenza, pure avvertita dal legislatore, di rendere effettivamente praticabile l’istituto del silenzio accoglimento.
Tale atto di autotutela trova la sua disciplina normativa nell’art. 21-nonies, della legge sul procedimento, che individua le seguenti condizioni per l’esercizio in autotutela da parte dell’Amministrazione del potere di annullamento d’ufficio:
- l’illegittimità dell’atto amministrativo;
- la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
- l’esercizio del potere entro un termine ragionevole;
- la valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all’atto da rimuovere.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente precisato che l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione richiede che quest’ultima, oltre ad accertare entro un termine ragionevole l’illegittimità dell’atto, debba altresì valutare la sussistenza di un interesse pubblico all’annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio tempore, dovendosi in particolare escludere che tale interesse pubblico possa consistere nel mero ripristino della legalità violata. Fermo restando che in sede di annullamento d’ufficio di un silenzio assenso rimane integro in capo all’Amministrazione il potere-dovere di compiere, per la prima volta, quelle valutazioni che essa a suo tempo avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell’esercizio della funzione istituzionale di primo grado ad essa spettante.
Il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa impone, inoltre -come questa stessa Sezione ha già più volte avuto modo di precisare- che vada accertata oltre alla necessità della “misura” assunta, anche la sua idoneità allo scopo da raggiungere e la stretta proporzionalità della misura applicata con il fine da raggiungere; per cui in applicazione di tale principio deve essere preferita “la misura più mite” che consenta di raggiungere lo scopo perseguito dalla norma.

Ciò posto, va ricordato che -come è noto- il silenzio-assenso formatosi sulla domanda di permesso di costruire può essere rimosso mediante l’esercizio del potere di annullamento di ufficio da parte del Comune e che tale misura di autotutela consente di contemperare il ripristino della legalità con l’esigenza, pure avvertita dal legislatore, di rendere effettivamente praticabile l’istituto del silenzio accoglimento.
Tale atto di autotutela trova la sua disciplina normativa nell’art. 21-nonies, della legge sul procedimento, che individua le seguenti condizioni per l’esercizio in autotutela da parte dell’Amministrazione del potere di annullamento d’ufficio:
- l’illegittimità dell’atto amministrativo;
- la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
- l’esercizio del potere entro un termine ragionevole;
- la valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all’atto da rimuovere.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente precisato che l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione richiede che quest’ultima, oltre ad accertare entro un termine ragionevole l’illegittimità dell’atto, debba altresì valutare la sussistenza di un interesse pubblico all’annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio tempore, dovendosi in particolare escludere che tale interesse pubblico possa consistere nel mero ripristino della legalità violata. Fermo restando che in sede di annullamento d’ufficio di un silenzio assenso rimane integro in capo all’Amministrazione il potere-dovere di compiere, per la prima volta, quelle valutazioni che essa a suo tempo avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell’esercizio della funzione istituzionale di primo grado ad essa spettante (Cons. St., sez. IV, 11.04.2014, n. 1767).
Il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa impone, inoltre -come questa stessa Sezione ha già più volte avuto modo di precisare (da ultimo, con sentenze 03.02.2014 n. 67, e 05.11.2013 n. 513)- che vada accertata oltre alla necessità della “misura” assunta, anche la sua idoneità allo scopo da raggiungere e la stretta proporzionalità della misura applicata con il fine da raggiungere; per cui in applicazione di tale principio deve essere preferita “la misura più mite” che consenta di raggiungere lo scopo perseguito dalla norma (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 15.07.2014 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla presentazione dell'istanza di permesso di costruire mediante P.E.C..
In via ordinaria la richiesta di permesso di costruire deve essere presentata e sottoscritta dal titolare del diritto di proprietà (o di altro titolo idoneo) e tale domanda deve contenere una autodichiarazione in ordine al possesso dei requisiti, alla quale deve essere necessariamente allegata “una copia fotostatica del documento di identità del sottoscrittore”; tale copia dell’istanza sottoscritta dall'interessato e la copia del documento di identità possono, inoltre, essere inviate per via telematica.
Tale sistema della documentazione amministrativa, imperniato sulla sostituzione di un certificato o di un atto di notorietà con altrettante dichiarazioni rese dall'interessato, poggia sui due fondamentali principi dell'autoresponsabilità del dichiarante e dell’equivalenza funzionale delle suddette dichiarazioni rispetto ai certificati o agli atti sostituiti e le formalità sopra indicate hanno lo scopo di realizzare la massima collaborazione fra cittadino e Amministrazione, in un’ottica di semplificazione delle procedure, ma senza elidere l’indispensabile nesso di imputabilità soggettiva della dichiarazione ad una determinata persona fisica, non essendo, altrimenti, l’atto in grado di dispiegare gli effetti certificativi previsti, per difetto di una forma essenziale prescritta dalla legge e non altrimenti sanabile.
In definitiva, secondo quanto dispone il predetto art. 38 le istanze e le dichiarazioni (sostitutive di atto di notorietà o della documentazione da allegare alle istanze) sono valide se sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore; con la conseguenza che la mancata allegazione, alla dichiarazione sostitutiva o all’istanza, della copia del documento di identità del sottoscrittore rende l’atto non in grado di spiegare gli effetti certificativi previsti, in quanto nullo per difetto di una forma essenziale stabilita dalla legge.
Nell’ipotesi in cui il richiedente il titolo edilizio deleghi poi un altro soggetto a presentare l’istanza, tale potere di rappresentanza in base all’art. 3-bis dell’art. 38 del testo unico delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa può essere “validamente conferito ad altro soggetto con le modalità di cui” al terzo comma dello stesso art. 38, cioè mediante un atto “sottoscritto dall'interessato”, che deve essere presentato “unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”, atti questi che “possono essere inviati per via telematica”.
In definitiva, quando la domanda di permesso di costruire viene presentata -come nel caso di specie- da un tecnico a ciò incaricato è necessario per un verso che alla domanda debba essere allegata la documentazione di conferimento del potere di rappresentanza e per altro verso che, ove il proprietario effettui delle autodichiarazioni da allegare alla richiesta di permesso di costruire, è necessario che tale autodichiarazione sia presentata unitamente a copia fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore; con la conseguenza che tale mancata allegazione renda l’atto nullo per difetto di una forma essenziale stabilita dalla legge.
Ciò posto, dall’esame degli atti di causa si rileva nella specie la domanda è stata firmata dal legale rappresentante della società ricorrente, ma è stata presentata tramite PEC dal progettista, senza che a tale domanda fossero stati allegati la copia fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore (cioè del rappresentante legale della società ricorrente) e l’atto di conferimento al tecnico del potere di rappresentanza.
Tali carenze documentali hanno impedito, ad avviso del Collegio, la formazione del titolo edilizio per silenzio-assenso.
Né appare al riguardo rilevante il fatto, che essendo stata presentata la documentazione via PEC, era certa la provenienza degli atti dallo studio del progettista e la conformità degli atti inviati agli originali, in quanto tale tecnico (oltre a non apporre su alcuni atti la propria firma digitale) ha omesso di trasmettere al momento della presentazione della domanda copia del documentato d’identità del richiedente e dell’atto che le aveva conferito il potere di presentare l’istanza.

Con il ricorso in esame -come sopra esposto- è stato chiesto l’annullamento del provvedimento 10.07.2013, n. 97114, del Dirigente dello Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Pescara di comunicazione della “avvenuta archiviazione d’ufficio” della richiesta di permesso di costruire trasmessa via PEC al Comune dal tecnico del ricorrente il 30.10.2012.
La ricorrente ha anche chiesto l’accertamento della avvenuta formazione tacita del titolo edilizio per decorso dei termini di cui all’art. 20 del D.P.R. 380/2001 e la condanna dell’Amministrazione comunale al rilascio materiale del titolo abilitativo richiesto o, in via subordinata, alla definizione della relativa procedura istruttoria, con l’adozione di un provvedimento espresso.
Era, invero, accaduto che alla domanda di permesso di costruire presentata all’Amministrazione comunale di Pescara, a mezzo di posta elettronica certificata e per il tramite del proprio tecnico di fiducia, avevano fatto seguito delle note del Comune di richiesta di invio in forma cartacea di tutta la documentazione progettuale, con l’avvertimento che “in mancanza, decorsi ulteriori 30 (trenta) giorni dal ricevimento della presente, si procederà all’archiviazione della senza ulteriore comunicazione”.
Non avendo provveduto la ricorrente a trasmettere gli atti richiesti, il Comune ha “archiviato” l’istanza presentata.
...
Il ricorso, va subito precisato, è privo di pregio.
Ai fini del decidere deve partirsi dal rilievo che il procedimento di rilascio del permesso di costruire era già disciplinato, al momento della presentazione dell’istanza in questione, dall’art. 20 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), così come modificato dall’art. del D.L. 13.05.2011, n. 70 convertito, con modificazioni, dalla legge 12.07.2011, n. 106.
Tale articolo, dopo aver analiticamente disciplinato tale procedimento, dispone testualmente al comma n. 8 che “decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui al comma 9”.
Va, inoltre, ricordato che nel caso di specie la domanda del titolo edilizio era stata presentata dal tecnico della ricorrente via PEC e che tale modalità di presentazione delle istanze alla Pubblica Amministrazione è disciplinato dal D.P.R. 28.12.2000 n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa), il cui art. 38 regolamenta, appunto, le modalità di invio e sottoscrizione delle istanze.
Tale disposizione prevede testualmente quanto segue: “1. Tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possono essere inviate anche per fax e via telematica.
2. Le istanze e le dichiarazioni inviate per via telematica sono valide se effettuate secondo quanto previsto dall'articolo 65 del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82.
3. Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore. La copia fotostatica del documento è inserita nel fascicolo. La copia dell'istanza sottoscritta dall'interessato e la copia del documento di identità possono essere inviate per via telematica; nei procedimenti di aggiudicazione di contratti pubblici, detta facoltà è consentita nei limiti stabiliti dal regolamento di cui all’articolo 15, comma 2, della legge 15.03.1997, n. 59.
3-bis. Il potere di rappresentanza per la formazione e la presentazione di istanze, progetti, dichiarazioni e altre attestazioni nonché per il ritiro di atti e documenti presso le pubbliche amministrazioni e i gestori o esercenti di pubblici servizi può essere validamente conferito ad altro soggetto con le modalità di cui al presente articolo
”.
Va, inoltre, in merito ricordato che il summenzionato art. 65 del D.Lgs. 07.03.2005 n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale), nel disciplinare le istanze e dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni per via telematica, dispone testualmente al primo comma che: “1. Le istanze e le dichiarazioni presentate per via telematica alle pubbliche amministrazioni e ai gestori dei servizi pubblici ai sensi dell'articolo 38, commi 1 e 3, del decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, sono valide:
a) se sottoscritte mediante la firma digitale o la firma elettronica qualificata, il cui certificato è rilasciato da un certificatore accreditato;
b) ovvero, quando l’autore è identificato dal sistema informatico con l’uso della carta d'identità elettronica o della carta nazionale dei servizi, nei limiti di quanto stabilito da ciascuna amministrazione ai sensi della normativa vigente;
c) ovvero quando l’autore è identificato dal sistema informatico con i diversi strumenti di cui all’articolo 64, comma 2, nei limiti di quanto stabilito da ciascuna amministrazione ai sensi della normativa vigente nonché quando le istanze e le dichiarazioni sono inviate con le modalità di cui all'articolo 38, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445;
c-bis) ovvero se trasmesse dall’autore mediante la propria casella di posta elettronica certificata purché le relative credenziali di accesso siano state rilasciate previa identificazione del titolare, anche per via telematica secondo modalità definite con regole tecniche adottate ai sensi dell'articolo 71, e ciò sia attestato dal gestore del sistema nel messaggio o in un suo allegato. In tal caso, la trasmissione costituisce dichiarazione vincolante ai sensi dell'articolo 6, comma 1, secondo periodo. Sono fatte salve le disposizioni normative che prevedono l’uso di specifici sistemi di trasmissione telematica nel settore tributario
”.
Il secondo comma di tale articolo dispone poi che “le istanze e le dichiarazioni inviate o compilate su sito secondo le modalità previste dal comma 1 sono equivalenti alle istanze e alle dichiarazioni sottoscritte con firma autografa apposta in presenza del dipendente addetto al procedimento”.
Tali disposizioni, in estrema sintesi, dispongono per un verso che decorso il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, e per altro verso che anche la domanda di rilascio del permesso di costruire può legittimamente essere inviata anche per via telematica.
Secondo il ricorrente l’istanza di permesso di costruire in questione era stata correttamente presentata a mezzo PEC, per cui, una volta decorsi i termini previsti dal predetto art. 20 della legge sul procedimento, vi era stata la formazione tacita del titolo edilizio per silenzio assenso.
Secondo la parte resistente la domanda, così come presentata, non era completa, per cui non si erano prodotti gli effetti previsti da tale articolo 20. In particolare, ha evidenziato in sede di giudizio che la domanda era stata sottoscritta dalla ricorrente, ma era stata presentata dal proprio tecnico, senza che fosse stato allegato alcun atto di conferimento dell’incarico, e che le dichiarazioni di rito, erano state sottoscritte dalla richiedente, senza però allegare copia del documento di identità.
Inoltre, si è evidenziata la palese differenza tra la firma apposta sulla domanda e sull’autodichiarazione e quella posta in calce al ricorso.
Ritiene il Collegio di condividere quando al riguardo opposto dal Comune nella relazione degli uffici tecnici versata in giudizio e da quanto dedotto negli scritti difensivi ed, in particolare, che non si era formato il silenzio-assenso data l’incompletezza della documentazione presentata.
Trattandosi di accertare la formazione o meno del silenzio-assenso non appare al riguardo rilevante il divieto di integrazione giudiziale della motivazione in corso di giudizio, che, peraltro, non ha carattere assoluto; invero, alla luce dell’attuale assetto normativo, la giurisprudenza ha già precisato (cfr., da ultimo, Cons. Stato Sez. IV, 04.03.2014, n. 1018) che devono ritenersi attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il relativo vizio, tutte le volte in cui l’omissione di motivazione successivamente esternata sia relativa -come nel caso di specie- all’adozione di atti vincolati ed all’accertamento dei presupposti per la formazione del silenzio assenso.
Ciò premesso, va ricordato che -secondo quanto costantemente chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., V, 13.01.2014 n. 63. sez. VI, 06.12.2013, n. 5852), le cui conclusioni sono state recepite anche da questa Sezione (con sentenza 18.10.2013 n. 482)- la formazione del silenzio-assenso postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non determinandosi ope legis l’accoglimento dell’istanza ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma: il silenzio-assenso non può, infatti, formarsi in assenza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio, in quanto l’eventuale inerzia dell’Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso.
In aggiunta, va anche ricordato che la presenza di dichiarazioni non veritiere esclude che il meccanismo del silenzio-assenso possa operare (Cons. St., sez. V, 20.08.2013 n. 4182).
Ciò premesso, va anche precisato che la normativa vigente in relazione alla richiesta di rilascio del permesso di costruire dispone, per la parte che qui interessa, quanto segue:
- che il titolo sia richiesto e rilasciato al “proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo” (art. 11 del t.u. dell’edilizia);
- che il potere di rappresentanza per la presentazione dell’istanza di rilascio del titolo edilizio possa essere “validamente conferito ad altro soggetto con le modalità di cui al presente articolo” (art. 38, n. 3-bis, del D.P.R. 28.12.2000 n. 445);
- che -come previsto dal comma 3 di tale art. 38 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa- le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà debbano essere “sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore” e che “la copia dell’istanza sottoscritta dall'interessato e la copia del documento di identità possono essere inviate per via telematica”;
- che in base al predetto art. 65, secondo comma, del codice dell’amministrazione digitale le istanze e le dichiarazioni inviate via PEC “sono equivalenti alle istanze e alle dichiarazioni sottoscritte con firma autografa apposta in presenza del dipendente addetto al procedimento”.
Secondo tale normativa, in estrema sintesi, in via ordinaria la richiesta di permesso di costruire deve essere presentata e sottoscritta dal titolare del diritto di proprietà (o di altro titolo idoneo) e tale domanda deve contenere una autodichiarazione in ordine al possesso dei requisiti, alla quale deve essere necessariamente allegata “una copia fotostatica del documento di identità del sottoscrittore”; tale copia dell’istanza sottoscritta dall'interessato e la copia del documento di identità possono, inoltre, essere inviate per via telematica.
Tale sistema della documentazione amministrativa, imperniato sulla sostituzione di un certificato o di un atto di notorietà con altrettante dichiarazioni rese dall'interessato, poggia sui due fondamentali principi dell'autoresponsabilità del dichiarante e dell’equivalenza funzionale delle suddette dichiarazioni rispetto ai certificati o agli atti sostituiti e le formalità sopra indicate hanno lo scopo di realizzare la massima collaborazione fra cittadino e Amministrazione, in un’ottica di semplificazione delle procedure, ma senza elidere l’indispensabile nesso di imputabilità soggettiva della dichiarazione ad una determinata persona fisica, non essendo, altrimenti, l’atto in grado di dispiegare gli effetti certificativi previsti, per difetto di una forma essenziale prescritta dalla legge e non altrimenti sanabile.
In definitiva, secondo quanto dispone il predetto art. 38 le istanze e le dichiarazioni (sostitutive di atto di notorietà o della documentazione da allegare alle istanze) sono valide se sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore; con la conseguenza che la mancata allegazione, alla dichiarazione sostitutiva o all’istanza, della copia del documento di identità del sottoscrittore rende l’atto non in grado di spiegare gli effetti certificativi previsti, in quanto nullo per difetto di una forma essenziale stabilita dalla legge (Cons. St., sez. V, 26.03.2012 n. 1739, e sez. VI 20.12.2011 n. 6740 e 12.06.2009, n. 3690).
Nell’ipotesi in cui il richiedente il titolo edilizio deleghi poi un altro soggetto a presentare l’istanza, tale potere di rappresentanza in base all’art. 3-bis dell’art. 38 del testo unico delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa può essere “validamente conferito ad altro soggetto con le modalità di cui” al terzo comma dello stesso art. 38, cioè mediante un atto “sottoscritto dall'interessato”, che deve essere presentato “unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”, atti questi che “possono essere inviati per via telematica”.
In definitiva, quando la domanda di permesso di costruire viene presentata -come nel caso di specie- da un tecnico a ciò incaricato è necessario per un verso che alla domanda debba essere allegata la documentazione di conferimento del potere di rappresentanza e per altro verso che, ove il proprietario effettui delle autodichiarazioni da allegare alla richiesta di permesso di costruire, è necessario che tale autodichiarazione sia presentata unitamente a copia fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore; con la conseguenza che tale mancata allegazione renda l’atto nullo per difetto di una forma essenziale stabilita dalla legge.
Ciò posto, dall’esame degli atti di causa si rileva nella specie la domanda è stata firmata dal legale rappresentante della società ricorrente, ma è stata presentata tramite PEC dal progettista, senza che a tale domanda fossero stati allegati la copia fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore (cioè del rappresentante legale della società ricorrente) e l’atto di conferimento al tecnico del potere di rappresentanza.
Tali carenze documentali hanno impedito, ad avviso del Collegio, la formazione del titolo edilizio per silenzio-assenso.
Né appare al riguardo rilevante il fatto, che essendo stata presentata la documentazione via PEC, era certa la provenienza degli atti dallo studio del progettista e la conformità degli atti inviati agli originali, in quanto tale tecnico (oltre a non apporre su alcuni atti la propria firma digitale) ha omesso di trasmettere al momento della presentazione della domanda copia del documentato d’identità del richiedente e dell’atto che le aveva conferito il potere di presentare l’istanza.
Né a tali carenze può oggi sopperirsi in corso di giudizio.
Una volta escluso che si fosse formato per silentium il titolo edilizio richiesto, va ricordato che in punto di fatto che con nota 15.04.2013, n. 56601, il Comune aveva intimato alla ricorrente la trasmissione della documentazione in forma cartacea, con l’avvertimento che “in mancanza, decorsi ulteriori 30 (trenta) giorni dal ricevimento della presente, si procederà all’archiviazione della senza ulteriore comunicazione” e che, non avendo la ricorrente adempiuto a tale richieste, il Comune in data 28.05.2013 ha provveduto d’ufficio all’archiviazione della pratica edilizia “per decorrenza dei termini per l’integrazione documentale”.
Nei confronti di tale determinazione la ricorrente ha dedotto che il Comune aveva ingiustificatamente congelato l’istruttoria, che era inammissibile la richiesta dell’Amministrazione di “duplicazione” della produzione documentale posta a corredo dell’istanza, già inviata digitalmente, e che il procedimento di rilascio del permesso di costruire non contempla l’archiviazione.
Ritiene la Sezione, innanzi tutto, che il procedimento in questione può legittimante concludersi con un provvedimento di archiviazione nelle ipotesi di carenze documentali non soddisfatte nei termini (Cons. St., sez. IV, 29.08.2011, n. 4835).
Inoltre, la mancanza degli atti sopra evidenziati fa sì che le censure dedotte non siano idonee ad inficiare la legittimità dell’atto impugnato, in quanto -a tacer d’altro- la documentazione richiesta era, in realtà, necessaria per poter positivamente esaminare l’istanza.
Né, infine, può essere accolta la richiesta, formulata in via subordinata, di condanna dell’Amministrazione all’espletamento ed alla definizione della relativa procedura istruttoria, con l’adozione di un provvedimento espresso, in quanto, essendosi il procedimento concluso con la predetta archiviazione, è necessario che la società interessata presenti una nuova richiesta di permesso di costruire.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame deve, conseguentemente, essere respinto (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 15.07.2014 n. 348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'informativa antimafia impianti probatori ad hoc.
L'informativa interdittiva antimafia, essendo espressione della logica di anticipazione della difesa sociale, non richiede un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello che serve per provare l'appartenenza di un soggetto alla criminalità organizzata.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 14.07.2014 n. 3676.
L'interdittiva, affermano i giudici amministrativi: «può fondarsi su fatti e vicende aventi un valore soltanto sintomatico ed indiziario, con l'ausilio di indagini che possono riferirsi anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo (cfr., da ultimo, da Cons. stato, III, 05.03.2013, n. 1329).
Ai fini dell'adozione dell'interdittiva, i fatti sintomatici ed indizianti che sostengono la plausibilità della sussistenza di un collegamento tra impresa e criminalità organizzata possono anche incentrarsi nelle relazioni familistiche dell'interessato con contesti e persone che non lasciano seriamente propendere per la loro affidabilità (cfr., da ultimo, Cons. stato, III, 04.09.2013, n. 4414)
».
Sembra opportuno però sottolineare, in sintonia anche con quanto affermato dai giudici del Consiglio di Stato, che, in assenza di ulteriori elementi, il mero rapporto di parentela (o di affinità) non sia di per sé idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione, poiché «non può ritenersi sussistente un vero e proprio automatismo tra un legame familiare, sia pure tra stretti congiunti, ed il condizionamento dell'impresa, che deponga nel senso di un'attività sintomaticamente connessa a logiche e ad interessi malavitosi (cfr., da ultimo, Cons. stato, III, 10.01.2013, n. 96); se è infatti vero, in base alle regole di comune esperienza, che il vincolo di sangue può esporre il soggetto all'influsso dell'organizzazione, se non addirittura imporre (in determinati contesti) un coinvolgimento nella stessa, tuttavia l'attendibilità dell'interferenza dipende anche da una serie di circostanze ed ulteriori elementi indiziari che qualifichino, su un piano di attualità ed effettività, una immanente situazione di condizionamento e di contiguità con interessi malavitosi (cfr., da ultimo, Cons. stato, III, 26.02.2014, n. 930)» (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

APPALTI FORNITURE E SERVIZILa revisione dei prezzi è a tutela della p.a..
Nei contratti pubblici, alla revisione dei prezzi è affidato anzitutto il compito di tutelare l'esigenza della p.a. di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 14.07.2014 n. 3669.
La revisione dei prezzi dei contratti della p.a. può concernere soltanto le proroghe contrattuali propriamente dette e l'istituto, hanno ribadito i giudici amministrativi, non s'applica anche agli atti successivi al contratto originario, con cui, mercé specifiche manifestazioni di volontà, si dia corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici.
Fermo restando che sul punto non rileva che il contenuto sia analogo a quello del rapporto originario, la distinzione tra rinnovo e proroga del contratto consiste nell'un caso si ha una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, la quale può concludersi con l'integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non più attuali.
Nell'altro, invece, si determina essenzialmente solo l'effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall'atto originario. Secondo i giudici del Consiglio di stato: «Tale istituto tutela, pur se in via mediata, anche l'interesse dell'impresa a non subire alterazioni del sinallagma, conseguenti alle modifiche dei costi che si verifichino durante il rapporto e potrebbero indurla alla surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni».
La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato è ferma nel ritenere che l'art. 6, legge 537/1993, come modificato dall'art. 44, legge 724/1994, è norma che detta una disciplina speciale in materia di revisione dei prezzi, la quale ha natura imperativa che si pone nelle pattuizioni considerate modificando ed integrando la volontà delle parti contrastante con la stessa.
Ne consegue che le clausole difformi contenute nei contratti della tipologia presa in considerazione sono nulle per contrasto con la norma imperativa. La nullità evidentemente non investe l'intero contratto in applicazione del principio utile per inutile non vitiatur di cui all'art. 1419 c.c., ma colpisce la clausola contrastante con la norma considerata (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

APPALTI: Sulla fideiussione non si sgarra. Senza presentazione dell'impegno scatta l'esclusione. Il Tar Calabria interviene sulle procedure di gara disciplinate dal codice contratti.
La mancata presentazione dell'impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia per l'esecuzione del contratto integra una causa testuale di esclusione, coerente con il canone della tassatività posto dall'art. 46, comma 1-bis, del dlgs 2006 n. 163, mentre la norma sulla cauzione provvisoria va intesa nel senso che la stazione appaltante non può escludere il concorrente che abbia presentato una cauzione di importo non sufficiente o connotata da altre irregolarità, dovendosi consentire la regolarizzazione della cauzione prodotta.
Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con sentenza 14.07.2014 n. 1189.
I giudici amministrativi calabresi, hanno osservato che: «Nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il «potere di soccorso» di cui all'art. 46, comma 1, del medesimo codice (dlgs n. 163/2006), sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione appaltante di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di completarli ma solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti, non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali (cfr. Consiglio di stato, Adunanza plenaria, 25.02.2014, n. 9)».
I giudici del Tribunale amministrativo regionale hanno poi evidenziato che è irrilevante la circostanza che il bando di gara non preveda la produzione del detto impegno. Di regola, quando la «lex specialis» di una gara di appalto non riproduca una norma imperativa dell'ordinamento giuridico, soccorre al riguardo il meccanismo di integrazione automatica, sicché, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339, c.c., si colmano in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato.
In particolare -hanno sostenuto i giudici catanzaresi- la funzione prevalente della normativa, dettata in materia dal dlgs n. 163/2006, comporta che le relative disposizioni entrano a far parte della «lex specialis» della procedura di evidenza pubblica, senza necessità che la cogenza delle relative prescrizioni venga prevista nel bando o nel disciplinare (Cons. di stato, sez VI, 13.06.2008, n. 2959; sez. V, 31.01.2012 n. 467)
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Luna park.
Sulla necessità del permesso di costruire per la realizzazione di un complesso di strutture da adibire a luna park, trattandosi di attività produttiva all'aperto caratterizzata dalla durata nel tempo (almeno un anno) come desumibile dal contratto di locazione dell'area (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.07.2014 n. 30564 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' onerosa la costruzione di una R.S.A. da parte della parrocchia.
La RSA [residenza sanitario-assistenziale, vale a dire una Casa di Riposo, struttura residenziale per l’accoglienza di persone anziane normalmente non autosufficienti] non è puramente e semplicemente una struttura sanitaria, per cui non può annoverarsi fra le opere di urbanizzazione secondaria.
Infatti, la Casa di Riposo non ha carattere esclusivamente sanitario (al pari, ad esempio, di una azienda ospedaliera), ma appaiono invece centrali le attività assistenziali e ricettive, per cui non può essere considerata puramente e semplicemente una “attrezzatura sanitaria”, vale a dire un’opera di urbanizzazione secondaria la cui realizzazione non è soggetta a contributo di costruzione ai sensi del più volte citato art. 17 del Testo Unico dell’Edilizia.
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Inoltre, neppure sussiste l’ulteriore requisito al quale la lettera c) del menzionato art. 17 dpr 380/2001 subordina l’esenzione dal contributo di costruzione.
Tale requisito richiede il concorso di due presupposti, vale a dire l’ascrivibilità del manufatto alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale e l’esecuzione delle opere da parte di enti pubblici istituzionalmente competenti ovvero di privati concessionari dell’ente pubblico.
Nel caso di specie, anche a volere ammettere la natura di opera di interesse generale della RSA, manca però l’ulteriore condizione della realizzazione da parte dell’ente pubblico o di un soggetto legato al medesimo, quale ad esempio un concessionario di opera pubblica.
Infatti, il terreno sul quale insiste la RSA è di proprietà della Parrocchia (la quale, al di là del riconoscimento delle finalità meritorie svolte dalle Parrocchie, non è però ente pubblico), mentre la realizzazione è stata attribuita ad un operatore privato, avente natura di imprenditore commerciale ai sensi dell’art. 1 della legge fallimentare (prova ne è il fatto che è intervenuta a carico dell’operatore medesimo la dichiarazione di fallimento).

Nel primo mezzo di gravame, viene lamentata la violazione degli articoli 43 della legge regionale della Lombardia 12/2005 e dell’art. 17 del DPR 380/2001, in quanto, secondo parte ricorrente, l’opera di cui è causa non sarebbe soggetta ad alcun contributo di costruzione, rientrando nella fattispecie dell’art. 17, comma 3°, lettera c), del DPR 380/2001, in forza del quale non è dovuto il contributo di costruzione <<per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici>>.
La norma prevede due diverse condizioni di esenzione, vale a dire la qualificazione come opera di urbanizzazione secondaria oppure la realizzazione per finalità di interesse generale da parte di enti pubblici o soggetti equiparati.
L’esponente rileva come l’originaria concessione edilizia del 2001 (cfr. il doc. 13 del ricorrente), poi decaduta, fosse stata rilasciata senza pagamento di alcun contributo, vale a dire ai sensi dell’art. 9 della legge 10/1977 (il cui contenuto è stato poi sostanzialmente riproposto dall’art. 17 sopra citato).
Si rimarca, ancora, che l’opera risponde ad evidenti finalità di interesse generale e che, in ogni caso, dovrebbe essere reputata opera di urbanizzazione secondaria, stante la disciplina dell’art. 44 della legge regionale 12/2005, che annovera fra le urbanizzazioni secondarie, le <<attrezzature sanitarie>>.
La tesi di parte ricorrente, per quanto suggestiva e ben argomentata, non appare convincente.
La struttura di cui è causa costituisce una RSA (residenza sanitario-assistenziale), vale a dire una Casa di Riposo, struttura residenziale per l’accoglienza di persone anziane normalmente non autosufficienti, alle quali sono garantiti interventi socio-sanitari per migliorare i livelli di autonomia, promuoverne il benessere e curare le patologie da cui sono afflitte.
All’interno delle Case di Riposo, sono erogate sia prestazioni di carattere strettamente sanitario e di cura, sia prestazioni avente invece carattere assistenziale e financo alberghiero, per la soddisfazione dei quotidiani bisogni dell’anziano.
Si ricordi anche che la distinzione fra attività sanitaria, finalizzata alla tutela del diritto alla salute e attività assistenziale assume rilievo anche a livello costituzionale (cfr. gli articoli 32 e 38 della Costituzione).
Ciò premesso, la Casa di Riposo non ha carattere esclusivamente sanitario (al pari, ad esempio, di una azienda ospedaliera), ma appaiono invece centrali le attività assistenziali e ricettive, per cui non può essere considerata puramente e semplicemente una “attrezzatura sanitaria”, vale a dire un’opera di urbanizzazione secondaria la cui realizzazione non è soggetta a contributo di costruzione ai sensi del più volte citato art. 17 del Testo Unico dell’Edilizia (cfr. sul punto TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 03.07.2012, n. 466).
Sul punto occorre avere riguardo anche alle concrete caratteristiche costruttive dell’opera, nella quale prevalgono le camere con annesso bagno, trattandosi di struttura essenzialmente ricettiva, come desumibile dalle planimetrie catastali (cfr. il doc. 6 del resistente, nel quale a pag. 1 è indicata la categoria catastale B01, vale a dire “Collegi e convitti, educandati; ricoveri; orfanotrofi; ospizi; conventi”, mentre agli ospedali e case di cura è attribuita la categoria catastale B02).
In conclusione, la RSA non è puramente e semplicemente una struttura sanitaria, per cui non può annoverarsi fra le opere di urbanizzazione secondaria.
Inoltre, neppure sussiste l’ulteriore requisito al quale la lettera c) del menzionato art. 17 subordina l’esenzione dal contributo di costruzione.
Tale requisito richiede il concorso di due presupposti, vale a dire l’ascrivibilità del manufatto alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale e l’esecuzione delle opere da parte di enti pubblici istituzionalmente competenti ovvero di privati concessionari dell’ente pubblico (così, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 3.10.2005, n. 5246).
Nel caso di specie, anche a volere ammettere la natura di opera di interesse generale della RSA, manca però l’ulteriore condizione della realizzazione da parte dell’ente pubblico o di un soggetto legato al medesimo, quale ad esempio un concessionario di opera pubblica.
Infatti, il terreno sul quale insiste la RSA è di proprietà della Parrocchia di San Giorgio (la quale, al di là del riconoscimento delle finalità meritorie svolte dalle Parrocchie, non è però ente pubblico), mentre la realizzazione è stata attribuita ad un operatore privato, avente natura di imprenditore commerciale ai sensi dell’art. 1 della legge fallimentare (prova ne è il fatto che è intervenuta a carico dell’operatore medesimo la dichiarazione di fallimento).
Non muta la situazione, la circostanza dell’intervenuta sottoscrizione della convenzione del 18.10.2011 fra Comune, Parrocchia e ICOS Coop. Sociale a r.l. (cfr. il doc. 7 del ricorrente e del resistente).
La convenzione non ha –infatti– attribuito ad ICOS la natura di concessionario del Comune, visto che ICOS opera comunque in virtù della delega ricevuta dalla Parrocchia; nell’atto convenzionale sono posti invece a carico dell’operatore privato taluni obblighi verso il Comune (inserimento lavorativo di personale residente, priorità di ricovero degli anziani residenti ed erogazione di servizio mensa e fisioterapia a favore degli anziani residenti), ma tali obbligazioni attengono tutte ad una fase successiva a quella di esecuzione dell’opera, esecuzione effettuata a cura esclusiva del privato imprenditore su terreno di altro soggetto privato.
Quanto alla circostanza che la concessione edilizia del 2001 fu rilasciata senza pagamento di oneri concessori, si tratta tutt’al più di un errore degli uffici; in ogni caso tale concessione è scaduta, per cui –doverosamente, preme aggiungere– gli uffici comunali hanno valutato nuovamente la questione al momento di presentazione della DIA del 2008 (cfr. il doc. 2 del ricorrente).
Neppure assume rilevo la deroga allo strumento urbanistico per consentire una maggiore altezza della struttura, deroga disposta con deliberazione di Consiglio Comunale n. 2 del 2008 (cfr. il doc. 1 del ricorrente).
Infatti, il rilascio di un titolo edilizio in deroga, ai sensi dell’art. 40 della legge regionale 12/2005, non implica necessariamente –non essendovi alcuna norma al riguardo– che l’edificio o impianto in deroga non debba essere assoggettato a contributo concessorio.
In conclusione, deve respingersi il primo mezzo di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.07.2014 n. 1827 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Individuazione terreni boschivi vincolati.
In tema di tutela del paesaggio ed al fine di individuare i terreni boschivi protetti da vincolo va qualificato come bosco, alla luce della speciale normativa di settore (art. 2 del D.Lgs. 227/2001) qualsiasi terreno coperto da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, con il limite spaziale di una estensione non inferiore a 2000 mq., con larghezza media non inferiore a mt. 20 e con copertura per l’intera superficie non inferiore al 20% (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2014 n. 30303 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposti di efficacia del permesso in sanatoria.
I presupposti per attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, sussistono solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione della domanda, con la conseguenza che detta vicenda estintiva non può prodursi se sia necessario procedere ad ulteriori interventi che riconducano i lavori realizzati a tale doppia conformità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2014 n. 30275 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAVa abbattuto il piano sopraelevato senza titolo. Il principio resta. anche dopo il decreto del fare.
Chi ha sopraelevato un piano del fabbricato senza titolo deve abbatterlo anche dopo il decreto fare. Il dl 69/2013 ha sì modificato il testo unico dell'edilizia cancellando la necessità di rispettare la sagoma della costruzione ma non ha attenuato le altre regole, anzi le ha rinforzate: tutti gli interventi che comportano un incremento dei volumi restano ristrutturazioni edilizie e dunque impongono la titolarità del permesso di costruire.

Lo precisa il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, con la sentenza 10.07.2014 n. 3867.
Cubature e destinazioni
Niente da fare per la famiglia napoletana che ha costruito un intero piano senza autorizzazione: dopo il rapporto dei vigili urbani l'opera dovrà essere demolita. Evidente l'aumento dei volumi, il manufatto realizzato non può rientrare nell'ambito della ristrutturazione edilizia assentibile con Dia. E soprattutto è inutile invocare il decreto legge 69/2013. È vero: il legislatore ha modificato la lettera d) del comma 1 dell'art. 3 del testo unico dell'edilizia e risulta scomparso il riferimento alla necessità di rispettare la sagoma preesistente dell'edificio.
Ma devono essere considerati interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli che consistono nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente: si tratta pur sempre di modifiche rilevanti. E deve sempre considerarsi nuova costruzione la realizzazione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente (lettera e.1 del comma 1 dell'art. 3 del Testo unico).
Insomma: resta la necessità del rilascio del permesso di costruire quando l'immobile da ricostruire ha una diversa volumetria, al di là del fatto che si verifichi la circostanza concorrente del mutamento della destinazione d'uso. Il concetto di ristrutturazione edilizia resta distinto dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda (nella ristrutturazione), quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito.
E c'è anche le modifiche dei prospetti o delle superfici, oltre che del volume, fa in modo che l'opera rientri fra le ristrutturazioni soggette a permesso di costruire (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).

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La giurisprudenza ha chiarito che, nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi abbiano interessato un edificio del quale, all'esito degli stessi, rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduce nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali.
Si è quindi precisato che il concetto di ristrutturazione edilizia resta distinto dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda (nella ristrutturazione), quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito.
Con la conseguenza che l’opera si palesa pertanto assoggettata al regime del permesso di costruire, in quanto l’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 06.06.2001 n. 380, indica come interventi soggetti al permesso di costruire quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio anche in parte diverso dal precedente, che comportino, come nel caso di specie, aumento modifiche del volume (oppure dei prospetti o delle superfici).
La necessità di rispettare l’originaria volumetria risulta viepiù rinforzata alla luce delle modifiche di recente apportate al T.U. dell’edilizia dal decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (cd decreto del fare), con cui il legislatore (mediante la modifica della lettera d) del citato comma 1 dell’art. 3 del T.U. dell’edilizia) ha considerando fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche gli interventi «consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente», senza fare più riferimento al rispetto della sagoma precedente.
Ed invero resta fermo che deve sempre considerarsi nuova costruzione «la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente» (lettera e.1 del comma 1 dell’art. 3 del T.U.) e resta ferma quindi la necessità del rilascio del permesso di costruire quando l’immobile ricostruendo ha una diversa volumetria, in disparte la concorrente circostanza relativa al mutamento della destinazione d’uso.
Facendo applicazione di tali principi l’intervento edilizio concernete il piano in sopraelevazione deve inevitabilmente qualificarsi come di nuova costruzione.

3.1. Portata dirimente rivesta la corretta qualificazione dell’intervento effettuato in sopraelevazione dal ricorrente ed oggetto di demolizione.
In primo luogo vale considerare che l’aumento di volume, pacificamente sussistente (mediante la sopraelevazione, la modifica della sagoma e del i volumi) non consente di annoverare l’intervento nell’ambito della ristrutturazione edilizia assentibile con Dia.
3.2. Al di là del tenore letterale dell’articolo 124 del regolamento comunale, ai fini della distinzione fra nuova costruzione e ristrutturazione edilizia debba farsi riferimento alle disposizioni contenute nel T.U. dell’edilizia che di tali nozioni danno la definizione e ne individuano i limiti.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, nel testo precedente le modifiche apportate dal D.L. 21.06.2013, n. 69 (e quindi all’epoca vigente), sono «interventi di ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica».
Ai sensi della successiva lettera e) sono «interventi di nuova costruzione, quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da considerarsi tali: e.1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6) ….».
3.3. Sulla base di tali definizioni la giurisprudenza ha chiarito che, nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi abbiano interessato un edificio del quale, all'esito degli stessi, rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduce nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3221 dell’11.06.2013).
3.4. Si è quindi precisato che il concetto di ristrutturazione edilizia resta distinto dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda (nella ristrutturazione), quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3278 del 13.06.2013).
Con la conseguenza che l’opera si palesa pertanto assoggettata al regime del permesso di costruire, in quanto l’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 06.06.2001 n. 380, indica come interventi soggetti al permesso di costruire quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio anche in parte diverso dal precedente, che comportino, come nel caso di specie, aumento modifiche del volume (oppure dei prospetti o delle superfici).
3.5. La necessità di rispettare l’originaria volumetria risulta viepiù rinforzata alla luce delle modifiche di recente apportate al T.U. dell’edilizia dal decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (cd decreto del fare), con cui il legislatore (mediante la modifica della lettera d) del citato comma 1 dell’art. 3 del T.U. dell’edilizia) ha considerando fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche gli interventi «consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente», senza fare più riferimento al rispetto della sagoma precedente.
Ed invero resta fermo che deve sempre considerarsi nuova costruzione «la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente» (lettera e.1 del comma 1 dell’art. 3 del T.U.) e resta ferma quindi la necessità del rilascio del permesso di costruire quando l’immobile ricostruendo ha una diversa volumetria, in disparte la concorrente circostanza relativa al mutamento della destinazione d’uso.
Facendo applicazione di tali principi l’intervento edilizio concernete il piano in sopraelevazione deve inevitabilmente qualificarsi come di nuova costruzione (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 10.07.2014 n. 3867).

ESPROPRIAZIONE: L'articolo 1158 del codice civile prevede che “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Orbene, nelle vicende come quelle in esame, in cui sia avviato ma non concluso un procedimento espropriativo, l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione, ossia la trasformazione della mera detenzione in possesso, si verifica subito dopo la scadenza del termine massimo di occupazione legittima del bene, atteso che l’apprensione e la detenzione dello stesso in virtù di provvedimento di occupazione di urgenza (che comporta la corresponsione di una indennità in favore del privato), implicando il riconoscimento del diritto dominicale di quest’ultimo, non integra l’elemento possessorio necessario per l’acquisto della proprietà.
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La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, in virtù del rinvio fatto dall’articolo 1165 cc all’art. 2943 cc, risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, onde non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, con la conseguenza che tale efficacia può riconoscersi solo ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure ad atti giudiziali diretti ad ottenere ope iudicis la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente, come la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni immobili in ordine ai quali si vanti un diritto dominicale.
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Si è, poi, affermato:
- che gli atti di diffida e messa in mora sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine utile per usucapire, potendosi esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale;
- che in tema di atti interruttivi del termine per usucapire, non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare;
- che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il principio di cui all’art. 1310 cc trova applicazione in materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali, per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi invece farsi riferimento ai singoli comportamenti dei compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere.

Ciò posto, si osserva che l’articolo 1158 del codice civile prevede che “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Orbene, nelle vicende come quelle in esame, in cui sia avviato ma non concluso un procedimento espropriativo, l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione, ossia la trasformazione della mera detenzione in possesso, si verifica subito dopo la scadenza del termine massimo di occupazione legittima del bene, atteso che l’apprensione e la detenzione dello stesso in virtù di provvedimento di occupazione di urgenza (che comporta la corresponsione di una indennità in favore del privato), implicando il riconoscimento del diritto dominicale di quest’ultimo, non integra l’elemento possessorio necessario per l’acquisto della proprietà (cfr. TAR Puglia, Lecce, II, 02.11.2011, n. 1913; CGA Sicilia, 14.01.2013, n. 9).
Nella vicenda in esame la scadenza del termine di occupazione legittima si colloca alla data del 30.12.1989, come accertato sia dal Tribunale di Vallo della Lucania (con la sentenza n. 33 del 2003) sia dalla Corte di Appello di Salerno ( con la sentenza n. 761/2011) nel giudizio civile svoltosi tra il Torrusio ed il Comune di Vallo della Lucania, avente ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione appropriativa e conclusosi con il rigetto della domanda attorea.
Di conseguenza, risultando il 31.12.1989 il dies a quo per il calcolo del possesso ventennale ad usucapionem, la maturazione del termine previsto dall’articolo 1958 c.c. si è verificata in data 01.01.2010, dunque in epoca ben anteriore alla proposizione del presente ricorso, notificato solo il 19.01.2012.
Né, d’altra parte, vengono dedotti in giudizio elementi utili a ritenere che, durante il suddetto arco temporale, la pubblica amministrazione non abbia avuto, in relazione al suolo per cui è causa, un possesso non interrotto, pacifico, pubblico e non equivoco.
Invero, nel ricorso introduttivo si precisa che, a seguito del decreto sindacale di occupazione del 25.11.1983, lo IACP prendeva possesso del fondo in data 30.12.1983 e che “i successivi lavori di realizzazione dell’intervento di edilizia popolare venivano appaltati alla CoGePa e collaudati in data 02.03.1989… e che pertanto alla scadenza del termine di fine lavori indicato nella delibera 1666 del 22.11.1983 dello IACP di Salerno ( 5 anni dalla presa di possesso delle aree, avvenuta il 30.12.1983) si era già verificata l’irreversibile trasformazione del bene”.
Ritiene, di poi, il Tribunale che dagli atti depositati in giudizio e dalle emergenze di causa non emerge l’esistenza di atti interruttivi del predetto termine ventennale utile all’acquisto della proprietà per usucapione.
Con riferimento a tale questione, invero, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, in virtù del rinvio fatto dall’articolo 1165 cc all’art. 2943 cc, risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, onde non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge (cfr. Cass. civ. II, 20.01.2014, n. 1071), con la conseguenza che tale efficacia può riconoscersi solo ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure ad atti giudiziali diretti ad ottenere ope iudicis la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente, come la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni immobili in ordine ai quali si vanti un diritto dominicale (cfr. Cass. civ., II, 06.05.2014, n. 9682).
Si è, poi, affermato:
- che gli atti di diffida e messa in mora sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine utile per usucapire, potendosi esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale (Cass. II, n. 9682/2014);
- che in tema di atti interruttivi del termine per usucapire, non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare (cfr. Cass. civ., II, 28.11.2013, n. 26641);
- che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il principio di cui all’art. 1310 cc trova applicazione in materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali, per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi invece farsi riferimento ai singoli comportamenti dei compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere (cfr. Cass. civ., II, 25.10.2013, n. 24165) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.07.2014 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe opere oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione, per caratteristiche e (pur modeste) dimensioni (ndr: baracca in lamiera di modeste dimensioni adibita a rimessa attrezzi e ricovero animali), debbono ritenersi oggi sottoposte al permesso a costruire (e a concessione edilizia quanto al regime prendente l’entrata in vigore del D.p.r. 06.06.2001 n. 380) in quanto suscettibili di arrecare comunque una trasformazione del territorio e non precarie, secondo la oramai pacifica nozione di precarietà invalsa presso la giurisprudenza.
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Come noto, la giurisprudenza anche di questo Tribunale è consolidata nel porre (in materia di abusivismo edilizio) a carico del ricorrente l’onere della prova circa il periodo di realizzazione del manufatto, in modo ragionevolmente certo.
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Ritiene il Collegio nella fattispecie per cui è causa di poter riconoscere nei confronti del ricorrente la sussistenza di un affidamento tutelabile ingenerato dall’inerzia nell’esercizio del potere repressivo, che doveva essere adeguatamente tenuto in considerazione allorquando l’Amministrazione si è determinata ad ordinare la demolizione.
Infatti dalla documentazione depositata in giudizio emerge come anche in sede di riunioni effettuate nella sede comunale alla presenza dei vari enti pubblici interessati (verbale del 18.02.2002) fosse ben presente il problema della presenza da lungo tempo e comunque prima del 1967 di manufatti per il ricovero del bestiame, come ammesso dallo stesso consulente legale del Comune seppur in riferimento alla generalità dei manufatti esistenti in loco.
Non ignora affatto il Collegio come secondo un diffuso e prevalente orientamento giurisprudenziale anche dell’adito Tribunale, l’attività di repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata, non soggetta a termini potendo intervenire anche a notevole distanza di tempo, né comportante la necessità di alcuna ponderazione e motivazione in ordine all'interesse pubblico perseguito.
In particolare viene evidenziato il carattere permanente degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, potendo il potere sanzionatorio anche in forma ripristinatoria essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo, reprimendo l'Amministrazione una situazione antigiuridica contestualmente contra jus, ancora sussistente.
L'orientamento suesposto, pur se prevalente, non è oggi comunque pacifico, dal momento che anche in materia edilizia la più recente giurisprudenza non ha mancato di contemperare il pur rilevante potere repressivo con il consolidarsi di posizioni di affidamento meritevoli di tutela per effetto del protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
La giurisprudenza di questo Tribunale è pacifica nell’interpretare restrittivamente la rilevanza del decorso del tempo in ordine alla tutela dell’affidamento al mantenimento dell’opera abusivamente realizzata, subordinandosi tale rilevanza al “rigoroso accertamento di molteplici presupposti, tra cui la prova, di cui è onerata la parte ricorrente, del periodo di realizzazione del manufatto in modo ragionevolmente certo”.
Se quindi non può negarsi tout court qualsivoglia affidamento meritevole di tutela allorquando sia trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso e la risposta sanzionatoria, nella fattispecie può riconoscersi la sussistenza di affidamento tutelabile, poiché pur non risultando dimostrato l’esatto periodo di realizzazione, emerge un quadro indiziario (art. 2729 c.c.) volto a collocarlo con ragionevole probabilità negli anni sessanta/settanta e comunque prima dell’istituzione del Parco Nazionale dei Monti Sibillini avvenuta con legge n. 67/1988.
Tale quadro indiziario è dunque sufficiente, nel caso di specie, a dimostrare la circostanza circa il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione e l’intervento sanzionatorio, presupposto dell’affidamento di cui si invoca tutela. Mette poi conto evidenziare le modeste dimensioni del manufatto de quo, come risultante dalla stessa documentazione fotografica depositata dal Comune resistente.
Conclusivamente, in considerazione dell’inerzia dell’autorità comunale e della modesta entità dell’abuso, comunque realizzato ben prima dell’istituzione del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, risultano meritevoli di condivisione le censure di cui al II motivo di ricorso, dal momento che l’ordinanza gravata omette di effettuare qualsivoglia contemperamento tra l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso e l’affidamento del ricorrente al mantenimento dell’opera pur abusiva stante la lunga inerzia nell’esercizio del potere repressivo.

... per l'annullamento, previa sospensiva, dell’ordinanza del Sindaco di Norcia e del Responsabile dell’Ufficio Urbanistica n. 16 del 06/09/2002 prot. n. 10274 notificata l’11/09/2002, con la quale è stato disposto l’annullamento dell’ordinanza sindacale n. 54 del 17/05/1996 prot. 5659 ed è stata ordinata al ricorrente la demolizione di una baracca sita in località “Pratacce” di Castelluccio.
...
E’ materia del contendere la legittimità dell’ordinanza n. 16 del 06.09.2002 emanata dal Comune di Norcia, avente ad oggetto l’ordine di demolizione intimato ad Oreste Cappelli di una baracca in lamiera di modeste dimensioni adibita a rimessa attrezzi e ricovero animali, realizzata “in epoca remota” seppur incerta.
2. Preliminarmente, il Collegio non ravvisa la necessità di procedere alla riunione, ai sensi dell’art. 70 cod. proc. amm., con il ricorso RG 700/1996 avente ad oggetto l’impugnativa della precedente ordinanza 54/1996, risultando quest’ultima annullata in autotutela dall’ordinanza oggetto del presente giudizio impugnatorio.
3. Il ricorso è fondato e va accolto.
3.1. Deve premettersi che le opere oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione, per caratteristiche e (pur modeste) dimensioni, debbano ritenersi oggi sottoposte al permesso a costruire (e a concessione edilizia quanto al regime prendente l’entrata in vigore del D.p.r. 06.06.2001 n. 380) in quanto suscettibili di arrecare comunque una trasformazione del territorio e non precarie, secondo la oramai pacifica nozione di precarietà invalsa presso la giurisprudenza (ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
Come correttamente prospettato dalla difesa comunale non può disconoscersi l’abusività del manufatto in questione, sia per la documentata regolamentazione da parte del Comune di Norcia sin dall’anno 1935 tesa ad imporre titoli abilitativi edilizi a tutela delle esigenze di pubblico ornato, sia per il mancato assolvimento da parte del ricorrente dell’onere di fornire elementi probatori univoci in merito alla presunta data di realizzazione.
Sotto il primo profilo, la difesa comunale ha effettivamente depositato la delibera del Commissario prefettizio del 06.07.1935 ed il regolamento sul Pubblico Ornato ai sensi degli artt. 3 e 4 del R.D. n. 640 del 1935 richiedenti apposita autorizzazione del Podestà per la realizzazione di nuove costruzioni.
Sotto il secondo profilo, l’affermazione del ricorrente circa la presunta realizzazione del manufatto “sin dalla metà degli anni sessanta” appare non suffragata da univoci elementi probatori, al di fuori di quanto genericamente dichiarato dal Corpo Forestale dello Stato con la nota del 23.11.1994, in cui si attestava la realizzazione “in epoca remota”.
Come noto, la giurisprudenza anche di questo Tribunale è consolidata (TAR Umbria 18.08.2009, n. 492; id. 18.03.2008, n. 102; id. 13.05.2013, n. 293) nel porre in subiecta materia a carico del ricorrente l’onere della prova circa il periodo di realizzazione del manufatto, in modo ragionevolmente certo.
Nel caso di specie, risulta carente di riscontri l’asserita realizzazione dell’opera nel periodo antecedente l’entrata in vigore della legge n. 765/1967, pur allegando parte ricorrente quanto meno elementi circa l’avvenuta realizzazione della baracca “in epoca remota” (giusta la citata nota della Guardia di Finanza) che pur se di contenuto generico non è irrilevante, come si dirà, in punto di sussistenza di un affidamento tutelabile.
3.2. Non può pertanto dirsi provata la circostanza in merito alla presunta realizzazione del manufatto nella metà degli anni sessanta vale a dire in periodo antecedente l’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765, con conseguente infondatezza di tutte le doglianze mosse al I motivo di gravame.
3.3. Parimenti prive di pregio risultano le censure di cui al III motivo di gravame, per l’assorbente considerazione che risulta priva di senso logico-giuridico il riferimento alla presunta sanabilità dell’opera, in considerazione del carattere formale dell’abuso, in assenza di documentata istanza proveniente da parte dell’interessato, non potendo mai l’Amministrazione procederne all’esame in via ufficiosa (ex plurimis TAR Campania-Napoli sez. VII, 10.01.2014, n.166).
3.4. Tanto premesso, ritiene il Collegio nella fattispecie per cui è causa di poter riconoscere nei confronti del ricorrente la sussistenza di un affidamento tutelabile ingenerato dall’inerzia nell’esercizio del potere repressivo, che doveva essere adeguatamente tenuto in considerazione allorquando l’Amministrazione si è determinata ad ordinare la demolizione.
Infatti dalla documentazione depositata in giudizio emerge come anche in sede di riunioni effettuate nella sede comunale alla presenza dei vari enti pubblici interessati (verbale del 18.02.2002) fosse ben presente il problema della presenza da lungo tempo e comunque prima del 1967 di manufatti per il ricovero del bestiame nel Pian Grande di Castelluccio di Norcia, come ammesso dallo stesso consulente legale del Comune seppur in riferimento alla generalità dei manufatti esistenti in loco.
Non ignora affatto il Collegio come secondo un diffuso e prevalente orientamento giurisprudenziale anche dell’adito Tribunale, l’attività di repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata, non soggetta a termini potendo intervenire anche a notevole distanza di tempo, né comportante la necessità di alcuna ponderazione e motivazione in ordine all'interesse pubblico perseguito (ex plurimis TAR Veneto sez II, 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia-Lecce 08.04.2010, n. 907; TAR Emilia-Romagna Bologna, 01.09.2006, n. 1729; Consiglio Stato, sez. IV, 16.04.2010, n. 2160).
In particolare viene evidenziato il carattere permanente degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, potendo il potere sanzionatorio anche in forma ripristinatoria essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo, reprimendo l'Amministrazione una situazione antigiuridica contestualmente contra jus, ancora sussistente (su tutte Consiglio Stato, sez. IV, 16.04.2010, n. 2160).
L'orientamento suesposto, pur se prevalente, non è oggi comunque pacifico, dal momento che anche in materia edilizia la più recente giurisprudenza non ha mancato di contemperare il pur rilevante potere repressivo con il consolidarsi di posizioni di affidamento meritevoli di tutela per effetto del protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (TAR Campania Napoli, sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; TAR Toscana Firenze sez III, 30.07.2010, n. 3268; TAR Piemonte sez I, 16.07.2010, n. 3131).
La giurisprudenza di questo Tribunale è pacifica (TAR Umbria 18.08.2009, n. 492; id. 18.03.2008, n. 102; id. 13.05.2013, n. 293) nell’interpretare restrittivamente la rilevanza del decorso del tempo in ordine alla tutela dell’affidamento al mantenimento dell’opera abusivamente realizzata, subordinandosi tale rilevanza al “rigoroso accertamento di molteplici presupposti, tra cui la prova, di cui è onerata la parte ricorrente, del periodo di realizzazione del manufatto in modo ragionevolmente certo”. Se quindi non può negarsi tout court qualsivoglia affidamento meritevole di tutela allorquando sia trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso e la risposta sanzionatoria, nella fattispecie può riconoscersi la sussistenza di affidamento tutelabile, poiché pur non risultando dimostrato l’esatto periodo di realizzazione, emerge un quadro indiziario (art. 2729 c.c.) volto a collocarlo con ragionevole probabilità negli anni sessanta/settanta e comunque prima dell’istituzione del Parco Nazionale dei Monti Sibillini avvenuta con legge n. 67/1988.
Tale quadro indiziario è dunque sufficiente, nel caso di specie, a dimostrare la circostanza circa il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione e l’intervento sanzionatorio, presupposto dell’affidamento di cui si invoca tutela. Mette poi conto evidenziare le modeste dimensioni del manufatto de quo, come risultante dalla stessa documentazione fotografica depositata dal Comune resistente.
Conclusivamente, in considerazione dell’inerzia dell’autorità comunale e della modesta entità dell’abuso, comunque realizzato ben prima dell’istituzione del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, risultano meritevoli di condivisione le censure di cui al II motivo di ricorso, dal momento che l’ordinanza gravata omette di effettuare qualsivoglia contemperamento tra l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso e l’affidamento del ricorrente al mantenimento dell’opera pur abusiva stante la lunga inerzia nell’esercizio del potere repressivo (TAR Umbria, sentenza 10.07.2014 n. 379 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Natura del reato di illecita gestione e trasporto in forma ambulante.
1. La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità;
2. La deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114 e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2014 n. 29992 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150 ha introdotto una normativa complessa diretta a disciplinare in modo organico e specifico le attività urbanistiche ed edilizie, fino ad allora trattate in modo disorganico e frammentario, disciplinando "l'assetto e l'incremento edilizio dei centri abitati o Io sviluppo urbanistico in genere del territorio dello Stato" (art. 1).
La legge predetta non si limitava più a prevedere la facoltà riconosciuta ai Comuni di compilare, in presenza di circostanze particolari, piani di ricostruzioni e di ampliamento dell'abitato, ma assoggettava a pianificazione l'intero territorio comunale (che doveva essere suddiviso in zone funzionali diverse, a seconda della destinazione d'uso dei terreni) e introdusse una nuova distinzione nell'ambito della pianificazione, individuando i piani territoriali di coordinamento (art. 5), i piani regolatori generali (artt. 7 e 8), i piani regolatori generali intercomunali (art. 12) e i piani regolatori particolareggiati di esecuzione (art. 13).
Con riguardo all'attività costruttiva edilizia, la legge urbanistica disciplinava compiutamente le modalità di richiesta e di rilascio della licenza di costruzione (art. 31), facendo obbligo a chiunque nei centri abitati e, in presenza di un piano regolatore comunale, anche nelle zone di espansione dell'aggregato urbano previste e regolamentate dal piano stesso, intendesse eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto, di chiedere apposita licenza al sindaco (art. 31, comma 1).
Il rilascio della licenza edilizia era prescritto per le sole edificazioni realizzate nei centri abitati e, in presenza di piano regolatore, anche nelle zone di espansione.

... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione lavori e rimessa in pristino dello stato dei luoghi n. 6795 prot. int. n. 35767 in data 05.11.2012, notificata il successivo 7 novembre, con cui il Comune di Fossano - Dipartimento Tecnico Lavori Pubblici / Urbanistica / Ambiente Servizio Edilizia Privata e Convenzionata ha ordinato ai ricorrenti la demolizione della stalla con soprastante fienile ed il ripristino dello stato dei luoghi;
...
La legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150 ha introdotto una normativa complessa diretta a disciplinare in modo organico e specifico le attività urbanistiche ed edilizie, fino ad allora trattate in modo disorganico e frammentario, disciplinando "l'assetto e l'incremento edilizio dei centri abitati o Io sviluppo urbanistico in genere del territorio dello Stato" (art. 1).
La legge predetta non si limitava più a prevedere la facoltà riconosciuta ai Comuni di compilare, in presenza di circostanze particolari, piani di ricostruzioni e di ampliamento dell'abitato, ma assoggettava a pianificazione l'intero territorio comunale (che doveva essere suddiviso in zone funzionali diverse, a seconda della destinazione d'uso dei terreni) e introdusse una nuova distinzione nell'ambito della pianificazione, individuando i piani territoriali di coordinamento (art. 5), i piani regolatori generali (artt. 7 e 8), i piani regolatori generali intercomunali (art. 12) e i piani regolatori particolareggiati di esecuzione (art. 13).
Con riguardo all'attività costruttiva edilizia, la legge urbanistica disciplinava compiutamente le modalità di richiesta e di rilascio della licenza di costruzione (art. 31), facendo obbligo a chiunque nei centri abitati e, in presenza di un piano regolatore comunale, anche nelle zone di espansione dell'aggregato urbano previste e regolamentate dal piano stesso, intendesse eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto, di chiedere apposita licenza al sindaco (art. 31, comma 1).
Il rilascio della licenza edilizia era prescritto per le sole edificazioni realizzate nei centri abitati e, in presenza di piano regolatore, anche nelle zone di espansione (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 08.07.2014 n. 1169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte costituzionale ha affermato "che, invero, gli oneri di concessione potrebbero, in teoria, essere ancorati alle tariffe vigenti, alternativamente, al momento in cui l'abuso è iniziato, al momento in cui l'immobile abusivo è completato, al momento dell'entrata in vigore della normativa statale sul condono, al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale sul condono, al momento in cui è stata effettuata la richiesta di condono o, infine, al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria” e “che, in tale contesto di pluralità di soluzioni, la scelta del legislatore regionale di privilegiare l'interesse pubblico all'adeguatezza della contribuzione ai costi reali da sostenere rispetto a quello, ad esso antitetico, del cittadino alla sua piena previsione dei costi al momento della formazione del consenso -ugualmente meritevole di protezione- sembra essere il frutto di una scelta discrezionale implicante un bilanciamento di interessi che può solo essere effettuato dal legislatore”.
Sulla scorta di tali parametri, è quindi del tutto coerente il richiamo a una giurisprudenza amministrativa che afferma che l’obbligazione di pagamento degli oneri concessori sorge con il rilascio della concessione edilizia e la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la determinazione del contributo dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al momento in cui sorge l’obbligazione, dove si prosegue affermando che “in tale contesto, il considerevole lasso di tempo decorso tra la presentazione della domanda di sanatoria ed il rilascio della concessione non può essere utilmente valorizzato nell’ottica della individuazione di decorrenze del termine per la formazione del silenzio-assenso (e, così, del decorso della prescrizione) diverse da quelle normativamente indicate né per sollecitare una non meglio specificata ‘giusta mediazione’ che tenga conto delle tariffe eventualmente più favorevoli esistenti all’epoca della presentazione della domanda di sanatoria (quanto a quelle vigenti al momento di realizzazione dell’opera abusiva, lo stesso ricorrente riconosce che sarebbe ingiusto agevolare il responsabile)”.
Occorre peraltro evidenziare come appaia ardua l’omologazione tra l’obbligazione nascente dal rilascio del titolo abilitativo in via ordinaria e quella derivante dalla sua adozione in sanatoria, come espressamente notato dalla giurisprudenza.
Si è così affermato che “I contributi di cui all’articolo 11 della L. 10/1977, ed all’art. 1 della L.R. 71/1978, a differenza di altre fattispecie normative, non vengono determinati in via dichiaratamente provvisoria al momento della domanda dell’interessato e quindi non sono necessariamente richiesti salvo conguaglio, come ad esempio nella fattispecie della domanda di concessione in sanatoria (art. 35 L. 47/1995).
La determinazione dei contributi de quibus è stato infatti collocato temporalmente dal legislatore al termine di un lungo e complesso procedimento che ha alla base una espressa dettagliata e circostanziale domanda del privato, cui fa seguito una complessa istruttoria da parte dell’Amministrazione nel corso della quale l’Amministrazione stessa può chiedere all’interessato tutti i chiarimenti e gli ulteriori elementi di cui abbia bisogno.
Il momento del rilascio della concessione non è quindi equiparabile sotto nessun profilo al momento della domanda di concessione in sanatoria.
In quest’ultimo caso l’Amministrazione si trova di fronte ad una attività già posta in essere dal richiedente e ad una richiesta di legittimazione a posteriori di tale attività e non può quindi che riservarsi ad un momento futuro il controllo sulla corrispondenza tra il fatto compiuto e la domanda.
Del tutto diversa è la situazione della concessione in via ordinaria in cui si tratta di legittimare una attività allo stato ancora inesistente ed in cui l’Amministrazione, prima di rimuovere l’ostacolo a tale attività, ha il potere ed il dovere di verifica e di accertamento sotto ogni profilo della legittimità della richiesta del privato.”
Sulla scorta di tale ontologica differenza, la posizione più recente della Sezione è andata nel senso di escludere un automatismo nell’adeguamento temporale alle tariffe successive. Si è allora detto che la determinazione del contributo di concessione in sanatoria, in adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “ai sensi dell'art. 37 l. 28.02.1985 n. 47 e dell'art. 3 l. 28.01.1977 n. 10, la determinazione del contributo di concessione in sanatoria deve effettuarsi con riferimento alle tariffe vigenti al momento della domanda, risultando irrilevante la verifica della regolare formazione del silenzio–assenso sulla relativa domanda.”
A tale impostazione si è attenuto il primo giudice, espressamente evidenziando come “nel caso di condono edilizio, gli oneri di concessione vanno rapportati al momento di ultimazione dell’opera e della presentazione della domanda di sanatoria, e non al momento del rilascio del titolo concessorio”.
Le ragioni così espresse vanno anche in questa sede valorizzate, in quanto coerenti con le differenti funzioni delle obbligazioni collegate al rilascio, in via ordinaria o di sanatoria, del titolo abilitativo e legate alla posizione rispettiva delle parti, anche per valorizzare la prevedibilità degli oneri connessi all’edificazione.

Con un unico motivo di diritto, il Comune appellante lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 37 della legge n. 47 del 1985 e del principio di corrispondenza tra oneri di urbanizzazione e carico urbanistico indotto dall’edificazione.
Premesso che la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di evidenziare che sulla questione della definizione del momento cui ancorare la determinazione degli oneri di concessione non è ravvisabile un orientamento interpretativo consolidato da cui possa ricavarsi un principio fondamentale della legislazione statale secondo cui gli oneri stessi debbano essere determinati con riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria, il Comune evidenzia come rispetto alla pluralità di soluzioni possibili non può non tenersi in considerazione l'interesse pubblico all'adeguatezza della contribuzione ai costi reali da sostenere rispetto a quello, a esso antitetico, del cittadino alla sua piena previsione dei costi al momento della formazione del consenso alla realizzazione dell’opera, facendo quindi prevalere la disciplina esistente in tale momento.
La censura non può essere accolta.
La posizione teorica espressa dal Comune ha sicuramente un suo fondamento, anche in relazione alla valutazione operata dal giudice delle leggi sulla situazione in esame. Infatti, la Corte costituzionale ha affermato (sentenza 17.03.2010 n. 105) “che, invero, gli oneri di concessione potrebbero, in teoria, essere ancorati alle tariffe vigenti, alternativamente, al momento in cui l'abuso è iniziato, al momento in cui l'immobile abusivo è completato, al momento dell'entrata in vigore della normativa statale sul condono, al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale sul condono, al momento in cui è stata effettuata la richiesta di condono o, infine, al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria” e “che, in tale contesto di pluralità di soluzioni, la scelta del legislatore regionale di privilegiare l'interesse pubblico all'adeguatezza della contribuzione ai costi reali da sostenere rispetto a quello, ad esso antitetico, del cittadino alla sua piena previsione dei costi al momento della formazione del consenso -ugualmente meritevole di protezione- sembra essere il frutto di una scelta discrezionale implicante un bilanciamento di interessi che può solo essere effettuato dal legislatore”.
Sulla scorta di tali parametri, è quindi del tutto coerente il richiamo a una giurisprudenza amministrativa che afferma (Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.05.2011, n. 3116) che l’obbligazione di pagamento degli oneri concessori sorge con il rilascio della concessione edilizia e la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la determinazione del contributo dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al momento in cui sorge l’obbligazione, dove si prosegue affermando che “in tale contesto, il considerevole lasso di tempo decorso tra la presentazione della domanda di sanatoria ed il rilascio della concessione non può essere utilmente valorizzato nell’ottica della individuazione di decorrenze del termine per la formazione del silenzio-assenso (e, così, del decorso della prescrizione) diverse da quelle normativamente indicate né per sollecitare una non meglio specificata ‘giusta mediazione’ che tenga conto delle tariffe eventualmente più favorevoli esistenti all’epoca della presentazione della domanda di sanatoria (quanto a quelle vigenti al momento di realizzazione dell’opera abusiva, lo stesso ricorrente riconosce che sarebbe ingiusto agevolare il responsabile)”.
Occorre peraltro evidenziare come appaia ardua l’omologazione tra l’obbligazione nascente dal rilascio del titolo abilitativo in via ordinaria e quella derivante dalla sua adozione in sanatoria, come espressamente notato dalla giurisprudenza. Si è così affermato (da ultimo, CGARS, 27.05.2008 n. 466) che “I contributi di cui all’articolo 11 della L. 10/1977, ed all’art. 1 della L.R. 71/1978, a differenza di altre fattispecie normative, non vengono determinati in via dichiaratamente provvisoria al momento della domanda dell’interessato e quindi non sono necessariamente richiesti salvo conguaglio, come ad esempio nella fattispecie della domanda di concessione in sanatoria (art. 35 L. 47/1995).
La determinazione dei contributi de quibus è stato infatti collocato temporalmente dal legislatore al termine di un lungo e complesso procedimento che ha alla base una espressa dettagliata e circostanziale domanda del privato, cui fa seguito una complessa istruttoria da parte dell’Amministrazione nel corso della quale l’Amministrazione stessa può chiedere all’interessato tutti i chiarimenti e gli ulteriori elementi di cui abbia bisogno.
Il momento del rilascio della concessione non è quindi equiparabile sotto nessun profilo al momento della domanda di concessione in sanatoria.
In quest’ultimo caso l’Amministrazione si trova di fronte ad una attività già posta in essere dal richiedente e ad una richiesta di legittimazione a posteriori di tale attività e non può quindi che riservarsi ad un momento futuro il controllo sulla corrispondenza tra il fatto compiuto e la domanda.
Del tutto diversa è la situazione della concessione in via ordinaria in cui si tratta di legittimare una attività allo stato ancora inesistente ed in cui l’Amministrazione, prima di rimuovere l’ostacolo a tale attività, ha il potere ed il dovere di verifica e di accertamento sotto ogni profilo della legittimità della richiesta del privato
.”
Sulla scorta di tale ontologica differenza, la posizione più recente della Sezione è andata nel senso di escludere un automatismo nell’adeguamento temporale alle tariffe successive. Si è allora detto (Consiglio di Stato, sez. IV, 03.10.2012 n. 5201) che la determinazione del contributo di concessione in sanatoria, in adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “ai sensi dell'art. 37 l. 28.02.1985 n. 47 e dell'art. 3 l. 28.01.1977 n. 10, la determinazione del contributo di concessione in sanatoria deve effettuarsi con riferimento alle tariffe vigenti al momento della domanda, risultando irrilevante la verifica della regolare formazione del silenzio–assenso sulla relativa domanda.”
A tale impostazione si è attenuto il primo giudice, espressamente evidenziando come “nel caso di condono edilizio, gli oneri di concessione vanno rapportati al momento di ultimazione dell’opera e della presentazione della domanda di sanatoria, e non al momento del rilascio del titolo concessorio”.
Le ragioni così espresse vanno anche in questa sede valorizzate, in quanto coerenti con le differenti funzioni delle obbligazioni collegate al rilascio, in via ordinaria o di sanatoria, del titolo abilitativo e legate alla posizione rispettiva delle parti, anche per valorizzare la prevedibilità degli oneri connessi all’edificazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.07.2014 n. 3425 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Nozione di tranquillità pubblica.
La tranquillità pubblica non è concetto astratto. Essa assomma in sé quella delle singole persone che, nei loro vivere quotidiano o nel loro riposo, possano anche solo potenzialmente risentire dell’altrui condotta rumorosa.
Non è dunque bene che si astrae dalla realtà dei singoli e che vive di vita propria; è invece bene che trova nella quiete della pluralità dei singoli la sua ragion d’essere. La sua natura pubblica sta nella diffusività, non nel suo astrarsi dal vivere quotidiano delle persone
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2014 n. 27434 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Dichiarazione di notevole interesse pubblico.
Il delitto paesaggistico è configurabile anche se la dichiarazione di notevole interesse pubblico sia intervenuta con provvedimento emesso ai sensi delle disposizioni previgenti (trattandosi di dichiarazione di notevole interesse pubblico, non è necessaria alcuna notificazione del vincolo ai proprietari o ad altri soggetti interessati).
Inoltre ai fini dell’operatività del decreto ministeriale con cui è stato dichiarato il notevole interesse pubblico dell’area, è sufficiente la mera pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, essendo necessaria la notifica del decreto ai proprietari unicamente con riguardo al vincolo imposto su singoli beni
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2014 n. 26856 - tratto da www.lexambiente.it).

LAVORI PUBBLICI: Il progetto esecutivo deve essere conforme al definitivo e redatto nel pieno rispetto di quest’ultimo: su tale dato (art. 35, comma 1, del dPr n. 554/1999: “il progetto esecutivo costituisce la ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni e, pertanto, definisce compiutamente ed in ogni particolare architettonico, strutturale ed impiantistico l'intervento da realizzare. Restano esclusi soltanto i piani operativi di cantiere, i piani di approvvigionamenti, nonché i calcoli e i grafici relativi alle opere provvisionali. Il progetto è redatto nel pieno rispetto del progetto definitivo nonché delle prescrizioni dettate in sede di rilascio della concessione edilizia o di accertamento di conformità urbanistica, o di conferenza di servizi o di pronuncia di compatibilità ambientale ovvero il provvedimento di esclusione delle procedure, ove previsti.”) non è dato controvertere.
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E' corretta la deduzione del primo giudice secondo la quale non la legittimità, ma l’attuabilità del progetto esecutivo è condizionata all’effettivo perfezionamento del c.d. raccordo urbanistico, stante il chiaro tenore dell’art. 19 ult. co. (“si intende approvata”), che consente di non ritenere attuale il risalente orientamento, discendente dalla antevigente legislazione, secondo il quale è illegittima l'approvazione del progetto esecutivo di una ferrovia metropolitana con un tracciato conforme ad una variante al piano regolatore solo adottata dal comune e non ancora approvata dalla regione.
La vigente legislazione (art. 12 del TU) non ricollega, a differenza della precedente, la nozione di atto comportante la pubblica utilità alla approvazione del progetto esecutivo, ma la ricollega al progetto definitivo (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 04.06.2013, n. 3087: “a norma dell'art. 12, D.P.R. n. 327 del 2001 la dichiarazione di pubblica utilità si intende disposta con l'approvazione o la definizione, da parte dell'autorità procedente, di determinati strumenti, ivi elencati. La dichiarazione di pubblica utilità, pertanto, non richiede una particolare dichiarazione, con la conseguenza che l'eventuale dichiarazione della pubblica utilità delle opere al momento dell'approvazione del progetto esecutivo è un di più, che non può alterare il quadro legale di riferimento e non è suscettibile di inficiare la regolarità e la legittimità della procedura.”).
Ne consegue la non applicabilità del detto risalente orientamento e la correttezza dell’approdo del primo giudice che ha ritenuto che, nella fattispecie in esame, potesse, al più, raffigurarsi una mera irregolarità non viziante e non già il vizio di illegittimità prospettato.

1. L’appello è nel merito infondato e va disatteso.
2. Le doglianze articolate dall’appellante verranno separatamente esaminate.
2.1. La prima censura muove dal consolidato orientamento della giurisprudenza che ancora di recente configura l’ordinario fluire della procedura di adozione ed approvazione dei progetti delle opere pubbliche attraverso il succedersi di tre fasi della progettazione, scandite da differenti peculiarità (progettazione preliminare, definita, ed esecutiva) corrispondenti a differenti livelli di approfondimento.
Si è detto infatti, ancora di recente che (TAR Marche Ancona Sez. I, 24.01.2013, n. 70) “ai sensi dell'art. 93 D.Lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti) la progettazione in materia di lavori pubblici si articola secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva. Il progetto preliminare definisce le caratteristiche qualitative e funzionali dei lavori, il quadro delle esigenze da soddisfare e delle specifiche prestazioni da fornire e consiste in una relazione illustrativa delle ragioni della scelta della soluzione prospettata in base alle valutazioni delle soluzioni possibili. Il progetto definitivo individua compiutamente i lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e contiene tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni e approvazioni. Il progetto esecutivo, redatto in conformità al progetto definitivo, determina in ogni dettaglio i lavori da realizzare e il relativo costo previsto e deve essere sviluppato ad un livello di definizione tale da consentire che ogni elemento sia identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione e prezzo.”.
Muovendo da tale punto di partenza, sostanzialmente ricognitivo anche della legislazione previgente, l’appellante perviene a conclusioni non condivisibili.
Il sillogismo da questi proposto è il seguente: posto che il comune agiva in dichiarata applicazione dell’art. 19 del TU Espropriazione –dPR n. 327/2001- esso adottò il progetto definitivo, con deliberazione consiliare 08.02.2005 n. 4.
L’approvazione di tale deliberazione, giusta previsione di cui appunto all’art. 19 del TU Espropriazione (“Quando l'opera da realizzare non risulta conforme alle previsioni urbanistiche, la variante al piano regolatore può essere disposta con le forme di cui all'articolo 10, comma 1, ovvero con le modalità di cui ai commi seguenti. L'approvazione del progetto preliminare o definitivo da parte del consiglio comunale costituisce adozione della variante allo strumento urbanistico. Se l'opera non è di competenza comunale, l'atto di approvazione del progetto preliminare o definitivo da parte della autorità competente è trasmesso al consiglio comunale, che può disporre l'adozione della corrispondente variante allo strumento urbanistico. Nei casi previsti dai commi 2 e 3, se la Regione o l'ente da questa delegato all'approvazione del piano urbanistico comunale non manifesta il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla ricezione della delibera del consiglio comunale e della relativa completa documentazione, si intende approvata la determinazione del consiglio comunale, che in una successiva seduta ne dispone l'efficacia”) era differita di novanta giorni, e dipendeva dalla omessa manifestazione di dissenso della Regione (dissenso che, come è incontroverso tra le parti, nella fattispecie in esame non intervenne mai).
Ne consegue quindi che, alla data dell’08.02.2005 (in cui intervenne la delibera n. 4 di adozione del progetto definitivo) non poteva aversi un progetto definitivo “conforme allo strumento urbanistico” e la variante suddetta non era ancora né approvata, né efficace.
In tale quadro, quindi, ad avviso di parte appellante, posto che il progetto esecutivo (conforme al definitivo adottato: anche tale circostanza è incontestata) è stato parimenti adottato alla data dell’08.02.2005, esso si sarebbe conformato ad un definitivo non (ancora) conforme allo strumento urbanistico: ciò concreterebbe irrimediabile illegittimità.
2.2. La detta tesi assembla dati normativi diversi, ma muove da un dato congetturale e non trova concorde il Collegio.
2.2.1. Il progetto esecutivo deve essere conforme al definitivo e redatto nel pieno rispetto di quest’ultimo: su tale dato (art. 35, comma 1, del dPr n. 554/1999: “il progetto esecutivo costituisce la ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni e, pertanto, definisce compiutamente ed in ogni particolare architettonico, strutturale ed impiantistico l'intervento da realizzare. Restano esclusi soltanto i piani operativi di cantiere, i piani di approvvigionamenti, nonché i calcoli e i grafici relativi alle opere provvisionali. Il progetto è redatto nel pieno rispetto del progetto definitivo nonché delle prescrizioni dettate in sede di rilascio della concessione edilizia o di accertamento di conformità urbanistica, o di conferenza di servizi o di pronuncia di compatibilità ambientale ovvero il provvedimento di esclusione delle procedure, ove previsti.”) non è dato controvertere.
Ma nel caso in esame non v’è dubbio che tale pieno rispetto vi fosse.
Nessuna norma, invece, esprime la necessità che il progetto esecutivo debba essere conforme ad un progetto definitivo “approvato ed efficace”.
Sebbene non possa ignorare il Collegio che tale evenienza debba costituire la normalità nella stragrande maggioranza dei casi (discendendo dalla sequenzialità cronologica imposta dalla legge), nulla vieta che, nel rispetto di detta sequenza (nel caso di specie non obliata, posto che l’adozione del progetto esecutivo seguì, seppur di poche ore, l’adozione del definitivo), l’Amministrazione, per le evenienze più disparate (nel caso di specie per la lodevole esigenza di non perdere lo stanziamento dei contributi decisi a proprio favore), si assuma il rischio di approvare, coevamente all’adozione del progetto definitivo, il progetto esecutivo al primo conforme.
E’ ovvio che di “rischio” si tratta, perché, nell’ipotesi in cui ex art. 19 ult. co. la Regione o l'ente da questa delegato all'approvazione del piano urbanistico comunale manifesti il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla ricezione della delibera del consiglio comunale e della relativa completa documentazione, la delibera di adozione del progetto esecutivo “cade” in quanto quest’ultima rimane senza oggetto, posto che “cade” anche quella di adozione del progetto definitivo, non essendosi concluso l’iter approvativo del medesimo.
Ma, nella ipotesi in cui tale evenienza non si verifichi (e, lo si ripete, nel caso de quo ciò non avvenne certamente), nessuna disposizione di legge sanziona con la illegittimità tale “anticipata” (rispetto all’approvazione del definitivo) approvazione del progetto esecutivo.
Ed è sintomatico rilevare, peraltro, che in concreto l’appellante di nulla si duole se non dell’omesso rispetto di tale “ordine”, non deducendo infatti che da tale “anticipazione” sia discesa alcuna lesione sostanziale alla propria sfera giuridica.
Ma se così è, in assenza di un dato formale univoco che sanzioni detta “anticipazione” dell’approvazione del progetto esecutivo e nell’assenza di alcun vulnus sostanziale alla posizione di parte appellante, la censura si risolve nella constatazione che al momento dell’approvazione del progetto esecutivo il progetto definitivo era soltanto adottato e quindi l’opera pubblica non era “conforme allo strumento urbanistico”.
Ma la conformità sopravvenne con l’omesso dissenso della Regione nei termini di legge, ed è corretta la deduzione del primo giudice secondo la quale non la legittimità, ma l’attuabilità del progetto esecutivo è condizionata all’effettivo perfezionamento del c.d. raccordo urbanistico, stante il chiaro tenore dell’art. 19 ult. co. (“si intende approvata”), che consente di non ritenere attuale il risalente orientamento, discendente dalla antevigente legislazione, secondo il quale (TAR Lazio Sez. II, 27.06.1988, n. 907) è illegittima l'approvazione del progetto esecutivo di una ferrovia metropolitana con un tracciato conforme ad una variante al piano regolatore solo adottata dal comune e non ancora approvata dalla regione.
La vigente legislazione (art. 12 del TU) non ricollega, a differenza della precedente, la nozione di atto comportante la pubblica utilità alla approvazione del progetto esecutivo, ma la ricollega al progetto definitivo (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 04.06.2013, n. 3087: “a norma dell'art. 12, D.P.R. n. 327 del 2001 la dichiarazione di pubblica utilità si intende disposta con l'approvazione o la definizione, da parte dell'autorità procedente, di determinati strumenti, ivi elencati. La dichiarazione di pubblica utilità, pertanto, non richiede una particolare dichiarazione, con la conseguenza che l'eventuale dichiarazione della pubblica utilità delle opere al momento dell'approvazione del progetto esecutivo è un di più, che non può alterare il quadro legale di riferimento e non è suscettibile di inficiare la regolarità e la legittimità della procedura.”); ne consegue la non applicabilità del detto risalente orientamento e la correttezza dell’approdo del primo giudice che ha ritenuto che, nella fattispecie in esame, potesse, al più, raffigurarsi una mera irregolarità non viziante e non già il vizio di illegittimità prospettato
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.06.2014 n. 3116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Nel caso in esame, il progetto preliminare non ha alcuna valenza di variante urbanistica; legittimamente, quindi, è stato approvato dalla Giunta e non da Consiglio.
Quanto invece alla questione dell’approvazione del progetto preliminare, l’appellante ha censurato che esso fosse stato approvato dalla Giunta e non in sede consiliare.
Ciò secondo la consolidata giurisprudenza per cui (Cons. Stato Sez. VI, 27.07.2010, n. 4890) “ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 267/2000 la Giunta municipale ha competenza generale e residuale, e quindi le appartiene il potere di approvazione del progetto preliminare di un'opera pubblica, salvo che questo comporti una variante allo strumento urbanistico, nel qual caso la competenza appartiene al Consiglio.” (si veda anche TAR Toscana Firenze Sez. I, 20.07.2011, n. 1258: ”in riferimento al Comune, l'approvazione di un progetto preliminare di opera pubblica appartiene alla competenza generale residuale della Giunta municipale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 42 e 48 d.lgs. 267 del 2000, salvo che l'approvazione del progetto comporti una variante allo strumento urbanistico, nel qual caso la competenza appartiene al Consiglio.”).
Sennonché, interrogandosi sulla fondatezza della detta censura, il Tar ha espresso il convincimento secondo cui “nel caso in esame, il progetto preliminare non aveva alcuna valenza di variante; legittimamente quindi è stato approvato dalla Giunta. Quest’ultima, peraltro, non ha errato nella qualificazione dell’area come destinata a sport, dal momento che la destinazione S3 non concretava un vincolo espropriativo, ma conformativo, come argomentato dal Collegio nella sentenza parallela emessa sul ricorso n. 281/2005.”.
E che la (ormai regiudicata) sentenza richiamata n. 7131/2010 resa proprio sul suindicato ricorso n. 281/2005, al capo 24, ciò avesse stabilito è dato sul quale non è possibile controvertere: così infatti recita il punto 24 della citata decisione “l’art. 33.3 n.t.a. prevedeva tale modalità attuativa per ogni tipo di standard residenziale (SR), comprendente attrezzature per l’istruzione inferiore (SR1), attrezzature di interesse comune (SR2), spazi pubblici a parco, per il gioco e lo sport (SR3) e parcheggi pubblici (SR4); il che basta ad escludere l’inedificabilità assoluta delle aree, la natura espropriativa del vincolo e la sua decadenza.”.
La sentenza pertanto non contiene alcuna contraddizione interna
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.06.2014 n. 3116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni , ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario con conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori.

Il disposto di cui all’art. 27 del dPR n. 380/2001 così prevede (si veda soprattutto il comma III): “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi. Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa. Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, il Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662. Ferma rimanendo l'ipotesi prevista dal precedente comma 2, qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d'ufficio o su denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il dirigente o il responsabile dell’ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al sequestro del cantiere. Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al competente organo regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere e dispone gli atti conseguenti.”.
La costante giurisprudenza amministrativa di merito ha sempre interpretato in termini categorici detta disposizione, pervenendo al convincimento per cui (ex aliis, cfr. TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 27.07.2012, n. 840) “il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni , ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario con conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori.”.
Il Tar ha fatto buongoverno del detto principio, e del relativo corollario secondo cui deve essere dichiarato improcedibile il mezzo proposto allorché, anche per sopravvenute circostanza di fatto o di diritto (tra le quali rientra, ovviamente, il decorso del tempo che priva di efficacia, e quindi di portata lesiva un provvedimento di natura interinale o cautelare), l’impugnante non possa ricavare alcun vantaggio dall’accoglimento dell’impugnazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.06.2014 n. 3115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il reato di lottizzazione abusiva è integrato non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata -fattispecie di lavori interni di redistribuzione degli spazi, finalizzati alla trasformazione in appartamenti di un complesso immobiliare con precedente destinazione d'uso alberghiera.
La condotta materiale sottesa alla integrazione della fattispecie illecita riposa nella erezione di opere (c.d. lottizzazione materiale) ovvero nella intrapresa di iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione negoziale) che comportano una trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
Nell’ipotesi di lottizzazione c.d. “materiale”, si è a più riprese evidenziato che la fattispecie integra qualcosa di diverso, seppur collegato, rispetto alle singole opere realizzate, costituendo un quid pluris (anche, ovviamente, in termini di maggiore gravità).
Si rammenta infatti che, la fattispecie di lottizzazione abusiva disciplinata in passato dall'art. 18 l. n. 47 cit., si riferisce alla mancanza dell'autorizzazione specifica alla lottizzazione, prevista dall'art. 28 della legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150.
Si è posto in luce pertanto che alcun rilievo sanante sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria. Ciò in quanto, ove manchi la specifica autorizzazione a lottizzare, la lottizzazione abusiva sussiste e deve essere sanzionata anche se, per le singole opere facenti parte di tale lottizzazione, sia stata rilasciata una concessione edilizia.
In tal senso si è pronunciata altresì la Corte Costituzionale nella sentenza n. 148/1994, con cui è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme che escludono la condonabilità, ai fini penalistici, del reato di lottizzazione abusiva, nel caso in cui la stessa risulti conforme alle prescrizioni di legge ed alla strumentazione urbanistica. Sul punto la Corte ha chiarito al riguardo che: "il rilascio della concessione in sanatoria opera nell'ambito di uno schema procedimentale, delineato nell'art. 13 della stessa legge 26.02.1985, n. 47, con previsione di interventi, adempimenti e termini, che appaiono specificamente modellati sulla fattispecie della costruzione priva di concessione. Di qui l'impossibilità di una mera trasposizione di un siffatto schema procedimentale all'ipotesi della lottizzazione abusiva, per la quale occorrerebbero, pertanto, soluzioni normative che mai potrebbero essere apprestate in questa sede, implicando, fermo quanto dedotto in ordine alla non comparabilità delle situazioni, scelte di modi, condizioni e termini che non spetta alla Corte stabilire".
Pertanto, la constatata autonomia dei procedimenti sanzionatori in questione induce ad escludere l'applicabilità della sospensione invocata ex art. 44 della legge n. 47/1985, posto che la sospensione dei procedimenti ivi prevista non può che riferirsi alle misure sanzionatorie relative agli abusi suscettibili di sanatoria e/o di condono, ove, nel caso di presentazione della relativa istanza entro i termini, la sospensione del procedimento è strumentale a preservare l'interesse dell'istante a veder definito il procedimento instaurato e di evitare che la messa in esecuzione di un provvedimento di ripristino vanifichi del tutto il suo interesse legittimo a vedere definita la domanda di sanatoria.
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Tuttavia, si rammenta che in seno ad una recente decisione la Sezione ha avuto modo di rivisitare la fattispecie, pervenendo ad alcune conclusioni che è opportuno riportare per esteso, che appaiono traslabili alla fattispecie, ed alle quali il Collegio si atterrà, non ravvisando alcun elemento per mutare divisamento.
Ivi infatti, è stato affermato che (si riporta un breve stralcio motivazionale della sentenza) “al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione.
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la programmazione del territorio, deve rilevarsi, ad avviso del Collegio, che la verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio autoritativamente impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Come già affermato dalla giurisprudenza di merito il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera comportante trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi insistono e può altresì comportare nuovi interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire
Tenuto conto della natura del provvedimento impugnato in primo grado (ordinanza di sospensione per lottizzazione abusiva) cadono quindi tutte le censure fondate sulla mancata definizione delle domande di condono dei singoli –e reiterati- abusi realizzati, in quanto non incidenti sulla riscontrabilità di una condotta lottizzatoria materiale abusiva.
Deve per ulteriore conseguenza affermarsi che può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), ma anche soltanto un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di specie.”.
Nella detta pronuncia, si è altresì fatto presente che “La giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai stabilmente orientata all’affermazione di detto principio. Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due casi: a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad immobili residenziali; b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in concreto”.
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente affermato che il problema della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche alla stregua della legislazione urbanistica regionale in materia di classificazione delle categorie funzionali della destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni della pianificazione comunale, alle quali deve essere raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile che alteri il complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto alla individuazione di siffatta "alterazione", che l'organizzazione del territorio comunale si attua con il coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità di servizi. L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli standards di zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato ha rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede" (nella specie è stato affermato che legittimamente un Comune aveva respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso di un complesso immobiliare, relativamente ad uso esclusivamente residenziale, del tutto incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
La dedotta circostanza che, a particolari condizioni, possa conseguirsi la sanatoria degli immobili abusivamente edificati -(principio costantemente affermato dalla Corte di Cassazione: “In tema di reati edilizi, l'inapplicabilità della disciplina sul condono edilizio prevista dall'art. 39 L. 23.12.1994, n. 724 al reato di lottizzazione abusiva (art. 18 L. 28.02.1985 n. 47), non esclude l'applicabilità di tale disciplina ai singoli manufatti abusivamente eseguiti, i quali sono suscettibili di condono previa valutazione globale dell'attività lottizzatoria secondo il meccanismo previsto dal combinato disposto degli articoli 29 e 35, comma tredicesimo, L. 28.02.1985, n. 47.”; e confermato pure dalla giurisprudenza amministrativa di merito: non inficia la legittimità dell’ordinanza di sospensione gravata, posto che lo stesso principio non può precludere all’amministrazione comunale la ravvisabilità di una fattispecie di lottizzazione materiale abusiva, né l’adozione dei provvedimenti ad essa consequenziali
.”.
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La condivisibile giurisprudenza di legittimità penale perviene ad affermare che “il reato di lottizzazione abusiva, a condotta libera, si realizza con varie modalità mediante operazioni con cui il suolo è abusivamente utilizzato per la realizzazione di una pluralità d'insediamenti residenziali e, in particolare:
- in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata e non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione;
- ma anche allorquando detto intervento non potrebbe in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento generale di pianificazione che non possono essere modificate da piani urbanistici attuativi.”
E, può aggiungersi, il Giudice di legittimità ha addirittura ritenuto che alla luce di tali indirizzi interpretativi persino “il rilascio di concessioni edilizie (destinate a creare nuovi insediamenti abitativi in una zona per la quale PRG subordina l'attività edificatoria all'adozione di piani di lottizzazione convenzionati) in assenza dei prescritti strumenti attuativi, richieda, ai fini della legittimità dell'intervento, la prova rigorosa della preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo.”

2. Nel merito, ritiene il Collegio opportuno far precedere lo specifico scrutinio della controversia da alcune considerazioni di insieme in ordine alla fattispecie per cui è causa.
2.1. Si rammenta a tal proposito che l’art. 30 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante “Lottizzazione abusiva” così dispone, in sostanziale continuità con l’antevigente previsione di cui all’art. 18 della legge 28.02.1985 n. 47: “Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
2. Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica sia in forma privata, aventi ad oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni sono nulli e non possono essere stipulati né trascritti nei pubblici registri immobiliari ove agli atti stessi non sia allegato il certificato di destinazione urbanistica contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l'area interessata. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano quando i terreni costituiscano pertinenze di edifici censiti nel nuovo catasto edilizio urbano, purché la superficie complessiva dell'area di pertinenza medesima sia inferiore a 5.000 metri quadrati.
3. Il certificato di destinazione urbanistica deve essere rilasciato dal dirigente o responsabile del competente ufficio comunale entro il termine perentorio di trenta giorni dalla presentazione della relativa domanda. Esso conserva validità per un anno dalla data di rilascio se, per dichiarazione dell'alienante o di uno dei condividenti, non siano intervenute modificazioni degli strumenti urbanistici.
4. In caso di mancato rilascio del suddetto certificato nel termine previsto, esso può essere sostituito da una dichiarazione dell'alienante o di uno dei condividenti attestante l'avvenuta presentazione della domanda, nonché la destinazione urbanistica dei terreni secondo gli strumenti urbanistici vigenti o adottati, ovvero l'inesistenza di questi ovvero la prescrizione, da parte dello strumento urbanistico generale approvato, di strumenti attuativi.
4-bis. Gli atti di cui al comma 2, ai quali non siano stati allegati certificati di destinazione urbanistica, o che non contengano la dichiarazione di cui al comma 3, possono essere confermati o integrati anche da una sola delle parti o dai suoi aventi causa, mediante atto pubblico o autenticato, al quale sia allegato un certificato contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti le aree interessate al giorno in cui è stato stipulato l'atto da confermare o contenente la dichiarazione omessa.
5. I frazionamenti catastali dei terreni non possono essere approvati dall'agenzia del territorio se non è allegata copia del tipo dal quale risulti, per attestazione degli uffici comunali, che il tipo medesimo è stato depositato presso il comune.
[6.]
7. Nel caso in cui il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale accerti l'effettuazione di lottizzazione di terreni a scopo edificatorio senza la prescritta autorizzazione, con ordinanza da notificare ai proprietari delle aree ed agli altri soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 29, ne dispone la sospensione. Il provvedimento comporta l'immediata interruzione delle opere in corso ed il divieto di disporre dei suoli e delle opere stesse con atti tra vivi, e deve essere trascritto a tal fine nei registri immobiliari.
8. Trascorsi novanta giorni, ove non intervenga la revoca del provvedimento di cui al comma 7, le aree lottizzate sono acquisite di diritto al patrimonio disponibile del comune il cui dirigente o responsabile del competente ufficio deve provvedere alla demolizione delle opere. In caso di inerzia si applicano le disposizioni concernenti i poteri sostitutivi di cui all'articolo 31, comma 8.
9. Gli atti aventi per oggetto lotti di terreno, per i quali sia stato emesso il provvedimento previsto dal comma 7, sono nulli e non possono essere stipulati, né in forma pubblica né in forma privata, dopo la trascrizione di cui allo stesso comma e prima della sua eventuale cancellazione o della sopravvenuta inefficacia del provvedimento del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale.
10. Le disposizioni di cui sopra si applicano agli atti stipulati ed ai frazionamenti presentati ai competenti uffici del catasto dopo il 17.03.1985, e non si applicano comunque alle divisioni ereditarie, alle donazioni fra coniugi e fra parenti in linea retta ed ai testamenti, nonché agli atti costitutivi, modificativi od estintivi di diritti reali di garanzia e di servitù
.”.
V’è concordia in dottrina nel ritenere che la fattispecie descritta dalla detta disposizione integri il più grave attentato alle potestà di Governo del territorio previste ed espressamente normate dall’art. 117 della Costituzione, incidendo sulla potestà programmatoria urbanistica e, insieme, sull’assetto del territorio.
La giurisprudenza penale ha costantemente interpretato la detta fattispecie in termini ampi, e costruendola qual reato di pericolo: si è detto pertanto che (Cass. pen. Sez. III, 16.07.2013, n. 37383) “il reato di lottizzazione abusiva è integrato non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata -fattispecie di lavori interni di redistribuzione degli spazi, finalizzati alla trasformazione in appartamenti di un complesso immobiliare con precedente destinazione d'uso alberghiera”.
La condotta materiale sottesa alla integrazione della fattispecie illecita riposa nella erezione di opere (c.d. lottizzazione materiale) ovvero nella intrapresa di iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione negoziale) che comportano una trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
2.1. Nell’ipotesi di lottizzazione c.d. “materiale”, si è a più riprese evidenziato che la fattispecie integra qualcosa di diverso, seppur collegato, rispetto alle singole opere realizzate, costituendo un quid pluris (anche, ovviamente, in termini di maggiore gravità).
Si rammenta infatti che, la fattispecie di lottizzazione abusiva disciplinata in passato dall'art. 18 l. n. 47 cit., si riferisce alla mancanza dell'autorizzazione specifica alla lottizzazione, prevista dall'art. 28 della legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150.
Si è posto in luce pertanto che alcun rilievo sanante sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria. Ciò in quanto, ove manchi la specifica autorizzazione a lottizzare, la lottizzazione abusiva sussiste e deve essere sanzionata anche se, per le singole opere facenti parte di tale lottizzazione, sia stata rilasciata una concessione edilizia (cfr. C.d.S. sez. V 26.03.1996 n. 301).
In tal senso si è pronunciata altresì la Corte Costituzionale nella sentenza n. 148/1994, con cui è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme che escludono la condonabilità, ai fini penalistici, del reato di lottizzazione abusiva, nel caso in cui la stessa risulti conforme alle prescrizioni di legge ed alla strumentazione urbanistica. Sul punto la Corte ha chiarito al riguardo che: "il rilascio della concessione in sanatoria opera nell'ambito di uno schema procedimentale, delineato nell'art. 13 della stessa legge 26.02.1985, n. 47, con previsione di interventi, adempimenti e termini, che appaiono specificamente modellati sulla fattispecie della costruzione priva di concessione. Di qui l'impossibilità di una mera trasposizione di un siffatto schema procedimentale all'ipotesi della lottizzazione abusiva, per la quale occorrerebbero, pertanto, soluzioni normative che mai potrebbero essere apprestate in questa sede, implicando, fermo quanto dedotto in ordine alla non comparabilità delle situazioni, scelte di modi, condizioni e termini che non spetta alla Corte stabilire".
Pertanto, la constatata autonomia dei procedimenti sanzionatori in questione induce ad escludere l'applicabilità della sospensione invocata ex art. 44 della legge n. 47/1985, posto che la sospensione dei procedimenti ivi prevista non può che riferirsi alle misure sanzionatorie relative agli abusi suscettibili di sanatoria e/o di condono, ove, nel caso di presentazione della relativa istanza entro i termini, la sospensione del procedimento è strumentale a preservare l'interesse dell'istante a veder definito il procedimento instaurato e di evitare che la messa in esecuzione di un provvedimento di ripristino vanifichi del tutto il suo interesse legittimo a vedere definita la domanda di sanatoria (cfr in tal senso vd. anche Cass. Pen. Sez. III, 18.11.1997 n. 3900).
2.2. Ciò precisato, si rammenta che in seno ad una recente decisione (la n. 3381/2012) la Sezione ha avuto modo di rivisitare la fattispecie, pervenendo ad alcune conclusioni che è opportuno riportare per esteso, che appaiono traslabili alla fattispecie, ed alle quali il Collegio si atterrà, non ravvisando alcun elemento per mutare divisamento.
Ivi infatti, è stato affermato che (si riporta un breve stralcio motivazionale della sentenza) “al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione.
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la programmazione del territorio, deve rilevarsi, ad avviso del Collegio, che la verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio autoritativamente impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Come già affermato dalla giurisprudenza di merito il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera comportante trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi insistono e può altresì comportare nuovi interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire
Tenuto conto della natura del provvedimento impugnato in primo grado (ordinanza di sospensione per lottizzazione abusiva) cadono quindi tutte le censure fondate sulla mancata definizione delle domande di condono dei singoli –e reiterati- abusi realizzati, in quanto non incidenti sulla riscontrabilità di una condotta lottizzatoria materiale abusiva.
Deve per ulteriore conseguenza affermarsi che può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), ma anche soltanto un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di specie.”.
Nella detta pronuncia, si è altresì fatto presente che “La giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai stabilmente orientata all’affermazione di detto principio. Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due casi: a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad immobili residenziali; b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in concreto” (Cassazione penale, sez. III, 07.03.2008, n. 24096).
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente affermato che il problema della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche alla stregua della legislazione urbanistica regionale in materia di classificazione delle categorie funzionali della destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni della pianificazione comunale, alle quali deve essere raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile che alteri il complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto alla individuazione di siffatta "alterazione", che l'organizzazione del territorio comunale si attua con il coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità di servizi. L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli standards di zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato (sez. 5^, 03.01.1998, n. 24) ha rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede" (nella specie è stato affermato che legittimamente un Comune aveva respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso di un complesso immobiliare, relativamente ad uso esclusivamente residenziale, del tutto incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
La dedotta circostanza che, a particolari condizioni, possa conseguirsi la sanatoria degli immobili abusivamente edificati -(principio costantemente affermato dalla Corte di Cassazione: “In tema di reati edilizi, l'inapplicabilità della disciplina sul condono edilizio prevista dall'art. 39 L. 23.12.1994, n. 724 al reato di lottizzazione abusiva (art. 18 L. 28.02.1985 n. 47), non esclude l'applicabilità di tale disciplina ai singoli manufatti abusivamente eseguiti, i quali sono suscettibili di condono previa valutazione globale dell'attività lottizzatoria secondo il meccanismo previsto dal combinato disposto degli articoli 29 e 35, comma tredicesimo, L. 28.02.1985, n. 47.”- Cassazione penale, sez. III, 21.11.2007, n. 9982; e confermato pure dalla giurisprudenza amministrativa di merito: si veda TAR Campania Napoli, sez. II, 27.08.2010, n. 17263)- non inficia la legittimità dell’ordinanza di sospensione gravata, posto che lo stesso principio non può precludere all’amministrazione comunale la ravvisabilità di una fattispecie di lottizzazione materiale abusiva, né l’adozione dei provvedimenti ad essa consequenziali
.”.
Sin qui la sentenza n. 3381/2012 richiamata.
3. Quanto alle ulteriori censure secondo cui lottizzazione urbanistica potrebbe esservi soltanto allorché “si crei una nuova maglia di tessuto urbano” (ultimo cpv della pag. 13 dell’appello e pag 14 del mezzo), oltre alle considerazioni richiamate in premessa in punto di aumento del carico urbanistico, etc. (considerazioni che, ad avviso del Collegio, sarebbero già sufficienti alla reiezione della doglianza), si deve richiamare l’opposto convincimento della giurisprudenza.
La tesi dell’appellante avrebbe la conseguenza di produrre, ove accolta, una interpretatio abrogans della norma che reprime la lottizzazione, “riservandone” l’applicabilità a fattispecie macroscopiche difficilmente riscontrabili: in contrario senso da quanto sostenutosi, è appena il caso di richiamare che la condivisibile giurisprudenza di legittimità penale perviene a conclusioni del tutto diverse, spingendosi invece ad affermare che (Cass. pen. Sez. III, Sent., 13.06.2011, n. 23646) “il reato di lottizzazione abusiva, a condotta libera, si realizza con varie modalità mediante operazioni con cui il suolo è abusivamente utilizzato per la realizzazione di una pluralità d'insediamenti residenziali e, in particolare:
- in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata e non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione;
- ma anche allorquando detto intervento non potrebbe in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento generale di pianificazione che non possono essere modificate da piani urbanistici attuativi (Cfr. Cassazione SU 28.11.2001, Salvini; Sezione 3, 11.05.2005, Stiffi; Sezione 3, 29.01.2001, Matarrese; Sezione 3, 30.12.1996 n. 11249, Urtis)
.”
E, può aggiungersi, il Giudice di legittimità ha addirittura ritenuto che alla luce di tali indirizzi interpretativi persino “il rilascio di concessioni edilizie (destinate a creare nuovi insediamenti abitativi in una zona per la quale PRG subordina l'attività edificatoria all'adozione di piani di lottizzazione convenzionati) in assenza dei prescritti strumenti attuativi, richieda, ai fini della legittimità dell'intervento, la prova rigorosa della preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo.” (Cass. pen. Sez. III, Sent., 13.06.2011, n. 23646 cit.).
4. Quanto infine all’ultima parte dell’appello (che comunque, anche in ipotesi di accoglimento non avrebbe potuto implicare l’annullamento degli atti gravati), la tesi di parte appellante collide con il dato storico relativo alla pluralità di frazionamenti intervenuti: ciò giustifica pienamente l’applicazione alla fattispecie del consolidato approdo della Sezione, secondo il quale (Cons. Stato Sez. IV, 22.08.2013, n. 4254) “la fattispecie della lottizzazione cartolare o negoziale prescinde dalla prova di qualsiasi intento di lottizzare abusivamente, rilevando obiettivamente i soli fatti del frazionamento e della vendita in lotti di un'area, quando essi per dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino la loro destinazione a scopo edificatorio. In tal senso, l'intento edificatorio perseguito dagli ex comunisti, da attuarsi mediante il frazionamento dell'originario cespite avente destinazione agricola, può legittimamente desumersi dal complesso degli atti di frazionamento e di disposizione dei lotti risultanti dalla divisione in favore di società esercente attività edilizia, stipulati sul dichiarato presupposto della destinazione edilizia delle aree”).
4.1. La condotta posta in essere ex post concorre nell’inquadrare la fattispecie realizzate anche sub species lottizzazione cartolare e, pertanto, anche tale articolazione del mezzo va respinta (si veda, ancora di recente, la condivisibile ricostruzione di cui alla decisione della Quinta Sezione di questo Consiglio di Stato n. 2711 del 27.05.2014 ove ben si illustra la particolare gravità di tutte le fattispecie di lottizzazione e si ribadisce che trattasi di fattispecie insuscettibile di condono) .
4.2. Posto che i motivi di appello null’altro deducono, che nessuna violazione infraprocedimentale venne perpetrata dall’Amministrazione (ed in ogni caso l’appellante venne resa sempre in condizione di contraddire alle iniziative intraprese dall’amministrazione) e che nessuna ulteriore alternativa spiegazione plausibile è stata fornita delle riscontrate difformità in sede esecutiva, l’appello va disatteso
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.06.2014 n. 3115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Anche se in passato vi è stato un orientamento restrittivo, per il quale chi ricorre contro l’atto che localizza un’opera pubblica –pur essendo titolare di un bene posto nelle vicinanze- avrebbe l’onere di provare l’effettivo danno che riceverebbe, la più recente e condivisibile giurisprudenza ha evidenziato che –sulla base del criterio della vicinitas- sussiste la legittimazione ad agire dei singoli non solo per la tutela della integrità dell’ambiente, ma anche per evitare che nei pressi del loro bene vi siano illegittime modifiche dello stato dei luoghi e conseguente degrado urbanistico.
Il medesimo criterio della vicinitas, dunque, consente di individuare non solo chi sia legittimato a impugnare i titoli abilitativi edilizi (così come da tempo precisato dalla giurisprudenza ai sensi dell'art. 10 della l. n. 765 del 1967), ma anche ogni altro provvedimento che comporti la realizzazione di un’opera pubblica.

Ritiene la Sezione che risultano fondate le deduzioni delle appellanti, sulla ammissibilità del ricorso di primo grado.
Anche se in passato vi è stato un orientamento restrittivo, per il quale chi ricorre contro l’atto che localizza un’opera pubblica –pur essendo titolare di un bene posto nelle vicinanze- avrebbe l’onere di provare l’effettivo danno che riceverebbe (cfr. Cons. St., Sez. V, 20.05.2002 n. 2714 e 31.01.2001 n. 358; VI sez. 18.07.1995 n. 745), la più recente e condivisibile giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3849, sez. IV, 02.10.2006, n. 5760) ha evidenziato che –sulla base del criterio della vicinitas- sussiste la legittimazione ad agire dei singoli non solo per la tutela della integrità dell’ambiente, ma anche per evitare che nei pressi del loro bene vi siano illegittime modifiche dello stato dei luoghi e conseguente degrado urbanistico.
Il medesimo criterio della vicinitas, dunque, consente di individuare non solo chi sia legittimato a impugnare i titoli abilitativi edilizi (così come da tempo precisato dalla giurisprudenza ai sensi dell'art. 10 della l. n. 765 del 1967), ma anche ogni altro provvedimento che comporti la realizzazione di un’opera pubblica.
Pertanto, non rileva sotto tale aspetto nel presene giudizio verificare la natura delle opere da realizzare sulla base della impugnata concessione, se cioè esse abbiano natura pubblica o privata
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2014 n. 3096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo giurisprudenza consolidata, la concessione edilizia (come il permesso di costruire ed ogni altro atto della P.A. destinato ad incidere sulla proprietà privata) costituisce un provvedimento autoritativo, che può essere rilasciato solo se il progetto risulta conforme alla normativa urbanistica ed edilizia della zona interessata.
A tal fine il Comune deve articolare l'istruttoria verificando l'esistenza dei presupposti richiesti dall'art. 4 della l. n. 10/1977, all’epoca vigente, secondo il quale "La concessione è data dal sindaco al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla".
Da una corretta interpretazione della norma, si evince che la P.A. deve rilasciare il permesso di costruire solo a chi dimostri di possedere un titolo idoneo di godimento sull'area da assoggettare alla trasformazione urbanistica (perché la legge intende evitare che il titolo abilitativo rilasciato dal Comune leda indebitamente posizioni soggettive tutelate dal diritto civile).
Tuttavia, al di là di tale onere di accertamento, non incombe in capo alla PA l'ulteriore onere di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico documentali sul titolo di proprietà depositato dal richiedente.
Tranne il caso in cui al Comune sia tempestivamente rappresentata la sussistenza di circostanze particolari, meritevoli di essere prese in considerazione, il Comune deve limitarsi ad accertare la sussistenza del titolo della proprietà: la giurisprudenza maggioritaria è infatti concorde nell'affermare che "ai fini del rilascio del permesso di costruire l'amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell'area oggetto dell'intervento edilizio: cioè l'astratta proprietà desunta dagli atti pubblici prodotti ed in via residuale dalle risultanze catastali", anche perché essa è di norma rilasciata con la clausola “fatti salvi i diritti dei terzi”.

Invero, secondo giurisprudenza consolidata, la concessione edilizia (come il permesso di costruire ed ogni altro atto della P.A. destinato ad incidere sulla proprietà privata) costituisce un provvedimento autoritativo, che può essere rilasciato solo se il progetto risulta conforme alla normativa urbanistica ed edilizia della zona interessata.
A tal fine il Comune deve articolare l'istruttoria verificando l'esistenza dei presupposti richiesti dall'art. 4 della l. n. 10/1977, all’epoca vigente, secondo il quale "La concessione è data dal sindaco al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla".
Da una corretta interpretazione della norma, si evince che la P.A. deve rilasciare il permesso di costruire solo a chi dimostri di possedere un titolo idoneo di godimento sull'area da assoggettare alla trasformazione urbanistica (perché la legge intende evitare che il titolo abilitativo rilasciato dal Comune leda indebitamente posizioni soggettive tutelate dal diritto civile).
Tuttavia, al di là di tale onere di accertamento, non incombe in capo alla PA l'ulteriore onere di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico documentali sul titolo di proprietà depositato dal richiedente.
Tranne il caso in cui al Comune sia tempestivamente rappresentata la sussistenza di circostanze particolari, meritevoli di essere prese in considerazione, il Comune deve limitarsi ad accertare la sussistenza del titolo della proprietà: la giurisprudenza maggioritaria è infatti concorde nell'affermare che "ai fini del rilascio del permesso di costruire l'amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell'area oggetto dell'intervento edilizio: cioè l'astratta proprietà desunta dagli atti pubblici prodotti ed in via residuale dalle risultanze catastali" (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 04.04.2012 n. 1990), anche perché essa è di norma rilasciata con la clausola “fatti salvi i diritti dei terzi
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2014 n. 3096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le varianti in senso proprio sono, invero, quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al progetto originario e si distinguono da quelle che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali non possono essere considerate perché richiedono la realizzazione di un “quid novi” (da valutarsi con riferimento alle evidenze progettuali quali la superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria, le distanze dalle proprietà vicine, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato complessivamente inteso): in questa seconda categoria vanno ricondotte le varianti così dette improprie o essenziali, che si configurano come nuove concessioni, che in quanto tali sono provvedimenti autoritativi autonomamente lesive, suscettibili di autonoma e specifica impugnativa giurisdizionale.
Secondo un univoco indirizzo giurisprudenziale il rilascio di una variante ‘non essenziale’ non è idonea a riaprire i termini per impugnare la concessione originaria, mentre lo è quella ‘essenziale’, che consente la realizzazione di un “quid novi” e, quindi, va qualificata come ‘nuova’ concessione.
Ovviamente il rilascio della variante alla concessione edilizia originaria non è idonea a determinare la riapertura del termine per la impugnazione della concessione edilizia originaria allorché i vizi dedotti siano ascrivibili alla concessione originaria.

Osserva in proposito la Sezione che il TAR, pur avendo ritenuto tardiva la impugnazione della concessione edilizia n. 45/1998 del 20.04.1998, ha condivisibilmente valutato tempestiva l’azione giurisdizionale rispetto al rilascio delle successive concessioni edilizie, rispettivamente in sanatoria n. 136 dell’11.12.2001 (per lavori eseguiti in difformità a detta concessione) e in variante in corso d’opera n. 137 dell’11.12.2001, rispetto alle precedenti.
Le varianti in senso proprio sono, invero, quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al progetto originario e si distinguono da quelle che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali non possono essere considerate perché richiedono la realizzazione di un “quid novi” (da valutarsi con riferimento alle evidenze progettuali quali la superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria, le distanze dalle proprietà vicine, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato complessivamente inteso): in questa seconda categoria vanno ricondotte le varianti così dette improprie o essenziali, che si configurano come nuove concessioni, che in quanto tali sono provvedimenti autoritativi autonomamente lesive, suscettibili di autonoma e specifica impugnativa giurisdizionale.
Secondo un univoco indirizzo giurisprudenziale il rilascio di una variante ‘non essenziale’ non è idonea a riaprire i termini per impugnare la concessione originaria (Cons. St., sez. V, 24.09.2003, n. 5452, e 27.04.2006, n. 2363), mentre lo è quella ‘essenziale’, che consente la realizzazione di un “quid novi” e, quindi, va qualificata come ‘nuova’ concessione (Cons. St., sez. V, 07.07.1987, n. 463).
Ovviamente il rilascio della variante alla concessione edilizia originaria non è idonea a determinare la riapertura del termine per la impugnazione della concessione edilizia originaria (Cons. St., sez. V, 02.04.2001, n. 1898) allorché i vizi dedotti siano ascrivibili alla concessione originaria
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2014 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia edilizia la mera “vicinitas”, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo: è sufficiente che il ricorrente lamenti l’illegittimità del provvedimento che comporta una modifica contra ius dello stato dei luoghi, non rilevando l’eventuale conseguenza secondo cui la regula iuris affermata dal giudice amministrativo potrebbe far dedurre l’illegittimità della realizzazione di una costruzione già realizzata dal ricorrente, ovvero l’impossibilità per questi di considerare edificabile un proprio fondo.
Osserva in proposito la Sezione che, secondo una consolidata giurisprudenza che va condivisa, in materia edilizia la mera “vicinitas”, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (Consiglio di Stato, sez. IV, 18.12.2013, n. 6082): è sufficiente che il ricorrente lamenti l’illegittimità del provvedimento che comporta una modifica contra ius dello stato dei luoghi, non rilevando l’eventuale conseguenza secondo cui la regula iuris affermata dal giudice amministrativo potrebbe far dedurre l’illegittimità della realizzazione di una costruzione già realizzata dal ricorrente, ovvero l’impossibilità per questi di considerare edificabile un proprio fondo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2014 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'asservimento dà luogo ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente, indipendentemente da quando esso si è verificato, a nulla valendo che, all’epoca di realizzazione del manufatto preesistente, non sussistesse ancora alcuna pianificazione urbanistica, ovvero un atto di volontà espresso o tacito che avesse posto a disposizione della costruzione di esso una zona di territorio.
La quantità di asservimento del terreno rimasto libero va infatti calcolata sulla base degli indici vigenti al momento del rilascio dell’ulteriore titolo edilizio, perché i limiti entro i quali un'area può essere edificata si riferiscono non all'edificazione ulteriore rispetto a quella esistente al momento dell'approvazione, ma all'edificazione complessivamente realizzabile sull'area; se così non fosse, si verificherebbe l'effetto perverso di consentire l'edificabilità di aree già impegnate da preesistenze, in contrasto con gli indici del piano urbanistico in vigore.
Quindi l'asservimento di un fondo, in caso di edificazione, costituisce una qualità oggettiva dello stesso, che continua a seguirlo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo posti in essere in epoca successiva ed il vincolo creato dall'asservimento per sua natura permane sul fondo ‘servente’ (nel senso che per il calcolo della sua edificabilità vanno computati i volumi comunque esistenti) a tempo indeterminato, pena la completa vanificazione delle previsioni urbanistiche (che ad un tempo complessivamente rilevano i volumi preesistenti e delimitano quelli che ad essi si possono aggiungere).
Quanto alla rilevanza della unicità o meno della proprietà del fondo su cui preesiste il manufatto, va osservato che, anche quando un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente residua tenuto conto dell'originaria costruzione.
Pertanto, sia la vendita di una parte dell'originario unico fondo, così come il frazionamento di esso da parte dell'originario unico proprietario e la mancanza di specifici negozi giuridici privati diretti all'asservimento (o alla cessione di cubatura), sono irrilevanti ai fini dell'edificabilità delle aree libere, che –pur in assenza di titoli formali- devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a quelle assentite al momento del frazionamento, e cioè risultano edificabili solo entro l’eventuale surplus che deriva dal computo delle preesistenti volumetrie comunque realizzate.
Pertanto, nel caso di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria va calcolata sulla base anche di un'area ‘asservita’, ai fini edificatori deve essere considerata l'intera estensione interessata (nella specie il comparto edificatorio unitariamente considerato), con l'effetto che l'area asservita non è più edificabile anche se è stata oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti.
In definitiva, gli effetti derivanti dalla conformazione urbanistica (poiché i criteri legali di computo della volumetria, integrano una qualità oggettiva del terreno) hanno carattere definitivo ed irrevocabile ed evidenziano la già avvenuta utilizzazione delle potenzialità edificatorie dell'area asservita, con permanente dovere di tener conto di tale computo da parte di chiunque ne sia il proprietario.

Osserva in proposito il Collegio che il primo giudice ha rilevato che il fabbricato di 450 mc. circa, di cui il signor De Monaco è comproprietario (da lungo tempo insistente sull’area di cui la attuale appellante è proprietaria, di 14.767 mq.), non è stato considerato nel computo della volumetria utilizzabile, in base alla densità edilizia applicabile all’area ai sensi della normativa urbanistica vigente, ed ha ritenuto ininfluente l’epoca di realizzazione del manufatto, dovendosi considerare tutta la volumetria già realizzata sul lotto, a nulla valendo le vicende private connesse alla disponibilità dell’area interessata, stante la irrilevanza della vendita di parte del fondo su cui il manufatto era stato realizzato o del frazionamento dello stesso da parte dell’originario unico proprietario ai fini della edificabilità delle aree libere, da intendersi comunque asservite alla preesistente costruzione ivi realizzata.
Tale statuizioni del TAR vanno condivise, in primo luogo quanto alla irrilevanza dell’epoca di realizzazione del preesistente manufatto, considerato che l'asservimento dà luogo ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente, indipendentemente da quando esso si è verificato (Cons. Stato, adunanza plenaria 23.04.2009, n. 3; Consiglio di Stato, sez. V, 26.09.2013, n. 4757), a nulla valendo che, all’epoca di realizzazione del manufatto preesistente, non sussistesse ancora alcuna pianificazione urbanistica, ovvero un atto di volontà espresso o tacito che avesse posto a disposizione della costruzione di esso una zona di territorio.
La quantità di asservimento del terreno rimasto libero va infatti calcolata sulla base degli indici vigenti al momento del rilascio dell’ulteriore titolo edilizio, perché i limiti entro i quali un'area può essere edificata si riferiscono non all'edificazione ulteriore rispetto a quella esistente al momento dell'approvazione, ma all'edificazione complessivamente realizzabile sull'area; se così non fosse, si verificherebbe l'effetto perverso di consentire l'edificabilità di aree già impegnate da preesistenze, in contrasto con gli indici del piano urbanistico in vigore.
Quindi l'asservimento di un fondo, in caso di edificazione, costituisce una qualità oggettiva dello stesso, che continua a seguirlo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo posti in essere in epoca successiva (Consiglio Stato, sez. V, 30.03.1998, n. 387; sez. IV, 06.07.2010, n. 4333) ed il vincolo creato dall'asservimento per sua natura permane sul fondo ‘servente’ (nel senso che per il calcolo della sua edificabilità vanno computati i volumi comunque esistenti) a tempo indeterminato, pena la completa vanificazione delle previsioni urbanistiche (che ad un tempo complessivamente rilevano i volumi preesistenti e delimitano quelli che ad essi si possono aggiungere).
Quanto alla rilevanza della unicità o meno della proprietà del fondo su cui preesiste il manufatto, va osservato che, anche quando un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente residua tenuto conto dell'originaria costruzione.
Pertanto, sia la vendita di una parte dell'originario unico fondo, così come il frazionamento di esso da parte dell'originario unico proprietario e la mancanza di specifici negozi giuridici privati diretti all'asservimento (o alla cessione di cubatura), sono irrilevanti ai fini dell'edificabilità delle aree libere, che –pur in assenza di titoli formali- devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a quelle assentite al momento del frazionamento, e cioè risultano edificabili solo entro l’eventuale surplus che deriva dal computo delle preesistenti volumetrie comunque realizzate.
Pertanto, nel caso di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria va calcolata sulla base anche di un'area ‘asservita’, ai fini edificatori deve essere considerata l'intera estensione interessata (nella specie il comparto edificatorio unitariamente considerato), con l'effetto che l'area asservita non è più edificabile anche se è stata oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti (Consiglio di Stato, sez. IV, 06.05.2013, n. 2442).
In definitiva, gli effetti derivanti dalla conformazione urbanistica (poiché i criteri legali di computo della volumetria, integrano una qualità oggettiva del terreno) hanno carattere definitivo ed irrevocabile ed evidenziano la già avvenuta utilizzazione delle potenzialità edificatorie dell'area asservita, con permanente dovere di tener conto di tale computo da parte di chiunque ne sia il proprietario (Cass. pen., sez. III, 21177/2009)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2014 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Requisiti di configurabilità del reato di omessa bonifica dei siti inquinati.
Ai fini della configurabilità del reato di omessa bonifica dei siti inquinati, è necessario il superamento della concentrazione soglia di rischio (ovvero, in altri termini, dei livelli di contaminazione delle matrici ambientali che costituiscono valori al di sopra dei quali è necessaria la caratterizzazione del sito e l'analisi di rischio sito specifica) nonché l’adozione del progetto di bonifica previsto dall'art. 242 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.06.2014 n. 25718 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva reato progressivo nell'evento.
Il reato di lottizzazione è inquadrabile nel cd. reato progressivo nell'evento (che è cosa ben diversa dal ritenere che la lottizzazione rientri nello schema del reato progressivo) in cui possono concorrere, nell'unicità della fattispecie incriminatrice, il momento negoziale, quello programmatorio mediante l‘esecuzione di opere di urbanizzazione e quello attuativo con la costruzione degli edifici.
Ed infatti la condotta illegittima, pur nella sua unitarietà, può essere attuata in forme (il reato è a forma libera) e momenti diversi e da una pluralità di soggetti, in concorso fra loro (proprietari, costruttori, geometri, architetti, mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, ecc.) sicché correttamente si può configurare la figura del reato progressivo nell’evento lesivo dell’interesse urbanistico protetto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2014 n. 25182 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Inosservanza delle prescrizioni imposte con l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera e natura del reato.
Il reato di cui all'art. 279, comma 2, d.lgs. 152/2006, relativo all'inosservanza delle prescrizioni imposte con l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera, è reato formale e di pericolo che si perfeziona anche mediante comportamenti incidenti negativamente sul complesso sistema di autorizzazioni e controlli previsto dalla normativa di settore, che è comunque funzionale alla tutela dell'ambiente, la quale è assicurata anche attraverso la regolamentazione, il contenimento ed il monitoraggio di attività potenzialmente inquinanti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2014 n. 24334 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Attivazione senza autorizzazione di scarico proveniente da lavanderia.
L'attivazione di uno scarico, proveniente da lavanderia, di acque reflue qualificabili come industriali in mancanza dei presupposti per l'assimilabilità a quelle domestiche, effettuato in assenza della preventiva autorizzazione, configura la contravvenzione di cui all'art. 137, comma 1, d.lgs. 152/2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2014 n. 24330 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Deposito incontrollato e responsabilità proprietario del fondo.
Non è sufficiente per integrare il reato di abbandono di rifiuti la consapevolezza, da parte del possessore di un fondo, del fenomeno di abbandono sul medesimo di rifiuti da parte di terzi senza che risulti accertato il concorso, a qualsiasi titolo, del predetto possessore del fondo con gli autori del fatto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.06.2014 n. 23911 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Trasporto illecito e confisca del mezzo.
L'art. 259, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 stabilisce che è suscettibile di confisca obbligatoria il mezzo utilizzato per il trasporto abusivo di rifiuti.
Il sequestro preventivo "delle cose di cui è consentita la confisca" si giustifica non per la pericolosità intrinseca della cosa, ma per la funzione generalpreventiva e dissuasiva attribuitale dal legislatore.
La sopravvenuta autorizzazione al titolare dell'automezzo adibito al trasporto di rifiuti non esclude la confisca del mezzo stesso, precedentemente sottoposto a sequestro preventivo per la mancanza di detta autorizzazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.06.2014 n. 22903 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Sussiste l’onere dichiarativo previsto dal combinato disposto degli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006 che impone, per ogni tipo di appalto, la specificazione già in sede di offerta dei costi di sicurezza aziendali, non potendosi ritenere a tal fine utile la dichiarazione resa dalle imprese di gara ai sensi della lettera B, punto 17, del disciplinare di gara che si limita a richiedere al concorrente un generico impegno ad aver valutato tutti gli elementi incidenti sulla propria offerta.
Di tali costi l’ordinamento prevede l’indicazione con norme immediatamente precettive (cfr. i citati artt. 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008) e tali da eterointegrare, in virtù del loro carattere imperativo (in ragione degli interessi di ordine pubblico che tutelano, in quanto poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori), ogni diversa disciplina di gara.
L’indicazione degli oneri aziendali costituisce pertanto un elemento essenziale dell’offerta, la cui mancanza rileva (quale specifica di esclusione) ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 determina un’insanabile incompletezza dell’offerta medesima “in quanto rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità dell’offerta stessa”.
A fronte di tale lacuna, dunque, non può essere attivato alcun soccorso istruttorio, dal momento che con esso si determina l’integrazione/modificazione ex post di un elemento essenziale dell’offerta in violazione del fondamentale principio della par condicio dei concorrenti.

Il motivo è fondato.
Dagli atti di causa emerge che nel corso della seconda seduta di gara (del 31.07.2013) la stazione appaltante dava atto del fatto che l’offerta della ricorrente, diversamente dalle offerte economiche degli altri concorrenti, recasse in allegato un “documento nel quale [erano] indicati i costi relativi alla sicurezza aziendale … determinati in 120.000,00 per l’intera durata contrattuale” e ciò nondimeno, rinvenuto il miglior ribasso nell’offerta prospettata dal RTI capeggiato da Conav, aggiudicava provvisoriamente l’appalto a quest’ultimo.
Nella successiva seduta del 04.09.2013, dopo aver ribadito la suddetta circostanza, la stazione appaltante rilevava che i tre concorrenti avevano prodotto, tra la documentazione di gara, la dichiarazione richiesta dalla lettera B, punto 17, del disciplinare di gara secondo la quale l’impresa aveva tenuto conto, “in sede di preparazione dell’offerta, degli obblighi in materia di sicurezza, di condizioni di lavoro, di previdenza e di assistenza a favore dei lavoratori dipendenti in vigore nel luogo dove deve essere eseguito il servizio” e che il “Comune al fine di poter comparare le offerte, [aveva] richiesto ai tre concorrenti una dichiarazione sui costi della sicurezza aziendale, con specificazione delle singole voci che concorrono a formarli” (cfr. verbale della seduta del 04.09.2013).
La stazione appaltante dava poi atto (nella medesima seduta) che i concorrenti avevano provveduto a trasmettere la nota richiesta e che “tuttavia CONAV nell’elencazione delle singole voci non [aveva] tenuto conto della voce relativa ai costi di primo soccorso relativi a 22 autisti che svolgeranno il servizio in assenza dell’accompagnatore” e che ad una successiva richiesta CONAV aveva risposto che tali costi ammontavano a euro 1.860,00 annui.
Ritiene il Collegio che tale modus operandi abbia senz’altro violato l’onere dichiarativo previsto dal combinato disposto degli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006 che impone, per ogni tipo di appalto, la specificazione già in sede di offerta dei costi di sicurezza aziendali, non potendosi ritenere a tal fine utile la dichiarazione resa dalle imprese di gara ai sensi della lettera B, punto 17, del disciplinare di gara (sopra riportata) che si limita a richiedere al concorrente un generico impegno ad aver valutato tutti gli elementi incidenti sulla propria offerta.
Di tali costi l’ordinamento prevede l’indicazione con norme immediatamente precettive (cfr. i citati artt. 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008) e tali da eterointegrare, in virtù del loro carattere imperativo (in ragione degli interessi di ordine pubblico che tutelano, in quanto poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori), ogni diversa disciplina di gara (cfr. in senso conforme Consiglio di Stato, sez. III, 18.10.2013, n. 5070 e sez. III, 03.07.2013, n. 3565).
L’indicazione degli oneri aziendali costituisce pertanto un elemento essenziale dell’offerta, la cui mancanza rileva (quale specifica di esclusione) ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 determina un’insanabile incompletezza dell’offerta medesima “in quanto rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità dell’offerta stessa” (così TAR Veneto, sez. I, n. 228 del 17.02.2014; nonché in senso conforme: TAR Lombardia Brescia, sez. II, 19.02.2013, n. 181; nello stesso senso, tra le più recenti, TAR Lazio Roma, sez. II-ter, 07.01.2013, n. 66; TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 14.01.2013 n. 56).
A fronte di tale lacuna, dunque, non poteva essere attivato alcun soccorso istruttorio, dal momento che con esso si sarebbe determinata, come in effetti è accaduto nella fattispecie sottoposta a scrutinio, l’integrazione/modificazione ex post di un elemento essenziale dell’offerta in violazione del fondamentale principio della par condicio dei concorrenti (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 03.06.2014 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa titolarità del diritto dominicale dell’opera non costituisce presupposto giuridico per chiedere prima ed ottenere poi l’accertamento di conformità dell’immobile abusivamente realizzato.
Tanto meno il relativo accertamento giudiziale ha carattere di questione pregiudiziale nel processo amministrativo sul diniego.
La platea degli aventi diritto, per orientamento giurisprudenziale consolidato qui condiviso, non è affatto circoscritta a chi vanti una situazione giuridica d’appartenenza sull’opus, essendo estesa, oltre al responsabile dell’abuso, a tutti coloro i quali abbiano un interesse qualificato alla sanatoria. E che –va rimarcato– coincide con l’interesse pubblico alla celere regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa, suscettibili di essere riparate, ai sensi dell’art. 36, comma 2, t.u.ed., mediante il pagamento del contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi all’adeguamento dell’assetto urbano.
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Non v’è affatto coincidenza soggettiva fra richiedenti il titolo edilizio, indicati nell’art. 11 t.u.ed. per il tramite del riferimento al diritto di proprietà dell’immobile o ad un titolo giuridico equivalente, e quanti invece presentino la domanda d’accertamento di conformità dell’opera abusivamente realizzata.
Per individuarli, l’art. 36 t.u.ed. evoca in primo luogo la figura del responsabile dell’abuso che è categoria onnicomprensiva enucleabile mediante una relazione di fatto (non di diritto) con l’immobile: aver concorso a vario titolo (esemplificamente: committente economico, appaltante materiale, direttore dei lavori, esecutore dei lavori) alla realizzazione dell’opera abusiva.
Sicché la controversia sub judice sulla proprietà dell’area di sedime, non costituisce causa ostativa alla definizione della domanda di sanatoria, rilasciata con la consueta formula di stile “salvi i diritti dei terzi” e, per quel che più rileva sul piano sostanziale, in alcun modo condizionata dalla res litigiosa civile.
Aggiungasi che colui il quale abbia versato le somme richieste per sanare gli abusi ha comunque la possibilità di agire in via di regresso su chi, (in ipotesi) all’esito della controversia, risulti essere effettivo proprietario, conseguendo la ripetizione dell’esborso patrimoniale

È fondata la censura che deduce la falsa applicazione dell’art. 36 d.P.R. 380/2001.
La titolarità del diritto dominicale dell’opera, come sottolineato in ricorso, non costituisce presupposto giuridico per chiedere prima ed ottenere poi l’accertamento di conformità dell’immobile abusivamente realizzato.
Tanto meno il relativo accertamento giudiziale ha carattere di questione pregiudiziale nel processo amministrativo sul diniego.
La platea degli aventi diritto, per orientamento giurisprudenziale consolidato qui condiviso, non è affatto circoscritta a chi vanti una situazione giuridica d’appartenenza sull’opus, essendo estesa, oltre al responsabile dell’abuso, a tutti coloro i quali abbiano un interesse qualificato alla sanatoria (cfr., Cons. St., sez. V, 11.06.2013 n. 3220; Id., sez. VI, 27.06.2008 n. 3282). E che –va rimarcato– coincide con l’interesse pubblico alla celere regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa, suscettibili di essere riparate, ai sensi dell’art. 36, comma 2, t.u.ed., mediante il pagamento del contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi all’adeguamento dell’assetto urbano.
In senso contrario a quanto supposto dal Comune, non v’è affatto coincidenza soggettiva fra richiedenti il titolo edilizio, indicati nell’art. 11 t.u.ed. per il tramite del riferimento al diritto di proprietà dell’immobile o ad un titolo giuridico equivalente, e quanti invece presentino la domanda d’accertamento di conformità dell’opera abusivamente realizzata.
Per individuarli, l’art. 36 t.u.ed. evoca in primo luogo la figura del responsabile dell’abuso che è categoria onnicomprensiva enucleabile mediante una relazione di fatto (non di diritto) con l’immobile: aver concorso a vario titolo (esemplificamente: committente economico, appaltante materiale, direttore dei lavori, esecutore dei lavori) alla realizzazione dell’opera abusiva.
Sicché la controversia sub judice sulla proprietà dell’area di sedime, non costituisce causa ostativa alla definizione della domanda di sanatoria, rilasciata con la consueta formula di stile “salvi i diritti dei terzi” e, per quel che più rileva sul piano sostanziale, in alcun modo condizionata dalla res litigiosa civile.
Aggiungasi che colui il quale abbia versato le somme richieste per sanare gli abusi ha comunque la possibilità di agire in via di regresso su chi, (in ipotesi) all’esito della controversia, risulti essere effettivo proprietario, conseguendo la ripetizione dell’esborso patrimoniale (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 28.05.2014 n. 800 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La particolare sanatoria prevista dall’art. 36 DPR 380/2001 non può essere più richiesta quando sia definitivamente decorso il termine di novanta giorni dall’ingiunzione di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi (nel caso di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità e con variazioni essenziali, art. 7) ovvero quello fissato dal sindaco nell’ordinanza di demolizione (nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia, art. 9, comma 1, e di opere eseguite in parziale difformità dalla concessione, art. 12, comma 1) e, nel caso di opere eseguite senza autorizzazione, ex art. 10, fino alla irrogazione delle sanzioni amministrative.
Il legislatore ha in tal modo inteso contemperare i contrapposti interessi in conflitto, subordinando la sanatoria dell’abuso edilizio, di natura esclusivamente formale per la sola mancanza del titolo abilitativo o per la violazione dello stesso, stante invece la sua doppia conformità edilizia ed urbanistica (al momento della realizzazione dell’opera e al momento della domanda), al mancato definitivo consolidarsi del provvedimento sanzionatorio di demolizione o di irrogazione della sanzione, indipendentemente dal fatto che la sanzione sia stata effettivamente già portata ad esecuzione.
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Per la consolidata giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico.
Come rilevato da questo Consiglio, tale ragionevolezza risulta da due fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge:
a) evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile);
b) disporre una regola senz’altro dissuasiva dell’intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell’abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico.

L’articolo 13 della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso nell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380), su cui è stata fondata l’istanza di concessione in sanatoria dell’abuso edilizio, negata col provvedimento impugnato in primo grado, stabilisce che il responsabile dell’abuso possa ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria, quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda, “fino alla scadenza del termine di cui all’art. 7, terzo comma, per i casi di opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità o con varianti essenziali, o dei termini stabiliti nell’ordinanza del sindaco di cui al primo comma dell’art. 9, nonché, nei casi di parziale difformità, nel termine di cui al primo comma dell’art. 12, ovvero nel caso di opere eseguite in assenza di autorizzazione ai sensi dell’art. 10 o comunque fino alla irrogazione delle sanzioni”.
La particolare sanatoria prevista dall’articolo in esame non può pertanto essere più richiesta quando sia definitivamente decorso il termine di novanta giorni dall’ingiunzione di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi (nel caso di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità e con variazioni essenziali, art. 7) ovvero quello fissato dal sindaco nell’ordinanza di demolizione (nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia, art. 9, comma 1, e di opere eseguite in parziale difformità dalla concessione, art. 12, comma 1) e, nel caso di opere eseguite senza autorizzazione, ex art. 10, fino alla irrogazione delle sanzioni amministrative.
Il legislatore ha in tal modo inteso contemperare i contrapposti interessi in conflitto, subordinando la sanatoria dell’abuso edilizio, di natura esclusivamente formale per la sola mancanza del titolo abilitativo o per la violazione dello stesso, stante invece la sua doppia conformità edilizia ed urbanistica (al momento della realizzazione dell’opera e al momento della domanda), al mancato definitivo consolidarsi del provvedimento sanzionatorio di demolizione o di irrogazione della sanzione, indipendentemente dal fatto che la sanzione sia stata effettivamente già portata ad esecuzione (sul rapporto di consequenzialità tra provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime rispetto all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi e sulla loro non autonoma impugnabilità in mancanza di tempestiva impugnazione dell'atto con cui era stata ingiunta la demolizione, tra le tante Cons. St., sez. V, 10.01.2007, n. 40).
Da ciò deriva la natura perentoria dei termini sopra indicati.
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Per la consolidata giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico.
Come rilevato da questo Consiglio (Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, cit.), tale ragionevolezza risulta da due fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge:
a) evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile);
b) disporre una regola senz’altro dissuasiva dell’intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell’abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2755 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: L’offerta deve essere valutata nella globalità dei servizi e delle prestazioni a questi riferibili, non rilevando (ai fini della verifica della anomalia) che lo svolgimento di un servizio di non rilevante entità, rispetto al complesso di quelli offerti, sia offerto sottocosto, in quanto compensabile con quanto ricavato dallo svolgimento degli altri servizi.
D’altra parte, ai sensi dell'art. 86, del d.lgs. n. 163 del 2006, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accertato quando risulti puntualmente e rigorosamente giustificato.
Con particolare riguardo alla questione del costo del lavoro, è stato anche affermato che un’offerta non può essere ritenuta senz'altro anomala e comportante l'automatica esclusione dalla gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali, giacché queste ultime non costituiscono parametri inderogabili, ma solo indici del giudizio di congruità; così che -ai fini del giudizio di anomalia dell'offerta- è necessario che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva.
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Sebbene, ai sensi degli artt. 17 e 27 del d.lgs. n. 163 del 2006, la procedura riguardante la verifica dell'anomalia dell'offerta non sia obbligatoria quando questa ha per oggetto contratti esclusi, tuttavia la stessa è rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante, la cui determinazione è sindacabile in sede giurisdizionale se microscopicamente irragionevole.

Sennonché, fermo restando che non può ragionevolmente dubitarsi della legittimità della determinazione assunta dall’amministrazione appaltante di affidare la valutazione delle offerte presentate ad un consulente di propria fiducia (determinazione nei cui confronti peraltro non sono state sollevati specifici mezzi di censura, del tutto inammissibili, oltre che irrilevanti ed ininfluenti, essendo le considerazioni svolte circa la singolarità della scelta del consulente e l’imputazione della relativa spesa, questione quest’ultima che comunque potrebbe integrare una ipotesi di irregolarità e non di invalidità dell’atto), la Sezione osserva che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, l’offerta deve essere valutata nella globalità dei servizi e delle prestazioni a questi riferibili, non rilevando (ai fini della verifica della anomalia) che lo svolgimento di un servizio di non rilevante entità, rispetto al complesso di quelli offerti, sia offerto sottocosto, in quanto compensabile con quanto ricavato dallo svolgimento degli altri servizi (caso di offerta di servizio in cui i costi medi della manodopera si discostano in modo enorme da quelli individuati dal decreto ministeriale sul costo del lavoro, Cons. St., sez. V, 14.06.2013, n. 3314).
D’altra parte, ai sensi dell'art. 86, del d.lgs. n. 163 del 2006, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accertato quando risulti puntualmente e rigorosamente giustificato (Cons. St., sez. VI. 22.03.2013, n. 1633; 29.05.2012, n. 3226).
Con particolare riguardo alla questione del costo del lavoro, è stato anche affermato che un’offerta non può essere ritenuta senz'altro anomala e comportante l'automatica esclusione dalla gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali, giacché queste ultime non costituiscono parametri inderogabili, ma solo indici del giudizio di congruità; così che -ai fini del giudizio di anomalia dell'offerta- è necessario che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata (Cons. St., sez. IV, 23.07.2012, n. 4306), purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva (Cons. St., sez. III, 28.05.2012, n. 3134).
Alla luce di tali consolidati principi effettivamente la impugnata determinazione dell’amministrazione appaltante risulta affetta dai vizi indicati, atteso che l’esclusione dalla gara si fonda esclusivamente sulla ravvisata incongruità dei costi del lavoro e sulla sostanziale inaffidabilità, sotto questo solo profilo, dell’offerta della società appellante, non essendo stata invece effettuata la necessaria valutazione complessiva della eventuale anomalia dell’offerta, verificando cioè, anche alla luce della giustificazioni, osservazioni e controdeduzioni fornite dalla società interessata, se le discordanze concernenti i costi del lavoro, ancorché in assoluto di per sé non giustificabili, potessero in concreto trovare giustificazioni o compensazioni in altri voci dell’offerta proposta.
Né sul punto può essere condivisa l’argomentazione difensiva dell’amministrazione comunale secondo cui nel caso di specie, trattandosi di un appalto escluso dall’applicazione della normativa del codice dei contratti pubblici, non poteva trovare ingresso la procedura di verifica dell’anomalia dell’offerta.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di rilevare che sebbene, ai sensi degli artt. 17 e 27 del d.lgs. n. 163 del 2006, la procedura riguardante la verifica dell'anomalia dell'offerta non sia obbligatoria quando questa ha per oggetto contratti esclusi, tuttavia la stessa è rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante, la cui determinazione è sindacabile in sede giurisdizionale se microscopicamente irragionevole (Cons. St., sez. IV, 04.06.2013, n. 3059): nel caso in esame, come emerge dall’esame del disciplinare di gara, l’amministrazione appaltante aveva effettivamente previsto lo svolgimento della procedura di verifica dell’anomalia dell’offerta (con ciò autovincolandosi), non essendo attribuibile diverso significato alla disposizione riportata nella pag. 13 del predetto disciplinare, a proposito del contenuto della busta C, secondo cui “Al fine della verifica dell’anomalia, ciascun concorrente dovrà indicare, in sede di offerta e per ciascun servizio, la composizione del prezzo orario, il quale dovrà tener conto dell’inderogabilità dei minimi salariali previsti dai contratti collettivi di lavoro, dei costi e degli utili di impresa”.
Del resto, significativamente la stessa ricordata previsione del disciplinare di gara esclude anch’essa che il solo discostarsi dell’offerta quanto al costo del lavoro dai minimi inderogabili salariali previsti dai contratti collettivi di lavoro determini automaticamente l’inaffidabilità dell’offerta e giustifichi un automatico giudizio di anomalia.
A ciò consegue l’illegittimità del provvedimento impugnato, non già per essere fondato sulle osservazioni del consulente dell’amministrazione, ma per il fatto che è mancata la valutazione dell’offerta nel suo complesso, essendosi la valutazione dell’amministrazione fermata alla riscontrata incongruità ed inaffidabilità degli esposti costi del lavoro, senza verificare se i discostamenti degli stessi dalle tariffe minime inderogabili potesse trovare una giustificazione (ed un’eventuale compensazione) nella globalità dell’offerta presentata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’aggiudicazione provvisoria di una gara pubblica ha natura di atto endoprocedimentale, ad effetti instabili ed interinali, soggetta, a’ sensi dell’art. 12 del D.L.vo 12.04.2006 n. 163 all’approvazione dell’organo a ciò competente nel contesto organizzativo dell’amministrazione aggiudicatrice.
In dipendenza di ciò, l’instabilità degli effetti dell’aggiudicazione provvisoria non obbliga il concorrente non dichiarato aggiudicatario provvisorio all’immediata impugnazione di tale provvedimento, ma sostanzia una sua facoltà al riguardo, posto che l’atto finale della procedura di gara è comunque l’aggiudicazione definitiva, la quale non costituisce atto meramente confermativo dell’aggiudicazione provvisoria, ma esprime la volontà provvedimentale definitiva della stazione appaltante e presuppone, quindi, l’approvazione di tutti gli atti di gara, inclusa dunque la precedente esclusione di concorrenti diversi dal vincitore.
Aggiudicazione provvisoria e aggiudicazione definitiva sono pertanto atti connotati da autonome valutazioni dell’amministrazione in merito all’esito della gara, tali che la rimozione della prima non caduca automaticamente la seconda, poiché quest’ultima non ne è l’esito ineluttabile, ma il frutto di ulteriore esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione; ossia, il bene della vita del concorrente che assume di essere stato illegittimamente pretermesso è con ciò leso da due distinti provvedimenti: l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva, solo l’ultimo dei quali –peraltro- cristallizza la lesione inferta al suo interesse legittimo; rimane fermo che il provvedimento di esclusione, secondo ricevuti principi giurisprudenziali, impedendo in via immediata e diretta all’impresa di proseguire nella partecipazione alla procedura di gara, deve essere sollecitamente impugnato nel rispetto dei rigorosi termini decadenziali previsti dalla legge.
Detto altrimenti –e in via più generale– va ricordato che nell’ambito del rapporto di presupposizione corrente fra atti inseriti all’interno di un più ampio contesto procedimentale occorre distinguere fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, atteso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto determina l’automatico travolgimento dell’atto consequenziale senza bisogno che questo ultimo sia stato autonomamente impugnato, nel mentre in caso di invalidità ad effetto viziante l’atto consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità derivata, ma resta efficace salva apposita e idonea impugnazione, resistendo all’annullamento dell’atto presupposto: e la figura dell’invalidità ad effetto caducante non ricorre –per l’appunto- fra aggiudicazione provvisoria ed aggiudicazione definitiva, proprio perché, per quanto detto innanzi, l’aggiudicazione provvisoria è solo un atto endo-procedimentale, dagli effetti ancora instabili e meramente interinali, nel mentre autonoma incidenza lesiva assume soltanto l’aggiudicazione definitiva, quale provvedimento di formale ricezione, da parte dell’amministrazione, dell’esito della gara, con nuova e conclusiva valutazione degli interessi.
Alle medesime conclusioni si perviene in relazione al giudizio avente ad oggetto l’esclusione dal procedimento ad evidenza pubblica, in quanto l’omessa impugnazione dell’aggiudicazione definitiva non può che comportare (di norma e salvo casi particolari che non ricorrono nella specie), l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse alla sua decisione.

L’aggiudicazione provvisoria di una gara pubblica ha natura di atto endoprocedimentale, ad effetti instabili ed interinali, soggetta, a’ sensi dell’art. 12 del D.L.vo 12.04.2006 n. 163 all’approvazione dell’organo a ciò competente nel contesto organizzativo dell’amministrazione aggiudicatrice (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 22.01.2014 n. 313).
In dipendenza di ciò, l’instabilità degli effetti dell’aggiudicazione provvisoria non obbliga il concorrente non dichiarato aggiudicatario provvisorio all’immediata impugnazione di tale provvedimento, ma sostanzia una sua facoltà al riguardo (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 11.12.2013 n. 5945), posto che l’atto finale della procedura di gara è comunque l’aggiudicazione definitiva, la quale non costituisce atto meramente confermativo dell’aggiudicazione provvisoria, ma esprime la volontà provvedimentale definitiva della stazione appaltante e presuppone, quindi, l’approvazione di tutti gli atti di gara, inclusa dunque la precedente esclusione di concorrenti diversi dal vincitore (così Cons. Stato, A.P., 29.11.2012 n. 36).
Aggiudicazione provvisoria e aggiudicazione definitiva sono pertanto atti connotati da autonome valutazioni dell’amministrazione in merito all’esito della gara, tali che la rimozione della prima non caduca automaticamente la seconda, poiché quest’ultima non ne è l’esito ineluttabile, ma il frutto di ulteriore esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione; ossia, il bene della vita del concorrente che assume di essere stato illegittimamente pretermesso è con ciò leso da due distinti provvedimenti: l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva, solo l’ultimo dei quali –peraltro- cristallizza la lesione inferta al suo interesse legittimo; rimane fermo che il provvedimento di esclusione, secondo ricevuti principi giurisprudenziali, impedendo in via immediata e diretta all’impresa di proseguire nella partecipazione alla procedura di gara, deve essere sollecitamente impugnato nel rispetto dei rigorosi termini decadenziali previsti dalla legge.
Detto altrimenti –e in via più generale– va ricordato che nell’ambito del rapporto di presupposizione corrente fra atti inseriti all’interno di un più ampio contesto procedimentale occorre distinguere fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, atteso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto determina l’automatico travolgimento dell’atto consequenziale senza bisogno che questo ultimo sia stato autonomamente impugnato, nel mentre in caso di invalidità ad effetto viziante l’atto consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità derivata, ma resta efficace salva apposita e idonea impugnazione, resistendo all’annullamento dell’atto presupposto: e la figura dell’invalidità ad effetto caducante non ricorre –per l’appunto- fra aggiudicazione provvisoria ed aggiudicazione definitiva, proprio perché, per quanto detto innanzi, l’aggiudicazione provvisoria è solo un atto endo-procedimentale, dagli effetti ancora instabili e meramente interinali, nel mentre autonoma incidenza lesiva assume soltanto l’aggiudicazione definitiva, quale provvedimento di formale ricezione, da parte dell’amministrazione, dell’esito della gara, con nuova e conclusiva valutazione degli interessi (così, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 05.09.2011 n. 4998).
Alle medesime conclusioni si perviene in relazione al giudizio avente ad oggetto l’esclusione dal procedimento ad evidenza pubblica, in quanto l’omessa impugnazione dell’aggiudicazione definitiva non può che comportare (di norma e salvo casi particolari che non ricorrono nella specie), l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse alla sua decisione (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 18.11.2011 n. 6093 e Sez. VI, 29.04.2013 n. 2342; Cons. giust. Reg. Sic. Sez. giurisd. 25.02.2013 n. 281, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2710 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione in forza dei quali:
   a)
la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
  
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
   c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
   d)
al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione.
Ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione;
  
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto inverosimili.

Il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22.10.2013, n. 23993; sez. un., 23.03.2011, n. 6594; sez. un., 11.01.2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19.04.2013, n. 7; ad. plen., 23.03.2011, n. 3; sez. III, 19.03.2014, n. 1357; sez. V, 17.01.02014, n. 183; sez. V, 31.10.2013, n. 5247; sez. V, 21.06.2013, n. 3408; sez. III, 30.05.2012, n. 3245; sez. IV, 22.05.2012, n. 2974; sez. IV, 02.04.2012, n. 1957; sez. IV, 31.01.2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto inverosimili.
Per quanto poi concerne l’aspetto che qui segnatamente rileva, ossia il nesso causale tra l’illecito e il danno subito, va parimenti rimarcato che l’onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di diritti inviolabili della persona (ad es. il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.), costituisce pur sempre un’ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiante.
Ne consegue, quindi, che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, da parte di colui che si pretende danneggiato, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.
In una con i principi elaborati dalle sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. le celebri sentenze gemelle sez. un., nn. 26973, 26974, 26975 del 2008, successivamente si vedano gli affinamenti elaborati da Cass. civ., sez. III, 2228 del 2012) e dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (n. 7 del 2013 cit.), si rileva che mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno non patrimoniale -da intendersi come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul “fare areddittuale” del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno- deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova per presunzioni; ne discende che il prestatore di lavoro, che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Finalità della destinazione d'uso.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2014 n. 20773 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 21-nonies L. n. 241 del 1990 ha declinato le coordinate per il valido esercizio del potere di autotutela, ponendo quali indefettibili condizioni di legalità per l'esercizio del relativo potere, la necessità che l'atto di autotutela sia sorretto dal rilievo della sussistenza di ragioni di interesse pubblico alla rimozione del provvedimento viziato.
In particolare, tale norma, recependo principi di remota origine giurisprudenziale, stabilisce che la potestà di annullamento di atti amministrativi presuppone l'esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all'annullamento e prescrive che, nella ponderazione di tale interesse, debba venire considerato anche quello dei soggetti privati coinvolti dall'azione amministrativa, avendo particolare riguardo per l'affidamento eventualmente creatosi in capo a costoro per effetto del trascorrere del tempo. L'art. 21-nonies conferma, quindi, la dimensione tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio che, rifuggendo da ogni automatismo, deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento di ritiro.
Pertanto, ogni qualvolta la posizione del destinatario di un provvedimento amministrativo si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla legittimità del titolo stesso, l'esercizio del potere di autotutela rimane subordinato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all'annullamento, diverso da quello al mero ripristino della legalità violata e comunque prevalente sull'interesse del privato alla conservazione del titolo illegittimo.

... per l'annullamento della nota prot. n. 1656 del 29.01.2013, ricevuta in data 07.02.2013, avente ad oggetto "pratica edilizia n. 50 anno 2010, denuncia inizio attività acquisita in data 19.03.2010 prot. 4924 per installazione di un impianto fotovoltaico su tettoia in struttura metallica, sul terreno sito in Via del Mare e riportato in Catasto al Fg.6, p.lla 1507, ordine motivato di non effettuare l'intervento denunciato, art. 23, co. 6, del D.P.R. 380/2001", ove occorra, delle note prot. nn. 9708/9709 del 06.06.2011 richiamate nella nota del 29.01.2013, non in possesso della ricorrente, di ogni atto comunque connesso, presupposto e consequenziale
....
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
L'art. 21-nonies L. n. 241 del 1990 ha declinato le coordinate per il valido esercizio del potere di autotutela, ponendo quali indefettibili condizioni di legalità per l'esercizio del relativo potere, la necessità che l'atto di autotutela sia sorretto dal rilievo della sussistenza di ragioni di interesse pubblico alla rimozione del provvedimento viziato.
In particolare, tale norma, recependo principi di remota origine giurisprudenziale, stabilisce che la potestà di annullamento di atti amministrativi presuppone l'esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all'annullamento e prescrive che, nella ponderazione di tale interesse, debba venire considerato anche quello dei soggetti privati coinvolti dall'azione amministrativa, avendo particolare riguardo per l'affidamento eventualmente creatosi in capo a costoro per effetto del trascorrere del tempo. L'art. 21-nonies conferma, quindi, la dimensione tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio che, rifuggendo da ogni automatismo, deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento di ritiro. Pertanto, ogni qualvolta la posizione del destinatario di un provvedimento amministrativo si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla legittimità del titolo stesso, l'esercizio del potere di autotutela rimane subordinato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all'annullamento, diverso da quello al mero ripristino della legalità violata e comunque prevalente sull'interesse del privato alla conservazione del titolo illegittimo (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VII, 07.05.2008, n. 3511).
Dall’esame del provvedimento impugnato, al contrario, risulta che:
a) viene genericamente affermata la mera violazione di disposizioni di carattere urbanistico (richiamandosi la destinazione impressa all’area dall’art. 2.15 delle NTA del PRG che tipizza l’area “a verde privato” subordinando ogni intervento all’approvazione di un progetto unitario sull’intera maglia);
b) non viene in alcun modo allegato uno specifico interesse pubblico (diverso come si è visto dalla mera legittimità degli atti) alla rimozione del titolo edilizio ormai formatosi da un congruo lasso di tempo;
c) di conseguenza, non è stata neppure condotta una qualsivoglia comparazione tra tale interesse pubblico e la posizione vantata in ogni caso dal privato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.05.2014 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse storico-artistico su un immobile, tali da giustificare l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria discrezionalità amministrativa.
Tale valutazione è espressione di una prerogativa esclusiva dell'Amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere inattendibilità della valutazione tecnica-discrezionale compiuta.
La declaratoria di particolare interesse storico ed artistico di un immobile scaturisce, infatti, dall'applicazione di canoni e criteri aventi peraltro un grado notevole di opinabilità, poiché basati sulla valutazione del contenuto artistico e della rilevanza storica dei beni, con l'effetto dell'ampiezza della discrezionalità esercitata e della conseguente limitazione del riscontro di legittimità al solo difetto di motivazione, alla illogicità manifesta e all'errore di fatto.
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Non può ritenersi sussistente il dedotto difetto motivazionale del decreto impositivo del vincolo, dovendo lo stesso considerarsi legittimamente motivato per relationem con riferimento all'allegata relazione storico architettonica.
Invero, l'art. 3 della L. n. 241 del 1990 consente l'uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti dell'Amministrazione, che devono essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità dell'atto va intesa nel senso che all'interessato deve essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste l'obbligo dell'Amministrazione di notificare all'interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l'obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su richiesta dell'interessato.

Oggetto del ricorso è la legittimità del procedimento di dichiarazione di interesse culturale dell'immobile denominato Palazzo Guglielmo e, in particolare, della dichiarazione di interesse particolarmente importante del bene resa, a conclusione del procedimento, dal Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. a), del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42.
In primo luogo, destituita di fondamento è la censura con cui parte ricorrente deduce l'erroneità del giudizio espresso dalla Soprintendenza sul valore storico architettonico dell'immobile de quo.
Secondo la giurisprudenza "Le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse storico-artistico su un immobile, tali da giustificare l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria discrezionalità amministrativa. Tale valutazione è espressione di una prerogativa esclusiva dell'Amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere inattendibilità della valutazione tecnica-discrezionale compiuta. La declaratoria di particolare interesse storico ed artistico di un immobile scaturisce, infatti, dall'applicazione di canoni e criteri aventi peraltro un grado notevole di opinabilità, poiché basati sulla valutazione del contenuto artistico e della rilevanza storica dei beni, con l'effetto dell'ampiezza della discrezionalità esercitata e della conseguente limitazione del riscontro di legittimità al solo difetto di motivazione, alla illogicità manifesta e all'errore di fatto" (Consiglio di Stato sez. VI, 30.06.2011, n. 3894; in senso analogo Consiglio di Stato sez. VI 03.05.2011, n. 2607; Consiglio Stato sez. VI, 29.09.2009, n. 5869; Consiglio Stato sez. VI, 19.06.2009, n. 4066; Consiglio Stato sez. VI, 06.03.2009; n. 1332).
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Né può ritenersi sussistente il dedotto difetto motivazionale del decreto impositivo del vincolo, dovendo lo stesso considerarsi legittimamente motivato per relationem con riferimento all'allegata relazione storico architettonica.
E, invero, l'art. 3 della L. n. 241 del 1990 consente l'uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti dell'Amministrazione, che devono essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità dell'atto va intesa nel senso che all'interessato deve essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste l'obbligo dell'Amministrazione di notificare all'interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l'obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su richiesta dell'interessato (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.05.2005, n. 6500; 18.01.2005, n. 178)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.05.2014 n. 1245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le valutazioni tecniche, quali quelle della Soprintendenza, possono essere sindacate esclusivamente nel caso in cui le stesse risultino contrarie al principio di ragionevolezza tecnica e, quindi, sono soggette al sindacato entro i consueti canoni della ragionevolezza, della assenza di evidenti e palesi contraddittorietà logiche o abnormità di fatto.
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In base ai principi affermati dalla Corte costituzionale, la tutela ambientale e paesaggistica ha ad oggetto un bene complesso ed unitario, che costituisce un valore primario ed assoluto.
Pertanto, non è corretto ritenere la legittimità dell’intervento (in zona ambientalmente vincolata) per il solo fatto che non incide direttamente sulla parte vegetazionale o sulle dune.
Sicché, risulta legittimo il parere negativo espresso dalla Soprintendenza secondo il quale "se realizzate, le opere in progetto, ancorché stagionali, determinerebbero significativa alterazione del sito vincolato, caratterizzato dalla presenza di dune coperte da fitta macchia mediterranea. È appena il caso di osservare che proprio questa porzione di litorale è stata oggetto di opere di salvaguardia da parte del Comune di Porto Cesareo, attraverso la realizzazione di steccati di legno e pedane che perimetrano le dune, rimarcando in tal modo l’eccezionale valore paesaggistico e naturalistico del sito. L’area posta tra le dune, dove si intende collocare il manufatto in progetto, costituisce parte integrante dell’insieme paesaggistico-naturalistico e definisce un tratto pianeggiante e sabbioso, dal quale si traguarda il mare e il litorale. Detto insieme panoramico verrebbe gravemente alterato dall’inserimento del volume in progetto che intercetterebbe le visuali accennate, impedendo la lettura del sistema dunale e del contesto marino".

... per l'annullamento:
- del parere contrario espresso sulla richiesta di autorizzazione paesaggistica per l'esecuzione delle opere di installazione di strutture balneari precarie per chiosco bar, pedane e servizi igienici su area detenuta in concessione demaniale distinta in catasto fl. 12 ptc. 1981 del litorale di Porto Cesareo in Località Castiglione, comunicato con atto prot. 10556 del 20/06/2013, ricevuto in data 09/07/2013;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale, ivi incluso il parere sfavorevole espresso in data 03/06/2013 dalla Commissione locale per il paesaggio del Comune di Porto Cesareo.
...
Il ricorso è infondato.
La giurisprudenza ha chiarito che le valutazioni tecniche, quali quelle della Soprintendenza, possono essere sindacate esclusivamente nel caso in cui le stesse risultino contrarie al principio di ragionevolezza tecnica (Cons. St., sez. VI, 07.09.2012, n. 4759), e quindi sono soggette al sindacato entro i consueti canoni della ragionevolezza, della assenza di evidenti e palesi contraddittorietà logiche o abnormità di fatto.
La Soprintendenza ha espresso parere negativo in quanto “se realizzate, le opere in progetto, ancorché stagionali, determinerebbero significativa alterazione del sito vincolato, caratterizzato dalla presenza di dune coperte da fitta macchia mediterranea. È appena il caso di osservare che proprio questa porzione di litorale è stata oggetto di opere di salvaguardia da parte del Comune di Porto Cesareo, attraverso la realizzazione di steccati di legno e pedane che perimetrano le dune, rimarcando in tal modo l’eccezionale valore paesaggistico e naturalistico del sito. L’area posta tra le dune, dove si intende collocare il manufatto in progetto, costituisce parte integrante dell’insieme paesaggistico-naturalistico e definisce un tratto pianeggiante e sabbioso, dal quale si traguarda il mare e il litorale. Detto insieme panoramico verrebbe gravemente alterato dall’inserimento del volume in progetto che intercetterebbe le visuali accennate, impedendo la lettura del sistema dunale e del contesto marino”.
La ricorrente contesta tale affermazione, rilevando come l’intervento non inciderebbe “sulla salvaguardia dello specifico bene paesaggistico considerato”, posto che “i manufatti di progetto ricadono tutti ed esclusivamente all’interno di un’area sabbiosa completamente pianeggiante e totalmente priva di vegetazione, così da risultare del tutto ininfluente rispetto alle vicine dune ed alla macchia mediterranea sovrastante”.
Tale considerazione non può essere condivisa, in quanto, in base ai principi affermati dalla Corte costituzionale, la tutela ambientale e paesaggistica ha ad oggetto un bene complesso ed unitario, che costituisce un valore primario ed assoluto (sentenze n. 367 del 2007 e n. 182 del 2006).
Pertanto, non è corretto ritenere la legittimità dell’intervento per il solo fatto che non incide direttamente sulla parte vegetazionale o sulle dune.
In sostanza, nessuna irragionevolezza o contraddittorietà è individuabile nella valutazione operata dalla Soprintendenza, laddove ha ritenuto che l’intervento in questione determinerebbe un’alterazione del sito vincolato, caratterizzato dalla presenza di dune e macchia mediterranea (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.05.2014 n. 1241 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICosti della sicurezza di rigore. Senza indicazione, l'azienda resta fuori dall'appalto. Tar del Lazio: l'impresa deve sempre quantificare gli oneri di tutela dei lavoratori.
L'impresa perde l'appalto pubblico quando non indica i costi di sicurezza aziendali, anche se è lo stesso committente a escludere la necessità del Duvri, il documento unico di regolarità contributiva, perché il servizio messo a gara non lo impone. Il fatto che l'amministrazione escluda la sussistenza di rischi d'interferenze non autorizza l'impresa a ignorare nella sua offerta gli oneri di tutela dei lavoratori che scaturiscono direttamente dalla legge.

Lo stabilisce il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, con la sentenza 20.05.2014 n. 5309.
Natura specifica
È la stessa l'amministrazione, nella specie, dichiarare non sussistenti i rischi da interferenze, che risultano pari a zero, «tenuto conto della natura strettamente intellettuale del servizio». Ma ciò non esclude l'onere per l'impresa di prevedere e quantificare in sede di offerta i costi della sicurezza da «rischio specifico»: la necessità deriva direttamente dalla norme di legge che sono poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori e, quindi, sussiste anche quando il disciplinare di gara non contiene alcuna previsione al riguardo. Accolto il ricorso incidentale della concorrente: l'impresa doveva essere subito esclusa dalla procedura.
Spesa pura
In particolare, spiegano i giudici amministrativi, si definisce «costo della sicurezza aziendale», il valore determinato come frazione percentuale delle spese generali che l'impresa sostiene nell'esecuzione dell'appalto, in base alla tipologia dei lavori dell'opera e alla stato dei luoghi.
È stata la legge 98/2013, che ha convertito il dl fare (decreto legge 69/2013) a introdurre il comma 3-bis dell'articolo 82 del codice dei contratti pubblici, il decreto legislativo 163/2006: la novella impone che il costo del lavoro deve essere valutato puntualmente in quanto «costo puro e incomprimibile», che non può essere assoggettato al mercato: la verifica non può limitarsi a un mero controllo di congruità formulato su valutazioni in base a meri parametri e decontestualizzate.
Fra i costi della sicurezza, dunque, rientrano anche gli esborsi riferibili in modo generico alla sicurezza «nel» luogo di lavoro, come oggi dice a chiare lettere il codice appalti nel comma 3-bis dell'articolo 83, aggiunto dalla legge 98/2013 (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).
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Si definisce “costo della sicurezza aziendale” (CS), il valore determinato come frazione percentuale delle spese generali (SG) che l'impresa sostiene nell'esecuzione dell'appalto, in base alla tipologia dei lavori dell'opera e alla stato dei luoghi. Tra tali costi rientrano, certamente, i “costi della sicurezza” e, all’interno di essi, anche quelli genericamente riferibili alla sicurezza “nel” luogo di lavoro, come oggi chiaramente indicato dal nuovo comma 3-bis dell’art. 83 del Codice Appalti (inserito dall’art. 32, comma 7-bis, D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 09.08.2013, n. 98, prima che venisse bandita la gara in questione).
Tale disposizione, con riferimento al criterio del prezzo più basso -ma con una ratio che ad avviso del Collegio deve imprescindibilmente essere applicata anche agli altri criteri– chiarisce che infatti “Il prezzo più basso è determinato al netto (….) delle misure di adempimento alle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
Ciò premesso, come chiarito anche da una recente decisione, i costi di sicurezza per i rischi da interferenza -la cui misura va predeterminata dalla stazione appaltante- devono essere distinti dai costi di sicurezza “aziendali”, la cui quantificazione compete ad ogni concorrente in rapporto alla sua offerta economica, rispetto all'entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura.
L'omessa previa indicazione dei costi per la sicurezza pertanto- sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture- rende l'offerta incompleta sotto un profilo di particolare rilevanza, alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti, impedendo alla stazione appaltante un adeguato controllo sull'affidabilità dell'offerta stessa, con il corollario che la sanzione per tale omissione non può che essere l'esclusione dalla gara, come peraltro stabilito dalla lex specialis di gara.
La circostanza, quindi, che l’amministrazione abbia escluso la sussistenza di rischi da interferenze -e, nel caso in esame, l'obbligo di elaborazione del D.U.V.R.I. in quanto gli oneri di sicurezza per i rischi da interferenza sono pari a zero, “tenuto conto della natura strettamente intellettuale del servizio”- non esclude l’onere per l’impresa di prevedere e quantificare in sede di offerta i costi della sicurezza da c.d. “da rischio specifico” il cui obbligo, come già evidenziato, deriva direttamente dalla norme di legge poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori e, quindi, deve ritenersi sussistente pur ove il disciplinare di gara non rechi alcuna previsione al riguardo.
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, i costi per la sicurezza propri dell’impresa devono essere specificatamente indicati anche nel caso in cui siano eventualmente ritenuti dalla concorrente –per la peculiarità del servizio, del luogo di lavoro o per altre ragioni- pari a “zero”.

La censura merita di essere condivisa.
In particolare, non convincono le argomentazioni fornite dalla ricorrente principale, che ha invocato in proposito l'art. 5 del capitolato d'oneri, il quale precisava che "Ai sensi di quanto disposto dall'art. 26, commi 1, 2, 3 e 5, del D.lgs. n. 81/2008 e s.m.i, non sussiste l'obbligo di elaborazione del D.UV.R.I. in quanto gli oneri di sicurezza per i rischi da interferenza sono pari a zero, tenuto conto della natura strettamente intellettuale del servizio."
In particolare, secondo la ricorrente principale, “poiché la stazione appaltante ha dichiarato che gli oneri di sicurezza per i rischi da interferenza sono pari a zero, tenuto conto della natura strettamente intellettuale del servizio, del tutto legittima appare la valutazione in termini di "irrilevanza" e/o "ininfluenza" dei costi della sicurezza dichiarata dal RTI Borgomeo”.
In proposito, il Collegio -pur non disconoscendo le peculiarità dell’appalto in questione avente ad oggetto il reclutamento di un contingente di personale al fine di integrare, presso la Direzione Generale dell'immigrazione e delle politiche di integrazione in materia di minori stranieri, quello destinato al servizio di assistenza al programma di valutazione e approvazione dei programmi solidaristici di accoglienza temporanea e il monitoraggio sulle modalità di soggiorno dei minori stranieri accolti temporaneamente in Italia, nell'ambito dei programmi solidaristici di accoglienza (sotto il profilo e dell'aggiornamento costante della banca dati informatizzata, impulso alle indagini familiari, rilascio dei pareri ex art. 32 del T.U. sull'immigrazione; e della tutela del minore stesso, a partire dall'accoglienza del minore e fino all'inserimento sociale e lavorativo)- ritiene che ciò non esimesse, comunque, la ricorrente dal prendere specificatamente in considerazione e ponderare adeguatamente, pur con le peculiarità del caso, gli obblighi gravanti ex lege sull’impresa, in materia di indicazione dei costi di sicurezza aziendali.
In particolare, si definisce “costo della sicurezza aziendale” (CS), il valore determinato come frazione percentuale delle spese generali (SG) che l'impresa sostiene nell'esecuzione dell'appalto, in base alla tipologia dei lavori dell'opera e alla stato dei luoghi. Tra tali costi rientrano, certamente, i “costi della sicurezza” e, all’interno di essi, anche quelli genericamente riferibili alla sicurezza “nel” luogo di lavoro, come oggi chiaramente indicato dal nuovo comma 3-bis dell’art. 83 del Codice Appalti (inserito dall’art. 32, comma 7-bis, D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 09.08.2013, n. 98, prima che venisse bandita la gara in questione).
Tale disposizione, con riferimento al criterio del prezzo più basso -ma con una ratio che ad avviso del Collegio deve imprescindibilmente essere applicata anche agli altri criteri– chiarisce che infatti “Il prezzo più basso è determinato al netto (….) delle misure di adempimento alle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
Ciò premesso, come chiarito anche da una recente decisione (cfr. TAR Lazio Latina Sez. I, 15.01.2014, n. 7), i costi di sicurezza per i rischi da interferenza -la cui misura va predeterminata dalla stazione appaltante- devono essere distinti dai costi di sicurezza “aziendali”, la cui quantificazione compete ad ogni concorrente in rapporto alla sua offerta economica, rispetto all'entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura.
L'omessa previa indicazione dei costi per la sicurezza pertanto- sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture- rende l'offerta incompleta sotto un profilo di particolare rilevanza, alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti, impedendo alla stazione appaltante un adeguato controllo sull'affidabilità dell'offerta stessa, con il corollario che la sanzione per tale omissione non può che essere l'esclusione dalla gara (cfr. TAR Lazio Latina Sez. I, 15.01.2014, n. 7; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 181/2013, cit.), come peraltro stabilito dalla lex specialis di gara.
La circostanza, quindi, che l’amministrazione abbia escluso la sussistenza di rischi da interferenze -e, nel caso in esame, l'obbligo di elaborazione del D.U.V.R.I. in quanto gli oneri di sicurezza per i rischi da interferenza sono pari a zero, “tenuto conto della natura strettamente intellettuale del servizio”- non esclude l’onere per l’impresa di prevedere e quantificare in sede di offerta i costi della sicurezza da c.d. “da rischio specifico” il cui obbligo, come già evidenziato, deriva direttamente dalla norme di legge poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori e, quindi, deve ritenersi sussistente pur ove il disciplinare di gara non rechi alcuna previsione al riguardo (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. III, 28.08.2012, n. 4622; TAR Veneto, Sez. I, n. 1050 dell’08.08.2013, n. 1050; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, II, 19.02.2013, n. 181; TAR Puglia Lecce Sez. III, 15.05.2013, n. 1091).
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr.,in proposito, TAR Lazio Roma Sez. I-ter, 15.07.2013, n. 6999, Cons. Stato Sez. III, 02.09.2013, n. 4369) i costi per la sicurezza propri dell’impresa devono essere specificatamente indicati anche nel caso in cui siano eventualmente ritenuti dalla concorrente –per la peculiarità del servizio, del luogo di lavoro o per altre ragioni- pari a “zero”.
Tale adempimento, nel caso in esame, non è stato assolto, con la conseguenza che non può neppure aderirsi alla tesi esposta dal difensore della ricorrente principale, secondo cui tale aspetto, al più, avrebbe potuto essere preso in considerazione in sede di congruità dell’offerta.
Né può aderirsi alla tesi secondo cui, nel caso in esame, la violazione avrebbe una mera rilevanza “formale”, attesa –ad avviso della ricorrente principale- la “sicura assenza, nell'ambito delle lavorazioni oggetto della gara, di profili di interesse in tema di salute e sicurezza sul lavoro” con la conseguenza che l’imposizione della specificazione di tali costi a titolo di “rischio specifico” non sarebbe pertinente con gli interessi sostanziali dell'Amministrazione.
Infatti, la circostanza che il servizio appaltato attenesse a prestazioni di carattere prettamente “intellettuale” -con conseguente esonero, per quanto riguarda gli obblighi dell’amministrazione appaltante, dell’ottemperanza alle prescrizioni di cui all’art. 26 del d.lgs. 09.04.2008 n. 81 (strumento deputato unicamente ad indicare le misure da adottare per eliminare o, ove ciò non risulti possibile, ridurre al minimo esclusivamente i c.d. “rischi da interferenze” tra i propri lavoratori e quelli dell’Impresa appaltatrice e prevederne i relativi costi della sicurezza)– nel caso di specie non esimeva l’impresa appaltatrice dal valutare esplicitamente, la sussistenza di profili di interesse in tema di salute e sicurezza del personale sul luogo di lavoro (si pensi, a titolo di esempio, ai rischi per la salute connessi all’utilizzo di strumenti informatici), anche al fine di escludere la necessità di sostenere costi specifici.
Ed infatti, il Capitolato d’oneri e disciplinare di gara allegato alla determina a contrarre dell’11.09.2013 prevedeva espressamente, all’art. 12, che qualsiasi onere relativo al rispetto della normativa vigente a tutela dei lavoratori, anche sotto il profilo previdenziale e della sicurezza, fosse posto a carico dell’aggiudicatario, con esonero totale dell’amministrazione anche per eventuali ipotesi di infortunio di qualsiasi genere anche per attività svolte nei locali dell’amministrazione procedente, con la conseguenza che tali costi avrebbero dovuto senz’altro essere computati nell’ambito del rischio specifico della concorrente.
Anche a volere aderire, quindi, all’orientamento da ultimo espresso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, n. 330 del 22.01.2014, che nel caso esaminato, ha ritenuto l'indicazione dei costi sulla sicurezza non obbligatoria nelle gara di servizi di natura intellettuale, in quanto agli atti di causa era stata fornita da parte dell’impresa documentazione attestante il rispetto degli obblighi di sicurezza sul lavoro), il principio ivi affermato non potrebbe applicarsi al caso in esame, in cui non solo tale dimostrazione non risulta fornita, ma comunque le peculiari modalità della prestazione intellettuale fornita (nell’ambito di locali e con l’utilizzo di supporti tecnologici altrui, ma a rischio esclusivo dell’aggiudicatario) imponevano di indicare espressamente, a pena di esclusione comminata dall’art. 31 (Ulteriori cause di esclusione dalla procedura) la dichiarazione relativa all’importo relativo agli oneri di sicurezza (cfr. art. 25 del Disciplinare, Contenuto dell’offerta), così da potersi ritenere, a tal fine, del tutto insufficiente la mera attestazione della “regolarità nei confronti delle norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”, pur richiesta dall’art. 20 lett. g) del Disciplinare di gara. In conclusione, il ricorso incidentale va accolto, attesa la fondatezza del secondo motivo con assorbimento delle ulteriori censure e, per l’effetto, va disposto l'annullamento degli atti gravati con il predetto ricorso incidentale, nella parte in cui l’amministrazione non ha disposto l’esclusione della C. BORGOMEO & Co. S.r.l già in sede di prequalifica.
La accertata fondatezza del ricorso incidentale preclude al Collegio l'esame del merito delle censure proposte dal ricorrente principale con il ricorso introduttivo (Cons. Stato Sez. III, 07.04.2014, n. 1634) che, pertanto, va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 20.05.2014 n. 5309).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Tratturi.
I tratturi, a prescindere dalla loro attuale utilizzabilità come strade, quali espressioni di vestigia e tracce di remote civiltà passate ed in considerazione del rilievo costituzionale dei beni culturali come ribadito nella Legge Costituzionale 18/10/2001 n. 3, art. 2, costituiscono una zona d'interesse archeologico per il loro valore intrinseco, ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. m), d.lgs. n. 42/2004.
La citata disciplina, sotto la rubrica «Aree tutelate per legge», dispone che sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni del Titolo I (Tutela e valorizzazione), PARTE III^ (Beni paesaggistici) del d. Igs. n. 42/2004 "m) le zone di interesse archeologico"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2014 n. 20443 - tratto da www.lexambiente.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito, in tema di rimborso di spese di difesa ai funzionari onorari, che, ai fini della identificazione della giurisdizione -escluso ogni rilievo delle norme concernenti la giurisdizione sul rapporto di lavoro pubblico- occorre distinguere l'ipotesi di funzionari onorari nominati da un'autorità amministrativa, il cui trattamento economico, in difetto di disciplina normativa, è stabilito dalla stessa, con conseguente posizione di interesse legittimo e giurisdizione del giudice amministrativo, da quella di soggetti che svolgono funzioni pubbliche sulla base di un'investitura politico-elettorale, la cui posizione, anche economica, è di solito direttamente regolata dalla legge, con la conseguenza che le relative posizioni soggettive assumono la consistenza di diritti, e la giurisdizione è del giudice ordinario a meno che la legge stessa non attribuisca funzioni discrezionali all'amministrazione.
E’ stato ulteriormente chiarito, con riferimento a funzionari onorari del comune, ossia persone fisiche che prestano la propria opera per conto dell'ente pubblico non a titolo di lavoro subordinato (nella specie assessore e vicesindaco), che, in mancanza di specifica disposizione che regoli i rapporti patrimoniali con l’ente rappresentato, la pretesa di rimborso delle spese processuali, ammesso che esista una lacuna normativa, non può che assumere la consistenza del diritto soggettivo perfetto, da esercitare davanti al giudice ordinario, in base ad una disposizione di legge, l’art. 1720 c.c., da applicare in via analogica ai sensi dell’art. 12, comma II, disp. prel. c.c..
Non a caso, nel proporre la domanda principale di condanna dell’amministrazione provinciale al rimborso delle spese legali sostenute, O.G.B. ha invocato, quale fondamento della propria pretesa, l’art. 1720 c.c.
Ed allora, sulla domanda difetta la potestas decidendi da parte di questo plesso amministrativo di giustizia, spettando il compito di decidere al giudice ordinario.

1. O.G.B. è stato presidente della Provincia di Vibo Valentia.
A cagione dell’attività prestata in tale veste, egli è stato sottoposto a procedimento penale per il reato previsto e punito dagli artt. 110 e 323 c.p., per aver attribuito indebiti vantaggi patrimoniali ad alcuni dipendenti in violazione degli artt. 65 e 66 d.P.R. 10.01.1957, n. 3, nonché in violazione dei principi di buona amministrazione.
All’esito del processo, egli è stato mandato assolto perché il fatto non costituisce reato.
2. In questa sede O.G.B. ha impugnato la nota meglio indicata in epigrafe, con la quale l’amministrazione provinciale gli ha negato il rimborso delle spese legali sostenute per il processo penale.
2.1. Il ricorrente ha dedotto, in particolare, che il provvedimento sarebbe mancante di una motivazione adeguata e in ogni caso contrasterebbe con l’art. 1720 c.c..
Infatti, il rimborso delle spese legali gli spetterebbe perché trattasi di esborsi sopportati a causa del mandato di presidente della Provincia, adempiuto nel rispetto delle precise disposizioni impartite dalla giunta provinciale.
In aggiunta, vi sarebbe l’incompetenza del dirigente che ha emanato il provvedimento impugnato.
In forza delle argomentazioni testé riassunte, O.G.B. ha chiesto la condanna dell’amministrazione provinciale di Vibo Valentia al rimborso delle spese di giudizio da lui sostenute.
2.2. In via subordinata, il ricorrente ha dedotto che la l. 03.08.1999, n. 265, ha imposto a tutte le amministrazioni l’obbligo di stipulare apposite polizze assicurative volte a garantire la responsabilità degli amministratori pubblici.
L’amministrazione provinciale di Vibo Valentia non avrebbe assolto tale obbligo, così ingenerandogli un danno, dal quale chiede di essere tenuto indenne.
3. L’amministrazione provinciale di Vibo Valentia si è costituita in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
4. All’udienza del 09.05.2014 il ricorso è stato discusso ed è stato trattenuto in decisione, previa sollecitazione del contraddittorio sul possibile difetto di giurisdizione di questo plesso amministrativo di giustizia.
5. Ritiene, infatti, il Collegio che la cognizione sulle domande prospettate nel ricorso spetti al giudice ordinario.
5.1. Quanto alla prima domanda, si osserva che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (in particolare Cass. Civ., Sez. Un., 09.04.2008, n. 9160) hanno chiarito, in tema di rimborso di spese di difesa ai funzionari onorari, che, ai fini della identificazione della giurisdizione -escluso ogni rilievo delle norme concernenti la giurisdizione sul rapporto di lavoro pubblico- occorre distinguere l'ipotesi di funzionari onorari nominati da un'autorità amministrativa, il cui trattamento economico, in difetto di disciplina normativa, è stabilito dalla stessa, con conseguente posizione di interesse legittimo e giurisdizione del giudice amministrativo, da quella di soggetti che svolgono funzioni pubbliche sulla base di un'investitura politico-elettorale, la cui posizione, anche economica, è di solito direttamente regolata dalla legge, con la conseguenza che le relative posizioni soggettive assumono la consistenza di diritti, e la giurisdizione è del giudice ordinario a meno che la legge stessa non attribuisca funzioni discrezionali all'amministrazione.
E’ stato ulteriormente chiarito, con riferimento a funzionari onorari del comune, ossia persone fisiche che prestano la propria opera per conto dell'ente pubblico non a titolo di lavoro subordinato (nella specie assessore e vicesindaco), che, in mancanza di specifica disposizione che regoli i rapporti patrimoniali con l’ente rappresentato, la pretesa di rimborso delle spese processuali, ammesso che esista una lacuna normativa, non può che assumere la consistenza del diritto soggettivo perfetto, da esercitare davanti al giudice ordinario, in base ad una disposizione di legge, l’art. 1720 c.c., da applicare in via analogica ai sensi dell’art. 12, comma II, disp. prel. c.c. (Cass. Civ., Sez. Un., 13.01.2006, n. 478).
Non a caso, nel proporre la domanda principale di condanna dell’amministrazione provinciale al rimborso delle spese legali sostenute, O.G.B. ha invocato, quale fondamento della propria pretesa, l’art. 1720 c.c.
Ed allora, sulla domanda difetta la potestas decidendi da parte di questo plesso amministrativo di giustizia, spettando il compito di decidere al giudice ordinario.
5.2. Anche quanto alla seconda domanda non sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo.
Invero, il ricorrente ha domandato il ristoro dei danni subiti non a cagione dell’esercizio del potere amministrativo, bensì dall’inadempimento, da parte dell’amministrazione resistente, di un preteso obbligo assicurativo.
E’ evidente, allora, che la pretesa giuridica soggettiva azionata ha natura di diritto soggettivo e non già di interesse legittimo; quindi, non ricadendo la controversia in una materia attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, deve escludersi che di essa non possa occuparsi questo plesso di giustizia.
6. Va in conclusione affermato che la giurisdizione spetta al giudice ordinario, d’innanzi al quale l’odierno giudizio, inammissibile in questa sede, potrà trasmigrare a mente degli artt. 11 c.p.a. e 59 l. 18.06.2009, n. 69 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 15.05.2014 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEL’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Né la realizzazione dell’opera pubblica rappresenta un impedimento alla possibilità di restituire l’area illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno.
Donde la necessità, in ogni caso, di un passaggio intermedio, finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante.
Tale passaggio, secondo la legislazione vigente, è costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327, al cui testo si rinvia.
Pertanto, affinché l’interesse primario della parte lesa possa essere soddisfatto, deve imporsi all’amministrazione di rinnovare, entro trenta giorni dalla notificazione della presente sentenza, la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione della quota parte di fondo di cui è titolare il ricorrente, per come essa risulta da atti pubblici fidefacenti, tenuto conto dei rilievi dei contro interessati (comproprietari che hanno ceduto la loro quota in via bonaria). Quindi, all’esito di essa, di adottare un provvedimento col quale la predetta quota parte, in tutto od in parte, sia alternativamente:
a) acquisita non retroattivamente al patrimonio indisponibile comunale;
b) restituita in tutto od in parte al legittimo proprietario entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se ad interessare è l’intera quota o solo parte di essa, disponendo la restituzione della parte rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni, sia corrisposto al proprietario il valore venale della quota, nonché un indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del medesimo valore venale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
- dovrà essere notificato al proprietario e comporterà il passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R. 08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti, mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su autorizzazione scritta del medesimo ed inoltre che tutte le questioni che dovessero insorgere nella fase di conformazione alla presente decisione potranno formare oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso, tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore del ricorrente ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per cento annuo sul valore venale della quota occupata, per tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione.

... l’istante chiede la condanna del comune di Carlopoli al risarcimento del danno patrimoniale cagionato dall’irreversibile trasformazione in opera pubblica (una sala congressi) di un fabbricato censito in catasto alla partita 856, fl. 9, part. 286/2 e 286/5, del quale egli è comproprietario, per successione ereditaria paterna.
...
Occorre muovere dal mancato perfezionamento della procedura espropriativa nel termine dato, quanto alla quota ideale relativa all’odierno ricorrente (che non è parte dell’accordo di cessione bonaria sottoscritto da altri coeredi) e dall’irreversibile trasformazione del bene occupato.
L’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2012 n. 5189).
Né la realizzazione dell’opera pubblica rappresenta un impedimento alla possibilità di restituire l’area illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno (cfr. C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Donde la necessità, in ogni caso, di un passaggio intermedio, finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43).
Tale passaggio, secondo la legislazione vigente, è costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327, al cui testo si rinvia.
Pertanto, affinché l’interesse primario della parte lesa possa essere soddisfatto, deve imporsi all’amministrazione di rinnovare, entro trenta giorni dalla notificazione della presente sentenza, la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione della quota parte di fondo di cui è titolare il ricorrente, per come essa risulta da atti pubblici fidefacenti, tenuto conto dei rilievi dei contro interessati (comproprietari che hanno ceduto la loro quota in via bonaria). Quindi, all’esito di essa, di adottare un provvedimento col quale la predetta quota parte, in tutto od in parte, sia alternativamente:
a) acquisita non retroattivamente al patrimonio indisponibile comunale;
b) restituita in tutto od in parte al legittimo proprietario entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se ad interessare è l’intera quota o solo parte di essa, disponendo la restituzione della parte rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni, sia corrisposto al proprietario il valore venale della quota, nonché un indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del medesimo valore venale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
- dovrà essere notificato al proprietario e comporterà il passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R. 08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti, mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su autorizzazione scritta del medesimo ed inoltre che tutte le questioni che dovessero insorgere nella fase di conformazione alla presente decisione potranno formare oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso, tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore del ricorrente ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per cento annuo sul valore venale della quota occupata, per tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione.
In conclusione, il ricorso va accolto nei sensi e limiti anzi esposti (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 15.05.2014 n. 726 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Conferimento a terzi.
Colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per il recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che questi ultimi siano debitamente autorizzati allo svolgimento delle operazioni, con la conseguenza che l'inosservanza di tale regola di cautela imprenditoriale è idonea a configurare la responsabilità per il reato di illecita gestione di rifiuti in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.05.2014 n. 19884 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo sbancamento e di livellamento del terreno.
In tema di trasformazione dei suoli, versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.05.2014 n. 19845 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ambito di applicazione della della normativa sul conglomerato cementizio armato.
In tema della violazione della normativa sul conglomerato cementizio armato, le relative norme, poste a tutela della pubblica incolumità, per espressa previsione normativa si applicano alle opere comunque caratterizzate dalla presenza di strutture in cemento armato che assolvano una funzione statica nel complesso edificato, come può evincersi agevolmente anche dalle relative "norme tecniche" emanate dal Ministro dei lavori pubblici, la cui ultima formulazione è contenuta nel D.M 09.01.1996 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2014 n. 19593 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Acque. Autorizzazione allo scarico e AIA.
Non può automaticamente ritenersi sostituita l'autorizzazione allo scarico di cui al d.lgs. n. 152 del 1999 già in atto con l'autorizzazione integrata ambientale. Una tale sostituzione non opera, infatti, automaticamente per effetto del disposto dell'allegato 2 del richiamato d.lgs. n. 59 del 2005 (oggi trasfuso nell'allegato 5-quinquies - allegato IX alla parte seconda del d.lgs. n. 152 del 2006), il quale si limita ad includere al punto 2, nell'elenco delle autorizzazioni ambientali già in atto idonee ad essere sostituite dall'autorizzazione integrata ambientale, l'autorizzazione allo scarico di cui al d.lgs. n. 152 del 1999.
Presupposto necessario per l'operatività del regime dell'autorizzazione integrata ambientale è infatti la circostanza che l'attività svolta rientri fra quelle di cui all'allegato 1 del richiamato d.lgs. n. 59 del 2005, perché quest'ultimo disciplina, appunto, il rilascio, il rinnovo e il riesame dell'autorizzazione integrata ambientale degli impianti di cui all'allegato 1, nonché le modalità di esercizio degli impianti medesimi, ai fini del rispetto dell'autorizzazione integrata ambientale (art. 1, commi 1 e 2)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2014 n. 19576 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Afferma il Collegio che la misura degli oneri di urbanizzazione deve essere definita sulla base dell’impatto urbanistico del progetto, secondo la tabella in vigore nel comune interessato.
Qualora il progetto riguardi la ristrutturazione di un edificio esistente il suo impatto è destinato ad incidere su una zona già urbanizzata per cui la sua incidenza sarà data dalla consistenza del nuovo intervento detratto l’impatto di quanto già esistente (sostanzialmente in termini C. di S., V, 21.04.2006, n. 2258: “la determinazione dell’onere dovuto per il rilascio della concessione costituisce, dunque, il risultato di un calcolo materiale, essendo la misura concreta direttamente collegata dalla legge al carico urbanistico accertato secondo parametri rigorosamente stabiliti”).
Da tale affermazione consegue che qualora il comune ometta, come l’odierno appellato, di determinare specificamente la misura del contributo da corrispondere per interventi di ristrutturazione edilizia, quest’ultimo dovrà essere determinato secondo il principio appena esposto.
Non giova, evidentemente, invocare una consuetudine alla quale non può essere attribuita efficacia normativa e nemmeno può essere data rilevanza a considerazioni attinenti la particolare fruttuosità economica dell’operazione che il Comune deve, se del caso, tenere presenti in sede di determinazione delle tabelle.

Rimane da decidere l’ultima censura.
L’appellante sottolinea, condivisibilmente, che la sua argomentazione non è stata rettamente intesa dal primo giudice il quale ha argomentato la pronuncia di rigetto sulla base di una divergenza, fra l’appellante e l’Amministrazione, in ordine alla determinazione della superficie sulla cui base calcolare il contributo, mentre la divergenza riguarda il sistema di calcolo seguito dall’Amministrazione.
L’appellante ribadisce quindi che illegittimamente le delibere comunali impugnate hanno determinato nella stessa misura il contributo per opere di urbanizzazione dovuto in caso di nuova edificazione ed in caso di ristrutturazione dell’esistente osservando inoltre che anche a prescindere da tale argomentazione il Comune appellato avrebbe male determinato, in concreto, il contributo, avendo omesso di detrarre dal computo definitivo la somma corrispondente agli oneri relativi al manufatto già edificato, interessato dal progetto di ristrutturazione.
Osserva il Collegio che la doglianza può essere affrontata sotto quest’ultimo profilo, che meglio descrive l’illegittimità nella quale sarebbe incorsa l’Amministrazione.
Infatti, assumere l’obbligo, per l’Amministrazione, di tenere conto del già costruito all’atto della determinazione del contributo dovuto per un intervento di ristrutturazione delinea la compiuta disciplina della materia, stabilendo il discrimine fra intervento di nuova costruzione ed intervento di ristrutturazione.
In sostanza, la stessa appellante afferma che in caso di ristrutturazione il contributo dovuto è pari a quello previsto per la nuova edificazione, detratto quanto corrispondente al maggior onere urbanistico provocato dall’edificio preesistente.
Tale argomentazione è condivisa dal Collegio.
Deve essere rilevato come in realtà l’esattezza della tesi non sia contestata dal Comune appellato il quale nella relazione depositata in esecuzione della sentenza parziale di cui in narrativa ha espressamente ammesso che “l’applicazione del contributo venne all’epoca effettuata senza conguaglio, ritenendo che questo dovesse essere in effetti calcolato in base alla quota percentuale fissata dal Comune per gli interventi di nuova costruzione e non di ristrutturazione in base alla considerazione che la struttura fu interessata da importanti interventi di ristrutturazione inoltre gli oneri allora vigenti non prevedevano un diverso importo per i casi di ristrutturazione bensì una sola tariffa.”
Prosegue la relazione affermando che “resta inteso che tale modalità operativa era una consuetudine ed una facoltà ammessa per legge pertanto gli importi degli oneri dovuti non furono calcolati a conguaglio proprio in ragione del fatto che la variazione della destinazione era anche finalizzata a stipulare contratti locativi che avrebbero garantito una forte redditività immobiliare al gruppo bancario”.
Lo stesso Comune quindi ammette che la decisione di non considerare, nella determinazione del contributo, il già costruito era stata basata su una consuetudine, legittimata dall’evidente convenienza economica dell’operazione immobiliare in progetto.
E’ evidente che tali considerazioni non possono avere rilievo.
Afferma il Collegio che la misura degli oneri di cui si tratta deve essere definita sulla base dell’impatto urbanistico del progetto, secondo la tabella in vigore nel comune interessato.
Qualora il progetto riguardi la ristrutturazione di un edificio esistente il suo impatto è destinato ad incidere su una zona già urbanizzata per cui la sua incidenza sarà data dalla consistenza del nuovo intervento detratto l’impatto di quanto già esistente (sostanzialmente in termini C. di S., V, 21.04.2006, n. 2258: “la determinazione dell’onere dovuto per il rilascio della concessione costituisce, dunque, il risultato di un calcolo materiale, essendo la misura concreta direttamente collegata dalla legge al carico urbanistico accertato secondo parametri rigorosamente stabiliti”).
Da tale affermazione consegue che qualora il comune ometta, come l’odierno appellato, di determinare specificamente la misura del contributo da corrispondere per interventi di ristrutturazione edilizia, quest’ultimo dovrà essere determinato secondo il principio appena esposto.
Non giova, evidentemente, invocare una consuetudine alla quale non può essere attribuita efficacia normativa e nemmeno può essere data rilevanza a considerazioni attinenti la particolare fruttuosità economica dell’operazione che il Comune deve, se del caso, tenere presenti in sede di determinazione delle tabelle (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.05.2014 n. 2437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori edilizi necessitanti di permesso a costruire.
Costituiscono lavori edilizi necessitanti di permesso a costruire non soltanto quelli per la realizzazione di manufatti che si elevano al di sopra del suolo, ma anche quelli in tutto o in parte interrati e che trasformano in modo durevole l'area impegnata dai lavori stessi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.05.2014 n. 19444 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Emissioni in atmosfera e rilevanza limiti tabellari.
Quando esistono precisi limiti tabellari fissati dalla legge, non possono ritenersi "non consentite" le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal legislatore.
Discorso diverso va fatto in quei casi nei quali non esiste una predeterminazione normativa, gravando sul giudice penale l'obbligo di valutare la tollerabilità consentita, ma pur sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche normative di settore
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2014 n. 18896 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e momento consumativo.
Il reato di lottizzazione abusiva ha carattere permanente ed è inquadrabile nella categoria dei reati progressivi nell'evento, la cui permanenza continua per ogni concorrente sino a che di ciascuno di essi perdura la condotta volontaria e la possibilità di fare cessare la condotta antigiuridica dei concorrenti.
Conseguentemente, il concorso del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti, atteso che egli, avendo dato causa alla condotta edificatoria dei concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, che potrebbe fare cessare attivando il potere di sospensione della lottizzazione del sindaco, o richiedendo il sequestro preventivo dal pubblico ministero.
La permanenza nel reato per gli acquirenti dei singoli lotti prosegue, invece, sino a quando continua l'attività edificatoria nel lotto di riferimento, atteso che il singolo acquirente non ha dato causa all'operazione lottizzatoria e risponde nei limiti della propria partecipazione, realizzata attraverso l'attività negoziale o edificatoria nel proprio lotto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2014 n. 18919 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accorpamento di un sottotetto con unità abitativa sottostante.
L'accorpamento di un sottotetto con l'unità abitativa sottostante e la trasformazione di parte di una tettoia in terrazzino con realizzazione della relativa copertura comportano la modifica dell'originaria destinazione del locale sottotetto - costituente, di regola, un «volume tecnico», non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita ed avente un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione del fabbricato - con conseguente aumento della volumetria complessiva impiegabile ad uso abitativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2014 n. 18709 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione in forza dei quali:
   a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
   b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
   c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
   d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione;
   e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non);
- il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto;
- al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale;
- in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed amministrativa), vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del «più probabile che non», mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio»;
- nello stesso ordine di idee, l’esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire un’assoluta certezza al di là di ogni ragionevole: infatti, la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del «più probabile che non»), che si delinea in un’analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del «cinquanta per cento plus unum»;
- ancora, diffusamente e compiutamente indagati i temi della causalità materiale e giuridica, come pure delle regole dettate per l’individuazione del danno risarcibile si è puntualizzato, da un lato, che la categoria della possibilità non costituisce una (terza) regola causale insieme a quella penalistica dell’alto grado di probabilità logica/conoscenza razionale e a quella civilistica del «più probabile che non», ma individua, puramente e semplicemente, l’oggetto della tutela nella fattispecie della chance: la possibilità, appunto, quale oggetto di tutela (e non quale regola causale o direttamente danno-conseguenza); pertanto, la chance va intesa come possibilità di un risultato diverso (e non come mancato raggiungimento di un risultato possibile), vulnerata dalla condotta causalmente rilevante rispetto all’evento (costituito dal mancato verificarsi di tale migliore possibilità), ma pur sempre e comunque indagata alla stregua del canone probatorio del «più probabile che non»;
- dall’altro lato, che l’esatta configurazione del problema causale in seno alla responsabilità civile postula che il momento attributivo dell’obbligazione risarcitoria sia consequenziale tanto a quello dell’accertamento dell’illecito che a quello dell’individuazione del danno che, con esso —inteso come violazione dell’interesse protetto (id est come evento di danno)— non sempre coincide;
- è ulteriore conseguenza di tali principî che, nella comparazione delle diverse concause, ove sufficienti a concorrere a determinare l’evento e senza che una sola assuma con evidenza un’efficacia esclusiva al riguardo, il giudice dovrà valutare quale di esse appaia «più probabile che non» rispetto a ciascuna delle altre a determinare l’evento ed attribuire a quella l’efficacia determinante ai fini della responsabilità;
   f) il danno –inteso sia come danno evento che come danno conseguenza– e la sua quantificazione devono essere oggetto, da parte dell’attore, di un rigoroso onere allegatorio, potendosi ammettere il ricorso alla prova per presunzioni (praesumptio tantum iuris), solo in relazione ai danni non patrimoniali, comunque dovendosi ripudiare le suggestioni derivanti dalla teorica del c.d. diritto all’integrità patrimoniale in favore del più rigoroso e ben conosciuto metodo sotteso alla Differenzhypothese.

Il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22.10.2013, n. 23993; sez. un., 23.03.2011, n. 6594; sez. un., 11.01.2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19.04.2013, n. 7; ad. plen., 23.03.2011, n. 3; sez. III, 19.03.2014, n. 1357; sez. V, 17.01.2014, n. 183; sez. V, 31.10.2013, n. 5247; sez. V, 21.06.2013, n. 3408; sez. III, 30.05.2012, n. 3245; sez. IV, 22.05.2012, n. 2974; sez. IV, 02.04.2012, n. 1957; sez. IV, 31.01.2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non);
- il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto;
- al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale;
- in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed amministrativa), vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del «più probabile che non», mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio»;
- nello stesso ordine di idee, l’esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire un’assoluta certezza al di là di ogni ragionevole: infatti, la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del «più probabile che non»), che si delinea in un’analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del «cinquanta per cento plus unum»;
- ancora, diffusamente e compiutamente indagati i temi della causalità materiale e giuridica, come pure delle regole dettate per l’individuazione del danno risarcibile si è puntualizzato, da un lato, che la categoria della possibilità non costituisce una (terza) regola causale insieme a quella penalistica dell’alto grado di probabilità logica/conoscenza razionale e a quella civilistica del «più probabile che non», ma individua, puramente e semplicemente, l’oggetto della tutela nella fattispecie della chance: la possibilità, appunto, quale oggetto di tutela (e non quale regola causale o direttamente danno-conseguenza); pertanto, la chance va intesa come possibilità di un risultato diverso (e non come mancato raggiungimento di un risultato possibile), vulnerata dalla condotta causalmente rilevante rispetto all’evento (costituito dal mancato verificarsi di tale migliore possibilità), ma pur sempre e comunque indagata alla stregua del canone probatorio del «più probabile che non»;
- dall’altro lato, che l’esatta configurazione del problema causale in seno alla responsabilità civile postula che il momento attributivo dell’obbligazione risarcitoria sia consequenziale tanto a quello dell’accertamento dell’illecito che a quello dell’individuazione del danno che, con esso —inteso come violazione dell’interesse protetto (id est come evento di danno)— non sempre coincide;
- è ulteriore conseguenza di tali principî che, nella comparazione delle diverse concause, ove sufficienti a concorrere a determinare l’evento e senza che una sola assuma con evidenza un’efficacia esclusiva al riguardo, il giudice dovrà valutare quale di esse appaia «più probabile che non» rispetto a ciascuna delle altre a determinare l’evento ed attribuire a quella l’efficacia determinante ai fini della responsabilità;
f) il danno –inteso sia come danno evento che come danno conseguenza– e la sua quantificazione devono essere oggetto, da parte dell’attore, di un rigoroso onere allegatorio, potendosi ammettere il ricorso alla prova per presunzioni (praesumptio tantum iuris), solo in relazione ai danni non patrimoniali, comunque dovendosi ripudiare le suggestioni derivanti dalla teorica del c.d. diritto all’integrità patrimoniale in favore del più rigoroso e ben conosciuto metodo sotteso alla Differenzhypothese (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2195 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’art. 7, comma 1, della legge n. 241 del 1990 stabilisce che “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti (…)”.
Trattasi di disposizione espressiva di un principio generale dell'ordinamento giuridico, la cui finalità va individuata nell'esigenza di assicurare piena visibilità all'azione amministrativa nel momento della sua formazione e di garantire, al contempo, la partecipazione del destinatario dell'atto finale alla fase istruttoria preordinata alla sua adozione.
Le limitazioni alla sua osservanza vanno, pertanto, intese in modo rigoroso e restrittivo, ancorché non formalistico.
In giurisprudenza è stato, peraltro, condivisibilmente affermato che l’adozione di provvedimenti in autotutela non si sottrae alla regola generale della preventiva comunicazione di avvio, sancita dall'art. 7 della legge n. 241/1990 in funzione della dovuta instaurazione del contraddittorio procedimentale, nonché, in maniera ancor più incisiva, che “la comunicazione dell'avvio del procedimento di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, finalizzata, come noto, a consentire la migliore composizione degli interessi coinvolti dall'azione amministrativa attraverso la partecipazione al procedimento del destinatario dell'atto da adottare, assume particolare rilevanza nei provvedimenti di secondo grado che incidono negativamente sulle posizioni scaturite dal provvedimento di primo grado”.
Sulla scorta di quanto esposto, va, quindi, affermata la piena espansione del principio in esame anche nel caso dei procedimenti c.d. di secondo grado (annullamento, revoca, decadenza) incidenti su posizioni giuridiche soggettive originate da un precedente atto, oggetto della nuova determinazione di ritiro, derivandone l’illegittimità dell’annullamento d’ufficio di un provvedimento, adottato senza la previa comunicazione dell'avvio del procedimento al soggetto che dall'atto annullato aveva ottenuto effetti favorevoli e in assenza di espresse esigenze di celerità del procedimento.

... per l'annullamento:
Quanto al ricorso introduttivo:
1) del decreto n. 51/09, emesso in data 30.01.2009 dalla Direzione Centrale Pianificazione territoriale, recante annullamento, ai sensi dell'art. 21-nonies L. 241/1990, in sede di autotutela, dell'autorizzazione paesaggistica n. 251/2004, rilasciata per la realizzazione di un intervento di trasformazione d'uso del suolo per impianto di un vigneto;
2) del decreto n. 743/2008, emesso in data 16.12.2008, recante l'annullamento, dell'autorizzazione paesaggistica n. 1039/2005 rilasciata per opere in variante al progetto di trasformazione d'uso del suolo per impianto di un vigneto;
3) del decreto n. 720/2007, emesso in data 17.12.2008, recante l'annullamento, in sede di autotutela, dell'autorizzazione paesaggistica n. 1039/05 rilasciata per ulteriori varianti al progetto di trasformazione d'uso del suolo per impianto di un vigneto;
4) della richiamata nota prot. RF n. 84181/2008 dd. 20.10.2008, nonché del richiamato verbale di accertamento amministrativo n. 48/2007 dell'Ispettorato Ripartimentale delle Foreste di Trieste e Gorizia;
Quanto ai motivi aggiunti depositati in data 04.03.2009 degli stessi atti impugnati con il ricorso introduttivo;
Quanto ai secondi motivi aggiunti depositati in data 21.02.2013 degli stessi atti impugnati con i ricorso introduttivo, nonché del provvedimento della Direzione Centrale Ambiente, Energia e Politiche per la Montagna n. 38851/1.410 recante l’ordinanza di ripristino dei luoghi per opere realizzate in assenza di autorizzazione: eliminazione di bosco e realizzazione di un vigneto sulle p.c.n. 659/12 e 925 del C.C. di S. Pelagio, eliminazione di bosco sulla p.c.n. 659/13 del C.C. di S. Pelagio, deposito di 76.000 mc di materiale terroso sulle p.c.n. 925, 659/12 e 1527 del C.C. di S. Pelagio.
...
Il ricorso principale è meritevole di accoglimento.
Ad avviso del Collegio, è, invero, fondato il primo motivo di gravame, con cui il ricorrente lamenta l’omesso invio della comunicazione di avvio del procedimento.
Devesi, infatti, convenire col medesimo circa l’ontologica diversità sussistente tra il procedimento necessitato dall’esigenza di reagire all’esecuzione di opere in assenza e/o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica già rilasciata e destinato a concludersi con l’emissione di un provvedimento sanzionatorio e quello, tipicamente discrezionale, con cui l’Amministrazione ritiene, invece, di annullare, con effetto ex tunc, l’autorizzazione stessa, con la conseguenza che l’eventuale conoscenza che l’interessato possa aver avuto in ordine alla pendenza del primo procedimento (o di altri procedimenti con finalità sanzionatorie) non può, all’evidenza, valere a sanare l’omesso invio della comunicazione di avvio del procedimento con riferimento al secondo.
Erra, dunque, la difesa della Regione laddove attribuisce natura ”vincolata” ai provvedimenti in autotutela e richiama principi giurisprudenziali relativi a fattispecie che nulla hanno a che fare con quella concreta portata all’attenzione del Collegio.
La legge è, del resto, chiara sul punto.
L’art. 7, comma 1, della legge n. 241 del 1990 stabilisce, infatti, che “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti (…)”.
Trattasi di disposizione espressiva di un principio generale dell'ordinamento giuridico, la cui finalità va individuata nell'esigenza di assicurare piena visibilità all'azione amministrativa nel momento della sua formazione e di garantire, al contempo, la partecipazione del destinatario dell'atto finale alla fase istruttoria preordinata alla sua adozione.
Le limitazioni alla sua osservanza vanno, pertanto, intese in modo rigoroso e restrittivo, ancorché non formalistico.
In giurisprudenza è stato, peraltro, condivisibilmente affermato che l’adozione di provvedimenti in autotutela non si sottrae alla regola generale della preventiva comunicazione di avvio, sancita dall'art. 7 della legge n. 241/1990 in funzione della dovuta instaurazione del contraddittorio procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.09.2011, n. 4996), nonché, in maniera ancor più incisiva, che “la comunicazione dell'avvio del procedimento di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, finalizzata, come noto, a consentire la migliore composizione degli interessi coinvolti dall'azione amministrativa attraverso la partecipazione al procedimento del destinatario dell'atto da adottare, assume particolare rilevanza nei provvedimenti di secondo grado che incidono negativamente sulle posizioni scaturite dal provvedimento di primo grado” C.d.S., Sez. IV, 24.05.2011, n. 3120).
Sulla scorta di quanto esposto, va, quindi, affermata la piena espansione del principio in esame anche nel caso dei procedimenti c.d. di secondo grado (annullamento, revoca, decadenza) incidenti su posizioni giuridiche soggettive originate da un precedente atto, oggetto della nuova determinazione di ritiro (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, 05.12.2002, n. 3184), derivandone l’illegittimità dell’annullamento d’ufficio di un provvedimento, adottato –come nel caso di specie- senza la previa comunicazione dell'avvio del procedimento al soggetto che dall'atto annullato aveva ottenuto effetti favorevoli e in assenza di espresse esigenze di celerità del procedimento.
Il ricorso introduttivo ed i (primi) motivi aggiunti successivamente proposti vanno, pertanto, accolti e, per l’effetto, annullati i provvedimenti emessi in autotutela, con gli stessi impugnati (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 22.04.2014 n. 160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Definizione e caratteristiche della discarica.
Secondo la definizione legislativa adottata in attuazione della Direttiva 1999/31/CE del 26.04.1999, è discarica qualunque area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo (art. 2, lett. g, d.lgs. 13.01.2003, n. 36).
Si tratta di definizione che, da un lato, come anche in dottrina non si è mancato di evidenziare, espunge definitivamente, dall'area del penalmente rilevante, e comunque non la individua come requisito essenziale, la necessaria predisposizione di uomini e/o mezzi per la realizzazione e/o la gestione della discarica, dall'altro, valorizza piuttosto la destinazione dell'area a luogo di smaltimento permanente dei rifiuti, a prescindere dall'effettivo degrado che ne può derivarne (e che, in ipotesi, potrebbe essere anche del tutto assente ove la discarica sia realizzata e gestita secondo la migliore tecnica possibile)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2014 n. 17289 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAIl carattere compatto o friabile della struttura (copertura) in amianto non rileva ai fini di stabilire se la stessa debba o meno essere bonificata, ma solo al fine di stabilire entro quale termine e con quali modalità debba esserlo.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 55, prot. n. 7265, emessa dal Comune di Tortona, Settore Territorio e Ambiente - Servizio Ambiente, in data 25.03.2013 e notificata alla ricorrente in pari data, con cui è stato ordinato alla ricorrente di provvedere alla bonifica del manufatto sito in Tortona (AL), Strada Statale per Voghera n. 42, tramite rimozione della relativa copertura di eternit.
...
Con un secondo profilo di censura, la ricorrente ha sostenuto che le valutazioni svolte dall’ARPA sarebbero contraddittorie, dal momento che la copertura del fabbricato di proprietà della ricorrente è stata giudicata “friabile” benché la stessa Agenzia abbia riconosciuto che il materiale “si spezza a fatica con le pinze”, il che significa che esso non è friabile ma “compatto”, con la conseguenza che esso non necessita di alcuna bonifica in base alla normativa di settore.
Anche tale censura non può essere condivisa.
Le valutazioni svolte nel caso di specie dall’ARPA non appaiono affatto contraddittorie, ma perfettamente coerenti con la normativa tecnica applicata.
Risulta dagli atti di causa (ci si riferisce, in particolare, alla relazione di servizio ARPA prodotta in giudizio dalla difesa comunale sub doc. 9) che le condizioni di degrado della copertura sono state valutate dall’Agenzia con riferimento a tutti i parametri previsti dal protocollo tecnico operativo “U.RP.T104”: età, spessore, consistenza (friabile/compatto), trattamenti superficiali, muschi e licheni, sfaldamenti e/o crepe superficiali, residui (stalattiti) a bordo lastra, residui di canali di gronda, affioramenti superficiali di fibre.
A ciascuno di tali parametri, in relazione allo stato del manufatto, è stato attribuito un punteggio nell’ambito del range individuato dal protocollo.
La somma di tali punteggi (42) ha consentito di determinare l’”indice di degrado” della struttura (0,52) attraverso l’applicazione di un determinato algoritmo previsto dal protocollo.
Quindi, dall’indice di degrado così determinato, l’Agenzia è pervenuta a determinare, attraverso un altro algoritmo, “l’indice di valutazione complessiva” (0,78).
Quest’ultimo è ricompreso dal protocollo tecnico nella fascia “0,60-0.89” che individua uno stato di conservazione della struttura qualificato “scadente”, in relazione quale si prevedono i seguenti “provvedimenti da adottare”: “Necessaria la bonifica dei manufatti da programmare nell’arco di uno/due anni. Predisposizione del programma di manutenzione e custodia ex D.M. 06/09/1994 ove applicabile”: esattamente quello il Comune ha imposto di fare alla ricorrente, sia con il provvedimento qui impugnato, sia con la precedente diffida del 17.02.2012.
Tali provvedimenti sono dunque coerenti rispetto agli accertamenti e agli adempimenti successivi previsti dalla normativa tecnica applicata.
E vero, quindi, che la struttura è stata giudicata sostanzialmente “compatta” perché “si spezza a fatica con le pinze”, ma tale circostanza è stata valutata correttamente dall’ARPA con l’attribuzione del punteggio più basso (2 punti) previsto dal protocollo tecnico proprio con riferimento a tale ipotesi, laddove se il materiale fosse stato giudicato mediamente friabile (“si spezza facilmente con le pinze”) sarebbe stato valutato con 5 punti, ovvero con 10 punti laddove fosse stato giudicato friabile (“si può spezzare senza l’uso degli attrezzi”).
In altre parole, il carattere compatto o friabile della struttura in amianto non rileva ai fini di stabilire se la stessa debba o meno essere bonificata, ma solo al fine di stabilire entro quale termine e con quali modalità debba esserlo
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 18.04.2014 n. 688 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
E’ infondata la censura che attiene alla violazione delle garanzie partecipative prescritte dalla L. 241/1990: difatti, per costante giurisprudenza, in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 29.01.2009 n. 5001)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di cambio di destinazione d'uso necessita distinguere tra:
   I) mutamento d'uso “funzionale” di un locale, inteso quale variazione di destinazione degli immobili non implicante la realizzazione di opere edilizie, per il quale non è necessario il permesso di costruire: difatti, lo stesso è espressione dello “ius utendi” e non già dello “ius aedificandi”;
   II) mutamento di destinazione d'uso non già funzionale, bensì “strutturale” (e, cioè, connesso e conseguente all'esecuzione di opere) il quale, al contrario, necessita di apposito titolo concessorio il cui difetto legittima la demolizione delle opere stesse: al riguardo si è osservato che in detta evenienza rileva il profilo risultante dalla combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di destinazione d'uso del fabbricato interessato ai lavori e la realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché andranno considerate abusive, qualora realizzate in assenza del titolo edilizio, non solo le opere di costruzione vere e proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova destinazione.

Con riguardo alle ulteriori censure che attengono al merito della sanzione edilizia irrogata, occorre distinguere e, per cogliere le ragioni della decisione giova premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento che attiene al mutamento di destinazione, come tratteggiato dalla giurisprudenza di questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 23.02.2011 n. 1072; Sez. II, 14.03.2006 n. 2931).
L’istituto in argomento ha trovato una prima organica disciplina nella L. 28.02.1985 n. 47.
Secondo l’autorevole lettura offerta dalla Corte Costituzionale (sentenza 11.02.1991 n. 73), la precitata legge, per quel che riguarda il mutamento di destinazione, all'art. 8 ne prevedeva l'assoggettabilità al regime della concessione se connessa a variazioni essenziali “del progetto”, comportanti variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968.
Doveva, quindi, ritenersi esclusa dal regime della concessione ogni ipotesi di mutamento di destinazione non connessa con modifiche strutturali dell'immobile.
Viceversa, il mutamento di destinazione comunque accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale non sia altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno, era invece assoggettato dall'art. 26 della L. 47/1985 al regime dell'autorizzazione, ciò desumendosi dall'eccezione ivi espressamente prevista rispetto al regime ordinario delle opere interne.
Del mutamento di destinazione senza opere, si occupava, invece, l'ultimo comma dell'art. 25 della legge statale citata che attribuiva alle Regioni il potere di fissare con legge i casi in cui il mutamento di destinazione d'uso, anche senza opere, può essere soggetto a concessione oppure ad autorizzazione.
In seguito, nel novellato quadro ordinamentale, l’art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
La Regione Campania, ai sensi dell'art. 2 della L.Reg. 28.11.2001 n. 19, ha previsto che possono essere realizzati in base a semplice denunzia d'inizio attività, tra gli altri, “i mutamenti di destinazione d'uso d'immobili o loro parti, che non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto esteriore, e di volumi e superfici”.
Viceversa, restano soggetti a permesso di costruire i mutamenti di destinazione d'uso, con opere che incidono sulla sagoma dell'edificio o che determinano un aumento volumetrico, che risulti compatibile, con le categorie edilizie previste per le singole zone omogenee (comma 6) quelli con opere che incidano sulla sagoma, sui volumi e sulle superfici, con passaggio di categoria edilizia, purché tale passaggio sia consentito dalla norma regionale (comma 7) ovvero quelli programmati nelle zone agricole - zona E (comma 8).
Di contro, ai sensi del comma 5, il mutamento di destinazione d'uso senza opere, nell'ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è libero.
Tali principi sono stati espressi anche da questa Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.11.2010 n. 23752) che ha distinto tra:
I) mutamento d'uso “funzionale” di un locale, inteso quale variazione di destinazione degli immobili non implicante la realizzazione di opere edilizie, per il quale non è necessario il permesso di costruire: difatti, lo stesso è espressione dello “ius utendi” e non già dello “ius aedificandi” (TAR Lazio, Latina, 04.05.2010 n. 686);
II) mutamento di destinazione d'uso non già funzionale, bensì “strutturale” (e, cioè, connesso e conseguente all'esecuzione di opere) il quale, al contrario, necessita di apposito titolo concessorio il cui difetto legittima la demolizione delle opere stesse: al riguardo si è osservato che in detta evenienza rileva il profilo risultante dalla combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di destinazione d'uso del fabbricato interessato ai lavori e la realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché andranno considerate abusive, qualora realizzate in assenza del titolo edilizio, non solo le opere di costruzione vere e proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova destinazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo consolidata e condivisibile giurisprudenza, l’accertamento di conformità di cui all'art. 36 del D.P.R. 380/2001 va effettuato su iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione: ciò in quanto la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica.
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Secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa, a giustificare il provvedimento di ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, ivi compresa quella relativa alle aree pertinenziali in quanto la corretta determinazione di queste ultime dovrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorquando sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. Edilizia, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma.

Infine, non hanno pregio le ulteriori doglianze illustrate nel ricorso, secondo cui l’amministrazione avrebbe omesso qualsivoglia verifica diretta a scrutinare l’eventuale sanabilità delle opere e non avrebbe dettagliatamente indicato l’area pertinenziale dell’opera abusiva da acquisire in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio.
Sul primo profilo, si rammenta che, secondo consolidata e condivisibile giurisprudenza, l’accertamento di conformità di cui all'art. 36 del D.P.R. 380/2001 va effettuato su iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 06.11.2008 n. 19290; TAR Lazio, Roma, 04.09.2009 n. 8389): ciò in quanto la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica.
Sull’ultimo rilievo è agevole rilevare che, secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 14.01.2011 n. 164; Sez. VI, 09.11.2009 n. 7053; Sez. IV, 26.06.2009 n. 3530), a giustificare il provvedimento di ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, ivi compresa quella relativa alle aree pertinenziali in quanto la corretta determinazione di queste ultime dovrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorquando sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. Edilizia, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie in tema di determinazione e quantificazione degli oneri concessori sono relative ad atti paritetici adottati dalla Pubblica amministrazione ed ineriscono diritti soggettivi di natura patrimoniale, per cui alcuna decadenza può ritenersi maturata per effetto della mancata contestazione dell’atto con cui a suo tempo gli oneri sono stati indicati come dovuti.
Inoltre deve escludersi che l’intervenuto pagamento dei contributi connessi al rilascio di un permesso di costruire possa costituire in qualche modo acquiescenza sulla debenza delle relative somme, precludendone la tutela giurisdizionale contro gli atti relativi.
Va difatti osservato al riguardo che il pagamento delle predette somme non denota l’univoca intenzione di rinunciare a contestare la loro liquidazione, né a richiederne il rimborso, in tutto o in parte, dovendo esso piuttosto essere considerato quale espressione della connaturale esigenza dell’attività imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione dell’opera progettata. Oltretutto è da considerare che il pagamento senza riserva del contributo urbanistico non può comportare acquiescenza rispetto all’atto di liquidazione, dal momento che il permesso di costruire non può essere rilasciato ove non ne sia stato effettuato il versamento.

Con l’ordinanza ingiunzione n. 11 del 2.01.2006 oggetto di contestazione il Comune di Telese, ha ingiunto alla ricorrente, per il rilascio in suo favore della concessione edilizia n. 32 dell’11.04.1995, il pagamento della complessiva somma di euro 97.893,05 cosi determinata: euro 39.698,32 quale importo dovuto a titolo di “oneri di costruzione”, euro 39.698,32 quale maggiorazione per sanzioni, euro 18.486,91 per interessi di mora, ed euro 9,50 per spese postali.
E’ da precisare che la Concessione edilizia n. 32 citata quantificava il contributo dovuto per oneri di urbanizzazione nella misura di lire 50.897.870, dando atto dell’intervenuto versamento della prima rata di lire 5.897.870, e si riservava di applicare il contributo relativo agli oneri di costruzione di cui all’art 6 della legge n. 10/1977.
Preliminarmente non può accedersi all’eccezione sollevata dal Comune secondo cui la società ricorrente, avendo ottemperato al versamento della prima rata degli oneri di urbanizzazione, avrebbe riconosciuto di essere obbligata agli esborsi per cui è causa e per tale ragione sarebbe privata della legittimazione a contestarne la debenza.
Si è innanzi chiarito che le controversie in tema di determinazione e quantificazione degli oneri concessori sono relative ad atti paritetici adottati dalla Pubblica amministrazione ed ineriscono diritti soggettivi di natura patrimoniale, per cui alcuna decadenza può ritenersi maturata per effetto della mancata contestazione dell’atto con cui a suo tempo gli oneri sono stati indicati come dovuti.
Inoltre deve escludersi che l’intervenuto pagamento dei contributi connessi al rilascio di un permesso di costruire possa costituire in qualche modo acquiescenza sulla debenza delle relative somme, precludendone la tutela giurisdizionale contro gli atti relativi.
Va difatti osservato al riguardo che il pagamento delle predette somme non denota l’univoca intenzione di rinunciare a contestare la loro liquidazione, né a richiederne il rimborso, in tutto o in parte, dovendo esso piuttosto essere considerato quale espressione della connaturale esigenza dell’attività imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione dell’opera progettata. Oltretutto è da considerare che il pagamento senza riserva del contributo urbanistico non può comportare acquiescenza rispetto all’atto di liquidazione, dal momento che il permesso di costruire non può essere rilasciato ove non ne sia stato effettuato il versamento (Tar Lazio Roma sez. II 17.05.2005 n. 3488; Cons. St. sez. V 26.03.1996 n. 296; Cons. St. sez. V 26.03.1996 n. 296)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ritiene il Collegio di condividere l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza secondo cui, per le sanzioni per ritardato pagamento degli oneri concessori, trova applicazione l'art. 28, L. n. 689/1981 che fissa in cinque anni il termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme di denaro dovute a tale titolo volte a colpire l'inesatta osservanza di un obbligo contributivo posto a carico del concessionario e non correlate in via immediata alla protezione di un interesse urbanistico ambientale.
Non a caso la Corte dei Conti ha chiarito che in ipotesi di ritardata riscossione dei contributi in questione non è configurabile un danno per mancata esazione di interessi e rivalutazione monetaria sui contributi stessi, proprio perché la conseguenza del ritardo è sanzionata dalle specifiche sanzioni amministrative pecuniarie di cui al citato art. 3 l. 47/1985.
Ed invero, il suddetto art. 28, che fissa in cinque anni il termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute, in virtù della disposta estensione prevista dall'art. 12 della stessa legge, si applica a tutte le sanzioni amministrative di tipo afflittivo, tra le quali deve essere ricompresa anche quella conseguente al ritardato od omesso versamento dei contributi afferenti la concessione edilizia (oggi, permesso di costruire), atteso che l'irrogazione della stessa, essendo volta a sanzionare la non puntuale osservanza dell'obbligo contributivo, presenta di certo carattere afflittivo, e ciò la prefigura svincolata da ogni forma di protezione diretta dell'interesse di natura urbanistica.
Pertanto, a norma dell’art. 28 della legge n. 689 cit. il "...diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione".

L’eccezione è fondata limitatamente all’intervenuta prescrizione estintiva del credito relativo al pagamento della sanzione amministrativa pari al 100% della somma ingiunta per il ritardato pagamento irrogata ai sensi dell’art. 42 del d.p.r. n. 380/2001.
Con riferimento al termine di prescrizione applicabile, non v’è dubbio che la misura rivesta natura sanzionatoria tenuto conto dell’afflittività della medesima nonché della progressività percentuale stabilita dalla legge in misura decisamente esuberante rispetto al tasso degli interessi moratori, e direttamente proporzionale al ritardo accumulato dal debitore, fino al limite massimo del 100% del contributo di costruzione nella versione di cui all’art. 3 della legge n. 47/1985, ridotta al 40% nella formulazione di cui all’art. 42 del d.p.r. n. 380/2001.
Stante la natura sanzionatoria della misura in questione ritiene il Collegio di condividere l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza secondo cui, per le sanzioni per ritardato pagamento degli oneri concessori, trova applicazione l'art. 28, L. n. 689/1981 che fissa in cinque anni il termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme di denaro dovute a tale titolo volte a colpire l'inesatta osservanza di un obbligo contributivo posto a carico del concessionario e non correlate in via immediata alla protezione di un interesse urbanistico ambientale. Non a caso la Corte dei Conti ha chiarito che in ipotesi di ritardata riscossione dei contributi in questione non è configurabile un danno per mancata esazione di interessi e rivalutazione monetaria sui contributi stessi, proprio perché la conseguenza del ritardo è sanzionata dalle specifiche sanzioni amministrative pecuniarie di cui al citato art. 3 l. 47/1985 (Corte conti, Sez. giur. Calabria, 14.05.1993, n. 20).
Ed invero, il suddetto art. 28, che fissa in cinque anni il termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute, in virtù della disposta estensione prevista dall'art. 12 della stessa legge, si applica a tutte le sanzioni amministrative di tipo afflittivo, tra le quali deve essere ricompresa anche quella conseguente al ritardato od omesso versamento dei contributi afferenti la concessione edilizia (oggi, permesso di costruire), atteso che l'irrogazione della stessa, essendo volta a sanzionare la non puntuale osservanza dell'obbligo contributivo, presenta di certo carattere afflittivo, e ciò la prefigura svincolata da ogni forma di protezione diretta dell'interesse di natura urbanistica (cfr. Tar Napoli sez. I n. 2394 del 25.03.2009; Tar Campania Salerno, II, n. 552 del 16.01.2014; Tar Campania Salerno 22.04.2005, n. 647; TAR Lombardia-Milano n. 7719 del 12.12.2000; TAR Abruzzo-L’Aquila n. 159 del 10.04.2000; TAR Puglia-Bari n. 680 del 24.06.1999; TAR Puglia-Bari n. 634 del 09.10.1996; TAR Puglia-Lecce n. 670 del 07.11.1991 Tar Calabria Catanzaro, sez. I, 14.04.2011, n. 522; Cass. Civ. sez. I 06.11.2006 n. 23633; Tar Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.07.2012 n. 2002; TAR Liguria, Sez. I, sentenza 01.02.2012 n. 237; TAR Cagliari, sent. n. 70/2008; TAR Catanzaro, sent. n. 1514/2001; TAR Catania, sent. n. 701/2006).
Pertanto, a norma dell’art. 28 della legge n. 689 cit. il "...diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione" (cfr., in proposito, C.d.S., VI, 15.11.2004, n. 7405; C.d.S., IV, 04.02.2004, n. 395; e C.d.S., IV, 06.10.2003, n. 5875).
Sicché, la violazione in esame viene a coincidere con l’inadempimento all’obbligo di corrispondere il pagamento del contributo di costruzione in argomento, che, secondo le previsioni di cui all’art. 3 della legge n. 47/1985 applicata ratione temporis, presuppone un ritardo superiore a 240 giorni per il caso di sanzione applicata nella misura del 100% dell’importo dovuto.
A sua volta l’art. 11, comma 2, della legge n. 10/1977 (poi riprodotto dall’art. 16, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001) stabilisce che la quota di contributo di cui al precedente articolo 6, ossia quella relativa al costo di costruzione, è determinata all'atto del rilascio della concessione ed è corrisposta in corso d'opera con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione delle opere.
Nella specie si è innanzi chiarito che all’atto del rilascio della concessione edilizia il Comune si è riservato di quantificare in un momento successivo l’ammontare del costo di costruzione e, dagli atti risulta che, con la richiesta di pagamento notificata alla società ricorrente in data 11.02.1997 il Comune ha richiesto il pagamento dell’importo del contributo commisurato all’incidenza del costo di costruzione dell’intervento, stabilendo che l’importo doveva essere quantificato tenendo conto delle tabelle di cui al d.m. 10.05.1977 e della delibera di Giunta Municipale n. 475 del 23.11.1995, e che l’importo poteva essere rateizzato in sei rate semestrali pagando la prima rata entro 60 giorni dal ricevimento della intimazione medesima
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per il credito circa la quota afferente il costo di costruzione vige il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c., che, ai sensi dell’art. 2936 c.c. comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Quanto al dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale in esame si osserva che una parte della giurisprudenza di merito sostiene che il diritto alla corresponsione della quota parte degli oneri relativi al contributo di costruzione può essere fatto valere dal Comune, in caso di inadempimento, una volta che siano decorsi sessanta giorni dalla data di ultimazione dei lavori. Ciò in quanto l’art. 16, comma 3, stabilisce che la quota di contributo relativa al costo si costruzione è corrisposta in corso d’opera e comunque non oltre sessanta giorni dall’ultimazione della costruzione.
Sicché si sostiene che è da questa data, o da quella successiva in cui l’opera è stata effettivamente ultimata, e non prima, che il diritto di credito diventa esigibile ed il Comune può farlo valere ed azionarlo legittimamente nei confronti del soggetto obbligato.
D’altra parte si è affermato che, poiché in base all'art. 11, l. 28.01.1977 n. 10 la quota del contributo relativo al costo di costruzione deve essere determinata all'atto del rilascio della concessione edilizia, il rilascio della concessione coincide con il momento in cui sorge l'obbligazione contributiva. Ed infatti, la disposizione dell'art. 11 della legge n. 10 del 1977, in tema di "Versamento del contributo afferente alla concessione", stabilisce che: "La quota di contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata all'atto del rilascio della concessione ed è corrisposta in corso d'opera con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione delle opere".
Da tale norma si desume, invero, che il fatto costitutivo dell'obbligo giuridico del titolare della concessione edilizia, di versare il contributo previsto, è rappresentato dal rilascio della concessione medesima, ed è a tale momento, quindi, che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo, divenendo il relativo credito certo, liquido o agevolmente liquidabile ed esigibile.
Sulla base di tale orientamento alcun rilievo può assumere la circostanza che il Comune sia sia espressamente riservato la facoltà di stabilire modalità e garanzie per il pagamento del contributo, atteso che l'atto di imposizione non ha carattere autoritativo ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo di precedenti provvedimenti di carattere generale, e la sua mancata tempestiva adozione non implica alcun potere dell'Amministrazione di differire il suo diritto di credito, configurandosi piuttosto come mancato esercizio del diritto stesso, idoneo a far decorrere il periodo di prescrizione.

A diverse conclusioni deve pervenirsi quanto all’eccezione di prescrizione ordinaria del credito azionato dall’amministrazione con l’ordinanza ingiunzione in questione avente ad oggetto la corresponsione del contributo di costruzione.
Si è innanzi anticipato che, nella determinazione delle somme dovute a titolo di oneri concessori, l’amministrazione non esercita poteri autoritativi discrezionali ma compie attività di mero accertamento della fattispecie in base ai parametri fissati da leggi e da regolamenti, per cui le relative controversie rientrano nella categoria di quelle aventi ad oggetto atti paritetici, inerenti diritti soggettivi (Cons. St. Sez., sez. V, 17.10.2002, n. 5678).
Per il credito in questione vige pertanto il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c., che, ai sensi dell’art. 2936 c.c. comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Quanto al dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale in esame si osserva che una parte della giurisprudenza di merito sostiene che il diritto alla corresponsione della quota parte degli oneri relativi al contributo di costruzione può essere fatto valere dal Comune, in caso di inadempimento, una volta che siano decorsi sessanta giorni dalla data di ultimazione dei lavori. Ciò in quanto l’art. 16, comma 3, stabilisce che la quota di contributo relativa al costo si costruzione è corrisposta in corso d’opera e comunque non oltre sessanta giorni dall’ultimazione della costruzione.
Sicché si sostiene che è da questa data, o da quella successiva in cui l’opera è stata effettivamente ultimata, e non prima, che il diritto di credito diventa esigibile ed il Comune può farlo valere ed azionarlo legittimamente nei confronti del soggetto obbligato (TAR Potenza Basilicata sez. I, 08.03.2013 n. 126; TAR Catanzaro Calabria sez. I 14.04.2011 n. 522; TAR Cagliari Sardegna sez. II 14.01.2008 n. 9; Tar Napoli Campania sez. II 11.07.2006 n. 7392; Tar Perugia Umbria 23.06.2003 n. 512).
D’altra parte si è affermato che, poiché in base all'art. 11, l. 28.01.1977 n. 10 la quota del contributo relativo al
costo di costruzione deve essere determinata all'atto del rilascio della concessione edilizia, il rilascio della concessione coincide con il momento in cui sorge l'obbligazione contributiva. Ed infatti, la disposizione dell'art. 11 della legge n. 10 del 1977, in tema di "Versamento del contributo afferente alla concessione", stabilisce che: "La quota di contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata all'atto del rilascio della concessione ed è corrisposta in corso d'opera con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione delle opere".
Da tale norma si desume, invero, che il fatto costitutivo dell'obbligo giuridico del titolare della concessione edilizia, di versare il contributo previsto, è rappresentato dal rilascio della concessione medesima, ed è a tale momento, quindi, che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo, divenendo il relativo credito certo, liquido o agevolmente liquidabile ed esigibile (cfr. Cons. St. Sez. IV 06.06.2008, n. 2686 Consiglio Stato sez. V 13.06.2003 n. 3332; Consiglio Stato sez. IV 16.01.2009; TAR Catania Sicilia sez. I 02.10.2003 n. 1502).
Sulla base di tale orientamento alcun rilievo può assumere la circostanza che il Comune sia sia espressamente riservato la facoltà di stabilire modalità e garanzie per il pagamento del contributo, atteso che l'atto di imposizione non ha carattere autoritativo ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo di precedenti provvedimenti di carattere generale, e la sua mancata tempestiva adozione non implica alcun potere dell'Amministrazione di differire il suo diritto di credito, configurandosi piuttosto come mancato esercizio del diritto stesso, idoneo a far decorrere il periodo di prescrizione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come espressamente stabilito dall’art. 15, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001, riproduttivo del comma 5 dell’art. 4 della legge n. 10/1977 vigente ratione temporis, la mancata ultimazione dell’intervento nei termini stabiliti resta subordinata al rilascio di un nuovo permesso di costruire per la parte non ultimata.
Sicché la mancata ultimazione dei lavori di costruzione nel termine stabilito dalla concessione determina la necessità per il titolare della concessione, di chiedere il rilascio di una nuova concessione edilizia, per ultimare i lavori edilizi assentiti.
Tale nuova concessione è indubitabilmente assoggettata agli obblighi di natura urbanistica e patrimoniale previsti dalla normativa in materia alla data del relativo rilascio, incluso l’obbligo di attualizzazione del contributo concessorio secondo i parametri di riferimento vigenti in tale data.

Va rilevato innanzitutto che, come espressamente stabilito dall’art. 15, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001, riproduttivo del comma 5 dell’art. 4 della legge n. 10/1977 vigente ratione temporis, la mancata ultimazione dell’intervento nei termini stabiliti resta subordinata al rilascio di un nuovo permesso di costruire per la parte non ultimata.
Sicché la mancata ultimazione dei lavori di costruzione nel termine stabilito dalla concessione determina la necessità per il titolare della concessione, di chiedere il rilascio di una nuova concessione edilizia, per ultimare i lavori edilizi assentiti. Tale nuova concessione è indubitabilmente assoggettata agli obblighi di natura urbanistica e patrimoniale previsti dalla normativa in materia alla data del relativo rilascio, incluso l’obbligo di attualizzazione del contributo concessorio secondo i parametri di riferimento vigenti in tale data.
Difatti il fabbricato oggetto della prima concessione edilizia in quanto realizzato “al rustico” non poteva ritenersi ultimato.
Suggestiva risulta la tesi difensiva secondo cui il presupposto sostanziale dei contributi di concessione è la sussistenza di un carico urbanistico, per cui le opere che non inducono un nuovo carico urbanistico gravante sul territorio e nemmeno lo ampliano, come nel caso di specie, dovrebbero essere esenti da contribuzione.
Tuttavia tale assunto viene smentito dalla circostanza che il contributo relativo al costo di costruzione, a differenza degli oneri di urbanizzazione, non concorre alla realizzazione delle infrastrutture pubbliche a servizio della nuova opera, ma sorge semplicemente a fronte dell’incremento del patrimonio del titolare del permesso, e dunque della sua capacità contributiva, conseguente all’intervento edilizio.
Inoltre la fattispecie in esame non rientra in alcuno dei casi di esenzione o gratuità della concessione contemplati dall’art. 9 della legge n. 10/1977 che riconosce il diritto all’esenzione nei casi di interventi di manutenzione straordinaria, restauro risanamento conservativo, ristrutturazione e ampliamento in misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari, modifiche interne o realizzazione di volumi tecnici indispensabili per esigenze abitative.
I casi di gratuità o di esenzione costituiscono difatti fattispecie eccezionali e di stretta interpretazione, per cui non è consentita all’interprete l’individuazione in via pretoria di ulteriori ipotesi non previste dalla legge, ivi inclusi i casi di fabbricati non ultimati sulla base di una precedente concessioni edilizia.
In ogni caso parte ricorrente non ha nemmeno dimostrato quale fosse l’effettivo stato di avanzamento dei lavori, né ha comprovato l’assunto secondo cui il progetto di completamento del fabbricato, sulla cui base il Comune ha calcolato gli oneri in esame, non apportava alcun elemento di novità rispetto a quanto previsto dalla concessione originaria.
Non può quindi sostenersi che attraverso l’ingiunzione in oggetto il Comune abbia inteso in qualche modo indebitamente realizzare una duplicazione di un’entrata di cui aveva già in precedenza beneficiato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla natura degli oneri concessori, la prevalente giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, in un primo momento solo con riguardo agli oneri di urbanizzazione, e più di recente anche con riferimento al costo di costruzione, ne ha affermato la natura di obbligazioni c.d. “reali” o propter rem caratterizzate pertanto dalla stretta inerenza alla res e destinate a circolare unitamente ad essa per il carattere dell’ambulatorietà che le contraddistingue.
Sulla base di tali argomentazioni la Cassazione ha difatti affermato che l'obbligazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione è un’obbligazione propter rem, e che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi di concessione rilasciata al suo dante causa, ha verso il Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario ed è con lui solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Anche il giudice amministrativo, in relazione all’obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, ha chiarito che essa deve qualificarsi "propter rem" nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che ha stipulato la convenzione edilizia, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia e da colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa. L’obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell'obbligazione in esame riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa.
Le argomentazioni addotte a sostegno della qualificazione come obbligazioni propter rem degli oneri di urbanizzazione sono state poi estese anche agli oneri relativi al costo di costruzione nel senso che: “nulla vieta dal punto di vista logico prima che giuridico che alle identiche conclusioni debba pervenirsi in ordine alla parte del contributo commisurato al costo di costruzione; questo, infatti, in uno con gli oneri di urbanizzazione costituisce “il contributo” per il rilascio per permesso di costruire (già c.e.) con conseguente e doverosa disciplina unitaria ai fini che qui interessano delle due voci in cui si viene a scomporre".
Tale orientamento, che trova condivisione da parte di questo Collegio, ha trovato riscontro da ultimo in una più recente decisione del Consiglio di Stato secondo cui il presupposto di esigibilità dell’onere relativo al costo di costruzione non risiede solo nella materiale esecuzione delle opere ma anche nella concreta fruizione del titolo e comunque: “le obbligazioni per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché nel caso di trasferimento del bene, esse gravano sull’acquirente”.
Trattasi in sostanza di obbligazioni connotate dall’inerenza alla cosa, anziché alla persona cui è rilasciato il permesso di costruire, sicché tutti coloro che partecipano alla costruzione e la utilizzano sono solidalmente obbligati verso il Comune al pagamento degli oneri in questione.

Sotto altro profilo nemmeno fondata può dirsi l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dalla società ricorrente, argomentata sul presupposto che gli oneri sarebbero stati già assolti dalla società titolare della concessione edilizia originaria che aveva realizzato il fabbricato senza tuttavia portarlo a ultimazione, e che, a suo dire, sarebbe per questo l’unico soggetto legittimato passivo nei confronti dell’amministrazione intimata.
Al riguardo è da rilevare che la circostanza secondo cui gli oneri di costruzione in oggetto sarebbero stati assolti dalla società titolare della originaria concessione edilizia, è stata decisamente contestata in atti dal Comune, ed è restata così a livello di mera asserzione del tutto sfornita di prova.
A ciò deve aggiungersi che, quanto alla natura degli oneri concessori, la prevalente giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, in un primo momento solo con riguardo agli oneri di urbanizzazione (Cassazione civile, sez. III, 17.06.1996, n. 5541), e più di recente anche con riferimento al costo di costruzione (TAR Bari Puglia, 11/09/2008, n. 2078, sez. III), ne ha affermato la natura di obbligazioni c.d. “reali” o propter rem caratterizzate pertanto dalla stretta inerenza alla res e destinate a circolare unitamente ad essa per il carattere dell’ambulatorietà che le contraddistingue.
Sulla base di tali argomentazioni la Cassazione ha difatti affermato che l'obbligazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione è un’obbligazione propter rem, e che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi di concessione rilasciata al suo dante causa, ha verso il Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario ed è con lui solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di urbanizzazione (Cass. Civile Sez. III, 17.06.1996, n. 5541; Sez. II 27.08.2002, n. 12571).
Anche il giudice amministrativo, in relazione all’obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, ha chiarito che essa deve qualificarsi "propter rem" nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che ha stipulato la convenzione edilizia, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia e da colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa. L’obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell'obbligazione in esame riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa (TAR Sicilia Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011).
Le argomentazioni addotte a sostegno della qualificazione come obbligazioni propter rem degli oneri di urbanizzazione sono state poi estese anche agli oneri relativi al costo di costruzione nel senso che: “nulla vieta dal punto di vista logico prima che giuridico che alle identiche conclusioni debba pervenirsi in ordine alla parte del contributo commisurato al costo di costruzione; questo, infatti, in uno con gli oneri di urbanizzazione costituisce “il contributo” per il rilascio per permesso di costruire (già c.e.) con conseguente e doverosa disciplina unitaria ai fini che qui interessano delle due voci in cui si viene a scomporre" (CGA 18.05. 2007, n. 395; cfr. Tar Puglia Bari sez. III n. 2078 dell’11.09.2008; nello stesso senso Tar Abruzzo L’Aquila n. 879 del 23.10.2003).
Tale orientamento, che trova condivisione da parte di questo Collegio, ha trovato riscontro da ultimo in una più recente decisione del Consiglio di Stato secondo cui il presupposto di esigibilità dell’onere relativo al costo di costruzione non risiede solo nella materiale esecuzione delle opere ma anche nella concreta fruizione del titolo e comunque: “le obbligazioni per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché nel caso di trasferimento del bene, esse gravano sull’acquirente” (cfr. Cons. Stato sez.V, n. 6333 del 12.07.2011).
Trattasi in sostanza di obbligazioni connotate dall’inerenza alla cosa, anziché alla persona cui è rilasciato il permesso di costruire, sicché tutti coloro che partecipano alla costruzione e la utilizzano sono solidalmente obbligati verso il Comune al pagamento degli oneri in questione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIQuesta Sezione ha già avuto modo di affrontare la tematica della corrispondenza tra quota di qualificazione, quota di partecipazione e quota di esecuzione, espressamente dichiarando tale principio applicabile anche agli appalti di servizi.
Si è, infatti, affermato, con considerazione condivise nella presente sede, che la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che il comma 13 dell’art. 37, applicabile anche agli appalti di servizi, stabilisce che i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, il che comporta che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, essendovi peraltro la necessità che sia l'una che l'altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all'atto della partecipazione alla gara.
Si è precisato che ai fini dell'ammissione alla gara di un raggruppamento consortile o di un' A.T.I. occorre che già nella fase di offerta sia evidenziata la corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione e quote di partecipazione, nonché tra quote di partecipazione e quote di esecuzione, trattandosi di obbligo costituente espressione di un principio generale che prescinde dall'assoggettamento o meno della gara alla disciplina comunitaria e non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), o alla tipologia delle prestazioni, principali o secondarie, scorporabili o unitarie.
Più in particolare, si è affermato che “l'obbligo di specificazione in esame trova la sua ratio ... nella necessità di assicurare alle Amministrazioni aggiudicatrici la conoscenza preventiva del soggetto, che in concreto eseguirà il servizio. E ciò non solo per consentire una maggiore speditezza nella fase di esecuzione del contratto, ma anche per l'effettuazione di ogni previa verifica sulla competenza tecnica dell'esecutore; oltre che per evitare che le imprese si avvalgano del raggruppamento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme d'ammissione alle gare.
La regola, si soggiunge, non può non valere poi anche per le A.T.I. costituende, che correttamente sono dunque tenute anch'esse ad indicare, già nella fase di ammissione alla gara, e dunque prima dell'aggiudicazione, le quote di partecipazione di ciascuna impresa al futuro raggruppamento e le quote di ripartizione delle prestazioni oggetto dell'appalto, ai fini della verifica della rispondenza della prestazione da eseguirsi ai requisiti di qualificazione tecnico-organizzativa fatti valere secondo le relative corrispondenti percentuali, essendo del resto evidente che una diversa soluzione porterebbe ad un diversificato ed ingiustificato trattamento tra le A.T.I. già formalmente costituite e le A.T.I. costituende, che ne sarebbero esonerate e chiamate a dimostrare l'affidabilità della loro proposta contrattuale solo se e quando risultino aggiudicatarie della gara.”.
Alla luce di quanto sin qui esposto, si è anche precisato che l’indicazione delle quote di partecipazione ad un’ATI costituenda deve indispensabilmente essere indicato in sede di gara e non può essere desunto dalla diversa indicazione delle quote di ripartizione delle prestazioni oggetto dell’appalto.
Ed infatti, per un verso, l’indicazione delle quote di partecipazione costituisce il presupposto per una compiuta verifica della rispondenza della prestazione da eseguirsi ai requisiti di qualificazione tecnico-organizzativa fatti valere secondo le relative corrispondenti percentuali, verifica che è negata dalla indicazione del solo dato relativo alla ripartizione delle quote di esecuzione dell’appalto, con conseguente sostanziale disapplicazione dell’art. 37, co. 13, d.lgs. n. 163/2006.
Per altro verso, l’omissione della precisa indicazione delle quote di partecipazione alla costituenda ATI non consentendo –in difetto di specifica indicazione, impegno e conseguente assunzione di responsabilità da parte delle imprese– le corrette ed esaustive verifiche da parte dell’amministrazione, determina una violazione della par condicio dei concorrenti (ed in particolare tra ATI già costituite ed ATI costituende).
D’altra parte, a fronte di una specifica indicazione prevista dal citato art. 37, co. 13, non vi è ragione per consentire indicazioni differenti, obbligando l’amministrazione –in luogo di una valutazione immediata derivante dalla chiara percezione offerta dalla indicata (con conseguente assunzione di responsabilità) quota di partecipazione all’ATI– a dover desumere tale quota da indicazioni diverse.
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Il Collegio ritiene che la modifica apportata al citato art. 37 d.lgs. n. 163/2006, ad opera dell’art. 1, co. 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, conv. in l. 07.08.2012 n. 135, non abbia valore di norma di interpretazione autentica, né possa ad essa essere comunque riconosciuta efficacia retroattiva.
Giova ricordare che, per effetto delle modifiche introdotte, il comma 13 del citato art. 37 dispone ora: “Nel caso di lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento”, laddove il medesimo comma disponeva, invece: “I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento.”.
Il nuovo testo della norma rende, dunque, evidente la applicazione del principio di corrispondenza ivi enunciato esclusivamente agli appalti di lavori, dovendosi tuttavia ritenere condivisibile la considerazione svolta sul punto dalla sentenza di I grado, secondo la quale “è stata necessaria una precisa disposizione di legge per differenziare, sul punto, la disciplina degli appalti di lavori da quella dei servizi, con ciò significando che la disciplina normativa precedente non era sufficiente ... alla bisogna e che l’indirizzo giurisprudenziale consolidato ... era conforme alla normativa vigente”.
Ed infatti, come ha già avuto modo di affermare la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la intervenuta modifica dell’art. 37, co. 13, d.lgs. n. 163/2006 non può avere efficacia retroattiva, per principio generale (art. 11 disp. prel. cod. civ.). Tale novellazione, non avendo carattere ricognitivo, appare ininfluente sulle procedure concluse o in corso, posto che già nella fase di offerta deve essere evidenziata la corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione, quote di partecipazione e quote di esecuzione.
L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Questa Sezione ha già avuto modo di affrontare (Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2012 n. 4406), la tematica della corrispondenza tra quota di qualificazione, quota di partecipazione e quota di esecuzione, espressamente dichiarando tale principio applicabile anche agli appalti di servizi.
Si è, infatti, affermato, con considerazione condivise nella presente sede, che la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che il comma 13 dell’art. 37, applicabile anche agli appalti di servizi, stabilisce che i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, il che comporta che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, essendovi peraltro la necessità che sia l'una che l'altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all'atto della partecipazione alla gara (Cons. St., sez. III, 11.05.2011 n. 2805; in senso conforme, Cons. St., sez. IV, 27.01.2011 n. 606).
Si è precisato che ai fini dell'ammissione alla gara di un raggruppamento consortile o di un' A.T.I. occorre che già nella fase di offerta sia evidenziata la corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione e quote di partecipazione, nonché tra quote di partecipazione e quote di esecuzione, trattandosi di obbligo costituente espressione di un principio generale che prescinde dall'assoggettamento o meno della gara alla disciplina comunitaria e non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), o alla tipologia delle prestazioni, principali o secondarie, scorporabili o unitarie (Cons. St., Ad. Plen., 05.07.2012 n. 26; sez. VI, 24.01.2011 n. 472; sez. IV, 27.11.2010 n. 8253).
Più in particolare, si è affermato (Cons. St., sez. III, n. 2805/2011 cit.) che “l'obbligo di specificazione in esame trova la sua ratio ... nella necessità di assicurare alle Amministrazioni aggiudicatrici la conoscenza preventiva del soggetto, che in concreto eseguirà il servizio. E ciò non solo per consentire una maggiore speditezza nella fase di esecuzione del contratto, ma anche per l'effettuazione di ogni previa verifica sulla competenza tecnica dell'esecutore; oltre che per evitare che le imprese si avvalgano del raggruppamento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme d'ammissione alle gare.
La regola, si soggiunge, non può non valere poi anche per le A.T.I. costituende, che correttamente sono dunque tenute anch'esse ad indicare, già nella fase di ammissione alla gara, e dunque prima dell'aggiudicazione, le quote di partecipazione di ciascuna impresa al futuro raggruppamento e le quote di ripartizione delle prestazioni oggetto dell'appalto, ai fini della verifica della rispondenza della prestazione da eseguirsi ai requisiti di qualificazione tecnico-organizzativa fatti valere secondo le relative corrispondenti percentuali, essendo del resto evidente che una diversa soluzione porterebbe ad un diversificato ed ingiustificato trattamento tra le A.T.I. già formalmente costituite e le A.T.I. costituende, che ne sarebbero esonerate e chiamate a dimostrare l'affidabilità della loro proposta contrattuale solo se e quando risultino aggiudicatarie della gara
.”.
Alla luce di quanto sin qui esposto, si è anche precisato che l’indicazione delle quote di partecipazione ad un’ATI costituenda deve indispensabilmente essere indicato in sede di gara e non può essere desunto dalla diversa indicazione delle quote di ripartizione delle prestazioni oggetto dell’appalto.
Ed infatti, per un verso, l’indicazione delle quote di partecipazione costituisce il presupposto per una compiuta verifica della rispondenza della prestazione da eseguirsi ai requisiti di qualificazione tecnico-organizzativa fatti valere secondo le relative corrispondenti percentuali, verifica che è negata dalla indicazione del solo dato relativo alla ripartizione delle quote di esecuzione dell’appalto, con conseguente sostanziale disapplicazione dell’art. 37, co. 13, d.lgs. n. 163/2006.
Per altro verso, l’omissione della precisa indicazione delle quote di partecipazione alla costituenda ATI non consentendo –in difetto di specifica indicazione, impegno e conseguente assunzione di responsabilità da parte delle imprese– le corrette ed esaustive verifiche da parte dell’amministrazione, determina una violazione della par condicio dei concorrenti (ed in particolare tra ATI già costituite ed ATI costituende).
D’altra parte, a fronte di una specifica indicazione prevista dal citato art. 37, co. 13, non vi è ragione per consentire indicazioni differenti, obbligando l’amministrazione –in luogo di una valutazione immediata derivante dalla chiara percezione offerta dalla indicata (con conseguente assunzione di responsabilità) quota di partecipazione all’ATI– a dover desumere tale quota da indicazioni diverse.
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Il Collegio ritiene, inoltre, che la modifica apportata al citato art. 37 d.lgs. n. 163/2006, ad opera dell’art. 1, co. 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, conv. in l. 07.08.2012 n. 135, non abbia valore di norma di interpretazione autentica, né possa ad essa essere comunque riconosciuta efficacia retroattiva.
Giova ricordare che, per effetto delle modifiche introdotte, il comma 13 del citato art. 37 dispone ora: “Nel caso di lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento”, laddove il medesimo comma disponeva, invece: “I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento.”.
Il nuovo testo della norma rende, dunque, evidente la applicazione del principio di corrispondenza ivi enunciato esclusivamente agli appalti di lavori, dovendosi tuttavia ritenere condivisibile la considerazione svolta sul punto dalla sentenza di I grado, secondo la quale “è stata necessaria una precisa disposizione di legge per differenziare, sul punto, la disciplina degli appalti di lavori da quella dei servizi, con ciò significando che la disciplina normativa precedente non era sufficiente ... alla bisogna e che l’indirizzo giurisprudenziale consolidato ... era conforme alla normativa vigente”.
Ed infatti, come ha già avuto modo di affermare la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. III, 07.06.2013 n. 3138), la intervenuta modifica dell’art. 37, co. 13, d.lgs. n. 163/2006 non può avere efficacia retroattiva, per principio generale (art. 11 disp. prel. cod. civ.). Tale novellazione, non avendo carattere ricognitivo, appare ininfluente sulle procedure concluse o in corso, posto che –come si è già avuto modo di affermare- già nella fase di offerta deve essere evidenziata la corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione, quote di partecipazione e quote di esecuzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.04.2014 n. 1753 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Va innanzi tutto richiamata la giurisprudenza penale che, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi terzi estranei all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione.
Per converso, dal punto di vista amministrativo, un condivisibile indirizzo di primo grado assume che è irrilevante l’asserita buona fede degli acquirenti, i quali in ipotesi facciano risalire la responsabilità della lottizzazione abusiva esclusivamente ai loro danti causa, trattandosi di una situazione in cui rileva, dal punto di vista urbanistico, la sussistenza di un abuso oggettivo, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti di buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell’alienante.
Quanto sopra rende giustizia anche degli principi in materia di sanzioni amministrative di cui alla legge 24.11.1981, nr. 689, evocati dalle parti odierne appellanti, dal momento che –anche ammesso che nella specie si controverta di sanzioni riconducibili a detta disciplina- quanto rilevato in ordine alla responsabilità penale per lottizzazione abusiva non può non valere, stante l’identità di ratio, anche per gli eventuali illeciti amministrativi ravvisabili nelle medesime condotte.

Quanto all’ultimo motivo di tutti gli appelli qui riuniti, anche questo è privo di pregio, non potendo essere utilmente invocata una presunta buona fede degli istanti, i quali –giova sottolinearlo– sono tutti aventi causa dal frazionamento “in prima battuta”, e non terzi che hanno acquistato da altri soggetti che fossero stati i primi beneficiari dello stesso.
Al riguardo, va innanzi tutto richiamata la giurisprudenza penale che, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi terzi estranei all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione (cfr. Cass. pen., sez. III, 13.02.2014, nr. 2646; id., 03.12.2013, nr. 51710; id., 27.04.2011, nr. 21853).
Per converso, dal punto di vista amministrativo, un condivisibile indirizzo di primo grado assume che è irrilevante l’asserita buona fede degli acquirenti, i quali in ipotesi facciano risalire la responsabilità della lottizzazione abusiva esclusivamente ai loro danti causa, trattandosi di una situazione in cui rileva, dal punto di vista urbanistico, la sussistenza di un abuso oggettivo, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti di buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell’alienante.
Quanto sopra rende giustizia anche degli principi in materia di sanzioni amministrative di cui alla legge 24.11.1981, nr. 689, evocati dalle parti odierne appellanti, dal momento che –anche ammesso che nella specie si controverta di sanzioni riconducibili a detta disciplina- quanto rilevato in ordine alla responsabilità penale per lottizzazione abusiva non può non valere, stante l’identità di ratio, anche per gli eventuali illeciti amministrativi ravvisabili nelle medesime condotte (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.04.2014 n. 1589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATASebbene in giurisprudenza sia stata, anche di recente, affermata la competenza della Giunta in materia di adeguamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, reputa il collegio di aderire all’opposto orientamento che ritiene sussistente la competenza del Consiglio comunale.
In tal senso depone il tenore letterale dell’art. 16, comma 4, del D.P.R. n. 380/2001 che riconosce espressamente la competenza del Consiglio comunale in materia, affermando che: “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni…”. La suddetta competenza è ribadita dal successivo comma 5 per il caso in cui la regione non provveda alla definizione della tabelle parametriche e dal successivo art. 19 recante la disciplina del contributo di costruzione per opere o impianti non destinati alla residenza, alle quali è ascrivibile l’intervento assentito in favore della esponente.
Deve ancora osservarsi che le menzionate disposizioni contenute nel D.P.R. n. 380/2001 non rivestono portata derogatoria bensì confermativa della disciplina sulle attribuzioni del Consiglio comunale come normate all’art. 42 del d.lgs. n. 267/2000 atteso che, ai sensi della lettera f), comma 2, del disposto normativo in esame, il Consiglio ha competenza anche in materia di “istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi”, e non v’è dubbio che, anche a prescindere dalla controversa natura giuridica degli oneri in questione, si tratti di prestazioni patrimoniali imposte la cui disciplina, secondo un risalente principio giuridico, spetta all’organo elettivo della comunità di riferimento, nella specie rappresentato dal Consiglio comunale.
Né per sostenere la tesi della competenza della Giunta comunale vale opporre che nel caso di specie si tratterebbe di un mero adeguamento degli importi degli oneri dovuti poiché, in senso contrario, deve osservarsi che l’art. 16 del DPR n. 380/2001 non distingue tra determinazione degli oneri e loro aggiornamento, limitandosi ad indicare nel consiglio l’organo competente a provvedere in materia, in linea con la previsione generale di cui all’art. 42, comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 267/2000.
Al contempo la tesi della competenza della Giunta non può fondatamente essere sostenuta facendo valere il carattere sostanzialmente vincolato del procedimento di adeguamento periodico degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, atteso che, in realtà, si tratta di decisioni comunque caratterizzate dall’esercizio di poteri discrezionali che, per l’ampia latitudine delle valutazioni di merito implicate e per le ricadute dirette sui diritti dominicali degli appartenenti alle comunità di riferimento, non possono non essere esercitati dal Consiglio in quanto unico organo competente in materia di istituzione ed ordinamento di tributi e di disciplina delle tariffe per la fruizione dei servizi.
Che si tratti di esercizio di poteri discrezionali è confermato sia dal tenore delle disposizioni normative pertinenti che dal contenuto delle delibere in concreto assunte dalla Giunta e contestate dalla ricorrente.
Ed infatti, ai sensi dell’art. 16, comma 6, del DPR. n. 380/2001 “Ogni cinque anni i comuni provvedono ad aggiornare gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, in conformità alle relative disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale”; nella specie non risulta che la regione Molise abbia assunto alcuna decisione in materia di adeguamento degli oneri di urbanizzazione sicché l’attività posta in essere dalla Giunta non si rivela come meramente attuativa degli indirizzi regionali in materia.
Inoltre la norma prevede che l’aggiornamento debba essere eseguito “in relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale”, secondo cioè parametri tutt’altro che oggettivi ed univoci, implicando stime di carattere presuntivo e probabilistico certamente opinabili, tant’è che, nel caso di specie, la Giunta nell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale, ha ritenuto di ancorare l’aggiornamento al parametro della rivalutazione in ragione della variazione intervenuta nei costi delle summenzionate opere di urbanizzazione, peraltro pervenendo in tal modo ad un incremento di ben il 348 per cento degli oneri di urbanizzazione.
Ora è evidente che la scelta di un criterio, non imposto dalla legge e neppure dagli indirizzi regionali, nella specie non adottati, e quindi espressione di una valutazione discrezionale e che comporta, al contempo, un incremento degli oneri di urbanizzazione di oltre il 300%, non può ragionevolmente essere sottratto alla competenza del Consiglio in quanto organo responsabile della istituzione dei tributi e della disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei servizi, qual è l’attività di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.

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... per l'annullamento
   - del provvedimento del 1/10/2012, prot. n. 6811, a firma del Responsabile dell’Area G.S.T. con il quale si comunica l’accoglimento dell’istanza presentata dalla ricorrente in data 25/01/20012 con prot. n. 663 e volta ad ottenere il rilascio del permesso di costruire, subordinandone il rilascio alla consegna della ricevuta di versamento dei diritti di segreteria pari ad Euro 6.990,00, del contributo corrispondente alla incidenza degli oneri di urbanizzazione pari ad Euro 21.018,57 e del costo di costruzione pari ad Euro 28.469,61 nonché della marca da bollo da Euro 14,62, nonché
   - della delibera di Giunta n. 69 del 18/06/2012 avente ad oggetto “Adeguamento costo oneri di urbanizzazione”, della delibera di Giunta n. 70 del 18/06/2012 avente ad oggetto “Adeguamento tariffe costo di costruzione” e della delibera di Giunta n. 72 del 18/06/2012 avente ad oggetto “Aggiornamento ed istituzione nuovi diritti di segreteria. Provvedimenti” e di ogni atto successivo, consequenziale e, comunque, connesso.
...
La società ricorrente riferisce di avere presentato in data 25.01.2012 istanza per il rilascio di un permesso di costruire avente ad oggetto la realizzazione di un capannone artigianale in zona P.I.P. previamente acquistata dal Comune di Santa Croce di Magliano e che, nelle more dell’istruttoria, la Giunta Comunale con delibere nn. 69, 70, 72 adottate il 18.06.2012 ha provveduto ad adeguare il costo degli oneri di urbanizzazione, le tariffe relative al costo di costruzione ed ad aggiornare ed istituire nuovi diritti di segreteria.
L’accoglimento dell’istanza di rilascio del permesso di costruire è stato così condizionato al pagamento di un importo complessivo di euro 56.467,18 che l’esponente assume sproporzionato e comunque determinato in forza di delibere adottate da organo incompetente essendo la materia riservata alla competenza del Consiglio Comunale ai sensi del combinato disposto di cui agli art. 16, comma 4, del DPR n. 380/2001 e 42, comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 267/2000.
Lamenta, al contempo, che i provvedimenti impugnati sarebbero affetti da violazione di legge in tema di aggiornamento degli oneri urbanistici; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990; eccesso di potere per difetto ed erronea motivazione; erroneità di istruttoria; travisamento dei fatti; erronea valutazione dei presupposti; manifesta ingiustizia; eccesso di potere.
...
Il ricorso è fondato.
Con ordinanza n. 7/2013 il collegio ha accolto la domanda cautelare ritenendo fondata la dedotta censura di difetto di competenza della Giunta nella determinazione del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione, al costo di costruzione ed ai diritti di segreteria.
La successiva fase di merito del giudizio non ha introdotto elementi in fatto o in diritto nuovi sicché l’orientamento espresso dal collegio in sede cautelare deve, in questa sede, essere confermato.
Sebbene, infatti, in giurisprudenza sia stata, anche di recente, affermata la competenza della Giunta in materia di adeguamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione (cfr. TAR Campania, II, n. 4206/2013), reputa il collegio di aderire all’opposto orientamento che ritiene sussistente la competenza del Consiglio comunale (TAR Lecce, III, n. 2765/2010).
In tal senso depone il tenore letterale dell’art. 16, comma 4, del D.P.R. n. 380/2001 che riconosce espressamente la competenza del Consiglio comunale in materia, affermando che: “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni…”. La suddetta competenza è ribadita dal successivo comma 5 per il caso in cui la regione non provveda alla definizione della tabelle parametriche e dal successivo art. 19 recante la disciplina del contributo di costruzione per opere o impianti non destinati alla residenza, alle quali è ascrivibile l’intervento assentito in favore della esponente.
Deve ancora osservarsi che le menzionate disposizioni contenute nel D.P.R. n. 380/2001 non rivestono portata derogatoria bensì confermativa della disciplina sulle attribuzioni del Consiglio comunale come normate all’art. 42 del d.lgs. n. 267/2000 atteso che, ai sensi della lettera f), comma 2, del disposto normativo in esame, il Consiglio ha competenza anche in materia di “istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi”, e non v’è dubbio che, anche a prescindere dalla controversa natura giuridica degli oneri in questione, si tratti di prestazioni patrimoniali imposte la cui disciplina, secondo un risalente principio giuridico, spetta all’organo elettivo della comunità di riferimento, nella specie rappresentato dal Consiglio comunale.
Né per sostenere la tesi della competenza della Giunta comunale vale opporre che nel caso di specie si tratterebbe di un mero adeguamento degli importi degli oneri dovuti poiché, in senso contrario, deve osservarsi che l’art. 16 del DPR n. 380/2001 non distingue tra determinazione degli oneri e loro aggiornamento, limitandosi ad indicare nel consiglio l’organo competente a provvedere in materia, in linea con la previsione generale di cui all’art. 42, comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 267/2000.
Al contempo la tesi della competenza della Giunta non può fondatamente essere sostenuta facendo valere il carattere sostanzialmente vincolato del procedimento di adeguamento periodico degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, atteso che, in realtà, si tratta di decisioni comunque caratterizzate dall’esercizio di poteri discrezionali che, per l’ampia latitudine delle valutazioni di merito implicate e per le ricadute dirette sui diritti dominicali degli appartenenti alle comunità di riferimento, non possono non essere esercitati dal Consiglio in quanto unico organo competente in materia di istituzione ed ordinamento di tributi e di disciplina delle tariffe per la fruizione dei servizi.
Che si tratti di esercizio di poteri discrezionali è confermato sia dal tenore delle disposizioni normative pertinenti che dal contenuto delle delibere in concreto assunte dalla Giunta e contestate dalla ricorrente.
Ed infatti, ai sensi dell’art. 16, comma 6, del DPR. n. 380/2001 “Ogni cinque anni i comuni provvedono ad aggiornare gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, in conformità alle relative disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale”; nella specie non risulta che la regione Molise abbia assunto alcuna decisione in materia di adeguamento degli oneri di urbanizzazione sicché l’attività posta in essere dalla Giunta non si rivela come meramente attuativa degli indirizzi regionali in materia.
Inoltre la norma prevede che l’aggiornamento debba essere eseguito “in relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale”, secondo cioè parametri tutt’altro che oggettivi ed univoci, implicando stime di carattere presuntivo e probabilistico certamente opinabili, tant’è che, nel caso di specie, la Giunta nell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale, ha ritenuto di ancorare l’aggiornamento al parametro della rivalutazione in ragione della variazione intervenuta nei costi delle summenzionate opere di urbanizzazione, peraltro pervenendo in tal modo ad un incremento di ben il 348 per cento degli oneri di urbanizzazione.
Ora è evidente che la scelta di un criterio, non imposto dalla legge e neppure dagli indirizzi regionali, nella specie non adottati, e quindi espressione di una valutazione discrezionale e che comporta, al contempo, un incremento degli oneri di urbanizzazione di oltre il 300%, non può ragionevolmente essere sottratto alla competenza del Consiglio in quanto organo responsabile della istituzione dei tributi e della disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei servizi, qual è l’attività di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Analoghe considerazioni valgono per la variazione del costo di costruzione.
Deve premettersi che l’art. 16, comma 9, del D.P.R. n. 380/2001 se, da un lato, afferma che “Nei periodi intercorrenti tra le determinazioni regionali, ovvero in eventuale assenza di tali determinazioni, il costo di costruzione è adeguato annualmente, ed autonomamente, in ragione dell’intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT)”, dall’altro, la medesima disposizione prosegue precisando che “Il contributo afferente al permesso di costruire comprende una quota di detto costo variabile dal 5 per cento al 20 per cento, che viene determinata dalle regioni in funzione delle caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni e della loro destinazione ed ubicazione”.
Anche in questo caso, come si evince dalla parte motiva della delibera di Giunta n. 70/2012, la Regione Molise non ha più provveduto ad aggiornare il costo di costruzione a partire dalla delibera di Giunta n. 4724 del 27.11.1995, ed ha inoltre stabilito con delibera di Giunta n. 5548 del 05.12.1994 che la quota relativa al costo di costruzione compresa nel contributo per la concessione, variabile tra un minimo del 5 per cento ed un massimo del 20 per cento, venga definito autonomamente dalle amministrazioni comunali.
Nella specie la Giunta comunale con la delibera n. 70/2012 ha deciso di fissare tale quota nel 5 per cento del costo di costruzione risultante dal predetto adeguamento.
Così facendo, tuttavia, se ha da un lato applicato un parametro vincolato nell’aggiornamento del costo di costruzione, ancorandolo alla variazione accertata dall’ISTAT, dall’altra ha operato una scelta di merito in ordine alla determinazione della percentuale del costo di costruzione, rilevante ai fini della determinazione del contributo afferente il permesso di costruire, fissandola nel 5 per cento, decisione che, in quanto ampiamente discrezionale, non poteva non essere rimessa alla decisione del Consiglio comunale.
Analoghe considerazioni valgono, infine, per la delibera di Giunta n. 72 del 2012 avente ad oggetto “Aggiornamento ed istituzione nuovi diritti di segreteria. Provvedimenti”, atteso che nell’ambito della disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei servizi di cui all’art. 42, comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 267/2000, non può non essere rimessa al Consiglio comunale la decisione in ordine alla istituzione di nuovi diritti di segreteria “alla luce dell’evolversi del quadro normativo in materia di edilizia”, sicché anche tale delibera deve ritenersi affetta da illegittimità per vizio di incompetenza con la conseguenza che, al pari delle prime due, merita di essere annullata.
Da tali considerazioni discende che l’esercizio del potere di adeguamento dei costi di urbanizzazione costituisce un potere discrezionale e come tale è attribuito, anche in applicazione dell’art. 42, comma 2, lett. f), del d.lgs. 267/2000, alla competenza dei consigli comunali, soprattutto nelle fattispecie in cui la Regione abbia omesso, come nel caso di specie, di adottare gli specifici atti di indirizzo previsti dall’art. 16, commi 6 e 9, del DPR n. 380/2001.
In conclusione il ricorso dev’essere accolto con riferimento al dedotto motivo di incompetenza della Giunta comunale, con conseguente annullamento delle delibere impugnate e della nota 01.10.2012 prot. n. 6811 nella parte in cui vengono determinati gli oneri di urbanizzazione, il costo di costruzione ed i diritti di segreteria, con obbligo del Comune di rideterminarsi sul punto nel rispetto delle regole di competenza (TAR Molise, sentenza 31.03.2014 n. 210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: a) in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990 trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
b) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica ed ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Difatti, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo edilizio, in assenza del medesimo ovvero con variazioni essenziali, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
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Non inficia la legittimità dell’azione amministrativa l’esiguo tempo decorso tra il verbale di sopralluogo e l’irrogazione dell’ingiunzione ripristinatoria.
Difatti, l’attività provvedimentale è stata posta in applicazione degli artt. 27 e 31 del D.P.R. 380/2001 che, come noto, riconoscono all'amministrazione comunale un generale potere-dovere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, del tutto privo di margini di discrezionalità siccome rivolto a reprimere gli abusi accertati al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato.
Neppure può convenirsi circa la presunta esistenza di un termine dilatorio dall’accertamento dell’abuso, decorso il quale l’amministrazione potrebbe procedere alla irrogazione delle sanzioni edilizie: in disparte l’assenza di qualsivoglia fondamento normativo, tale opzione ermeneutica collide con la descritta natura del potere di vigilanza in materia edilizia che, una volta soddisfatta l’esigenza di adeguata verifica dell’abuso, va esercitato entro un ristretto arco temporale al fine di ripristinare celermente l’ordine urbanistico violato.
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L'accertamento di conformità ex art. 36 DPR 380/2001 va effettuato su iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione.
Ed invero la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità, atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di sanatoria.

Il ricorso è manifestamente infondato.
La censure (sviluppate con il primo ed il quarto motivo di gravame) che attengono alla violazione delle garanzie partecipative prescritte dalla L. 241/1990 e alla omessa specificazione dell’interesse pubblico al ripristino si infrangono contro il granitico indirizzo pretorio, dal quale il Collegio non ritiene di discostarsi, secondo cui:
a) in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990 trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII Napoli, 18.12.2013 n. 5811; 29.01.2009 n. 5001);
b) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica ed ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Difatti, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo edilizio, in assenza del medesimo ovvero con variazioni essenziali, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.04.2004 n. 2529; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 02.12.2004 n. 18085).
Non ha pregio il secondo motivo di diritto con il quale i ricorrenti deducono il difetto di motivazione ed osservano che la contestazione dell’illecito edilizio sarebbe avvenuta in un ristretto arco temporale rispetto alla data di accertamento dell’abuso (verbale di accertamento del 06.02.2007 – ordine demolizione del 13.02.2007).
Quanto al difetto di motivazione, si osserva che nell’atto sono specificate le ragioni poste a fondamento del gravato ordine demolitorio, controvertendosi appunto di un manufatto abusivo realizzato in zona agricola in mancanza di permesso di costruire.
Inoltre non inficia la legittimità dell’azione amministrativa l’esiguo tempo decorso tra il verbale di sopralluogo e l’irrogazione dell’ingiunzione ripristinatoria.
Difatti, l’attività provvedimentale è stata posta in applicazione degli artt. 27 e 31 del D.P.R. 380/2001 che, come noto, riconoscono all'amministrazione comunale un generale potere-dovere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, del tutto privo di margini di discrezionalità siccome rivolto a reprimere gli abusi accertati al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.01.2013 n. 62).
Neppure può convenirsi circa la presunta esistenza di un termine dilatorio dall’accertamento dell’abuso, decorso il quale l’amministrazione potrebbe procedere alla irrogazione delle sanzioni edilizie: in disparte l’assenza di qualsivoglia fondamento normativo, tale opzione ermeneutica collide con la descritta natura del potere di vigilanza in materia edilizia che, una volta soddisfatta l’esigenza di adeguata verifica dell’abuso, va esercitato entro un ristretto arco temporale al fine di ripristinare celermente l’ordine urbanistico violato.
Con il terzo motivo di diritto gli esponenti assumono che l’ente locale, prima di adottare il provvedimento demolitorio, avrebbe dovuto verificare preliminarmente la sanabilità del manufatto de quo ai sensi dell’art. 36 del T.U. Edilizia.
L’argomentazione è priva di pregio.
In primo luogo, a fronte della dichiarata abusività dell’opera (che, si rammenta, è stata realizzata in zona agricola ed in difetto di titolo abilitativo), i ricorrenti non hanno in alcun modo comprovato la conformità rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 380/2001, onde la censura si appalesa generica e priva di alcun riscontro probatorio.
In ogni caso, si aggiunga che l'accertamento di conformità di cui alla richiamata disposizione va effettuato su iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione (TAR Lazio, Roma, 04.09.2009 n. 8389). Ed invero la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità, atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di sanatoria (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 06.11.2008 n. 19290) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 26.03.2014 n. 1787 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive e i successivi provvedimenti connessi e/o conseguenti non devono essere preceduti dall'avviso di cui all’art. 7 della L. n. 241/1990, trattandosi di atti dovuti, che vengono emessi quale sanzione, rispettivamente, per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche e per l’inottemperanza dell’ingiunzione di rimessa in pristino, secondo un procedimento di natura vincolata, disciplinato rigidamente dalla legge.
Si aggiunga che l'omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241 non inficia la legittimità del provvedimento acquisitivo anche alla luce di quanto stabilito dall’art. 21-octies, secondo comma, della L. 241/1990 secondo cui “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
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L’inottemperanza all'ordine di demolizione costituisce presupposto e condizione per l'acquisizione del bene al patrimonio comunale che è non solo gratuita, ma opera "di diritto" (cfr. art. 31, terzo comma, del T.U. Edilizia) e di conseguenza il provvedimento comunale di acquisizione non soltanto costituisce un atto dovuto, ma ha carattere meramente dichiarativo, in quanto l'acquisizione avviene, per l'appunto, automaticamente per effetto dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione.
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Com'è noto, la procedura disciplinata dall’art. 31 del D.P.R. 380/2001 (e ancor prima, dall’art. 7 della L. 47/1985) prevede tale sequenza amministrativa:
- l'autorità comunale, accertato l'abuso edilizio, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la demolizione dell'immobile abusivo;
- se il responsabile non provvede alla demolizione nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, l'immobile è acquisito di diritto gratuitamente al patrimonio comunale;
- l'autorità comunale accerta formalmente l'inottemperanza all'ordine di demolizione e notifica detto accertamento all'interessato;
- la notifica dell'accertamento costituisce titolo per l'immissione nel possesso da parte del comune e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Orbene, dal tenore letterale dell’art. 31, terzo comma (secondo cui "se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime ... sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune") risulta evidente che l'effetto ablatorio si verifica ope legis per effetto dell’inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, mentre la notifica dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura solo come titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. art. 31, quarto comma: "l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente").
Del resto, questa interpretazione letterale risponde perfettamente alla logica degli istituti giuridici che connotano la specifica disciplina.
La scadenza del termine per ottemperare configura il presupposto per l'applicazione automatica della sanzione amministrativa, che consiste nel trasferimento coattivo all'ente comunale della proprietà sull'immobile non demolito. Scopo evidente di questa sanzione è quello di consentire all'ente pubblico di provvedere d'ufficio alla demolizione dell'immobile a spese del responsabile dell'abuso, salvo che si accerti in concreto un prevalente interesse pubblico alla conservazione dell'immobile stesso (dell'art. 31, quinto comma). Tuttavia, anche dopo il trasferimento all'ente comunale della proprietà e del relativo jus possidendi, può capitare che il privato responsabile dell'abuso non voglia spontaneamente spogliarsi del possesso (jus possessionis), sicché l'ente comunale che intenda procedere concretamente alla demolizione, dovrà notificare formalmente all'interessato l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione, in tal modo acquisendo il titolo per l'immissione in possesso contro il privato possessore.
Infine, per quanto riguarda i rapporti con i terzi, la predetta notifica dell'accertamento di inottemperanza consente all'ente comunale di trascrivere il trasferimento della proprietà nei registri immobiliari al fine di poter opporre ai sensi dell'art. 2644 cod. civ., il trasferimento stesso ai terzi che abbiano acquistato diritti sull'immobile.
Peraltro, è questo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa e della giurisprudenza penale di legittimità secondo cui la notifica del verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare l'inadempimento all'ingiunzione di ripristino: quindi, non è necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si dispone l'acquisizione gratuita, rilevando l'adempimento della notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza unicamente allo scopo di consentire all'ente locale l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione.
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L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né l'affidamento eventualmente riposto dall'interessato sulla legittimità delle opere realizzate, né infine l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione.

Il ricorso è infondato e deve essere respinto per quanto di ragione.
Non coglie nel segno la prima censura con la quale parte ricorrente lamenta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento amministrativo culminato con l’adozione dell’impugnato provvedimento acquisitivo.
Ed invero, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, l'ordine di demolizione di opere edilizie abusive e i successivi provvedimenti connessi e/o conseguenti non devono essere preceduti dall'avviso di cui all’art. 7 della L. n. 241/1990, trattandosi di atti dovuti, che vengono emessi quale sanzione, rispettivamente, per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche e per l’inottemperanza dell’ingiunzione di rimessa in pristino, secondo un procedimento di natura vincolata, disciplinato rigidamente dalla legge (ex multis Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.09.2008 n. 465; TAR Lombardia, Brescia, I, 17.01.2011 n. 69; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 10.12.2007 n. 15871).
Si aggiunga che l'omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241 non inficia la legittimità del provvedimento acquisitivo anche alla luce di quanto stabilito dall’art. 21-octies, secondo comma, della L. 241/1990 secondo cui “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Ciò in quanto, nel provvedimento in esame, l’amministrazione ha richiamato l’ordinanza n. 48/2007 con la quale, come si è visto, veniva ingiunta la demolizione delle opere edilizie realizzate in forza del permesso di costruire n. 22/2004 annullato in sede giurisdizionale. Sotto tale profilo, la ricorrente non ha contestato la circostanza di fatto relativa alla mancata ottemperanza alla precitata ingiunzione di ripristino né ha dimostrato la concreta utilità della sua partecipazione: deve quindi concludersi che la misura sanzionatoria adottata assumeva carattere dovuto e contenuto vincolato in relazione ai presupposti acclarati e, pertanto, nella vicenda in esame una specifica comunicazione dell'avvio del procedimento era oggettivamente superflua poiché il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Va infatti rammentato in punto di diritto che l’inottemperanza all'ordine di demolizione costituisce presupposto e condizione per l'acquisizione del bene al patrimonio comunale che è non solo gratuita, ma opera "di diritto" (cfr. art. 31, terzo comma, del T.U. Edilizia) e di conseguenza il provvedimento comunale di acquisizione non soltanto costituisce un atto dovuto, ma ha carattere meramente dichiarativo, in quanto l'acquisizione avviene, per l'appunto, automaticamente per effetto dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. II, 20.02.2013 n. 918; 03.05.2010 n. 2399; 08.01.2010 n. 23; TAR Campania Napoli, Sez. III, 07.05.2008 n. 3548).
Con il secondo e terzo motivo di diritto parte ricorrente assume, rispettivamente, l’illegittimità dell’iter procedimentale per omessa notifica alla ricorrente del verbale di inottemperanza all’ordine di demolizione, in violazione dell’art. 31, quarto comma, del D.P.R. 380/2001, ed espone che l’amministrazione avrebbe applicato una sanzione diversa (demolizione d’ufficio) da quella normativamente prevista dal Testo Unico in materia edilizia (acquisizione gratuita al patrimonio comunale).
Le argomentazioni sono prive di pregio.
Invero, com'è noto, la procedura disciplinata dall’art. 31 del D.P.R. 380/2001 (e ancor prima, dall’art. 7 della L. 47/1985) prevede tale sequenza amministrativa:
- l'autorità comunale, accertato l'abuso edilizio, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la demolizione dell'immobile abusivo;
- se il responsabile non provvede alla demolizione nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, l'immobile è acquisito di diritto gratuitamente al patrimonio comunale;
- l'autorità comunale accerta formalmente l'inottemperanza all'ordine di demolizione e notifica detto accertamento all'interessato;
- la notifica dell'accertamento costituisce titolo per l'immissione nel possesso da parte del comune e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Orbene, dal tenore letterale dell’art. 31, terzo comma (secondo cui "se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime ... sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune") risulta evidente che l'effetto ablatorio si verifica ope legis per effetto dell’inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, mentre la notifica dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura solo come titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. art. 31, quarto comma: "l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente").
Del resto, questa interpretazione letterale risponde perfettamente alla logica degli istituti giuridici che connotano la specifica disciplina.
La scadenza del termine per ottemperare configura il presupposto per l'applicazione automatica della sanzione amministrativa, che consiste nel trasferimento coattivo all'ente comunale della proprietà sull'immobile non demolito. Scopo evidente di questa sanzione è quello di consentire all'ente pubblico di provvedere d'ufficio alla demolizione dell'immobile a spese del responsabile dell'abuso, salvo che si accerti in concreto un prevalente interesse pubblico alla conservazione dell'immobile stesso (dell'art. 31, quinto comma). Tuttavia, anche dopo il trasferimento all'ente comunale della proprietà e del relativo jus possidendi, può capitare che il privato responsabile dell'abuso non voglia spontaneamente spogliarsi del possesso (jus possessionis), sicché l'ente comunale che intenda procedere concretamente alla demolizione, dovrà notificare formalmente all'interessato l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione, in tal modo acquisendo il titolo per l'immissione in possesso contro il privato possessore.
Infine, per quanto riguarda i rapporti con i terzi, la predetta notifica dell'accertamento di inottemperanza consente all'ente comunale di trascrivere il trasferimento della proprietà nei registri immobiliari al fine di poter opporre ai sensi dell'art. 2644 cod. civ., il trasferimento stesso ai terzi che abbiano acquistato diritti sull'immobile.
Peraltro, è questo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa (Consiglio Stato, Sez. V, 12.12.2008 n. 6174), seguita anche da questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.04.2012 n. 1542; Sez. III, 19.01.2010 n. 195) e della giurisprudenza penale di legittimità (Cassazione penale, Sez. III, 28.11.2007 n. 4962 e 16.02.2005 n. 14638) secondo cui la notifica del verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare l'inadempimento all'ingiunzione di ripristino: quindi, non è necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si dispone l'acquisizione gratuita, rilevando l'adempimento della notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza unicamente allo scopo di consentire all'ente locale l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione.
Quanto alla misura sanzionatoria concretamente adottata, l’attività amministrativa non si è discostata dall’art. 31 T.U. Edilizia, posto che –dopo aver verificato l’inottemperanza all’ordine di demolizione in sede di sopralluogo effettuato in data 14.11.2008 con l’ausilio dei Vigili Urbani (cfr. provvedimento n. 37/2008)– il Comune ha correttamente disposto l’acquisizione gratuita al patrimonio ai sensi dell’art. 31, terzo comma. Al contempo l’ente ha avvisato la ricorrente che, ai sensi del quinto comma della richiamata disposizione, avrebbe proceduto alla demolizione d’ufficio delle opere edilizie a spese del responsabile dell'abuso che, come noto, costituisce il naturale sbocco dell’iter acquisitivo salvo che “con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali”.
E’ viceversa inammissibile l’ulteriore censura –sempre sviluppata con il terzo motivo di gravame- con cui parte ricorrente contesta il difetto di istruttoria esponendo che il Comune non avrebbe verificato l’effettiva imprescindibilità dell’assenso dell’Autorità di Bacino (la cui carenza aveva portato alla declaratoria di inefficacia dell’autorizzazione paesaggistica ed al conseguente annullamento del permesso di costruire n. 22/2004). Ciò in quanto trattasi di questione coperta dal giudicato formatosi per effetto della sentenza di questo TAR n. 6486/2007 confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza n. 2620/2012: ne consegue che l’impugnazione del provvedimento acquisitivo non può costituire il pretesto per svolgere argomentazioni che, a ben vedere, andavano dedotte nel corso del pregresso giudizio di legittimità del permesso di costruire 22/2004.
Occorre infine respingere, siccome palesemente infondati in punto di fatto e di diritto, gli ultimi due rilievi con i quali l’esponente censura, rispettivamente, l’omessa specificazione dei manufatti oggetto di demolizione e la mancata ponderazione dell’interesse pubblico al ripristino con quello contrapposto del privato destinatario dell’atto sanzionatorio.
Sotto un primo profilo, le opere abusive acquisite di diritto ai sensi dell’art. 31, terzo comma, del D.P.R. 380/2001 vanno individuate in quelle realizzate per effetto del titolo edilizio annullato in sede giurisdizionale ed ubicate sulla porzione immobiliare dettagliatamente indicata nei suoi estremi catastali (Foglio 16, particella 269).
Quanto al pubblico interesse sotteso all’adozione del provvedimento, giova rammentare che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né l'affidamento eventualmente riposto dall'interessato sulla legittimità delle opere realizzate, né infine l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.02.2013 n. 718) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 26.03.2014 n. 1780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzate le regole garantistiche per l’esercizio dell’autotutela, tuttavia, richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali la d.i.a. resta inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate –da ritenere prive di titolo– agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n. 380 del 2001: al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda le modalità della domanda ed i requisiti soggettivi richiesti per la relativa presentazione, e nel comma 4 in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali. Viene anche chiarito, al comma 5 del medesimo articolo 23, che la “sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia, l’elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l’attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente necessari”.
Tale disposizione conferma l’assunto secondo cui, anche aderendo alla tesi che attribuisce alla d.i.a. natura ‘privata’, esiste comunque un titolo abilitativo, che può considerarsi formato alla scadenza del termine previsto per l’inizio dei lavori, ma solo in presenza di tutti i presupposti di completezza e veridicità delle autocertificazioni, nonché degli altri documenti prescritti. A detto titolo abilitativo, ove regolarmente formato, corrisponde un legittimo affidamento dell’interessato, su cui l’Amministrazione può eventualmente incidere –ove dissenta sulla qualificazione dell’intervento– ma solo con le garanzie imposte all’esercizio della potestà di autotutela.
Le disposizioni sopra richiamate debbono essere coordinate con il pacifico indirizzo giurisprudenziale che identifica, dal punto di vista amministrativo, l’abuso edilizio come realizzazione ad effetti permanenti, in relazione ai quali l’Amministrazione, nel vigilare sul rispetto della normativa urbanistico-edilizia, non può non disporre il ripristino dell’ordine urbanistico indebitamente violato, anche per manufatti risalenti nel tempo, ove realizzati senza il prescritto titolo abilitativo.
In tale contesto –se è stata ritenuta inefficace la d.i.a., presentata senza che fosse stato almeno richiesto la prescritta autorizzazione paesaggistica– a maggior ragione non può non ritenersi inefficace una d.i.a., che asseveri la conformità urbanistica di lavori, da effettuare su un immobile di cui non sia consentita la legittima permanenza sul territorio.
La regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio, dell’immobile interessato da nuovi interventi soggetti a d.i.a., in altre parole, deve considerarsi presupposto di veridicità e attendibilità della relazione del progettista abilitato, chiamato ad asseverare “la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati”, nonché l’assenza di “contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti”, oltre al “rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”: appare evidente infatti che le varie tipologie di interventi edilizi, diversi da quelli di nuova edificazione ed incidenti su immobili già realizzati, debbano avere come indefettibile presupposto il carattere non illegittimo di detti immobili.
Tale evidenza è rafforzata dalla possibilità di effettuare previa d.i.a., ex art. 22, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, “gli interventi di ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c)”, ordinariamente soggetti a permesso di costruire ed implicanti –come specificato sia nel citato art. 10 che nell’art. 3, comma 1, lettera d), del medesimo d.P.R. n. 380 del 200 – “un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” anche con “aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici”, non esclusa la “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria” dell’edificio preesistente.
Ove la d.i.a. non fosse chiamata a certificare la legittimità dell’intervento nella dimensione più ampia, riferita anche alla regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile preesistente, potrebbero verificarsi situazioni paradossali facilmente intuibili, come in caso di edificazione, in base a d.i.a. (o s.c.i.a.), di un immobile di cui si postulasse la regolarità, in quanto realizzato al posto di un fabbricato abusivo demolito e fedelmente ricostruito, oppure (come nel caso di specie) in presenza della sopraelevazione di un edificio privo di titolo abilitativo, che verrebbe sostanzialmente sanato –con effetti sovrapposti alle disposizioni vigenti in materia (art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001)– ove l’Amministrazione ritenesse, in via di autotutela, non applicabili le misure repressive previste per detta sopraelevazione, con effetti che coinvolgerebbero inevitabilmente –di fatto paralizzandole– le misure repressive vincolate, imposte dall’ordinamento per l’immobile sottostante, con lesione dell’interesse pubblico alla doverosa salvaguardia dell’ordine del territorio.
In conclusione, queste nuove forme (basate sulla dichiarazione dell’interessato) di legittimazione all’intervento edilizio si fondano su esigenze di rapidità ed efficacia dell’azione amministrativa. Ma non vi può corrispondere anche un’attenuazione dei controlli e delle misure sanzionatorie, che debbono essere anzi rafforzati grazie al coinvolgimento della responsabilità del professionista incaricato, che non può non fondare la propria valutazione di legittimità degli interventi “da effettuare” anche con riferimento alla verificata regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio, dell’immobile interessato dai lavori.
La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne la dichiarazione di inefficacia di due denunce di inizio attività (d.i.a.) riferite a un capannone sul quale si intendevano eseguire lavori di ristrutturazione con sopraelevazione: lavori ritenuti non più legittimati –con conseguente ordine di demolizione– a causa della rilevata assenza di titolo abilitativo dell’immobile preesistente.
In materia di denuncia di inizio attività (d.i.a.), come disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 –e con decorrenza 13.07.2011 anche dall’art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nel desto introdotto dall’art. 5d. l. 13.05.2011, n. 70, convertito dalla legge 12.07.2011, n. 106 (s.c.i.a.: segnalazione certificata di inizio attività)– in effetti, sussistono tuttora diversi indirizzi circa la sua natura giuridica e gli effetti del decorso del termine, che consente al dichiarante di effettuare gli interventi edilizi oggetto di denuncia. 
In alcuni casi, in particolare, è stato ravvisata in esito alla procedura la formazione di un provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, VI, 05.04.2007, n. 1550; Cons. Stato, IV, 12.03.2009, n. 1474 e 25.11.2008, n. 5811; Cons. Stato, II, 28.05.2010, parere n. 1990); in altri la d.i.a. è stata identificata come atto ‘privato’ di autocertificazione, che pur non costituendo espressione di potestà pubblicistica, resta oggetto di poteri di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del detto termine, sempre comunque nel rispetto degli articoli 21-quinquies e 21-novies della legge n. 241 del 1990 (cfr. in tal senso Cons. Stato, VI, 09.02.2009, n. 717 e 14.11.2012, n. 5751).
Le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzate le regole garantistiche per l’esercizio dell’autotutela, tuttavia, richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali la d.i.a. resta inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate –da ritenere prive di titolo– agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n. 380 del 2001: al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda le modalità della domanda ed i requisiti soggettivi richiesti per la relativa presentazione, e nel comma 4 in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali. Viene anche chiarito, al comma 5 del medesimo articolo 23, che la “sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia, l’elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l’attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente necessari”.
Tale disposizione conferma l’assunto secondo cui, anche aderendo alla tesi che attribuisce alla d.i.a. natura ‘privata’, esiste comunque un titolo abilitativo, che può considerarsi formato alla scadenza del termine previsto per l’inizio dei lavori, ma solo in presenza di tutti i presupposti di completezza e veridicità delle autocertificazioni, nonché degli altri documenti prescritti. A detto titolo abilitativo, ove regolarmente formato, corrisponde un legittimo affidamento dell’interessato, su cui l’Amministrazione può eventualmente incidere –ove dissenta sulla qualificazione dell’intervento– ma solo con le garanzie imposte all’esercizio della potestà di autotutela.
Le disposizioni sopra richiamate debbono essere coordinate con il pacifico indirizzo giurisprudenziale che identifica, dal punto di vista amministrativo, l’abuso edilizio come realizzazione ad effetti permanenti, in relazione ai quali l’Amministrazione, nel vigilare sul rispetto della normativa urbanistico-edilizia, non può non disporre il ripristino dell’ordine urbanistico indebitamente violato, anche per manufatti risalenti nel tempo, ove realizzati senza il prescritto titolo abilitativo (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, IV, 11.04.2007, n. 1585, 27.12.2011, n. 6783 e 08.01.2013, n. 32; VI, 15.03.2007, n. 1255).
In tale contesto –se è stata ritenuta inefficace la d.i.a., presentata senza che fosse stato almeno richiesto la prescritta autorizzazione paesaggistica (Cons. Stato, VI, 20.11.2013, n. 5513)– a maggior ragione non può non ritenersi inefficace una d.i.a., che asseveri la conformità urbanistica di lavori, da effettuare su un immobile di cui non sia consentita la legittima permanenza sul territorio.
La regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio, dell’immobile interessato da nuovi interventi soggetti a d.i.a., in altre parole, deve considerarsi presupposto di veridicità e attendibilità della relazione del progettista abilitato, chiamato ad asseverare “la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati”, nonché l’assenza di “contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti”, oltre al “rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”: appare evidente infatti che le varie tipologie di interventi edilizi, diversi da quelli di nuova edificazione ed incidenti su immobili già realizzati, debbano avere come indefettibile presupposto il carattere non illegittimo di detti immobili.
Tale evidenza è rafforzata dalla possibilità di effettuare previa d.i.a., ex art. 22, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, “gli interventi di ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c)”, ordinariamente soggetti a permesso di costruire ed implicanti –come specificato sia nel citato art. 10 che nell’art. 3, comma 1, lettera d), del medesimo d.P.R. n. 380 del 200 – “un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” anche con “aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici”, non esclusa la “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria” dell’edificio preesistente.
Ove la d.i.a. non fosse chiamata a certificare la legittimità dell’intervento nella dimensione più ampia, riferita anche alla regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile preesistente, potrebbero verificarsi situazioni paradossali facilmente intuibili, come in caso di edificazione, in base a d.i.a. (o s.c.i.a.), di un immobile di cui si postulasse la regolarità, in quanto realizzato al posto di un fabbricato abusivo demolito e fedelmente ricostruito, oppure (come nel caso di specie) in presenza della sopraelevazione di un edificio privo di titolo abilitativo, che verrebbe sostanzialmente sanato –con effetti sovrapposti alle disposizioni vigenti in materia (art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001)– ove l’Amministrazione ritenesse, in via di autotutela, non applicabili le misure repressive previste per detta sopraelevazione, con effetti che coinvolgerebbero inevitabilmente –di fatto paralizzandole– le misure repressive vincolate, imposte dall’ordinamento per l’immobile sottostante, con lesione dell’interesse pubblico alla doverosa salvaguardia dell’ordine del territorio.
In conclusione, queste nuove forme (basate sulla dichiarazione dell’interessato) di legittimazione all’intervento edilizio si fondano su esigenze di rapidità ed efficacia dell’azione amministrativa. Ma non vi può corrispondere anche un’attenuazione dei controlli e delle misure sanzionatorie, che debbono essere anzi rafforzati grazie al coinvolgimento della responsabilità del professionista incaricato, che non può non fondare la propria valutazione di legittimità degli interventi “da effettuare” anche con riferimento alla verificata regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio, dell’immobile interessato dai lavori.
Nella situazione in esame, non è contestato che il fabbricato di cui si discute sia stato costruito fra il 1954 e il 1961, né che lo stesso ricadesse nel centro abitato, sulla base del P.R.G. di Firenze approvato con delibera del 29.12.1931, modificata con delibera n. 967 in data 08.05.1943. E’ anche pacifico che con la legge 06.08.1967, n. 765 (cosiddetta “legge-ponte”) sia stato soltanto esteso a tutto il territorio comunale quell’obbligo di titolo abilitativo, che per i centri urbani risultava introdotto dall’art. 31 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150 e che, per le principali città-capoluogo, era già in precedenza previsto nei rispettivi regolamenti edilizi. La stessa appellante non contesta del resto l’assenza di un titolo abilitativo, necessario alla data di realizzazione del capannone di cui trattasi e –pur sottolineando l’avvenuta richiesta dell’autorizzazione e la possibilità di rilascio della stessa (condizionata solo all’acquisto della comunione su un muro)– conferma il mancato perfezionamento della licenza edilizia.
In tale situazione, ad avviso del Collegio, nessuna delle argomentazioni difensive prospettate dall’appellante può trovare accoglimento.
Col primo motivo di gravame, in particolare, vengono rappresentate ragioni riferite alla sopravvenuta normativa in materia di segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.), alla legge della Regione Toscana 03.01.2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio), approvata il 21.12.2004 e pubblicata sul BURT n. 2 del 12.01.2005 e alle successive modificazioni della stessa, nonché ad eccesso di potere sotto vari profili ed ulteriore violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990: il richiamo alle predette norme (in verità, senza considerazione del principio che impone di valutare la legittimità degli atti amministrativi in base alla normativa vigente alla data della relativa emanazione, o della formazione anche per silenzio-assenso) mira comunque a sottolineare una fondamentale distinzione fra gli interventi inibitori, posti in essere dall’Amministrazione nei trenta giorni successivi alla presentazione della d.i.a. (o s.c.i.a.) e –dato il carattere perentorio di tale termine– la possibilità di analoghi interventi successivi solo in base ai principi ed alle garanzie proprie per l’esercizio dell’autotutela (ovvero entro termini congrui e con discrezionale bilanciamento fra l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e l’interesse del privato, che abbia maturato un legittimo affidamento sulla regolarità delle opere edilizie realizzate).
Le argomentazioni in precedenza svolte, tuttavia, recepiscono un’impostazione totalmente diversa, che individua come elemento essenziale del titolo abilitativo tacito –di cui la relazione asseverata costituisce fattore probatorio, a norma del già ricordato art. 23, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001– la veridicità e l’attendibilità della relazione stessa, da riferire anche al fondamentale presupposto di non incidenza delle opere da realizzare su un manufatto abusivo, soggetto in ogni tempo (a meno di sanatoria) ai poteri repressivi vincolati dell’Amministrazione. L’incompletezza, o l’erroneità in fatto della citata relazione sul punto essenziale sopra indicato costituisce, ad avviso del Collegio, causa di nullità del titolo abilitativo in questione, a norma dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990, anche in assenza di dolo del professionista incaricato, come può verificarsi in vicende complesse, come quella attualmente in esame.
Nessuna delle normative, previgenti o successivamente intervenute, può precludere detta fattispecie di nullità, che trae le ragioni da principi basilari in materia di disciplina urbanistica.
Consegue a quanto sopra l’infondatezza delle ulteriori ragioni difensive rappresentate:
- la seconda, in quanto riferita alle modalità previste per documentare l’esistenza, o meno, del titolo abilitativo degli immobili di remota realizzazione (comunque senza che dette modalità possano coprire l’effettiva mancanza di titolo, ove positivamente accertata come nel caso di specie);
- la terza, poiché in parte relativa alla legittimità in sé dell’intervento ristrutturativo ed alla rilevata attivazione dei poteri repressivi del Comune solo per l’intervento dei proprietari limitrofi, mentre –come già illustrato– la conformità delle nuove opere alla disciplina urbanistico-edilizia ha carattere recessivo rispetto al carattere di illecito permanente, riconducibile all’immobile su cui dette opere dovrebbero essere effettuate; l’azione repressiva dell’Amministrazione comunale su impulso di privati cittadini, inoltre, risulta espressamente prevista dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, mentre e la ricostruzione delle vicende, che hanno comportato il mancato perfezionamento della licenza edilizia, a suo tempo richiesta, non risulta sviluppata in termini tali, da escludere l’attuale carattere non autorizzato del manufatto, con le conseguenze in precedenza illustrate;
- la quarta censura (illegittimità dei provvedimenti sanzionatori, non adottati entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori) contrasta con il ricordato potere, non soggetto a limiti temporali, di repressione degli abusi edilizi ed è contraddetta da una consolidata giurisprudenza (cfr., fra le tante, Cons. Stato, V, 30.09.1983, n. 405);
- la quinta censura, riferita ad omessa comunicazione di avvio del procedimento, contrasta con il carattere vincolato del provvedimento, conseguente alla rilevata inefficacia della d.i.a., con applicabilità al riguardo dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, che esclude l’annullabilità per vizi di forma o del procedimento, quando il contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso;
- la sesta ed ultima censura riproduce in parte le argomentazioni della prima e non può che essere ritenuta infondata, per effetto della ritenuta insussistenza nella fattispecie dei presupposti per l’esercizio della potestà di autotutela dell’Amministrazione, in luogo dei provvedimenti repressivi vincolati, che l’Amministrazione stessa è tenuta ad adottare, in presenza di interventi edilizi senza titolo ed in mancanza di iniziative di sanatoria, nel caso di specie non evidenziate (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.03.2014 n. 1413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i principi che governano l'esercizio del potere di auto-annullamento dei titoli edilizi confluiti nell'art. 21-nonies della L. 241/1990.
In particolare, si è osservato che:
- i presupposti di tale potere sono costituiti dalla illegittimità originaria del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari;
- l'esercizio del potere di autotutela è espressione di rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti;
- l'ambito della motivazione esigibile è integrato dalla allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali) che quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati e della eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi);
- pur non riscontrandosi un termine di decadenza del potere di auto-annullamento del titolo edilizio, la caducazione che intervenga ad una notevole distanza di tempo e dopo che le opere sono state completate, esige una più puntuale e convincente motivazione a tutela del legittimo affidamento.

Quanto poi alla ritenuta insussistenza dei presupposti per procedere all’annullamento d’ufficio della pregressa delibera consiliare valgano le seguenti considerazioni.
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i principi che governano l'esercizio del potere di auto-annullamento dei titoli edilizi confluiti nell'art. 21-nonies della L. 241/1990 (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8291, 21.12.2009 n. 8529, Sez. V, 06.12.2007 n. 6252; 12.11.2003 n. 7218; 24.09.2003 n. 5445).
In particolare, si è osservato che:
- i presupposti di tale potere sono costituiti dalla illegittimità originaria del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari;
- l'esercizio del potere di autotutela è espressione di rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti;
- l'ambito della motivazione esigibile è integrato dalla allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali) che quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati e della eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi);
- pur non riscontrandosi un termine di decadenza del potere di auto-annullamento del titolo edilizio, la caducazione che intervenga ad una notevole distanza di tempo e dopo che le opere sono state completate, esige una più puntuale e convincente motivazione a tutela del legittimo affidamento (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.02.2014 n. 1197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADal 01.01.2010 è entrato a regime il nuovo procedimento autorizzatorio disciplinato dal predetto art. 146 dlgs 42/2004: prima di tale data, la disciplina applicabile in materia di autorizzazione paesaggistica era rinvenibile nell'art. 159 del Codice, rubricato “Regime transitorio in materia di autorizzazione paesaggistica” il quale prevede che il regime ordinario dettato dall'art. 146 "si applica anche ai procedimenti di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica che alla data del 31.12.2009 non si siano ancora conclusi con l'emanazione della relativa autorizzazione o approvazione".
In particolare, la principale novità che attiene al “regime ordinario” riguarda il ruolo della Soprintendenza: in dettaglio, con il procedimento transitorio (in vigore fino al 31.12.2009) previsto dall'art. 159 del Codice, l'autorizzazione paesaggistica veniva rilasciata, previa delega della Regione, dopo una valutazione svolta a livello comunale sulla compatibilità dell'intervento sulla quale doveva poi esprimersi la Soprintendenza che entro 60 giorni poteva esercitare il potere di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica già emessa dal Comune.
La procedura ordinaria prevista dall'art. 146 del Codice è, invece, caratterizzata dall'intervento della Soprintendenza non più in via successiva, ma in sede endoprocedimentale, con facoltà di formulare un parere che risulta espressione di un potere decisorio: in altri termini, il portato innovativo della novella consiste nell’aver anticipato, già in sede procedimentale, l'apporto partecipativo dell'autorità statale.
Detto parere non è soltanto obbligatorio, ma anche "vincolante", per espressa dichiarazione di legge (comma 5, primo periodo), al fine del conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica.
La vincolatività del detto parere emerge inoltre anche dall’art. 143, comma 3, del Codice il quale prevede che "approvato il piano paesaggistico, il parere reso dal soprintendente nel procedimento autorizzatorio di cui agli artt. 146 e 147 è vincolante in relazione agli interventi da eseguirsi nell'ambito dei beni paesaggistici di cui alle lett. b), c) e d) del comma 1...".
Tuttavia, al ricorrere di precise condizioni, tale parere assume natura obbligatoria, ma non è vincolante (art. 146, quinto comma, secondo periodo, secondo cui “Il parere del soprintendente, all’esito dell’approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante e, ove non sia reso entro il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti, si considera favorevole”).
A tale fine, la prima condizione è che i decreti di dichiarazione di interesse pubblico (già vigenti o di nuova proposizione), siano stati integrati con le specifiche prescrizioni d'uso: successivamente all'introduzione di queste ultime, deve essere, comunque, effettuata la positiva verifica da parte degli organi ministeriali dell'adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni del piano paesaggistico.
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Il modulo procedimentale delineato dall’art. 146 si articola come segue:
- l’amministrazione comunale competente, dopo aver ricevuto la domanda di autorizzazione paesaggistica ed il progetto delle opere, svolge le verifiche e gli accertamenti ritenuti necessari e, entro 40 giorni dalla data di ricezione della domanda, trasmette alla competente Soprintendenza la proposta di autorizzazione corredata dagli elaborati tecnici, dandone contestualmente comunicazione al soggetto interessato (comma 7);
- la Soprintendenza comunica il parere di competenza entro il termine di 45 giorni dalla data di ricezione degli atti (comma 8);
- decorso tale termine in assenza di parere espresso della Soprintendenza, l’amministrazione procedente può indire una conferenza dei servizi, prolungando i termini del procedimento di ulteriori 15 giorni (comma 9) che, sommati ai 45 giorni di cui al comma 8, individuano il termine finale di 60 giorni a disposizione della Soprintendenza per la formulazione del parere di compatibilità paesaggistica.
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Ai fini della legittimità del parere, non rileva la circostanza che il parere sia stato espresso dopo il decorso del termine di 15 giorni previsto dall’art. 146, comma 9, per la conclusione dei lavori della conferenza di servizi.
Invero, l’eventuale inosservanza dei termini prescritti dalla legge per l’emissione del parere di compatibilità paesaggistica non priva la Soprintendenza del potere di provvedere (che continua a sussistere e mantiene la sua natura vincolante) e l’interessato potrà proporre ricorso al giudice amministrativo per contestare l’illegittimo silenzio–inadempimento ovvero richiedere l’intervento sostitutivo della Regione ai sensi del comma 10 dell’art. 146 cit. che vi deve provvedere entro 60 giorni anche tramite la nomina di un commissario ad acta.
Quindi la perentorietà del termine (nella fattispecie, quello di 15 giorni entro il quale deve pronunciarsi la conferenza di servizi indetta dal Comune) riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere tardivamente emanato, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, ragione per cui l’eventuale superamento non priva la Soprintendenza del potere di provvedere (che continua a sussistere e mantiene la sua natura vincolante) che, a sua volta, non può essere surrogato da meccanismi di silenzio–assenso o inerzia devolutiva.
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Il giudizio reso dalla Soprintendenza è espressione di discrezionalità tecnica, con conseguente limitazione del riscontro di legittimità al solo difetto di motivazione, all’illogicità manifesta ed all'errore di fatto di tale evidenza tale da far emergere l'inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta, non potendo il giudice sovrapporre la propria valutazione tecnica a quella discrezionale dell'amministrazione.
Solo in presenza di valutazioni palesemente illogiche, immotivate e viziate da travisamento dei fatti, il giudice amministrativo può disporre l'annullamento dell'atto, mentre quando emergano in giudizio più soluzioni tutte opinabili, ma al tempo stesso tutte attendibili, deve essere certamente mantenuta la scelta compiuta dall'amministrazione perché è a questa che l'ordinamento attribuisce in prima battuta la cura dell'interesse pubblico, diversamente si assisterebbe, infatti, ad una inammissibile sostituzione del giudice all'amministrazione.

La censura di parte ricorrente è priva di pregio.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 146 D.Lgs. 42/2004, i proprietari o i detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, hanno l’obbligo di presentare alle competenti amministrazioni il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, astenendosi dall'avviare i lavori sino all'ottenimento dell'autorizzazione.
Con riguardo all’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, il sesto comma dell’art. 146 individua nella Regione, l'ente preposto allo svolgimento della funzione autorizzatoria, la quale, nell'esercizio della medesima, dovrà avvalersi di "propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico-scientifiche e idonee risorse strumentali".
La disposizione in esame contempla, comunque, la facoltà in capo alla Regione di poter delegare tale funzione a Comuni e Province, subordinando la delega alla preventiva verifica della effettiva sussistenza in capo agli enti destinatari di apparati dotati di adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche, nonché strutturati, in base al personale a tal fine assegnato, in modo da garantire la differenziazione tra l'attività di tutela paesaggistica e l'esercizio delle funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia.
Dal 01.01.2010 è entrato a regime il nuovo procedimento autorizzatorio disciplinato dal predetto art. 146: prima di tale data, la disciplina applicabile in materia di autorizzazione paesaggistica era rinvenibile nell'art. 159 del Codice, rubricato “Regime transitorio in materia di autorizzazione paesaggistica” il quale prevede che il regime ordinario dettato dall'art. 146 "si applica anche ai procedimenti di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica che alla data del 31.12.2009 non si siano ancora conclusi con l'emanazione della relativa autorizzazione o approvazione".
In particolare, la principale novità che attiene al “regime ordinario” riguarda il ruolo della Soprintendenza: in dettaglio, con il procedimento transitorio (in vigore fino al 31.12.2009) previsto dall'art. 159 del Codice, l'autorizzazione paesaggistica veniva rilasciata, previa delega della Regione, dopo una valutazione svolta a livello comunale sulla compatibilità dell'intervento sulla quale doveva poi esprimersi la Soprintendenza che entro 60 giorni poteva esercitare il potere di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica già emessa dal Comune.
La procedura ordinaria prevista dall'art. 146 del Codice è, invece, caratterizzata dall'intervento della Soprintendenza non più in via successiva, ma in sede endoprocedimentale, con facoltà di formulare un parere che risulta espressione di un potere decisorio: in altri termini, il portato innovativo della novella consiste nell’aver anticipato, già in sede procedimentale, l'apporto partecipativo dell'autorità statale.
Detto parere non è soltanto obbligatorio, ma anche "vincolante", per espressa dichiarazione di legge (comma 5, primo periodo), al fine del conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica.
La vincolatività del detto parere emerge inoltre anche dall’art. 143, comma 3, del Codice il quale prevede che "approvato il piano paesaggistico, il parere reso dal soprintendente nel procedimento autorizzatorio di cui agli artt. 146 e 147 è vincolante in relazione agli interventi da eseguirsi nell'ambito dei beni paesaggistici di cui alle lett. b), c) e d) del comma 1...".
Tuttavia, al ricorrere di precise condizioni, tale parere assume natura obbligatoria, ma non è vincolante (art. 146, quinto comma, secondo periodo, secondo cui “Il parere del soprintendente, all’esito dell’approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante e, ove non sia reso entro il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti, si considera favorevole”).
A tale fine, la prima condizione è che i decreti di dichiarazione di interesse pubblico (già vigenti o di nuova proposizione), siano stati integrati con le specifiche prescrizioni d'uso: successivamente all'introduzione di queste ultime, deve essere, comunque, effettuata la positiva verifica da parte degli organi ministeriali dell'adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni del piano paesaggistico.
Sul punto si segnala che, nella circolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 22.01.2010 (recante precisazioni e chiarimenti in ordine all'applicazione della nuova procedura di autorizzazione paesaggistica), si evidenziava che -alla relativa data di adozione– non sussisteva alcun caso sul territorio nazionale che rispettava le predette condizioni.
Da tali considerazioni discende che, trattandosi di parere obbligatorio e vincolante, all’esito dell’annullamento giurisdizionale il Comune ha correttamente riavviato il procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica interpellando l’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali e, tenuto conto del parere contrario espresso da quest’ultima, legittimamente ha respinto l’istanza.
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Con un secondo motivo di diritto, parte ricorrente lamenta la violazione dei termini procedurali di cui all’art. 146, nono comma, del D.Lgs. 42/2004 (secondo cui “…La conferenza si pronuncia entro il termine perentorio di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”), osservando che la conferenza di servizi indetta dall’ente locale è durata due mesi, dall’atto di convocazione del 28.10.2011 alla seduta del 20.12.2011 alla quale ha fatto poi seguito il provvedimento di diniego prot. n. 6137 del 23.01.2012.
La doglianza è destituita di giuridico fondamento in punto di fatto e di diritto.
Il modulo procedimentale delineato dall’art. 146 si articola come segue:
- l’amministrazione comunale competente, dopo aver ricevuto la domanda di autorizzazione paesaggistica ed il progetto delle opere, svolge le verifiche e gli accertamenti ritenuti necessari e, entro 40 giorni dalla data di ricezione della domanda, trasmette alla competente Soprintendenza la proposta di autorizzazione corredata dagli elaborati tecnici, dandone contestualmente comunicazione al soggetto interessato (comma 7);
- la Soprintendenza comunica il parere di competenza entro il termine di 45 giorni dalla data di ricezione degli atti (comma 8);
- decorso tale termine in assenza di parere espresso della Soprintendenza, l’amministrazione procedente può indire una conferenza dei servizi, prolungando i termini del procedimento di ulteriori 15 giorni (comma 9) che, sommati ai 45 giorni di cui al comma 8, individuano il termine finale di 60 giorni a disposizione della Soprintendenza per la formulazione del parere di compatibilità paesaggistica.
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In ogni caso, ai fini della legittimità del parere, non rileva la circostanza che il parere sia stato espresso dopo il decorso del termine di 15 giorni previsto dall’art. 146, comma 9, per la conclusione dei lavori della conferenza di servizi.
Invero, l’eventuale inosservanza dei termini prescritti dalla legge per l’emissione del parere di compatibilità paesaggistica non priva la Soprintendenza del potere di provvedere (che continua a sussistere e mantiene la sua natura vincolante) e l’interessato potrà proporre ricorso al giudice amministrativo per contestare l’illegittimo silenzio–inadempimento ovvero richiedere l’intervento sostitutivo della Regione ai sensi del comma 10 dell’art. 146 cit. che vi deve provvedere entro 60 giorni anche tramite la nomina di un commissario ad acta. Quindi la perentorietà del termine (nella fattispecie, quello di 15 giorni entro il quale deve pronunciarsi la conferenza di servizi indetta dal Comune) riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere tardivamente emanato, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice (cfr. sul punto, Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.10.2013 n. 4914), ragione per cui l’eventuale superamento non priva la Soprintendenza del potere di provvedere (che continua a sussistere e mantiene la sua natura vincolante) che, a sua volta, non può essere surrogato da meccanismi di silenzio–assenso o inerzia devolutiva (cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.09.2012 n. 5066).
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Quanto alle ulteriori motivazioni contrarie alla compatibilità paesaggistica, valgano le considerazioni di seguito svolte.
Come noto, il giudizio reso dalla Soprintendenza è espressione di discrezionalità tecnica, con conseguente limitazione del riscontro di legittimità al solo difetto di motivazione, all’illogicità manifesta ed all'errore di fatto di tale evidenza tale da far emergere l'inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta, non potendo il giudice sovrapporre la propria valutazione tecnica a quella discrezionale dell'amministrazione.
Solo in presenza di valutazioni palesemente illogiche, immotivate e viziate da travisamento dei fatti, il giudice amministrativo può disporre l'annullamento dell'atto, mentre quando emergano in giudizio più soluzioni tutte opinabili, ma al tempo stesso tutte attendibili, deve essere certamente mantenuta la scelta compiuta dall'amministrazione perché è a questa che l'ordinamento attribuisce in prima battuta la cura dell'interesse pubblico, diversamente si assisterebbe, infatti, ad una inammissibile sostituzione del giudice all'amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI 06.03.2009 n. 1332; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII Napoli, 07.11.2013 n. 4969; TAR Lazio, Roma, 03.07.2012 n. 6071).
A tali coordinate ermeneutiche si è peraltro attenuta la pronuncia di questo TAR n. 4275/2011 con la quale è stato annullato il primo parere contrario, ravvisando il difetto di motivazione nel quale era incorsa la Soprintendenza che -nell’escludere la compatibilità paesaggistica del progetto de quo- si era limitata alla mera constatazione della vicinanza del manufatto al rivo S. Vito e alla “Fabbrica Fantozzi” ed aveva avanzato generici dubbi sulla legittimità urbanistica del progetto nonché su un preteso appesantimento di volumetrie conseguente al piano di lottizzazione approvato dalle competenti amministrazioni
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.02.2014 n. 1189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.08.2014

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13.08.2013 - 13.08.2014
   Un anno è già trascorso e sembra ieri. Lavoro, cerco di restare indaffarato più che posso per tenere distratta la mente ma sei sempre nei miei pensieri .... e non trovo parole per descrivere quanto mi manchi ed il senso di inutilità che mi sta consumando giorno dopo giorno.
T.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L'Ente sub-delegato in materia paesaggistica non può dichiarare improcedibile un'istanza di autorizzazione paesaggistica e deve inviare la stessa in Soprintendenza al fine dell’espressione del parere obbligatorio e vincolante.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, invero, l’art. 146 del Codice dei beni culturali, nel ridisegnare il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ha previsto l’intervento dell’Amministrazione statale in sede procedimentale, che assume la forma di un parere obbligatorio e vincolante, espressione di un potere decisorio complesso facente capo a due apparati diversi e inevitabilmente esponenziali di prospettive, se non anche di interessi, non perfettamente sovrapponibili. Nel delineato sistema, diversamente dal regime transitorio dell’art. 159 del d.lgs. n. 42 del 2004, la Soprintendenza non si limita ad esercitare un controllo di legittimità su di un precedente atto, ma interviene nell’esercizio di un potere attivo di cogestione del vincolo paesaggistico.
Il rilascio dell'autorizzazione paesistica presuppone, dunque, una valutazione complessa che prende le mosse dal vincolo e si conclude con un giudizio di compatibilità dell’intervento prospettato con il vincolo stesso, e il relativo provvedimento deve essere preceduto dall’acquisizione del parere della Sovrintendenza. La novella legislativa enfatizza sia il carattere obbligatorio del parere della Sovrintendenza con la conseguente necessità della sua acquisizione, che il suo carattere allo stato vincolante, peraltro già enucleabili dalla previgente formulazione dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004.
In relazione, invece, all’art. 146, comma 4, nella versione modificata dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 157 del 2006, la disposizione normativa prevede che non possano più essere rilasciate autorizzazioni paesaggistiche "in sanatoria", ossia successive alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, salvo le ipotesi tassative volte a sanare "ex post" gli interventi abusivi di cui all'art. 167; in tali casi deve essere, invece, instaurata un’apposita procedura ad istanza della parte interessata che contempla -a differenza dell'ordinario procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (in vigore in via transitoria)– l’accertamento della compatibilità paesaggistica, demandato sempre all’amministrazione preposta alla gestione del vincolo, previa acquisizione del parere della Soprintendenza che nella particolare fattispecie in esame assume carattere non solo obbligatorio, ma vincolante.
Ne consegue che, ai sensi della normativa vigente, l’Ente Parco fosse obbligato a trasmettere alla Sovrintendenza di Milano l’istanza corredata dalla complessiva documentazione alla stessa allegata, al fine dell’espressione del parere obbligatorio e vincolante.

... per l'annullamento del provvedimento del 03.10.2012, prot. n. 9583/12, con cui il Parco della Valle del Ticino dichiarava improcedibile la richiesta di autorizzazione paesaggistica relativa al recupero dell'insediamento rurale dismesso, sito nell'area di proprietà della Società ricorrente, ubicato nel territorio del Comune di Abbiategrasso, nonché di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale agli atti sopra impugnati.
...
Il ricorso è fondato.
Dalla motivazione del provvedimento impugnato emerge inequivocabilmente che l’istanza di autorizzazione paesaggistica per il recupero dell’insediamento rurale è stata dichiarata improcedibile, a prescindere dalla carenza della documentazione prodotta per alcuni aspetti, in ragione della precedente realizzazione sull’area in questione da parte dell’istante di interventi edilizi in assenza di preventiva autorizzazione paesaggistica, né di accertamento della compatibilità paesaggistica.
Per l’Amministrazione intimata, infatti, solo la preventiva rimessione in pristino dell’area mediante la demolizione delle opere realizzate abusivamente o l’accertamento della compatibilità paesaggistica delle medesime avrebbe permesso l’esame dell’istanza in questione.
Dalla lettura delle osservazioni che l’istante aveva presentato in seguito al ricevimento del preavviso di rigetto emerge, peraltro, che la Società avesse ben evidenziato non solo le porzioni della documentazione ritenute carenti dall’Ente Parco, sia in ordine all’identificazione dell’area di intervento che alla consistenza e tipologia degli interventi da realizzare, ma soprattutto che l’intervento per il quale era stata richiesta l’autorizzazione paesaggistica prevedeva proprio la preventiva rimessione in pristino dell’area mediante la rimozione dei manufatti realizzati in precedenza.
In ogni caso, l’interessata aveva anche precisato la pendenza di ricorsi giurisdizionali in relazione alla qualificazione come abusiva o meno di tali ultimi manufatti.
Tanto premesso, il collegio ritiene che l’Ente Parco fosse obbligato a trasmettere alla Sovrintendenza di Milano l’istanza corredata dalla complessiva documentazione alla stessa allegata, al fine dell’espressione del parere obbligatorio e vincolante.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, invero, l’art. 146 del Codice dei beni culturali, nel ridisegnare il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ha previsto l’intervento dell’Amministrazione statale in sede procedimentale, che assume la forma di un parere obbligatorio e vincolante, espressione di un potere decisorio complesso facente capo a due apparati diversi e inevitabilmente esponenziali di prospettive, se non anche di interessi, non perfettamente sovrapponibili. Nel delineato sistema, diversamente dal regime transitorio dell’art. 159 del d.lgs. n. 42 del 2004, la Soprintendenza non si limita ad esercitare un controllo di legittimità su di un precedente atto, ma interviene nell’esercizio di un potere attivo di cogestione del vincolo paesaggistico.
Il rilascio dell'autorizzazione paesistica presuppone, dunque, una valutazione complessa che prende le mosse dal vincolo e si conclude con un giudizio di compatibilità dell’intervento prospettato con il vincolo stesso, e il relativo provvedimento deve essere preceduto dall’acquisizione del parere della Sovrintendenza. La novella legislativa enfatizza sia il carattere obbligatorio del parere della Sovrintendenza con la conseguente necessità della sua acquisizione, che il suo carattere allo stato vincolante, peraltro già enucleabili dalla previgente formulazione dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 (cfr. TAR Campania, sez. IV, 07.09.2012, n. 3812).
In relazione, invece, all’art. 146, comma 4, nella versione modificata dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 157 del 2006, la disposizione normativa prevede che non possano più essere rilasciate autorizzazioni paesaggistiche "in sanatoria", ossia successive alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, salvo le ipotesi tassative volte a sanare "ex post" gli interventi abusivi di cui all'art. 167; in tali casi deve essere, invece, instaurata un’apposita procedura ad istanza della parte interessata che contempla -a differenza dell'ordinario procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (in vigore in via transitoria)– l’accertamento della compatibilità paesaggistica, demandato sempre all’amministrazione preposta alla gestione del vincolo, previa acquisizione del parere della Soprintendenza che nella particolare fattispecie in esame assume carattere non solo obbligatorio, ma vincolante (cfr. TAR Veneto, sez. II, 23.04.2010, n. 1550).
Ne consegue che, ai sensi della normativa vigente, l’Ente Parco fosse obbligato a trasmettere alla Sovrintendenza di Milano l’istanza corredata dalla complessiva documentazione alla stessa allegata, al fine dell’espressione del parere obbligatorio e vincolante (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 02.05.2014 n. 1125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: A fronte di un intervento riconosciuto, a posteriori, compatibile con il contesto paesistico, l'indennità ex art. 167 è dovuta anche in mancanza di un concreto danno ambientale; in tal caso la sanzione deve essere commisurata al profitto conseguito.
In via generale è qualificato quale profitto conseguito la differenza tra il valore dell'opera realizzata ed i costi sostenuti per la esecuzione della stessa, alla data di effettuazione della perizia.
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1. Sulla determinazione della sanzione per abusi edilizi in aree con vincolo paesaggistico.
1.1 In base all’art. 15 della legge n. 1497 del 1939 e poi dell'art. 164 del decreto legislativo 29.10.1999 n. 490 (testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali) ed ora dell’art. 167 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, recante il Codice dei Beni culturali e del paesaggio, la sanzione da irrogare per gli abusi edilizi commessi in aree con vincolo paesaggistico (in alternativa all’ordine di rimessione in pristino) è pari alla maggior somma fra il danno ambientale causato dall’intervento sanzionato e il “profitto conseguito mediante la trasgressione”, la somma è determinata previa perizia di stima.
1.2 Trattandosi di sanzione pecuniaria tesa a reprimere, con effetto deterrente, ogni tipo di violazione, sostanziale (per l’effettivo contrasto della costruzione con i valori paesistici ed ambientali della zona) e formale (per l’omessa acquisizione del nulla osta paesistico) in cui il trasgressore ha violato l’obbligo di munirsi preventivamente della autorizzazione, a fronte di un intervento riconosciuto, a posteriori, compatibile con il contesto paesistico, l'indennità per giurisprudenza oramai costante è dovuta anche in mancanza di un concreto danno ambientale; in tal caso la sanzione deve essere commisurata al profitto conseguito.

2. Sulla valutazione del profitto conseguito con la realizzazione ex novo di opere abusive.
L’arricchimento ottenuto dal trasgressore per effetto della realizzazione ex novo dell’opera abusiva non può coincidere con il valore venale attuale della stessa, senza detrarre il costo sostenuto per la sua realizzazione.
Far coincidere il “profitto conseguito” con il costo dell’opera, sganciando del tutto la nozione di profitto dal vantaggio economico effettivamente conseguito dal trasgressore con la realizzazione dell’opera abusiva contrasta con il dettato legislativo dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 che ancora la nozione di “profitto” a quella di vantaggio economico effettivamente conseguito.
La mancata detrazione del costo di esecuzione dell’opera abusiva dal valore venale della stessa risulta contrastante anche con quanto previsto dalla nota informativa del Dipartimento Ambiente prot. IV/A/3390/4 del 13.03.1992 con cui la Regione Toscana ha dettato le procedure ed i criteri di calcolo delle sanzioni paesaggistiche e nella quale si confermano i criteri già dettati dal Ministero dei Lavori Pubblici con circolare prot. n. 325 dell’08.02.1966, la quale ha chiarito che “l’utile conseguito debba essere valutato calcolando il valore venale della parte abusiva della costruzione e detraendo, da tale valore, il costo della parte abusiva stessa”.

3. Sulla determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
L’art. 2 del Decreto del Ministero per i beni culturali e ambientali del 26.09.1997, fornisce un riferimento normativo certo su scala nazionale per il calcolo dell’indennità di cui all’art. 15 della legge n. 1497/1939, oggi sostanzialmente trasfuso nell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
Tale articolo ha previsto che l'indennità risarcitoria è determinata previa apposita perizia di valutazione del danno causato dall'intervento abusivo in rapporto alle caratteristiche del territorio vincolato ed alla normativa di tutela vigente sull'area interessata, nonché mediante la stima del profitto conseguito dalla esecuzione delle opere abusive.
In via generale è qualificato quale profitto la differenza tra il valore dell'opera realizzata ed i costi sostenuti per la esecuzione della stessa, alla data di effettuazione della perizia.

La questione sottoposta all’esame del Collegio con l’atto introduttivo del presente giudizio riguarda la correttezza del procedimento seguito e la congruità dell’importo stabilito in sede di irrogazione alla ricorrente della sanzione pecuniaria ambientale ex art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004, per aver realizzato senza la necessaria preventiva autorizzazione paesaggistica un’opera successivamente sanata, consistente in una c.d. strada bianca per accedere ai fondi della propria azienda.
A riguardo, occorre ricordare che secondo l’art. 15 della legge n. 1497 del 1939 e poi dell'art. 164 del decreto legislativo 29.10.1999 n. 490 (testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali) ed ora dell’art. 167 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, recante il Codice dei Beni culturali e del paesaggio, la sanzione da irrogare per gli abusi edilizi commessi in aree con vincolo paesaggistico (in alternativa all’ordine di rimessione in pristino) è pari alla maggior somma fra il danno ambientale causato dall’intervento sanzionato e il “profitto conseguito mediante la trasgressione”. Precisano poi le indicate disposizioni che la somma è determinata previa perizia di stima.
Trattandosi di sanzione pecuniaria tesa a reprimere, con effetto deterrente, ogni tipo di violazione, sostanziale (per l’effettivo contrasto della costruzione con i valori paesistici ed ambientali della zona) e formale (per l’omessa acquisizione del nulla osta paesistico) –quale è quella del caso di specie, in cui il trasgressore ha violato l’obbligo di munirsi preventivamente della autorizzazione, a fronte di un intervento riconosciuto, a posteriori, compatibile con il contesto paesistico- l'indennità in questione, per giurisprudenza oramai costante, è dovuta anche in mancanza di un concreto danno ambientale; in tal caso la sanzione deve essere commisurata al profitto conseguito (cfr., Cons. di Stato, sez. II, n. 48 del 15.05.2002).
Nel caso di specie, pertanto, essendo stato l’intervento riconosciuto (a posteriori) compatibile con il contesto paesistico, l’indennità in questione dovrà essere commisurata al solo profitto conseguito. E quest’ultimo va individuato –conformemente alla natura sanzionatoria dell’indennità in questione che mira ad esercitare una funzione deterrente– nell’arricchimento ottenuto dal proprietario per effetto della realizzazione dell’opera abusiva (cfr., Cons. di Stato, sez. VI, 03.04.2003 n. 1729; TAR Lombardia, Brescia, 18.04.2008 n. 388; TAR Toscana, sez. III, 29.06.2009 n. 1149).
Il legislatore ha, quindi, ritenuto –così come dedotto dalla ricorrente– che la sanzione per danno ambientale, dovendo essere determinata sulla base del profitto conseguito, debba essere rapportata all’effettivo vantaggio economico ottenuto dal trasgressore in conseguenza della realizzazione dell’intervento abusivo.
Nel caso di specie, il Comune, come lo stesso ha illustrato nei propri scritti difensivi, assume di aver quantificato tale vantaggio economico, seguendo il criterio logico che è stato successivamente formalizzato nel Regolamento edilizio approvato con deliberazione C.C. n. 40 dell’08.05.2009 –impugnato per tale parte con il ricorso per motivi aggiunti, indicato in epigrafe– secondo il quale il “profitto conseguito” va identificato nell’incremento del valore venale che gli immobili acquistano per effetto della trasgressione; incremento che viene determinato come differenza tra il valore venale dell’immobile a seguito dell’esecuzione delle opere (valore attuale) ed il valore venale dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere (valore precedente).
Pertanto, nel caso che ci occupa, il Comune ha ritenuto che, trattandosi di strada realizzata ex novo non sussisterebbe un valore venale ante abuso, con la conseguenza che il profitto coinciderebbe “con il valore attuale meno zero”, e cioè corrisponderebbe al valore venale attuale, pari –tenuto conto che si tratta di una strada– al costo sostenuto per costruirla.
Facendo applicazione del suindicato criterio, l’Amministrazione è giunta, alla irrogazione alla Società La Meta della sanzione di € 17.064,00 per il danno ambientale, effettuando i calcoli nel modo qui di seguito indicato, come esplicitato nello stesso provvedimento impugnato:
“- per il primo tratto (di lunghezza ml 126,00) realizzato al grezzo: riduzione al 60% dell’importo di € 60.00 previsto per il costo di costruzione: ml 126,00x2.25 = mq 283,00 x € 36,00 (€ 60,00/mqx60%) = € 10.188,00;
- per il secondo tratto (di lunghezza ml 191.85) attualmente in stato di abbandono: riduzione al 30% dell’importo di € 60,00 previsto per il costo di costruzione: ml 191.00x2.00 “ mq 382.00x18 (€ 60,00/mqx30%) = € 6.876,00”.
Ma, così operando, il Comune ha finito con il far coincidere il “profitto conseguito” con il costo dell’opera, sganciando del tutto la nozione di profitto dal vantaggio economico effettivamente conseguito dal trasgressore con la realizzazione dell’opera abusiva, cui, invece, come abbiamo visto, l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 ancora la nozione di “profitto”.
Tale metodo di calcolo, così come dedotto dalla società ricorrente, si rivela, pertanto, contrastante con il dettato legislativo, oltre ad essere del tutto illogico, non potendo –essendovi una contraddizione in termini– l’arricchimento ottenuto dal trasgressore per effetto della realizzazione ex novo dell’opera abusiva coincidere con il valore venale attuale della stessa, senza detrarre il costo sostenuto per la sua realizzazione.
Né può sostenersi che il criterio di calcolo concretamente seguito dal Comune sia applicativo del criterio successivamente recepito nel Regolamento edilizio del 2009, che, come si è visto, prevede che il “profitto conseguito” vada identificato nell’incremento del valore venale che gli immobili acquistano per effetto della trasgressione, pari alla differenza tra il valore venale dell’immobile a seguito dell’esecuzione delle opere (valore attuale) ed il valore venale dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere (valore precedente).
Nel caso di specie, infatti, ove fosse stata data applicazione al suindicato criterio, il Comune, tenuto conto che l’opera abusiva ha carattere strumentale, avrebbe dovuto apprezzare il valore dell’azienda agricola della ricorrente prima e dopo l’esecuzione della c.d. strada bianca per accedervi.
A ciò si aggiunga che il criterio concretamente utilizzato dal Comune, non consentendo di portare in detrazione dal valore venale dell’opera abusiva il costo sostenuto per la sua esecuzione, risulta contrastare anche con quanto previsto dalla nota informativa del Dipartimento Ambiente prot. IV/A/3390/4 del 13.03.1992 –che non risulta superata- con cui la Regione Toscana ha dettato le procedure ed i criteri di calcolo delle sanzioni paesaggistiche.
Con tale nota, l’Amministrazione regionale ha ritenuto, per quanto attiene la quantificazione del profitto, di poter confermare i criteri già dettati dal Ministero dei Lavori Pubblici con circolare prot. n. 325 dell’08.02.1966, la quale ha chiarito che “l’utile conseguito debba essere valutato calcolando il valore venale della parte abusiva della costruzione e detraendo, da tale valore, il costo della parte abusiva stessa”.
Tale criterio è stato, inoltre, confermato con Decreto del Ministero per i beni culturali e ambientali del 26.09.1997, che, seppure emanato ai soli fini del condono edilizio, costituisce un riferimento normativo certo su scala nazionale per il calcolo dell’indennità di cui all’art. 15 della legge n. 1497/1939, oggi sostanzialmente trasfuso nell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
L’art. 2 del decreto ha, infatti, previsto che l'indennità risarcitoria di cui all'art. 15 della legge 29.06.1939 del 1497 è determinata previa apposita perizia di valutazione del danno causato dall'intervento abusivo in rapporto alle caratteristiche del territorio vincolato ed alla normativa di tutela vigente sull'area interessata, nonché mediante la stima del profitto conseguito dalla esecuzione delle opere abusive. In via generale è qualificato quale profitto la differenza tra il valore dell'opera realizzata ed i costi sostenuti per la esecuzione della stessa, alla data di effettuazione della perizia (massima tratta da www.bollettinogiuridicotelematico.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.04.2012 n. 724 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier BARRIERE ARCHITETTONICHE.

UTILITA'

VARI: FISCO E CASA: LE LOCAZIONI (Agenzia delle Entrate, agosto 2014).
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Tutto sui contratti d’affitto nella nuova guida delle Entrate.
Un vademecum destinato a proprietari e inquilini che definisce passo passo ciascuna regola da seguire per non incorrere in errori nella registrazione degli accordi stipulati.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PATRIMONIO - VARI: Oggetto: Decreto-legge 28.03.2014, n. 47 convertito nella legge 23.05.2014, n. 80, recante "Misure urgenti per l'emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per EXPO 2015". Modalità di applicazione dell'art. 5, rubricato "Lotta all'occupazione abusiva di immobili - salvaguardia degli effetti di disposizione in materia di contratti di locazione" (Ministero dell'Interno, circolare 06.08.2014 n. 14/2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 32 dell'08.08.2014, "Assestamento al bilancio 2014-2016 - I Provvedimento di variazione con modifiche di leggi regionali" (L.R. 05.08.2014 n. 24).
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Di particolare interesse si leggano:
art. 8 - (Modifiche al Titolo II, Capo I, della l.r. 26/2003)
art. 21, commi 4, 5, 6, 7, 8 - (circa l’obbligo di gestione in forma associata delle funzioni fondamentali di cui all’articolo 14, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 dell'08.08.2014, "Individuazione della Regione quale autorità competente per il rilascio delle Autorizzazioni Integrate Ambientali per le installazioni esistenti di nuovo assoggettamento ai sensi del d.lgs. 46/2014" (comunicato regionale 04.08.2014 n. 103).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 dell'08.08.2014, "Primi indirizzi sulle modalità applicative della disciplina in materia di Autorizzazioni Integrate Ambientali (A.I.A.) recata dal titolo III-bis alla parte seconda del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, alla luce delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 04.03.2014, n. 46" (circolare regionale 04.08.2014 n. 6).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 05.08.2014 n. 180 "Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, l’installazione e l’esercizio delle macchine elettriche fisse con presenza di liquidi isolanti combustibili in quantità superiore ad 1 m³" (Ministero dell'Interno, decreto 15.07.2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: P. Giampietro e M. Petronzi, La Cassazione insiste sulla “temporaneità” dell’art. 186, T.U.A. (“Terre e rocce da scavo”), con irretroattività del D.M. 161/2012, ai fini penali (nota a sentenza n. 12229 del 14.03.2014, sui residui di lavorazione dei marmi: rifiuti recuperabili o sottoprodotti?) (22.07.2014 - link a www.lexambiente.it).

ESPROPRIAZIONE: M. Grisanti, Ad oggi non esiste possibilità di usucapione da parte della Pubblica Amministrazione. Verso la doverosa responsabilizzazione della Pubblica Amministrazione? (annotazione a Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3346 del 03/07/2014) (16.07.2014 - link a www.lexambiente.it).

APPALTI: R. De Nictolis, LE NOVITÀ DELL’ESTATE 2014 IN MATERIA DI CONTRATTI PUBBLICI RELATIVI A LAVORI, SERVIZI E FORNITURE (16.07.2014 - tratto da www.federalismi.it).

ENTI LOCALI: V. Raeli, IL DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A. TRA GIURISPRUDENZA E LEGISLAZIONE (09.07.2014 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario:
1. Introduzione. - 2. Il danno non patrimoniale delle persone giuridiche. Il danno all’immagine. - 3. Il danno all’immagine della P.A. nella giurisprudenza delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione. - 4. L’evoluzione della nozione di danno non patrimoniale e del danno all’immagine della P.A. nella giurisprudenza della Corte dei conti. - 5 Per una corretta ricostruzione del danno all’immagine della P.A. - 6. La prova del quantum. – 7. La disciplina limitativa introdotta dall’art. 17, comma 30-ter, d.l. 01.07.2009, n. 78. Profili sostanziali e processuali. - 8. (Segue) La giurisprudenza costituzionale e la “reazion “ della giurisprudenza contabile. - 9. Il danno all’immagine nella più recente legislazione. – Appendice bibliografica.

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, La raccolta e il trasporto dei rifiuti «in forma ambulante»: che ne pensa la giurisprudenza? (03.07.2014 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Savatteri, Gli interventi di recupero delle aree urbane ed il permesso di costruire in deroga (nota a TAR Piemonte, Sez. II, 28.11.2013, n. 1286) (Urbanistica e appalti n. 7/2014).
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Nel caso esaminato dalla sentenza del TAR Piemonte n. 1286 del 2013, il giudice amministrativo si è trovato di fronte ad iniziative del legislatore statale finalizzate a promuovere l'attività edilizia, adottate senza prestare attenzione ai principi cui si informa la disciplina dell'edilizia e dell'urbanistica ed alle regole del riparto di competenza legislativa tra Stato e Regioni nell'ambito della materia concorrente del governo del territorio; il rimedio è consistito in un forzoso ricorso all'applicazione del permesso di costruire in deroga.

EDILIZIA PRIVATA: S. Amorosino, Autorizzazioni paesaggistiche: obbligo di parere motivato e costruttivo. Il D.L. 83/2014 modifica l’art. 146 del Codice (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.03.2014, n. 1418) (Urbanistica e appalti n. 7/2014).
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In assenza di piani paesaggistici regionali adeguati al modello dettato dall’art. 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio e in presenza di vincoli paesaggistici quasi sempre “nudi”, perché privi di una specifica disciplina delle aree vincolate, le amministrazioni di tutela preposte al rilascio delle autorizzazioni, ed in particolare le Soprintendenze, il cui parere è vincolante, hanno un potere discrezionale eccessivamente ampio.
Di conseguenza tale potere deve essere bilanciato dall’obbligo di motivare in modo analitico e specifico le decisioni adottate nei singoli casi, al fine di consentire al giudice amministrativo di verificarne la logicità, ragionevolezza e proporzionalità.
Inoltre le amministrazioni preposte alla tutela, in ossequio ai principi di collaborazione tra amministrazioni e di leale interlocuzione con i cittadini (correttezza procedimentale), nel caso di valutazioni negative hanno il dovere di formulare specifiche indicazioni volte a rendere il progetto di intervento assentibile (cd. dissenso costruttivo).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, L'obbligo di munirsi della licenza edilizia su tutto il territorio comunale esiste dal 1935 (commento critico a TAR Toscana, Sez. III, n. 899/2014) (30.06.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Tapetto, Considerazioni sulla raccolta di rifiuti metallici in forma ambulante (20.06.2014 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Le modifiche al procedimento di autorizzazione paesaggistica apportate dal D.L. 31.05.2014, n. 83 (11.06.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. Maglia, Sfalci e potature: rifiuti o non rifiuti? Una discutibile sentenza della Cassazione (nota a Cassazione penale n. 11886/2014) (10.06.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, La proroga dei termini fissati dall’art. 15 del Testo Unico dell’Edilizia (commento all’art. 30, comma 3, del D.L. n. 69/2013, così come modificato ed integrato dalla Legge n. 98/2013) (06.06.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. Bertuzzi, Permesso di costruire in sanatoria e sequestro preventivo (05.06.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Deliperi, In area tutelata con vincoli ambientali difficilmente può esser revocato l’ordine di demolizione e ripristino ambientale (02.06.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, La novella normativa in tema di case mobili e permesso di costruire (commento alle modifiche introdotte all’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 10-ter del D.L. n. 47/2014 così come introdotto dalla Legge n. 80/2014) (02.06.2014 - link a www.lexambiente.it).

VARI: D. Lavermicocca, La nullità del preliminare di vendita per irregolarità urbanistica dell'immobile (nota a Cassazione Civile, Sez. II, 17.12.2013, n. 28194) (Urbanistica e appalti n. 6/2014).
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La sentenza in commento estende la sanzione civilistica della nullità, che l'art. 40, comma 2, della L. n. 47/1985 commina per gli atti di trasferimento immobiliare, anche al contratto preliminare che abbia ad oggetto la vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico.
Con tale pronuncia, innovativa rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale, che riconduceva la fattispecie all’inadempimento contrattuale, la Suprema Corte introduce il principio della incommerciabilità degli immobili “irregolari urbanisticamente”, in quanto afferma che la nullità degli atti di trasferimento immobiliare, prevista dalla citata norma, ha natura sostanziale, ossia attiene alla regolarità urbanistica dell'immobile, che si aggiunge ad una nullità formale conseguente alla mancata indicazione nell'atto di trasferimento degli estremi degli atti concessori.
Tale interpretazione appare contrastante con il dato letterale formale della legge e con la ratio normativa sottesa al perseguimento degli abusi edilizi, che avviene indipendentemente da chi sia proprietario dell'immobile, risultando quindi indifferente la circolazione del bene ai fini sanzionatori amministrativi.

EDILIZIA PRIVATA: E. Ditta, Non valgono le norme sulle distanze per le canne fumarie in condominio (Consulente Immobiliare n. 953/2014 - 31.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Ancora sul parere vincolante del Soprintendente ex art. 146 del D.Lgs. 42/2004 e s.m.i. (nota a TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza n. 5278/2014) (28.05.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: R. Bertuzzi, Attività di potatura e di sfalcio: i residui sono o non sono rifiuto? (15.05.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: B. De Rosa, Distanze, luci e vedute nelle costruzioni (Consulente Immobiliare n. 952/2014 - 15.05.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: E. Ditta, Avvocati: in vigore i nuovi parametri (Consulente Immobiliare n. 952/2014 - 15.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Ancora sulla doverosità del rilascio della preventiva autorizzazione ex art. 94 T.U.E. per costruire in tutte le zone sismiche (nota a Corte Costituzionale, n. 121/2014 – Nota a TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, n. 2396/2013) (14.05.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: D. Palombella, L'abitabilità è essenziale per la validità del contratto? (Consulente Immobiliare n. 951/2014 - 30.04.2014).

EDILIZIA PRIVATA: I. Meo e A. Pesce, Impianti termici: da giugno obbligatori i nuovi libretti (Consulente Immobiliare n. 950/2014 - 15.04.2014).

EDILIZIA PRIVATA: P. Mantini e C. Panetta, Ristrutturazione più libera nella forma o riuso urbano? (Consulente Immobiliare n. 948/2014 - 15.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: I. Meo e A. Pesce, Lombardia: serre e logge non computano volumetria (Consulente Immobiliare n. 948/2014 - 15.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G. V. Tortorici, Deroghe per le distanze legali tra fabbricati (Consulente Immobiliare n. 947/2014 - 28.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: M. D'Agostino, I c.d. reati satelliti negli abusi edilizi (19-21.02.2014 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Fiale, Il reato di cui alla lett. b) dell’art. 44 T.U. edilizia: l’intervento soggetto a permesso di costruire (19-21.02.2014 - tratto da www.lexambiente.it).
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SOMMARIO:
1. Attività edilizia e titoli abilitativi. – 2. Il regime attuale dei titoli abilitativi. – 3. Attività edilizia libera – 4. Gli interventi edilizi per i quali non è richiesto titolo abilitativo ma la comunicazione dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale – 5. La DIA (denuncia di inizio attività) in materia edilizia: successione delle disposizioni normative. – 6. La sostituzione della DIA con la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) in materia edilizia. – 7. SCIA ed immobili abusivi. – 8. SCIA ed immobili vincolati. – 9. La DIA alternativa (cd. superDIA) e l’art. 22, 3° comma, del T.U. n. 380/2001. – 10. Natura giuridica della denuncia di inizio dell’attività. – 9. SCIA, DIA e silenzio-assenso. – 11. La procedura di SCIA in materia edilizia. – 12. La procedura applicabile alla cd. «superDIA». – 14. Attività subordinate a permesso di costruire. – 15. Demolizione totale e ricostruzione di fabbricati. – 16. Lavori eseguiti in base a permesso di costruire illegittimo.

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito all'applicazione della legge 326/2003 e della legge regionale 12/2004 agli impianti pubblicitari - Procura presso il Tribunale di Viterbo (Regione Lazio, parere 04.08.2014 n. 125798 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Diritto d'accesso a 360°.  Insindacabili le richieste dei consiglieri. Va però garantita la riservatezza a tutela dei dati personali.
È corretto dare seguito alla richiesta di accesso ai fascicoli personali di contribuenti fisici e giuridici, iscritti a ruolo per il tributo sui rifiuti Tarsu/Tares, che hanno ricevuto l'avviso di accertamento per omessa/infedele denuncia, formulata da un consigliere comunale?
Il diritto d'accesso agli atti amministrativi dell'ente locale è disciplinato dall'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267 del 18.08.2000 il quale prevede, in capo ai consiglieri comunali e provinciali, il diritto di ottenere dagli uffici comunali tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del loro mandato.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, il diritto di accesso da parte del consigliere «non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire la richiesta secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente» (limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste), restando ferma la «necessità di contemperare nel modo più ragionevole e adeguato possibile dette richieste, finalizzate all'espletamento del mandato, con le esigenze di funzionamento degli uffici».
Dal contenuto del citato art. 43 si desume il riconoscimento, in capo al consigliere comunale, di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10, Tuel ) sia, più in generale, nei confronti della pubblica amministrazione, genericamente intesa, come disciplinato dalla legge n. 241/1990. Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando un ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata.
Pertanto il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche di cui è titolare tale organo. Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri sancita per gli enti locali dall'art. 107 del dlgs n. 267/2000 che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
La giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti un'ampia prerogativa a ottenere informazioni, senza che possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in cui la richiesta riguardi l'esercizio del mandato istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza, secondo la quale, ai sensi del più volte richiamato art. 43, comma 2, i consiglieri comunali e provinciali «sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge».
In merito alla specifica fattispecie, si richiama il parere in data 14.12.2010 con il quale la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha ribadito che «gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato» e ha riconosciuto il diritto ad accedere agli atti relativi al pagamento dei tributi (per le concessioni cimiteriali) in quanto le informazioni richieste attengono formalmente all'esercizio del mandato consiliare, essendo esse preordinate a verificare l'efficacia e l'imparzialità dell'azione amministrativa in un settore particolarmente nevralgico come quello dell'effettiva riscossione delle imposte comunali da parte dell'amministrazione competente e pertanto sono da ritenere accessibili dal consigliere comunale.
Nondimeno, è necessaria una regolamentazione della materia da parte del Consiglio comunale, nell'ambito anche degli strumenti di autorganizzazione dello stesso Consiglio
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL’art. 4 del CCNL del Comparto Regioni – Autonomie Locali del 14.09.2000 riconosce ai dipendenti in regime di part-time la possibilità di ottenere la riconduzione del rapporto alle condizioni originarie (full-time).
Ma detta possibilità, che sembra atteggiarsi quale vero e proprio diritto potestativo, viene riconosciuta anche normativamente atteso che l’art. 6, comma 4, del D.L. n. 79/1997, conv. dalla Legge n. 140 del 1997, tutt’oggi in vigore, prevede che i dipendenti del settore pubblico che abbiano trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale “hanno il diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione nonché alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”.

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Ove ricorrano tutti presupposti previsti dalla legge (ovvero dalla contrattazione collettiva), l’ente non può non dar seguito alla richiesta del dipendente di riconduzione del rapporto di lavoro alle modalità originarie, anche nell’evenienza in cui tale comportamento obbligato conduca ad un aumento della spesa di personale.
L
’eventuale sforamento da parte del comune della spesa del personale a seguito dell’accoglimento della richiesta di riespansione dell’orario di lavoro da parte di alcuni dipendenti attualmente in regime di part time non può determinare effetti preclusivi ne sanzionatori a carico dell’ente.
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Il Sindaco del Comune di San Pietro in Cariano (VR), formula a questa Sezione una richiesta di parere, ai sensi dell'articolo 7, comma 8, della Legge 131/2003, in merito alla corretta valutazione della spesa di personale. Nella richiesta si premette:
• che l’ente ha in essere alcuni contratti di lavoro a tempo parziale e che alcuni dipendenti che usufruiscono di detti contratti hanno fatto espressa richiesta per il ripristino dell’orario di lavoro a tempo totale;
• che i menzionati ripristini comportano l'aumento ed il conseguente sforamento delle spese di personale ai sensi del comma 557 della legge 27/12/2006, n. 296 e che, tuttavia, i rientri di cui trattasi sarebbero necessari a garantire una migliore efficienza degli uffici interessati, considerate le carenze di organico e le sempre maggiori incombenze affidate agli enti locali.
Alla luce di quanto evidenziato l’ente conclusivamente chiede: “Se è possibile la concessione di un diritto al rientro dei dipendenti nonostante lo sforamento del limite delle spese di personale di cui al comma 557 della Legge 27/12/2006 n. 296” e in caso di risposta affermativa, se, “l'Ente, sforando le spese del personale, è soggetto alle conseguenze previste dal comma 557ter della predetta legge, riconducibili all'art. 76, comma 4, D.L. 112/2008 convertito con modificazioni dalla Legge 06.08.2008, n. 133”.
...
Venendo al merito della richiesta, il Collegio preliminarmente ritiene necessario richiamare la normativa attualmente vigente in tema di contenimento della spesa di personale per gli enti soggetti al patto di stabilità. Questi, come noto, devono contribuire al raggiungimento dei saldi di finanza pubblica conseguendo l’obiettivo assegnato (art. 31 della Legge 183/2011).
L’osservanza delle disposizioni che introducono detti vincoli “che costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione” si pone come necessario presupposto per poter esercitare legittimamente le facoltà assunzionali nell’anno successivo (art. 76, comma 4, del D.L. n. 112/2008, art. 1, comma 119, lett. c), della legge n. 220/2010 – legge di stabilità per il 2011, art. 7, commi 2 e ss. del D.lgs. n. 149/2011 e, da ultimo, art. 31, commi 26, 28 e 30 della Legge 183/2011- Legge di stabilità 2012).
A detto vincolo primario, per gli enti soggetti al patto, si accompagna l’osservanza dell’obbligo di riduzione tendenziale della spesa del personale disposto dall’articolo 1, comma 557 della Legge 27.12.2006 n. 296 (di seguito Legge 296/2006), comma da ultimo modificato dall’art. 14, comma 7, del D.L. 78/2010, da attuarsi mediante il contenimento della dinamica retributiva ed occupazionale con “azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia” (art. 1, comma 557 e 557-bis, della legge 296/2006).
La violazione di detto obbligo di riduzione viene sanzionata dal comma 557-ter del medesimo articolo 1, con il divieto di assunzioni nell’esercizio successivo, divieto al quale è soggetto l’ente inadempiente. Inoltre, vengono a determinarsi ulteriori effetti preclusivi atteso che la mancata riduzione della spesa del personale rispetto a quella degli esercizi precedenti, collide anche con quanto disposto dal comma 3-quinquies, dell’articolo 40 del d.lgs. 165/2001 nella parte in cui prevede che i presupposti necessari per l’eventuale integrazione delle risorse destinate alla contrattazione integrativa siano costituiti dai “…parametri di virtuosità fissati per la spesa di personale dalle vigenti disposizioni, in ogni caso nel rispetto dei vincoli di bilancio e del patto di stabilità e di analoghi strumenti del contenimento della spesa”. Con la conseguenza che la mancata riduzione della spesa del personale, in applicazione dei vincoli di cui al richiamato comma 557, non possa considerarsi parametro di “virtuosità” per gli enti locali ai sensi del richiamato articolo 40, comma 3-quinquies, del D.lgs. 165/2001.
Da ciò ne discende che le possibilità concrete di integrare le risorse finanziarie destinate alla contrattazione decentrata integrativa, vanno anch’esse subordinate al rispetto del vincolo di riduzione della spesa di personale rispetto a quella degli esercizi precedenti in coerenza con i vincoli delineati dall’art. 1, comma 557 della Legge n. 296/2006 e con le previsioni di cui all’articolo 40 comma 3-quinquies del D.lgs. 165/2001 (cfr. questa Sezione deliberazioni n. 403 e n. 513/2012/PAR).
Peraltro,
per gli enti locali soggetti al patto di stabilità il vincolo (di spesa) previsto dal richiamato comma 557 rimane l’unico che deve essere osservato posto che l’obbligo di mantenimento del rapporto tra spesa del personale e spesa corrente al di sotto del 50% quale vincolo (assunzionale) ulteriore (art. 76, comma 7, del D.L. n. 112/2008, come modificato dall’art. 28, comma 11-quater, del decreto legge 06.12.2011, n. 201 convertito con modificazioni dalla legge 22.12.2011, n. 214), risulta venir meno a seguito dell’abrogazione disposizione che lo contemplava (vedasi quanto disposto dall’articolo 3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90 che abroga il comma 7 del D.L. 112/2008 sopra richiamato).
Appare utile rammentare come la riduzione tendenziale degli oneri del personale, che trova fondamento anche nell’articolo 91 del Tuel, imponga alle amministrazioni di effettuare una puntuale e capillare programmazione della spesa nel corso dell’esercizio finanziario di volta in volta considerato e una proiezione che abbracci gli esercizi successivi (vedasi ad esempio i precisi gli obblighi imposti a livello di determinazione delle cessazioni anche ai fini del riassorbimento delle eventuali eccedenze di personale previsti dall’articolo 2, comma 11, del D.L. 95/2012).
Il relazione alla detta esigenza, più volte richiamata da questa Sezione nelle sue deliberazioni, si pongono una serie di problemi pratici, dovuti essenzialmente alla rapida sequenza della produzione normativa in materia di vincoli alla spesa corrente ed in particolare a quella del personale. Detti vincoli, infatti, vengono spesso introdotti nel corso dell’esercizio finanziario con la conseguenza, stante anche la mancanza di norme che regolino gli effetti delle nuove previsioni sui rapporti in essere, di determinare una serie di obiettive difficoltà in sede applicativa. Altre volte invece, le dette difficoltà emergono dall’esigenza di rendere compatibili i vincoli alla spesa del personale con altre disposizioni vigenti, normative e contrattuali, dall’applicazione delle quali deriva un innalzamento del livello della spesa corrente del personale, minacciando talvolta e violando in altre, l’osservanza dei vincoli di riduzione.
Il quesito posto all’attenzione del Collegio da parte del comune di San Pietro in Cairano si annovera proprio in questa ultima tipologia posto che il rispetto del vincolo di riduzione della spesa di personale dell’ente rispetto a quella sostenuta nell’esercizio precedente è posto in dubbio dall’incremento conseguente agli oneri derivanti dalla riespansione di più rapporti di lavoro dal tempo parziale al tempo pieno.
Sul punto, giova evidenziare che
l’art. 4 del CCNL del Comparto Regioni – Autonomie Locali del 14.09.2000 riconosce ai dipendenti in regime di part-time, la possibilità di ottenere la riconduzione del rapporto alle condizioni originarie (full-time). Ma detta possibilità, che sembra atteggiarsi quale vero e proprio diritto potestativo, viene riconosciuta anche normativamente atteso che l’art. 6, comma 4, del D.L. n. 79/1997, conv. dalla Legge n. 140 del 1997, tutt’oggi in vigore, prevede che i dipendenti del settore pubblico che abbiano trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale “hanno il diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione nonché alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”.
Alla luce della richiamata disposizione appare chiaro che
le amministrazioni, una volta che il dipendente abbia esercitato detto diritto, potrebbero trovarsi di fronte all’evidenza di dover sostenere per l’esercizio interessato una spesa di personale ben più alta di quella programmata (e rispettosa dei vincoli vigenti), non potendo prevedere puntualmente quando la richiesta alla riespansione dell’orario di lavoro verrà effettivamente formulata dal dipendente.
Appare evidente che in questo caso come in altri già affrontati dalla Sezione si verifica una presunta antinomia tra le disposizioni in vigore che appare necessario risolvere atteso che a fronte degli effetti di un’attività normativamente consentita –la riespansione dell’orario di lavoro a full time-
l’ente non può subire delle conseguenze sanzionatorie per la mancata osservanza dei vincoli normativi di spesa, essendo ciò contrario al canone della ragionevolezza ed in contrasto con “l’esigenza di garantire il principio generale di non contraddizione all’interno dell’ordinamento giuridico (si veda questa Sezione, deliberazione n. 287/2011/PAR).
Detto principio, a parere del Collegio, tralasciando la ricorrenza, nel caso di specie, di tutti i presupposti previsti dalle disposizioni normative e contrattuali ai fini della configurabilità del diritto in esame (decorrenza del biennio ovvero disponibilità del posto in pianta organica, originaria assunzione a tempo pieno il cui accertamento non compete a questa Sezione in sede consultiva), è applicabile anche alla fattispecie prospettata dall’ente laddove quest’ultimo ha comunque programmato e conseguito la riduzione della spesa del personale nell’esercizio finanziario all’interno del quale viene esercitato da parte del lavoratore il diritto alla riespansione dell’orario di lavoro.
Giova evidenziare, poi, che la Sezione in relazione ad una richiesta di parere vertente sulla stessa questione interpretativa ha affermato che: “
….sia nell’ipotesi di richiesta di rientro a tempo pieno alla scadenza del biennio dalla trasformazione in part-time, sia in quella di rientro prima del biennio, laddove l’ente non riesca ad evitare un aumento della spesa di personale, parrebbe configurarsi un contrasto tra “obblighi” derivanti da fonti diverse. In realtà, considerato che le disposizioni in esame operano in ambiti e su piani differenti -gli artt. 6 del D.L. 79/1997 e 4 del CCNL del 2000 disciplinano il rapporto di lavoro, mentre il comma 557 disciplina la spesa di personale- non può ravvisarsi un’antinomia in senso tecnico, ma solo un contrasto eventuale (laddove, cioè, l’ente non sia in grado di “neutralizzare” l’aumento della spesa conseguente alla riespansione del rapporto di lavoro) tra le conseguenze dell’assolvimento al primo obbligo e l’adempimento del secondo. Tale contrasto, peraltro, non può essere risolto configurando una sorta di effetto “derogatorio” della norma vincolistica rispetto all’altra norma (di legge o contrattuale), né, in generale, rispetto ad altri obblighi giuridici gravanti sull’ente locale pure comportanti un’incidenza, diretta o indiretta, sulla spesa di personale. In sostanza, ove ricorrano tutti presupposti previsti dalla legge (ovvero dalla contrattazione collettiva), l’ente non può non dar seguito alla richiesta del dipendente di riconduzione del rapporto di lavoro alle modalità originarie, anche nell’evenienza in cui tale comportamento obbligato conduca ad un aumento della spesa di personale (sul punto, vedasi, deliberazione di questa sezione n. 2/2009/PAR, secondo cui i vincoli finanziari, quale quello imposto dal comma 557, possono incidere solo sulla componente discrezionale della spesa e non su quella vincolata, identificabile, tra l’altro, con i “diritti sorti in base a disposizioni vincolanti, di fonte legale o contrattuale” (questa Sezione deliberazione n. 106/2013/PAR).
Peraltro, si osserva ulteriormente che il richiamato principio di coerenza dell’ordinamento giuridico, dovrebbe ritenersi applicabile agli adempimenti necessitati, in generale, ovvero all’adempimento di obblighi giuridici rispetto ai quali non residui, in capo all’Ente, alcun margine di autonoma determinazione.
Proprio in relazione a tale assunto il Collegio, nella delibera sopra richiamata, aveva conclusivamente affermato che “
….ove ricorrano tutti presupposti previsti dalla legge (ovvero dalla contrattazione collettiva), l’ente non può non dar seguito alla richiesta del dipendente di riconduzione del rapporto di lavoro alle modalità originarie, anche nell’evenienza in cui tale comportamento obbligato conduca ad un aumento della spesa di personale (sul punto, vedasi, deliberazione di questa sezione n. 2/2009/PAR, secondo cui i vincoli finanziari, quale quello imposto dal comma 557, possono incidere solo sulla componente discrezionale della spesa e non su quella vincolata, identificabile, tra l’altro, con i “diritti sorti in base a disposizioni vincolanti, di fonte legale o contrattuale”)”.
La Sezione, alla luce di quanto evidenziato, ritiene che
l’eventuale sforamento da parte del comune di San Pietro in Cariano della spesa del personale a seguito dell’accoglimento della richiesta di riespansione dell’orario di lavoro da parte di alcuni dipendenti attualmente in regime di part time non può determinare effetti preclusivi ne sanzionatori a carico dell’ente.
Ciò, a maggior ragione laddove, come sembra delinearsi nel caso in specie, dette scelte gestionali sono da ricondurre all’adempimento di disposizioni normative nonché contrattuali (art. 6, comma 4, del D.L. n. 79/1997, conv. dalla Legge n. 140 del 1997 ed art. 4 del CCNL del Comparto Regioni – Autonomie Locali del 14.09.2000). (cfr. questa sezione deliberazione n. 106/2013/PAR citata).
Tuttavia, l’ente, successivamente al verificarsi del superamento del vincolo di spesa in conseguenza all’eventualità sopra richiamata, è tenuto ad indirizzare tutte le scelte discrezionali in materia di spesa di personale e la relativa programmazione al conseguimento nel più breve tempo possibile dell’obiettivo di riduzione posto dall’articolo 1, comma 557 della legge 27.12.2006 n. 296.
Ciò, in relazione alla politica dl personale, anche ricorrendo a diverse modalità organizzative dei servizi (sia interne all’Ente che esterne, applicando ove opportuno le previsioni contenute nell’art. 14, co. 27 e segg., del D.L. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificate ed integrate dall’art. 19 del D.L. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135), o ad una rimodulazione degli stessi (in applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 6, del D.lgs. n. 165/2001 e del citato art. 1, comma 557, della legge 296/2006) (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 24.07.2014 n. 406).

INCENTIVO PROGETTAZIONERitiene la Sezione che, successivamente alla realizzazione di un’opera pubblica, non sia consentito modificare i quadri economici al fine di aggiungere le spese per incentivi per la progettazione interna rilevato che, secondo l’impostazione prescelta dal legislatore, le risorse destinate agli incentivi per la progettazione debbano trovare copertura, ai sensi dell’art. 93, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006, nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa.
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Il Sindaco del Comune di Torremaggiore (FG) illustra che l’Ente ha realizzato ed ultimato sei opere pubbliche finanziate con fondi regionali e cofinanziate, in alcuni casi, con fondi comunali o con l’accensione di un mutuo presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Il Sindaco evidenzia, quindi, che i quadri economici iniziali delle opere non prevedevano alcuna somma per gli incentivi per la progettazione e che tali somme sono state richieste dai tecnici comunali dopo l’ultimazione dei lavori e pertanto non è possibile trovare copertura alle suddette spese nell’ambito dei quadri economici già approvati.
Conseguentemente, il Sindaco, rilevato che sia il mutuo che i fondi regionali ed i cofinanziamenti comunali sono incapienti, richiede il parere della Sezione per accertare se sia possibile, a lavori ultimati, modificare i relativi quadri economici al fine di aggiungere le spese per incentivi per la progettazione ai sensi dell’art. 92 del D. Lgs. n. 163/2006 aumentando di pari importo il totale complessivo del quadro economico e ponendo le suddette spese a carico del bilancio comunale.
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Il quesito sottoposto all’esame di questa Sezione appare riconducibile alla materia della contabilità pubblica poiché inerente l’interpretazione della normativa sulla corresponsione degli incentivi di progettazione interna destinata ad incidere direttamente sulla gestione del bilancio dell’Ente.
L’articolo 92, comma 5, del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163, recante il codice dei contratti pubblici, prevede che una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere.
La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie.
Preliminarmente, questa Sezione osserva che
gli enti devono prevedere, in via analitica, nell’apposito regolamento, richiamato dall’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006, i criteri e le modalità di quantificazione, di ripartizione, di corresponsione e di liquidazione dell’incentivo alla progettazione interna.
Con il parere 28.05.2014 n. 114 questa Sezione ha, infatti, evidenziato che modalità e criteri di ripartizione devono essere previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dalla Giunta comunale ai sensi dell’art. 48, comma 3, del D.Lgs. 267/2000.
In assenza del regolamento e della precedente contrattazione decentrata, la corresponsione è illecita e determina danno erariale.
La percentuale complessiva effettiva delle somme destinate all’incentivo è predeterminata in sede regolamentare in rapporto all’entità e complessità dell’opera da realizzare. Perciò il regolamento deve consentire il calcolo della percentuale effettiva attraverso una congrua e proporzionale gradazione di valori/punteggi da attribuire ai due coefficienti. La predeterminazione di un incentivo sproporzionato rispetto ad entità e complessità dell’opera è potenzialmente foriero di danno erariale alle casse comunali, per cui si impone una ponderazione adeguata e oggettiva dei valori.
La Sezione, con la citata deliberazione, ha, inoltre, precisato che
la corresponsione dell’incentivo può essere disposta solo a favore dei seguenti soggetti in organico all’amministrazione: responsabile del procedimento; incaricati della redazione del progetto; incaricati della redazione del piano della sicurezza; incaricati della direzione dei lavori; incaricati del collaudo e collaboratori dei soggetti predetti.
La giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti ha chiarito che il cosiddetto “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore attribuisce un compenso ulteriore e speciale, in deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione (Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 21.05.2014 n. 97 e parere 17.03.2014 n. 44, Sezione regionale di controllo per l’Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119, Sezione regionale di controllo per la Campania, parere 31.01.2013 n. 17).
L’art. 13, comma 1, del recente D.L. 24/06/2014 n. 90 ha inserito, nel predetto articolo 92, il comma 6-bis che vieta la corresponsione dei predetti incentivi di progettazione al personale con qualifica dirigenziale proprio in ragione del principio di onnicomprensività del trattamento economico espressamente richiamato dalla novella normativa.
Ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la Sezione delle Autonomie, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha chiarito che deve ritenersi determinante non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ed ha ribadito che, ove tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione contrattuale delle componenti del trattamento economico.
L’articolo 93, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006 dispone che gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori, alla vigilanza e ai collaudi, nonché agli studi e alle ricerche connessi, gli oneri relativi alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e dei piani generali di sicurezza quando previsti ai sensi del decreto legislativo 14.08.1996, n. 494, gli oneri relativi alle prestazioni professionali e specialistiche atte a definire gli elementi necessari a fornire il progetto esecutivo completo in ogni dettaglio, ivi compresi i rilievi e i costi riguardanti prove, sondaggi, analisi, collaudo di strutture e di impianti per gli edifici esistenti, fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
Questa Sezione, alla luce del disposto predetto art. 93, comma 7, già con la deliberazione n. 8/PAR/2007 del 14/05/2007, aveva, quindi, evidenziato che
le risorse finanziarie destinate agli incentivi per la progettazione devono essere ex lege previste nel quadro economico di ogni singola opera pubblica atteso che il legislatore ha inteso considerare in modo unitario la spesa complessiva destinata alla realizzazione di un’opera pubblica e conseguentemente si era specificato che l’allocazione in bilancio di tali risorse deve essere effettuata al titolo II della spesa relativo alla spesa in conto capitale atteso che è destinata a seguire gli stanziamenti previsti per le opere pubbliche.
Con la su citata
deliberazione 15.04.2014 n. 7, la Sezione delle Autonomie ha, inoltre, richiamato la propria precedente
deliberazione 13.11.2009 n. 16 che aveva affermato per gli “incentivi per la progettazione interna” la natura di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento, rispetto alle quali la spesa per il personale occupa un rilevante peso, nell’alveo della gestione corrente, ed è iscritta nel titolo I della spesa.
Ritiene, quindi, la Sezione che, successivamente alla realizzazione di un’opera pubblica, non sia consentito modificare i quadri economici al fine di aggiungere le spese per incentivi per la progettazione interna rilevato che, secondo l’impostazione prescelta dal legislatore, le risorse destinate agli incentivi per la progettazione debbano trovare copertura, ai sensi dell’art. 93, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006, nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 18.07.2014 n. 133).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIL’acquisizione di beni e servizi secondo modalità diverse da quelle previste dal novellato art. 1, comma 450, della L. 296/2006 sono causa di nullità del contratto stipulato con configurazione di un illecito disciplinare e di una fattispecie di responsabilità amministrativa, “non potendo revocarsi in dubbio che il Me.PA, sia ascrivibile al genus degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip Spa”.
Tuttavia,
la lettura coordinata e sistematica del summenzionato comma 450 con l’immediatamente precedente comma 449 della L. 296/2006 per cui, per l’acquisto di beni e servizi “Le restanti amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e s.m., possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma …. ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti. ….” , comporta che “l’obbligo di ricorrere agli strumenti di approvvigionamento descritti va mitigato ogni qualvolta il ricorso all’esterno persegue la ratio di contenimento della spesa pubblica contenuta nella norma”.
Quanto sopra pur, evidentemente, nella indispensabile giustificazione delle oggettive motivazioni del mancato esperimento della procedura della richiesta di offerta e/o della mancata adesione alla procedura da parte dell’offerente migliore, che dovrà, comunque, rispettare, ai sensi dell’art. 327 del D.P.R. 207/2010, i requisiti generali e di idoneità professionale previsti dagli artt. 38 e 39 del codice dei contratti pubblici.
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Il Presidente della Provincia di Parma ha inoltrato a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003, una richiesta di parere in merito all’ambito di applicazione dell’art. 1, comma 450, della Legge 27.12.2006, n. 296 per cui “Dal 01.07.2007, le amministrazioni statali centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all’articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328. Per gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado, le istituzioni educative e le università statali, tenendo conto delle rispettive specificità, sono definite, con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, linee guida indirizzate alla razionalizzazione e al coordinamento degli acquisti di beni e servizi omogenei per natura merceologica tra più istituzioni, avvalendosi delle procedure di cui al presente comma. A decorrere dal 2014 i risultati conseguiti dalle singole istituzioni sono presi in considerazione ai fini della distribuzione delle risorse per il funzionamento”.
Specificamente viene richiesto “se possa risultare possibile l’accesso al libero mercato, qualora l’indagine nell’ambito del mercato elettronico della pubblica amministrazione, ovvero di atri mercati elettronici istituiti ai sensi dell’articolo 328 del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010 n. 207, evidenzi la disponibilità dei beni e servizi necessari ma a prezzi superiori rispetto a quelli normalmente praticati nel contesto commerciale di riferimento.
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La soluzione del quesito si fonda sull’interpretazione da fornire all’inciso del comma 450 dell’art. 1 della finanziaria 2007 e s.m.i. per cui “le altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328”.
Il richiamato art. 328 del D.P.R. 207/2010 ne prevede tre tipologie diverse: quello della stessa stazione appaltante, quello realizzato dal Ministero dell’economia e delle finanze tramite il sistema Consip, quello realizzato dalle centrali di committenza di cui all’art. 33 del codice dei contratti pubblici.
Peraltro, oltre al già ampio spettro di scelta tra le summenzionate tipologie di mercato elettronico normativamente previste, l’eventualità di prezzi inferiori reperibili sul mercato, rispetto a quelli catalogati, per i beni e servizi necessari, trova una risposta adeguata nel vigente testo normativo. Infatti, il sistema si configura come un “mercato aperto cui è possibile l’adesione da parte di imprese che soddisfino i requisiti previsti dai bandi relativi alla categoria merceologica o allo specifico prodotto e servizio e, quindi, anche di quella asseritamente in grado di offrire condizioni di maggior favore rispetto a quelle praticate sul Me. PA … . D’altro canto …nell’ambito dello stesso è prevista una duplicità di modalità d’acquisto: così, oltre all’ordine diretto che permette di acquisire sul Mercato Elettronico i prodotti/servizi con le caratteristiche e le condizioni contrattuali già fissate, è prevista la richiesta di offerta (cd. R.d.O.) con la quale è possibile negoziare prezzi e condizioni migliorative o specifiche dei prodotti/servizi pubblicati su cataloghi on line” (cfr. Sezione regionale di controllo Marche n. 169/2012).
A tal proposito, infatti, il comma 4 dell’art. 328 del D.P.R.207/2010 prevede che le stazioni appaltanti, servendosi del mercato elettronico, possano effettuare acquisti di beni e servizi sotto soglia “a) attraverso un confronto concorrenziale …..delle offerte ricevute sulla base di una richiesta di offerta rivolta ai fornitori abilitati; ….”.
Pertanto, attraverso la procedura della richiesta di offerta, pur nell’ambito del sistema del mercato elettronico, sono acquisibili prezzi più convenienti per i beni e servizi pur disponibili nei cataloghi on-line.
L’inderogabilità della richiamata procedura è suffragata dall’interpretazione letterale del dato normativo di cui al comma 450 dell’art. 1 della finanziaria 2007 e s.m.i. che non ammette deroghe neppure per gli enti locali, nonché alla luce della ratio di tutela della trasparenza e della concorrenzialità cui l’automaticità del meccanismo di aggiudicazione, normativamente previsto, è sotteso.
Ad ulteriore conferma, infine, il fatto che
l’acquisizione di beni e servizi secondo modalità diverse da quelle previste dal novellato art. 1, comma 450, della L. 296/2006 saranno causa di nullità del contratto stipulato con configurazione di un illecito disciplinare e di una fattispecie di responsabilità amministrativa, “non potendo revocarsi in dubbio che il Me.PA, sia ascrivibile al genus degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip Spa (cfr. Sezione regionale di controllo per le Marche n.169/2012).
Altresì,
la lettura coordinata e sistematica del summenzionato comma 450 con l’immediatamente precedente comma 449 della L. 296/2006 per cui, per l’acquisto di beni e servizi “Le restanti amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e s.m., possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma …. ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti. ….” , comporta che “l’obbligo di ricorrere agli strumenti di approvvigionamento descritti va mitigato ogni qualvolta il ricorso all’esterno persegue la ratio di contenimento della spesa pubblica contenuta nella norma (cfr. Sezione regionale di controllo per la Toscana n. 151/2013).
Quanto sopra pur, evidentemente, nella indispensabile giustificazione delle oggettive motivazioni del mancato esperimento della procedura della richiesta di offerta e/o della mancata adesione alla procedura da parte dell’offerente migliore, che dovrà, comunque, rispettare, ai sensi dell’art. 327 del D.P.R. 207/2010, i requisiti generali e di idoneità professionale previsti dagli artt. 38 e 39 del codice dei contratti pubblici (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 17.12.2013 n. 286).

NEWS

ENTI LOCALITar in fuorigioco sul pre-dissesto. Cassazione. Impugnabili per vizi propri gli atti dei Prefetti.
Le Sezioni Uniti Civili si (ri)pronunciano in materia di predissesto, definendo il dilemma del giudice competente a decidere.
Lo fanno con l'ordinanza n. 16631/2014, pronunciata a seguito di un ulteriore ricorso per regolamento di giurisdizione, in relazione ad un processo pendente (n. 238/2013) del Tar di Catania sul dissesto del Comune di Milazzo. La seconda pronuncia arriva dopo l'ordinanza 5805/2014 (Il Sole24 Ore del 24.03.2014) che aveva sancito, in riferimento al Comune di Cefalù, la competenza esclusiva delle Sezioni Riunite della Corte dei conti in composizione speciale, chiamate a decidere degli appelli contro le decisioni delle Sezioni regionali di controllo in materia di predissesto/dissesto.
Una conclusione, quest'ultima, cui erano tuttavia pervenute qualche tempo prima le stesse sezioni Riunite della Corte dei conti, con la sentenza 19/20014/EL sulla dichiarazione di dissesto guidato del Comune di Lamezia Terme deliberata dalla Sezione regionale di controllo.
Le Sezioni Unite della Cassazione confermano l'impugnabilità, per vizi propri, degli atti assunti dai Prefetti in pedissequa esecuzione delle delibere delle Sezioni regionali di controllo della magistratura contabile. Decidono, in proposito, che su di essi non è ammesso sindacato alcuno delle Sezioni Riunite, in composizione speciale. Con questo, le Sezioni Unite della Cassazione ribadiscono l'essenzialità dei due procedimenti intesi a perseguire altrettanti e diversi giudizi.
Una decisione che mette in imbarazzo i Tar nel frattempo giunti a diverse conclusioni. Tra questi, il Tar Calabria che, con la sentenza n. 762/2014, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in riferimento alla nota del Prefetto di Catanzaro che diffidava il Comune di Lamezia Terme ad adottare la delibera di dissesto (articolo 246 del Tuel). Ciò a conclusione della procedura di dissesto guidato perfezionata dal magistrato catanzarese in base all'articolo 6, comma 2, del Dlgs 149/2011.
Tutto questo è quanto si ricava dalla lettura più immediata della recente ordinanza. A volere essere maliziosi ci si potrebbe chiedere se non ci sia la volontà del giudice massimo di porre un freno all'ampliamento della giurisdizione delle Sezioni riunite della Corte dei conti, in considerazione del peso che le sue decisioni stanno assumendo
 
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORecuperi dai fondi integrativi se il contratto è illegittimo. Personale. Le «istruzioni» della Conferenza unificata.
La partita della sanatoria dei contratti decentrati illegittimi si è formalmente conclusa, salvo che per la auspicata riforma della contrattazione, con la presa d'atto da parte della Conferenza Unificata, nella sua ultima riunione, del documento predisposto dal comitato costituito tra rappresentanti di ministeri, Comuni, Province e Regioni (anticipato sul Sole 24 Ore del 28 luglio). Ma c'è da scommettere che, a parte possibili novità legislative, la questione si trascinerà ancora, perché i dubbi non sono interamente chiariti. Nel frattempo è stato firmato il contratto decentrato integrativo dei dipendenti del comune di Roma, che si muove lungo la stessa lunghezza d'onda del documento della Conferenza Unificata.
Il documento compie cinque scelte chiare. Gli enti:
- devono verificare la legittimità dei fondi per le risorse decentrate e, in caso di illegittimità, recuperare le somme illegittimamente erogate;
- devono controllare le modalità di utilizzazione del fondo;
- devono applicare le sanzioni per i contratti illegittimi sottoscritti dopo il 31.12.2012 e per quelli che hanno disposto l'utilizzo in modo illegittimo del fondo in assenza dei presupposti per la sanatoria (cioè il rispetto del patto e dei vincoli alla spesa del personale, ivi compresi quelli dettati dal Dl 78/2010);
- non devono recuperare dai singoli dipendenti nelle ipotesi in cui ricorrono le condizioni per la sanatoria;
- possono applicare unilateralmente queste misure, rispettando l'obbligo della informazione ai soggetti sindacali.
Il documento chiarisce che il 100% dei risparmi provenienti dai piani di razionalizzazione può essere destinato al recupero delle somme illegittimamente erogate; che le scelte determinate dalla legislazione regionale non impugnata sono da considerare comunque legittime; che le relazioni sui piani di recupero devono essere analoghe a quelle sui contratti decentrati; che le amministrazioni che hanno superato il tetto del 50% della spesa per le assunzioni flessibili del 2009 (vincolo peraltro abrogato dalla legge di conversione del Dl per gli enti "virtuosi") per incarichi conferiti in precedenza non sono inadempienti e che i contratti decentrati stipulati prima dell'entrata in vigore della legge Brunetta vanno adeguati ad essa. E inoltre rinvia, per la definizione delle modalità di calcolo della riduzione del fondo per le risorse decentrate a seguito di diminuzione del personale, ad una futura intesa.
Tra i tanti aspetti non chiariti ricordiamo: come si devono computare i risparmi derivanti dai prepensionamenti ai fini del recupero delle somme illegittimamente erogate nella contrattazione (vanno calcolati solo quelli di un anno o per più anni); se le disposizioni si applicano agli enti che non hanno rispettato il patto e/o i vincoli alla spesa del personale per un solo anno; se le progressioni orizzontali effettuate illegittimamente si possono considerare sanate o meno.
In linea con le indicazioni del documento va il contratto decentrato integrativo dei dipendenti di Roma. Esso garantisce la invarianza delle risorse destinate alla contrattazione (anzi un aumento di circa 8 milioni provenienti dai risparmi del fondo del 2013), supera buona parte delle illegittimità contenute nella contrattazione precedente e garantisce una sostanziale invarianza del trattamento accessorio medio spostando risorse su quelle indennità che dovrebbero garantire un miglioramento dei servizi (quali il turno e soprattutto la produttività)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2014).

PUBBLICO IMPIEGOPa, si parte con staffetta e anticorruzione. Ok definitivo della Camera al Dl Madia - Renzi: bene, ora sotto con la delega e i decreti attuativi.
Si parte subito con la staffetta generazionale. Dalla fine di ottobre nessun dipendente pubblico potrà restare a lavoro dopo avere raggiunto i requisiti pensionistici, mentre finora la carriera poteva protrarsi ancora per due anni. E ancora le pubbliche amministrazioni potranno mandare a riposo i loro dipendenti a 62 anni, purché abbiano l'anzianità massima. Si tratterà di uscite anticipate di 4 anni rispetto al limite dei 66 anni. La possibilità in realtà era già prevista, ma la ricetta viene modificata, includendo ora anche i dirigenti. Al via subito anche il pacchetto anticorruzione nato sulla scia delle polemiche sui maxi appalti del Mose e dell'Expo finiti nel mirino della magistratura.

Sono questi alcuni degli ingredienti più sostanziosi della riforma della pubblica amministrazione che ieri ha incassato il via libera definitivo del Parlamento, dopo tre passaggi tra Camera e Senato. Un sì subito festeggiato con un tweet («è legge») dal premier Matteo Renzi e dal ministro Pa, Marianna Madia. Che subito hanno rilanciato, puntando sulla delega, definita dal ministro «il cuore» dell'operazione di rinnovamento.
Il decreto, passato con la terza fiducia al Montecitorio, è infatti «il primo tassello». Ma il cantiere resta aperto e si guarda già avanti. «Adesso sotto con la delega e i decreti attuativi», ha spronato ieri il premier. Il disegno di legge comincerà il suo iter dal Senato dopo la pausa estiva, con l'obiettivo di completare tutto per la fine dell'anno, così da dedicare «il prossimo» -ha spiegato il ministro Madia- proprio «all'attuazione».
Intanto però non si placano le polemiche suscitate dallo stralcio di «quota 96», lo sblocco dei pensionamenti nella scuola, con il presidente della commissione Bilancio, Francesco Boccia (Pd), che ieri ha parlato di «frattura» da sanare. Dichiarazioni che per il capogruppo di Fi alla Camera, Renato Brunetta, manifestano «una crisi istituzionale». Madia però minimizza e chiarisce come dopo i «rilievi» dell'Economia il Governo, «unito», abbia fatto «una scelta politica».
Nel menù del del decreto –che prevede una ventina di provvedimenti attuativi– oltre alla staffetta generazionale, i pensionamenti automatici per i dipendenti che hanno raggiunto i requisiti contributivi pieni, e il pacchetto anticorruzione ci sono misure che intervengono su più fronti. C'è la sperimentazione della mobilità, la semplificazione del turn over. E ancora: lo stop agli incarichi per i pensionati, esteso anche alle società a controllo pubblico, e il dimezzamento dei distacchi e dei permessi sindacali.
Sul fronte dei tagli il dimezzamento delle somme dovute dalle imprese alle Camere di commercio ci sarà, anzi la prospettiva è l'abolizione, ma arriverà con gradualità, solo nel 2017. Resta in piedi l'ipotesi di accorpamento delle sedi delle Authority, ma solo se non vengono rispettati i nuovi vincoli: il 70% del personale deve essere concentrato nel "quartier generale".
Infine viene allargato il campo d'azione del presidente dell'Autorità anticorruzione, ruolo oggi ricoperto da Raffaele Cantone. La sua vigilanza sui contratti d'appalto a rischio coinvolgerà pure le concessionarie e potrà proporre commissariamenti anche nei casi in cui il procedimento penale non sia stato ancora aperto
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014).

APPALTIDocumenti irregolari per gli appalti sanati con sanzione. Processo amministrativo. Il taglio alle cause.
L'articolo 38 del decreto-legge 90/2014 sulla pubblica amministrazione conferma l'impulso informatico al processo amministrativo imponendo la sottoscrizione digitale dei provvedimenti del giudice e dei suoi ausiliari.
Novità riguardano il processo degli appalti di opere forniture e servizi pubblici, cioè le gare ed il relativo contenzioso. Si intende attuare (articolo 39) un decongestionamento delle cause di esclusione per irregolarità formali, mediante il contrappeso rappresentato da una sanzione pecuniaria per chi incorre in irregolarità. Le irregolarità stesse, una volta sanate, escludono il contenzioso su mancanza, incompletezza o irregolarità dichiarazioni necessarie per una corretta partecipazione alle gare. È previsto un termine di 45 giorni entro il quale va definito il giudizio: termine che decorre da quando tutte le parti sono in grado di difendersi.
Come misura collaterale alla speditezza del tempo delle liti, viene introdotta una rilevante previsione formale: applicando il principio di sinteticità degli atti, sarà imposto un limite alle dimensioni degli atti giudiziari e in particolare agli atti difensivi.
Ciò avverrà all'indomani di consultazioni con gli avvocati. Esiste in proposito già un impegno generico, assunto all'indomani dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo (Dlgs 104 del 2010) secondo il quale atti e memorie dovranno essere calibrati intorno alle 20-30 cartelle, in analogia a quanto accade per la difesa innanzi agli organi di giustizia comunitaria e alla corte dei diritti dell'uomo. Dinanzi la giustizia Ue i limiti quantitativi sono coerenti con la necessità di traduzione e alla circostanza che esistono già, nel fascicolo, provvedimenti giurisdizionali nazionali.
La novità del Dl 90 non è solo nei limiti quantitativi, ma anche nelle sanzioni cui si va incontro qualora si eccedano le quantità consentite. Fino ad oggi vi era un deterrente di tipo pecuniario, che non superava qualche migliaio di euro nei casi più clamorosi (per inutilità e ridondanza delle espressioni difensive ). Oggi invece l'articolo 39 afferma che il giudice è tenuto a esaminare solo le pagine quantitativamente consentite e che nemmeno il giudice di appello possa esaminare gli argomenti trattati nelle pagine eccedenti il limite consentito in primo grado.
La previsione rischia di incidere sulla difesa in giudizio obbligandola a limiti formali. Le tecniche difensive per aggirare l'ostacolo quantitativo non mancheranno, a partire dalla possibilità di allegare come documentazione separata i precedenti giudiziari e le norme di riferimento.
Altra novità riguarda la cauzione che accompagna i provvedimenti cautelari in materia di appalti: questo contrappeso economico diventa facoltativo e non più obbligatorio; inoltre, non può essere previsto qualora vi siano possibili effetti irreversibili del provvedimento urgente della magistratura, cioè quando sono lesi diritti fondamentali, come quello alla salute, oppure quando le scelte dell'amministrazione non siano più rinviabili nemmeno per i 60 giorni entro i quali occorre emettere un provvedimento definitivo.
Tornando al processo civile, l'articolo 45 del decreto legge prevede che la comunicazione del dispositivo sia sostituita dalla comunicazione del testo integrale della sentenza, senza tuttavia che ciò faccia decorrere i termini per l'impugnazione della sentenza stessa
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014).

PUBBLICO IMPIEGOMobilità «obbligata» all'interno di 50 chilometri. Trasferimenti. L'articolo 30 del Dlgs 165/2001.
L'istituto della mobilità tra le pubbliche amministrazioni è stato totalmente riscritto dal Dl 90/2014 e ulteriormente modificato dalla legge di conversione.
Il riferimento è l'articolo 30 del Dlgs 165/2001, anche se, i vari rimandi a successivi interventi, non sembrano dare nulla per definitivo.
Viene confermato che, a livello generale, per il passaggio di dipendenti tra un ente l'altro serve sempre l'assenso dell'amministrazione di appartenenza. Solamente per la mobilità tra le sedi centrali dei ministeri, agenzie ed enti pubblici non economici nazionali, ed in via sperimentale, non è richiesto l'assenso dell'amministrazione di appartenenza, la quale dispone il trasferimento entro due mesi dalla richiesta dell'amministrazione di destinazione.
Al di fuori di questi casi, le amministrazioni devono fissare preventivamente i requisiti e le competenze professionali dei posti che si intendono ricoprire tramite mobilità e debbono pubblicare sul proprio sito istituzionale per almeno trenta giorni un bando per rendere pubblici i posti che si intendono occupare, con i requisiti dei candidati.
Poiché può accadere, soprattutto se sono coinvolte amministrazioni di diversi comparti, che i dipendenti che transitano con mobilità non abbiano la piena professionalità necessaria per lo svolgimento dei nuovi compiti, la legge di conversione del Dl 90/2014 ha previsto, senza corsi aggiuntivi, la possibilità che vengano attivati percorsi di riqualificazione dei lavoratori la cui domanda di trasferimento è accolta.
Particolarmente delicata la questione della mobilità "obbligatoria". Il comma 2 dell'articolo 30 del Dlgs 165/2001 prevede che i dipendenti possono essere trasferiti all'interno della stessa amministrazione o, previo accordo tra le amministrazioni interessate, in un'altra amministrazione, in sedi collocate nel territorio dello stesso comune ovvero a distanza non superiore a 50 chilometri dalla sede cui sono adibiti.
In questo caso non è necessario il benestare del lavoratore. L'assenso del dipendente a trasferirsi in altra sede è, invece, obbligatorio quando il dipendente ha figli di età inferiore a tre anni con diritto al congedo parentale oppure si tratti di persone che hanno familiari con disabilità grave (articolo 33, comma 3, della legge 104/1992).
L'applicazione della norma è particolarmente delicata poiché mette, ovviamente, in opposizione le esigenze dell'amministrazione con quelle dei lavoratori. Al fine di gestire nel migliore dei modi i potenziali conflitti, è previsto un decreto da parte del ministro per la Semplificazione e la pubblica amministrazione per fissare i criteri per i processi di trasferimenti "obbligati"
 
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014).

PUBBLICO IMPIEGOPiù turn over negli uffici Dal 2018 sarà del 100%. Il ricambio generazionale. Le nuove soglie.
Le amministrazioni pretendevano maggiori spazi nelle assunzioni per il ricambio generazione. Hanno prevalso le ragioni di bilancio e l'articolo 3 del Dl 90/2014, in tema di turn over, ha superato l'esame delle Camere senza grandi sconvolgimenti.
Per lo Stato, è confermato il cronoprogramma in tema di sostituzione del personale cessato: 20% nel 2014; 40% nel 2015; 60% nel 2016; 80% nel 2017 e, infine, 100% dal 2018. Sono fatte salve le normative di settore, tra le quali, in sede di conversione, sono state aggiunte le università. Stessa previsione per gli enti di ricerca, (100% del turn over dal 2018), ma diversa, rispetto allo Stato, è la graduazione nel tempo: 50% nel 2014 e nel 2015; 60% nel 2016; 80% nel 2017 e 100% dal 2018. Per tali enti, le assunzioni possono essere effettuate solo a condizione che la spesa per il personale di ruolo non superi l'80% delle entrate correnti proprie risultanti dal bilancio consuntivo dell'anno precedente.
Ma la parte del leone, nel decreto, è riservata agli enti locali soggetti al patto di stabilità. Viene confermata l'applicazione dell'articolo 1, comma 557 della legge 296/06, ma il riferimento alla spesa di personale dell'anno precedente è sostituito con la media del triennio precedente alla data di entrata in vigore della legge. Non risulta chiaro se, dal 2015, il riferimento è sempre al triennio 2011-2013 ovvero si debba procedere a scorrimento. Rimane l'aumento delle facoltà assunzionali, che passa, per il 2014 e il 2015, al 60% della spesa dei cessati dell'anno precedente. Sono abrogate, però, le norme di maggior favore previste per i settori polizia locale, istruzione pubblica e sociale. Probabilmente le due misure si pareggiano.
La percentuale di sostituzione dei cessati sale all'80% nel 2016 e 2017 e arriva al 100% nel 2018. In sede di conversione è stata inserita una norma a favore degli enti virtuosi, vale a dire dove il rapporto fra spesa di personale e spesa corrente non supera il 25 per cento. In tale ipotesi, il turn over sale all'80% già nel 2014 e diventa integrale dal 2015.
Confermata, infine, anche l'abrogazione del vincolo del 50% nel rapporto fra spesa di personale e spesa corrente, oltre al quale operava la sanzione del divieto di assunzione. Viene meno, quindi, anche l'obbligo di consolidamento della spesa di personale delle società partecipate, delle aziende speciali e delle istituzioni, per le quali resta solo un coordinamento con l'ente proprietario che porti a una riduzione del rapporto fra spesa di personale e spese correnti.
A vigilare su questi obblighi sono chiamati i revisori dei conti, che dovranno allegare alla delibera di approvazione del bilancio una relazione. In caso di omissione, il prefetto invia una segnalazione al ministero dell'interno
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014).

PUBBLICO IMPIEGOIl contratto può finire a 62 anni. Cancellato l'istituto del trattenimento in servizio una volta raggiunti i 65 anni.
Il Dl sulla Pa. Gli enti pubblici possono risolvere il rapporto con il dipendente che ha i requisiti per la pensione anticipata.
Confermate l'abrogazione del trattenimento in servizio e la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro al raggiungimento dell'anzianità contributiva richiesta per il pensionamento anticipato.

Lo prevede la legge di conversione del Dl 90/2014 approvato in via definitiva ieri dalla Camera.
Con il venir meno dell'articolo 16 del Dlgs 503/1992 (Riforma Amato) le Pa dovranno risolvere il rapporto di lavoro nei confronti dei dipendenti che, al compimento del 65esimo anno di età, hanno maturato un qualsiasi diritto a pensione senza che questi possano opporsi.
La prosecuzione del rapporto di lavoro fino ai nuovi limiti anagrafici (66 anni 3 mesi) è ammessa solo per far sì che l'interessato acquisisca la pensione qualora a 65 anni non risulti perfezionato alcun diritto.
I trattenimenti in servizio già disposti -prima del Dl 90/2014- cesseranno la loro efficacia il 31.10.2014 o fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore. Altra deroga ammessa è quella di consentire al lavoratore di permanere in servizio fino al raggiungimento dell'anzianità contributiva minima richiesta per la pensione di vecchiaia (20 anni) anche se tale requisito dovesse risultare perfezionato successivamente al compimento dell'età anagrafica prevista per la pensione di vecchiaia.
Inoltre, fino al 24.06.2014, le pubbliche amministrazioni potevano risolvere il rapporto di lavoro al raggiungimento dell'anzianità contributiva prevista per la pensione anticipata, fino al 31.12.2014. In sede di prima applicazione la norma si riferiva al triennio 2009/2011 e successivamente fu esteso al triennio 2012/2014.
Con la nuova formulazione gli enti, con decisione motivata e con riferimento alle esigenze organizzative e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, potranno risolvere il rapporto di lavoro al raggiungimento dei requisiti contributivi vigenti tempo per tempo per l'accesso alla pensione anticipata -con un preavviso di sei mesi- e comunque non prima del compimento del 62esimo anno di età, al fine di evitare l'applicazione delle penalità (1%-2%) previste sulle quote retributive di pensione.
A tal fine si ricorda che le penalità non trovano comunque applicazione fino al 2017 qualora l'anzianità contributiva considerata derivi da prestazione effettiva di lavoro, compresi i periodi di astensione obbligatoria per maternità, per l'assolvimento degli obblighi di leva, per infortunio, per malattia e di cassa integrazione guadagni ordinaria, per la donazione di sangue e per i congedi parentali di maternità e paternità previsti dal relativo testo unico, nonché per i congedi e i permessi concessi in base alla legge 104/1992.
Nei confronti del personale con diritto a pensione maturato entro il 31.12.2011, la risoluzione del rapporto di lavoro avverrà al compimento del 40esimo anno contributivo, poiché tali lavoratori non sono soggetti alle nuove norme, neppure su opzione, se non limitatamente al calcolo contributivo a decorrere dal 01.01.2012.
Salvi dalle novità il personale di magistratura nonché i professori universitari i quali continueranno ad accedere alla pensione al raggiungimento dei limiti ordinamentali previsti per le singole categorie.
Le risoluzioni unilaterali nei confronti dei responsabili di struttura complessa del Servizio sanitario nazionale avverranno al raggiungimento del 40esimo di servizio effettivo e comunque non oltre il 70esimo anno di età. I dirigenti medici e del ruolo sanitario potranno restare in servizio comunque fino al 65esimo anno di età.
Come già annunciato dal Governo, è saltata la clausola di salvaguardia che avrebbe consentito l'accesso alla pensione di anzianità a 4mila docenti che per effetto della riforma Monti-Fornero erano rimasti esclusi dalle clausole di salvaguardia, stante la specificità del settore scuola che contempla uscite obbligatorie con l'inizio dell'anno scolastico (1° settembre)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il decreto Pa incassa la fiducia. Madia: nessuna marcia indietro su «quota 96», normale dialettica i rilievi dell'Economia.
Passaggio finale senza sorprese in Aula al Senato per il decreto Pa dopo lo stralcio delle misure previdenziali che erano state introdotte alla Camera. Palazzo Madama ha votato con 160 sì e 106 no la fiducia chiesta dal Governo sul maxi-emendamento interamente sostitutivo del Dl nella versione modificata dalla commissione Affari Costituzionali.
La Commissione aveva approvato lunedì quattro emendamenti presentati dall'Esecutivo per sopprimere misure giudicate dalla Ragioneria generale dello Stato prive di copertura: la norma che avrebbe consentito a quattromila tra insegnanti e personale della scuola di andare in pensione con la "quota 96"; la norma che consentiva il pensionamento d'ufficio per primari e professori universitari che avessero raggiunto i 68 anni; la norma che toglieva le penalizzazioni in caso di pensionamento anticipato di alcune categorie e quella in favore delle vittime del terrorismo. Su richiesta della Commissione Bilancio è stata invece recuperata un'altra misura tolta a Montecitorio e che fa salva l'aspettativa dei magistrati per i quali è già in corso.
Il ministro Marianna Madia ha spiegato che il decreto rappresenta solo il primo tassello d'una riforma ben più ampia, contenuta nel disegno di legge delega trasmesso allo stesso Senato e destinata a «ribaltare il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione». Mentre su "quota 96", ha aggiunto, non c'è stata alcuna marcia indietro del Governo, visto l'annuncio del presidente del Consiglio di un provvedimento strutturale sulla scuola entro agosto che interesserà anche i precari aprendo a «nuove entrate». Nessun problema anche con il Quirinale: «La firma del Capo dello Stato -ha affermato Madia- è stata apposta sul decreto uscito dal consiglio dei ministri e i rilievi del ministero dell'Economia di queste ore sono su norme entrate nel decreto dopo una normale dialettica democratica parlamentare».
Una dialettica che ora dovrebbe chiudersi con un terzo voto di fiducia alla Camera, dopo quello di giovedì scorso sulle misure poi cancellate al Senato. «Il Mef ha voluto un braccio di ferro. Si è aperta una ferita» ha commentato con amarezza il presidente della Commissione Bilancio di Montecitorio, Francesco Boccia, che sulla questione di "quota 96" s'è confrontato con Renzi: «L'importante è che si risolva il nodo. Il provvedimento va fatto entro agosto». Il via libera definitivo al dl Pa è atteso a questo punto entro venerdì.
L'impianto del decreto, partito con 52 articoli e la previsione di 17 provvedimenti attuativi poi lievitati oltre la ventina con le modifiche dopo la prima lettura, resta incentrato sulle misure per la staffetta generazionale, con le norme che cancellano da ottobre i trattenimenti in servizio (fatte salve alcune categorie) e confermano i pensionamenti automatici per i dipendenti che hanno raggiunto i requisiti contributivi pieni. C'è poi la sperimentazione della mobilità, la semplificazione del turn over e le oltre mille assunzioni per i vigili del fuoco.
E ancora: lo stop agli incarichi per i pensionati, esteso anche alle società a controllo pubblico, e il dimezzamento dei distacchi e dei permessi sindacali. Sul fronte dei tagli il dimezzamento delle somme dovute dalle imprese alle Camere di commercio ci sarà, anzi la prospettiva è l'abolizione, ma arriverà con gradualità, solo nel 2017. Resta in piedi l'ipotesi di accorpamento delle sedi delle Authority, ma solo se non vengono rispettati i nuovi vincoli: il 70% del personale deve essere concentrato nel "quartier generale".
Infine viene allargato il campo d'azione del presidente dell'Autorità anticorruzione, ruolo oggi ricoperto da Raffaele Cantone. La sua vigilanza sui contratti d'appalto a rischio coinvolgerà pure le concessionarie e potrà proporre commissariamenti anche nei casi in cui il procedimento penale non sia stato ancora aperto
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIAGOAvvocati locali, tornano i premi per le «vittorie». Incentivi. Il correttivo.
Via libera alla possibilità di remunerare le attività degli avvocati degli enti locali, anche se, nella versione dell'articolo 9 del Dl 90/2014 approvata dalla Camera, le regole si fanno molto dettagliate e di non agile lettura.
Il legislatore, innanzitutto, distingue, sia nella tipologia sia nella procedura per l'erogazione dei compensi, gli avvocati dipendenti dalle amministrazioni elencate dall'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, dal personale dell'Avvocatura dello Stato.
Per entrambi, però, vale il principio secondo il quale i compensi professionali rientrano nel computo del limite massimo del trattamento economico annuo onnicomprensivo, parametrato a quello del primo presidente della Corte di cassazione, attualmente fissato 240mila euro al lordo degli oneri previdenziali e fiscali. Un limite, naturalmente, che interessa sul piano pratico solo gli avvocati dello Stato.
Nel contesto degli enti locali, è previsto che ai fini del riconoscimento delle somme per l'avvocatura la misura e le modalità di riparto siano definiti dai «rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva». Il meccanismo proposto, sembra essere quello di un duplice passaggio: un riconoscimento a livello contrattuale ai fini dell'inquadramento dei compensi in virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione, e una definizione specifica, in ciascun ente, contenente le concrete regole di distribuzione.
È lo stesso articolo 9 che stabilisce, però, i criteri generali del riparto a cui devono attenersi contratti e regolamenti. L'elemento di base è il rendimento individuale, da valutarsi secondo elementi oggettivamente misurabili che tengano conto anche della puntualità negli adempimenti processuali. Da questi documenti, inoltre, dovranno scaturire i criteri di assegnazione delle pratiche a seconda che si tratti di «affari consultivi o contenziosi», garantendo parità di trattamento tra i dipendenti e specializzazione professionale.
Tutto questo, si applica esclusivamente in caso di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti.
Nel caso, infatti, in cui vi sia una pronunciata compensazione integrale delle spese, oltre alla definizione tramite regolamenti e contratti, scatta anche un limite economico: non possono essere erogati compensi oltre il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013.
I contratti e i regolamenti dovranno essere adeguati entro tre mesi dalla legge di conversione del Dl 90/2014. Diversamente, a decorrere dal 01.01.2015, le amministrazioni non potranno corrispondere alcun compenso professionale ai propri avvocati
 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALISocietà, il Comune guida i tagli. Le controllate devono ridurre il personale secondo gli atti di indirizzo. Decreto Pa. Il criterio base è quello dell'alleggerimento della spesa rispetto al triennio 2011-2013.
Le società partecipate possono assumere, ma devono rispettare gli atti di indirizzo degli enti locali soci e pervenire a una graduale riduzione della percentuale tra spese di personale e spese correnti.
Le disposizioni sul personale delle amministrazioni pubbliche contenute nell'articolo 3 del Dl 90/2014, nella formulazione derivante dal disegno di legge di conversione approvato in prima lettura alla Camera, riservano importanti novità anche per il reclutamento delle risorse umane nelle partecipate, appena ridisciplinato dalla revisione dell'articolo 18, comma 2-bis, della legge n. 133/2008, operato dalla legge 89/2014.
Si stabilisce ora che le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo (ma anche le aziende speciali e le istituzioni) si attengono al principio di riduzione dei costi del personale, con il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni. Spetta all'ente controllante, con atto di indirizzo e tenendo conto delle norme che stabiliscono per esso limiti alle assunzioni, definire, per ciascuno dei soggetti partecipati, criteri e modalità di attuazione del contenimento, tenendo conto del settore di attività.
Il vincolo-chiave del rapporto tra spesa per il personale e spesa corrente inferiore al 50% per poter consentire le assunzioni, secondo quanto stabilito dall'articolo 76, comma 7, della legge 133/2008, è abrogato e sostituito dall'articolo 3 del Dl 90.
All'articolo 3, comma 5, è previsto che le amministrazioni coordinino le politiche assunzionali delle aziende speciali, delle istituzioni e delle società con partecipazione interamente pubblica o di controllo al fine di garantire anche per tali organismi una graduale riduzione della percentuale tra spese di personale e spese correnti.
Gli enti locali, nel definire gli atti di indirizzo e i vincoli per le partecipate nella riduzione graduale, hanno ora un nuovo parametro, dato dal riformulato comma 557-quater della legge 296/2006: il contenimento delle spese di personale va riferito al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della legge di conversione della norma.
Per le società partecipate, il decreto di riforma della Pa prevede anche nuove regole nella composizione dei consigli di amministrazione, modificando le norme introdotte a suo tempo dai commi 4 e 5 della legge 135/2012.
Per quelle che gestiscono servizi strumentali, il consiglio di amministrazione non può essere composto da più di tre membri e dal 2015 il costo degli amministratori deve essere ridotto all'80% di quello sostenuto nel 2013.
Per le società affidatarie di servizi pubblici, invece, il cda può essere di tre o cinque componenti al massimo, a seconda della rilevanza dell'attività: anche in tal caso, però, dal 2015 opera la riduzione dei compensi.
La nomina dei dipendenti pubblici nei consigli di amministrazione non è più obbligatoria, ma, qualora l'ente socio decida di ricorrervi, permane per i dipendenti nominati l'obbligo di riversamento dei compensi all'amministrazione di appartenenza.
Sia per le società che gestiscono servizi strumentali sia per quelle che gestiscono servizi pubblici locali le disposizioni del Dl 90 rimarcano la possibilità di procedere alla nomina di un amministratore unico.
     
  (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2014).

SEGRETARI COMUNALI: I segretari perdono il fondo ministeriale. Diritti di rogito. Effetti collaterali.
Abrogata la ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria a favore del fondo ministeriale previsto dall'articolo 42 della legge 604/1962.
L'articolo 10 del Dl 90/2014, nella versione approvata dalla Camera, sostituisce l'articolo 30, comma 2, della legge 734/1973, disponendo l'attribuzione integrale all'ente dei diritti di rogito spettanti ai segretari.
Secondo le vecchie norme, il 10% del provento andava assegnato al fondo ministeriale, mentre il 75% di quanto rimaneva competeva al segretario rogante, sino a concorrenza del terzo dello stipendio in godimento. La quota rimanente entrava nelle casse dell'ente.
I proventi del fondo erano destinati al finanziamento di corsi di preparazione e formazione, ma anche al pagamento di assegni al segretario o alla vedova o ai figli minorenni in caso di reintegrazione a seguito di assoluzione in sede di giudizio penale.
Anche l'equo indennizzo e le borse di studio a favore dei figli particolarmente meritevoli dei segretari venivano finanziate con i proventi in questione.
Dopo l'abolizione tout court dell'abrogazione dei diritti a favore dei segretari, un correttivo approvato alla Camera ha reintrodotto l'incentivo per i segretari che non hanno la qualifica dirigenziale o prestano la loro opera presso enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale. In questo caso, il diritto di rogito spettante agli ufficiali roganti non può superare l'importo di un quinto dello stipendio in godimento.
Con l'emendamento in questione, viene inoltre chiarito che le nuove disposizioni non si applicano alle quote maturate prima della data di entrata in vigore del decreto legge. E' stato infine previsto che il rogito da parte del segretario avviene esclusivamente su richiesta dell'ente locale di appartenenza
 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAVento in poppa per il Sistri. Impianti portuali fra gli obbligati al telemonitoraggio. Dal ministero dell'ambiente le istruzioni sul tracciamento dei rifiuti prodotti dalle navi.
Sono gli impianti portuali di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi, e non queste ultime, a dover garantire il monitoraggio telematico Sistri dei residui in parola, iscrivendosi al sistema ed onorando i relativi adempimenti fino all'eventuale loro trasferimento ad altra impresa esterna.
A chiarirlo sono le nuove istruzioni diramate dal Minambiente lo scorso 15.07.2014 attraverso il relativo portale internet, istruzioni che arrivano alla vigilia della conferma dell'operatività del Sistri data dal Senato con l'approvazione il successivo giorno 25 della legge di conversione del dl 91/2014 recante rilevanti norme di settore, come l'accesso diretto del Corpo forestale dello Stato al database nazionale del sistema, la stretta sugli obblighi di tracciamento per i soggetti che, avendone mera facoltà, non vi aderiscono ed ulteriori regole per le imprese agricole che vi interagiscono.
Rifiuti portuali e Sistri. Con la nuova «Guida» il dicastero effettua una ricognizione sulle regole di tracciamento da osservare nell'intera filiera di gestione dei rifiuti prodotti da navi, dalla loro raccolta ad opera degli impianti portuali fino al successivo trattamento da parte di questi ultimi e/o di eventuali impianti esterni.
Il Minambiente chiarisce innanzitutto che le imprese di navigazione non sono, in virtù degli articoli 177, comma 3, e 232 del dlgs 152/2006 («Codice ambientale») obbligate a utilizzare il Sistri per il tracciamento dei rifiuti prodotti dalle proprie navi, essendo lo stesso tutt'ora disciplinato dalle particolari regole dettate in materia dal dlgs 182/2003.
Ben diversa, sottolinea il dicastero, è la posizione degli impianti portuali di raccolta di detti residui che, rientrando tra quelli di «gestione rifiuti» autorizzati ex articolo 208 dello stesso dlgs 152/2006, soggiacciono invece alla disciplina Sistri (ndr: in relazione ai soli rifiuti speciali pericolosi, come si evince dall'attuale Codice ambientale riformulato dal dl 101/2013).
Saranno questi ultimi impianti a dover quindi iscriversi al Sistri, e in particolare: sicuramente, nella categoria «produttori/detentori» (dichiarando però nei relativi documenti di tracciamento, quali reali produttori originari dei rifiuti, le navi da cui li ricevono); eventualmente, anche nelle categorie «trasportatori» (se effettuano oltre prima movimentazione dalla nave produttrice alla loro unità produttiva, che rientra esclusivamente nella disciplina ex dlgs 182/2003, anche il successivo trasporto dal proprio impianto ad altre strutture esterne di trattamento), come «smaltitori/recuperatori» (se provvedono direttamente la trattamento dei residui), e come «intermediari» (se svolgono anche tale ulteriore attività).
Gli adempimenti operativi imposti agli stessi impianti portuali sono quelli di tracciamento previsti dal dm 52/2001 («Testo unico Sistri», recante attuazione del dlgs 152/2006), ossia: tenuta del «registro cronologico» (il corrispondente telematico dei tradizionali registri di carico e scarico rifiuti) e della «scheda di movimentazione» dei rifiuti (versione «online» del formulario di trasporto dei rifiuti). Adempimenti che devono coprire anche l'eventuale movimentazione dei rifiuti effettuata dall'impianto portuale di prima ricezione alle altre strutture esterne di accoglienza. E tale attività di trasporto «extra situ», avverte ancora il Minambiente, dovrà sempre essere condotta sotto Sistri sia che avvenga tramite mezzi di terra sia che sia condotta, ancora una volta, tramite nave (in quest'ultimo caso dovendosi applicare le particolari regole ex articolo 18, comma 6 del citato dm 52/2011). Sul punto si ritiene utile ricordare, ad avviso dello scrivente, la vigenza delle particolari regole sul trasporto intermodale dei rifiuti previste dal dm 24/04/2014, che nel rispetto di determinate e ferree condizioni permettono di effettuare il deposito tecnico dei rifiuti oggetto di trasferimento da un mezzo di trasporto ad un altro («trasbordo») in deroga all'ordinario regime autorizzatorio sullo stoccaggio ex dlgs 152/2006.
L'operatività del Sistri. In base all'attuale assetto normativo, il Sistri continua a essere obbligatorio per i seguenti soggetti: enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi (ad eccezione, a condizione che non stocchino i propri rifiuti, delle aziende agricole conferenti rifiuti a propri sistema di raccolta e le piccole strutture individuate dal citato dm 24.04.2014); enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale, di trattamento, recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi produttori di rifiuti pericolosi; operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi; comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione Campania.
Fino al 31.12.2014 è tuttavia vigente un regime transitorio che sospende l'applicazione delle (sole) sanzioni per le violazioni Sistri ma impone ai soggetti interessati dal tracciamento telematico di continuare ad osservare anche le tradizionali regole costituite da registri di carico/scarico, formulario di trasporto e dichiarazione annuale Mud.
All'appello mancano due importanti decreti ministeriali previsti dal «Codice ambientale» e provvedimenti satellite: il regolamento che avrebbe dovuto avviare in via sperimentale l'applicazione del Sistri ai gestori di rifiuti urbani pericolosi operanti sull'intero territorio nazionale; i decreti Minambiente previsti dal dl 91/2014 che entro il 24 agosto prossimo dovranno invece renderne funzionale l'interoperatività (ossia l'interazione tra il sistema informatico dello Stato ed eventuali software esterni) e provvedere alla sostituzione dei dispositivi token usb (le c.d. «chiavette» contenenti i codici di identificazione utente).
Le novità in arrivo. L'operatività del Sistri è stata confermata anche dalla legge di conversione del citato dl 91/2014 approvata dal senato in prima lettura lo scorso 25 luglio e ora all'esame della camera, provvedimento che prevede il pieno coinvolgimento del Corpo forestale dello Stato nel Sistri e nuove regole per incentivare l'utilizzo del Sistema. Sotto il primo profilo è infatti previsto che, al fine di intensificare la lotta alla gestione illecita dei rifiuti, il Minambiente provveda a disciplinare l'interconnessione della citata Forza di polizia al sistema telematico. Sotto il secondo profilo, invece, si prevede mediante la diretta modifica del «Codice ambientale» a inasprire la responsabilità per la gestione dei rifiuti da parte dei soggetti che, pur non essendo obbligati, non aderiscono volontariamente al Sistri ed a regolare nel dettaglio l'attività di tracciamento delle imprese agricole «Sistri orientate».
Viene infatti in linea generale dimezzato il termine entro cui i soggetti ammessi a effettuare raccolta e trasporto dei propri rifiuti in deroga alle regole abilitative ordinarie devono denunciare la mancata ricezione della copia del formulario di trasporto in caso di spedizione dei rifiuti a impianti oltreconfine per essere esentati (salvo di concorso nel reato) dall'eventuale illecita gestione altrui. Ancora, la legge specifica le modalità alternative di tenuta dei registri di carico/scarico da parte degli imprenditori agricoli che, non essendovi obbligati, non aderiscono volontariamente al Sistri. Per questi, la tenuta dei registri di carico/scarico effettuata tramite la conservazione delle «schede Sistri» loro inoltrate dal destinatario dei rifiuti dovrà avvenire conservandone il «formato fotografico digitale».
La nuova direttiva. A spingere verso l'informatizzazione dei dati relativi ai rifiuti sembra essere anche l'Unione europea, che nello schema di nuova direttiva sui rifiuti presentata lo scorso 02.07.2014 sottolinea come sia «necessario potenziare la registrazione dei dati e i meccanismi di tracciabilità tramite l'introduzione di registri informatici dei rifiuti pericolosi negli Stati membri»
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.08.2014).

EDILIZIA PRIVATAPatente energetica affievolita. In mancanza, non è più prevista nullità della vendita. Con uno studio il Notariato riepiloga le regole vigenti in materia di certificazione.
Non è più prevista la nullità dell'atto, quale sanzione per la violazione dell'obbligo di allegazione dell'attestato di prestazione energetica: la sanzione della nullità è stata eliminata con decorrenza dalla data di entrata in vigore del dl 145/2013, ossia a partire dal 24.12.2013.
Lo ha sottolineato il Consiglio nazionale del notariato che con lo
studio 19-20.06.2014 n. 657-2013/C è tornato sul tema della certificazione energetica alla luce del dl 23.12.2013 n. 145, convertito, con modificazioni, con legge 21.02.2014 n. 9.
I notai hanno ribadito che l'attestato di prestazione energetica ha sostituito, a far data dal 6 giugno 2013, il precedente attestato di certificazione energetica, la cui disciplina è stata introdotta a seguito delle modifiche al dlgs 192/2005 apportate dal dl 63/2013, a sua volta modificato dal dl 145/2013.
Vendite e non solo
Nello studio si sostiene la tesi a favore dell'estensibilità a tutti gli atti traslativi a titolo oneroso della disciplina in materia di certificazione energetica, motivandola schematicamente con le seguenti argomentazioni:
1. una limitazione dell'applicabilità delle prescrizioni in materia di certificazione energetica al solo atto di vendita appare poco coerente con quelli che sono gli scopi che si intendono perseguire;
2. sicuramente se ne deve ammettere l'applicazione all'atto di permuta, quanto meno argomentando ex art. 1555 c.c. (le norme stabilite per la vendita si applicano alla permuta, in quanto con questa compatibili);
3. il legislatore ha, in realtà, utilizzato il medesimo termine («vendita») che si rinviene nella direttiva comunitaria 2010/31/Ue. Ma si può fondatamente ritenere, in relazione a quella che è la «ratio» della normativa in commento, che, sia nell'uno (direttiva) che nell'altro caso (legge attuativa), il termine «vendita» sia stato utilizzato in senso lato, quale sinonimo di «alienazione», comprensivo, pertanto, di ogni atto traslativo a titolo oneroso.
È quindi opportuno, secondo il Notariato, procedere, in via prudenziale, alla dotazione dell'attestato di prestazione energetica in occasione della stipula di tutti gli atti inter vivos comportanti il trasferimento, a titolo «oneroso» di edifici.
Atti a titolo gratuito
Con il dl 145/2013, da un lato, sono stati espressamente assoggettati all'obbligo di allegazione «gli atti di trasferimento a titolo oneroso» mentre, dall'altro, sono stati esclusi dall'obbligo di allegazione gli atti traslativi a titolo gratuito (non più contemplati nel comma 3, art. 6, dlgs 192/2005, così come riscritto per l'appunto dal dl 145/2013).
Obbligo di dotazione
È stato inoltre precisato dai notai che l'obbligo di dotazione sussiste ogni qualvolta vi sia l'obbligo di allegazione, in quanto il primo è funzionale al secondo; non è vera, invece, l'affermazione contraria.
Validità
Un eventuale errore materiale nella trascrizione di uno dei dati identificativi dell'immobile (dato catastale, generalità del proprietario, indirizzo dell'immobile) non inficia la validità dell'attestato energetico, qualora, sulla base degli altri dati, sia, comunque possibile riferire, con sufficiente certezza, l'attestato stesso all'immobile negoziato (salvo quanto previsto in eventuali disposizioni delle leggi regionali che facciano dipendere la validità dell'attestato dall'esatta esposizione dell'identificativo catastale)
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.08.2014).

CONDOMINIOIl cavedio è sempre comune. Immobili. La proprietà non può essere rivendicata da un condomino.
La funzione di dare aria e luce agli appartamenti fa del cavedio un bene comune del condominio, al pari del cortile. E il proprietario del singolo immobile non può rivendicare una servitù sul piccolo cortile anche se a questo si accede solo dalla sua casa.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 17556/2014, respinge il ricorso di un condomino che rivendicava il diritto ad un uso esclusivo di un cavedio -un cortile di piccolissime dimensioni chiamato anche chiostrina, vanello o pozzo luce- che, nel caso esaminato, era diventato anche pomo della discordia.
Per la proprietaria dell'appartamento il giudice di primo grado non aveva dato il giusto peso ad una serie di elementi che provavano che l'area calpestabile del pozzo luce era posta al servizio esclusivo del suo immobile situato al pianterreno. Deponevano per l'uso "privato" la presenza di un lavatoio, uno scaldabagno e di un impianto di illuminazione tutti collegati, tramite gli impianti idrici ed elettrici, solo con l'appartamento del pianoterra.
Anche la "storia" della nascita del pozzo luce provava la proprietà privata. Il cortiletto era, infatti, stato ricavato da un vano centrale dell'appartamento dell'odierna ricorrente nel lontano 1966 per effetto di una sopraelevazione -fatta per realizzare gli appartamenti del primo e del secondo piano- con la quale era stato eliminato il soffitto del locale centrale per creare il pozzo luce.
Una evoluzione dell'edilizia che avrebbe dovuto indurre i giudici ad affermare l'esistenza di una servitù.
Ma la "genesi" del cavedio non convince la Suprema corte che conferma la natura condominiale della chiostrina. Il piccolo cortile «circoscritto dai muri perimetrali e dalle fondamenta dell'edificio comune - essendo destinato prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari, è sottoposto al medesimo regime giuridico del cortile, espressamente contemplato dall'articolo 1117 n. 1 del codice civile tra i beni comuni, salvo titolo contrario».
Un titolo contrario che la Corte non ha trovato. Sul punto non c'era alcuna indicazione sull'atto costitutivo del condominio, predisposto in coincidenza con il trasferimento di un immobile che faceva parte dell'edificio dall'originario unico proprietario a un altro soggetto. Né la presunzione di proprietà comune può essere scalfita dall'accesso al bene da un solo appartamento e dalla collocazione di lavatoi e scaldabagni.
Neppure la sopraelevazione giova alla causa della ricorrente perché opera di un solo proprietario. E qui la Cassazione per negare la servitù fa ricorso al latino ricordando che «nemini res sua servit»: nessuno può asservire una cosa propria. Che però con la vendita era diventata proprietà comune
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., la riforma si fa più dolce. Attenuata la stretta sulle Cciaa. Mobilità obbligatoria soft. Dalla camera ok al dl che punta sul ricambio generazionale per creare 15 mila nuovi assunti.
Decreto p.a. al primo giro di boa. Grazie al voto di fiducia, la riforma Madia ha tagliato il traguardo della prima approvazione parlamentare, incassando l'ok della camera con 286 sì, 132 no e due astenuti. Sarà ora il senato (impegnato sulla riforma costituzionale che si sta rivelando un campo minato per il governo Renzi) a decidere se lasciare inalterato il testo o modificarlo, costringendo Montecitorio a una nuova approvazione entro il 23 agosto.
Il decreto legge (n. 90/2014) prende le mosse dai 44 punti di riforma su cui Renzi ha avviato una consultazione pubblica a fine aprile. La parola d'ordine è svecchiare la p.a. attraverso l'incremento del turnover e l'abolizione dell'istituto del trattenimento in servizio che secondo l'esecutivo dovrebbe creare 15.000 nuovi ingressi nel pubblico impiego. Numeri che però il sindacato è tornato anche ieri a contestare, ritenendo che la platea di beneficiari riguardi a conti fatti «600 dipendenti, magistrati esclusi».
«Con 400 mila posti di lavoro già persi in 10 anni e una previsione di pensionamento per altri 250 mila nei prossimi 5, i nuovi ingressi non supereranno i 150 mila da qui al 2019. Risultato: 100 mila lavoratori in meno», hanno scritto in un comunicato congiunto Cgil, Cisl e Uil. Nel passaggio alla camera il decreto è stato significativamente modificato, con alcune correzioni in corsa come, per esempio, la rimodulazione del taglio dei diritti pagati dalle imprese alle camere di commercio (che doveva essere dimezzato dal 2015 e invece sarà ridotto del 35% l'anno prossimo, del 40% nel 2016 e del 50% solo nel 2017).
Altri parziali dietrofront hanno riguardato la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro per i prof universitari e i medici primari (che non scatterà a 62 anni, ma a 68) e la mobilità obbligatoria entro 50 km (da cui saranno esonerati i dipendenti con figli sotto i tre anni). Tra le novità, la soppressione dell'Authority lavori pubblici e dei Tar di Parma, Pescara e Latina
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014).

ENTI LOCALI - VARIValide le multe fuori servizio. VIGILI/Lo dice il Tribunale di Parma.
Il vigile che è fuori servizio è legittimato a contestare le violazioni del codice della strada. Infatti, per lo svolgimento dell'attività di polizia stradale non si applica alla polizia locale il vincolo temporale di servizio, previsto dall'art. 57 del codice di procedura penale.

Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Parma con una sentenza 29.07.2014.
Un agente di polizia municipale del Comune di Parma aveva accertato e contestato, in abiti civili e fuori dal servizio, che un veicolo aveva violato gli artt. 141 e 143 del codice della strada, in quanto procedeva con una velocità pericolosa invadendo la corsia di marcia opposta. Il giudice di Parma, però, in seguito al ricorso del trasgressore, aveva successivamente annullato il verbale, sostenendo che la violazione non poteva essere contestata dall'agente che al momento dell'accertamento non fosse in servizio.
Tuttavia, con il successivo appello, il tribunale di Parma ha ribaltato la decisione del giudice di primo grado. La legge n. 65 del 07.03.1986 dispone che il personale che svolge servizio di polizia municipale esercita, nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, servizio di polizia stradale, oltre alle funzioni di polizia giudiziaria e alle funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza. Dunque, per contestare un illecito stradale, la legge quadro n. 65/1986 sull'ordinamento della polizia municipale richiede che l'agente si trovi nel territorio di competenza.
Non è invece richiesto che il vigile sia in servizio al momento dell'accertamento. L'essere in servizio è una condizione richiesta dall'art. 57, comma 3, del codice di procedura penale, affinché gli agenti e ufficiali di polizia municipale siano anche agenti e ufficiali di polizia giudiziaria. Ma, come chiarito dalla sentenza del 29.07.2014 del Tribunale di Parma, tale vincolo sussiste solo per l'attività di polizia giudiziaria diretta all'accertamento dei fatti di reato
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014).

APPALTIP.a., fatture elettroniche in scioltezza.
La fatturazione elettronica verso la p.a. procede senza intoppi tecnici. Nella sola prima metà di luglio il sistema di interscambio (Sdi) ha ricevuto e gestito circa 77 mila fatture, di cui il 71% è stato inoltrato agli enti interessati. Solo il 29%, pari a 22.475, è stato scartato dal software per motivazioni concernenti errori formali nella formazione dei file.

È quanto ha spiegato ieri il sottosegretario all'economia, Enrico Zanetti, rispondendo davanti alla commissione finanze della camera a un'interrogazione presentata da alcuni deputati del Movimento 5 Stelle. A partire dal 6 giugno scorso, infatti, è scattato l'obbligo di fatturazione elettronica per le imprese e i professionisti che cedono beni o prestano servizi a ministeri, agenzie fiscali ed enti nazionali di previdenza e di assistenza sociale. Il quesito, che vedeva come primo firmatario Sebastiano Barbanti, evidenziava malfunzionamenti nel Sdi, l'infrastruttura telematica attraverso la quale viaggiano le fatture digitali.
In particolare, rilevavano i deputati istanti, vi sarebbero difficoltà tecniche per gli uffici periferici di procure e tribunali nel rilascio all'emittente della ricevuta di consegna della fattura elettronica trasmessa. Con l'effetto di bloccare i pagamenti dei fornitori. Una problematica che però non sussiste, secondo l'esecutivo. Il Sdi, gestito dall'Agenzia delle entrate in collaborazione con Sogei, risulta infatti «operativo e perfettamente funzionante», rileva Zanetti, «come testimoniato dai dati ricavati dai sistemi informatici e regolarmente pubblicati sul sito www.fatturapa.gov.it».
Con specifico riferimento al caso segnalato, riguardante la procura generale di Bologna, il Sdi «ha trasmesso sia le fatture all'ufficio destinatario che le relative notifiche di consegna agli operatori economici mittenti», osserva il sottosegretario. Nessuna difficoltà tecnica, quindi. Nel periodo 6 giugno-19.07.2014 le fatture trasmesse a uffici del ministero della giustizia sono state 7.623: di queste 6.720 sono state regolarmente consegnate e 903 (pari al 12%) scartate dal sistema per errori formali
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014).

APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riforma p.a., gli enti sorridono. Più turnover e assunzioni flessibili. Slitta la centrale unica. Tutte le novità per le autonomie contenute nel dl 90. Proroga per le gestioni associate.
Un profondo restyling in materia di personale, oltre alla consueta dose di proroghe. Possono essere riassunti in questi termini i contenuti del dl 90/2014 (approvato ieri dall'aula della camera) limitatamente agli enti locali. Il capitolo, già abbastanza ricco nella prima stesura del provvedimento, si è ulteriormente arricchito dopo il passaggio parlamentare.
La novità più attesa è certamente la proroga dell'obbligo per i comuni non capoluogo di ricorrere a una centrale unica per gli acquisiti. Ora sono previste due nuove scadenze: 01.01.2015 per i beni e i servizi, 01.07.2015 per i lavori. È stata quindi recepita l'intesa sancita nei giorni scorsi in conferenza stato-città e autonomie locali, in modo da ovviare alle obiezioni dell'Autorità nazionale anticorruzione.
Parzialmente reintrodotte anche le deroghe per gli acquisti di modesto valore, ma solo per i comuni con più di 10.000 abitanti, che potranno fare da sé per importi inferiori a 40.000 euro. Poiché una proroga tira l'altra, è arrivato anche l'ennesimo rinvio dei termini per l'avvio delle gestioni associate dei piccoli comuni, che avranno tempo fino al 30 settembre per conferire a unioni e convenzioni altre tre funzioni fondamentali (rimane fermo il termine del 31.12.2014 per le restanti tre funzioni).
Per gli enti soggetti al Patto, il limite al turnover dei dipendenti a tempo indeterminato viene innalzato, dall'attuale 40%, al 60% per gli anni 2014-2015, all'80% per il biennio 2016-2017, per arrivare al 100% nel 2018. Negli enti dove la spesa di personale non supera il 25% della spesa corrente, il turnover sale all'80% quest'anno e al 100% dal 2015.
Spariscono, però, i regimi agevolati per le assunzioni nell'istruzione, nei servizi sociali e nella polizia locale. Agli enti in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di personale, inoltre, non si applica più il limite del 50% sulle assunzioni con contratti flessibili. Reintrodotti anche se solo parzialmente, gli incentivi per la progettazione e i diritti di rogito per i segretari
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODECRETO P.A./ Province, mobilità privilegiata. Agevolato il passaggio dei lavoratori agli enti subentranti. Il fondo di sostegno favorirà anche i trasferimenti verso gli uffici giudiziari.
Percorso privilegiato per la mobilità dei dipendenti delle province. Tra i vari ritocchi apportati dalla camera al dl 90/2014, spicca la previsione secondo la quale le risorse del fondo di sostegno ai processi di mobilità sono, in sede di prima applicazione, destinate, oltre che agli uffici giudiziari, anche alla «piena applicazione della riforma delle province di cui alla legge 07.04.2014, n. 56».
Insomma, la legge di conversione indica di utilizzare in via prioritaria le risorse del fondo non solo per agevolare i trasferimenti dei dipendenti pubblici verso gli uffici giudiziari, ma anche per agevolare i futuri processi di mobilità dalle province verso gli enti che subentreranno loro nell'esercizio delle funzioni.
Per la verità, di questa disposizione non c'era affatto bisogno. Infatti, l'articolo 1, comma 96, lettera a), della legge 56/2014 prevede che «il personale trasferito mantiene la posizione giuridica ed economica, con riferimento alle voci del trattamento economico fondamentale e accessorio, in godimento all'atto del trasferimento, nonché l'anzianità di servizio maturata; le corrispondenti risorse sono trasferite all'ente destinatario; in particolare, quelle destinate a finanziare le voci fisse e variabili del trattamento accessorio, nonché la progressione economica orizzontale, secondo quanto previsto dalle disposizioni contrattuali vigenti, vanno a costituire specifici fondi, destinati esclusivamente al personale trasferito, nell'ambito dei più generali fondi delle risorse decentrate del personale delle categorie e dirigenziale».
Dunque, la legge Delrio già contiene lo strumento per assicurare all'ente di destinazione il finanziamento della spesa per il personale proveniente dalle province.
Sulla mobilità obbligatoria, il testo della legge di conversione chiarisce meglio che nell'ambito della medesima amministrazione i dipendenti possono essere trasferiti da una sede all'altra, purché nel raggio di 50 chilometri. Allo scopo, non sarà necessaria alcuna specifica motivazione. Infatti, si esclude di applicare l'articolo 2013, comma 1, terzo periodo, del codice civile, a mente del quale il lavoratore «non può essere trasferito da una unità produttiva a un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive».
La mobilità obbligatoria svincolata dall'obbligo di motivazione ed entro il raggio dei 50 chilometri potrà avvenire anche tra amministrazioni pubbliche diverse, previo accordo tra loro.
Per il decreto del ministro della funzione pubblica finalizzato a determinare i casi in cui la mobilità obbligatoria possa avvenire tra amministrazioni diverse anche senza un preventivo accordo tra loro, la legge di conversione introduce una preventiva consultazione con le confederazioni sindacali rappresentative.
I dipendenti pubblici con figli di età inferiore a tre anni, che hanno diritto al congedo parentale, e i soggetti di cui all'articolo che godano dei congedi previsti dall'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 possono essere oggetto della mobilità obbligatoria solo se prestano consenso espresso al trasferimento di sede.
Per quanto concerne la mobilità volontaria, la legge di conversione stabilisce che i bandi con i quali le amministrazioni debbono avviare le procedure dovranno indicare anche i requisiti e le competenze professionali richieste, allo scopo di effettuare una più corretta selezione tra i dipendenti che si candidano ai trasferimenti
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014).

SEGRETARI COMUNALISegretari, diritti di rogito a forfait e solo per i non dirigenti.
Torna la compartecipazione ai diritti di rogito in misura forfetizzata e solo per i segretari comunali non aventi qualifica dirigenziale.
Il testo della legge di conversione del decreto sulla riforma della p.a. corregge parzialmente il tiro sui segretari comunali, chiarendo il diritto transitorio dell'eliminazione della compartecipazione ai diritti di rogito, ripristinandoli solo in parte.
Diritto transitorio. L'articolo 10 del dl 90/2014 era scritto in modo oscuro e non si riusciva a comprendere se l'abolizione dell'attribuzione ai segretari comunali di quota parte dei diritti di rogito fosse operante sin dal primo gennaio, o valesse solo per il futuro (come, invece, espressamente stabilito per le avvocature).
Già molti enti avevano congelato i provvedimenti di attribuzione delle compartecipazioni ai segretari comunali per il secondo trimestre, mentre si era posto il problema del recupero delle somme già liquidate.
Il nuovo testo, a chiarimento della fattispecie ed in obbedienza al principio di irretroattività delle leggi, stabilisce che le norme dell'articolo 10 del dl 90/2014 «non si applicano per le quote già maturate alla data di entrata in vigore del presente decreto».
A chi spetta la compartecipazione. Gli emendamenti alla legge di conversione confermano l'eliminazione della vecchia normativa sulla compartecipazione dei segretari ai proventi per diritti di rogito.
Tale cancellazione è totale per i segretari aventi qualifica dirigenziale. Invece, negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a beneficio di tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, si stabilisce che una quota del provento annuale spettante al comune, per diritti di segreteria vada attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
Sono coinvolti nell'eliminazione della compartecipazione ai diritti di rogito anche i segretari comunali operanti presso enti nei quali sia presente la qualifica dirigenziale, probabilmente in virtù della clausola di «galleggiamento», che fa comunque ascendere la loro retribuzione a quella del livello più elevato presso l'ente. Curiosamente, invece di eliminare la clausola del «galleggiamento», considerata a più riprese illegittima dalla giurisprudenza, si agisce su una «onnicomprensività» del trattamento economico dei segretari, parificato a quella della dirigenza, costruita appunto su una norma discutibilissima, come quella sul galleggiamento.
Funzione rogante. Molti segretari comunali hanno ritenuto che l'articolo 10 del dl 90/2014 li avesse, nella sostanza, sollevati dalla funzione rogante, pur prevista dall'articolo 97, comma 4, lettera c), del Tuel. La conseguenza è stata che già molti comuni hanno iniziato a rivolgersi ai notai, con evidente aggravio di costi e di gestione amministrativa.
Il legislatore intende scongiurare queste inefficienze, correggendo proprio il testo dell'articolo 97, comma 4, lettera c), del dlgs 267/2000 sostituendo le parole: «può rogare tutti i contratti nei quali l'ente è parte ed autenticare» con: «roga, su richiesta dell'ente, i contratti nei quali l'ente è parte e autentica».
Pertanto, a richiesta dell'ente, richiesta che può provenire dal sindaco o anche dalla parte stipulante (il funzionario chiamato alla gestione), i segretari comunali non potranno sottrarsi al dovere di rogitare i contratti, anche se non percepiranno alcuno specifico compenso per l'attività
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014).

APPALTICommesse pubbliche meno ingessate dopo la riforma delle Ati.
Con la legge n. 80/2014 di conversione del dl n. 47/2014, recante «Misure urgenti per l'emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015», che ha modificato l'art. 92, comma 2, del dpr n. 207/2010, il legislatore è finalmente intervenuto nell'annosa questione relativa al rapporto sussistente tra riparto percentuale tra le prestazioni relative all'esecuzione di appalti pubblici di lavori e quota di partecipazione delle imprese esecutrici al raggruppamento temporaneo.
La norma, in particolare, dispone, anche tramite l'abrogazione del comma 13 dell'art. 37 del dlgs n. 163/2006, che in sede di partecipazione, ad appalti di lavori, mediante costituzione di raggruppamenti di imprese di natura orizzontale, i concorrenti possano liberamente indicare quote di partecipazione al raggruppamento senza che fra queste e requisiti dichiarati vi sia una diretta corrispondenza.
Parimenti, la norma prevede che, nel corso di esecuzione di un appalto di lavori, le quote di partecipazione ad un raggruppamento temporaneo di imprese possono essere liberamente modificate, con il solo limite dei requisiti posseduti.
Al riguardo delle modifiche introdotte giova precisare, innanzitutto, che i riferimenti operano ed hanno valore solo in caso di Ati orizzontali, poiché, come evidente, diverso è il caso di Ati verticali. E infatti se nell'ipotesi di Ati orizzontali la novità prende atto di circostanze ordinarie, che possono condurre a modifiche «quantitative» della quota di esecuzione lavori ripartita fra le imprese originariamente raggruppate, nel caso di Ati verticali l'applicazione dello stesso precetto comporterebbe non solo una modifica quantitativa, ma una vera e propria modifica «qualitativa» tra le attività originariamente riservate ai distinti membri del raggruppamento.
Infatti, se, in astratto, ritenessimo applicabile la previsione anche in caso di Ati verticali, operatori non qualificati in una data categoria e classe Soa potrebbero (sempre che in possesso delle qualificazioni necessarie) essere ammessi a svolgere lavorazioni che viceversa, all'inizio, in sede di gara, non avevano dichiarato di voler svolgere e in ordine alle capacità/requisiti per svolgere le quali non vi era stata alcuna valutazione da parte della stazione appaltante.
È evidente, dunque, che la ratio è quella, da un lato, di consentire -nella fase intercorrente tra offerta e avvio dei lavori ovvero in corso di esecuzione dei lavori- quelle ordinarie modifiche alle Ati che, non ammesse nel quadro previgente, rischiavano di «ingessare» eccessivamente il sistema delle commesse pubbliche.
Sotto altro profilo, tuttavia, la novità normativa non può riguardare i casi in cui, come nell'ipotesi di Ati verticali, sarebbe necessaria e doverosa, in ordine al possesso dei requisiti non già dichiarati in fase di gara, una verifica approfondita da parte della stazione appaltante.
In tale contesto sorge, peraltro, spontanea la domanda se la ripartizione dei lavori possa determinare anche una connessa modificazione del soggetto mandatario; se cioè l'assumere maggiori percentuali di lavori comporti/possa comportare (o addirittura debba comportare) in re ipsa o comunque previa autorizzazione, una modificazione nel raggruppamento nel senso indicato.
A tale riguardo tuttavia, la norma non precisa detta evenienza, ancorché non pare escluderla. Circostanza che imporrà una risoluzione giurisprudenziale. In ogni caso è forse anche per tale ragione, e soprattutto per questioni connesse alle conseguenti responsabilità dei soggetti mandanti (che nella verticale sono circoscritte alle sole attività svolte e nell'orizzontale sono solidali), che l'opzione non è stata prevista per le Ati verticali. In ragione del rilievo di tali novità normative occorre, tra l'altro, verificare se le stesse possono trovare attuazione anche in caso di appalti di servizi e forniture.
La questione non è risolta per tabulas poiché non vi è analoga previsione normativa.
E' tuttavia indubbio che valore importante assume l'abrogazione del citato comma 13 dell'art. 37 del Codice dei contratti. E infatti, da un lato, la mancanza di una norma che imponga la corrispondenza tra quote di partecipazione al raggruppamento e prestazioni e, dall'altro, il rinvio al Bando operato dall'art. 275 del dpr n. 207/2010 e s.m.i., fanno ritenere che, ad oggi, anche nel settore dei servizi e delle forniture, si possa ritenere valevole, anche in assenza di una puntuale disposizione normativa vigente al riguardo, la facoltà di modificabilità dell'Ati in corso di esecuzione dell'appalto.
Resta inteso tuttavia che, l'assenza di qualificazioni Soa, rende necessario, nel caso di servizi e forniture, una più puntuale disciplina in argomento del Bando e comunque una più attenta valutazione da parte delle stazioni appaltanti nel riconoscere, ammettere e disciplinare suddetta facoltà
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2014).

EDILIZIA PRIVATASblocca-Italia, cantieri per 43 miliardi e liberalizzazione dei lavori in casa.
Non solo rilancio delle infrastrutture ma anche liberalizzazione totale dei lavori in casa, stabilizzazione dell'ecobonus del 65% per il risparmio energetico, rilancio della riqualificazione urbana e di siti industriali «modello Bagnoli», anche con la previsione di aree free tax, regolamento edilizio standard per tutti gli 8mila comuni, piani per la banda larga e per l'efficienza energetica degli edifici pubblici alimentati con fondi Ue. Un malloppo di quasi 500 pagine di misure fitte fitte che è rimasto, però, fuori della porta del Consiglio dei ministri.

Per lo sblocca-Italia fortemente voluto dal premier ieri c'è stato un primo giro di tavolo in Cdm per illustrare le linee-guida e i capitoli principali che dovrebbero prendere la forma di un paio di provvedimenti (un decreto legge e un disegno di legge) e vedere la luce nel primo Consiglio dopo la pausa estiva, a fine agosto.
Renzi -che dovrebbe illustrare il pacchetto oggi per avviare una forma di consultazione pubblica- ha confermato l'obiettivo principale di rilanciare cantieri per 43 miliardi di cui oltre 30 nel triennio 2015-2017. È passata la linea di un fondo infrastrutture che ogni anno sia alimentato con lo 0,3% del Pil (5,4 miliardi l'anno), mentre due miliardi l'anno arriverebbero dal Fondo sviluppo coesione. Per il resto fondi Ue, Bei, anche fondi pensione. Si viaggerebbe a una velocità di 11-12 miliardi l'anno.
Il governo vuole individuare una trentina di grandi opere prioritarie per dare corpo alla riforma della legge obiettivo. Si tratterà di opere prevalentemente comprese nei corridoi europei. In cima alla lista ci saranno due opere ferroviarie: la Napoli-Bari per cui il governo pretende che l'apertura dei cantieri avvenga nel 2015 e non nel 2018 come previsto ora e l'alta velocità Brescia-Verona-Padova per cui sono previsti circa 2,5-3 miliardi di finanziamenti. A confermare l'urgenza e la priorità delle due opere, saranno nominati altrettanti commissari di governo incaricati, con adeguati poteri sostitutivi, di superare i colli di bottiglia progettuali e autorizzativi attuali. Nell'elenco delle priorità ci saranno comunque tutte le principale opere "europee", dal Brennero al terzo valico alla Torino-Lione.
Ma il messaggio più forte che il premier vuole mandare con le linee-guida dello sblocca-Italia è una robusta semplificazione nel settore edilizio. Poteri sostitutivi in caso di paralisi amministrativa, silenzio-assenso certificato dagli sportelli edilizi, contenimento dei poteri di autotutela dell'amministrazione (anche nei casi di Dia e Scia), regolamento edilizio standard unico per tutti gli 8mila comuni e soprattutto liberalizzazione integrale per i lavori in casa. Una novità dovrebbe arrivare, per esempio, sui mutamenti di destinazione d'uso che oggi sono per lo più regolati da leggi regionali: una norma nazionale che li liberalizzasse pienamente supererebbe lo spezzatino regionale e la diversità di regime da zona a zona.
Un capitolo pesante dovrebbe riguardare la riqualificazione urbana con una particolare attenzione ai siti industriali. Il governo ha in mente forme di sperimentazione su pochi casi scelti, con un rilancio, in positivo, del «modello Bagnoli»: non è chiaro se il rilancio riguarderebbe anche lo strumento delle società di trasformazione urbana (Stu). Quel che invece sarebbe un perno dell'intervento è un commissario di governo che svolga le funzioni di coordinamento e di accelerazione dell'iter amministrativo d'intesa con gli enti locali interessati. Una sorta di cabina di regìa alla francese che potrebbe decidere anche interventi in deroga agli strumenti urbanistici sulla base di un piano condiviso. Si punta anche a rilanciare le free tax zone per accrescere la convenienza alle nuove localizzazioni.
Tutto da verificare il capitolo sulle sovrintendenze per cui Renzi vorrebbe una razionalizzazione degli interventi e dei pareri. Anche in questo caso, Palazzo Chigi potrebbe assumere poteri sostitutivi di fronte a conflitti fra più ministeri o fra più amministrazioni, ma l'obiettivo sarebbe soprattutto quello di ridurre le ridondanze dei pareri delle sovrintendenze, evitando che si ripeta più volte un parere su aree che già lo abbiano avuto. In questo modo il premier vorrebbe eliminare una quota consistente di sovrapposizioni e reiterazioni
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una veranda su un balcone, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto comportante un incremento dei volumi e, di conseguenza, è richiesta la concessione edilizia (oggi permesso di costruire; restando escluso che l'intervento possa qualificarsi come manutenzione straordinaria ovvero risanamento conservativo, ovvero pertinenza dell'immobile principale).
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Quanto alla tesi dei ricorrenti secondo cui la veranda in questione non rientrerebbe fra le predette opere in quanto amovibile secondo stagione, osserva il Collegio che la Giurisprudenza distingue fra precarietà dell'opera ed opera stagionale, in quanto si può definire temporanea e precaria quella struttura che, per la sua oggettiva funzione, reca in sé visibili i caratteri della durata limitata in un ragionevole lasso temporale, a nulla rilevando la destinazione intenzionale del proprietario o la solo potenziale futura amovibilità.
Quindi, ciò che rende "stabile" un manufatto non è il materiale o la tecnica costruttiva che non ne consente il futuro smontaggio, bensì la funzione che lo stesso assolve, e affinché una struttura sia qualificata come precaria è necessario che la stessa sia destinata ad un uso specifico e temporalmente delimitato, mentre la stagionalità, se associata ad uno stabile aumento di volumetria come nel caso in esame, non esclude e, anzi, postula il soddisfacimento di interessi non occasionali e stabili nel tempo, a maggior ragione nel caso in esame, dove la struttura, peraltro mai rimossa, appare "vecchia e fatiscente" evidenziando come la stessa non assolva a funzioni temporanee bensì ad un bisogno perdurante nel tempo.

Per costante giurisprudenza, la realizzazione di una veranda su un balcone, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto comportante un incremento dei volumi e, di conseguenza, è richiesta la concessione edilizia (oggi permesso di costruire; restando escluso che l'intervento possa qualificarsi come manutenzione straordinaria ovvero risanamento conservativo, ovvero pertinenza dell'immobile principale) (da ultimo, Cons. Stato - Sez. VI n. 17/2014 che conferma TAR Lazio - Sez. I-quater n. 7807/2012).
Quanto alla tesi dei ricorrenti secondo cui la veranda in questione non rientrerebbe fra le predette opere in quanto amovibile secondo stagione, osserva il Collegio che la Giurisprudenza (fra le altre C.d.S., sez. VI, sent. n. 986/2011) distingue fra precarietà dell'opera ed opera stagionale, in quanto si può definire temporanea e precaria quella struttura che, per la sua oggettiva funzione, reca in sé visibili i caratteri della durata limitata in un ragionevole lasso temporale, a nulla rilevando la destinazione intenzionale del proprietario o la solo potenziale futura amovibilità.
Quindi, ciò che rende "stabile" un manufatto non è il materiale o la tecnica costruttiva che non ne consente il futuro smontaggio, bensì la funzione che lo stesso assolve, e affinché una struttura sia qualificata come precaria è necessario che la stessa sia destinata ad un uso specifico e temporalmente delimitato, mentre la stagionalità, se associata ad uno stabile aumento di volumetria come nel caso in esame, non esclude e, anzi, postula il soddisfacimento di interessi non occasionali e stabili nel tempo, a maggior ragione nel caso in esame, dove la struttura, peraltro mai rimossa, appare "vecchia e fatiscente" evidenziando come la stessa non assolva a funzioni temporanee bensì ad un bisogno perdurante nel tempo.
Infine, l'allegazione di parte ricorrente secondo cui l'opera era già esistente all'epoca dell'acquisto dell'appartamento da parte del dante causa dei ricorrenti, e probabilmente realizzata dal costruttore dell'edificio, non la esime dall’obbligo di demolizione dell'abuso ma la fa salva dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione, ove sia impossibilitata ad eseguire (cfr. TAR Campania sent. n. 873 del 13.02.2013) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 08.08.2014 n. 8886 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ai sensi dell'art. 18 della L. 47/1985 si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
Pertanto, l'art. 18 della legge n. 47/1985, sostanzialmente riprodotto dall'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 disciplina due differenti ipotesi di lottizzazione abusiva, ossia la prima (c.d. materiale), relativa all'inizio della realizzazione di opere che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi statali o regionali, sia in assenza della prescritta autorizzazione; la seconda (c.d. formale), che si verifica allorquando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne siano già realizzati i presupposti con il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per le specifiche caratteristiche, quali la dimensione dei lotti stessi, la natura del terreno, la destinazione urbanistica, l' ubicazione e la previsione di opere urbanistiche. e per gli altri elementi riferiti agli acquirenti. evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio, creando così una variazione in senso accrescitivo tanto del numero dei lotti quanto di quello dei soggetti titolari del diritto sul bene.
Occorre quindi la sussistenza di elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l'intento di asservire all'edificazione un'area non urbanizzata, mediante un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti, giustificandosi l'adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci sopraddetti.

A giudizio del Collegio il ricorso non è fondato e deve essere respinto: ai sensi dell'art. 18 della L. 47/1985 si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio, osserva il Collegio, quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
Pertanto, l'art. 18 della legge n. 47/1985, sostanzialmente riprodotto dall'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 disciplina due differenti ipotesi di lottizzazione abusiva, ossia la prima (c.d. materiale), relativa all'inizio della realizzazione di opere che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi statali o regionali, sia in assenza della prescritta autorizzazione; la seconda (c.d. formale), che si verifica allorquando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne siano già realizzati i presupposti con il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per le specifiche caratteristiche, quali la dimensione dei lotti stessi, la natura del terreno, la destinazione urbanistica, l' ubicazione e la previsione di opere urbanistiche. e per gli altri elementi riferiti agli acquirenti. evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio, creando così una variazione in senso accrescitivo tanto del numero dei lotti quanto di quello dei soggetti titolari del diritto sul bene (in tal senso, fra le altre, Cons. di Stato, Sez. IV, n. 5849/2003 e 19.02.2013 n. 1028).
Occorre quindi la sussistenza di elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l'intento di asservire all'edificazione un'area non urbanizzata (Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.10.2006 n. 6060 e Sezione V, 13.09.1991 n. 1157), mediante un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti (Consiglio Stato, Sezione V, 20.10.2004, n. 6810), giustificandosi l'adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci sopraddetti (Consiglio Stato, Sezione V, 14.05.2004, n. 3136).
In particolare, sostiene il Comune intimato con propria argomentata memoria, la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto sussistente nel caso di specie sulla base non tanto della realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla natura del terreno, dall'eventuale revisione di opere di urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo edificatorio (Cons. Stato, Sez. V, 12.03.2012 n. 1374).
Nel caso in esame assume quindi un rilievo decisivo la circostanza che il lotto risultava interamente recintato e interessato dal deposito di materiali ed apparecchiature da cantiere univocamente idonei a connotare una sua destinazione ad usi edificativi previa suddivisione in lotti adeguatamente recintati, in area ricadente per gran parte in zona "N" destinata a "verde pubblico", per la quale non è consentito nessun tipo di frazionamento né di edificazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 08.08.2014 n. 8884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ambito del procedimento in cui vengono in rilievo i limiti all’installazione di una insegna di esercizio su di un edificio sede dell’impresa <<nessun valore può essere riconosciuto al fine di individuare detti limiti e condizioni alla circolare emanata dall’ANAS (n. 4131 dell’11.05.1998) per modificare o integrare quanto previsto, circa la definizione delle insegne di esercizio, dall’articolo 47 del DPR n. 495 del 16.12.1992 che contraddistingue tale tipologie di insegne attraverso la “scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e marchi…, installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa”>>.
Ciò in quanto, rispetto alla previsione regolamentare contenuta nel D.P.R. n. 495 del 1992, appare molto più restrittiva la definizione contenuta nella circolare dell’ANAS, secondo cui per aversi insegna di esercizio si dovrebbe accertare che l’insegna sia una sola per ogni attività, che sia collocata all’ingresso principale della sede dell’impresa o nella sue immediate vicinanze, che indichi il nome dell’esercente o la ragione sociale della ditta, l’attività esercitata ed il tipo di merci vendute e l’eventuale marchio della ditta ed, inoltre, che sia di dimensioni tali da non costituire un richiamo pubblicitario.

La giurisprudenza amministrativa, in controversie analoghe, ha avuto modo di chiarire che nell’ambito del procedimento in cui vengono in rilievo i limiti all’installazione di una insegna di esercizio su di un edificio sede dell’impresa <<nessun valore può essere riconosciuto al fine di individuare detti limiti e condizioni alla circolare emanata dall’ANAS (n. 4131 dell’11.05.1998) per modificare o integrare quanto previsto, circa la definizione delle insegne di esercizio, dall’articolo 47 del DPR n. 495 del 16.12.1992 che contraddistingue tale tipologie di insegne attraverso la “scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e marchi…, installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa”>> (così, Cons. Stato, sez. IV, n. 4865 del 2009).
Ciò in quanto, rispetto alla previsione regolamentare contenuta nel D.P.R. n. 495 del 1992, appare molto più restrittiva la definizione contenuta nella circolare dell’ANAS, secondo cui per aversi insegna di esercizio si dovrebbe accertare che l’insegna sia una sola per ogni attività, che sia collocata all’ingresso principale della sede dell’impresa o nella sue immediate vicinanze, che indichi il nome dell’esercente o la ragione sociale della ditta, l’attività esercitata ed il tipo di merci vendute e l’eventuale marchio della ditta ed, inoltre, che sia di dimensioni tali da non costituire un richiamo pubblicitario.
Traslando i superiori arresti giurisprudenziali, integralmente condivisi dal Collegio, all’odierno gravame, si palesa pertanto illegittimo il diniego opposto alla società ricorrente.
Ed invero, esso si basa proprio sul contenuto della circolare ANAS n. 4131 dell’11.05.1998, come evidenziato sul punto non compatibile con la previsione regolamentare di cui all’art. 47 del D.P.R. n. 495 del 1992.
Nella specie la ricorrente ha chiesto di installare sul tetto della propria sede operativa una insegna di circa quattro metri quadrati raffigurante il proprio segno distintivo (stella a tre punte inscritta in un cerchio), in luogo della propria denominazione, considerata troppo lunga e di non immediata percezione identificativa, in quanto risultato di una fusione societaria tra la società tedesca Daimler e la società americana Chrysler. Il luogo ove l’insegna avrebbe dovuto essere installata dista circa 60 metri dal raccordo autostradale.
Tanto rilevato, non possono essere condivisi entrambi i motivi dell’opposto diniego.
Difatti, l’insegna in esame, per caratteristiche intrinseche e di localizzazione, appare riconducibile alla nozione di insegna di esercizio scolpita nell’art. 47, comma 1, del D.P.R. n. 495 del 1992, a nulla rilevando, per quanto già detto, il contenuto restrittivo della circolare ANAS n. 4131 del 1998.
Per quanto concerne il diverso profilo motivazionale secondo cui “sia per ubicazione (sulla sommità dell’edificio), sia per le dimensioni che per la luminosità può ritenersi che rappresenti disturbo visivo per l’utenza autostradale”, è sufficiente qui evidenziare che non risultano eseguite dalla società resistente i necessari accertamenti istruttori per pervenire alle conclusioni predette. Una volta chiarito che l’insegna di esercizio può essere collocata sul tetto dell’edificio costituente sede operativa dell’impresa e che l’art. 50 del D.P.R. n. 495 del 1992 consente espressamente l’installazione di insegne di esercizio luminose, alla conclusione secondo cui l’insegna costituisce disturbo per l’utenza autostradale la società resistente avrebbe potuto pervenire soltanto all’esito di una adeguata istruttoria tecnica, nella specie del tutto mancante (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 08.08.2014 n. 8873 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito".
La nozione di "inizio dei lavori" contenuta nell’art. 15, comma 2, DPR n. 380 del 2001 deve intendersi come riferita a concreti lavori edilizi.
In questa prospettiva i lavori devono ritenersi iniziati quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nell’elevazione di muri e nella esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio.
E’ evidente che il mero espianto arboreo e l’apposizione del cartello di cantiere non può considerarsi come effettivo inizio dei lavori tale da manifestare la reale e consistente voluntas aedificandi dell’appellante.
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In ordine poi alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, si rileva che il provvedimento teso alla decadenza della concessione edilizia per mancato inizio dei lavori esime la PA dall’attivare la procedura di cui all’art. 7 L. n. 241 del 1990.
Invero, essendosi in presenza di un provvedimento a contenuto vincolato, di carattere ricognitivo di un effetto decadenziale che si produce automaticamente in relazione al mero decorso del tempo, non può non applicarsi il dettato dell’art. 21-octies.
Appare evidente che il provvedimento di decadenza, per il suo carattere dovuto e vincolato, non necessita di una previa comunicazione di avvio del procedimento ed è sufficientemente motivato con l’evidenziazione dell’effettiva sussistenza dei presupposti di fatto.

Dalla relazione del 04.04.2008, prot. n. 390 del 2008, frutto dell’istruttoria compiuta dagli Agenti della P.M. in data 3 aprile 2008, emerge che suoi luoghi oggetto del permesso di costruire n. 22 del 22.03.2004 e successiva variante n. 38 del 15.11.205, oltre a non esservi apposto alcun cartello ed a non esservi lavori in atto, "non sono presenti maestranze edili e materiali di cantiere ed allo stato attuale nel terreno si evidenzia ancora la presenza di vegetazione".
Al riguardo, come da giurisprudenza costante, "l’inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito"(cfr., ex multis: Cons. St., sez. IV, 11.04.2014, n.1740; id., sez. IV, 20.12.2013, n. 6151; id., sez. V, 15.07.2013 n. 3823; id., sez. IV, 15.04.2013, n. 2027).
La nozione di "inizio dei lavori" contenuta nell’art. 15, comma 2, DPR n. 380 del 2001 deve intendersi come riferita a concreti lavori edilizi.
In questa prospettiva i lavori devono ritenersi iniziati quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nell’elevazione di muri e nella esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio (cfr. Cass. pen., sez. III, 27.01.2010, n. 7114; Cass. pen. n. 19101 del 2008, Cass. pen. n. 19101 del 2008; Cass. pen. n. 19101 del 2008; Cass. pen. n. 12316 del 2007; Cass. pen. n. 539 del 2006).
E’ evidente che il mero espianto arboreo e l’apposizione del cartello di cantiere non può considerarsi come effettivo inizio dei lavori tale da manifestare la reale e consistente voluntas aedificandi dell’appellante (cfr. Cons. St., sez. II, 28.04.2010, n. 4170; Cons. St., sez. IV, 18.06.2008, n. 3030).
In ordine poi alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, si rileva che il provvedimento teso alla decadenza della concessione edilizia per mancato inizio dei lavori esime la PA dall’attivare la procedura di cui all’art. 7 L. n. 241 del 1990.
Invero, essendosi in presenza di un provvedimento a contenuto vincolato, di carattere ricognitivo di un effetto decadenziale che si produce automaticamente in relazione al mero decorso del tempo, non può non applicarsi il dettato dell’art. 21-octies (cfr. Cons. St., sez. IV, 11.04.2014, n. 1740; id., sez. IV, 20.12.2013, n. 6151; id., sez. IV, 30.09.2013, n. 4855; id., sez. IV, 15.04.2013 n. 2027; id., 18.05.2012, n. 2915).
Appare evidente che il provvedimento di decadenza, per il suo carattere dovuto e vincolato, non necessita di una previa comunicazione di avvio del procedimento ed è sufficientemente motivato con l’evidenziazione dell’effettiva sussistenza dei presupposti di fatto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.08.2014 n. 4201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOA seguito della novella di cui alla legge nr. 183 del 2010, è stata eliminata dall’art. 33 della legge nr. 104 del 1992 la previsione dei requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza: tali requisiti, pertanto, non possono più essere pretesi dall’Amministrazione come presupposto per la concessione dei benefici di cui al citato art. 33, e dunque gli unici parametri entro i quali l’Amministrazione deve valutare se concedere o meno i benefici in questione sono da un lato le proprie esigenze organizzative ed operative e dall’altro l’effettiva necessità del beneficio, al fine di impedire un suo uso strumentale.
Ciò premesso, va rilevato che la richiesta di trasferimento in base alla normativa suindicata non configura un diritto incondizionato del richiedente: la p.a. può legittimamente respingere l’istanza di trasferimento di un proprio dipendente, presentata ai sensi dell’art. 33, quando le condizioni personali e familiari dello stesso recedono di fronte all’interesse pubblico alla tutela del buon funzionamento degli uffici e del prestigio dell’Amministrazione.
Il c.d. “diritto al trasferimento” è quindi rimesso ad una valutazione relativamente discrezionale dell’Amministrazione ed è soggetto ad una duplice condizione: che nella sede di destinazione vi sia un posto vacante e disponibile e che vi sia l’assenso delle Amministrazioni di provenienza e di destinazione; ne discende che, quand’anche il requisito della vacanza e della disponibilità risulti soddisfatto, il beneficio può essere negato in considerazione delle esigenze di servizio della struttura di provenienza o di destinazione.
Quando poi risulta che la persona portatrice di handicap ha altri familiari in loco e che il richiedente non ha in precedenza prestato attività di assistenza nei suoi confronti, la p.a. può legittimamente respingere l’istanza di trasferimento.

... per la riforma, previa sospensione dell’esecuzione, della sentenza nr. 324/2014 del 15.01.2014 del TAR della Lombardia, Sezione Prima di Milano, depositata in data 29.01.2014 e non notificata.
...
Il signor -OMISSIS-, Assistente capo di Polizia Penitenziaria in servizio a Milano presso la Casa Circondariale di San Vittore, ha impugnato –chiedendone l’annullamento previa sospensiva– il provvedimento con cui l’Amministrazione penitenziaria ha denegato il trasferimento ad altra sede da lui richiesto.
Tale trasferimento era stato domandato a seguito della dichiarazione della Commissione Invalidi Civili di Matera, la quale aveva documentato la condizione di portatrice di handicap grave della madre dell’istante, ai sensi della legge 05.02.1992, nr. 104.
Il diniego opposto dall’Amministrazione aveva come presupposto la carenza dei requisiti di continuità ed esclusività.
...
A seguito della novella di cui alla legge nr. 183 del 2010, è stata eliminata dall’art. 33 della legge nr. 104 del 1992 la previsione dei requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza: tali requisiti, pertanto, non possono più essere pretesi dall’Amministrazione come presupposto per la concessione dei benefici di cui al citato art. 33, e dunque gli unici parametri entro i quali l’Amministrazione deve valutare se concedere o meno i benefici in questione –nella fattispecie concreta, il trasferimento presso la Casa Circondariale di Matera– sono da un lato le proprie esigenze organizzative ed operative e dall’altro l’effettiva necessità del beneficio, al fine di impedire un suo uso strumentale.
Ciò premesso, va rilevato che la richiesta di trasferimento in base alla normativa suindicata non configura un diritto incondizionato del richiedente: la p.a. può legittimamente respingere l’istanza di trasferimento di un proprio dipendente, presentata ai sensi dell’art. 33, quando le condizioni personali e familiari dello stesso recedono di fronte all’interesse pubblico alla tutela del buon funzionamento degli uffici e del prestigio dell’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 07.03.2014, nr. 1073).
Il c.d. “diritto al trasferimento” è quindi rimesso ad una valutazione relativamente discrezionale dell’Amministrazione ed è soggetto ad una duplice condizione: che nella sede di destinazione vi sia un posto vacante e disponibile e che vi sia l’assenso delle Amministrazioni di provenienza e di destinazione; ne discende che, quand’anche il requisito della vacanza e della disponibilità risulti soddisfatto, il beneficio può essere negato in considerazione delle esigenze di servizio della struttura di provenienza o di destinazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 08.04.2014, nr. 1677).
Quando poi risulta che la persona portatrice di handicap ha altri familiari in loco e che il richiedente non ha in precedenza prestato attività di assistenza nei suoi confronti, la p.a. può legittimamente respingere l’istanza di trasferimento (cfr. Cons. Stato, sez. I, parere nr. 3297 del 21.11.2013).
Tutto ciò premesso, nel caso che qui occupa il deposito della documentazione dell’Amministrazione attestante le esigenze quantitative e qualitative della sede di servizio del ricorrente dimostra come non vi sia stata, da parte della stessa, alcuna deviazione dal dettato normativo; spetta infatti al giudice verificare se l’esercizio di tale potere valutativo sia aderente ai presupposti normativi, ai dati di fatto e ai criteri di logica e razionalità.
In particolare:
- non appare manifestamente irragionevole il criterio seguito, incentrato sul rapporto fra la popolazione dei detenuti presso ciascuna delle strutture carcerarie interessate e il numero dei dipendenti in pianta organica e in servizio;
- a fronte dei dati emersi in applicazione di detto criterio, non può essere utilmente invocata la circostanza che l’Amministrazione abbia per il passato autorizzato distacchi o trasferimenti di altre unità di personale, atteso che tali provvedimenti potrebbero essere maturati in contesto diverso ed aver condotto – appunto – all’attuale situazione che rende non più sostenibili ulteriori spostamenti di personale;
- il fatto che la madre dell’istante risulti assistita da altri familiari, come sopra già accennato, ben può costituire circostanza di fatto suscettibile di apprezzamento da parte dell’Amministrazione nella complessiva ponderazione degli interessi da comporre, pur dopo la ricordata riforma del 2010 che ha eliminato la previsione dei presupposti della continuità ed esclusività dell’assistenza.
Alla luce dei rilievi fin qui svolti, s’impone la reiezione dell’appello (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2014 n. 4200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, prevista dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990, non conduce all’annullabilità del provvedimento, trattandosi di un inadempimento meramente formale rispetto a un atto di natura vincolata, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. art. 21-octies, comma 2, della citata legge n. 241 del 1990).
Il Collegio non può qui non ribadire quanto più volte precisato da questo Consiglio di Stato e cioè che nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque apporto partecipativo del privato (che gli appellanti per la verità evocano, ma in termini del tutto generici).
In questo senso va così intesa la ricorrente affermazione del medesimo Consiglio di Stato, secondo cui le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente.

La mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, prevista dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990, non conduce all’annullabilità del provvedimento, trattandosi di un inadempimento meramente formale rispetto a un atto di natura vincolata, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. art. 21-octies, comma 2, della citata legge n. 241 del 1990).
Il Collegio non può qui non ribadire quanto più volte precisato da questo Consiglio di Stato (cfr. sez. IV, 26.09.2008, n. 4659; sez. IV, 04.02.2013, n. 666; sez. IV, 25.06.2013, n. 3471) e cioè che nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque apporto partecipativo del privato (che gli appellanti per la verità evocano, ma in termini del tutto generici). In questo senso va così intesa la ricorrente affermazione del medesimo Consiglio di Stato, secondo cui le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente (così testualmente, fra le tante, sez. IV, 17.09.2012, n. 4925, proprio con riguardo all’ipotesi del provvedimento vincolato) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2014 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' principio consolidato che la demolizione degli abusi edilizi non richieda nessuna specifica motivazione, necessaria invece in casi di contrarie determinazioni. L'ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato, cioè, con l'affermazione dell’accertata abusività del manufatto.
Resta soltanto salva -per taluni orientamenti giurisprudenziali, comunque di frequente contestati e senz’altro minoritari- l'ipotesi in cui, per il lungo intervallo di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato.
E’ questa la sola vicenda in cui potrebbe essere forse lecito ravvisare un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all’entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso e ulteriore rispetto a quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.

Non è destinato a miglior sorte, infine, il punto relativo al preteso difetto di motivazione.
Al contrario, è principio consolidato che la demolizione degli abusi edilizi non richieda nessuna specifica motivazione, necessaria invece in casi di contrarie determinazioni. L'ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato, cioè, con l'affermazione dell’accertata abusività del manufatto.
Resta soltanto salva -per taluni orientamenti giurisprudenziali, comunque di frequente contestati e senz’altro minoritari- l'ipotesi in cui, per il lungo intervallo di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato. E’ questa la sola vicenda in cui potrebbe essere forse lecito ravvisare un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all’entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso e ulteriore rispetto a quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (per tutti, Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705).
Sennonché, premesso che l’orientamento da ultimo richiamato non convince il Collegio, che preferisce l’indirizzo dominante sull’inesistenza di un obbligo di motivazione “ulteriore”, nella specie lo iato temporale non viene dedotto e comunque non sembra sussistere, cosicché il motivo deve essere rigettato
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2014 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione dell’opera abusiva al patrimonio comunale è effetto previsto dalla legge (art. 31), ha natura sanzionatoria e non richiede alcuna particolare motivazione al di là del suo presupposto legale, cioè l’accertata violazione della normativa edilizia e urbanistica.
Le opere acquisite sono identificate con esattezza, anche mediante il riferimento ai dati catastali, meglio specificati attraverso le successive ordinanze di acquisizione.

L’acquisizione dell’opera abusiva al patrimonio comunale è effetto previsto dalla legge (art. 31), ha natura sanzionatoria e non richiede alcuna particolare motivazione al di là del suo presupposto legale, cioè l’accertata violazione della normativa edilizia e urbanistica.
Le opere acquisite sono identificate con esattezza, anche mediante il riferimento ai dati catastali, meglio specificati attraverso le successive ordinanze di acquisizione.
La doglianza secondo cui non sarebbe motivata l’acquisizione di un’area maggiore del bene e dell’area di sedime sembra inammissibile, perché non compare nei ricorsi per motivi aggiunti notificati -nel corso del giudizio di primo grado- il 17.12.2008 e il 07.05.2009 ed è dedotta solo in appello. Comunque, essa non ha pregio in punto di fatto, come si deduce dalla semplice lettura del testo delle ordinanze impugnate, che dispongono l’acquisizione al patrimonio comunale delle sole opere realizzate abusivamente.
Sia detto incidentalmente che non appare essere stata impugnata a suo tempo anche l’ultima -e definitiva- ordinanza di acquisizione, e cioè la n. 41 del 2009 (come dice il TAR: “risulta peraltro dagli atti…"). Il che pone un evidente quesito in termini di ammissibilità e procedibilità del ricorso di primo grado e di quello di appello, sul quale non vale peraltro la pena di indugiare vista l’evidente infondatezza nel merito delle censure formulate dalla parte privata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2014 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ principio consolidato che, in caso di abusivismo edilizio, non sussiste a carico del Comune l'onere di verificare la sanabilità dell'opera prima di emettere una ordinanza di demolizione: invero, nello schema giuridico delineato dall'art. 31 t.u. non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia.
Quanto alla mancata valutazione della possibilità di un intervento di recupero, che -nel caso di specie- avrebbe il suo necessario antecedente nella modifica della disciplina urbanistica in vigore, è evidente trattarsi di una mera facoltà dell’Amministrazione, l’omesso esercizio della quale non può essere valutato in termini di illegittimità.
E’ principio consolidato che, in caso di abusivismo edilizio, non sussiste a carico del Comune l'onere di verificare la sanabilità dell'opera prima di emettere una ordinanza di demolizione: invero, nello schema giuridico delineato dall'art. 31 t.u. non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.03.2012, n. 1260).
Si aggiunga che la normativa speciale evocata dagli appellanti sarebbe comunque inapplicabile, nella misura in cui fa riferimento a insediamenti abusivi risalenti a date (01.10.1983: art. 29, primo comma, della legge 28.02.1985, n. 47; 31.12.1993: art. 23, comma 3, della legge della Regione Campania 22.12.2004, n. 16) circa il rispetto delle quali nessuna prova è stata offerta
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2014 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAE' consolidato il principio secondo cui deve essere negata la configurabilità di controinteressati rispetto all'impugnazione di strumenti urbanistici: <<la funzione normalmente esclusiva del piano urbanistico è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dal considerare le posizioni dei titolari di diritti reali, anche se nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione, senza che possa differenziarsi al riguardo la posizione degli interessati che abbiano presentato osservazioni … È da considerare, inoltre, che normalmente, gli eventuali svantaggi e vantaggi non sono predeterminabili con certezza, essendo rimessi alla valutazione soggettiva dei proprietari delle aree …>>.
Per costante e condivisa giurisprudenza, in materia urbanistica vale in altri termini il canone per cui, “di norma, non sussistono controinteressati rispetto all'impugnazione degli strumenti di programmazione”, con l’eccezione laddove oggetto del gravame sia una variante al piano regolatore che abbia una portata del tutto specifica e circoscritta, nonché nei casi in cui risulti evidente l'esistenza di posizioni peculiari in capo a soggetti interessati al mantenimento di un atto.

In materia, è consolidato il principio secondo cui deve essere negata la configurabilità di controinteressati rispetto all'impugnazione di strumenti urbanistici: <<la funzione normalmente esclusiva del piano urbanistico è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dal considerare le posizioni dei titolari di diritti reali, anche se nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione, senza che possa differenziarsi al riguardo la posizione degli interessati che abbiano presentato osservazioni … È da considerare, inoltre, che normalmente, gli eventuali svantaggi e vantaggi non sono predeterminabili con certezza, essendo rimessi alla valutazione soggettiva dei proprietari delle aree …>> (Consiglio di Stato, sez. IV – 31/03/2009 n. 2012).
Per costante e condivisa giurisprudenza, in materia urbanistica vale in altri termini il canone per cui, “di norma, non sussistono controinteressati rispetto all'impugnazione degli strumenti di programmazione”, con l’eccezione (non riscontrabile nella specie) laddove oggetto del gravame sia una variante al piano regolatore che abbia una portata del tutto specifica e circoscritta, nonché nei casi in cui risulti evidente l'esistenza di posizioni peculiari in capo a soggetti interessati al mantenimento di un atto (Consiglio di Stato, sez. IV – 17/05/2012 n. 2839)
(cfr. sentenza Sezione sez. II – 27/05/2010 n. 2152) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 06.08.2014 n. 907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAAnche se il disegno urbanistico può essere improntato a criteri ragionevoli (come l'allontanamento dal centro abitato delle industrie insalubri), l'uso del potere di pianificazione con finalità espulsive è sempre vietato, in quanto contrario ai principi generali della materia. Sono ammesse solo misure incentivanti, attraverso le quali la delocalizzazione è perseguita individuando soluzioni alternative praticabili, previo coinvolgimento degli interessati.
In precedenza, questo TAR aveva già affermato che, “se è vero che la programmazione urbanistica è caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità nella prospettiva di un ordinato e funzionale assetto del territorio comunale, le scelte pianificatorie devono pur sempre garantire un'imparziale ponderazione degli interessi coinvolti, dovendo l'amministrazione valutare attentamente se l'astratto miglioramento della situazione urbanistica generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di interessi, anche privati. … gli strumenti urbanistici sono essenzialmente rivolti a disciplinare la futura attività di trasformazione e di sviluppo del territorio sicché, salvo che non sia diversamente disposto, i limiti e le condizioni cui subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere già eseguite in conformità alla disciplina previgente -i quali conservano la loro precedente e legittima destinazione pur se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli interventi necessari per integrarne o mantenerne la funzionalità. La programmazione urbanistica non può, in definitiva, introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di settore e che sono stati più volte evidenziati dalla giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione”.
In altra fattispecie, si è osservato che la valutazione di un’attività produttiva sotto il profilo sanitario “non può essere compiuta aprioristicamente vietando in modo generalizzato determinati insediamenti produttivi nel centro abitato o ad una prestabilita distanza dallo stesso, in quanto tale valutazione deve essere compiuta sul caso specifico da parte dell'autorità sanitaria, che deve accertare la presenza delle condizioni indispensabili affinché essa si svolga senza pregiudizio per la salute pubblica”.

Questo Tribunale ha di recente statuito (cfr. sentenza sez. I – 04/06/2014 n. 598) come <<anche se il disegno urbanistico può essere improntato a criteri ragionevoli (come l'allontanamento dal centro abitato delle industrie insalubri), l'uso del potere di pianificazione con finalità espulsive è sempre vietato, in quanto contrario ai principi generali della materia. Sono ammesse solo misure incentivanti, attraverso le quali la delocalizzazione è perseguita individuando soluzioni alternative praticabili, previo coinvolgimento degli interessati>>.
In precedenza, questo TAR aveva già affermato (cfr. sentenza 01/06/2007 n. 470, la quale richiama le proprie precedenti pronunce 04/09/2001 n. 767, 17/01/2004 n. 108 e 03/07/2006 n. 828) che, “se è vero che la programmazione urbanistica è caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità nella prospettiva di un ordinato e funzionale assetto del territorio comunale, le scelte pianificatorie devono pur sempre garantire un'imparziale ponderazione degli interessi coinvolti, dovendo l'amministrazione valutare attentamente se l'astratto miglioramento della situazione urbanistica generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di interessi, anche privati. … gli strumenti urbanistici sono essenzialmente rivolti a disciplinare la futura attività di trasformazione e di sviluppo del territorio sicché, salvo che non sia diversamente disposto, i limiti e le condizioni cui subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere già eseguite in conformità alla disciplina previgente -i quali conservano la loro precedente e legittima destinazione pur se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli interventi necessari per integrarne o mantenerne la funzionalità (Consiglio di Stato, sez. V - 19/02/1997 n. 176). La programmazione urbanistica non può, in definitiva, introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di settore e che sono stati più volte evidenziati dalla giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione (sentenza 31/05/1986 n. 185)”.
In altra fattispecie, si è osservato che la valutazione di un’attività produttiva sotto il profilo sanitario “non può essere compiuta aprioristicamente vietando in modo generalizzato determinati insediamenti produttivi nel centro abitato o ad una prestabilita distanza dallo stesso, in quanto tale valutazione deve essere compiuta sul caso specifico da parte dell'autorità sanitaria, che deve accertare la presenza delle condizioni indispensabili affinché essa si svolga senza pregiudizio per la salute pubblica” (cfr. sentenza Sezione sez. II – 27/05/2010 n. 2152)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 06.08.2014 n. 907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl principio di non aggravio del procedimento, secondo il quale non risulta logica l’imposizione, a pena di esclusione, dell’onere di produrre per la seconda volta, in sede di presentazione di offerta, la medesima documentazione già prodotta in occasione della prequalifica, non può trovare applicazione nel caso in cui in sede di prequalifica sia stata prodotta solo l’autocertificazione e debba, quindi, consentirsi il suo controllo tramite la necessaria documentazione attestante il possesso dei requisiti.
Infondato è anche l’ulteriore motivo con cui le appellanti sostengono di avere, comunque, assolto l’obbligo dichiarativo mediante la presentazione dell’autodichiarazione in sede di prequalifica.
Evidente è, invero, la differenza tra l’autocertificazione presentata in sede di prequalificazione ai fini della ammissione alla partecipazione alla procedura ristretta, non minimamente contestata dalla stazione appaltante, dalla documentazione richiesta ai fini del doveroso controllo della veridicità delle affermazioni ivi contenute.
Il principio di non aggravio del procedimento, secondo il quale non risulta logica l’imposizione, a pena di esclusione, dell’onere di produrre per la seconda volta, in sede di presentazione di offerta, la medesima documentazione già prodotta in occasione della prequalifica (Cons. St. Sez. VI, 08.02.2008, n. 416), non può trovare applicazione nel caso in cui in sede di prequalifica sia stata prodotta solo l’autocertificazione e debba, quindi, consentirsi il suo controllo tramite la necessaria documentazione attestante il possesso dei requisiti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.08.2014 n. 4165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDispone l’art. 77 del R.D. n. 827/1924 che “Quando nelle aste al ribasso due o più concorrenti presenti all’asta facciano la stessa offerta ed essa sia accettabile, si procede nella medesima adunanza ad una licitazione esclusivamente fra detti concorrenti e colui che risulta migliore offerente è dichiarato aggiudicatario.
Ove nessuno di coloro che hanno presentato le medesime offerte sia presente o nel caso in cui i presenti non vogliano migliorare l’offerta, la sorte decide chi debba essere l’aggiudicatario”.
Pertanto, la norma prevede che si proceda all’esperimento immediato della miglioria e ciò avviene o in presenza di tutte le ditte offerenti o in presenza anche di una sola tra esse o di una sola di esse con un proprio rappresentante abilitato a procedere all’offerta suppletiva, trattandosi di tutte ipotesi nelle quali non ha ragione d’essere negata la possibilità del miglioramento.
Di fronte a tale previsione normativa, la scelta di una delle concorrenti di non presenziare alla seduta di gara con un proprio rappresentante abilitato a procedere all’offerta suppletiva non può andare a detrimento della posizione dell’altra concorrente che si è predisposta ad offrire, ad nutum, un ulteriore ribasso, ancorché nel silenzio della lex specialis di gara sul punto.
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Non ha, dunque, pregio, la doglianza ditta ricorrente principale, non presente alla seduta di gara con un rappresentante abilitato a formulare l’offerta migliorativa.
Ad avviso di questo TAR l’esperimento del tentativo di miglioria delle offerte, di cui al primo comma del cit. art. 77 del R.D. n. 827/1924, va in ogni caso ammesso da parte del seggio di gara prima che possa procedersi al sorteggio tra le offerte eguali: e ciò quand’anche nel silenzio della lex specialis.
Infatti, un’effettiva e definitiva parità tra le offerte -che è l’unica condizione che normativamente legittima l’affidamento alla sorte della scelta dell’aggiudicatario- deve ritenersi realizzata solo ove non si siano avute, per qualsiasi causa, offerte migliorative, ovvero quando queste ultime siano risultate di pari importo tra loro. Solo in difetto di offerte migliorative e, se anomale, in difetto di valida giustificazione, potrà quindi procedersi al sorteggio.
La disposizione in parola, contenuta nel regolamento di contabilità generale dello Stato che trova applicazione indipendentemente dal suo richiamo nei bandi di gara, non è stata peraltro abrogata né implicitamente né esplicitamente dalla successiva normativa in materia di appalti, con la conseguenza che deve trovare applicazione in tutte le procedure di gara.
Ne consegue che, in caso di offerte uguali, il sorteggio è un metodo di aggiudicazione meramente residuale, esperibile solo qualora non sia possibile l’esperimento migliorativo, il quale deve ritenersi rispondente a un principio generale, in quanto consente all’Amministrazione, nel rispetto anche della libera concorrenza, di ottenere la prestazione oggetto dell’appalto alle migliori condizioni di mercato.
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Quanto alla validità della offerta di miglioria presentata dalla ditta aggiudicataria essa non è inficiata dalla circostanza che l’autorizzazione del soggetto delegato, inviata via fax durante la seduta di gara, fosse priva della autenticazione notarile, essendo quella di miglioria una fase di gara meramente eventuale e potendo comunque i poteri rappresentativi essere verificati prima della sottoscrizione del contratto (come nella specie accaduto).
Nessuna violazione della par condicio è stata posta in essere dalla stazione appaltante, in quanto alla ricorrente principale è stata data la possibilità di presentare la propria offerta di miglioria con le stesse modalità attribuite alla ditta controinteressata.

Infondato è, innanzitutto, il primo motivo di ricorso con cui la ricorrente principale contesta la correttezza dell’operato della stazione appaltante, che, a fronte dei medesimi ribassi offerti da due delle ditte concorrenti alla procedura scrutinata, ha proceduto alla richiesta di un’offerta migliorativa anziché effettuare il sorteggio.
Dispone l’art. 77 del R.D. n. 827/1924 che “Quando nelle aste al ribasso due o più concorrenti presenti all’asta facciano la stessa offerta ed essa sia accettabile, si procede nella medesima adunanza ad una licitazione esclusivamente fra detti concorrenti e colui che risulta migliore offerente è dichiarato aggiudicatario.
Ove nessuno di coloro che hanno presentato le medesime offerte sia presente o nel caso in cui i presenti non vogliano migliorare l’offerta, la sorte decide chi debba essere l’aggiudicatario
”.
Pertanto, la norma prevede che si proceda all’esperimento immediato della miglioria e ciò avviene o in presenza di tutte le ditte offerenti o in presenza anche di una sola tra esse o di una sola di esse con un proprio rappresentante abilitato a procedere all’offerta suppletiva, trattandosi di tutte ipotesi nelle quali non ha ragione d’essere negata la possibilità del miglioramento.
Di fronte a tale previsione normativa, la scelta di una delle concorrenti (nelle specie RTI G.B.S.) di non presenziare alla seduta di gara con un proprio rappresentante abilitato a procedere all’offerta suppletiva non può andare a detrimento della posizione dell’altra concorrente che si è predisposta ad offrire, ad nutum, un ulteriore ribasso, ancorché nel silenzio della lex specialis di gara sul punto.
Non ha, dunque, pregio, la doglianza ditta ricorrente principale, non presente alla seduta di gara con un rappresentante abilitato a formulare l’offerta migliorativa. Ad avviso di questo TAR l’esperimento del tentativo di miglioria delle offerte, di cui al primo comma del cit. art. 77 del R.D. n. 827/1924, va in ogni caso ammesso da parte del seggio di gara prima che possa procedersi al sorteggio tra le offerte eguali: e ciò quand’anche nel silenzio della lex specialis. Infatti, un’effettiva e definitiva parità tra le offerte -che è l’unica condizione che normativamente legittima l’affidamento alla sorte della scelta dell’aggiudicatario- deve ritenersi realizzata solo ove non si siano avute, per qualsiasi causa, offerte migliorative, ovvero quando queste ultime siano risultate di pari importo tra loro. Solo in difetto di offerte migliorative e, se anomale, in difetto di valida giustificazione, potrà quindi procedersi al sorteggio.
La disposizione in parola, contenuta nel regolamento di contabilità generale dello Stato che trova applicazione indipendentemente dal suo richiamo nei bandi di gara, non è stata peraltro abrogata né implicitamente né esplicitamente dalla successiva normativa in materia di appalti, con la conseguenza che deve trovare applicazione in tutte le procedure di gara. Ne consegue che, in caso di offerte uguali, il sorteggio è un metodo di aggiudicazione meramente residuale, esperibile solo qualora non sia possibile l’esperimento migliorativo, il quale deve ritenersi rispondente a un principio generale, in quanto consente all’Amministrazione, nel rispetto anche della libera concorrenza, di ottenere la prestazione oggetto dell’appalto alle migliori condizioni di mercato.
Quanto alla validità della offerta di miglioria presentata dalla ditta aggiudicataria, come già rilevato in sede cautelare, essa non è inficiata dalla circostanza che l’autorizzazione del soggetto delegato, inviata via fax durante la seduta di gara, fosse priva della autenticazione notarile, essendo quella di miglioria una fase di gara meramente eventuale e potendo comunque i poteri rappresentativi essere verificati prima della sottoscrizione del contratto (come nella specie accaduto); nessuna violazione della par condicio è stata posta in essere dalla stazione appaltante, in quanto alla ricorrente principale è stata data la possibilità di presentare la propria offerta di miglioria con le stesse modalità attribuite alla ditta controinteressata (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 01.08.2014 n. 2073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli ordini di sospensione dei lavori e di rimessione in pristino, nonché l’acquisizione della superficie al patrimonio del Comune, si basano su un duplice presupposto, ossia:
(a) che l’alterazione della quota del terreno sia intervenuta in difformità rispetto al permesso di costruire, e
(b) che tale difformità sia irrimediabile, in quanto lesiva dei diritti di terzi.
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Il muro di contenimento, a differenza di quello avente un mero scopo di recinzione, comporta un impatto sui luoghi paragonabile all’edificazione (v. l’analogia con i depositi permanenti di materiali ex art. 3 comma 1-e.7 del DPR 380/2001) talché è necessario il titolo edilizio.
La realizzazione abusiva del muro di contenimento comporta l’applicazione della procedura di regolarizzazione ex art. 36 del DPR 380/2001, non essendo pertinente in questo caso la disciplina prevista dal successivo art. 37 per le opere minori o pertinenziali.
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(a) quando l’edificazione riguarda terreni in pendenza, la realizzazione di muri di contenimento è una circostanza molto frequente e del tutto normale;
(b) gli uffici comunali devono valutare i muri di contenimento da un punto di vista urbanistico e paesistico, per limitarne il più possibile l’impatto sul territorio complessivamente considerato;
(c) non spetta al Comune la risoluzione dei rapporti di vicinato tra i privati;
(d) qualora i terzi rappresentino al Comune l’esistenza di un loro diritto incompatibile con l’edificazione, gli uffici comunali sono tenuti a effettuare degli approfondimenti, ed eventualmente a ricondurre il progetto entro limiti accettabili per tutti i soggetti interessati;
(e) se effettivamente i terzi chiariscono i loro diritti al Comune presentando opposizione al progetto, e così pure nell’ipotesi in cui i diritti dei terzi siano immediatamente evidenti (come nel caso della comunione, del condominio, o delle servitù trascritte in pubblici registri), le prescrizioni inserite nel permesso di costruire rappresentano vere e proprie condizioni sospensive, e impediscono l’edificazione;
(f) al di fuori di queste fattispecie, le prescrizioni devono essere considerate come varianti della generica formula che fa salvi i diritti dei terzi, e dunque non impediscono l’edificazione;
(g) spetterà poi ai terzi, se lo riterranno opportuno, chiedere davanti al giudice ordinario l’eliminazione delle opere che incidono negativamente sui loro diritti.

Sul riporto di terra e sulla recinzione
25. Gli ordini di sospensione dei lavori e di rimessione in pristino, nonché l’acquisizione della superficie al patrimonio del Comune, si basano su un duplice presupposto, ossia (a) che l’alterazione della quota del terreno sia intervenuta in difformità rispetto al permesso di costruire, e (b) che tale difformità sia irrimediabile, in quanto lesiva dei diritti di terzi.
26. La prima affermazione non appare condivisibile. La ricorrente ha in realtà prospettato fin dall’inizio agli uffici comunali la propria intenzione di rimodellare il terreno lungo il confine di proprietà. Era quindi evidente che il muro di recinzione avrebbe assunto anche la funzione di muro di contenimento.
27. Poiché il muro di contenimento, a differenza di quello avente un mero scopo di recinzione, comporta un impatto sui luoghi paragonabile all’edificazione (v. l’analogia con i depositi permanenti di materiali ex art. 3 comma 1-e.7 del DPR 380/2001), era necessario che il titolo edilizio autorizzasse anche questo tipo di intervento, cosa che in effetti è avvenuta. La realizzazione abusiva del muro di contenimento avrebbe imposto l’applicazione della procedura di regolarizzazione ex art. 36 del DPR 380/2001, non essendo pertinente in questo caso la disciplina prevista dal successivo art. 37 per le opere minori o pertinenziali.
28. È vero che il permesso di costruire (attraverso la prescrizione n. 12) subordinava le ricariche di terreno lungo il perimetro della proprietà all’autorizzazione dei confinanti, la quale finora non sembra intervenuta.
In proposito sono però necessarie le seguenti precisazioni:
(a) quando l’edificazione riguarda terreni in pendenza, la realizzazione di muri di contenimento è una circostanza molto frequente e del tutto normale;
(b) gli uffici comunali devono valutare i muri di contenimento da un punto di vista urbanistico e paesistico, per limitarne il più possibile l’impatto sul territorio complessivamente considerato;
(c) non spetta al Comune la risoluzione dei rapporti di vicinato tra i privati;
(d) qualora i terzi rappresentino al Comune l’esistenza di un loro diritto incompatibile con l’edificazione, gli uffici comunali sono tenuti a effettuare degli approfondimenti, ed eventualmente a ricondurre il progetto entro limiti accettabili per tutti i soggetti interessati;
(e) se effettivamente i terzi chiariscono i loro diritti al Comune presentando opposizione al progetto, e così pure nell’ipotesi in cui i diritti dei terzi siano immediatamente evidenti (come nel caso della comunione, del condominio, o delle servitù trascritte in pubblici registri), le prescrizioni inserite nel permesso di costruire rappresentano vere e proprie condizioni sospensive, e impediscono l’edificazione;
(f) al di fuori di queste fattispecie, le prescrizioni devono essere considerate come varianti della generica formula che fa salvi i diritti dei terzi, e dunque non impediscono l’edificazione;
(g) spetterà poi ai terzi, se lo riterranno opportuno, chiedere davanti al giudice ordinario l’eliminazione delle opere che incidono negativamente sui loro diritti.
29. Nello specifico, sembra dunque che i lavori, sotto il profilo strettamente urbanistico-edilizio, potessero essere eseguiti, con la conseguenza che non sussiste un abuso sanzionabile con la perdita della proprietà ex art. 31, comma 3, del DPR 380/2001 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 01.08.2014 n. 899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPer giurisprudenza ormai consolidata, la veste societaria di Poste Italiane non è di per sé sufficiente ad escluderla dalla disciplina in tema di accesso, ai sensi dell'art. 22, comma 1, lettera e), della legge 241 del 1990, secondo cui nel novero delle "pubbliche amministrazioni" assoggettate alla disciplina in materia di accesso rientrano "tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse, disciplinata dal diritto nazionale o comunitario".
L'attività amministrativa, cui gli art. 22 e 23 della legge n. 241 del 1990 correlano il diritto d'accesso, ricomprende non solo quella di diritto amministrativo, ma anche quella di diritto privato posta in essere dai soggetti gestori di pubblici servizi che, pur non costituendo direttamente gestione del servizio stesso, sia collegata a quest'ultima da un nesso di strumentalità derivante anche, sul versante soggettivo, dalla intensa conformazione pubblicistica.
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Alla stregua del principio ad impossibilia nemo tenetur, anche nei procedimenti d'accesso ai documenti amministrativi l'esercizio del relativo diritto (o l'ordine d'esibizione impartito dal giudice) non può che riguardare, per evidenti ragioni di buon senso, i documenti esistenti e non anche quelli mai formati, spettando alla P.A. destinataria dell'accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali siano gli atti inesistenti che non è in grado d'esibire.
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Quanto all’accesso alle schede valutative degli altri dipendenti, Poste Italiane afferma trattarsi di valutazioni rese dal datore di lavoro, nell’esercizio dei poteri di organizzazione ad esso spettanti, al di fuori di procedure comparative.
Anche su tale punto la Sezione si è già espressa nel senso che il principio generale per cui l'attività di organizzazione delle forze lavorative, imputabile al gestore del pubblico servizio, complessivamente sottoposta ai principi di buon andamento e imparzialità di cui all'art. 97 cost., comporta l’obbligo di trasparenza, va temperato con le peculiarità del caso concreto; ne discende che il dipendente può chiedere l’ostensione di documenti relativi a circostanze di fatto riguardanti altri dipendenti, quali ad esempio i fogli firma delle presenze giornaliere; viceversa, laddove trattasi di valutazioni o opinioni, l’accesso agli atti deve ritenersi consentito solo con riguardo a valutazioni effettuate nell’ambito di procedure comparative, volte a selezionare il personale.
Il diritto d'accesso non è, dunque, assoluto e incondizionato ma presuppone un collegamento qualificato tra l’interesse sostanziale del richiedente, che deve essere serio e non emulativo, e la documentazione di cui si pretende la conoscenza.
Invero una istanza di accesso formulata al di fuori del suddetto perimetro finisce, in realtà, con l’essere finalizzata ad eseguire un inammissibile controllo generalizzato non tanto sull'operato dell'amministrazione quanto, piuttosto, sulle presupposte scelte discrezionali.

Deve premettersi che, per giurisprudenza ormai consolidata, la veste societaria di Poste Italiane non è di per sé sufficiente ad escluderla dalla disciplina in tema di accesso, ai sensi dell'art. 22, comma 1, lettera e), della legge 241 del 1990, secondo cui nel novero delle "pubbliche amministrazioni" assoggettate alla disciplina in materia di accesso rientrano "tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse, disciplinata dal diritto nazionale o comunitario".
L'attività amministrativa, cui gli art. 22 e 23 della legge n. 241 del 1990 correlano il diritto d'accesso, ricomprende non solo quella di diritto amministrativo, ma anche quella di diritto privato posta in essere dai soggetti gestori di pubblici servizi che, pur non costituendo direttamente gestione del servizio stesso, sia collegata a quest'ultima da un nesso di strumentalità derivante anche, sul versante soggettivo, dalla intensa conformazione pubblicistica (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2012, n. 2516).
Il ricorso è, tuttavia, infondato.
Invero Poste Italiane ha rappresentato nella memoria di costituzione che il premio meritocratico non viene attribuito all’esito di procedure comparative bensì nell’ambito della politica aziendale di governo della retribuzione, sicché non esistono schede valutative né graduatorie.
Come già osservato in un precedente specifico, alla stregua del principio ad impossibilia nemo tenetur, anche nei procedimenti d'accesso ai documenti amministrativi l'esercizio del relativo diritto (o l'ordine d'esibizione impartito dal giudice) non può che riguardare, per evidenti ragioni di buon senso, i documenti esistenti e non anche quelli mai formati, spettando alla P.A. destinataria dell'accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali siano gli atti inesistenti che non è in grado d'esibire (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 18.12.2013, n. 389; v. anche Cons. Stato, sez. VI, 13.02.2013, n. 389).
Nel caso di specie Poste Italiane ha chiarito di non detenere gli atti richiesti perché inesistenti, non essendo mai state svolte procedure comparative.
La circostanza non è, peraltro, contestata nel ricorso mediante allegazione di fatti o circostanze idonee a far, quanto meno, presumere una realtà diversa da quella rappresentata dalla resistente.
Il ricorso, infatti, è in gran parte imperniato sull’analisi delle sentenze che hanno deciso precedenti giudizi, fra le stesse parti, ma su situazioni differenti.
Anzi, nella memoria depositata in data 08.07.2014 il ricorrente si dilunga nuovamente nell’esposizione di principi senza, tuttavia, fornire elementi precisi, riferiti al caso concreto, tali da far ritenere, viceversa, esistenti gli atti che l’amministrazione afferma di non aver mai formato.
Quanto all’accesso alle schede valutative degli altri dipendenti, Poste Italiane afferma trattarsi di valutazioni rese dal datore di lavoro, nell’esercizio dei poteri di organizzazione ad esso spettanti, al di fuori di procedure comparative.
Anche su tale punto la Sezione si è già espressa nel senso che il principio generale per cui l'attività di organizzazione delle forze lavorative, imputabile al gestore del pubblico servizio, complessivamente sottoposta ai principi di buon andamento e imparzialità di cui all'art. 97 cost., comporta l’obbligo di trasparenza, va temperato con le peculiarità del caso concreto; ne discende che il dipendente può chiedere l’ostensione di documenti relativi a circostanze di fatto riguardanti altri dipendenti, quali ad esempio i fogli firma delle presenze giornaliere; viceversa, laddove trattasi di valutazioni o opinioni, l’accesso agli atti deve ritenersi consentito solo con riguardo a valutazioni effettuate nell’ambito di procedure comparative, volte a selezionare il personale.
Il diritto d'accesso non è, dunque, assoluto e incondizionato ma presuppone un collegamento qualificato tra l’interesse sostanziale del richiedente, che deve essere serio e non emulativo, e la documentazione di cui si pretende la conoscenza (v. sentenza n. 389/2013 cit.).
Invero una istanza di accesso formulata al di fuori del suddetto perimetro finisce, in realtà, con l’essere finalizzata ad eseguire un inammissibile controllo generalizzato non tanto sull'operato dell'amministrazione quanto, piuttosto, sulle presupposte scelte discrezionali (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 21.02.2013, n. 57) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 28.07.2014 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione“.
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.

Con il primo mezzo il ricorrente lamenta di aver presentato per gli abusi oggetto dell’impugnata ordinanza, istanza di concessione in sanatoria ex art. 36, D.P.R. n. 380/2001, la quale determina la paralisi del potere sanzionatorio e l’improduttività di effetti dell’ordinanza gravata.
La doglianza è infondata alla luce di costante giurisprudenza del Tribunale, più volte enunciata anche dalla Sezione, che ha avuto modo di precisare che “L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia (in tal senso, da ultimo TAR Campania–Napoli, Sez. III, 28.01.2013 n. 651; ID, 05.12.2012, n. 4941), decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione“ (TAR Campania–Napoli, III, 22.02.2013 n. 1070).
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.07.2014 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi, escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento e l’inutilità della partecipazione del destinatario.
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L’unico presupposto dell’ordinanza di demolizione è l’accertata abusività delle opere, la loro descrizione e l’indicazione del perché del loro carattere abusivo, senza alcuna necessità di ulteriore motivazione, in particolare in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla rimozione delle medesime.
Rammenta il Collegio che la Sezione ha da tempo affermato il delineato avviso precisando che “i provvedimenti repressivi, come l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato”, conseguendone che “i provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato)”.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive e delle ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.
La Sezione ha di recente ribadito la non necessità di una specifica motivazione oltre la descrizione dell’abuso e l’enunciazione ancorché sintetica delle ragioni del’abusività.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione delle garanzie procedimentali disegnate all’art. 7 della L. n. 241/1990 lamentando l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento volto all’adozione dell’ordinanza di demolizione, all’uopo invocando superata giurisprudenza.
La censura è infondata in diritto poiché per giurisprudenza costante l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento (TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 17.01.2007, n. 357).
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi, escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento e l’inutilità della partecipazione del destinatario (TAR Campania–Napoli, sez. III 10.10.2013 n. 4534; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 301; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.2012, n. 3302).
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Con il quarto mezzo il deducente si duole del difetto di motivazione, sostenendo che dal provvedimento avversato non risultino le superiori e prevalenti ragioni di interesse pubblico che militano a suffragio della scelta della sanzione demolitoria.
La doglianza è contraddetta da pacifica giurisprudenza che afferma che l’unico presupposto dell’ordinanza di demolizione è l’accertata abusività delle opere, la loro descrizione e l’indicazione del perché del loro carattere abusivo, senza alcuna necessità di ulteriore motivazione, in particolare in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla rimozione delle medesime.
Rammenta il Collegio che la Sezione ha da tempo affermato il delineato avviso precisando che “i provvedimenti repressivi, come l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato”, conseguendone che “i provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato)” (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.07.2007, n. 6581; più di recente, TAR Campania, Napoli, Sez. III, n. 270/2011).
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive e delle ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale: TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011, n. 79).
La Sezione ha di recente ribadito la non necessità di una specifica motivazione oltre la descrizione dell’abuso e l’enunciazione ancorché sintetica delle ragioni del’abusività: TAR Campania Napoli, III, Sez. 20.03.2014 n. 1602; TAR Campania –Napoli, sez. III 10.10.2013 n. 4534; 26.09.2013, n. 4450
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.07.2014 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di pertinenza edilizia, invero, in virtù della prevalenza degli interessi pubblici all’ordinato assetto del territorio e al rispetto delle prescrizioni urbanistiche, presuppone anzitutto un dato fisico, riguardato nella scarsa consistenza volumetrica della cosa che si assume pertinenziale, di talché può riconoscersi la natura di pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto urbanistico.
Correlativamente, non può far difetto un requisito teleologico, consistente nella circostanza che la cosa non possa essere oggetto di autonoma valutazione ed utilizzazione ma che esista e abbia una funzione solo in quanto sia a servizio e a completamento della cosa principale (si consideri una legnaia di modeste dimensioni).
Se fa difetto il primo requisito, ossia quello strutturale e se, quindi, la cosa che si ritiene pertinenziale ha dimensioni consistenti, non occorre neanche appurare l’esistenza dell’elemento funzionale, dovendosi in radice escludere che il manufatto abbia natura pertinenziale.
Orbene, riguardo a tale imprescindibile requisito sostanziale si è, infatti, precisato che “La nozione amministrativa di pertinenza edilizia è assolutamente divergente dall'accezione civilistica di pertinenza e più ristretta di quest'ultima, essendo circoscritta a quei manufatti che non alterano in modo significativo l'assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono”.
Ancora più recentemente si è posto l’accento sull’elemento negativo che esclude la configurabilità della nozione di pertinenza e che risiede nelle notevoli dimensioni del manufatto e nella sua attitudine ad occupare aree ulteriori e diverse rispetto a quelle interessate dalla res principalis. Si è al riguardo puntualizzato, infatti, che “La nozione di pertinenza edilizia non coincide con la più ampia nozione descritta nell'art. 817 c.c. La prima tipologia identifica interventi edilizi minori, cosicché il rapporto pertinenziale non può esonerare dalla concessione le opere che, dal punto di vista urbanistico ed edilizio, si pongono come ulteriori, in quanto occupanti aree e volumi diversi rispetto alla cosa principale”.

Con il secondo mezzo il deducente lamenta che il Comune abbia travisato la natura delle opere eseguite, ritenendole sussumibili nella categoria edilizia della nuova costruzione, laddove le opere de quibus integrerebbero un manufatto pertinenziale, non determinando ulteriore aggravio degli standards ed essendo strettamente strumentali e funzionali alla cosa principale, non possedendo inoltre un autonomo valore di mercato.
La doglianza non persuade il Collegio, alla luce della corretta definizione delle pertinenze urbanistiche, come venutasi delineando in giurisprudenza.
La nozione di pertinenza edilizia, invero, in virtù della prevalenza degli interessi pubblici all’ordinato assetto del territorio e al rispetto delle prescrizioni urbanistiche, presuppone anzitutto un dato fisico, riguardato nella scarsa consistenza volumetrica della cosa che si assume pertinenziale, di talché può riconoscersi la natura di pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto urbanistico.
Correlativamente, non può far difetto un requisito teleologico, consistente nella circostanza che la cosa non possa essere oggetto di autonoma valutazione ed utilizzazione ma che esista e abbia una funzione solo in quanto sia a servizio e a completamento della cosa principale (si consideri una legnaia di modeste dimensioni).
Se fa difetto il primo requisito, ossia quello strutturale e se, quindi, la cosa che si ritiene pertinenziale ha dimensioni consistenti, non occorre neanche appurare l’esistenza dell’elemento funzionale, dovendosi in radice escludere che il manufatto abbia natura pertinenziale.
Orbene, riguardo a tale imprescindibile requisito sostanziale si è, infatti, precisato che “La nozione amministrativa di pertinenza edilizia è assolutamente divergente dall'accezione civilistica di pertinenza e più ristretta di quest'ultima, essendo circoscritta a quei manufatti che non alterano in modo significativo l'assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono” (TAR Piemonte, Sez. I, 04.09.2009, n. 2247).
Ancora più recentemente si è posto l’accento sull’elemento negativo che esclude la configurabilità della nozione di pertinenza e che risiede nelle notevoli dimensioni del manufatto e nella sua attitudine ad occupare aree ulteriori e diverse rispetto a quelle interessate dalla res principalis. Si è al riguardo puntualizzato, infatti, che “La nozione di pertinenza edilizia non coincide con la più ampia nozione descritta nell'art. 817 c.c. La prima tipologia identifica interventi edilizi minori, cosicché il rapporto pertinenziale non può esonerare dalla concessione le opere che, dal punto di vista urbanistico ed edilizio, si pongono come ulteriori, in quanto occupanti aree e volumi diversi rispetto alla cosa principale” (TAR Toscana, Sez. III, 11.02.2011, n. 273) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.07.2014 n. 4230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAStante l’autonomia dell’autorizzazione paesaggistica rispetto ai titoli edilizi, la mancanza della prima determina l’applicazione della sanzione demolitoria anche ad opere soggette a semplice d.i.a. e non a permesso di costruire.
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Anche se il titolo edilizio legittimante un intervento è la d.i.a., oggi la s.c.i.a., “L’imperatività e perentorietà dell’inciso “il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino”, di cui all’art. 167, conduce ad opinare che la sanzione da irrogare per l’avvenuta realizzazione di interventi edilizi senza la previa autorizzazione paesaggistica è sempre la rimessione in pristino, senza che residuino margini o spazi di valutazione discrezionale in ordine alla scelta tra la sanzione reale e quella pecuniaria, quest’ultima non essendo contemplata quale sanzione alternativa per i predetti abusi, atteso che il pagamento di una “indennità pecuniaria” –non di una sanzione– è previsto solo in caso di accoglimento dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica postuma là dove quest’ultima è ammessa dall’art. 167, comma 4, ossia relativamente agli interventi minori posti in essere senza l’autorizzazione preventiva”.
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Ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggetta a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.
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L'art. 27, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 riconosce all'Amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione, in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato; e ciò mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità, in quanto rivolto a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con d.i.a., prive di autorizzazione paesaggistica.

Con il primo e il terzo mezzo, che possono essere trattati congiuntamente, esponendo la stessa censura, la deducente rubrica violazione dell’art. 35, d.p.r. n. 380/2001, eccesso di potere per sviamento, difetto dei presupposti ed istruttoria, dolendosi che erroneamente il Comune abbia applicato l’art. 35 cit., che sanziona con la demolizione l’abusiva realizzazione su suolo pubblico di manufatti assoggettati a permesso di costruire, laddove l’insegna in questione è soggetta a mera d.i.a., come del resto riconosciuto dalla stessa autorità procedente.
La censura è serenamente infondata alla luce della giurisprudenza della Sezione, del Tribunale e di altre corti, la quale afferma che, stante l’autonomia dell’autorizzazione paesaggistica rispetto ai titoli edilizi, la mancanza della prima determina l’applicazione della sanzione demolitoria anche ad opere soggette a semplice d.i.a. e non a permesso di costruire.
Dalla lettura dell’impugnata ordinanza emerge invero che l’insegna di cui è causa è stata istallata “in assenza del parere ambientale di cui all’art. 146 del Decreto Legislativo n. 42/2004”.
Di conseguenza, la rimessione in pristino è stata ingiunta, ove anche dovesse ritenersi erroneo il richiamo all’art. 35 del Testo unico sull’edilizia, a norma dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Osserva al riguardo in chiave ricostruttiva il Collegio che l’autorizzazione paesaggistica, che costituisce atto autonomo e presupposto rispetto ai titoli legittimanti l’intervento edilizio, siano essi D.I.A. o permesso di costruire, come espressamente recita l’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, è richiesta e salvo i casi di esclusione tassativamente definiti all’art. 149, per ogni tipo di intervento edilizio da effettuare in zone vincolate –come il territorio del resistente Comune– ed i soggetti aventi titolo “hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendono intraprendere e devono “astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione” (art. 146, comma 2, d.lgs. cit.).
La sanzione amministrativa contemplata dalla legge per il caso di inosservanza della riportata disposizione e la conseguente realizzazione di interventi edilizi non assistiti dal previo ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica, siano essi assoggettati, dal punto di vista edilizio e ai sensi del D.P.R. n. 380/2001 a permesso di costruire o a D.I.A., è definita all’art. 167 del Codice, che la individua tout court nella demolizione, stabilendo che “in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese”. E l’art. 146 che impone il previo ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica onde realizzare interventi edilizi è collocato nel Capo IV del Titolo I della Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio.
Segnala il Collegio che la Sezione ha già chiarito che anche se il titolo edilizio legittimante un intervento è la d.i.a., oggi la s.c.i.a., “L’imperatività e perentorietà dell’inciso appena riportato, “il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino”, di cui all’art. 167, conduce ad opinare che la sanzione da irrogare per l’avvenuta realizzazione di interventi edilizi senza la previa autorizzazione paesaggistica è sempre la rimessione in pristino, senza che residuino margini o spazi di valutazione discrezionale in ordine alla scelta tra la sanzione reale e quella pecuniaria, quest’ultima non essendo contemplata quale sanzione alternativa per i predetti abusi, atteso che il pagamento di una “indennità pecuniaria” –non di una sanzione– è previsto solo in caso di accoglimento dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica postuma là dove quest’ultima è ammessa dall’art. 167, comma 4, ossia relativamente agli interventi minori posti in essere senza l’autorizzazione preventiva” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 22.02.2013 n. 1069).
L’insegna in analisi è stata dunque realizzata senza il previo parere di compatibilità paesaggistica richiesto dall’art. 146 del Codice Urbani, come attesta il provvedimento avversato, conseguendone la piena legittimità dell’adottata ordinanza di rimessione in pristino.
Il Tribunale ha infatti successivamente precisato che “Ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggetta a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica” (TAR Napoli, Sez. VI 23.10.2013, n. 4676 ) .
Anche altro Tribunale ha più di recente chiarito che “L'art. 27, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 riconosce all'Amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione, in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato; e ciò mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità, in quanto rivolto a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con d.i.a., prive di autorizzazione paesaggistica” (TAR Molise, sez. I 21.03.2014 n. 181)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.07.2014 n. 4226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha da tempo attinto il principio di diritto per il quale le ordinanze di demolizione hanno un contenuto rigidamente vincolato, ancorato al mero riscontro dell’abusività di un’opera, che da solo legittima e impone l’adozione della misura ripristinatoria, senza che occorra esplicitare la sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione ovvero la prevalenza di quest’ultimo sul contrapposto interesse del privato al mantenimento in vita dall’abuso.
Rammenta il Collegio che la Sezione ha da tempo affermato il delineato avviso precisando che “i provvedimenti repressivi, come l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato”, conseguendone che “i provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato)”.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive e delle ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.

Tutti e tre i sintetizzati motivi sono all’evidenza infondati e come tale vanno reietti, avendo la giurisprudenza da tempo attinto il principio di diritto per il quale le ordinanze di demolizione hanno un contenuto rigidamente vincolato, ancorato al mero riscontro dell’abusività di un’opera, che da solo legittima e impone l’adozione della misura ripristinatoria, senza che occorra esplicitare la sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione ovvero la prevalenza di quest’ultimo sul contrapposto interesse del privato al mantenimento in vita dall’abuso.
Rammenta il Collegio che la Sezione ha da tempo affermato il delineato avviso precisando che “i provvedimenti repressivi, come l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato”, conseguendone che “i provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato)” (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.07.2007, n. 6581; più di recente, TAR Campania, Napoli, Sez. III, n. 270/2011).
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive e delle ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale: TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011, n. 79).
La Sezione ha di recente ribadito l’indirizzo in rassegna: ex multis, TAR Campania Napoli, III Sez., 20.03.2014 n. 1602; TAR Campania–Napoli, sez. III 10.10.2013 n. 4534; 26.09.2013, n. 4450
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.07.2014 n. 4226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica e concessione edilizia per immobili a destinazione asseritamente non residenziale.
La sentenza affronta il tema della necessaria coerenza del progetto agronomico con la specifica situazione del terreno, in zona agricola ma sottoposto a vincolo, al fine di legittimare l'autorizzazione paesaggistica e la concessione edilizia per immobili a destinazione asseritamente non residenziale (Corte d'Appello di Cagliari, Sez. II, sentenza 18.06.2014 - link a www.lexambiente.it).

TRIBUTILe Poste pagano la tassa rifiuti come p.a. e non come imprese.
La scelta delle tariffe Tarsu è legata alla destinazione dei locali e non al soggetto che utilizza le superfici. Gli uffici postali non possono essere inquadrati nella categoria imprese commerciali, anziché in quella degli uffici pubblici, solo perché le Poste italiane hanno cambiato natura giuridica da ente pubblico economico a società per azioni. Il comune, quindi, non può pretendere di far pagare agli uffici postali la tassa rifiuti come una banca, un istituto di credito o uno studio professionale, considerato che svolgono una funzione istituzionale e un servizio cosiddetto «universale».
È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza 06.06.2014 n. 12777 (tratta da www.entionline.it).
Per i giudici di piazza Cavour, la categoria «ufficio pubblico» prevista dal regolamento comunale «non può ritenersi riferita al soggetto che usa le superfici, ma involge necessariamente la considerazione del tipo di uso, desunto dalla destinazione dei locali e/o delle aree tassabili». Dunque, al di là della qualificazione giuridica dell'Ente poste, «all'immobile avente destinazione di ufficio postale deve applicarsi la tariffa corrispondente alla categoria degli «uffici pubblici», e non quella relativa alla categoria degli «uffici commerciali e studi professionali, banche» e simili. Secondo la Cassazione, non può essere messo in dubbio che l'ufficio postale resti comunque asservito alla funzione istituzionale propria «dell'afferente servizio cosiddetto universale».
La legge detta i criteri ai quali i comuni si devono attenere per la determinazione delle tariffe. Compito degli enti è la determinazione delle tariffe e l'indicazione delle categorie di locali e aree con omogenea potenzialità di rifiuti. In base all'articolo 68 del decreto legislativo 507/1993 i comuni erano tenuti a adottare un regolamento che contenesse non solo la classificazione delle categorie e eventuali sottocategorie, ma anche la graduazione delle tariffe ridotte per particolari condizioni d'uso.
Nell'ambito del potere regolamentare potevano essere individuate anche le fattispecie agevolative, con le relative condizioni, le modalità di richiesta e le eventuali cause di decadenza. Qualora queste regole non fossero state rispettate, il contribuente avrebbe potuto impugnare i relativi atti generali (regolamenti e delibere) innanzi al giudice amministrativo. L'eventuale pronuncia di annullamento del Tar ha effetti erga omnes e vale nei confronti di tutti i contribuenti potenzialmente interessati a denunciare i vizi di legittimità.
Il giudice tributario, invece, può disapplicare il regolamento che disciplina la tassa rifiuti se ritiene che i criteri adottati dal comune siano in contrasto con le leggi vigenti, ma non può fissare nuovi criteri in sede giudiziale. La Corte di cassazione (sentenza 9415/2005) ha chiarito che le commissioni tributarie non possono rideterminare l'importo del tributo dovuto, modificando le percentuali in relazione alla diversa destinazione delle aree tassabili
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione gratuita parcheggi per singole unità immobiliari solo se costruiti nel sottosuolo per l'intera altezza.
L'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122 consente di realizzare gratuitamente parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari solo se realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza (ovvero al piano terra dello stesso fabbricato ove sono situate le unità immobiliari di cui il parcheggio costituisce pertinenza).
La predetta norma, ponendosi in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, è di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione.
In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera solo ed esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto dell'originario piano naturale di campagna, senza alcuna tolleranza di sorta, mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra.

Del pari non possono essere condivise le residue doglianze sulla pretesa sanabilità del manufatto in argomento.
Ed, invero, in aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. IV del 16.04.2012; Sez. IV, 13.07.2011 n. 4234 e Sez. IV 16.4.2012 n. 2185), deve rilevarsi che l'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122 consente di realizzare gratuitamente parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari solo se realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza (ovvero al piano terra dello stesso fabbricato ove sono situate le unità immobiliari di cui il parcheggio costituisce pertinenza).
La predetta norma, ponendosi in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, è di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione. In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera solo ed esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto dell'originario piano naturale di campagna, senza alcuna tolleranza di sorta, mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra (cfr. anche Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8260; Consiglio Stato, sez. IV, 23.02.2009, n. 1070).
Inoltre, alcun elemento versato in atti consente di suffragare il costrutto giuridico attoreo nella parte in cui afferma che il manufatto in argomento si è sviluppato al di sotto del piano di campagna. La stessa relazione tecnica versata in atti, pur dando evidenza alla conformazione a gradoni del terreno, non assevera in modo chiaro tale assunto.
Di contro le emergenze istruttorie si rivelano incompatibili con la suddetta asserzione evidenziando come il locale de quo rechi una copertura in lamiera grecata con sovrastante massetto per la configurazione delle pendenze (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.04.2014 n. 1904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sopraelevazione del muro di confine necessita di permesso di costruire.
La giurisprudenza amministrativa ha affermato in più occasioni che il muro di contenimento che ha prodotto un dislivello oppure ha aumentato quello già esistente, costituisce costruzione la cui realizzazione postula il previo rilascio del permesso di costruire.
La mera preesistenza del muro non può essere di per sé titolo legittimante l'esecuzione di una serie di modifiche che ne hanno mutato l'aspetto esteriore e l'impatto visivo, né la pretesa natura pertinenziale fa venire meno la necessità di munirsi di idoneo titolo abilitativo laddove l'opera presenti, anche alla luce di una valutazione complessiva dell'intervento e del conseguente ingombro, caratteristiche tali da alterare la complessiva percezione del manufatto.
Nella fattispecie, nel provvedimento si riferisce di una sopraelevazione del muro di confine realizzata in difformità dal titolo, per un’altezza variabile da mt. 1,00 a mt. 1,20 per una lunghezza di ml. 33.

La giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR, Piemonte, Torino, sez. I, 18.12.2013 n. 1368; TAR Campania, Napoli, sez VIII, 06.11.2012, n. 4427; sez. IV 03.04.2012, n. 1542) ha affermato in più occasioni che il muro di contenimento che ha prodotto un dislivello oppure ha aumentato quello già esistente, costituisce costruzione la cui realizzazione postula il previo rilascio del permesso di costruire. Questa Sezione, in particolare, ha statuito che la mera preesistenza del muro (cfr. eccezione del controinteressato che rappresenta che il muro era già stato autorizzato e, dunque preesisteva) non può essere di per sé titolo legittimante l'esecuzione di una serie di modifiche che ne hanno mutato l'aspetto esteriore e l'impatto visivo, né la pretesa natura pertinenziale fa venire meno la necessità di munirsi di idoneo titolo abilitativo laddove l'opera presenti, anche alla luce di una valutazione complessiva dell'intervento e del conseguente ingombro, caratteristiche tali da alterare la complessiva percezione del manufatto (cfr. 07.12.2011, n. 5718).
Nella fattispecie, nel provvedimento si riferisce di una sopraelevazione del muro di confine realizzata in difformità dal titolo, per un’altezza variabile da mt. 1,00 a mt. 1,20 per una lunghezza di ml. 33. Essendo evidente che l’opera, così come descritta nell’ordinanza, è suscettibile di incidere in modo permanente e significativo sul territorio, per giunta paesaggisticamente vincolato, risulta incongruente la conclusione cui perviene il Comune di applicare la sola sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 e non la misura rispristinatoria di cui al precedente art. 27 del medesimo decreto, applicabile nell’ipotesi in cui vengono eseguite opere senza titolo su aree assoggettate a vincolo paesistico.
In altri termini, l’intervento, come dedotto da parte ricorrente non era realizzabile con DIA (che in sua mancanza prevede la mera sanzione pecuniaria) ma avrebbe richiesto la previa acquisizione del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica che se omesse determinano l’adozione dell’ingiunzione di demolizione.
Non rileva, in questa sede, che la difformità rispetto al titolo edilizio (ossia la differente altezza e collocazione del muro) sia scaturita dalle opere, asseritamente abusive (sradicamento della vegetazione, trasformazione del terreno, livellamento del piano campagna) realizzate dal ricorrente (cfr. difesa del controinteressato) in quanto ciò che rileva ai fini dell’esame dei profili di illegittimità del provvedimento è che l’oggettiva trasformazione del territorio determinatasi per effetto della nuova collocazione e consistenza del muro avrebbe richiesto la previa acquisizione del permesso di costruire (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.04.2014 n. 1925 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza, ai sensi dell'art. 34 d.P.R. n. 380/2001, la sanzione pecuniaria per interventi di ristrutturazione edilizia è una misura eccezionale, alternativa alla demolizione solo ove risulti l'impossibilità del ripristino, che può essere rilevata d'ufficio o fatta valere dall'interessato soltanto in sede di esecuzione dell'eventuale ordine di demolizione, non in sede di adozione dello stesso.
Ne deriva che la sussistenza di un eventuale pregiudizio non rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio.

Quanto, infine, alla questione posta dal controinteressato relativa al fatto che il Comune avrebbe applicato l’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 (il quale com’è noto al secondo comma dispone che quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente od il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pecuniaria pari al doppio) deve osservarsi, in primo luogo, che l’amministrazione ha adottato l’atto ai sensi dell’art. 37 e non della disposizione citata dalla difesa del controinteressato, in secondo luogo, che in ipotesi non vi sarebbe alcun ostacolo ad adottare l’ingiunzione di demolizione.
Per costante giurisprudenza, infatti, ai sensi dell'art. 34 d.P.R. n. 380/2001, la sanzione pecuniaria per interventi di ristrutturazione edilizia è una misura eccezionale, alternativa alla demolizione solo ove risulti l'impossibilità del ripristino, che può essere rilevata d'ufficio o fatta valere dall'interessato soltanto in sede di esecuzione dell'eventuale ordine di demolizione, non in sede di adozione dello stesso.
Ne deriva che la sussistenza di un eventuale pregiudizio non rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio (cfr. TAR, Campania, Napoli, sez. IV, 23.02.2012, n. 969) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.04.2014 n. 1925 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO: Registro degli incendi e art. 328 cod. pen..
Costituisce inadempimento rilevante ai fini della configurabilità del reato ex art. 328 c.p. (ndr: rifiuto di atti d'ufficio) la mancata istituzione da parte dell'organo competente del comune del registro degli incendi di cui all'art. 10, comma 2, della legge n.353 del 2000 (TRIBUNALE di Palermo - Ufficio GIP -  sentenza 26.02.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATANei casi previsti alle lett. a-b-c del comma 4 dell’art. 167 dlgs 42/2004, l’accertamento della compatibilità paesaggistica delle opere da parte dell’autorità preposta alla gestione del vincolo, comporta l’applicazione al trasgressore della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004, come modificato dall’art. 27 del d.lgs n. 152/2006. Qualora, invece, la domanda di sanatoria venga rigettata, per il combinato disposto dei commi 1 e 5 del citato articolo 167, troverà applicazione la sanzione della rimessione in pristino a spese del trasgressore.
La presentazione della domanda di autorizzazione paesaggistica in sanatoria obbliga, pertanto, l’Amministrazione alla formazione di un nuovo provvedimento esplicito di accoglimento o di rigetto dell’istanza, che, in quanto atto a carattere non meramente confermativo, rende definitivamente inoperante il precedente provvedimento ripristinatorio.
In caso di accoglimento dell’istanza, infatti, l’accertata compatibilità paesaggistica delle opere le rende legittime, precludendo l’applicazione della sanzione demolitoria, dandosi luogo all’applicazione di una semplice sanzione pecuniaria; nel caso contrario, dovrà comunque essere riattivato il procedimento sanzionatorio sulla base dell’accertata non sanabilità paesaggistica delle opere stesse.

In precedente fattispecie, sostanzialmente identica (TAR Piemonte, sez. I, 20.07.2006, n. 3031), si è già affermato che nei casi previsti alle lett. a-b-c del comma 4 dell’art. 167, l’accertamento della compatibilità paesaggistica delle opere da parte dell’autorità preposta alla gestione del vincolo, comporta l’applicazione al trasgressore della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004, come modificato dall’art. 27 del d.lgs n. 152/2006. Qualora, invece, la domanda di sanatoria venga rigettata, per il combinato disposto dei commi 1 e 5 del citato articolo 167, troverà applicazione la sanzione della rimessione in pristino a spese del trasgressore.
La presentazione della domanda di autorizzazione paesaggistica in sanatoria obbliga, pertanto, l’Amministrazione alla formazione di un nuovo provvedimento esplicito di accoglimento o di rigetto dell’istanza, che, in quanto atto a carattere non meramente confermativo, rende definitivamente inoperante il precedente provvedimento ripristinatorio.
In caso di accoglimento dell’istanza, infatti, l’accertata compatibilità paesaggistica delle opere le rende legittime, precludendo l’applicazione della sanzione demolitoria, dandosi luogo all’applicazione di una semplice sanzione pecuniaria; nel caso contrario, dovrà comunque essere riattivato il procedimento sanzionatorio sulla base dell’accertata non sanabilità paesaggistica delle opere stesse.
Detti principi trovano applicazione nel caso in esame, ove la domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica è intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso, e dunque la carenza di interesse è sopravvenuta e determina l’improcedibilità dello stesso (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 29.10.2010 n. 3938 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 167 del D.Lgs. 42/2004 prevede al comma 5 (terzo periodo) che “Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione”; e aggiunge (periodo successivo): “L’importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima”.
La norma costituisce esplicazione della potestà legislativa esclusiva che compete allo Stato in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, secondo quanto previsto dall’art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, nel testo novellato dall’art. 3, comma 1, della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3.
Ciò comporta che ogni eventuale diversa previsione contenuta in una norma regionale previgente deve ritenersi abrogata per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi.

Nel merito, il ricorso è fondato e va accolto nei limiti qui di seguito precisati.
L’art. 1, comma 37, della L. 15.12.2004 n. 308 (contenente la “delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione”), dispone che “Per i lavori compiuti su beni paesaggistici entro e non oltre il 30.09.2004 senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa, l’accertamento di compatibilità paesaggistica dei lavori effettivamente eseguiti […] comporta l’estinzione del reato di cui all’art. 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004, e di ogni altro reato in materia paesaggistica alle seguenti condizioni:
a) [omissis];
b) che i trasgressori abbiano previamente pagato:
   1) la sanzione pecuniaria di cui all’art. 167 del decreto legislativo n. 42 del 2004, maggiorata da un terzo alla metà;
   2) una sanzione pecuniaria aggiuntiva, determinata dall’autorità amministrativa competente all’applicazione della sanzione di cui al precedente numero 1), tra un minimo di tremila euro ed un massimo di cinquantamila euro
”.
A sua volta, l’art. 167 del D.Lgs. 42/2004, richiamato dalla norma sopra citata, prevede al comma 5 (terzo periodo) che “Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione”; e aggiunge (periodo successivo): “L’importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima”.
La norma costituisce esplicazione della potestà legislativa esclusiva che compete allo Stato in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, secondo quanto previsto dall’art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, nel testo novellato dall’art. 3, comma 1, della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3.
Ciò comporta che ogni eventuale diversa previsione contenuta in una norma regionale previgente deve ritenersi abrogata per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi.
E’ il caso della norma di cui all’art. 16, comma 4, della L.R. Piemonte 03.04.1989, n. 20, concernente la determinazione dell’indennità pecuniaria prevista dall’art. 15 della L. 1497/1939 (analoga a quella oggi prevista dal predetto art. 167 del Codice Urbani).
Tale norma, secondo il collegio, contiene previsioni che si pongono in palese contrasto con il criterio di quantificazione della medesima indennità previsto dalla sopravvenuta normativa statale: mentre infatti quest’ultima, come detto, prevede che la predetta indennità debba essere determinata in una “somma equivalente al maggior importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e “previa perizia di stima”, la norma regionale, invece, predetermina la medesima indennità in un importo fisso, corrispondente al “100% del valore delle opere eseguite” e comunque in misura non inferiore ad importi anch’essi rigidamente prefissati, diversificati a seconda delle diverse ipotesi contemplate.
Da tale constatazione conseguono le seguenti considerazioni:
- la norma di cui all’art. 16, comma 4, della L.R. Piemonte n. 20/1989, afferendo a materia riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, deve ritenersi abrogata per incompatibilità a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004;
- conseguentemente, la delibera della giunta comunale di La Loggia n. 111 del 12.09.2006, nel prescrivere che “la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 1, comma 37, lettera b), della L. 15.12.2004, n. 308 debba consistere nella sanzione pecuniaria di cui all’art. 16 della Legge Regionale 03.04.1989, n. 20, maggiorata da un terzo alla metà”, è illegittima per violazione dell’art. 1, comma 37, della L. 308/2004, in combinato disposto con gli articoli 117, comma 2, lettera s), della Costituzione e 167 del D.Lgs. 42/2004;
- per l’effetto, è viziata da illegittimità derivata la nota n. 966 del 22.01.2008 con la quale il responsabile del servizio del Comune di la Loggia, facendo applicazione dei criteri stabiliti nella predetta delibera giuntale (criteri illegittimi perché determinati per relationem con riferimento ad una norma regionale abrogata), ha quantificato le sanzioni pecuniarie previste dall’art. 1, comma 37, lettera b), della L. 15.12.2004, n. 308 alla luce dei criteri “di cui all’art. 16 della L.R. 20/1989 (punto b) della D.G.C. 111/2006”, invece di applicare la sopravvenuta normativa statale di cui all’art. 167 del D.lgs. 42/2004;
- ciò ha comportato, in particolare, che la sanzione è stata quantificata in assenza di una “previa perizia di stima” finalizzata ad accertare “il maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito”, come invece previsto dal citato art. 167, con conseguente difetto di istruttoria;
- inoltre, nello stesso provvedimento è stata omessa ogni motivazione sulla ragione che ha indotto l’amministrazione ad applicare la sanzione aggiuntiva nella misura massima prevista dalla legge, laddove la facoltà prevista dall’art. 1, comma 37, della L. 308/2004 di graduare l’importo della predetta sanzione tra un minimo (di € 3.000) e un massimo (di € 50.000) avrebbe certamente imposto una congrua motivazione della scelta più penalizzante in concreto adottata.
Alla stregua di tali considerazioni sono dunque fondati entrambi i motivi di ricorso, sotto gli specifici profili appena evidenziati, restando assorbiti gli ulteriori (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.10.2010 n. 3733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo il consolidato orientamento giurisprudenziale il pagamento dell’indennità ex art. 15 della legge n. 1497/1939 non costituisce un’ipotesi di risarcimento del danno ambientale (per il quale l’ordinamento appresta il diverso strumento disciplinato dall’art. 18 della legge n. 349/1986), ma rappresenta una sanzione amministrativa applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali che compromettano l’integrità paesaggistica, sia in ipotesi di illeciti formali in cui è stato violato l’obbligo di munirsi preventivamente dell’autorizzazione a fronte di un intervento riconosciuto a posteriori compatibile con il contesto paesaggistico.
Che si tratti di sanzione emerge dal criterio legislativo che commisura l’indennità alla maggiore somma tra danno arrecato e profitto conseguito, dove il danno rileva solo ai fini della quantificazione della sanzione, potendo mancare per assenza di un vulnus materiale al paesaggio, nel qual caso l’indennità va commisurata al profitto conseguito, coincidente con l’arricchimento derivante al proprietario dalla realizzazione dell’abuso edilizio.
Sulla base di tali argomentazioni, il Consiglio di Stato ha più volte affermato che la sanzione in argomento è applicabile anche qualora le opere abusive ricadano in zone sottoposte a vincolo paesaggistico per le quali l’autorità preposta alla tutela del vincolo stesso abbia espresso parere favorevole alla sanatoria dell’abuso ex art. 32 della legge n. 47/1985.
L’art. 2, comma 46, della legge n. 662/1996 chiarisce che l’inapplicabilità, a seguito del condono edilizio, delle sanzioni amministrative, sancita in termini generali dall’art. 38 della legge n. 47/1985, non si estende alle sanzioni in materia paesaggistica ex art. 15 della legge n. 1497/1939, anche se l’abuso sia stato ritenuto condonabile dall’autorità preposta alla tutela del vincolo: tale norma va dunque intesa nel senso che la citata indennità costituisce sanzione amministrativa applicabile nonostante il rilascio dell’atto di condono edilizio.
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La circostanza che l’amministrazione abbia verificato la compatibilità ambientale in via postuma se da un lato esclude la compromissione dell’integrità paesaggistica, dall’altro non cancella la violazione dell’obbligo, ex art. 7 della legge n. 1497/1939, di conseguire in via preventiva l’assenso.
Il criterio di calcolo ancorato al valore catastale, inoltre, appare ispirato all’esigenza di determinare, in via forfettaria e prudenziale, l’arricchimento derivante al proprietario dalla realizzazione dell’opera abusiva.
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Gli illeciti in materia paesaggistica, urbanistica ed edilizia, ove consistano nella realizzazione di opere senza le dovute autorizzazioni, assumono natura di illeciti permanenti, in relazione ai quali il termine di prescrizione inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza (ovvero con l’irrogazione della sanzione pecuniaria o con il conseguimento del permesso postumo).
Nel caso di specie, in cui l’illecito è consistito nella realizzazione di un’opera in zona vincolata senza la prescritta autorizzazione paesaggistica e senza il necessario titolo edilizio, la permanenza non può dirsi cessata, e quindi non si è verificata la prescrizione eccepita dal ricorrente.

Con il primo motivo il ricorrente deduce che il rilascio della concessione in sanatoria e dell’autorizzazione paesaggistica esclude che sussista danno ambientale, e conclude che l’assenza di danno ambientale non consente di applicare l’indennità risarcitoria in questione, alla luce dell’art. 2, comma 46, della legge n. 662/1996.
La censura è infondata.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale il pagamento dell’indennità ex art. 15 della legge n. 1497/1939 non costituisce un’ipotesi di risarcimento del danno ambientale (per il quale l’ordinamento appresta il diverso strumento disciplinato dall’art. 18 della legge n. 349/1986), ma rappresenta una sanzione amministrativa applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali che compromettano l’integrità paesaggistica, sia in ipotesi di illeciti formali in cui è stato violato l’obbligo di munirsi preventivamente dell’autorizzazione a fronte di un intervento riconosciuto a posteriori compatibile con il contesto paesaggistico. Che si tratti di sanzione emerge dal criterio legislativo che commisura l’indennità alla maggiore somma tra danno arrecato e profitto conseguito, dove il danno rileva solo ai fini della quantificazione della sanzione, potendo mancare per assenza di un vulnus materiale al paesaggio, nel qual caso l’indennità va commisurata al profitto conseguito, coincidente con l’arricchimento derivante al proprietario dalla realizzazione dell’abuso edilizio.
Sulla base di tali argomentazioni, il Consiglio di Stato ha più volte affermato che la sanzione in argomento è applicabile anche qualora le opere abusive ricadano in zone sottoposte a vincolo paesaggistico per le quali l’autorità preposta alla tutela del vincolo stesso abbia espresso parere favorevole alla sanatoria dell’abuso ex art. 32 della legge n. 47/1985 (Cons. Stato, VI, 02/06/2000, n. 3184; idem, n. 5863/2000).
L’art. 2, comma 46, della legge n. 662/1996 chiarisce che l’inapplicabilità, a seguito del condono edilizio, delle sanzioni amministrative, sancita in termini generali dall’art. 38 della legge n. 47/1985, non si estende alle sanzioni in materia paesaggistica ex art. 15 della legge n. 1497/1939, anche se l’abuso sia stato ritenuto condonabile dall’autorità preposta alla tutela del vincolo: tale norma va dunque intesa nel senso che la citata indennità costituisce sanzione amministrativa applicabile nonostante il rilascio dell’atto di condono edilizio (Cons. Stato, VI, n. 5863/2000; TAR Toscana, III, 27/05/2003, n. 2068).
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Con la quarta censura il ricorrente deduce che il D.M. del 26/09/1997, recepito dalla deliberazione consiliare n. 125/1998, è irragionevole laddove determina il parametro del profitto in base all’applicazione di un’aliquota al valore catastale (elemento che egli ritiene sia irrilevante) e distingue in modo incomprensibile tra abusi conformi o non conformi alle norme di tutela, essendo evidente che il rilascio dell’atto di condono presuppone il riconoscimento della compatibilità con il vincolo.
Il rilievo è infondato alla stregua delle considerazioni espresse nella trattazione del primo motivo, in quanto la circostanza che l’amministrazione abbia verificato la compatibilità ambientale in via postuma se da un lato esclude la compromissione dell’integrità paesaggistica, dall’altro non cancella la violazione dell’obbligo, ex art. 7 della legge n. 1497/1939, di conseguire in via preventiva l’assenso (Cons. Stato, VI, n. 5863/2000). Il criterio di calcolo ancorato al valore catastale, inoltre, appare ispirato all’esigenza di determinare, in via forfettaria e prudenziale, l’arricchimento derivante al proprietario dalla realizzazione dell’opera abusiva.
La quinta doglianza è incentrata sull’avvenuto decorso del termine decennale di prescrizione per l’applicazione della sanzione in argomento.
Il motivo non può essere accolto.
Gli illeciti in materia paesaggistica, urbanistica ed edilizia, ove consistano nella realizzazione di opere senza le dovute autorizzazioni, assumono natura di illeciti permanenti, in relazione ai quali il termine di prescrizione inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza (ovvero con l’irrogazione della sanzione pecuniaria o con il conseguimento del permesso postumo). Nel caso di specie, in cui l’illecito è consistito nella realizzazione di un’opera in zona vincolata senza la prescritta autorizzazione paesaggistica e senza il necessario titolo edilizio, la permanenza non può dirsi cessata, e quindi non si è verificata la prescrizione eccepita dal ricorrente (Cons. Stato, IV, n. 7769/2003; Cons. Stato, VI, n. 1729/2003; TAR Toscana, III, 27/05/2003, n. 2068; idem, 18/02/2002, n. 255) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 29.06.2009 n. 1149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl pagamento della indennità ex art. 15 L. n. 1497 non costituisce una ipotesi di risarcimento del danno ambientale (per il quale l'ordinamento appresta un diverso e specifico strumento, disciplinato dall'art. 18 L. 08.07.1986, n. 349), ma rappresenta una sanzione amministrativa applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali che compromettano concretamente la integrità paesaggistica, sia in ipotesi di illeciti formali come è nel caso in esame in cui sia stato violato l'obbligo di munirsi preventivamente della autorizzazione, a fronte di un intervento riconosciuto (a posteriori) compatibile con il contesto paesistico.
Che si tratti di sanzione amministrativa emerge dallo stesso criterio legislativo che commisura la indennità alla maggiore somma tra il danno arrecato ed il profitto conseguito: dove il danno viene in rilievo solo ai fini della quantificazione della sanzione, potendo anche mancare per assenza di un "vulnus" materiale al paesaggio, nel qual caso la indennità verrà commisurata al profitto conseguito. E' quest'ultimo va individuato –conformemente alla natura sanzionatoria della indennità che mira ad esercitare una funzione deterrente– nell'arricchimento ottenuto dal proprietario per effetto della realizzazione dell'opera abusiva, senza che debba indagarsi se l'autorizzazione preventiva sarebbe stata concessa ove domandata a termini di legge.
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Assodato che la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497 costituisce una sanzione amministrativa irrogabile anche in assenza di danno ambientale, va ancora sottolineato che detta sanzione è applicabile anche nel caso di opere abusive ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico per le quali l'Autorità preposta alla tutela del vincolo abbia espresso parere favorevole alla sanatoria dell'abuso (ex art. 32 L. n. 47/1985).
La circostanza invero che per effetto della presentazione della istanza di condono non siano più irrogabili le sanzioni amministrative (ai sensi dell'art. 38 L. n. 47/1985) non concerne anche la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497 giacché la inapplicabilità delle sanzioni amministrative riguarda solo le violazioni previste dalla normativa urbanistico–edilizia e non anche quelle previste dalla normativa a tutela del paesaggio. In tal senso dispone del resto l'art. 2, comma 46, L. n. 662/1996, ove è statuito espressamente che a seguito del condono resta applicabile la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497.

Come già rilevato dalla richiamata giurisprudenza della Sezione, il pagamento della indennità ex art. 15 L. n. 1497 non costituisce una ipotesi di risarcimento del danno ambientale (per il quale l'ordinamento appresta un diverso e specifico strumento, disciplinato dall'art. 18 L. 08.07.1986, n. 349), ma rappresenta una sanzione amministrativa applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali che compromettano concretamente la integrità paesaggistica, sia in ipotesi di illeciti formali come è nel caso in esame in cui sia stato violato l'obbligo di munirsi preventivamente della autorizzazione, a fronte di un intervento riconosciuto (a posteriori) compatibile con il contesto paesistico.
Che si tratti di sanzione amministrativa emerge dallo stesso criterio legislativo che commisura la indennità alla maggiore somma tra il danno arrecato ed il profitto conseguito: dove il danno viene in rilievo solo ai fini della quantificazione della sanzione, potendo anche mancare per assenza di un "vulnus" materiale al paesaggio, nel qual caso la indennità verrà commisurata al profitto conseguito. E' quest'ultimo va individuato –conformemente alla natura sanzionatoria della indennità che mira ad esercitare una funzione deterrente– nell'arricchimento ottenuto dal proprietario per effetto della realizzazione dell'opera abusiva, senza che debba indagarsi se l'autorizzazione preventiva sarebbe stata concessa ove domandata a termini di legge.
Assodato che la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497 costituisce una sanzione amministrativa irrogabile anche in assenza di danno ambientale, va ancora sottolineato che detta sanzione è applicabile anche nel caso di opere abusive ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico per le quali l'Autorità preposta alla tutela del vincolo abbia espresso parere favorevole alla sanatoria dell'abuso (ex art. 32 L. n. 47/1985).
La circostanza invero che per effetto della presentazione della istanza di condono non siano più irrogabili le sanzioni amministrative (ai sensi dell'art. 38 L. n. 47/1985) non concerne anche la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497 giacché –come ha già rilevato la Sezione– la inapplicabilità delle sanzioni amministrative riguarda solo le violazioni previste dalla normativa urbanistico–edilizia e non anche quelle previste dalla normativa a tutela del paesaggio (così Cons. St. VI, 31.05.1990, n. 551). In tal senso dispone del resto l'art. 2, comma 46, L. n. 662/1996, ove è statuito espressamente che a seguito del condono resta applicabile la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497.
Alla stregua delle considerazioni che precedono deve dunque concludersi che una corretta interpretazione della normativa primaria induce a ritenere –diversamente da quanto statuito nella sentenza appellata– che sono pienamente legittimi gli atti impugnati in primo grado: vale a dire la delibera consiliare del Comune che ha determinato a carico dell'odierno appellato la misura della indennità di che trattasi in assenza di un accertato danno ambientale; ed il D.M. 26.06.1997 che ha determinato parametri e modalità per la quantificazione della indennità nella parte in cui si dispone <<l'applicazione obbligatoria della indennità stessa.....anche se dalla valutazione emerga che il parametro danno sia pari a zero>> (art. 4).
Una volta preso atto che funzione della normativa ora esaminata è quella di prevenire qualsiasi intervento incidente su beni soggetti a vincolo, che non sia stato preventivamente autorizzato, va da sé che i sospetti di illegittimità costituzionale avanzati dalla difesa dell'appellato con riferimento a detta normativa, per la supposta lesione degli artt. 3 e 97 Cost., non hanno ragione d'essere (Consiglio di Stato, VI, sentenza 03.04.2003 n. 1729).

AGGIORNAMENTO AL 05.08.2014

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UTILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: Congedo straordinario (L. 388/2000 art. 80, comma 2) - (D.lgs. 26.03.2001 n. 151, art. 42 come modificato dal D.lgs. 119/2011) (link a www.inps.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi retribuiti legge 104/1992 (L. 104/1992 art. 33 - D.lgs 151/2001 artt. 33 e 42, come modificati dalla L. 183/2010 e dal D.lgs. 119/2011) (link a www.inps.it).

EDILIZIA PRIVATAObblighi di dotare gli edifici di impianti rinnovabili e permesso di costruire, la sintesi di tutti gli adempimenti.
Il 29.03.2011 è entrato in vigore il cosiddetto “Decreto Rinnovabili” (D.Lgs. 28/2011) che definisce finalmente in maniera compiuta i criteri di dotazione degli edifici di impianti alimentati da fonti rinnovabili.
Il Decreto introduce 2 nuove definizioni:
edificio di nuova costruzione”, inteso come un edificio per il quale la richiesta del titolo edilizio comunque denominato (Permesso di Costruire, Scia, Dia, etc.) sia stata presentata successivamente alla data di entrata in vigore del presente Decreto;
edificio sottoposto a ristrutturazione rilevante”, inteso come edificio esistente avente superficie utile superiore a 1000 m², soggetto a ristrutturazione integrale degli elementi edilizi costituenti l'involucro oppure edificio esistente soggetto a demolizione e ricostruzione anche in manutenzione straordinaria.
In base a tali definizioni, per ogni fabbricato per il quale si richieda un nuovo titolo abilitativo (ad esempio il permesso di costruire per nuova costruzione, per cambio di destinazione d’uso o per ristrutturazione rilevante) occorre prevedere impianti alimentati da fonte rinnovabile.
La potenza elettrica degli impianti rinnovabili che devono essere obbligatoriamente installati sopra o all’interno dell’edificio o nelle relative pertinenze è definita dal Decreto in base alla tipologia di immobile, alla superficie e alla data di richiesta del titolo.
Da notare che l'inosservanza di tali obblighi comporta il diniego del rilascio del titolo edilizio.
In allegato a questo articolo proponiamo ai lettori di BibLus-net uno speciale contenente la tavola sinottica, con tutti gli obblighi per i vari edifici e con esempi applicativi del Decreto Rinnovabili (31.07.2014 - link a www.acca.it).

ENTI LOCALI - VARI: La fatturazione delle operazioni nella disciplina dell’Iva (articolo ItaliaOggi Sette del 28.07.2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Contenitori distributori mobili di gasolio: assoggettabilità agli obblighi del DPR 151/2011 (ANCE Bergamo, circolare 01.08.2014 n. 153).

ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: AC 2486-AR, DDL di conversione del decreto legge n. 90/2014 - Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari - Testo approvato dalla Camera dei Deputati il 31.07.2014 (nota di lettura delle disposizioni in materia di personale e delle altre disposizioni di interesse per gli enti locali) (ANCI, 31.07.2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA- URBANISTICA: B.U.R. Emilia Romagna, n. 210 del 14.07.2014:
"Atto di Coordinamento tecnico regionale per la definizione della modulistica edilizia unificata (art. 12, comma 4, lettere a) e b), e comma 5, L.R. 15/2013)" (deliberazione G.R. 07.07.2014 n. 993);
"Atto di Coordinamento tecnico regionale per la semplificazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, attraverso l'applicazione del principio di non duplicazione della normativa sovraordinata (artt. 16 e 18-bis, comma 4, L.R. 20/2000). Modifiche dell'atto di Coordinamento sulle definizioni tecniche uniformi per l'urbanistica e l'edilizia (DAL 279/2010)" (deliberazione G.R. 07.07.2014 n. 994).

LAVORI PUBBLICI: G.U.R.S. 11.07.2014 n. 28 "Responsabile del procedimento e responsabile unico del procedimento - Connotazioni e distinzioni - Direttive sulla individuazione del RUP" (Assessorato delle Infrastrutture ed ella Mobilità, circolare 25.06.2014 n. 4).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: R. Bianchini, Evidenza pubblica (02.08.2014 - link a www.altalex.com).

APPALTI: R. Bianchini, Affidamento in house (02.08.2014 - link a www.altalex.com).

APPALTI: V. Tevere, Revoca dell’aggiudicazione dopo la stipula del contratto di appalto (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 20.06.2014 n. 14) - È possibile revocare l’aggiudicazione dopo la stipula del contratto di appalto? (02.08.2014 - link a www.altalex.com).

APPALTI: P. Russo, L'esclusione dalla gara per omessa dichiarazione dei requisiti morali (10.07.2014 - link a www.altalex.com).

APPALTI SERVIZI: C. Volpe, L’affidamento in house. Questioni aperte sulla disciplina applicabile (04.07.2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Il certificato di rispondenza ex art. 62 D.P.R. n. 380/2001 e l’espropriazione di fatto (05.05.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Fanizzi, Inquinamento idrico: da acque meteoriche di dilavamento, di prima pioggia e reflue urbane di origine meteorica (28.04.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Ramacci, Il reato edilizio in area vincolata. Il reato paesaggistico (19-21.02.2014 - tratto da www.lexambiente.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIChi ha varato il bilancio non deve riapprovarlo.
I comuni che hanno varato il bilancio di previsione entro il 31.12.2013 possono introdurre le modifiche conseguenti alla definizione delle aliquote e delle tariffe dei tributi mediante una semplice variazione, senza necessità di riapprovare nuovamente il documento contabile.
Lo ha chiarito la Corte dei conti – sezione regionale di controllo per la Lombardia, col parere 15.07.2014 n. 216 rispondendo al quesito posto dal comune di Mandello del Lario (Lc).
Tale ente, avendo approvato il bilancio 2014 nello scorso mese di dicembre, ha chiesto lumi circa la possibilità di variarlo per modificare gli stanziamenti di entrata e di spesa a seguito dell'istituzione dei nuovi tributi (Tari e Tasi), effettuata entro il termine di approvazione del bilancio (al momento fissato al 30 settembre).
Secondo i magistrati contabili lombardi, la risposta è affermativa. È vero che la deliberazione delle sezioni riunite n. 2/2011 ha affermato che non sono ammissibili variazioni di aliquote e tariffe successivamente all'approvazione del bilancio di previsione. Ma la stessa pronuncia ha anche precisato che occorre considerare le eventuali deroghe consentite dal legislatore.
Nel caso di specie, è stata la legge di stabilità 2014 (legge 147/2013) ad avere introdotto l'obbligo di determinazione delle tariffe della Tari e delle aliquote della Tasi in un momento (01.01.2014) in cui i comuni potevano aver già approvato il bilancio di previsione.
Discorso diverso per gli enti che hanno approvato il preventivo nell'anno in corso: in tal caso, se si modificano i tributi, occorre approvare un nuovo documento contabile
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2014).

PATRIMONIODall’01.01.2014 gli enti locali possono effettuare operazioni di acquisto di beni immobili nei limiti e con le modalità di cui al comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15.07.2011, n. 111, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012 (solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità delle stesse, il "prezzo di acquisto" deve essere oggetto di una attestazione di congruità da parte dell'Agenzia del Demanio).
Con riferimento alla riconducibilità dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità nell’ambito di applicazione del comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, il Collegio ritiene condivisibile il parere della Sezione Veneto secondo cui la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle procedure espropriative. Ciò peraltro non significa che non trovino adeguata considerazione, all’interno del procedimento espropriativo, le prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la necessità di comprovare l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
Ai sensi dell’art. 42, comma 3, Cost. l’espropriazione è consentita, nei casi previsti dalla legge, per motivi di interesse generale. Tale finalità costituisce il presupposto indefettibile del potere di esproprio. Il Collegio ritiene che la disciplina relativa alle procedura di acquisizione di beni immobili (contenuta nell’art. comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011) e la disciplina delle procedure espropriative (contenuta nel d.p.r. n. 327/2001), non siano fra loro confliggenti e anzi siano caratterizzate da notevoli punti di contatto soprattutto per quanto attiene ai relativi presupposti.
Con specifico riferimento alla possibilità di effettuare una permuta da parte dell’ente locale si deve distinguere la fattispecie della permuta “pura” dalla fattispecie della permuta con conguaglio di prezzo. La permuta pura, costituisce un’operazione finanziariamente neutra e pertanto non rientra nell’ambito di applicazione del comma 1-ter. Diversamente, nell’ipotesi in cui l’operazione comprenda il versamento, da parte dell’ente territoriale, della differenza di valore fra i beni immobili oggetto di permuta, con la conseguente qualificazione dell’operazione non in termini di neutralità finanziaria, si ricade nell’alveo di applicazione del comma 1-ter.

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Il Sindaco del Comune di Lomazzo, con nota 30.01.2014, prot. Comunale n. 1889 (prot. Corte dei Conti, 03.02.2014 n. 1059), ha formulato una richiesta di parere in merito alla possibilità di acquistare beni immobili.
In particolare il Sindaco del Comune di Lomazzo chiede:
1) se effettivamente i comuni nell’anno 2014 possano acquistare beni immobili;
2) ovvero in subordine se, come per il 2013, sia ammesso acquisire immobili con procedure espropriative, ovvero nei casi di permuta a parità di prezzo;
3) se sia nel caso di permuta comunque ammissibile ricevere un immobile di valore inferiore con il versamento della somma della differenza di valore
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...
A decorrere dall’01.01.2014 gli enti locali possono effettuare operazioni di acquisto di beni immobili nei limiti e con le modalità di cui al comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15.07.2011, n. 111, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Attualmente quindi non è più vigente la precedente norma imperativa che vietava l’acquisto di beni immobili nell’anno 2013, contenuta nel comma 1-quater dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012 ("Per l'anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione ... (omissis)... non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti").
Il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, dispone che “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
A partire dal 01.01.2014 è stato quindi introdotto un regime che -al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno e con le modalità indicate dal richiamato comma 1-ter– consente operazioni di acquisto di beni immobili solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità delle stesse. Nel disciplinare le modalità di acquisto degli immobili da parte degli Enti Territoriali per l'anno 2014, il comma 1-ter dispone che il "prezzo di acquisto" debba essere oggetto di una attestazione di congruità da parte dell'Agenzia del Demanio.
Con specifico riferimento al quesito, presentato dal Sindaco del Comune di Lomazzo, relativo alla riconducibilità dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità nell’ambito di applicazione del comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, si rileva che sono già intervenute alcune pronunce di altre Sezioni regionali. In particolare, dopo un primo parere della Sezione regionale per la Liguria che, con deliberazione n. 9/2013/PAR, ha succintamente fornito risposta positiva al quesito, la Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha ritenuto, sulla base di un’approfondita disamina della problematica, che “la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle procedure espropriative. In tal senso si è pronunciata altresì la Sezione regionale per la Puglia, con deliberazione n. 89/PAR/2013.
Il Collegio ritiene condivisibile l’impostazione da ultimo riferita, pur ritenendo di dover svolgere alcune precisazioni.
Il comma 1-ter -che contiene un’espressa indicazione della propria finalità (“al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno”) ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3 della legge 31.12.2009, n. 196, contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti finanziari– contempla una disciplina delle condizioni e delle modalità delle operazioni di acquisto di immobili destinata a valere a tempo indeterminato e prospetta una specifica disciplina dei presupposti delle suddette operazioni.
Il previgente comma 1-quater (che conteneva un divieto di acquisto di beni immobili) dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, in vigore per tutto il 2013, era stato oggetto di una norma di interpretazione autentica (legge n. 64/2013) al fine di escludere espressamente dall’ambito di applicabilità del divieto ivi contenuto le procedure espropriative per pubblica utilità. Non si può quindi non tener conto del fatto che lo stesso legislatore abbia espressamente voluto –intervenendo con la legge 06.06.2013 n. 64 in riferimento al comma 1-quater citato- escludere dalla disciplina limitativa dell’acquisto di beni immobili da parte, fra l’altro, degli enti territoriali, le procedure espropriative.
D’altro canto la procedura espropriativa è oggetto di una compiuta e sistematica disciplina, contenuta nel d.p.r. 08.06.2001, n. 327, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità”, sia con riferimento ai presupposti di esercizio del potere, sia in relazione alle modalità di esercizio dello stesso.
L’applicazione del comma 1-ter alle procedure espropriative, comunque connesse all’esercizio di funzioni fondamentali dell’ente, quali quelle della programmazione del territorio e della pianificazione urbanistica, introdurrebbe incisive limitazioni nell’espletamento delle suddette funzioni e andrebbe a modificare una disciplina con carattere di specialità rispetto alla generale regolamentazione delle procedure di acquisto di beni da parte delle pubbliche amministrazioni. Il procedimento ablatorio è infatti legato da un rapporto strutturalmente molto stretto con l’attività di pianificazione urbanistica dal momento che, da un lato, l’espropriazione costituisce un imprescindibile strumento di pianificazione urbanistica e di attuazione del piano regolatore generale e rappresenta una delle tipiche modalità di perseguimento delle funzioni fondamentali degli enti territoriali e, dall’altro lato, la “conformazione della proprietà” è condizione necessaria del procedimento di esproprio e nasce dalle prescrizioni urbanistiche contenute nei piani regolatori.
Una limitazione del potere espropriativo si ripercuoterebbe anche sulla programmazione territoriale e sull’effettività della stessa, con conseguenze che, verosimilmente, andrebbero al di là delle dichiarate intenzioni del legislatore (conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dall’operatività delle disposizioni finalizzate al conseguimento degli obiettivi posti dal patto di stabilità interno). Del resto, eventuali vincoli alla potestà espropriativa delle amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto –alla luce del dettato costituzionale di cui all’art. 42, comma 3, e della riserva di legge in esso contenuta, che copre l’indicazione dei soggetti titolari del potere e degli interessi perseguibili, oltre ai beni espropriabili e alle regole procedimentali da osservare– essere espressamente individuati dal legislatore.
Inoltre risulta piuttosto difficile ritenere che il legislatore abbia voluto, in modo indiretto ma così incisivo, limitare l’attività di programmazione e di cura del territorio da parte degli enti a ciò competenti con una disposizione volta, in modo espresso, a realizzare effetti finanziari e senza prevedere alcuna disposizione di raccordo espresso. E ciò ancor più se si considera che la disciplina di cui al comma 1-ter –al contrario di quanto previsto nel previgente 1-quarter- contiene potenzialmente una regolamentazione a tempo indeterminato delle procedure di acquisto di beni immobili e non svolge invece una funzione esclusivamente derogatoria, per un tempo limitato, rispetto alla ordinaria modalità di acquisizione dei beni medesimi.
Dal punto di vista procedurale la disciplina delle modalità di effettuazione degli acquisti di beni immobili contenuta nel comma 1-ter verrebbe sostanzialmente a sovrapporsi, in modo peraltro non organico, all’iter espropriativo di cui al d.p.r. n. 327/2001. In particolare si porrebbero necessariamente problemi in ordine alla determinazione del “prezzo” di acquisizione del bene immobile.
La stessa prescrizione, contenuta nella disposizione di cui al comma 1-ter in esame, circa l’attestazione di conformità da parte dell’Agenzia del Demanio in ordine al "prezzo di acquisto" dell’immobile trova con difficoltà applicazione nell’ambito di una procedura espropriativa volta all’adozione di un provvedimento ablatorio, in quanto la determinazione dell'indennità di espropriazione è soggetta ai criteri e alla procedura previsti dal T.U. di cui al d.p.r. 08.06.2001, n. 327. L’art. 20 del T.U. prevede infatti che il promotore dell'espropriazione compili l'elenco dei beni da espropriare e dei relativi proprietari, con una descrizione sommaria, “ed indica le somme che offre per le loro espropriazioni” oppure rimetta al proprietario, ove non vi siano esigenze di celerità, anche in base ad una relazione esplicativa, la precisazione di “quale sia il valore da attribuire all'area ai fini della determinazione della indennità di esproprio”.
Inoltre, in base alle previsioni del Testo unico –oltre che dell’art. 42 della Costituzione, ai sensi del quale "La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale"-, è riconosciuto al proprietario un indennizzo e non un prezzo di acquisto. I due concetti non possono essere sovrapposti. La Corte costituzionale, con sentenza n. 348/2007, dopo aver precisato che il criterio di calcolo dell’indennizzo non deve essere valutato in modo assoluto ma in relazione al (mutevole) contesto storico di riferimento, ha indicato il valore di mercato del bene oblato quale punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione ma precisando che non vi è “coincidenza necessaria fra valore di mercato e indennità espropriativa” e che “il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene oblato”.
La predetta ricostruzione interpretativa porta ad escludere dal campo di applicazione della norma vincolistica di cui al comma 1-ter le procedure di espropriazione per pubblica utilità. Ciò peraltro non significa che non trovino adeguata considerazione, all’interno del procedimento espropriativo, le prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la necessità di comprovare l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno. Ai sensi dell’art. 42, comma 3, Cost. l’espropriazione è consentita, nei casi previsti dalla legge, per motivi di interesse generale. Tale finalità costituisce il presupposto indefettibile del potere di esproprio.
Il trasferimento coattivo deve risultare infatti “indispensabile per far fronte a bisogni che, pure se destinati a concretarsi in futuro o a essere soddisfatti soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che valga a far considerare necessario e tempestivo il sacrificio della proprietà privata nell’ora presente” (Corte costituzionale, 06.07.1966, n. 90). Attraverso la dichiarazione di pubblica utilità l’autorità espropriante è tenuta pertanto a valutare la sussistenza di tali condizioni, ponderando e confrontando gli interessi coinvolti e le prerogative di cui sono portatori i soggetti del procedimento, fra le quali devono essere ricompresi i vincoli di finanza pubblica. Ciò è testimoniato anche dal fatto che il d.p.r. n. 327/2001 è ispirato espressamente ai principi di economicità ed efficienza, oltre che di pubblicità e semplificazione (art. 2, comma 2).
D’altro canto la necessità che l’operazione espropriativa si qualifichi in termini di concretezza assicura che l’interesse pubblico perseguito non sia solamente ipotetico ma rivesta i caratteri dell’attualità. “L’espropriazione deve necessariamente collegarsi e cioè deve essere in rapporto immediato con la soddisfazione di effettive e specifiche esigenze rilevanti per la comunità” (Corte costituzionale, 06.07.1966, n. 90). In particolare il requisito temporale, declinato in termini di urgenza –e quindi sottolineando la stretta concomitanza che deve sussistere fra il l’interesso pubblico a cui è preordinata l’espropriazione e la procedura ablatoria–, viene richiesto in modo ancora più incisivo nelle ipotesi di decreto di esproprio urgente (art. 20 d.p.r. 327/2001) e di decreto d’occupazione d’urgenza (art. 22-bis d.p.r. n. 327/2001).
Si ritiene pertanto che, nei termini sopra descritti, le due discipline, la disciplina relativa alle procedura di acquisizione di beni immobili (contenuta nell’art. comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011) e la disciplina delle procedure espropriative (contenuta nel d.p.r. n. 327/2001), non siano fra loro confliggenti e anzi siano caratterizzate da notevoli punti di contatto soprattutto per quanto attiene ai relativi presupposti.
Con specifico riferimento all’ulteriore quesito posto da Sindaco del Comune di Lomazzo in ordine alla possibilità di effettuare una permuta da parte dell’ente locale si deve distinguere la fattispecie della permuta “pura” dalla fattispecie della permuta con conguaglio di prezzo.
Si è già detto che il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012 –che contiene un’espressa indicazione della propria finalità “al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno”- novella un decreto-legge recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”, ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti finanziari.
La permuta pura, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali afferenti a beni immobili, costituisce un’operazione finanziariamente neutra (in termini, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, nn. 162/2013/PAR, 164/2013/PAR e 193/2013/PAR) e pertanto non rientra nell’ambito di applicazione del comma 1-ter.
Peraltro, il comma 1-ter dell’art. 12 citato prevede espressamente una serie di obblighi concernenti le operazioni di acquisto che prevedono l'indicazione “del soggetto alienante e del prezzo pattuito” mentre nel contratto di permuta le posizioni di alienante e di acquirenti sono reciproche e predicabili con riferimenti a entrambi i contraenti. Ciò costituisce un ulteriore indizio dell’inapplicabilità della disposizione in esame ai casi di permuta “pura” (in termini Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, n. 193/2013/PAR).
Tali considerazioni si applicano ai soli casi di permuta “pura”, nel presupposto dell’effettiva coincidenza di valore, idoneamente accertata, fra i beni oggetto di permuta.
Diversamente, cioè nell’ipotesi in cui l’operazione comprenda il versamento, da parte dell’ente territoriale, della differenza di valore fra i beni immobili oggetto di permuta, con la conseguente qualificazione dell’operazione non in termini di neutralità finanziaria, si ricade nell’alveo di applicazione del comma 1-ter (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 05.03.2014 n. 97).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Parere circa l'obbligo di rilascio di una autorizzazione paesistica in subdelega a fronte di un parere favorevole della Soprintendenza non condiviso dal comune - Comune di Santa Marinella (Regione Lazio, parere 28.07.2014 n. 260639 di prot.).

VARI: Locazioni senza planimetrie.
Domanda
Nello stipulare un contratto di locazione è necessario allegare le planimetrie degli immobili che ne costituiscono l'oggetto oppure tale obbligo sussiste per gli atti di trasferimento? Inoltre, che contenuto deve avere la dichiarazione di conformità da inserire in atto?
Risposta
La risposta è negativa, nelle locazioni è sufficiente citare i dati catastali delle unità. Peraltro, tale obbligo di allegazione non sussiste neppure per gli atti traslativi, rispetto ai quali, però, oltre a indicare i dati catastali, occorre rendere la dichiarazione di conformità allo stato di fatto dei luoghi di quanto risulta dalle planimetrie depositate in Catasto e dai dati catastali, sancito dall'articolo 19, comma 14, del dl n. 78/2010, che ha integrato l'art. 22 della legge n. 52/2005. Tale obbligo può essere assolto, oltre che dalla parte cedente in proprio, anche ricorrendo a un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale.
Le circolari n. 2 e n. 3 del 2010, emanate dall'Agenzia del territorio, hanno fornito svariati chiarimenti sulla delicata tematica, precisando, tra l'altro, che assumono rilevanza le (sole) difformità suscettibili di incidere sulla consistenza dell'unità immobiliare e quindi sulla sua rendita catastale.
Circa la dichiarazione in discorso, precisiamo che essa interessa, a pena di nullità, gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi a oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, a esclusione dei diritti reali di garanzia; tali atti devono contenere, per le unità immobiliari urbane, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione degli intestatari circa la conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale.
Tale dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Per completezza, rammentiamo che la norma dispone anche l'obbligo del notaio, prima della stipula dei predetti atti, di individuare gli intestatari catastali delle unità e di verificarne la conformità con le risultanze dei registri immobiliari (articolo ItaliaOggi Sette del 28.07.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Prorogatio per l'assessore. Dimissioni irrevocabili dopo 20 giorni. Nel silenzio della legge, occorre far riferimento ai regolamenti.
A un assessore comunale dimissionario devono essere notificate le convocazioni delle sedute della giunta comunale, per il periodo intercorrente tra la data di presentazione al protocollo dell'ente delle proprie dimissioni dalla carica di assessore e quella di nomina del successore?

Non avendo il legislatore statale dettato una specifica disciplina in ordine alle modalità e all'operatività delle dimissioni dell'assessore, occorre far riferimento alle fonti di autonomia locale. Nel caso di specie, il regolamento comunale per il funzionamento del consiglio e della giunta, recante «delle dimissioni da assessore», prevede che le stesse possano essere rassegnate in ogni momento, per iscritto o verbalmente, nel corso della seduta e che la sostituzione del singolo assessore dimissionario deve essere effettuata in base alla procedura prevista dallo statuto comunale.
La norma regolamentare, riproducendo il contenuto dell'art. 53, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000, stabilisce che le dimissioni diventano irrevocabili ed efficaci «trascorso il termine di 20 giorni dalla loro presentazione».
Poiché nella fattispecie in esame, non emerge che sia stato adottato un provvedimento sindacale di revoca dell'assessore ai sensi dell'art. 46, comma 4, del Tuel n. 267/2000, l'amministratore ha continuato a rivestire la carica assessorile fino allo scadere del ventesimo giorno dalla data di presentazione delle proprie dimissioni (articolo ItaliaOggi del 25.07.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazione d'urgenza.
Qual è la portata applicativa dell'art. 38, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000? In particolare, è possibile dopo la convocazione dei comizi elettorali, dare seguito alla richiesta di convocazione d'urgenza del consiglio comunale ai sensi dell'art. 39, comma 2, del Tuel?

Ai sensi del richiamato art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, a adottare gli atti urgenti e improrogabili. La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice nella necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta «propagandistica», tali da alterare la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni amministrative.
È stato precisato in giurisprudenza che la preclusione disposta dalla citata norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il consiglio comunale è chiamato a operare in pieno esercizio di discrezionalità e senza interferenze con i diritti fondamentali dell'individuo riconosciuti e protetti dalla fonte normativa superiore. Quando invece l'organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni vincolate nell'an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano diritti primari dell'individuo, l'esercizio del potere non può essere rinviato (Tar Puglia n. 382/2004).
È stato, inoltre, evidenziato che il carattere di atti urgenti e improrogabili possa essere riconosciuto agli atti «per i quali è previsto un termine perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere di emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la funzione per la quale devono essere formati o hanno un'utilità di gran lunga inferiore» (Tar Veneto 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto dell'urgenza e improrogabilità, è stato osservato che lo stesso «costituisce apprezzamento di merito insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale, ovvero della palese irrazionalità o illogicità della motivazione addotta» (sentenza Tar Friuli Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello dal Consiglio di stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare del ministero dell'interno n. 2 del 07.12.2006, va rilevato che l'esistenza dei presupposti d'urgenza e improrogabilità deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante danno per l'amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel provvedere.
Pertanto, è alla luce di tali criteri ermeneutici che dovrà essere valutata la richiesta di convocazione d'urgenza del consiglio comunale, ai sensi dell'art. 39, comma 2, del dlgs n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 25.07.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un consigliere comunale. Articolo 63, comma 1, num. 2, TUEL.
Nel caso in cui il coniuge di un amministratore locale sia socio di una società in nome collettivo, che ha in essere un contratto di somministrazione di alimenti con l'asilo nido comunale, viene in rilievo la causa di incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, n. 2, TUEL, nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune.
Trattasi di una causa di incompatibilità atta a ricomprendere anche ipotesi di conflitto d'interessi sostanziale, non direttamente collegabile ad una posizione formale. In particolare, l'esistenza del conflitto di interesse andrà valutata nel concreto, ritenendolo esistente qualora si accerti la sussistenza di un interesse privato del consigliere comunale tale da minare l'imparzialità del suo agire quale amministratore locale.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all'esistenza di una causa di incompatibilità per un amministratore locale il cui coniuge (insieme al fratello)
[1] è socio di una società in nome collettivo che ha in essere un contratto di somministrazione di alimenti con l'asilo nido comunale.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si rileva che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio medesimo, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall'amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti ritenuti necessari.
In relazione alla situazione prospettata, rileva la norma di cui all'articolo 63, comma 1, n. 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale: 'colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune o della provincia [...]'.
La norma richiede la sussistenza di un duplice requisito: uno di natura soggettiva, l'altro di tipo oggettivo.
La questione prospettata dall'Ente fa sorgere il dubbio circa il ricorrere del requisito soggettivo, atteso che il contratto di somministrazione fa capo ad una società i cui soci sono, rispettivamente, coniuge ed affine di secondo grado dell'amministratore locale.
Ratio della causa di incompatibilità in esame (annoverabile tra le cosiddette 'incompatibilità di interessi') 'risiede nell'esigenza di impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di interessi configgenti con quelli del comune o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità'.
[2] In altri termini, la norma è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l'ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
Il Ministero dell'Interno, nell'affrontare, in un proprio parere
[3], una questione analoga a quella in esame, ha rilevato come fra tutte le ipotesi contemplate dall'articolo 63 del TUEL, quella di cui al comma 1, n. 2 appare 'quella con la formulazione più aperta, atta a ricomprendere anche ipotesi di conflitto d'interessi sostanziale, non direttamente collegabile ad una posizione formale'.
La giurisprudenza
[4] ha, in particolare, precisato come «gli avverbi "direttamente o indirettamente" -che, nella disposizione in esame, seguono la locuzione "ha parte"- debbono intendersi riferiti non già alla condizione oggettiva, bensì a quella soggettiva. Nel senso ora precisato, militano, infatti, diverse e concorrenti considerazioni. In primo luogo, il testo originario della disposizione: infatti, nella formulazione dell'art. 15 del D.P.R. n. 570 del 1960, comma 1, n. 7, i predetti avverbi seguivano immediatamente l'individuazione (meno precisa di quella contenuta nella disposizione vigente) dei soggetti incompatibili ("coloro i quali"), facendosi cadere, quindi, inequivocabilmente, l'accento sulla condizione soggettiva. In secondo luogo, il rilievo, secondo cui la causa di incompatibilità all'esercizio di una carica elettiva costituisce limitazione ad un diritto politico fondamentale di natura individuale e personalissima, la quale, perciò, non può che riferirsi, in ultima analisi, ad una condizione soggettiva di conflitto di interessi. In terzo luogo, l'ulteriore e decisivo rilievo, secondo cui - ove i predetti avverbi fossero riferiti alla condizione oggetti va (partecipazione al servizio) e, quindi, l'area della incompatibilità comprendesse anche una "partecipazione indiretta" al servizio un'interpretazione siffatta si presterebbe a pericolose estensioni delle limitazioni all'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, che il legislatore costituente ha voluto come "eccezionali", sulla base di una categoria giuridica (la "partecipazione indiretta" al servizio, appunto) generica, di difficile individuazione e, perciò, piuttosto evanescente'».
Alla luce di un tanto, prosegue il giudice civile affermando che: 'Ed allora, deve concludersi nel senso che il legislatore -qualificando il modo della partecipazione al servizio- ha inteso, specificamente, rafforzare l'effettività della norma e limitare il predetto diritto non soltanto nei confronti del soggetto, al quale, in ragione della partecipazione al servizio con una determinata qualità soggettiva (titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento), il conflitto di interessi sia immediatamente (e formalmente) riferibile, ma anche, con un chiarissimo scopo "antielusivo", nei confronti del soggetto che, al di là della qualità soggettiva di colui che partecipa "formalmente" al servizio, debba, secondo le circostanze del caso concreto, considerarsi come il "reale" portatore dell'interesse "particolare" potenzialmente confliggente con quelli "generali" connessi all'esercizio della carica elettiva. Sicché, è evidente che la condizione soggettiva di incompatibilità, nei casi di accertata divergenza tra dato formale e dato sostanziale relativamente al soggetto partecipante al servizio, non può che integrarsi nei confronti del dominus -nel senso di portatore "sostanziale" e non meramente "formale"- del predetto interesse. E', naturalmente, difficile [...] individuare una casistica esaustiva delle possibili ipotesi, ma sembra sufficiente, in prima approssimazione, fare riferimento a casi di interposizione "fittizia" di persona, ovvero a situazioni di collegamento o di controllo societario prefigurate dall'art. 2359 cod. civ.'.
Le affermazioni espresse dalla giurisprudenza portano, conseguentemente, a ritenere che, con riferimento al caso in esame, l'esistenza del conflitto di interesse andrà valutata nel concreto ritenendolo esistente qualora si accerti la sussistenza di un interesse privato del consigliere comunale tale da minare l'imparzialità del suo agire quale amministratore locale. Tale conclusione è stata fatta propria anche dal Ministero dell'Interno il quale, nel parere citato, ha affermato che: «Qualora invece il citato amministratore non sia socio, il rapporto di coniugio che lo lega al socio-amministratore della società, chiamata alla gestione dei servizi, non è sufficiente, da solo a configurare un'ipotesi di conflitto sostanziale con l'Ente, che andrà eventualmente di volta in volta 'rigorosamente accertato'».
Il Ministero dell'Interno, ad ulteriore sostegno delle sue asserzioni, ha fatto riferimento, altresì, alla norma di cui all'articolo 61, comma 1-bis, del D.Lgs. 267/2000 la quale dispone che non può ricoprire la carica di sindaco o di presidente della provincia colui che ha ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano, nelle rispettive amministrazioni, il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali. La previsione colpisce solo i citati amministratori anche in assenza di un vantaggio diretto o indiretto che possa essere imputato loro personalmente, ma rimanga esclusivo del parente che gestisce l'appalto o il servizio, a salvaguardia del principio d'imparzialità dell'azione amministrativa e per porre al riparo coloro che svolgono una pubblica funzione dal sospetto di essere influenzati da interessi confliggenti con quelli del Comune. Rileva il Ministero che: 'Per tutti gli altri amministratori non è posta invece analoga disposizione, per cui la possibilità di conflitto fra gli interessi del consigliere e quelli del Comune non può essere presunta dall'esistenza di un rapporto di parentela con l'amministratore di un'impresa che opera in servizi o appalti dell'Ente, ma va accertata adeguatamente'.
L'interpretazione sopra fornita dell'articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL è stata fatta propria anche dalla dottrina la quale, nel commentare tale disposizione, ha rilevato come: «La norma comprende anche le situazioni di fatto non esteriorizzate formalmente, aventi carattere 'indiretto', per effetto dell'interposizione nel rapporto di altri soggetti, sempre che sia rigorosamente accertato l'interesse privato, diretto od indiretto, che determina l'incompatibilità».
[5]
Per completezza espositiva si segnala, tuttavia, un difforme orientamento espresso dall'ANCI in un proprio parere, risalente all'anno 2001,
[6] ove si afferma che: 'Il caso prospettato nel quesito propone un'impresa edile destinataria di appalti di opere pubbliche per conto del comune in cui il vice sindaco ne è dipendente senza poteri di rappresentanza o coordinamento, ma che è rappresentata dal genitore dello stesso vice sindaco. Il diretto vincolo di parentela in primo grado con il rappresentante dell'impresa costituisce per il vicesindaco, a nostro parere, un AVER PARTE INDIRETTAMENTE IN APPALTI NELL'INTERESSE DEL COMUNE e configura pertanto causa di incompatibilità a mente della norma appena citata (art. 63, comma uno, n. 2)'.
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[1] Che è, pertanto, cognato dell'amministratore locale.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550.
[3] Ministero dell'Interno, parere del 25.05.2010 (15900/TU/00/63).
[4] Cassazione civile, sentenza 550/2004.
[5] F. Narducci, 'Amministratori degli enti locali - Status giuridico: requisiti e cause impeditive', in 'Le condizioni di incompatibilità', parte quinta, consultabile sul sito www.guidaentilocali.it. Nello stesso senso, E.Maggiora, 'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale', Giuffrè editore, 2000, il quale rileva come 'il legislatore ha riprodotto la proposizione «aver parte direttamente o indirettamente» (già presente nella previgente normativa comunale e provinciale), per la cui corretta interpretazione è necessario 'aver riguardo alla natura sostanziale del rapporto ... sicché si realizza la causa di incompatibilità suddetta, non solo nell'ipotesi di partecipazione personale del candidato a un'impresa appaltatrice, ma anche nell'ipotesi di esistenza di un interesse indiretto alla stessa impresa, quale si verifica nel caso della presenza di un'interposta persona (Militerni-Saporito, 'La nuova legge elettorale', Napoli, 1982, pag. 106)''.
[6] ANCI, parere del 28.08.2001, consultabile sul sito www.ancitel.it
(24.07.2014 - link a www.regione.fvg.it).

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EDILIZIA PRIVATAOneri di urbanizzazione soft. Si paga di meno in caso di interventi di ristrutturazione. Lo prevede il decreto Sblocca-Italia, pronto per l'esame del consiglio dei ministri.
Oneri di urbanizzazione più leggeri per le ristrutturazioni. Il decreto legge «sblocca Italia» pronto per l'esame del consiglio dei ministri, introduce misure di incentivazione all'edilizia, soprattutto per gli interventi sull'esistente. Sia il contributo agli oneri di urbanizzazione sia quello commisurato al costo di costruzione possono essere agevolati e stabiliti in misura più conveniente per il cittadino e le imprese.

Le modifiche riguardano l'articolo 16 del Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), che disciplina l'intera materia del contributo di costruzione e cioè del contributo che va pagato al comune in relazione agli interventi edilizi. Il contributo si compone di due voci: una prima parte è commisurata al il costo di costruzione e una seconda all'incidenza degli oneri di urbanizzazione. Gli oneri di urbanizzazione concernono strade parcheggi, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato (urbanizzazione primaria); asili, scuole, mercati, edifici pubblici, impianti sportivi e aree verdi, attrezzature sanitarie (urbanizzazione secondaria).
In sostanza chi costruisce è chiamato a partecipare alla spesa pubblica per rendere vivibile un territorio urbanizzato. L'incidenza degli oneri di urbanizzazione è stabilita in relazione ad alcuni parametri: ampiezza e andamento demografico dei comuni; caratteristiche geografiche dei comuni; destinazioni di zona previste nei piani regolatori; livelli standard.
Il decreto aggiunge un altro parametro e cioè la differenziazione tra gli interventi al fine di incentivare, in modo particolare nelle aree a maggiore densità del costruito, quelli di ristrutturazione edilizia rispetto a quelli di nuova costruzione. Se si paga di meno per una ristrutturazione, sarà proprio questo intervento ad essere privilegiato, rispetto al nuovo consumo di territorio. Questo principio, inoltre, deve essere tenuto in conto dalle amministrazioni comunali chiamate a definire, in caso di inerzia della regione, le tabelle per il calcolo degli oneri di urbanizzazione.
Il decreto legge in esame, infatti, integra il comma 5 dell'articolo 16 del T.u. Edilizia, specificando che la definizione delle tabelle parametriche da parte dei comuni deve uniformarsi al criterio dell'incentivo delle ristrutturazioni rispetto alle nuove costruzioni. Il dl interviene anche sul comma 10 del citato art. 16. La disposizione si occupa del costo di costruzione (seconda voce del contributo di costruzione) e spiega che deve essere determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire.
L'attuale secondo periodo del comma 10 precisa che, al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, i comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione non superino i valori determinati per le nuove costruzioni. Quindi la ristrutturazione non paga di più di una nuova costruzione. Il decreto legge modifica la norma nel senso di diminuire la parte di contributo commisurata alle ristrutturazioni: grazie alla nuova versione i comuni potranno deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni.
Altre modifiche riguardano la durata del procedimento del rilascio del permesso di costruire. L'attuale art. 20 del T.u. edilizia raddoppia i termini per i comuni per i comuni con più di centomila abitanti, e per i progetti particolarmente complessi secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento. Il dl elimina il riferimento demografico e, quindi, si possono raddoppiare i termini solo per pratiche complesse anche nei centri più grossi. Nel comune oltre centomila abitanti si applicano, quindi, di regola i termini ordinari (non raddoppiati), salvo istruttorie complicate
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2014).

APPALTIFusioni, la centrale unica può attendere.
Per i comuni istituiti a seguito di fusione, l'obbligo di ricorrere alla centrale unica di committenza scatterà solo a partire dal terzo anno successivo a quello dell'istituzione.

È una delle novità introdotte al decreto sulla pa (dl 90/2014) dopo il passaggio del provvedimento in commissione affari costituzionali alla camera.
Il decreto, ora all'esame dell'aula, è dovuto tornare sul tavolo della prima commissione per recepire l'ulteriore pacchetto di 12 emendamenti presentato dal relatore nel comitato dei nove (si veda ItaliaOggi di ieri). Ma per scongiurare l'ostruzionismo delle opposizioni che già avevano presentato in aula un migliaio di emendamenti, il governo ha deciso di chiedere la fiducia che è stata votata ieri in seduta notturna. L'ok al provvedimento è invece previsto per stamattina, dopodiché il provvedimento andrà all'esame del senato.
Le modifiche introdotte in materia di fusioni disegnano un regime speciale per il passaggio alla centralizzazione degli acquisti, imposta dal dl 66/2014 e, com'è noto, fatta slittare al 2015 (1° gennaio per beni e servizi e 1° luglio per lavori). Per le amministrazioni che decideranno di fondersi viene introdotto un regime agevolato, analogo a quello che consente di rinviare di due anni l'assoggettamento al Patto di stabilità interno.
I correttivi approvati, inoltre, reintroducono la deroga per gli appalti di basso importo, ma solo per i comuni con una popolazione superiore ai 10.000 abitanti, che potranno procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore ai 40.000 euro.
Tornando al tema delle fusioni, va segnalato che, con un altro emendamento al dl 90, è stato fissato un tetto al contributo straordinario erogato dallo Stato ai comuni coinvolti. La premialità è prevista dall'art. 15, comma 3, del Tuel per un arco temporale di dieci anni ed è quantificata dall'art. 20 del dl 95/2012 in misura pari al 20% dei trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010.
Attualmente non sono previsti limiti massimi, se non quelli derivanti dagli stanziamenti di bilancio. Per effetto della modifica approvata a Montecitorio, invece, l'assegno annuale non potrà superare la somma di 1,5 milioni di euro. Ciò, evidentemente, per evitare di esaurire le disponibilità, a fronte del crescente numero di fusioni avviate negli ultimi mesi (anche se le novità si applicheranno a tutte le procedure avviate a partire dal 2012)
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Sblocca-Italia, più spazio ai privati. Renzi: discussione in Cdm e consultazione di 30 giorni, poi i provvedimenti. Infrastrutture. Semplificazioni per edilizia privata e opere pubbliche, defiscalizzazioni, regolamento edilizio unico per 8mila comuni.
Arriva lo sblocca-Italia, una cornice di misure che dovrebbe far ripartire infrastrutture, edilizia, città per 43 miliardi di euro. Sarà il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a spiegare cosa ci sarà in questa cornice stasera, nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri. Nessun provvedimento, per ora, ma una consultazione di un mese, come già si era fatto con il decreto di riforma della Pa.
Le uniche cose che potrebbero concretizzarsi già oggi in forma di provvedimenti sono il «piano aeroporti» –un decreto che aspetta l'approvazione del governo dopo una "riflessione" di quattro anni nei cassetti ministeriali di un documento strategico fondamentale– e un pacchetto di opere che potrebbe essere approvato dal Cipe: la defiscalizzazione per la Pedemontana lombarda (sarebbe il secondo caso dopo la Orte-Mestre, delibera del novembre 2013 ferma però alla Corte dei Conti), atto aggiuntivo per la Metro C di Roma, piano finanziario della Milano-Serravalle.
«In consiglio dei ministri la discussione sullo sblocca-Italia e l'apertura della fase di consultazione (mi dispiace, consulteremo i cittadini per il solo mese di agosto: ma le buone idee non vanno in ferie. Fine di agosto dobbiamo essere operativi con i provvedimenti!)». Così ha scritto ieri Renzi nella sua lettera «e news».
Lo Sblocca Italia a cui sta lavorando il governo si annuncia comunque come un provvedimento a 360 gradi. Dall'accelerazione sui fondi Ue alle semplificazioni radicali per l'edilizia privata, dalla riprogrammazione della legge obiettivo al finanziamento immediato di un numero ristretto di grandi opere, dalla riforma dei porti all'approvazione (forse con Dpcm) del piano aeroporti, dalla riforma degli incentivi per il project financing a quelli per la banda larga, da un piano di piccole opere che tenga dentro le 1.400 segnalazioni arrivate a Renzi dai sindaci al rifinanziamento del «piano città» e del «piano dei 6mila campanili».
Le nuove risorse dovrebbero oscillare fra due e tre miliardi di euro, ma è probabile che su questo Renzi non scopra ancora le carte, visto che non saranno approvati provvedimenti. Almeno un miliardo dovrebbe arrivare dalla revoca di finanziamenti a opere della legge obiettivo e non solo, un lavoro istruttorio fatto dal ministero delle Infrastrutture, mentre altre risorse dovrebbero arrivare dall'Economia (il Dl Irpef convertito a fine giugno prevedeva un lavoro di verifica e riassegnazione dei residui passivi nel bilancio dello Stato, da effettuarsi entro il 31 luglio).
Una parte di questi fondi dovrebbero andare a un gruppo di grandi opere, proposte dal Ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Tra queste dovrebbero esserci l'autostrada Tirrenica, la terza corsia sulla A4 Venezia-Trieste, il Passante ferroviario di Torino, il collegamento ferroviario Milano-Seregno-Malpensa, il primo lotto dell'autostrada Termoli-San Vittore, il completamento della linea 1 della metropolitana di Napoli.
Un'altra parte dei fondi dovrebbe invece andare al piano "6mila Campanili" (piccole opere nei Comuni con meno di 5mila abitanti) e per finanziare alcune delle 1.400 opere (piccole ma non solo) segnalate dai Comuni a Renzi su sua diretta sollecitazione.
Un intervento radicale è annunciato anche per le semplificazioni in edilizia privata, per tentare di superare le "riforme a metà" o non attuate degli anni scorsi. La prima misura sarà quella del regolamento edilizio standard per tutti gli 8mila comuni, una vera rivoluzione. Ma ci saranno anche norme per limitare il potere di autotutela dei Comuni dopo la presentazione della Scia o della Dia edilizia; un accorciamento dell'iter del permesso di costruire; un rafforzamento dello Sportello unico edilizia.
Infine modifiche alle conferenze di servizi e una riduzione del raggio d'azione delle Sovrintendenze, con l'esclusione dei piccoli e piccolissimi lavori, che costituiscono il 70% del totale
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATACompetitività, Dl da riscrivere. Stralcio per una ventina di disposizioni - Saltano la super-Scia e la seconda soglia Opa. Alla Camera. Governo e maggioranza decidono di ridimensionare il provvedimento: servirà un nuovo via libera anche del Senato.
Il decreto competitività diventa un autentico caso. Una lunga e concitata giornata, con riunioni tra governo e maggioranza, ha sancito un significativo ridimensionamento del provvedimento attualmente all'esame della Camera. Sul tema ci sarebbe stata una riunione con lo stesso premier Matteo Renzi ieri mattina presto. Il decreto, come uscito dal Senato (dove aveva ottenuto la fiducia venerdì scorso), appariva sempre più eterogeneo e simile ai provvedimenti "omnibus" che poco sono apprezzati dal Quirinale. Oltretutto, sono emerse in extremis perplessità dell'esecutivo anche sul contenuto di alcune norme aggiunte al Senato.
Di qui un lavoro vorticoso con lo stralcio clamoroso di una ventina di norme, da attuare attraverso un unico emendamento governativo o singoli emendamenti soppressivi dei ministeri. «Se ci sono esigenze, si può verificare la possibilità di inserire le norme in altri provvedimenti, magari in un Ddl ad hoc» prova a tranquillizzare il sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, Ivan Scalfarotto. Intanto l'intervento alla Camera –dove sono stati presentati in commissione anche 800 emendamenti dai gruppi– richiederà un rapidissimo ritorno al Senato in terza lettura (il decreto scade il 22 agosto).
Salta la norma che, in assenza dell'emanazione dei già previsti decreti attuativi entro il 31.12.2014, farebbe scattare automaticamente la Scia o l'autocertificazione con controlli ex post per qualsiasi professione o attività economica. Una misura considerata forse troppo dirompente dal governo o destinata ad essere recuperata nella prossima legge annuale per la concorrenza. A forte rischio anche una parte delle norme inserite al Senato per correggere il contestatissimo "spalma incentivi" che modifica il regime delle agevolazioni per il fotovoltaico. In particolare, le valutazioni del governo si sono soffermate su una delle opzioni che verrebbero concesse ai produttori di rinnovabili: un sistema di aste imperniato sulla cessione di quote di incentivi, fino ad un massimo dell'80 per cento, a un acquirente che vincerà la gara indetta dall'Authority per l'energia. Cancellazione in vista anche per la proroga per le gare d'ambito del gas.
Stop alla seconda soglia Opa (25%) inserita con un emendamento dei relatori dopo un lavoro condotto in prima persona dal "dissidente" Pd Massimo Mucchetti. Verso lo stralcio anche la norma che stanziava 535 milioni per Poste Italiane in seguito a una sentenza del Tribunale Ue sulla legittimità di aiuti di Stato. Gran parte di questa dote –410 milioni– veniva recuperata tagliando le risorse disponibili per pagare i debiti della Pa, paradossalmente a distanza di pochi giorni dal protocollo di impegni tra governo-enti territoriali-banche e imprese per completare il rimborso di tutti gli arretrati.
Ma la lista delle norme stralciate, alla quale si è lavorato fino a ieri notte, è particolarmente lunga. Verso l'abolizione la nuova deroga sul tetto agli stipendi dei manager (interessato il Gestore servizi energetici), la misura sui limiti all'uso del contante da parte dei turisti, le nuove disposizioni sulle società tra professionisti, l'istituzione dei cosiddetti "condhotel" (abitazioni in condominio dove sarà possibile usufruire dei servizi tipici dell'hotel).
Per quanto riguarda la sezione sull'ambiente, saltano le semplificazioni in materia di imballaggi; incerto al momento il destino sulla norma Sistri. Diverse soppressioni per il pacchetto agricoltura, tra cui l'esclusione del carcere per chi semina Ogm in Italia in violazione del divieto
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

URBANISTICAUrbanistica, confronto al via. La proposta Lupi prova a mettere punti fermi a 72 anni dall'ultima legge. Infrastrutture. Il ministro delle Infrastrutture ha messo in consultazione un Ddl di riforma prima di andare al Cdm.
In consultazione fino al prossimo 15 settembre, poi in Consiglio dei ministri e, a seguire, in Parlamento. La volata della «proposta Lupi» di riforma urbanistica è partita, a 72 anni dall'ultima legge, dopo un lavoro di otto mesi di un gruppo di esperti guidato dall'ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Francesco Karrer. Adesso la bozza (che Il Sole 24 Ore aveva largamente anticipato il 21 maggio) viene data in pasto agli operatori del settore, che dovranno discuterla e chiedere di limarla o modificarla.
La pietra angolare attorno alla quale gira tutto il disegno di legge, secondo Lupi, è la sezione dedicata al rinnovo urbano, contenuta negli articoli 16 e 17. Qui si evoca il principio del razionale uso del suolo, da attuare «per mezzo della conservazione, della ristrutturazione edilizia, della demolizione, della ricostruzione di edifici» e di porzioni di città. Un ruolo decisivo viene affidato ai Comuni che devono individuare le aree dove effettuare gli interventi prioritari. Anche se la legge prevede una deroga significativa: le operazioni di rinnovo possono essere realizzate anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità da essa, quando ci sia un accordo tra i privati interessati e l'amministrazione locale.
Non si tratta, però, dell'unico pezzo innovativo del testo. Gli articoli 10 e 11, infatti, disciplinano in maniera organica, per la prima volta a livello nazionale, gli strumenti della "perequazione" e "compensazione", largamente utilizzati dai Comuni più innovativi nei loro Prg e ammessi da alcune leggi regionali, ma finora senza copertura legislativa statale, con conseguente incertezza legata a ricorsi e contestazioni (come avvenuto con il Prg di Roma). Il principale obiettivo del Ddl Lupi, su questo punto, è dunque dare legittimazione alle due pratiche, pur senza renderle obbligatorie (e c'è chi, come Ance e Inu, avrebbe voluto più coraggio nel renderle cogenti per i Comuni).
Come previsto dall'esperienza degli ultimi 10-15 anni, il testo prevede che perequazione e compensazione servano a distribuire in modo equo sul territorio i diritti edificatori previsti dagli strumenti urbanistici, e anche a rendere l'attuazione delle trasformazioni urbane più fattibili, perché al posto dell'esproprio si utilizzano cessioni gratuite di aree in cambio di cubature da usare altrove e i trasferimenti incrociati di aree all'interno dei piani attuativi.
La pianificazione comunale è basata su un livello programmatorio e su un livello operativo. Ma non è tutto. Un capitolo è dedicato alla fiscalità. Qui si cerca di garantire l'equità dell'imposizione sugli immobili. E si stabilisce un principio innovativo: nelle aree ad alta densità la tassazione dovrà essere più bassa, perché è minore la quota di servizi indivisibili di cui si fruisce. Ancora, si parla edilizia residenziale sociale e si stabilisce che questa andrà determinata come standard aggiuntivo: non sostituirà, quindi, le aree verdi o i parcheggi ma dovrà essere servita da dotazioni apposite.
I giudizi sulla bozza sono essenzialmente positivi, ma da più parti si chiedono aggiustamenti. Il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, la descrive come un «importante contributo per una nuova normativa sul governo del territorio», ma da discutere «insieme alle altre proposte già presentate in Parlamento». Anche se sulla messa in sicurezza e il risparmio energetico, «non appare sufficiente». L'ex assessore all'urbanistica del Comune di Roma, Roberto Morassut parla di «fatto importante e storico» perché «il tema della riforma urbanistica, che rappresenta una delle principali necessità per la ripresa economica, è sempre rimasto in coda nell'agenda delle riforme». Anche il presidente del Consiglio nazionale architetti, Leopoldo Freyrie pensa sia «molto positivo avere riavviato questo processo» anche se «noi daremo un contributo sulla parte che riguarda la rigenerazione, perché vorremmo una visione più coraggiosa». La bozza tocca corde molto delicate e si intreccia con il Ddl sul consumo di suolo, che alla Camera ha subito diversi rallentamenti negli ultimi mesi
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruzione doc. Valutazione preventiva comunale per evitare modifiche. Si va definendo il contenuto del decreto Sblocca-Italia. Alle grandi opere 3,7 mld.
Permesso di costruire con valutazione preventiva di fattibilità che impedirà al comune di chiedere al privato modifiche ai progetti approvati; regolamento edilizio standard per tutti i comuni; destinazione dello 0,3% del pil alle grandi infrastrutture; 3,7 miliardi fino al 2019 per grandi opere in corso; al via il nuovo piano città e il nuovo programma 6.000 campanili; programma triennale per le opere incompiute dei comuni.
Sono questi alcuni dei punti che, stando alle indiscrezioni, dovrebbero essere contenuti nel pacchetto «Sblocca-Italia» che sarà all'esame del Consiglio dei ministri del 31 luglio dove, al momento non risultano intervento per evitare l'impasse dell'entrata in vigore del sistema AvcPass, di verifica dei requisiti nelle gare di appalto, ma verrebbe invece esaminata la delega per il recepimento delle direttive appalti pubblici e per la riforma del Codice dei contratti pubblici.
Accelerazione per i permessi di costruire
Si propone di indirizzare il privato allo sportello unico per l'edilizia (che avrà un mese per rispondere) per una «valutazione preventiva sul progetto edilizio che accerti l'ammissibilità in ordine al rispetto dei requisiti e presupposti richiesti da leggi o da atti amministrativi». La valutazione servirà ad evitare che il comune possa chiedere successivamente modifiche al progetto approvato.
La richiesta dovrà essere corredata da una semplice autocertificazione e da una documentazione predisposta da un tecnico che asseveri il rispetto di ogni norma urbanistica, con anche delle rappresentazioni grafiche dell'intervento. Lo sportello unico a quel punto procederebbe all'emissione di un parere di valutazione preventiva di fattibilità per il rilascio del quale sono previste delle spese di istruttoria. Se lo sportello unico non si dovesse pronunciare entro il mese dal deposito dell'istanza, il privato potrebbe procedere.
Regolamento edilizio standard per tutti i comuni
Viene di fatto anticipata una norma (l'articolo 20) del disegno di legge di riforma urbanistica che il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi ha presentato giovedì scorso a Roma (si veda ItaliaOggi del 25 luglio) che prevede una delega per la «semplificazione e razionalizzazione della disciplina dei titoli edilizi, la riorganizzazione dello sportello unico dell'edilizia e dei procedimenti relativi».
Nel regolamento edilizio standard, unico per tutti i comuni, sarebbero definiti, fra gli altri, i criteri generali per l'individuazione e la definizione dei parametri urbanistici ed edilizi, applicabili sull'intero territorio nazionale, le caratteristiche e i requisiti igienico-sanitari, di sicurezza e di accessibilità (barriere architettoniche), gli elementi costitutivi o di corredo delle costruzioni, ma anche gli incentivi per il recupero del patrimonio edilizio esistente e la riduzione del consumo del suolo, le misure per il risparmio energetico, per la bioedilizia, le fonti rinnovabili e per la qualità architettonica.
Riforma della legge obiettivo e 3,7 mld per il rilancio di opere bloccate
Sarebbe passata la proposta del ministro Lupi di stabilire per legge una dotazione pari allo 0,3% del prodotto interno lordo nominale (si stima circa 5,3 miliardi/anno di risorse certe), per ogni anno finalizzata alla realizzazione delle infrastrutture strategiche, oltre a una vasta riprogrammazione delle priorità degli interventi. Per garantire la continuità dei cantieri in corso (opere ancora non completate) e per concludere atti contrattuali finalizzati all'avvio dei lavori, vengono stanziati 3,7 miliardi di euro fino al 2019.
Per le concessioni si stabilisce la «caducazione» del contratto, con la possibilità dell'ente concedente di rimettere in gara l'intera opera affidata in concessione, laddove, entro tre anni dall'approvazione del progetto definitivo da parte del Cipe, la sostenibilità economico finanziaria degli stralci successivi non sia stata attestata da primari istituti finanziari.
Piano città, 6.000 campanili  e opere incompiute
Dovrebbero essere inseriti nel pacchetto «Sblocca Italia» anche il nuovo «Piano città», rivisto nelle priorità e da allargare anche alle aree urbane del centro-nord, ma vanno trovati 500 milioni, anche con i fondi di coesione. Previsto il rilancio del programma 6.000 campanili, anch'esso rivisitato, che dovrebbe interessare anche gli interventi al di sotto dei 500 mila euro. Al via anche un programma triennale per chiudere le opere incompiute segnalate dai comuni (sarebbero quasi 700 le segnalazioni arrivate) per le quali occorrerebbero circa un quinto delle risorse inizialmente stanziate
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALIP.a., certificati al canto del cigno. Vietato chiedere al cittadino dati già presenti in anagrafe. RIFORMA P.A./ Approvato emendamento M5S al dl. I pensionati potranno fare gli assessori.
Certificati anagrafici sul viale del tramonto. Grazie allo scambio di informazioni obbligatorio tra le pubbliche amministrazioni.
Quello dei data base che non dialogano tra loro, costringendo i cittadini a file estenuanti per comunicare alla p.a. informazioni che dovrebbero già essere in suo possesso, è un problema atavico della burocrazia italiana. Un problema con cui tutti gli ultimi governi (da Berlusconi a Monti) hanno dovuto fare i conti anche se con scarsi successi.
Ora, grazie a un emendamento del Movimento 5 Stelle, nel decreto p.a. approvato venerdì scorso in commissione alla camera e ora all'esame dell'aula, ha trovato posto un principio tanto semplice quanto dirompente nell'impatto sulla vita di tutti i giorni: tutte le pubbliche amministrazioni (ministeri, enti locali, enti pubblici, università, enti del Servizio sanitario nazionale) «non possono richiedere al cittadino informazioni e dati già presenti all'interno dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente».
Si tratta del mega data base anagrafico in cui a partire dal 2015 dovranno confluire le anagrafi comunali, il cui fallimento è stato certificato da anni di mal funzionamento del sistema Ina-Saia. L'Ina (Indice nazionale delle anagrafi) a cui i comuni accedevano attraverso il Saia (Sistema di accesso e interscambio anagrafico) avrebbe dovuto garantire la cosiddetta «circolarità anagrafica», che poi altro non è se non un principio di buon senso che può essere così riassunto: l'invio di una comunicazione di variazione anagrafica a un ente connesso al sistema vale per tutti gli altri. Tuttavia, a giudicare dai tanti disguidi lamentati dagli utenti, la rete delle anagrafi locali ha bloccato, più che agevolato, lo scambio di informazioni tra gli uffici pubblici, spesso in tilt anche solo per un cambio di indirizzo.
Ora l'emendamento dei deputati pentastellati (primi firmatari Emanuele Cozzolino e Roberta Lombardi), se sarà confermato dall'aula, prova a cambiare le cose vietando a tutte le p.a. (quelle dell'elenco contenuto nell'art.1 comma 2 del dlgs 165/2001) di richiedere dati già presenti nell'Anpr.
La commissione affari costituzionali ha messo una pezza a un altro pasticcio contenuto nel testo originario del decreto che, come anticipato da ItaliaOggi il 16 luglio, per un eccesso di zelo, nella lodevole intenzione di limitare il conferimento di incarichi dirigenziali a chi è andato in pensione, impediva ai pensionati, non solo pubblici, ma anche privati, di ricoprire l'incarico di assessore negli enti locali. Il divieto di «conferire incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni» aveva messo in fibrillazione molti comuni, ma ci ha pensato l'emendamento a firma Lorenzo Basso (Pd) a chiarire che non si applica ai «componenti delle giunte degli enti territoriali».
Incarichi e collaborazioni ai pensionati saranno consentiti, esclusivamente a titolo gratuito e per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione.
Nonostante il via libera della prima commissione, il lavoro di Montecitorio non si annuncia facile. Sono circa 750 gli emendamenti presentati in aula e sembra che il numero delle proposte di modifica sia destinato a crescere, tanto che si fa sempre più concreta l'ipotesi della fiducia. Il dl deve ancora essere esaminato dal senato e va convertito entro il 24 agosto
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2014).

ENTI LOCALIMini-enti, nuova proroga per le gestioni associate.
Una nuova proroga, al 30.09.2014, per le gestioni associate nei piccoli comuni.

A prevederla è un altro emendamento (il n. 23.65) al dl 90/2014.
Ricordiamo che l'obbligo di gestire a livello sovracomunale le funzioni fondamentali, previsto dall'art. 14 del dl 78/2010, interessa tutti i comuni inferiori a 5.000 abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuta a comunità montane.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue proroghe: al momento, delle nove funzioni obbligatorie, tre sono state associate entro il 31.12.2012, altre tre avrebbero dovuto esserlo entro il 30 giugno, mentre per le restanti tre la scadenza è fissata al 31.12.2014.
I nodi, però stanno venendo al pettine solo ora, dato che funzioni già devolute a livello sovracomunale o erano già gestite in forma associata (per esempio, servizi sociali) o sono piuttosto «leggere» (per esempio, protezione civile o catasto).
Il vero «core business» include le funzioni «pesanti» (come, ad esempio, amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed è ancora tutto da trasferire.
La maggior parte delle amministrazioni interessate è ancora impreparata a questo passaggio, complice anche la recente tornata elettorale, che ha interessato circa 4.000 comuni, molti dei quali soggetti agli obblighi. Inoltre, occorre ancora assimilare le numerose novità introdotte in materia dalla recente l 56/2014 (legge Delrio).
Il risultato è che il termine intermedio del 30 giugno è stato quasi ovunque ignorato. Il legislatore, preso atto di questa situazione, si è quindi orientato a concedere un breve extra time, fino alla fine di settembre, ferma restando la scadenza del 31 dicembre per le restanti tre funzioni.
Il correttivo fa il paio con quello relativo allo slittamento dell'obbligo di centralizzazione degli acquisti, che interessa tutti i comuni non capoluogo. In tal caso, le scadenze sono due: 01.01.2015 per i beni e i servizi, 01.07.2015 per i lavori
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTurnover più soft per gli enti locali con una bassa spesa di personale.
Limiti al turnover più morbidi per gli enti locali con la spesa di personale bassa.

È quanto prevede l'emendamento n. 3.35 approvato dalla camera durante i lavori relativi alla conversione del decreto sulla p.a. (dl 90/2014).
Il correttivo (inserendo un nuovo comma 557-quater all'art. 1 della legge 296/2006) prevede che le amministrazioni più virtuose, ovvero quelle nelle quali le uscite per il personale non superano il 25% della spesa corrente, possano già da quest'anno procedere ad assunzioni a tempo indeterminato nel limite dell'80% (anziché del 60%) della spesa relativa al personale cessato nell'anno precedente. Dal prossimo anno, inoltre, esse potranno procedere alla copertura integrale del turnover, con tre anni di anticipo rispetto agli altri enti. Per questi ultimi, infatti, il dl 90 prevede un turnover del 60% per gli anni 2014-2015, dell'80% per il biennio 2016-2017, per arrivare al 100% solo nel 2018.
Non si tratta dell'unica novità introdotta in materia. Infatti, un altro emendamento approvato (n. 3.71) punta a modificare il parametro di riferimento per l'obbligo di riduzione della spesa di personale degli enti soggetti al Patto di stabilità interno, che non sarà più rappresentato dalla spesa dell'anno precedente ma dal valore medio del triennio 2011-2013 (la norma, infatti, si riferisce al triennio precedente alla sua entrata in vigore). Si passa, quindi, da un riferimento «mobile» a uno «fisso», come accade per gli enti non soggetti al Patto, per i quali si considera la spesa del 2008, in base a quanto previsto dal comma 562 della stessa legge 296.
Altra novità: il limite previsto per gli enti non soggetti al Patto viene esteso a tutti i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, indipendentemente dal loro assoggettamento o meno al Patto. Per i mini-enti, quindi, varrà in ogni caso il riferimento alla spesa di personale 2008.
Altri due emendamenti, invece, mirano a reintrodurre, anche se solo parzialmente, gli incentivi per la progettazione e i diritti di rogito per i segretari. Sotto il primo profilo, viene prevista l'istituzione, da parte di ciascuna amministrazione, di un fondo per la progettazione e l'innovazione, in cui far confluire una somma fino al 2% (tetto già previsto per gli incentivi Merloni) degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro. Di tali somme, l'80% verrà ripartito al progettisti interni (compresi anche i dirigenti, che invece il testo vigente del dl escludeva dal beneficio). Il restante 20% sarà destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento ed efficientamento dell'ente e dei servizi ai cittadini. In ogni caso, gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non potranno superare, per il personale con qualifica non dirigenziale, l'importo del 50% e, per il personale con qualifica dirigenziale, l'importo del 25% del trattamento economico complessivo annuo lordo.
Quanto ai diritti di rogito, si prevede che possano essere attribuiti negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento. Negli altri casi, viene confermata l'irretroattività del taglio per le quote già maturate. Infine, viene esplicitato (mediante una modifica all'art. 97, comma 4, del Tuel) che il segretario ha l'obbligo (e non la mera facoltà) di rogare, su richiesta, tutti i contratti nei quali l'ente è parte
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2014).

APPALTI: Per i ricorsi sugli appalti il rischio di un giudizio Ue.
Il T.R.G.A. Trentino Alto Adige-Trento, con ordinanza 29.01.2014 n. 23 ha chiesto al segretario generale del Tribunale regionale di giustizia amministrativa se i principi fiscali della direttiva Ue del Consiglio 21.12.1989 (successiva modificazione e integrazione) ostino a una normativa quale quella delineata dagli articoli 13 e 14 del Dpr 30.05.2002, n. 115 (come progressivamente novellato dagli interventi legislativi successivi) che hanno stabilito elevati importi di contributi unificati per l'accesso alle giustizie amministrative in materia di contratti pubblici.
L'articolo 13, comma 1, del Dpr 115 ha introdotto un nuovo regime di tassazione degli atti giudiziari, costituito da «contributo unificato» fissato in proporzione al valore della controversia, rispetto al sistema preesistente basato sul pagamento di una semplice marca da bollo.
Con la legge finanziaria (2007) il contributo unificato per i processi amministrativi, diversamente da quanto previsto per i processi civili, è stato svincolato dal valore della controversia. Il legislatore ha adottato il differente criterio per materia e ulteriormente distinto l'entità del contributo unificato dovuto secondo un'ulteriore differenziazione delle materie. Per i ricorsi proposti davanti al Tar e al Consiglio di Stato il contributo è stato ordinariamente dovuto in misura fissa. Per materia particolare sono stabiliti importi diversi. Nel settore degli appalti il contributo è stato aumentato fino a 2mila, cioè il quadruplo per i ricorsi di quanto dovuto per i ricorsi soggetti al rito ordinario e del sestuplo per quelli agevolati.
Successivamente l'articolo 15 del decreto legislativo 20.03.2010, n. 53 ha disposto che il contributo unificato fosse dovuto non solo all'atto dell'iscrizione del ricorso introduttivo del giudizio, ma anche «per quello incidentale e i motivi aggiunti che introducono domande nuove». E qui comincia una serie di aumenti scriteriati specie in tema di appalti: 2mila quando l'appalto è pari o inferiore a 200mila; 4mila per controversia di valore compreso tra 200mila e un milione; 6mila per quelli di valore superiore al milione. Tali importi aumentano del 50% per i giudizi d'appello. La legge ha aggiunto una sorta di sanzione occulta o indiretta in caso di impugnazione in appello dichiarata infondata, inammissibile o improcedibile. Tale norma prevede che «quando l'impugnazione, anche incidentale, venga respinta o integralmente dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale». Tale norma, dice il Tar di Trento, è rivelatrice di un intento quasi intimidatorio a non insistere nell'azione giudiziaria intrapresa e a non "disturbare" oltre il giudice. Come tale, sintomo ulteriore dell'iniquità dell'intera disciplina. Dall'esame che precede, dice il Tribunale, emerge un quadro assai frastagliato, non sempre logico né coerente nella determinazione e nella diversificazione degli importi del contributo unificato dal quale, comunque, sbocca l'evidente sproporzionata penalizzazione nella tassazione davanti al giudice amministrativo soprattutto in materia di contratti pubblici. Tale impianto legislativo pone evidenti problemi di conformità ai parametri e principi dell'ordinamento comunitario, ancor prima che di conformità ai precetti costituzionali.
L'eccessiva somma da versare, non solo all'atto di deposito del ricorso principale, ma per il deposito di ogni atto per motivi aggiunti o ricorso incidentale, nonché nella fase eventuale di appello incidentale, incide in modo decisivo e intollerabile: a) sul diritto di agire in giudizio; b) sulle strategie dei difensori; c) sulla pienezza ed effettività del controllo giurisdizionale sugli atti della pubblica amministrazione e sull'osservanza dello stesso principio costituzionale del buon andamento, al qual si collega strumentalmente il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva.
Il continuo e progressivo aumento del contributo unificato con i diversi interventi normativi sembra in contrasto con i principi comunitari di proporzionalità e di divieto di discriminazione, nonché con il principio dell'effettività della tutela giurisdizionale che è centrale nella logica della stessa direttiva 89/665. È opinione diffusa in dottrina, tra gli operatori giuridici e tra gli stessi magistrati che il legislatore italiano abbia voluto ostacolare l'accessibilità ai mezzi di ricorso in materia di appalti rispetto alle altre materie del contenzioso amministrativo mediante una tassazione esagerata, illogica, iniqua e sproporzionata con la finalità di definire il contenzioso e di non intralciare soverchiamente l'apparato burocratico nel realizzare opere pubbliche. In conclusione esistono tutte le condizioni perché la vicenda sia rimessa all'esame della Corte di giustizia europea
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAScia e permessi, tutto in uno. Gli adempimenti edilizi diventano standard e omogenei. Operativi i modelli unificati per l'istanza e la segnalazione certificata di inizio attività.
Schemi unici nazionali per la presentazione dell'istanza del permesso di costruire e per la Scia (Segnalazione certificata di inizio attività). Inoltre, adesso le regioni potranno, se del caso, adeguare i moduli nazionali alle singole normative settoriali. E nel ddl di riforma della p.a. è previsto però un nuovo intervento normativo finalizzato a una precisa indicazione dei procedimenti oggetto di segnalazione di inizio attività.
Diventano quindi operativi i modelli unificati approvati a seguito dell'accordo del 12.06.2014 siglato tra il governo, le regioni e gli enti locali, concernente l'adozione di moduli unificati e semplificati per la presentazione dell'istanza del permesso di costruire e della segnalazione certificata di inizio attività (Scia) edilizia, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 161 del 14.07.2014 (Suppl. ordinario n. 56).
L'effetto, di notevole rilevanza, è quello di procedere a una standardizzazione e omogeneizzazione degli adempimenti in ambito edilizio e quindi di mettere a disposizione di ogni comune identici moduli per gli stessi procedimenti. La base giuridica di questo intervento semplificatorio, fortemente richiesto dalle categorie professionali (Cnappc, Consiglio nazionale degli architetti, in testa), risale a uno dei numerosi decreti-legge del governo Monti (il decreto «sviluppo n. 5/2012) che prevedeva l'impegno per il governo ad adottare i moduli semplificati e unificati per la presentazione dell'istanza di permesso di costruire e della segnalazione certificata di inizio attività (Scia), di cui al dpr n. 380/2001, alla legge n. 241/1990 e al dpr n. 160/2010.
La disciplina del 2012 stabilisce anche che le regioni debbano adeguare, in relazione alle specifiche normative regionali di settore, i contenuti dei quadri informativi dei moduli semplificati e unificati, di cui all'accordo, utilizzando i quadri e le informazioni individuati come variabili. Tutto ciò se le regioni, chiamate anche a dare massima diffusione ai moduli, lo ritengano necessario (se non possono semplicemente adottare i moduli nazionali). Saranno poi gli enti locali ad adeguare la modulistica in uso sulla base delle previsioni dell'accordo. In sostanza, quindi adesso starà alle regioni procedere in uno dei due modi previsti dalla legge e successivamente agli enti locali adeguare la modulistica in essere alla nuova pubblicata sulla gazzetta ufficiale.
Infatti i modelli allegati all'accordo del 12.06.2014 e adesso in gazzetta hanno delle parti fisse identiche per tutti e delle parti «variabili» che le regioni possono cambiare in relazione alle specifiche normative regionali di settore. I comuni adeguano i propri moduli sostituendoli con quelli approvati. Il varo dei moduli unificati, sotto l'impulso del ministro per la semplificazione Maria Elena Boschi, arriva in contemporanea con la pubblicazione del dl n. 90/2014, in corso di conversione in legge da parte del parlamento, che all'articolo 24 prevede che sia messa a disposizione degli enti locali la stessa documentazione per la richiesta del permesso di costruire e per la presentazione della Scia in ambito edilizio.
In particolare il comma 3 dell'articolo 24, rubricato «Agenda della semplificazione amministrativa e moduli standard», stabilisce: «Il governo, le regioni e gli enti locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, concludono, in sede di Conferenza unificata, accordi ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281 o intese ai sensi dell'articolo 8 della legge 05.06.2003, n. 131, per adottare, tenendo conto delle specifiche normative regionali, una modulistica unificata e standardizzata su tutto il territorio nazionale per la presentazione alle pubbliche amministrazioni regionali e agli enti locali di istanze, dichiarazioni e segnalazioni con riferimento all'edilizia e all'avvio di attività produttive. Le pubbliche amministrazioni regionali e locali utilizzano i moduli unificati e standardizzati nei termini fissati con i suddetti accordi o intese».
Nel merito del contenuto dei modelli si tratta nella sostanza degli stessi contenuti già noti fino a oggi: la richiesta (per il permesso di costruire) e la segnalazione (di inizio attività), con le dichiarazioni di prassi e i numerosi allegati, fra cui un rilievo centrale è rappresentato dalla relazione tecnica di asseverazione. Corredata anche da elaborati grafici e fotografie, che deve essere fornita da un professionista abilitato, dalle ricevute di pagamento dei diritti di segreteria e dal documento di identicità del richiedente.
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Al lavoro per un nuovo intervento di semplificazione e razionalizzazione.
In vista un nuovo intervento di semplificazione e razionalizzazione sulla Scia. È quanto prevede il disegno di legge di riorganizzazione della pubblica amministrazione, approvato dal Consiglio dei ministri del 10 luglio scorso, che contiene una apposita norma dedicata alla segnalazione certificata di inizio attività e al silenzio assenso.
In particolare, stando all'ultima versione disponibile del disegno di legge, si prevede una delega al governo finalizzata ad adottare entro un anno dall'approvazione del disegno di legge, un decreto legislativo «per la precisa individuazione dei procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio attività o di silenzio assenso ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge 07.08.1990, n. 241».
La delega dovrà essere attuata partendo dai «principi e criteri direttivi desumibili dagli stessi articoli, dai principi del diritto europeo relativi all'accesso alle attività di servizi e dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità». Il ministro proponente sarà quello per la semplificazione di concerto con il ministro dell'interno e sarà necessario anche in questo caso, come per i modelli unificati, acquisire il parere della Conferenza unificata, oltre che del Consiglio di stato (con un limite di tempo massimo per l'emissione dei pareri fissato in 45 giorni). Una volta acquisiti i pareri il testo dovrà poi essere trasmesso alle commissioni parlamentari competenti.
La norma voluta dal ministro Maria Elena Boschi (nella foto) prevede anche la possibilità di apportare correttivi al decreto delegato entro i successivi dodici mesi. Appare evidente come anche questo nuovo intervento normativo si ponga in linea con le più recenti scelte di politica legislativa che ripongono notevoli aspettative su questo strumento di semplificazione soprattutto per favorire il rilancio della produzione e degli scambi economici. L'intervento di ulteriore razionalizzazione della materia ha quindi lo scopo di fissare a livello normativo primario, con «precisione», quali dovranno essere i procedimenti oggetto di Scia, la Segnalazione certificata di inizio attività che consente di iniziare, modificare o cessare un'attività produttiva (artigianale, commerciale, industriale), senza dover più attendere i tempi e l'esecuzione di verifiche e controlli preliminari da parte degli enti competenti.
In base alla normativa vigente il soggetto può dare inizio all'attività, mentre l'amministrazione, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti legittimanti, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione (trenta giorni nel caso di Scia in materia edilizia), adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salva la possibilità che l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività e i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 28.07.2014).

APPALTIGli acquisti che possono dribblare il blocco. Centrali. Proroga.
Dal 1° luglio i Comuni non capoluogo devono procedere all'acquisto di beni, servizi e lavori nell'ambito di unioni, accordi consortili, soggetti aggregatori, province oppure, in alternativa, tramite Mepa, come chiede l'articolo 33, comma 3-bis, del Dlgs 163/2006 modificato dall'articolo 9, comma 4, del Dl 66/2014. In caso contrario, non riceveranno il Cig dall'Autority.
La finalità della norma è ottenere risparmi di spesa attraverso l'aumento di efficienza nella gestione delle gare, accentrandole in capo a soggetti o uffici ad hoc. Ad oggi, però, i risparmi attesi non derivano da economie di scala, bensì dalla paralisi dell'attività contrattuale che si è determinata per effetto di una norma che ha spiazzato tutti, visti i tempi ristretti di attuazione e la mancanza di alternative, in particolare per i lavori.
La richiesta di ANCI di rinviare l'entrata in vigore al 2015 (1° gennaio per acquisto di beni e servizi e 1° luglio per i lavori) è stata accolta formalmente in sede di Conferenza Stato Città Autonomie locali il 10 luglio scorso e trasformata in un emendamento inserito nel Dl 90/2014; tuttavia, il Presidente dell'Anac ha ribadito che fino a quando le nuove regole non saranno in vigore, l'Autorità dovrà seguire il vincolo di legge e non rilasciare il Cig.
Questo significa nei fatti ripartire davvero a settembre, ma anche in vigenza dell'attuale formulazione il Comune ha qualche possibilità per procedere autonomamente. Gli spazi sono limitati, ma visto che l'articolo 33, comma 3-bis, è inserito nel Codice dei contratti, l'acquisto accentrato non dovrebbe essere obbligatorio quando non è riconducibile a un appalto, come nel caso degli acquisti economali (purché tipicizzati nel regolamento dell'ente) di incarichi professionali, lavoro accessorio, locazioni, ecc. per i quali non deve essere richiesto neanche il Cig. Sarebbe esclusa dalla procedura centralizzata anche l'amministrazione diretta (se non si utilizzano beni e servizi di terzi).
Nessuna deroga è invece possibile per gli affidamenti diretti sotto i 40mila euro che, come ha precisato la Corte dei Conti (sezione Piemonte n. 144/2014) mutando il proprio orientamento, sono soggetti alla nuova disciplina avente carattere di specialità. Anche per questi la soluzione arriverà solo con l'entrata in vigore della legge di conversione del Dl 90/2014.
Per l'acquisto di beni e servizi, il Comune non capoluogo può poi procedere attraverso strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip (Mepa) o anche da altro soggetto aggregatore di riferimento, cioè la centrale di committenza regionale iscritta di diritto (una per regione) nell'elenco tenuto dall'Autorità. Dove le Regioni le hanno istituite (ad esempio in Lombardia), gli enti possono avvalersi degli strumenti elettronici da queste gestiti che, a differenza del Mepa, permettono l'acquisto di beni e servizi anche fuori da cataloghi preesistenti attraverso il lancio di offerte. Di conseguenza, considerando che l'aumento di efficienza non deve essere visto solo nell'acquisto accentrato ma anche attraverso l'utilizzo di sistemi efficienti e trasparenti, il Comune potrebbe espletare le proprie gare in autonomia sulla piattaforma elettronica della centrale di committenza. Anche per i lavori, una volta gestiti dal soggetto aggregatore, potrà ricorrersi al mercato elettronico.
È però auspicabile che entro il 2015 siano adottate soluzioni tecniche e normative che concilino le esigenze di riduzione e razionalizzazione della spesa con quelle di autonomia negoziale dei Comuni e di funzionalità complessiva del sistema
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2014).

PUBBLICO IMPIEGOOra il premio all'avvocato trova il tetto nel compenso. Incentivi. Il correttivo non risolve i problemi.
L'emendamento approvato in commissione Affari costituzionali di Montecitorio all'articolo 9 del decreto sulla Pubblica amministrazione 90/2014 sui compensi per l'avvocatura non risolve i tanti problemi emersi negli enti locali. Se già la prima stesura della norma denotava molta frettolosità da parte del legislatore, la versione destinata alla conversione innesca un meccanismo a dir poco complicato: il parallelismo insistito fra l'Avvocatura di Stato e quelle degli enti territoriali, infatti, continua a caratterizzare la nuova regola, e a penalizzare gli avvocati "locali".
Va solo apprezzato il tentativo di stabilire con una certa chiarezza i destinatari dei compensi professionali, e il contestualizzare in un'unica disposizione di legge i principi finalizzati all'erogazione delle somme. Per il resto, è davvero una matassa difficile da sbrogliare.
La premessa è d'obbligo: i compensi professionali corrisposti agli avvocati delle pubbliche amministrazioni, rientrano nel computo del limite del massimo del trattamento economico annuo onnicomprensivo, parametrato a quello del primo presidente della Corte di cassazione, attualmente 240mila euro al lordo degli oneri previdenziali e fiscali: livelli ovviamente lontanissimi a quelli raggiunti dalle avvocature locali.
A questo punto, si aprono due nette casistiche.
Nei casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle Pubbliche amministrazioni, non è possibile riconoscere alcun compenso professionale.
Esclusivamente nei giudizi di natura previdenziale e assistenziale, possono essere corrisposte somme in base a norme regolamentari o contrattuali, ma solamente nel limite dello stanziamento previsto; quest'ultimo non può comunque superare il 50% del corrispondente stanziamento dell'anno 2013. Queste previsioni si applicano alle sentenze depositate dopo la data di entrata in vigore del decreto.
In caso, invece, di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, sarà possibile ripartire le somme recuperate tra gli avvocati dipendenti delle Pubbliche amministrazioni, enti locali compresi. La misura e il modo di questo riparto, dovrà però essere stabilito dai contratti collettivi (nazionali o integrativi?) in modo da consentire l'attribuzione a ciascun avvocato di una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo.
In modo particolare, questa contrattazione dovrà tener conto del rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che si basino, tra l'altro, sulla puntualità negli adempimenti processuali. Altri criteri dovranno essere individuati ai fini dell'assegnazione degli «affari consultivi e contenziosi», da operare attraverso sistemi informatici e secondo principi di parità di trattamento e di specializzazione contrattuale. Queste indicazioni appaiono, peraltro, particolarmente fumose.
Arriva, da ultimo, la mannaia. I contratti collettivi hanno tre mesi di tempo per adottare la specifica disciplina. Senza adeguamento, dal 01.01.2015, le amministrazioni pubbliche non potranno corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAScarti agricoli sdoganati. Consentiti i cumuli fino a tre metri a ettaro. DECRETO COMPETITIVITÀ/Semplificazioni in vista per gli imballaggi.
Raggruppare nei campi cataste di materiale agricolo derivante da lavorazione, in misura non superiore a tre metri di altezza sarà considerata una normale e consentita attività agricola di concimazione e non più una operazione da trattare con le pinze, perché rientrante nell'ambito della gestione dei rifiuti. Inoltre, presto arriverà un decreto per semplificare le operazioni di trasporto, stoccaggio e preparazione per il riutilizzo degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio non pericolosi prodotti nell'ambito delle attività delle imprese. Nel provvedimento verrà previsto che il deposito dei rifiuti presso il luogo o i luoghi di raggruppamento iscritti nell'apposita sezione dell'Albo nazionale gestori ambientali non sia soggetto ad autorizzazione a condizione che vengano rispettati i limiti quantitativi e temporali e le ulteriori condizioni per il deposito temporaneo dei rifiuti e con l'adozione di un documento semplificato di trasporto. Unico neo è che sarà necessario un ulteriore decreto di attuazione.

Sono tutte novità inserite nel testo finale del dl Competitività, per come emendato al Senato, dove ieri ha incassato il voto di fiducia dell'aula. Ora il testo passa alla Camera.
Non si tratta di grandi misure generali, ma di norme che affrontano diverse situazioni particolari.
Un capitolo, si diceva in principio, riguarda novità introdotte riguarda il campo agricolo. Infatti, le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri per ettaro dei materiali agricoli effettuate nel luogo di produzione, ora costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti. Resta fermo che nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle Regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. Inoltre, gli imprenditori agricoli potranno sostituire il registro di carico e scarico con la conservazione della scheda Sistri in formato fotografico digitale inoltrata dal destinatario. L'archivio informatico è accessibile online sul portale del destinatario, in apposita sezione, con nome dell'utente e password dedicati.
Nuove norme anche per le operazioni di prelievo, raggruppamento, cernita è deposito preliminari alla raccolta di materiali o sostanze naturali derivanti da eventi atmosferici o meteorici, ivi incluse mareggiate e piene, anche ove frammisti ad altri materiali di origine antropica effettuate, nel tempo tecnico strettamente necessario, presso il medesimo sito nel quale detti eventi li hanno depositati, che non costituiranno attività di gestione dei rifiuti.
Dagli aventi atmosferici, si passa ai materiali dragati. Essi se sono sottoposti a operazioni di recupero in casse di colmata o in altri impianti autorizzati ai sensi della normativa vigente, cessano di essere rifiuti se, all'esito delle operazioni di recupero, che possono consistere anche in operazioni di cernita e selezione, soddisfano e sono utilizzati rispettando i requisiti e condizioni previste per legge. Questi materiali durante la movimentazione saranno accompagnati unicamente da una comunicazione di e dal documento di trasporto o da copia del contratto di trasporto redatto in forma scritta o dalla scheda di trasporto.
Quindi, due altre nuove misure piccole, ma non insignificanti. Nel caso di trasporto transfrontaliero il ritorno del formulario dovrà avvenire entro il termine standard di tre mesi, previsto per le tratte nazionali e non più sei mesi come previsto fino ad oggi per l'export dei rifiuti. Ricordiamo che detta modalità è rilevante per determinare correttamente la responsabilità del produttore.
Infine, relativamente all'esecuzione del test di cessione previsto dall'articolo 9 del decreto ministeriale 5 febbraio 1998 sulle procedure semplificate sul recupero dei rifiuti non pericolosi non verrà più considerato il parametro amianto (articolo ItaliaOggi del 26.07.2014).

INCENTIVO PROGETTAZIONETornano i premi ai progettisti.
Tornano gli incentivi ai progettisti delle pubbliche amministrazioni, che erano spariti a metà nella versione originaria del decreto, erano stati cancellati del tutto da un primo emendamento approvato in commissione Affari costituzionali alla Camera e ora rientrano in campo, riservati sempre ai non dirigenti. Su un'altalena simile salgono i diritti di rogito dei segretari comunali, che un altro emendamento approvato ieri resuscita ma solo nei piccoli Comuni.

Lo yo-yo su premi e voci aggiuntive negli stipendi dei dipendenti pubblici, che nei giorni scorsi ha riguardato anche gli avvocati dello Stato e degli enti territoriali, è insomma il filo rosso nei lavori di Montecitorio sulla legge di conversione al decreto di riforma della Pubblica amministrazione.
Per i progettisti interni gli incentivi nuovo modello, che non potranno far crescere la busta paga di oltre il 50%, sono stati inseriti ieri con l'articolo 13-bis della legge di conversione, che permette a ogni amministrazione di istituire un «fondo per la progettazione e l'innovazione», in cui far confluire una somma fino al 2% del valore posto a base di gara per l'opera o il lavoro. Il tetto è lo stesso previsto nei vecchi «incentivi Merloni», ripresi dall'articolo 92 del Codice dei contratti pubblici nella parte ora abrogata, ma non tutta la somma finirà nelle buste paga dei progettisti; rispetto alle vecchie regole, del resto, si restringe anche la platea, che ora esclude i dirigenti.
Il fondo sarà diviso in due quote: la prima, pari all'80%, servirà per i premi, mentre il resto andrà dedicato all'acquisto di «strumentazioni e tecnologie» per ammodernare ente, servizi e controlli sui centri di costo. Un meccanismo analogo potrà essere adottato anche dai concessionari di servizi pubblici e dalle società con capitale pubblico, anche quelle miste in cui i soci privati sono la maggioranza, purché operino fuori dagli ambiti di libera concorrenza: si tratta di un'estensione inedita, che può "premiare" le società strumentali e le in house, mentre sembra difficile da applicare anche alle società miste.
Gli incentivi, in ogni caso, provano almeno sulla carta a seguire la strada della "meritocrazia": le Pa dovranno scrivere nuovi regolamenti per l'assegnazione dei premi, legando i criteri di riparto soprattutto alle prestazioni «non rientranti nella qualifica funzionale» del "premiato", e il dirigente o il responsabile del servizio possono riconoscere l'incentivo solo dopo aver verificato che l'attività aggiuntiva è stata davvero svolta. Il regolamento, inoltre, deve prevedere tagli ai premi quando crescono i tempi o i costi di realizzazione, a meno che ritardi e oneri aggiuntivi non dipendano da nuove regole o da imprevisti geologici e idrici.
Un ritorno a metà è previsto, come accennato, anche per i diritti di rogito dei segretari: l'emendamento approvato ieri li prevede solo per gli enti più piccoli, in cui non ci siano altri dirigenti, perché negli altri casi i meccanismi di adeguamento della retribuzione del segretario a quella del dirigente già alza il trattamento economico. Un via libera in tutti gli enti, del resto, avrebbe smentito il taglio annunciato da Renzi nella conferenza stampa di presentazione del decreto Pa, ma quando si prevedono meccanismi retributivi diversi all'interno della stessa categoria il contenzioso è dietro l'angolo (articolo Il Sole 24 Ore del 26.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni a termine negli enti. Niente paletti per i virtuosi. Più vigili nei piccoli comuni. Le ultime modifiche alla riforma della p.a. puntano a flessibilizzare il fabbisogno di personale.
Si aprono spazi per le assunzioni a tempo determinato nei comuni. Gli emendamenti approvati dalla commissione affari costituzionali della camera al disegno di legge di conversione del dl 90/2014 sulla riforma della pubblica amministrazione puntano a flessibilizzare il fabbisogno di personale negli enti locali, sulla consapevolezza che le maglie per le assunzioni sono divenute, ormai, troppo strette.
Più assunzioni a tempo determinato per comuni virtuosi. Un primo emendamento stabilisce che le limitazioni alla spesa per assunzioni di personale flessibile previste dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010 non si applicano agli enti locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562 della legge 296/2006, nell'ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente.
Dunque, saranno esentati dal contenimento della spesa nel limite del 50% di quanto speso nel 2009 i comuni che avranno garantito la costante riduzione della spesa di personale, se soggetti al patto di stabilità, oppure non avranno valicato il corrispondente ammontare dell'anno 2008, se non soggetti al patto.
Stagionali nei piccoli comuni. Sempre nell'ottica di flessibilizzare le esigenze organizzative delle amministrazioni locali, si consente ai comuni di piccola dimensione di fare fronte alle esigenze «stagionali».
Uno degli emendamenti approvati prevede che a decorrere dal 2014, le disposizioni di cui all'articolo 1 comma 557 della legge 296/2006 in materia di riduzione delle spese dei personale, non si applicano ai comuni con popolazione compresa tra i 1.001 e i 5.000 abitanti, limitatamente alle sole spese di personale stagionale assunto con forme di contratto a tempo determinato. Questo, però, a condizione che tali assunzioni risultino (occorreranno specifiche motivazioni) strettamente necessarie a garantire l'esercizio delle funzioni di polizia locale in ragione di motivate caratteristiche socio-economiche e territoriali connesse a significative presenze di turisti, nell'ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente.
Demansionamenti e rimansionamenti. Tra gli emendamenti approvati, si limita il demansionamento previsto per evitare la messa in disponibilità (che prelude al licenziamento) a un solo livello professionale.
Più rilevante, tuttavia, è la previsione che consentirà al personale demansionato di «recuperare» il livello professionale perduto, attraverso la mobilità volontaria. Si stabilisce infatti che il personale demansionato e ricollocato nell'ente che lo dichiara in esubero non ha diritto all'indennità di cui all'articolo 33, comma 8, del dlgs 165/2001, ma mantiene il diritto di essere successivamente ricollocato nella propria originaria qualifica e categoria di inquadramento, anche attraverso le procedure di mobilità volontaria di cui all'articolo 30, verso altri enti.
Nuovo slancio allo spoils system. Dopo l'abnorme estensione della possibilità per gli enti locali di assumere dirigenti esterni fino al 30% della dotazione organica, gli emendamenti facilitano ulteriormente i reclutamenti a tempo determinato.
Si prevede, infatti, di sostituire l'articolo 110, comma 5, del dlgs 267/2000 prevedendo che per il periodo di durata non solo degli incarichi a contratto in ed extra dotazione organica, ma anche per gli incarichi di direttore generale i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell'anzianità di servizio.
Indennizzi agli emotrasfusi. Intanto ieri il ministro della salute Beatrice Lorenzin ha presentato un emendamento per riconoscere ai pazienti danneggiati da emotrasfusioni infette e da vaccinazioni obbligatorie un'equa riparazione una tantum pari, rispettivamente, a 100 mila euro e 20 mila euro per ciascun danneggiato. L'emendamento intende sbloccare l'iter dei ristori economici per circa 6.500 cittadini che hanno presentato domanda entro il 19.01.2010 (articolo ItaliaOggi del 25.07.2014).

ENTI LOCALIIn arrivo la due diligence sui tagli alle province. Ma farà capire che è insostenibile il trasferimento delle funzioni a regioni e municipi.
I nodi dell'irrazionale riforma Delrio e delle altre manovre di «accerchiamento» delle province stanno iniziando a venire al pettine, come era facile prevedere.
Mentre ancora l'identificazione delle funzioni provinciali da trasferire non è pervenuta (il termine previsto inizialmente era l'8 luglio) si inizia a parlare di una bizzarra «due diligence» delle province, per verificare la sostenibilità dei tagli apportati dal dl 66/2014, convertito in legge 89/2014.
A partire dal dl 95/2012, la spending review del governo Monti, nel volgere di pochissimi anni, a ben vedere, sulle province si sono abbattuti tagli per complessivi 2,5 miliardi, tanto che la spesa di tali enti, è passata dai circa 13 miliardi del 2011 ai 10 miliardi circa attuali.
Un ridimensionamento della spesa quasi del 30%, che non conosce il suo pari in nessun altro ente locale o nello stato.
È evidente che in queste condizioni, la «due diligence» avrebbe dovuto essere fatta ben prima dell'emanazione del dl 66/2014.
Basti pensare che ai tagli poderosissimi già previsti, il decreto ha imposto ulteriori contenimenti alla spesa per beni e servizi (attraverso corrispondenti diminuzioni delle entrate) per 444,5 milioni su una spesa, sempre di beni e servizi di 3,3 miliardi, con un'incidenza del 13,5%. Nei confronti dei comuni, gli analoghi tagli alle spese e servizi ammontano a 360 milioni a fronte, però, di 28 miliardi di spesa complessiva a tale titolo, con un'incidenza dell'1,28%.
Altrettanto evidente è che i tagli effettuati risultano sicuramente eccessivi ed ora pongono problemi non secondari per l'assegnazione delle funzioni oggi provinciali ad altri enti.
La questione è semplice, nella sua delicatezza: se l'ammontare complessivo della spesa sostenuta dalle province per svolgere le loro funzioni è all'evidenza insufficiente per garantire che tali funzioni siano svolte tutte ed efficacemente, già in partenza si sa che l'assegnazione di dette funzioni a comuni o regioni avverrà in deficit. Non saranno, cioè, sufficientemente «accompagnate» dalle dotazioni finanziarie occorrenti.
Regioni e comuni stano iniziando ad accorgersi che la coperta è corta e che il subentro nelle province rischia di rivelarsi tutt'altro che un buon affare per i già disastrati loro bilanci.
E si brancola totalmente nel buio anche sul merito delle funzioni provinciali da trasferire e a chi. Uno tra i nodi più complicati è comprendere che fine farà la funzione connessa col mercato del lavoro. Per un verso, non c'è accordo tra stato e regioni sulla titolarità della funzione.
Infatti, ai sensi dell'articolo 117, comma 3, della Costituzione spetta alle regioni la potestà legislativa concorrente in tema di «tutela e sicurezza del lavoro», nella quale si fa ricadere la competenza sulle politiche attive. Per altro verso, tuttavia, lo stato ha già abbozzato la legge delega di riforma del mercato del lavoro, all'esame del senato, la creazione di un'Agenzia nazionale per il lavoro, nella quale dovrebbero confluire i dipendenti provinciali operanti nei servizi per il lavoro. Si tratta di circa 7.000 sui 56.000 dipendenti provinciali, il 12,5% del totale.
L'incertezza sulle funzioni connesse al lavoro (l'Agenzia verrebbe costituita non prima dei sei mesi che la legge delega concede per l'emanazione del decreto legislativo attuativo) è, dato l'elevato numero dei dipendenti interessati, un elemento che condiziona di molto l'attuazione della legge Delrio, ma non il solo.
Il legislatore si dimostra particolarmente incoerente col disegno di riduzione delle funzioni provinciali, perché la stessa legge Delrio attribuisce alle province sostanzialmente il ruolo potenziale di autorità di gestione dei servizi pubblici locali di rilievo economico; il dl 66/2014, convertito in legge 89/2014 ha enfatizzato, a sua volta, proprio il ruolo delle province come possibili centrali per gli appalti dei comuni non capoluogo.
Ovviamente, l'incrocio delle incertezze su quali siano effettivamente le funzioni provinciali da trasferire, la sorte delle funzioni connesse al mercato del lavoro, le conseguenze delle nuove competenze accentuano non poco il caos annunciato della riforma Delrio (articolo ItaliaOggi del 25.07.2014).

PUBBLICO IMPIEGOStatali, mobilità soft per chi ha figli piccoli. Decreto Pa. I criteri per spostare i lavoratori pubblici in un raggio di 50 km andranno concordati con i sindacati.
La mobilità per i dipendenti pubblici diventa un po' meno obbligatoria. Almeno per i genitori con figli sotto i 3 anni o afflitti da disabilità. E per tutti gli altri statali servirà comunque un accordo con i sindacati.
A prevederlo sono due modifiche che la commissione Affari costituzionali della Camera ha apportato ieri sera al decreto Pa. Un provvedimento che si avvia, lentamente e senza grandi stravolgimenti, al traguardo. Salvo sorprese dell'ultim'ora, l'ok in sede referente è previsto per oggi così da confermare l'approdo in aula del testo per lunedì 28 quando molto probabilmente sarà posta la fiducia. E, per un nodo che si avvicina alla soluzione (le Camere di commercio), ce n'è un altro che resta da sciogliere (il pensionamento dei magistrati).
Il tema dell'inclusione dei giudici e dei pm tra le categorie di dipendenti pubblici che non potranno più restare in servizio oltre i limiti d'età è stato rilanciato ieri dal Csm. In una delibera della Sesta commissione, che sarà martedì 30 al vaglio del plenum, Palazzo dei Marescialli sottolinea come l'aver spostato di un anno l'uscita delle toghe (dal 31.10.2014 al 31.12.2015) non risolva il problema.
Serve «almeno un ulteriore anno –sostiene l'organo di autogoverno della magistratura– altrimenti si rischia la paralisi». Sarebbero infatti «ben 374» le toghe in uscita, di cui 252 ai vertici degli uffici giudiziari (87 dei quali in Cassazione). Per rimpiazzarli –a detta del Csm– ci vorranno due anni e non ci saranno più concorsi tra la fine del 2015 e del 2017.
Un appello che sembra destinato a cadere nel vuoto. A differenza di quello delle Camere di commercio che viaggia verso l'accoglimento. Al posto del dimezzamento secco dal prossimo anno dei diritti camerali versati dalle imprese dovrebbe arrivare una spalmatura su tre esercizi. Un emendamento riformulato dalla I commissione prevede infatti una sforbiciata così graduata: il 35% nel 2015, il 40% nel 2016 e il 50% nel 2017. Nel frattempo le Camere di commercio –che la delega Pa giunta ieri al Senato punta a riformare nel profondo- provano a giocare d'anticipo. Con un'autoriforma da deliberare entro l'autunno, che le farà scendere dalle attuali 105 a non più di 50-60. Gli accorpamenti tenderanno a creare realtà locali con un bacino pari ad almeno 80mila imprese per «coniugare sostenibilità economica e valorizzazione», come sottolineato in una nota Unioncamere.
Tra le altre novità di ieri spiccano quelle in materia di mobilità obbligatoria entro i 50 chilometri. Da un lato, i criteri per attivarla andranno fissati con un decreto ministeriale da emanare previa «consultazione con le confederazioni rappresentative»; dall'altro, arrivano le deroghe già annunciate dal ministro della Pa, Maria Anna Madia, per i genitori con bambini di età inferiore ai 3 anni oppure colpiti da disabilità ai sensi della legge 104/1992 e formalizzati in una proposta di modifica a firma Irene Tinagli (Sc). In entrambi i casi potranno essere spostati solo con il loro consenso.
Tra gli altri emendamenti depositati dal relatore Fiano spiccano le nuove assunzioni tra le forze di polizia «al fine di incrementare i servizi di prevenzione e di controllo del territorio» per Expo 2015. A tal fine i poliziotti sono autorizzati allo «scorrimento delle graduatorie dei concorsi indetti per il 2013 e approvate entro il 31.10.2014, ferme restando le assunzioni dei volontari in ferma prefissata quadriennale».
E se il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha annunciato di aver presentato un emendamento al Dl Pa, per riconoscere ai pazienti danneggiati da emotrasfusioni infette e da vaccinazioni obbligatorie un'equa riparazione una tantum pari, rispettivamente, a 100mila euro e 20mila euro per ciascun danneggiato, la sua collega agli Affari regionali, Maria Carmela Lanzetta, ha depositato un'altra proposta di modifica per far decadere dalle funzioni commissariali un presidente di Regione che ha cessato l'incarico «per qualsiasi causa». Una norma che potrebbe riguardare l'ex governatore dell'Emilia Romagna, Vasco Errani, dimessosi nei giorni scorsi dopo una condanna giudiziaria in appello a un anno per falso ideologico.
A sperare in una ciambella di salvataggio in extremis restano i circa 4mila docenti di "quota 96". L'intenzione del governo è quella consentire il loro pensionamento a settembre con i requisiti pre-Fornero. Ma resta ancora da sciogliere il nodo delle coperture su cui l'ultima parola spetterà alla commissione Bilancio (
articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti a tempo senza restrizioni negli enti locali. Pa. I correttivi al decreto 90/2014.
Addio ai tetti di spesa per il personale a tempo determinato e per gli altri contratti flessibili nei Comuni che rispettano i vincoli generali sulle uscite per stipendi, deroghe aggiuntive per i contratti a termine della polizia locale nei piccoli Comuni (ma solo quelli con popolazione compresa fra mille e 5mila abitanti) turistici e regole di favore per gli enti colpiti dal terremoto del 2012 in Emilia-Romagna e Lombardia.
Gli emendamenti all'articolo 11 del decreto sulla Pubblica amministrazione approvati dalla commissione Affari costituzionali della Camera (su cui si veda anche l'articolo a pagina 2) allargano ancora gli spazi di manovra sul personale dei Comuni. Il più importante (primo firmatario Mauro Guerra, del Pd) risolve i problemi di coordinamento fra le varie regole fissando un principio semplice: la legge fissa un tetto generale, che impone ai Comuni soggetti al Patto di stabilità di ridurre progressivamente il peso delle uscite di personale sul totale delle spese correnti (comma 557 della legge 296/2006) e a quelli più piccoli di non superare le spese registrate nel 2008 (comma 562), e per chi rispetta questi parametri non c'è bisogno di altri vincoli.
Per i Comuni in regola con i vincoli generali, quindi, salta l'obbligo di tenere la spesa per contratti a termine, contratti di formazione-lavoro, somministrazione e lavoro accessorio entro il 50% delle uscite registrate alle stesse voci nel 2009. Per i Comuni terremotati nel 2012 il via libera è retroattivo a partire dal 2013 e il riferimento per i vincoli generali si sposta alla spesa di personale del 2011: un altro aiuto elimina il divieto di assunzioni per chi dedica agli stipendi più del 50% della spesa corrente, ma questo limite è già stato abolito per tutti dalla versione originaria del decreto legge sulla Pa.
Un correttivo all'articolo 16 (firmato da Andrea Giorgis e Giovanni Sanga, entrambi del Pd) cancella il pasticcio creato dalla versione originaria del decreto sui consigli di amministrazione delle società controllate e delle strumentali della Pa. La nuova formulazione chiarisce che i consiglieri (tre nelle strumentali, tre o cinque nelle controllate a seconda dell'attività svolta) possono essere nominati anche senza attingere agli organici dell'amministrazione controllante, senza perdersi a specificare chi li deve nominare (c'è già il Codice civile). Dall'anno prossimo i compensi complessivi non potranno superare l'80% del costo registrato nel 2013.
Sempre in ambito societario, un altro emendamento (prima firma dell'ex ministro della Pa Giampiero D'Alia, del gruppo Per l'Italia) introduce nel decreto un nuovo articolo 24-bis, in cui si chiarisce che il piano triennale della trasparenza e l'obbligo di individuare un dirigente responsabile, previsto dal Dlgs 33/2013 attuativo della legge anti-corruzione, si applicano anche alle partecipate.
Lo stesso D'Alia, da titolare della Funzione pubblica, aveva firmato una circolare per indicare gli stessi principi ora fissati nella legge
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2014).

APPALTIUn'accelerazione negli appalti. Antimafia, in casi urgenti contratti conclusi subito. Il consiglio dei ministri ha approvato lo schema di dlgs che snellisce le pratiche.
In caso di urgenza, le stazioni appaltanti potranno concludere immediatamente i contratti (attualmente ciò è possibile dopo un lasso di 15 giorni), fermo restando i controlli ex post delle Prefetture.

Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri lo schema di decreto di modifica del libro II del codice antimafia che snellisce le procedure e gli adempimenti per il rilascio della documentazione antimafia, “senza pregiudicare”, spiega una nota del ministero dell'interno, “l'efficacia dei controlli effettuati dalle Prefetture”.
Le misure previste dal Governo (che ha anche approvato il il decreto presidenziale che modifica i criteri per l'utilizzazione dell'otto per mille devoluto allo Stato, che aggiungerà la categoria edilizia scolastica pubblica alle voci finanziate con questi fondi) “consentiranno”, secondo il Viminale, “di semplificare una serie di oneri amministrativi a carico delle imprese valutabili nell'ordine di 20 milioni di euro; un ulteriore abbattimento dei costi per le imprese, per altri 20 milioni di euro, sarà conseguito con l'attivazione della Banca dati antimafia, il cui regolamento è di prossima adozione”.
Le pubbliche amministrazioni potranno rilasciare il provvedimento o stipulare il contratto trascorsi 30 giorni dalla richiesta di rilascio per la documentazione antimafia (mentre prima il termine era di 45 giorni), fermo restando la possibilità per le Prefetture di proseguire ex post i controlli. E ancora, per effetto del decreto con “Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, recante Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge n. 136 del 2010”, non sarà più necessario per le imprese comunicare i dati irrilevanti, come quelli dei familiari minorenni, per il rilascio dell'informazione antimafia, mentre si prevede, per eliminare ogni margine di elusione o di aggiramento della normativa antimafia, la possibilità di verifiche sulle imprese a rischio di infiltrazione mafiosa, a prescindere dal valore o dall'importo del contratto.
Le altre misure
Varato il decreto missioni, rinviato invece il provvedimento sulla tassazione dei tabacchi: il consiglio dei ministri di ha dato il via libera al rinnovo delle missioni italiane all'estero e anche al provvedimento sui fabbisogni standard. Le misure fiscali sui tabacchi sono state invece rimandate, anche in considerazione dell'assenza del ministro dell'economia e delle finanze Pier Carlo Padoan, in viaggio in Cina (articolo ItaliaOggi del 24.07.2014).

APPALTIAppalti, limitate le varianti all'Anac.
Per gli appalti di lavori oltre i 5 milioni l'obbligo di trasmissione delle varianti in corso d'opera all'Autorità nazionale anti corruzione scatta a condizione che superino il 10% del valore del contratto; nell'obbligo rientrano anche le varianti dovute a errore o omissione della progettazione; per appalti al di sotto della soglia comunitaria le varianti dovranno comunicate all'Osservatorio che effettuerà un primo screening e vi saranno sanzioni in caso di inadempimento (di importo compreso fra 26.000 e 51.000 euro); l'unità speciale Anac su Expo 2015 si fermerà a fine 2016.

È questo il contenuto di alcuni emendamenti approvati dalla commissione affari costituzionali della camera al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 90 di riforma della p.a.
Le modifiche approvate riguardano in particolare l'articolo 37 («trasmissione varianti all'Anac»), norma che anche il presidente Anac, Raffaele Cantone, aveva chiesto di modificare per evitare la paralisi dell'Autorità. In particolare la riscrittura della disposizione del decreto-legge si deve a due emendamenti (primi firmatari Raffaella Mariani del Pd e Albrecht Plangger del gruppo Misto) che, in primo luogo, limitano l'obbligo, per gli appalti di lavori oltre la soglia di applicazione delle norme europee (5,18 milioni), alle sole varianti che comportino un aumento almeno del 10%.
In secondo luogo la nuova norma elimina l'obbligo per le per le varianti dovute a «rinvenimenti imprevisti o non prevedibili nella fase progettuale», anche se lo introduce per quelle dovute a errore o omissione progettuale, inizialmente non previste dalla norma (per gli errori progettuali, se si supera il 20%, la stazione appaltante deve risolvere il contratto), rimane invece l'obbligo per le modifiche dovute a cause impreviste, incrementi improvvisi del costo dei materiali e «sorprese geologiche».
Nel caso di appalti di valore inferiore alla soglia Ue tutte le varianti in corso d'opera dovranno essere trasmesse entro 30 giorni tutte le varianti in corso d'opera (senza alcuna distinzione), ma all'Osservatorio, tramite le sezioni regionali. Dal punto di vista degli adempimenti a carico della stazione appaltante gli emendamenti chiariscono che sarà a carico della stazione appaltante inviare, oltre alla variante e al progetto esecutivo, anche l'atto di validazione e una apposita relazione predisposta dal responsabile del procedimento. Sarà poi l'Anac a stabilire quali provvedimenti adottare.
Va precisato che la nuova norma varata in commissione prevede anche un espresso riferimento all'applicazione di sanzioni in caso di inadempimento dell'obbligo: il riferimento è alle sanzioni di cui articolo 6, comma 11, del codice dei contratti pubblici (variabili fra 25.822 e 51.545 euro), anche se tale richiamo, inserito nel comma 2 dell'emendamento, sembra doversi applicare soltanto alle varianti di appalti sotto la soglia comunitaria e non anche a quelle oltre la soglia dei 5,18 milioni di euro. Un'altra modifica viene poi apportata all'articolo 30 concernente l'Unità operativa speciale istituita dall'Anac per Expo 2015 che ha il compito di alta sorveglianza e garanzia della correttezza e trasparenza sulle procedure: si precisa che l'unità dovrà operare fino alla completa esecuzione dei contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, e comunque non oltre il 31.12.2016 e senza che ciò comporti maggiori oneri per la finanza pubblica (dovranno essere utilizzate le risorse dell'Anac).
Infine si introduce l'obbligo di pubblicazione delle spese relative ai compensi e incarichi concernenti le attività del Commissario unico per Expo 2015 sul sito istituzionale dell'evento Expo Milano 2015 in modo che siano accessibili e periodicamente aggiornate (articolo ItaliaOggi del 24.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIControlli antimafia rapidi. I prefetti avranno 30 giorni per rilasciare i certificati per i contratti. Consiglio dei ministri. Primo via libera allo schema di decreto legislativo che corregge il Codice.
Via libera in prima lettura ieri in Consiglio dei ministri alle nuove norme antimafia. È uno schema di decreto legislativo, che dovrà avere il parere favorevole delle commissioni parlamentari –avranno 45 giorni di tempo– per poi ottenere il varo definitivo del governo guidato da Matteo Renzi.
Il provvedimento, in sostanza, detta una serie di semplificazioni nelle procedure di rilascio della certificazione e di interdittiva antimafia nei contratti pubblici da parte degli uffici delle prefetture sul territorio.
Innanzitutto, si riducono intanto da 45 a 30 i giorni entro i quali le pubbliche amministrazioni potranno stipulare i contratti. In quel lasso di tempo, i prefetti dovranno rilasciare le comunicazioni antimafia. Quest'accelerazione non pregiudica le possibilità, da parte degli uffici dell'Interno, di fare controlli ex post.
Ciò significa che, quando le prefetture non sono state in grado di emanare tempestivamente la certificazione, il contratto, dopo i 30 giorni, può comunque essere stipulato. Se poi dai controlli effettuati ex post emergono «situazioni ostative», come le definisce il Viminale, la stazione appaltante risolve il contratto.
Non solo: nei casi di urgenza, le norme introdotte consentono alla stazione appaltante di procedere subito alla stipula del contratto anziché attendere –com'è invece previsto attualmente– 15 giorni.
In una nota ufficiale del ministero guidato da Angelino Alfano, si sottolinea come «le misure previste consentiranno di semplificare una serie di oneri amministrativi a carico delle imprese valutabili nell'ordine di 20 milioni di euro».
Il comunicato mette in evidenza anche che «un ulteriore abbattimento dei costi per le imprese, per altri 20 milioni di euro, sarà conseguito con l'attivazione della Banca dati antimafia» di cui si attende ormai il regolamento –«di prossima adozione» dice il Viminale– che farà decollare un sistema informativo decisivo. Tanto decisivo da essere più volte richiamato nelle nuove disposizioni del decreto legislativo approvato ieri in prima lettura.
Il varo definitivo della Banca dati antimafia attende ora l'ok del ministero dell'Economia. Fino all'attivazione della Banca dati, le pubbliche amministrazioni potranno utilizzare la documentazione antimafia che hanno già acquisito ed è ancora in corso di validità, senza reiterare la richiesta per ogni procedimento amministrativo.
Tra le altre misure di semplificazione previste –seguite a più riprese anche dal viceministro all'Interno, Filippo Bubbico–, lo schema di decreto legislativo prevede che le verifiche antimafia riguardino soltanto i familiari maggiorenni dei soggetti titolari degli incarichi rilevanti nell'impresa (e quindi non più anche i minorenni). Vengono esclusi dai controlli anche i familiari residenti all'estero (sempre ferma restando, da parte degli uffici antimafia delle prefetture, la possibilità di fare successivamente, se necessario, verifiche anche in questi casi).
Inoltre, è eliminata la possibilità per le amministrazioni di richiedere la documentazione antimafia indifferentemente alla prefettura della loro sede o dove invece ha sede l'impresa: lo schema di decreto fissa in via definitiva la scelta nella prefettura della sede legale dell'impresa. Un indirizzo, quello assunto dal Viminale, che semplifica e dovrebbe rendere più efficaci i controlli sulle eventuali infiltrazioni della criminalità organizzata.
Ma forse una delle novità più rilevanti introdotte riguarda la facoltà delle prefetture di fare controlli sulle imprese anche al di sotto delle soglie minime del valore o dell'importo del contratto.
Il senso di questa innovazione è chiaro: poter controllare le aziende in odore di mafia, come si dice in gergo, qualunque sia la dimensione economica in ballo. E, fatto non secondario, risolvere le scelte di elusione e di aggiramento delle norme, con quelle imprese cioè che operano a bella posta sotto le soglie previste dalla normativa antimafia per evitare o eludere i controlli del ministero dell'Interno.
Lo schema di decreto legislativo non potrà attendere molto per essere approvato in tempo utile: il governo ha tempo per esercitare la delega fino al 13 ottobre prossimo
 (articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2014).

APPALTIFatture elettroniche integrabili. Codice di gara e di progetto per l'emissione verso la p.a.. I chiarimenti operativi emanati dalla fondazione Accademia romana di ragioneria.
Fatture elettroniche emesse a carico delle pubbliche amministrazioni da integrare obbligatoriamente con il Codice identificativo di gara (Cig) e con il Codice unico di progetto (Cup), ai fini della tracciabilità dei pagamenti.

Così le disposizioni dell'art. 25, comma 2, del dl 66/2014 inserite dal legislatore al fine di assicurare l'effettiva tracciabilità dei pagamenti da parte della p.a., commentate, nella nota operativa n. 10/2014, dalla fondazione Accademia romana di ragioneria Giorgio Di Giuliomaria, avente a oggetto la fatturazione elettronica nella p.a.
La nota ricorda che la fatturazione elettronica è stata introdotta, per recepimento della direttiva 2010/45/Ue, dai commi da 325 a 328, dell'art. 1, della legge 228/2012 (Stabilità 2013) e che l'Agenzia delle entrate ha fornito le proprie precisazioni sul tema, con un recente documento di prassi (circ. 18/E/2014).
Dal documento in commento si evince che la fattura elettronica, in base ai contenuti dell'art. 21, del dpr 633/1972, può essere emessa e ricevuta in qualunque formato elettronico, che il ricorso a tale documento è subordinato all'accettazione da parte del destinatario e che non possono essere considerate tali quelle fatture che, sebbene create in formato elettronico, siano successivamente inviate e ricevute su supporto cartaceo.
Di conseguenza, la nota operativa evidenzia che, l'art. 21 del decreto Iva, non prevede più il preventivo accordo con il destinatario per la relativa emissione ma solo una mera accettazione della controparte, con l'ulteriore possibilità che il documento informatico possa essere messo a disposizione del destinatario tramite l'accesso al web, a un server o altro supporto informatico, nonché tramite e-mail contenente un protocollo di comunicazione e un link di collegamento che permetta il download della fattura stessa.
L'art. 25 del dl 66 ha anticipato al 31.03.2015, il termine dal quale decorrono gli obblighi di fatturazione elettronica, con riferimento alle amministrazioni locali (regioni, province, comuni, comunità montane, unione di comuni, Asl, Cciaa e quant'altro) e con riferimento a tutte le amministrazioni pubbliche, con l'eccezione dei ministeri, delle agenzie fiscali e degli enti nazionali di previdenza e assistenza sociale, per i quali l'obbligo è entrato in vigore dal 06.06.2014. Inoltre, l'art. 6, comma 4, del dm 55/2013 ha esteso l'applicazione anche alle fatture emesse da parte di soggetti non residenti in Italia e alle fatture relative al servizio di pagamento delle entrate, di cui al dlgs 241/1997.
Il documento in commento, inoltre, affronta le problematiche inerenti alla ricezione mediante il sistema informativo di contabilità (Sicoge) e al riconoscimento o rifiuto, per il tramite del sistema di interscambio (Sdi). La nota operativa ricorda che a partire dai tre mesi successivi dalle date indicate, le amministrazioni pubbliche non potranno eseguire alcun pagamento delle forniture e delle prestazioni di servizi ottenute, fino all'invio del documento in formato elettronico, tenendo ulteriormente conto che, al fine di garantire la tracciabilità dei relativi pagamenti, i documenti, oltre a contenere i dati indicati dall'art. 21 del decreto Iva, dovranno contenere il Codice identificativo di gara (Cig) e il Codice unico di progetto (Cup).
Si ricorda, infine, che l'Agenzia delle entrate (circ. 18/E/2014) ha precisato che il soggetto passivo (colui che è obbligato all'emissione della fattura elettronica) deve assicurare l'autenticità dell'origine, l'integrità del contenuto e la leggibilità dei documenti, dal momento dell'emissione fino al termine di decadenza del periodo di conservazione, ai sensi delle disposizioni contenute nell'art. 21, comma 3, dpr 633/1972. Di fatto, quindi, devono essere garantite, la certa identità del cedente/prestatore, l'inalterabilità del contenuto e la visualizzazione adeguata e affidabile del formato (articolo ItaliaOggi del 23.07.2014).

APPALTIAppalti, sospensive anche gratis. I giudici potranno esonerare le imprese dalla cauzione. RIFORMA P.A./ Un emendamento del relatore rende facoltativa la misura del dl 90.
Le imprese non saranno più obbligatoriamente tenute a pagare una cauzione per ottenere la sospensiva nei giudizi in materia di appalti. Salta infatti il vincolo che imponeva ai giudici amministrativi di subordinare l'efficacia della misura cautelare al pagamento di una somma di denaro. Ora la decisione è rimessa alla discrezionalità del collegio giudicante che potrà richiedere la prestazione della cauzione, ma potrà anche esonerare l'impresa da un esborso economico immediato che spesso costringe gli operatori a chiedere una fideiussione alle banche.

Il parziale dietrofront sulla misura del dl 90/2014 che allo scopo di accelerare i giudizi in materia di appalti rischiava però di prestare il fianco a forti dubbi di costituzionalità (per evidente compressione dei diritti di difesa) è contenuto tra le pieghe dei primi emendamenti depositati in commissione affari costituzionali dal relatore Emanuele Fiano (Pd).
La proposta di modifica non solo rende facoltativa quella che era una prestazione obbligatoria a carico delle imprese, ma ne circoscrive l'importo stabilendo che non possa superare lo 0,5% del valore dell'appalto. Una misura, evidentemente dissuasiva, che si affianca all'altra che consente di condannare la parte soccombente al pagamento dell'1% del valore dell'appalto qualora il giudice ravvisi che si è trattato di una lite temeraria.
Nel pacchetto di emendamenti presentati da Fiano si segnala anche una più chiara formulazione dell'art. 1, comma 5 sulla risoluzione del rapporto di lavoro che tutte le p.a. (centrali e locali, incluse le Autorità indipendenti) potranno chiedere al personale, dirigenziale e non, che abbia maturato i requisiti di anzianità contributiva (42 anni e 3 mesi). La risoluzione dovrà essere preceduta da un preavviso di sei mesi e potrà essere fatta valere anche nei confronti di dirigenti medici, sanitari, professori e ricercatori universitari.
Infine, è stata notevolmente addolcita la spending review sulle Authority (Autorità di regolazione dei trasporti, Autorità per l'energia elettrica, e il gas, Agcom, Commissione di vigilanza sui fondi pensione e Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali) che non saranno più costrette a trasferirsi in una sede unica a condizione che rispettino un lungo elenco di parametri di virtuosità. La sede di ciascuna Authority dovrà essere ospitata in un edificio pubblico. Tutti gli uffici dovranno essere concentrati nella sede principale dove dovrà trovare posto l'80% del personale. La spesa per le sedi secondarie non dovrà superare il 20% della spesa complessiva, mentre la spesa per consulenze non potrà superare il 2%.
I lavori in commissione sono ripartiti ieri in tarda serata con la presentazione di ulteriori emendamenti del relatore tra cui quello che dovrebbe addolcire la soppressione delle sezioni distaccate dei Tar (articolo ItaliaOggi del 23.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Incentivi ai progettisti, pasticcio alla camera.
Novità in vista per la norma sull'incentivo del 2% del valore dell'opera pubblica per i progettisti della pubblica amministrazione, dopo l'approvazione in commissione affari costituzionali della camera dell'emendamento Pdl che lo ha abrogato. Le modifiche potrebbero essere apportate in aula con un sempre più probabile maxi-emendamento, considerando anche i tempi di discussione del provvedimento, oggetto di numerosi emendamenti da parte di tutti i gruppi parlamentari.

Giovedì scorso la commissione ha esaminato i diversi emendamenti all'articolo 13 del decreto-legge 90/2014 che, nella versione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, prevede un comma aggiuntivo all'articolo 92 del decreto legislativo 163/2006 (il codice dei contratti pubblici) con il quale si stabilisce che al personale con qualifica dirigenziale non spetti l' incentivo previsto dai precedenti commi 5 e 6 della stessa norma (il due per cento del valore dell'opera per progettazione, direzione lavori e collaudo e il 30% della tariffa professionale per atti di pianificazione).
Le proposte emendative prevedevano dall'abrogazione della limitazione al personale dirigenziale, alla trasformazione in incentivo all'efficienza per i controlli sull'esecuzione del contratto, fino alla riproposizione dell'abrogazione dell'incentivo stesso che era stata peraltro inserita nel testo del governo entrato in consiglio dei ministri, ma successivamente modificato.
Nella scarsa attenzione dei commissari è passato, con parere favorevole del governo e del relatore, l'emendamento 13.1, firmato da Basilio Catanoso (Pdl) che elimina l'incentivo per tutti i tecnici delle amministrazioni. In commissione, subito dopo la votazione, diversi deputati del partito democratico hanno chiesto lumi sugli effetti della norma i cui contenuti (abrogativi della norma vigente) sono stati prontamente chiariti dal ministro Marianna Madia. Compreso l'accaduto più di un deputato ha affermato che «se avesse compreso la portata della proposta emendativa in discussione, non avrebbe votato a favore della stessa».
Le richieste di riaffrontare la questione per individuare una soluzione di compromesso che tuteli i tecnici della pubblica amministrazione sono scattate immediatamente e, stando alle indiscrezioni filtrate in queste ore, sarebbe l'aula della camera la sede nella quale con tutta probabilità, forse con un maxi emendamento, si potrà correggere il «misfatto» compiuto, non senza qualche mancanza di attenzione, dai parlamentari, peraltro immediatamente pentiti di quanto accaduto (articolo ItaliaOggi del 23.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Centrale unica di committenza, il rinvio non sblocca le gare. Approvata la proroga. Ma si attende la conversione del decreto legge n. 90.
Rinvio a inizio 2015 dell'obbligo di ricorso a centrali di committenza per i comuni non capoluogo di provincia che intendono acquisire beni e servizi (a metà 2015 per gli appalti di lavori); ammessi gli affidamenti fino a 40 mila euro, senza ricorrere alla centrale di committenza, nei comuni con oltre 10 mila abitanti; obbligo per gli avvocati dello stato di segnalare all'Anac (Autorità anti corruzione) le violazioni al codice degli appalti.

Sono queste alcune delle principali novità approvate in queste ultime 48 ore dalla commissione affari costituzionali della camera nell'ambito della discussione del decreto-legge 90/2014 sulla riforma della p.a. Sembra quindi scongiurato il rischio di un blocco degli appalti da parte dei comuni non capoluogo di provincia che dal primo luglio si trovano nell'impossibilità di bandire le gare laddove non abbiano provveduto ad unirsi con altri comuni o provveduto ad organizzarsi facendo ricorso a centrali di committenza regionali o alla Consip.
Il problema (derivante dal divieto per l'Anac di concedere ai comuni il Cig (Codice identificativo gara) era stato segnalato anche con l'intesa siglata il 10 luglio fra ministero dell'interno e Conferenza Stato-città-enti locali, ma prontamente il presidente dell'Autorità, Raffaele Cantone aveva chiarito che in vigenza della norma non avrebbe provveduto al rilascio dei Cig ai comuni.
Nella seduta della commissione affari costituzionali di lunedì è stata però approvata una norma che dovrebbe risolvere la questione stabilendo che l'obbligo per i comuni non capoluogo scatterà dal primo gennaio del 2015 per gli acquisiti di beni e servizi e dal 01.07.2015 per l'acquisizione di lavori. Fino all'entrata in vigore della norma, però, il problema resterà e quindi, se non vi saranno ulteriori novità, soltanto con i primi di agosto potranno ripartire gli appalti dei piccoli comuni.
La Commissione ha poi dato un maggiore tempo per il ricorso alle centrali di committenza ai comuni istituiti a seguito di fusione per i quali l'obbligo di ricorso alla centrale di committenza si applicherà «dal terzo anno successivo a quello di istituzione», con possibilità quindi, se la fusione è recente, di andare ben oltre ai termini di fine 2014 o metà 2015. Per gli appalti per la ricostruzione post terremoto in Emilia-Romagna e in Abruzzo vengono esentati gli enti locali dall'applicazione dell'obbligo di ricorrere alle centrali di committenza.
Un ulteriore problema riguardava poi l'abrogazione, disposta sempre con la legge 89 di conversione del decreto 66/2014, della possibilità di affidamento in amministrazione diretta e in economia da parte dei comuni. Con un altro emendamento approvato dalla commissione si stabilisce, mediando fra diverse proposte di modifica, che per i comuni con popolazione superiore a 10 mila abitanti sia possibile «procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore ai 40 mila euro».
Diversi gli emendamenti approvati all'articolo 19 sull'Anac; fra tutti l'obbligo per gli avvocati dello stato di segnalare all'Authority le violazioni al codice dei contratti pubblici e l'istituzione di un ruolo unico dei dipendenti della soppressa Avcp e dell'Anac (articolo ItaliaOggi del 23.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATARegolamento edilizio unico per i comuni. Decreto sblocca-Italia il 31 luglio al Cdm ma c'è l'ipotesi slittamento - Delega per la riforma appalti.
Il Governo marcia a tappe forzate verso il varo dei due provvedimenti per l'edilizia e le infrastrutture. Si tratta del disegno di legge delega per la riforma degli appalti, che potrebbe addirittura andare a sorpresa oggi in Consiglio dei ministri, ma che più probabilmente andrà al Cdm di fine mese, e il decreto legge «sblocca-Italia» pure previsto per il 31 luglio (era stato il premier Renzi ad annunciarlo) ma suscettibile di un piccolo slittamento, soprattutto per recuperare qualche giorno di dibattito parlamentare post-estivo. Certo è che il Governo sta lavorando a tutta macchina e il provvedimento comincia a prendere una sua fisionomia.
La novità più importante è la conferma che nel decreto legge entra il regolamento edilizio standard unico per tutti gli 8mila comuni, salva la possibilità di adattarlo poi alle esigenze territoriali specifiche. È una rivoluzione che nasce da una proposta del Consiglio nazionale degli architetti, che è andata via via conquistando consensi. Ieri il viceministro alle Infrastrutture, Riccardo Nencini, ha confermato all'assemblea dell'Ance che la norma è già nelle bozze di decreto. Il regolamento standard sarà un atto concreto per superare la frammentazione normativa da comune a comune. La versione lanciata dal Cna aveva altre importanti caratteristiche: raccoglieva al proprio interno anche una serie di regolamentazioni ambientali e di igiene, tant'è che gli veniva dato il nome di «regolamento edilizio sostenibile».
Un altro pezzo del decreto legge che prende forma è quello relativo ai finanziamenti delle infrastrutture. Il ministero di Porta Pia propone esplicitamente (ma qui non è chiaro se sia arrivato o meno il via libera del ministero dell'Economia) un fondo unico destinato al finanziamento di infrastrutture grandi e piccole alimentato dal Tesoro in una misura fissa del 3% del Pil. Stiamo ragionando di cifre dell'ordine dei cinque miliardi annui. La questione era stata oggetto dell'incontro Padoan-Lupi di dieci giorni fa.
Terzo capitolo del decreto legge che prende forma è la lista delle grandi opere da rifinanziare con una quota rilevante dei 2-3 miliardi che dovrebbero sostenere il decreto legge. Una quota di quelle risorse andrà alle piccole opere suggerite dai comuni al premier direttamente per mail e un'altra quota dovrebbe andare a sbloccare una quota delle 671 opere di ogni taglia bloccate e censite dal ministero delle Infrastrutture. Ma la fetta maggiore dovrebbe andare alle grandi opere.
Ecco la lista che comincia a prendere forma: alta velocità Brescia-Padova, ferrovia Napoli-Bari, completamento del Quadrilatero stradale Marche-Umbria, sblocco dell'autostrada tirrenica, finanziamento delle opere collegate all'Expo, passante ferroviario di Torino, asse viario Lecco-Bergamo, ferrovia Firenze-Pistoia-Lucca, sistema idrico abruzzese. Una decina di opere cui se ne potrebbero forse aggiungere ancora altre ma che non dovrebbero crescere troppo, visto che la strategia del governo è di finanziare interventi effettivamente strategici per il territorio. Sempre in tema di grandi opere, ormai scontata una profonda revisione della legge obiettivo del 2001, con l'introduzione di nuove semplificazioni procedurali per le infrastrutture strategiche.
Il ministero delle Infrastrutture vuole comunque mantenere un equilibrio fra grandi e piccole opere e per questo rilancerà anche una seconda edizione, riveduta e corretta, del «piano dei 6mila campanili». Rispetto alla prima edizione, saranno individuati criteri per l'accesso ai finanziamenti che siano maggiormente strategici in termini di crescita e sviluppo del territorio.
Infine, le città. Anche qui l'obiettivo è rilanciare il «piano città» che fu lanciato dal viceministro Mario Ciaccia ai tempi del governo Monti. Qui forse il lavoro è un po' più indietro. Anche in questo capitolo si pensa a una seconda edizione ma qui i limiti da superare sono più importanti (anche perché il vecchio piano città di fatto non è partito mai) e soprattutto le richieste avanzate da imprese, professionisti e sindaci sul rilancio di una politica della riqualificazione urbana molto ambiziose.
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Sblocca-Italia e riforma degli appalti
URBANISTICA
Regolamento edilizio standard anti-frammentazione
Il Governo vuole inserire nel decreto legge Sblocca-Italia di fine mese un regolamento edilizio standard per tutti gli 8mila comuni. I sindaci potranno comunque adattarlo parzialmente alle loro esigenze. Una norma nata da una proposta del Consiglio nazionale degli architetti, e che sarà la chiave di volta per superare la frammentazione normativa da comune a comune
GRANDI OPERE
Prende forma la lista dei cantieri da rifinanziare
Altro capitolo del Dl la lista delle grandi opere da rifinanziare con una quota rilevante dei 2-3 miliardi che dovrebbero sostenere il provvedimento. Tra queste anche l'alta velocità Brescia-Padova, ferrovia Napoli-Bari, completamento del Quadrilatero stradale Marche-Umbria, sblocco dell'autostrada tirrenica, le opere collegate all'Expo, il passante ferroviario di Torino
APPALTI
Il nuovo Codice semplificato passa da 600 a 200 articoli
Cambia il codice degli appalti. Il Governo potrebbe approvare già oggi, per iniziare poi rapidamente l'iter parlamentare, un disegno di legge delega per recepire le direttive Ue e semplificare le norme. Si dovrebbe passare dai 600 articoli che attualmente compongono Codice degli appalti e regolamento attuativo a circa 200
CITTÀ
Nuovo slancio per le politiche di riqualificazione
Obiettivo del Governo è rilanciare il «piano città», avviato dal viceministro Mario Ciaccia ai tempi del governo Monti. Qui forse il lavoro è un po' più indietro. Anche in questo capitolo si pensa a una seconda edizione ma qui i limiti da superare sono importanti e le richieste avanzate da imprese, professionisti e sindaci sul rilancio di una politica di riqualificazione urbana molto ambiziose
SEMPLIFICAZIONI
Legge obiettivo da riscrivere e nuove norme sulle lobby
Con la semplificazione del Ddl delega arriverà la riscrittura della legge obiettivo sulle grandi opere affiancata da una nuova normativa sulle lobby. Con l'istituzione di un registro dei «portatori di interessi» e soprattutto di una disciplina organica del débat public sulle grandi opere. Un modo per tenere conto delle istanze del territorio garantendo però che la decisione finale spetta sempre all'organo di rappresentanza di riferimento
FONDI
Fondo unico del Tesoro: alle infrastrutture il 3% del Pil
Un fondo statale destinato al finanziamento delle opere con il 3% del Pil, per un importo dell'ordine di 5 miliardi all'anno. Il decreto legge sblocca-Italia dovrebbe prevedere la sua costituzione per il finanziamento di infrastrutture grandi e piccole alimentato dal Tesoro. La questione era stata oggetto dell'incontro Padoan-Lupi di dieci giorni fa
LA LISTA DELLE OPERE
Prima lista dei grandi e piccoli interventi
Alta velocità Brescia-Padova
Ferrovia Napoli-Bari
Completamento Quadrilatero stradale Marche-Umbria
Sblocco dell'autostrada tirrenica
Finanziamento delle opere collegate all'Expo
Passante ferroviario di Torino
Asse viario Lecco-Bergamo
Ferrovia Firenze-Pistoia-Lucca
Sistema idrico abruzzese
Seconda edizione del piano dei 6mila campanili
Seconda edizione del piano città per la riqualificazione urbana
 (articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATATermoregolazione d'obbligo entro il 2016. Consumi energetici. Recepito il piano europeo per la riduzione.
Scatta anche in Italia (l'obbligo era già normato a livello europeo) il termine del 31.12.2016 entro il quale tutti gli edifici dovranno essere adeguati con sistemi per la termoregolazione e contabilizzazione del calore.
Lo stabilisce il decreto legislativo 04.07.2014, n. 102, che a sua volta attua la direttiva europea 2012/27/Ue sull'efficienza energetica. La norma, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» di venerdì 18.07.2014, è entrata in vigore dal giorno successivo.
Il nuovo atto, per ciò che riguarda l'introduzione delle valvole e la misurazione dei consumi, va a disciplinare materie che, in parte, sono già oggetto di legislazione regionale, ad esempio in Lombardia e in Piemonte. Nelle due Regioni, rispettivamente, l'obbligo è in vigore dall'agosto del 2012 con alcune deroghe al 2014 o diventerà operativo dal 01.09.2014. Tuttavia, l'amministrazione guidata da Maroni ha già chiarito, nella legge di assestamento di bilancio, che le sanzioni per chi non è in regola non scatteranno fino al 31.12.2016. Una linea che, con ogni probabilità, potrebbe essere adottata anche in Piemonte, dove sono moltissimi i fabbricati che devono procedere agli adeguamenti.
Il principio che sta alla base della direttiva e del Dlgs è comunque il diritto per ciascun utente di poter calcolare, con precisione, il consumo effettivo, grazie a contatori intelligenti, pagando solo per le relative quote di spettanza e ottenendo anche informazioni importanti sull'efficienza del proprio impianto. Ovviamente lo stesso decreto norma anche i casi in cui, per ragioni tecniche, non sia possibile o efficiente inserire sistemi di termoregolazione.
L'introduzione delle valvole è solo uno degli aspetti che caratterizza un decreto ben più ampio e articolato. Tutto rivolto all'obiettivo della riduzione del 20% del consumo di energia primaria dell'Unione entro il 2020. Fra le novità introdotte spicca l'obbligo per le grandi imprese e per le aziende "energivore" di eseguire una diagnosi di efficienza energetica nei siti ubicati sul territorio nazionale, da ripetersi ogni quattro anni. La data entro cui occorre mettersi in regola è il 05.12.2015.
Ampio è il programma per la riqualificazione degli immobili della pubblica amministrazione su un periodo che va dal 2014 al 2020. È inoltre prevista l'attivazione di un Fondo nazionale per l'efficienza energetica per la concessione di garanzie o l'erogazione di finanziamenti. Per ciò che riguarda il campo dell'edilizia, sono inseriti anche scomputi sulle volumetrie per chi ristruttura facendo efficienza.
In particolare, nei fabbricati che possono dimostrare una riduzione del 20% dell'indice di prestazione fissato come limite nel Dlgs 192/2005, lo spessore delle murature esterne, delle tamponature o dei muri portanti, dei solai intermedi e di chiusura superiori ed inferiori, eccedente ai 30 centimetri (fino a un massimo di ulteriori 30 centimetri per tutte le strutture che racchiudono il volume riscaldato e ad un massimo di 15 centimetri per quelli orizzontali intermedi) non sono considerati nei computi per la determinazione di volumi, altezze, superfici e rapporti di copertura.
Deroghe sono inoltre previste sul fronte del rispetto delle distanze minime e delle altezze massime degli edifici
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2014).

INCARICHI PROGETTUALIProgettisti, meno vincoli di fatturato nelle gare. Anac. Le linee guida.
Limitare, per quanto possibile nella cornice della legge, i requisiti di fatturato e di dipendenti per la partecipazione alle gare di progettazione.
È questa la novità più interessante contenuta nella revisione della determinazione n. 5 del 07.07.2010, appena mandata in consultazione dall'Anac fino al prossimo 15 settembre: sono le attesissime nuove linee guida sull'architettura e l'ingegneria (il testo è scaricabile dal sito di «Edilizia e Territorio»), rimaste per mesi allo studio della vecchia Authority dei contratti pubblici, ora passata sotto la guida di Raffaele Cantone. Nel provvedimento si affronta peraltro anche un secondo grande tema: quello della corrispondenza delle classi e categorie di servizi di progettazione nel passaggio tra il vecchio e il nuovo assetto normativo, provando a risolvere le difficoltà nate dopo l'approvazione del Dm parametri.
Sul fronte dei requisiti di fatturato, l'Authority ricorda che «il consolidato orientamento giurisprudenziale, in linea con le espressioni di parere dell'Avcp», considera «congruo e proporzionato un requisito non superiore al doppio dell'importo a base di gara», mentre il regolamento prevede una forbice tra due e quattro volte. Sempre in chiave di apertura del mercato, poi, il testo spiega che il requisiti di fatturato non può essere limitato ai soli servizi oggetto di gara ma va esteso a tutte le attività svolte dal concorrente purché compatibili e di importo pari a quello richiesto
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Più cubature grazie all'energia. Volumi e spessori aumentano se si riducono i consumi. Il decreto 102/2014 sull'efficienza prevede anche fatture basate sull'utilizzo effettivo.
L'efficienza energetica fa guadagnare sulla cubatura e sulle distanze; e le fatture devono basarsi sugli effettivi consumi individuali, senza ricarico del costo di spedizione.
Il decreto legislativo 102/2014 (attuazione della direttiva 2012/27/UE sull'efficienza energetica), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 165 del 18.7.2014 (si veda ItaliaOggi del 19 luglio scorso), vigente dal 19.07.2014, tratta sia di benefici edilizi sia di garanzie nel sistema di misurazione dell'energia fruita.
Vediamo di illustrare il contenuto del decreto.
EDILIZIA
Partiamo dagli incentivi edilizi.
Innanzi tutto si tratta di benefici nel conteggio della cubatura per gli edifici di nuova costruzione, con una riduzione minima del 20 per cento dell'indice di prestazione energetica.
In questi casi lo spessore delle murature esterne, delle tamponature o dei muri portanti, dei solai intermedi e di chiusura superiori ed inferiori, eccedente ai 30 centimetri, fino ad un massimo di ulteriori 30 centimetri per tutte le strutture che racchiudono il volume riscaldato, e fino ad un massimo di 15 centimetri per quelli orizzontali intermedi, non sono considerati nei computi per la determinazione dei volumi, delle altezze, delle superfici e nei rapporti di copertura.
Rispettare l'efficienza energetica significa beneficiare anche quanto a distanze tra edifici, da confine e fascia di rispetto stradale e ferroviario e altezze massime dell'edificio. Nel rilascio dei titoli abitativi, nei limiti descritti, si può, infatti, andare in deroga alla normativa edilizia e urbanistica.
Le deroghe vanno esercitate, però, nel rispetto delle distanze minime riportate nel codice civile.
I benefici riguardano, oltre agli interventi di nuova costruzione, anche gli interventi su immobili esistenti. In particolare gli interventi di riqualificazione energetica che comportino maggiori spessori delle murature esterne e degli elementi di chiusura superiori e inferiori necessari a ottenere una riduzione minima del 10% dei limiti di trasmittanza.
In questa ipotesi è possibile derogare alla normativa sulle distanze minime tra edifici, dai confini di proprietà e sulle distanze minime di protezione del nastro stradale.
Il decreto legislativo in esame prevede una deroga dalle distanze, nella misura massima di 25 centimetri per il maggiore spessore delle pareti verticali esterne, alle altezze massime degli edifici, nella misura massima di 30 centimetri, per il maggior spessore degli elementi di copertura. La deroga potrà essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti. Anche qui le deroghe andranno esercitate nel rispetto delle distanze minime riportate nel codice civile.
CONSUMI
Il decreto prevede contatori individuali per i clienti finali di energia elettrica e gas naturale, teleriscaldamento, teleraffreddamento e acqua calda per uso domestico. I contatori individuali devono misurare con precisione il consumo effettivo e fornire informazioni sul tempo effettivo di utilizzo dell'energia.
Quanto ai sistemi di misurazione, il decreto legislativo in commento rafforza la scelta di sistemi di misurazione intelligenti, che forniscano ai clienti finali informazioni sul tempo effettivo di utilizzo, siano sicuri e rispettosi della privacy nella fase della raccolta dei dati di consumo.
Nel dettaglio viene fissata la data del 31.12.2016 per l'installazione di contatori individuali nei condomini riforniti fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata o da una rete di teleriscaldamento o da un sistema di fornitura centralizzato che alimenta una pluralità di edifici: deve essere misurato l'effettivo consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unità immobiliare.
Nei casi in cui l'uso di contatori individuali non sia tecnicamente possibile o non sia efficiente in termini di costi, per la misura del riscaldamento si ricorre all'installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali per misurare il consumo di calore in corrispondenza a ciascun radiatore posto all'interno delle unità immobiliari dei condomini o degli edifici polifunzionali.
Inoltre nei condomini l'importo dei costi del teleriscaldamento deve essere suddiviso in relazione agli effettivi prelievi volontari di energia termica utile e ai costi generali per la manutenzione dell'impianto. Anche se il decreto fa salva la possibilità, per la prima stagione termica successiva all'installazione dei dispositivi, che la suddivisione si determini in base ai soli millesimi di proprietà.
Ancora le imprese, entro il 31.12.2014, nelle fatture devono dare informazioni sul consumo effettivo di energia e la fatturazione deve avvenire sulla base del consumo effettivo almeno con cadenza annuale; mentre le fatturazione intermedie possono basarsi anche su un sistema di autolettura da parte del consumatore.
Infine il decreto sottolinea che non devono applicarsi costi ai clienti finali per la ricezione delle fatture, delle informazioni sulla fatturazione e per l'accesso ai dati sui consumi (articolo ItaliaOggi del 22.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti nei Comuni, rischio di stop fino a settembre. Enti locali. Il «caso» delle centrali uniche.
Un giro di riunioni tecniche per esplorare le possibili soluzioni tampone, compresa quella, estrema, di un nuovo decreto correttivo "a perdere" per sbloccare la situazione in attesa che i provvedimenti oggi all'esame del Parlamento facciano il loro corso.
È questo l'effetto prodotto dal nuovo intreccio di regole su acquisti e progetti nella Pubblica amministrazione che stanno incagliando il sistema.
Il primo corno del problema è quello degli acquisti nei quasi 8mila Comuni italiani che non sono capoluogo di Provincia. Come annunciato per lettera al Governo (si veda «Il Sole 24 Ore» del 19 luglio), l'autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone ha ripreso a negare i codici identificativi di gara (Cig) per gli acquisti dei Comuni non capoluogo che non seguono le nuove strade "centralizzate", in molti casi inattuabili perché i «soggetti aggregatori» chiamati a sostituire i singoli enti non sono pronti.
La ragione, ovvia nella sua semplicità, è che l'Anac non può che rispettare le norme in vigore, e l'accordo raggiunto in Conferenza Stato-Città tra Governo ed enti locali sul rinvio dei nuovi obblighi al 2015 (1° gennaio per beni e servizi, 1° luglio per i lavori) non ha ancora cambiato le regole. Il Governo ha preparato un emendamento che traduce in legge l'intesa, ma il decreto «competitività» che dovrebbe ospitarlo procede a rilento nel suo esame al Senato (si veda l'articolo a pagina 8), e la legge di conversione rischia di arrivare in «Gazzetta Ufficiale» intorno alla metà di agosto. La conseguenza è un blocco generalizzato degli acquisti fino a settembre, che naturalmente danneggia le amministrazioni locali ma anche le imprese fornitrici.
L'altro problema è invece quello esploso con l'emendamento al Dl 90/2014 approvato in commissione Affari costituzionali alla Camera che ha cancellato del tutto gli incentivi ai progettisti interni alla pubblica amministrazione, mentre il testo originario varato dal Governo li negava solo ai dirigenti. La nuova regola riprende l'ipotesi delle prime bozze del provvedimento, poi scartata dal Governo, e viene considerata una vittoria da ingegneri e architetti che possono così aspirare a nuove occasioni di lavoro.
Visto con gli occhi delle amministrazioni, però, il rischio è quello di un aumento dei costi, che potrebbe inciampare già nei rilievi della commissione Bilancio imponendo un nuovo correttivo. In ogni caso, si porrebbe il problema dell'applicazione della nuova regola ai progetti già avviati, come sempre accaduto nei molti tentativi (finora abortiti) di rivedere la materia
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sino all'entrata in vigore della l.r. 12/2005, nell'ambito del titolo edilizio riguardante la costruzione di autorimesse connesse ad un edificio di nuova costruzione la loro superficie doveva essere computata ai fini della determinazione della superficie non residenziale.
Secondo la ricorrente sussisterebbe un principio generale secondo il quale i parcheggi e le autorimesse mai potrebbero influire ai fini della determinazione del contributo concessorio. In applicazione di tale principio essi non dovrebbero neppure rilevare ai fini dell’individuazione della classe giacché, come visto, la classe incide sull’entità del contributo.
In proposito si deve osservare che la giurisprudenza non offre soluzioni univoche.
Talune pronunce affermano che, ai sensi del coordinato disposto dell'art. 11, comma 1, della legge n. 122 del 1989 e dell'art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 (ora, art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001), la realizzazione dei parcheggi obbligatori è esonerata dall'onere di pagamento del contributo di costruzione.
Tuttavia di recente la Sezione si è uniformata all’orientamento opposto che afferma che, nel caso di realizzazione di edifici nuovi, le autorimesse rilevano ai fini dell’individuazione della classe.
Si è in particolare osservato che, per costante orientamento giurisprudenziale, il citato art. 9 della legge n. 122 del 1989 si riferisce solo alle autorimesse realizzate in edifici già esistenti, e che quindi anche il successivo art. 11 dello stesso decreto (che, come detto, equipara le autorimesse alle opere di urbanizzazione) non può che riferirsi a tale tipologia di autorimesse.
Si è peraltro precisato che a conclusioni diverse non può condurre né il richiamato art. 2 della l.r. n. 22 del 1999 né l’art. 69 della l.r. n. 12 del 2005.
Il primo in quanto inserito in un contesto normativo che induce ad armonizzarne la portata alle disposizioni contenute nella legge n. 122 del 1989; il secondo in quanto norma sopravvenuta che non può trovare applicazione nelle fattispecie concretizzatesi prima della sua entrata in vigore.
Ciò premesso, va rilevato che il titolo edilizio riguardante le autorimesse realizzate dalla ricorrente si è perfezionato prima dell’entrata in vigore dell’art. 69 della l.r. n. 12 del 2005, e che le medesime autorimesse sono connesse ad un edificio di nuova costruzione. La loro superficie doveva dunque essere computata ai fini della determinazione della superficie non residenziale.

13. Come noto, il rilascio di titoli edilizi è correlato al pagamento di un contributo, il cui ammontare è commisurato alle spese che il Comune sostiene per la realizzazione delle opere di urbanizzazione e al costo di costruzione.
14. Con riferimento a quest’ultimo, l’art. 16, comma 9, del d.P.R. 06.06.2001 n. 327 stabilisce che il suo ammontare sia determinato dalle regioni, le quali a tal fine debbono, innanzitutto, determinare i costi di costruzione degli edifici facendo riferimento ai valori massimi previsti per l’edilizia agevolata; devono poi individuare delle classi cui ascrivere gli edifici stessi determinate in base al pregio di questi, ed in relazione alle diverse classi stabilire maggiorazioni al costo di costruzione come sopra determinato; devono infine stabilire l’aliquota da applicare al costo di costruzione (aliquota che può variare dal 5 al 20 per cento) ai fini del calcolo del contributo.
In Regione Lombardia il provvedimento di riferimento è la delibera di Giunta Regionale n. V/53844 del 31.05.1994.
15. Prevede fra l’altro tale delibera che, per quanto riguarda l’individuazione delle classi, si debba far riferimento a quanto stabilito dal d.m. 10.05.1977 (emanato in esecuzione dell’art. 6 della legge n. 10 del 1977). Stabilisce inoltre che le aliquote da applicare al costo di costruzione, ai fini del calcolo del contributo, varino in relazione alla classe cui è ascritto l’edificio.
16. Come si vede, le classi incidono doppiamente sul calcolo del contributo commisurato al costo di costruzione: in prima battuta in quanto al loro variare varia anche il costo di costruzione; in seconda battuta in quanto l’aliquota da applicare a quest’ultimo per la determinazione del contributo aumenta con il variare della classe.
17. Ciò premesso, si deve osservare che, in base all’art. 6 del d.m 10.05.1977, la classe cui ascrivere il singolo edificio si determina anche sulla base del rapporto fra superficie non residenziale e superficie residenziale: maggiore è il rapporto e quindi maggiore è la superficie non residenziale) più alta sarà la classe cui ricondurre il fabbricato.
18. E’ per questa ragione che i ricorrenti hanno interesse a dedurre che, per il calcolo della superficie non residenziale, non si debba tenere conto delle autorimesse.
19. Sostiene in particolare l’interessata che le autorimesse non sono computabili ai fini di cui sopra in virtù del combinato disposto degli artt. 9, comma primo, lett. f), della legge n. 10 del 1977 e 11 della legge 24.03.1989 n. 122 (nonché dell’art. 2 della l.r. n. 22 del 1999 che contiene norma analoga a quella contenuta nel citato art. 11): l’art. 9, comma primo, lett. f), della legge n. 10 del 1977 stabilisce la gratuità delle concessioni edilizie relative ad opere di urbanizzazione, mentre l’art. 11 della legge 24.03.1989 n. 122 assimila i parcheggi e le autorimesse alle opere di urbanizzazione, e ciò proprio al fine di sancire la gratuità delle relative concessioni.
20. Secondo la ricorrente tali norme sarebbero espressione di un principio generale secondo il quale i parcheggi e le autorimesse mai potrebbero influire ai fini della determinazione del contributo concessorio. In applicazione di tale principio essi non dovrebbero neppure rilevare ai fini dell’individuazione della classe giacché, come visto, la classe incide sull’entità del contributo.
21. In proposito si deve osservare che la giurisprudenza non offre soluzioni univoche.
22. Talune pronunce affermano che, ai sensi del coordinato disposto dell'art. 11, comma 1, della legge n. 122 del 1989 e dell'art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 (ora, art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001), la realizzazione dei parcheggi obbligatori è esonerata dall'onere di pagamento del contributo di costruzione (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez. II, 04.12.2012, n. 4896).
23. Tuttavia di recente la Sezione si è uniformata all’orientamento opposto che afferma che, nel caso di realizzazione di edifici nuovi, le autorimesse rilevano ai fini dell’individuazione della classe (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 21.05.2013, n. 2771; id. 18.12.2012, n. 6509; TAR Lombardia Milano, sez. II, 20.03.2014, n 722).
24. Si è in particolare osservato che, per costante orientamento giurisprudenziale, il citato art. 9 della legge n. 122 del 1989 si riferisce solo alle autorimesse realizzate in edifici già esistenti (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 24.10.2000 n. 5676), e che quindi anche il successivo art. 11 dello stesso decreto (che, come detto, equipara le autorimesse alle opere di urbanizzazione) non può che riferirsi a tale tipologia di autorimesse.
25. Si è peraltro precisato che a conclusioni diverse non può condurre né il richiamato art. 2 della l.r. n. 22 del 1999 né l’art. 69 della l.r. n. 12 del 2005.
26. Il primo in quanto inserito in un contesto normativo che induce ad armonizzarne la portata alle disposizioni contenute nella legge n. 122 del 1989 (si rinvia alle esaustive motivazioni contenute nella citata sentenza del Consiglio di Stato n. 6509 del 2012); il secondo in quanto norma sopravvenuta che non può trovare applicazione nelle fattispecie concretizzatesi prima della sua entrata in vigore.
27. Ciò premesso, va rilevato che il titolo edilizio riguardante le autorimesse realizzate dalla ricorrente si è perfezionato prima dell’entrata in vigore dell’art. 69 della l.r. n. 12 del 2005, e che le medesime autorimesse sono connesse ad un edificio di nuova costruzione. La loro superficie doveva dunque essere computata ai fini della determinazione della superficie non residenziale.
28. Il motivo in esame è, pertanto, infondato. Di conseguenza il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte di pianificazione territoriale costituiscono espressione di ampia discrezionalità dell’amministrazione, discrezionalità che può essere sindacata dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti.
La giurisprudenza sostiene in particolare che le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si afferma altresì che l’amministrazione non è tenuta a motivare specificamente le scelte riguardanti le singole zone, effettuate con lo strumento di pianificazione territoriale, essendo all’uopo sufficiente il richiamo ai criteri generali seguiti nell’impostazione come risultanti dall’apposita relazione di accompagnamento al piano.
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto interessato dall’atto di pianificazione versi in situazione di particolare affidamento derivante da una convenzione di lottizzazione, stipulata con il Comune, che riservi alla sua area un trattamento più favorevole rispetto a quello introdotto con il piano sopravvenuto ovvero derivante da una sentenza di annullamento di un provvedimento di diniego al rilascio un titolo edilizio. Altra eccezione si ha poi nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente edificati.
Per quanto riguarda più specificamente la decisione di imprimere ai suoli destinazione agricola, la giurisprudenza afferma che tale decisione può ritenersi giustificata anche quando, pur non possedendo l’area effettiva destinazione agricola, si intenda con essa soddisfare l’esigenza di contenimento del consumo di suolo e, quindi, di porre argine all’edificazione del territorio al fine preservarne il valore ambientale.

Costituisce principio consolidato quello secondo il quale le scelte di pianificazione territoriale costituiscono espressione di ampia discrezionalità dell’amministrazione, discrezionalità che può essere sindacata dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti.
La giurisprudenza sostiene in particolare che le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si afferma altresì che l’amministrazione non è tenuta a motivare specificamente le scelte riguardanti le singole zone, effettuate con lo strumento di pianificazione territoriale, essendo all’uopo sufficiente il richiamo ai criteri generali seguiti nell’impostazione come risultanti dall’apposita relazione di accompagnamento al piano (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.04.2008 n. 1476; id. 13.03.2008 n. 1095; id. 27.12.2007 n. 6686).
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto interessato dall’atto di pianificazione versi in situazione di particolare affidamento derivante da una convenzione di lottizzazione, stipulata con il Comune, che riservi alla sua area un trattamento più favorevole rispetto a quello introdotto con il piano sopravvenuto ovvero derivante da una sentenza di annullamento di un provvedimento di diniego al rilascio un titolo edilizio. Altra eccezione si ha poi nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente edificati (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.2004 n. 6401; id. 04.03.2003 n. 1197).
Per quanto riguarda più specificamente la decisione di imprimere ai suoli destinazione agricola, la giurisprudenza afferma che tale decisione può ritenersi giustificata anche quando, pur non possedendo l’area effettiva destinazione agricola, si intenda con essa soddisfare l’esigenza di contenimento del consumo di suolo e, quindi, di porre argine all’edificazione del territorio al fine preservarne il valore ambientale (cfr. ex multis TAR Sicilia Palermo sez. I, 05.07.2012 n. 1407) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 22, comma 6, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 l’esecuzione di lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque subordinata, nonostante l’avvenuta presentazione di una DIA, al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative.
In assenza di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica la DIA non ha, dunque, effetto e l’intervento deve considerarsi eseguito in assenza di titolo.

Va invero osservato che, ai sensi dell’art. 22, comma 6, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 l’esecuzione di lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque subordinata, nonostante l’avvenuta presentazione di una DIA, al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative.
In assenza di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica la DIA non ha, dunque, effetto e l’intervento deve considerarsi eseguito in assenza di titolo (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 05.04.2007, n. 1550; TAR Campania Napoli, sez. III, 15.01.2013, n. 295; id., sez. VI, 10.01.2011, n. 35) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di impugnazioni riguardanti titoli edilizi, la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento giuridico con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo.
Va invero evidenziato che secondo la tesi prevalente in giurisprudenza, nel caso di impugnazioni riguardanti titoli edilizi, la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento giuridico con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (cfr. fra le tante, Consiglio di Stato, Consiglio di Stato sez. IV 18.12.2013 n. 6082) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte di pianificazione territoriale costituiscono espressione di ampia discrezionalità dell’amministrazione, discrezionalità che può essere sindacata dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti.
La giurisprudenza sostiene in particolare che le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si afferma altresì che l’amministrazione non è tenuta a motivare specificamente le scelte riguardanti le singole zone, effettuate con lo strumento di pianificazione territoriale, essendo all’uopo sufficiente il richiamo ai criteri generali seguiti nell’impostazione come risultanti dall’apposita relazione di accompagnamento al piano.
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto interessato dall’atto di pianificazione versi in situazioni di particolare affidamento, derivanti da una convenzione di lottizzazione stipulata con il Comune, che riservi alla sua area un trattamento più favorevole rispetto a quello introdotto con il piano sopravvenuto, da una sentenza dichiarativa dell'obbligo di disporre la convenzione urbanistica dopo che questa sia stata autorizzata, da un giudicato di annullamento di un provvedimento di diniego al rilascio un titolo edilizio, dalla decadenza di un vincolo preordinato all'espropriazione. Altra eccezione si ha poi nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente edificati.
Per quanto concerne specificamente il caso in cui lo strumento sopravvenuto introduca una disciplina peggiorativa rispetto a quella previgente, la giurisprudenza afferma che va considerato affidamento generico quello alla non “reformatio in peius” delle precedenti previsioni urbanistiche, con la conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di una motivazione specifica delle nuove previsioni rispetto a quella che può evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento stesso.

Per principio consolidato, le scelte di pianificazione territoriale costituiscono espressione di ampia discrezionalità dell’amministrazione, discrezionalità che può essere sindacata dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti.
La giurisprudenza sostiene in particolare che le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si afferma altresì che l’amministrazione non è tenuta a motivare specificamente le scelte riguardanti le singole zone, effettuate con lo strumento di pianificazione territoriale, essendo all’uopo sufficiente il richiamo ai criteri generali seguiti nell’impostazione come risultanti dall’apposita relazione di accompagnamento al piano (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.04.2008 n. 1476; id. 13.03.2008 n. 1095; id. 27.12.2007 n. 6686).
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto interessato dall’atto di pianificazione versi in situazioni di particolare affidamento, derivanti da una convenzione di lottizzazione stipulata con il Comune, che riservi alla sua area un trattamento più favorevole rispetto a quello introdotto con il piano sopravvenuto, da una sentenza dichiarativa dell'obbligo di disporre la convenzione urbanistica dopo che questa sia stata autorizzata, da un giudicato di annullamento di un provvedimento di diniego al rilascio un titolo edilizio, dalla decadenza di un vincolo preordinato all'espropriazione. Altra eccezione si ha poi nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente edificati (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.2004 n. 6401; id. 04.03.2003 n. 1197).
Per quanto concerne specificamente il caso in cui lo strumento sopravvenuto introduca una disciplina peggiorativa rispetto a quella previgente, la giurisprudenza afferma che va considerato affidamento generico quello alla non “reformatio in peius” delle precedenti previsioni urbanistiche, con la conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di una motivazione specifica delle nuove previsioni rispetto a quella che può evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento stesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2005, n. 719; id. 26.05.2003 n. 2827)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le osservazioni presentate dai privati nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico hanno natura di mero apporto collaborativo.
Pertanto, per il loro rigetto, non occorre una approfondita motivazione ed una specifica ed analitica confutazione delle argomentazioni dedotte dal privato, essendo invece sufficiente che le controdeduzioni dell'amministrazione, ancorché sintetiche, siano idonee a dimostrare che le osservazioni sono state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione dello strumento urbanistico.

In proposito si deve preliminarmente osservare che, per consolidato insegnamento giurisprudenziale, le osservazioni presentate dai privati nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico hanno natura di mero apporto collaborativo; pertanto, per il loro rigetto, non occorre una approfondita motivazione ed una specifica ed analitica confutazione delle argomentazioni dedotte dal privato, essendo invece sufficiente che le controdeduzioni dell'amministrazione, ancorché sintetiche, siano idonee a dimostrare che le osservazioni sono state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione dello strumento urbanistico (cfr. fra le tante, TAR Emilia-Romagna Bologna, sez. I, 21.03.2014, n. 314) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: In area sottoposta a vincolo ambientale ai sensi degli artt. 136 e 142 del d.lgs. n. 42/2004, si sono effettuati svariati interventi nell’ambito di un’operazione di riqualificazione del parco, fra i quali il taglio di alcune specie arboree nel demanio lacuale, senza aver preventivamente richiesto l’autorizzazione paesaggistica.
Ebbene, nel caso de quo la sanzione è stata determinata con riferimento ad una accurata relazione di stima, versata in atti, redatta secondo il metodo cosiddetto “svizzero”, condiviso dal perito agronomo di parte ricorrente, mediante, cioè, un’operazione aritmetica che considera le singole variabili del prezzo base, dell’indice estetico, dello stato sanitario, dell’indice di posizione e di dimensione per la commisurazione del valore ambientale delle piante e tenendo conto, altresì, di quanto accertato dal Corpo Forestale dello Stato nonché previa acquisizione dei pareri resi dalla Sovrintendenza e dalla Commissione per il paesaggio provinciale.
In concreto, l’unico parametro che poteva essere utilizzato per la determinazione della sanzione pecuniaria da versare consisteva nel danno ambientale provocato, non potendosi in alcun modo determinare il profitto ricevuto dal danneggiante a causa dell’azione posta in essere in violazione del codice dei beni culturali e del paesaggio.

La società ricorrente, proprietaria di un immobile sito in Mandello del Lario in area sottoposta a vincolo ambientale ai sensi degli artt. 136 e 142 del d.lgs. n. 42/2004, effettuava svariati interventi nell’ambito di un’operazione di riqualificazione del parco, fra i quali il taglio di alcune specie arboree nel demanio lacuale, senza aver preventivamente richiesto l’autorizzazione paesaggistica.
Con il presente ricorso l’istante ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale il Dirigente del settore territorio, patrimonio e demanio della Provincia di Lecco, in seguito alla presentazione di apposita domanda finalizzata all’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi ai sensi dell’art. 181 del d.lgs. n. 42/2004, ha irrogato alla stessa una sanzione pecuniaria di euro 9.578,02 per danno ambientale, ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, per aver tagliato alcune specie arboree anche di pregio nel demanio lacuale, senza aver preventivamente richiesto l’autorizzazione paesaggistica.
A sostegno del proprio ricorso l’istante ha dedotto l’eccesso di potere per carenza di motivazione e la violazione dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 con riferimento all’assunta errata determinazione della sanzione pecuniaria irrogata.
...
Il ricorso è infondato.
Le censure della società istante si incentrano esclusivamente sul quantum della sanzione, presupponendo, dunque, la piena legittimità dell’an dell’irrogazione della sanzione medesima, atteso che il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria richiesto dalla società ricorrente è subordinato al pagamento della sanzione pecuniaria irrogata.
Ai sensi dell’art. 167, commi 1, 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004, infatti: “1. In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4.
4. L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
5. Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell'articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma
”.
Nella fattispecie all’esame del collegio, la sanzione è stata determinata con riferimento ad una accurata relazione di stima, versata in atti, redatta secondo il metodo cosiddetto “svizzero”, condiviso dal perito agronomo di parte ricorrente, mediante, cioè, un’operazione aritmetica che considera le singole variabili del prezzo base, dell’indice estetico, dello stato sanitario, dell’indice di posizione e di dimensione per la commisurazione del valore ambientale delle piante e tenendo conto, altresì, di quanto accertato dal Corpo Forestale dello Stato, come risulta dal rapporto del 24.02.2010, nonché previa acquisizione dei pareri resi dalla Sovrintendenza e dalla Commissione per il paesaggio provinciale, tutti allegati al provvedimento impugnato.
In concreto, l’unico parametro che poteva essere utilizzato per la determinazione della sanzione pecuniaria da versare consisteva nel danno ambientale provocato, non potendosi in alcun modo determinare il profitto ricevuto dal danneggiante a causa dell’azione posta in essere in violazione del codice dei beni culturali e del paesaggio.
Risultano, dunque, infondate le censure dedotte dall’istante, in considerazione della piena legittimità del provvedimento impugnato, che risulta idoneamente e congruamente motivato soprattutto per relationem, con riferimento alla relazione di stima al medesimo allegata, che ne costituisce il fondamento.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.07.2014 n. 2138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Riguardo all’estraneità dagli obblighi di rimozione, bonifica e messa in sicurezza del proprietario incolpevole del sito contaminato, il collegio ritiene di confermare l’orientamento già più volte espresso in proposito nonché condiviso da altri Tribunali che si ricava dalla complessiva lettura delle norme che concernono la bonifica dei siti inquinati.
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Il combinato disposto delle disposizioni di legge in materia non può che essere interpretato nel senso che l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe solamente a carico di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa (cfr., nello stesso senso, le disposizioni in tema di siti di interesse nazionale, o di preminente interesse pubblico per la riconversione industriale, artt. 252 e 252-bis dlgs 152/2006).
La norma individua, perciò, dal punto di vista soggettivo, nella responsabilità dell'autore del deposito dei rifiuti e, quindi, dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la fonte dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza quasi univoca, condivisa dal Collegio, deduce la mancanza di responsabilità, e quindi di obbligo a bonificare o di mettere in sicurezza, del proprietario incolpevole.
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre ai privati che non hanno responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengono individuati solo in quanto proprietari del bene, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento.
L'enunciato è d'altronde conforme al principio a cui si ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa correre un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata non responsabile della contaminazione, invero, non grava alcun obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in argomento, ma solo la facoltà di eseguirli al fine di evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato da onere reale, al pari delle spese sostenute per gli interventi di recupero ambientale, assistite anche da privilegio speciale immobiliare (art. 253 d.lgs. n. 152/2006).
La normativa citata prevede, infatti, che, "in caso di mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale vanno eseguite dall'amministrazione competente la quale potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei suddetti interventi”.
Deve, inoltre, darsi atto del recente intervento, sul punto, del Consiglio di Stato in adunanza plenaria (n. 21/2013), che ha interpretato la normativa nazionale nel senso che: “L’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. n. 152/2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253, stesso d.lgs., in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare. Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del d.lgs. n. 152/2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione”.

Ed invero, riguardo all’estraneità dagli obblighi di rimozione, bonifica e messa in sicurezza del proprietario incolpevole del sito contaminato, il collegio ritiene di confermare l’orientamento già più volte espresso in proposito (cfr., ad esempio, TAR Lombardia, sez. IV, 31.01.2012, n. 332; 09.01.2014, n. 57; 11.07.2014, n. 1835), nonché condiviso da altri Tribunali (cfr., ad esempio, TAR Toscana, sez. II, 06.05.2009, n. 762) che si ricava dalla complessiva lettura delle norme che concernono la bonifica dei siti inquinati.
Il nuovo codice dell'ambiente riprende in tema l'impostazione già seguita dal d.lgs. n. 22/1997, il cui art. 17 stabiliva che "Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento".
Con riferimento alla fattispecie del deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo, l’art. 192 del codice dell’ambiente prevede la responsabilità di chi ha effettuato il deposito e, solo nel caso di imputabilità a titolo di dolo o colpa grave, del proprietario e dei titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area in base agli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al controllo, in contraddittorio con i soggetti interessati.
Per quanto attiene ai procedimenti di bonifica, l'art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, ai primi tre commi, dispone che: “1. Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione.
2. Il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione. L'autocertificazione conclude il procedimento di notifica di cui al presente articolo, ferme restando le attività di verifica e di controllo da parte dell'autorità competente da effettuarsi nei successivi quindici giorni. Nel caso in cui l'inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i parametri da valutare devono essere individuati, caso per caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi svolte nel tempo.
3. Qualora l'indagine preliminare di cui al comma 2 accerti l'avvenuto superamento delle CSC anche per un solo parametro, il responsabile dell'inquinamento ne dà immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate. Nei successivi trenta giorni, presenta alle predette amministrazioni, nonché alla regione territorialmente competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all'Allegato 2 alla parte quarta del presente decreto. Entro i trenta giorni successivi la regione, convocata la conferenza di servizi, autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative. L'autorizzazione regionale costituisce assenso per tutte le opere connesse alla caratterizzazione, sostituendosi ad ogni altra autorizzazione, concessione, concerto, intesa, nulla osta da parte della pubblica amministrazione
”.
Secondo le disposizioni normative dell’art. 250, inoltre, "Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all'articolo 242 sono realizzati d'ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l'ordine di priorità fissato dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le regioni possono istituire appositi fondi nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio”.
Il combinato disposto delle disposizioni appena citate non può che essere interpretato nel senso che l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe solamente a carico di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa (cfr., nello stesso senso, le disposizioni in tema di siti di interesse nazionale, o di preminente interesse pubblico per la riconversione industriale, artt. 252 e 252-bis).
La norma individua, perciò, dal punto di vista soggettivo, nella responsabilità dell'autore del deposito dei rifiuti e, quindi, dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la fonte dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza quasi univoca, condivisa dal Collegio, deduce la mancanza di responsabilità, e quindi di obbligo a bonificare o di mettere in sicurezza, del proprietario incolpevole (cfr., TAR Toscana, sez. II, 06.05.2009, n. 762; 17.04.2009, n. 665; TAR Veneto, sez. III, 25.05.2005, n. 2174; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 08.10.2004, n. 5473; TAR Campania, sez. V, 28.09.1998, n. 2988).
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre ai privati che non hanno responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengono individuati solo in quanto proprietari del bene, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento (TAR Veneto, sez. III, 02.02.2002, n. 320).
L'enunciato è d'altronde conforme al principio a cui si ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa correre un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata non responsabile della contaminazione, invero, non grava alcun obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in argomento, ma solo la facoltà di eseguirli al fine di evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato da onere reale, al pari delle spese sostenute per gli interventi di recupero ambientale, assistite anche da privilegio speciale immobiliare (art. 253 d.lgs. n. 152/2006).
La normativa citata prevede, infatti, che, "in caso di mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale vanno eseguite dall'amministrazione competente la quale potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei suddetti interventi (TAR Lombardia, Brescia, 16.03.2006, n. 291; TAR Lombardia Milano, sez. II, 10.07.2007, n. 5355)”.
Deve, inoltre, darsi atto del recente intervento, sul punto, del Consiglio di Stato in adunanza plenaria (n. 21/2013), che ha interpretato la normativa nazionale nel senso che: “L’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. n. 152/2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253, stesso d.lgs., in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare. Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del d.lgs. n. 152/2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione” (cfr., nello stesso senso, Cons. Stato, A.P., 13.11.2013, n. 25).
Nella fattispecie all’esame del collegio, dall’esame del provvedimento impugnato non emerge una adeguata motivazione che consenta di comprendere le concrete ragioni che hanno condotto l’amministrazione a ritenere responsabile la società ricorrente della condotta contestata.
Nonostante, invero, l’Amministrazione comunale dia atto della situazione di accumulo di rifiuti sul sito della società istante, non fornisce, tuttavia, alcuna indicazione circa la responsabilità di quest’ultima, né il titolo in base al quale la proprietà sarebbe tenuta ad intervenire.
In alcuna porzione del provvedimento impugnato risulta, dunque, dimostrata l’imputabilità a titolo di dolo o di colpa del proprietario del sito per la violazione anche di meri obblighi di controllo e di manutenzione, condizione alla quale è subordinata, invece, come visto, la possibilità di configurazione in capo allo stesso di un obbligo di provvedere alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati.
Ne risulta l’attuale illegittimità dell’ordine di rimozione a carico della società ricorrente.
Ne consegue, altresì, che il Comune potrà legittimamente continuare a porre in essere l’intervento di ufficio di risanamento delle aree di via Salvanesco, ai fini della bonifica del sito e a tutela della salute pubblica, fatta salva la possibilità di rivalersi delle spese sostenute una volta accertata la responsabilità dei soggetti obbligati.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va accolto, nei limiti di cui in motivazione, e per l’effetto va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato nella parte in cui pone l’obbligo di rimozione a carico della società istante (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.07.2014 n. 2137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle aggiudicazioni, il principio generale è sempre quello della gara e l’affidamento diretto è sempre una deroga a tale principio, deroga consentita in casi di stretta interpretazione.
A tale proposito, la società mista si giustifica quale forma di partenariato pubblico-privato costituito per la gestione di uno specifico servizio per un tempo determinato. In questi casi non si ha una esenzione dal principio della gara, ma muta l’oggetto della gara, che deve sempre essere esperita ma non più per trovare il terzo gestore del servizio, bensì il partner privato con cui gestire il servizio.
È evidente quindi che le società miste cosiddette aperte, costituite cioè per finalità specifiche ma indifferenziate, non possono essere affidatarie dirette in quanto non soddisfano le condizioni a cui è ancorata la deroga. Pertanto, l’acquisizione di una partecipazione azionaria di una società costituita in precedenza, ancorché avente ad oggetto la gestione dei rifiuti, non è sufficiente a legittimare l’affidamento diretto e ad escludere la necessità della gara.

Il ricorso era, comunque, infondato anche nel merito, atteso che, come affermato dal Consiglio di Stato (sez. V, 15.10.2010, n. 7533), “Nelle aggiudicazioni, il principio generale è sempre quello della gara e l’affidamento diretto è sempre una deroga a tale principio, deroga consentita in casi di stretta interpretazione. A tale proposito, la società mista si giustifica quale forma di partenariato pubblico-privato costituito per la gestione di uno specifico servizio per un tempo determinato. In questi casi non si ha una esenzione dal principio della gara, ma muta l’oggetto della gara, che deve sempre essere esperita ma non più per trovare il terzo gestore del servizio, bensì il partner privato con cui gestire il servizio. È evidente quindi che le società miste cosiddette aperte, costituite cioè per finalità specifiche ma indifferenziate, non possono essere affidatarie dirette in quanto non soddisfano le condizioni a cui è ancorata la deroga. Pertanto, l’acquisizione di una partecipazione azionaria di una società costituita in precedenza, ancorché avente ad oggetto la gestione dei rifiuti, non è sufficiente a legittimare l’affidamento diretto e ad escludere la necessità della gara” (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.07.2014 n. 2120 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le misure di salvaguardia si applicano anche ai piani attuativi e non solo al rilascio dei titoli edilizi.
La giurisprudenza in merito ha riconosciuto che l’art. 12, comma 3, del d.p.r. n. 380 del 2001, che costituisce la normativa statale di riferimento, applicabile anche al caso in decisione, è “norma, invero, avente valenza mista: edilizia, da un lato, in quanto volta ad incidere sui tempi dell’attività edificatoria; urbanistica, dall’altro, in quanto finalizzata alla salvaguardia, in definiti ambiti temporali, degli assetti urbanistici in itinere e, medio tempore, dell’ordinato assetto del territorio”.
Proprio per tale ragione si è affermato che le misure di salvaguardia riguardano l’intera attività pianificatoria e non sono limitate all’attività edilizia in senso stretto.

Venendo all’esame del ricorso, esso è fondato nel primo motivo.
Dall’esame degli atti risulta che l’amministrazione comunale ha applicato le misure di salvaguardia previste dall’art. 36, comma 4, della L.R. 12/2005 che, nel testo vigente al momento dell’adozione della variante, avevano durata quinquennale.
Le misure di salvaguardia si applicano anche ai piani attuativi e non solo al rilascio dei titoli edilizi.
La giurisprudenza in merito ha riconosciuto che l’art. 12, comma 3, del d.p.r. n. 380 del 2001, che costituisce la normativa statale di riferimento, applicabile anche al caso in decisione, è “norma, invero, avente valenza mista: edilizia, da un lato, in quanto volta ad incidere sui tempi dell’attività edificatoria; urbanistica, dall’altro, in quanto finalizzata alla salvaguardia, in definiti ambiti temporali, degli assetti urbanistici in itinere e, medio tempore, dell’ordinato assetto del territorio” (Cons. Stato, Ad. Plen. 07/04/2008 n. 2). Proprio per tale ragione si è affermato che le misure di salvaguardia riguardano l’intera attività pianificatoria e non sono limitate all’attività edilizia in senso stretto (Cons. Stato, VI, 20.11.1986 n. 865).
Venendo al problema della durata di tali misure occorre rammentare che con la L.R. 14.07.2006 n. 12, entrata in vigore il 19.07.2006, l’art. 36, comma 4, della L.R. 12/2005 è stato modificato nel senso che la misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all'amministrazione competente per la approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione.
Nel caso in questione è pacifico che lo strumento urbanistico non sia stato sottoposto all'amministrazione competente per l’approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione, con la conseguenza che nel vigore della nuova norma il termine applicabile alla domanda di lottizzazione della ricorrente è stato ridotto da cinque a tre anni.
Circa la contestata applicazione retroattiva della nuova disposizione occorre rilevare che la L.R. 14.07.2006 n. 12 ha operato la riconduzione della disciplina delle misure di salvaguardia nell’alveo dei principi della normativa statale.
In merito la Corte costituzionale (sentenza 30.11.2007 n. 402) ha chiarito che “fino al momento di adozione degli atti di PGT, il legislatore regionale ha inteso modificare il termine massimo di efficacia delle misure di salvaguardia che aveva previsto in sede di prima approvazione, adeguandolo a quello previsto dal legislatore statale (tre anni dall'adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi in cui questo sia stato sottoposto all'amministrazione competente per la approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione)”.
In merito a tale termine la citata Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che “l’art. 12, comma 3, del testo unico per l’edilizia ha inteso, invero, nel riprendere i contenuti sostanziali dell’articolo unico della legge n. 1902 del 1952, dettare, pur con norma apparentemente di dettaglio, una disposizione che ben può essere riguardata quale norma di principio -espressiva dell’esigenza di riordino del sistema che permea il testo unico- che, in armonia con i criteri della trasparenza, efficacia, celerità ed economicità dell’azione amministrativa e, in generale, con gli ordinari canoni di buona amministrazione e nell’ottica dei principi di semplificazione e di non aggravamento del procedimento, vale ad indurre le amministrazioni locali a definire tempestivamente l’iter procedimentale conseguente all’adozione degli strumenti urbanistici generali con il loro tempestivo invio agli organi deputati alla loro approvazione, correlando agli eventuali ritardi burocratici un regime di minor favore, volto, essenzialmente, ad evitare le strumentalizzazioni che un non sollecito esercizio dell’azione amministrativa renderebbe possibile e (con contenuti in certo modo sanzionatori delle spesso defatiganti lungaggini amministrative) a favorire una maggiore responsabilizzazione degli amministratori locali, in funzione anche, come cennato nella decisione di rimessione, dell’esigenza di tutelare il valore costituzionale della proprietà e delle connesse facoltà edificatorie”.
In considerazione dell’avvenuta conformazione della Regione alla normativa statale di principio con la L.R. 14.07.2006 n. 12, deve escludersi che il testo originario dell’art. 36, c. 4, della L.R. 12/2005 abbia carattere ultrattivo.
Il primo motivo di ricorso va quindi accolto con accertamento dell’illegittimità degli atti che hanno applicato le misure di salvaguardia.
L’accertamento dell’avvenuta scadenza delle misure di salvaguardia esime dall’esame degli altri motivi in quanto attinenti a profili procedurali (motivo 2), per violazione del giudicato (motivo 3) ed all’applicazione delle misure di salvaguardia agli atti urbanistici (motivo 4) in quanto già risolto nell’esame del primo motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’amministrazione non può opporre la sussistenza del vincolo cimiteriale dopo che ha autorizzato, in deroga, la destinazione della medesima area ad attività in contrasto con il vincolo.
Sebbene la giurisprudenza abbia da sempre ritenuto che è necessario un titolo edilizio per qualsiasi manufatto che possa costituire, oltre che nuova costruzione od ampliamento di costruzione esistente, modificazione della struttura di una costruzione preesistente senza alcuna distinzione tra opera esterna ed opera interna del fabbricato, tra lavoro di notevole entità e lavoro di modeste dimensioni, giacché qualunque modificazione dello stato di fatto preesistente relativo ad opere edilizie già precedentemente realizzate è subordinata alla valutazione dell’amministrazione, occorre rilevare che lo stesso non può dirsi ai fini dell’accertamento della violazione di un vincolo di inedificabilità, anche assoluta.
Infatti la realizzazione in deroga al vincolo cimiteriale di un manufatto, quale, nel caso in questione, di uno stabilimento comprensivo di un cortile interno, comporta la destinazione dell’area interna a servizio della medesima attività, con evidente sottrazione al regime proprio del vincolo di inedificabilità costituito sull’area.
Ne consegue che l’autorizzazione prefettizia rilasciata a suo tempo per la realizzazione del capannone in deroga al vincolo cimiteriale produce effetti anche nei confronti dell’area cortilizia interna, successivamente parzialmente chiusa per ampliamento del capannone medesimo.

Il ricorso è fondato.
Sebbene la giurisprudenza abbia da sempre ritenuto che è necessario un titolo edilizio per qualsiasi manufatto che possa costituire, oltre che nuova costruzione od ampliamento di costruzione esistente, modificazione della struttura di una costruzione preesistente senza alcuna distinzione tra opera esterna ed opera interna del fabbricato, tra lavoro di notevole entità e lavoro di modeste dimensioni, giacché qualunque modificazione dello stato di fatto preesistente relativo ad opere edilizie già precedentemente realizzate è subordinata alla valutazione dell’amministrazione, occorre rilevare che lo stesso non può dirsi ai fini dell’accertamento della violazione di un vincolo di inedificabilità, anche assoluta.
Infatti la realizzazione in deroga al vincolo cimiteriale di un manufatto, quale, nel caso in questione, di uno stabilimento comprensivo di un cortile interno, comporta la destinazione dell’area interna a servizio della medesima attività, con evidente sottrazione al regime proprio del vincolo di inedificabilità costituito sull’area.
Ne consegue che l’autorizzazione prefettizia rilasciata sul mappale n. 226 con decreto 09.02.1956 per la realizzazione del capannone in deroga al vincolo cimiteriale produce effetti anche nei confronti dell’area cortilizia interna, successivamente parzialmente chiusa per ampliamento del capannone medesimo.
Da ciò consegue che l’amministrazione non poteva opporre al ricorrente la sussistenza del vincolo cimiteriale dopo che aveva autorizzato, in deroga, la destinazione della medesima area ad attività in contrasto con il vincolo.
In definitiva quindi il ricorso va accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi e di demolizione costituiscono atti vincolati per i quali non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento.
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E' irrilevante il decorso del tempo dalla realizzazione degli abusi, visto che il potere/dovere di vigilanza edilizia e urbanistica non è soggetto a limiti temporali, soprattutto in caso di abusi di vastità e rilevanza come quelli indicati, posti in essere dagli stessi destinatari del provvedimento demolitorio, che non possono invocare alcun affidamento.

Nel secondo motivo, si rileva che la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio ex art. 7 della legge 241/1990 non farebbe riferimento ad un elemento costruttivo, in particolare al serbatoio del carburante.
La doglianza è priva di pregio, visto che –per diffusa giurisprudenza– i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi e di demolizione costituiscono atti vincolati (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2196), per i quali non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento; senza contare che, nella presente fattispecie, i ricorrenti hanno potuto esporre al Comune le proprie osservazioni anche con riguardo al suindicato serbatoio di carburante, per cui il contraddittorio sul punto è stato in ogni caso garantito
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Da ultimo, è irrilevante il decorso del tempo dalla realizzazione degli abusi, visto che il potere/dovere di vigilanza edilizia e urbanistica non è soggetto a limiti temporali, soprattutto in caso di abusi di vastità e rilevanza come quelli indicati, posti in essere dagli stessi destinatari del provvedimento demolitorio, che non possono invocare alcun affidamento (cfr. da ultimo, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 11.07.2014, n. 3568)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La zona interessata dagli abusi di cui è causa ha –pacificamente– destinazione agricola, trattandosi di “Zona E”, disciplinata dall’art. 19 delle Norme Tecniche (NTA) del Piano delle Regole del PGT.
Nella zona “E2” sono ammesse le sole attività agricole, nel rispetto degli obiettivi di tutela ambientale e paesaggistica, oltre agli interventi per le zone agricole di cui all’art. 59 della LR 12/2005 (si tratta dei soli interventi per l’esercizio dell’impresa agricola di cui all’art. 2135 c.c.).
Le opere realizzate dai ricorrenti hanno determinato uno stravolgimento dell’area, che da zona per la sola attività agricola è stata -di fatto e senza alcun idoneo titolo giuridico- trasformata in area per lo svolgimento dell’attività industriale dei ricorrenti; in particolare si tratta di attività di autotrasporto, mai peraltro autorizzata sull’area di cui è causa.
E’ escluso, pertanto, qualsivoglia esercizio di impresa agricola avendo l’attività di trasporto carattere di impresa commerciale e non agricola (cfr. l’art. 2195 del codice civile).
Ai fini della valutazione della trasformazione urbanistica dell’area occorre avere riguardo agli interventi edilizi nel loro complesso –essendo tutti finalizzati a consentire l’attività di autotrasporto– e non appare possibile, come vorrebbero invece i ricorrenti, parcellizzare gli interventi, come se ciascuno di essi avesse una autonoma e distinta rilevanza sul piano urbanistico ed edilizio.

Nel terzo motivo, si sostiene che gli interventi edilizi posti in essere sull’area avrebbero carattere tutto sommato precario e limitato e non sarebbero idonei a determinare alcuna trasformazione urbanistica ed edilizia del fondo, come invece indicato dal Comune.
La doglianza è infondata.
La zona interessata dagli abusi di cui è causa ha –pacificamente– destinazione agricola, trattandosi di “Zona E”, disciplinata dall’art. 19 delle Norme Tecniche (NTA) del Piano delle Regole, vale a dire uno dei tre atti che compongono il Piano di Governo del Territorio (PGT), strumento urbanistico generale comunale ai sensi della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 (cfr. il doc. 9 dei ricorrenti per il testo delle citate NTA).
Nella zona “E2” sono ammesse le sole attività agricole, nel rispetto degli obiettivi di tutela ambientale e paesaggistica, oltre agli interventi per le zone agricole di cui all’art. 59 della LR 12/2005 (si tratta dei soli interventi per l’esercizio dell’impresa agricola di cui all’art. 2135 c.c.).
Le opere realizzate dai ricorrenti –descritte analiticamente non solo nel provvedimento impugnato (doc. 1 dei ricorrenti), ma anche nei verbali di sopralluogo del Comune, in specie quello del 20.06.2014, cfr. i docc. 14, 17 e 18 del resistente, questi ultimi costituenti le fotografie scattate nel corso dei sopralluoghi– hanno, infatti, determinato uno stravolgimento dell’area, che da zona per la sola attività agricola è stata -di fatto e senza alcun idoneo titolo giuridico- trasformata in area per lo svolgimento dell’attività industriale dei ricorrenti; in particolare si tratta di attività di autotrasporto, mai peraltro autorizzata sull’area di cui è causa (cfr. il doc. 5 dei ricorrenti, copia delle visure della Camera di Commercio, da cui si desume che la Cooperativa CTL svolge attività di autotrasporto per conto terzi con autoveicoli dotati di notevole massa).
E’ escluso, pertanto, qualsivoglia esercizio di impresa agricola –del resto neppure sostenuto dagli esponenti– avendo l’attività di trasporto carattere di impresa commerciale e non agricola (cfr. l’art. 2195 del codice civile).
Ai fini della valutazione della trasformazione urbanistica dell’area occorre avere riguardo agli interventi edilizi nel loro complesso –essendo tutti finalizzati a consentire l’attività di autotrasporto– e non appare possibile, come vorrebbero invece i ricorrenti, parcellizzare gli interventi, come se ciascuno di essi avesse una autonoma e distinta rilevanza sul piano urbanistico ed edilizio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La precarietà deve escludersi quando l’opera assolve esigenze durature (come nel caso di specie, dove le strutture sono tutte finalizzate a garantire un’attività di impresa svolta da anni) e ciò a prescindere dalla eventuale facile amovibilità dell’opera sul piano strettamente materiale.
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La nozione urbanistica di “pertinenza” si differenzia profondamente da quella del diritto privato ed è circoscritta ad opere non aventi rilievo sul piano urbanistico e prive di autonomia e valore di mercato.
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Il serbatoio del gasolio, coperto da una tettoia appoggiata su un basamento in cemento, oltre ad essere incompatibile con la destinazione agricola dell’area –il serbatoio serve per il rifornimento degli automezzi aziendali– ha carattere di stabilità, essendo la tettoia stabilmente collocata su una base di cemento e pertanto necessitante di titolo edilizio.
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La pavimentazione in ghiaia rullata e cemento di vasta parte del compendio, in zona agricola, è soggetta al rilascio di titolo edilizio, trattandosi di attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio; parimenti soggetta a titolo deve reputarsi la buca in calcestruzzo per la riparazione dei mezzi di trasporto, avente profondità di circa 1,5 metri.

Ad ogni buon conto, e fermo restando quanto sopra esposto, non è neppure possibile ritenere che le singole opere indicate in ricorso abbiano carattere precario e non siano soggette a titolo edilizio.
La precarietà, infatti, deve escludersi quando l’opera assolve esigenze durature (come nel caso di specie, dove le strutture sono tutte finalizzate a garantire un’attività di impresa svolta da anni) e ciò a prescindere dalla eventuale facile amovibilità dell’opera sul piano strettamente materiale (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 07.07.2014, n. 3438 e TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.09.2013, n. 2210).
Così, con riguardo alle singole opere descritte nel terzo motivo e tutte prive di titolo edilizio, si può osservare che:
- il fabbricato condonato nel 1985 quale “deposito” (cfr. il doc. 19 del resistente), è stato modificato mediante realizzazione di una veranda chiusa con vetri, utilizzata quale ufficio (cfr. il doc. 14 del resistente e le fotografie docc. 17 e 18); dunque è un’opera stabile, non compatibile con la destinazione agricola (peraltro nessuna attività agricola è svolta nel fondo) e neppure avente carattere pertinenziale, visto che la nozione urbanistica di “pertinenza” si differenzia profondamente da quella del diritto privato ed è circoscritta ad opere non aventi rilievo sul piano urbanistico e prive di autonomia e valore di mercato (così, Consiglio di Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3074);
- il prefabbricato in pannelli di alluminio coibentati, con porta e finestra ad uso spogliatoio e ricreativo, appoggiato su traversine in cemento, costituisce un’opera avente stabilità e continuità, necessaria all’esercizio dell’impresa dei ricorrenti;
- analoga considerazione per quattro box (per il Comune, sarebbero in realtà cinque), in lamiera e legno, appoggiati su una platea in calcestruzzo, assolutamente incompatibili con la destinazione di zona e per tre contanier in lamiera, usati come deposito e appoggiati anch’essi ad una platea in calcestruzzo, quindi con carattere di stabilità nell’utilizzo;
- il serbatoio del gasolio, coperto da una tettoia appoggiata su un basamento in cemento, oltre ad essere incompatibile con la destinazione agricola dell’area –il serbatoio serve per il rifornimento degli automezzi aziendali– ha carattere di stabilità, essendo la tettoia stabilmente collocata su una base di cemento e pertanto necessitante di titolo edilizio (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, 11.04.2012, n. 3258 e Corte d’Appello di Napoli, sez. III penale, 11.12.2012, n. 5577);
- la pavimentazione in ghiaia rullata e cemento di vasta parte del compendio, in zona agricola, è soggetta al rilascio di titolo edilizio, trattandosi di attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 19.03.2014, n. 709); parimenti soggetta a titolo deve reputarsi la buca in calcestruzzo per la riparazione dei mezzi di trasporto, avente profondità di circa 1,5 metri.
Ancora in ordine al terzo mezzo di ricorso, si ricordi che, secondo l’art. 3 del DPR 380/2001, costituiscono “nuove costruzioni”, necessitanti pertanto di titolo edilizio: <<e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee e salvo che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti; (…) e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo in edificato>>.
Si conferma, pertanto, il rigetto del terzo motivo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'area oggetto degli abusi ha destinazione urbanistica per attività agricole e complementari (mobilità e viabilità locale, viabilità di quartiere e tracciati ciclopedonali), oltre ad essere in parte collocata all’interno di un PLIS - Parco locale di interesse sovra comunale).
Su tale compendio immobiliare sono state realizzate, senza titolo edilizio, una imponente serie di opere e manufatti posti a servizio dell’attività di impresa edile.
Si tratta di opere permanenti, dotate di stabilità, la cui realizzazione richiede senza dubbio titolo edilizio, ai sensi dell’art. 3 del DPR 380/2001, per il quale costituiscono “nuove costruzioni”: <<e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee e salvo che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti; … e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo in edificato>>.
L’attività d’impresa edile ed i connessi e consistenti manufatti, privi di titolo edilizio, sono altresì incompatibili con la disciplina dettata dalla legge regionale 12/2005 per l’attività edilizia nelle zone agricole (cfr. gli artt. 59 e seguenti della citata legge regionale).
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E' dominante e condiviso l'indirizzo giurisprudenziale per il quale il potere/dovere di repressione degli abusi edilizi non è soggetto a limiti temporali, né i provvedimenti demolitori e sanzionatori richiedono una specifica motivazione sull’interesse pubblico alla rimozione degli abusi, essendo tale interesse in re ipsa.
Il ricorso non merita accoglimento, per le ragioni che seguono.
Nel primo motivo si sostiene l’illegittimità dell’ingiunzione di demolizione alla luce del lungo tempo intercorso dalla commissione degli abusi ed in mancanza di un interesse pubblico effettivo ed attuale all’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 del DPR 380/2001.
Sul punto occorre premettere che l’area oggetto degli abusi ha destinazione urbanistica per attività agricole e complementari (mobilità e viabilità locale, viabilità di quartiere e tracciati ciclopedonali), oltre ad essere in parte collocata all’interno di un PLIS - Parco locale di interesse sovra comunale (cfr. il doc. 6 del resistente, copia del certificato di destinazione urbanistica).
Su tale compendio immobiliare sono state realizzate, senza titolo edilizio, una imponente serie di opere e manufatti (descritti sia nel provvedimento impugnato, doc. 1 dei ricorrenti, sia nel rapporto di servizio della Polizia Locale, doc. 1 del resistente), posti a servizio dell’attività di impresa della Agos Ponteggi Srl, vale a dire quella di impresa edile (cfr. il doc. 2 dei ricorrenti, copia della visura della Camera di Commercio).
Si tratta di opere permanenti, dotate di stabilità, la cui realizzazione richiede senza dubbio titolo edilizio, ai sensi dell’art. 3 del DPR 380/2001, per il quale costituiscono “nuove costruzioni”: <<e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee e salvo che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti; … e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo in edificato>>; si veda anche sulla nozione di “precarietà”, da intendersi in senso restrittivo in materia edilizia, Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2014, n. 2842.
L’attività d’impresa edile ed i connessi e consistenti manufatti, privi di titolo edilizio, sono altresì incompatibili con la disciplina dettata dalla legge regionale 12/2005 per l’attività edilizia nelle zone agricole (cfr. gli artt. 59 e seguenti della citata legge regionale).
A nulla rileva –poi– la circostanza che il tecnico della società abbia chiesto varianti al PGT, in quanto la proposta di variante non è mai stata approvata, senza contare che l’ipotetica approvazione di una variante non potrebbe mai costituire di per sé sanatoria di abusi edilizi posti in essere antecedentemente alla sua approvazione.
Ciò premesso, il richiamo -contenuto nel primo motivo- al presunto affidamento degli autori dell’abuso o al presunto interesse pubblico alla non demolizione, appare totalmente privo di pregio, alla luce del dominante e condiviso indirizzo giurisprudenziale per il quale il potere/dovere di repressione degli abusi edilizi non è soggetto a limiti temporali, né i provvedimenti demolitori e sanzionatori richiedono una specifica motivazione sull’interesse pubblico alla rimozione degli abusi, essendo tale interesse in re ipsa (cfr. da ultimo, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 11.07.2014, n. 3568 e 28.04.2014, n. 2196) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come chiarito dalla giurisprudenza "costituisce ampliamento ovvero modifica del volume di un immobile, ai sensi dell'art. 10, comma l, lettera c), del d.P.R. 380/2001, la realizzazione di una veranda che, indipendentemente dalla natura dei materiali usati ... sia preordinata, sul piano funzionale, a soddisfare esigenze stabilite”.
Ugualmente la giurisprudenza ha affermato che la collocazione di una vetrata a chiusura di un terrazzo, in mancanza della concessione, crea un vano autonomo ed integra gli estremi del reato di costruzione abusiva; tale opera non rientra, difatti, né tra quelle di manutenzione straordinaria (regolate dall'art. 31 della legge n. 457/1978) e che mai possono consistere nell'esecuzione di manufatti idonei ad alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari, né tra le pertinenze assoggettate ad autorizzazione gratuita (dall'art. 7 del d.l. n. 633/1981) e che consistono nella realizzazione di un vano accessorio o a servizio di un'abitazione e non nella creazione di un ambiente nuovo.
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Accertato che la chiusura del balcone con la veranda richiedeva il rilascio di un titolo edilizio, deve escludersi la rilevanza sia dell’interesse pubblico che dell’affidamento.
Infatti la motivazione dell’ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico a disporre la sanzione della demolizione, poiché l’abuso non può giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore a veder conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare.

Per quanto attiene, invece, la chiusura del terrazzo il ricorso è infondato.
Come chiarito dalla giurisprudenza "costituisce ampliamento ovvero modifica del volume di un immobile, ai sensi dell'art. 10, comma l, lettera c), del d.P.R. 380/2001, la realizzazione di una veranda che, indipendentemente dalla natura dei materiali usati ... sia preordinata, sul piano funzionale, a soddisfare esigenze stabilite” (TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, 16.05.2007, n. 4458; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 08.06.2007, n. 6038).
Ugualmente la giurisprudenza ha affermato che la collocazione di una vetrata a chiusura di un terrazzo, in mancanza della concessione, crea un vano autonomo ed integra gli estremi del reato di costruzione abusiva; tale opera non rientra, difatti, né tra quelle di manutenzione straordinaria (regolate dall'art. 31 della legge n. 457/1978) e che mai possono consistere nell'esecuzione di manufatti idonei ad alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari, né tra le pertinenze assoggettate ad autorizzazione gratuita (dall'art. 7 del d.l. n. 633/1981) e che consistono nella realizzazione di un vano accessorio o a servizio di un'abitazione e non nella creazione di un ambiente nuovo (Corte di Cassazione, sentenza del 07.02.1983).
Accertato che la chiusura del balcone con la veranda richiedeva il rilascio di un titolo edilizio, deve escludersi la rilevanza sia dell’interesse pubblico che dell’affidamento.
Infatti la motivazione dell’ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico a disporre la sanzione della demolizione, poiché l’abuso non può giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore a veder conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 30.07.2007 n. 7130).
Deve inoltre escludersi che la veranda sia stata realizzata prima del 1967 in considerazione dei risultati della verificazione effettuata dal Comune, che data la sua realizzazione ad un periodo di molto successivo.
In definitiva quindi il ricorso va parzialmente accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 2108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'impugnativa dell’acquisizione gratuita non preceduta dal ricorso avverso l’ordinanza di demolizione relativa ad un’opera abusiva, consolida gli effetti dell’atto presupposto, attraverso la sua inoppugnabilità, facendo sì che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale atto in sede di gravame avverso l’atto applicativo che lo richiami, non essendo consentita al giudice amministrativo la disapplicazione incidentale di un atto presupposto non avente natura normativa.
È dunque inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell’area di sedime nel caso di mancata impugnazione dell’ingiunzione a demolire, a meno che non si facciano valere vizi propri degli atti in questione.
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L’omessa tempestiva impugnazione del provvedimento demolitorio preclude la traslazione delle doglianze, che avrebbero potuto formularsi avverso di esso, nei confronti del successivo e consequenziale verbale di constatazione dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, atto privo di autonoma attitudine lesiva.
Infatti, l’atto con cui il Comune accerta l’inottemperanza ad un ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva ha efficacia meramente dichiarativa, limitandosi ad esternare e formalizzare effetti già verificatisi in base allo stesso ordine, ai sensi dell’art. 7, comma 3, l. n. 47 del 1985 (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale), essendo a quest’ultimo e al decorso del termine ivi fissato che vanno ricondotti effetti costitutivi.
Pertanto, è questo l’atto che va ritenuto immediatamente lesivo e con la cui impugnazione l’interessato deve tutelare le proprie ragioni, mentre il verbale con cui viene accertata la mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione rappresenta un mero atto endoprocedimentale avente contenuto conoscitivo e di accertamento di un fatto storico, inidoneo, di per sé, a ledere situazioni giuridiche.
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La mancata impugnazione in sede giurisdizionale e il conseguente consolidamento degli effetti dell’ordinanza di demolizione, che muove proprio dal presupposto dell’abusività delle opere contestate in quanto realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, rende inammissibile la pretesa del ricorrente di contestazione dei conseguenti provvedimenti di irrogazione della sanzione e di acquisizione dei beni e delle aree al patrimonio comunale.
Detti provvedimenti, a seguito della definitività e vincolatività dell’ordinanza di demolizione, presentano limitati margini di discrezionalità (nel quantum) e assumono contenuto predeterminato per legge una volta verificata l’inottemperanza all’ordine di demolizione e rimessione in pristino.
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Il provvedimento di acquisizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata mancata ottemperanza al precedente ordine di demolizione.
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La configurazione del procedimento sanzionatorio risulta compiutamente tipizzata dall’ordinamento e prevede l’acquisizione automatica o ex lege al patrimonio comunale delle opere abusivamente eseguite e dell’area di sedime una volta accertata l’inottemperanza nei termini di legge all’ordinanza di demolizione.
L’effetto acquisitivo ex lege comporta quanto all’an l’esclusione di qualsivoglia discrezionalità in capo all’Amministrazione e porta a configurare l’acquisizione come atto dovuto. Unico discrimine rilevante consiste nella considerazione dell’esatta individuazione dell’area di sedime, atteso che se tale esatta individuazione risulta preventivamente effettuata da parte del Comune in sede di ordinanza di demolizione, il successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale va considerato come atto meramente dichiarativo e ricognitivo di un effetto maturato ex lege con conseguente possibilità di procedere direttamente alla trascrizione in favore del Comune. Mentre, viceversa, qualora tale esatta individuazione della superficie dell’area di sedime da acquisire non sia stata effettuata dal Comune in sede di ordinanza di demolizione, tale accertamento dovrà essere eseguito successivamente e/o contestualmente all’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale, la quale in tal caso –e a tali limitati fini– avrà natura di provvedimento costitutivo, con conseguente possibilità di contestazione limitatamente alla quantificazione della superficie dell’area di sedime, atteso che la legge consente sul punto di procedere all’acquisizione dell’area di sedime nel limite massimo di dieci volte l’area interessata dall’abuso, residuando pertanto sotto tale profilo uno spazio di discrezionalità in capo all’Amministrazione tale da precludere la configurazione del provvedimento acquisitivo come atto meramente ricognitivo e dichiarativo (e in quanto tale altresì privo di autonomi profili di lesività).
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In caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, la sanzione dell’acquisizione al patrimonio comunale dell’area di sedime, oltre quella necessaria all’edificazione di opere analoghe a quelle abusive, si verifica “ex lege” una volta decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell’ordinanza: ma mentre per l’area di sedime l’automatismo dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore da acquisire deve essere giustificata dalla ricorrenza di una esplicitazione delle opere necessarie ai fini urbanistico–edilizi che siano destinate ad occupare l’intera zona di terreno che il comune intende acquisire.
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L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’immobile abusivo, del sedime e della relativa area di pertinenza costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza alla ordinanza di ingiunzione della demolizione, ha natura meramente dichiarativa e non implica scelte di tipo discrezionale, con la conseguenza che, ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i suddetti presupposti, non incombe alla P.A. un peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura della acquisizione.

Va preliminarmente esaminata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, formulata dalla difesa dell’Amministrazione Comunale di Eboli.
La stessa è fondata, ma non conduce –diversamente da quanto affermato dall’ente– alla declaratoria d’inammissibilità dell’intero gravame, bensì soltanto delle sue due prime censure, fondate sulla contestazione dei contenuti della presupposta ordinanza di demolizione, rimasta orfana d’impugnativa in sede giurisdizionale amministrativa, i cui effetti si sono, pertanto, definitivamente consolidati, conformemente all’orientamento, costantemente espresso in materia dalla giurisprudenza amministrativa, per il quale si tenga presente, “ex multis”, la massima seguente: “L'impugnativa dell’acquisizione gratuita non preceduta dal ricorso avverso l’ordinanza di demolizione relativa ad un’opera abusiva, consolida gli effetti dell’atto presupposto, attraverso la sua inoppugnabilità, facendo sì che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale atto in sede di gravame avverso l’atto applicativo che lo richiami, non essendo consentita al giudice amministrativo la disapplicazione incidentale di un atto presupposto non avente natura normativa. È dunque inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell’area di sedime nel caso di mancata impugnazione dell’ingiunzione a demolire, a meno che non si facciano valere vizi propri degli atti in questione” (TAR Sicilia–Palermo – Sez. II, 08/10/2013, n. 1754).
Né tale conclusione può essere revocata in dubbio, perché –come sostenuto dai ricorrenti nell’ultima memoria difensiva, prodotta in giudizio in data 16.05.2014– con l’atto introduttivo del giudizio, non sarebbe stata contestata l’ordinanza di demolizione, bensì ne sarebbe stato “recepito il relativo contenuto”: la regola della definitività dell’atto presupposto non impugnato impedisce infatti, all’evidenza, un’operazione ermeneutica, del genere di quella prospettata dai ricorrenti: si legga, in tema, l’ulteriore decisione che segue: “L’omessa tempestiva impugnazione del provvedimento demolitorio preclude la traslazione delle doglianze, che avrebbero potuto formularsi avverso di esso, nei confronti del successivo e consequenziale verbale di constatazione dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, atto privo di autonoma attitudine lesiva. Infatti, l’atto con cui il Comune accerta l’inottemperanza ad un ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva ha efficacia meramente dichiarativa, limitandosi ad esternare e formalizzare effetti già verificatisi in base allo stesso ordine, ai sensi dell’art. 7, comma 3, l. n. 47 del 1985 (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale), essendo a quest’ultimo e al decorso del termine ivi fissato che vanno ricondotti effetti costitutivi; pertanto, è questo l’atto che va ritenuto immediatamente lesivo e con la cui impugnazione l’interessato deve tutelare le proprie ragioni, mentre il verbale con cui viene accertata la mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione rappresenta un mero atto endoprocedimentale avente contenuto conoscitivo e di accertamento di un fatto storico, inidoneo, di per sé, a ledere situazioni giuridiche” (TAR Campania–Napoli – Sez. III, 01/06/2012, n. 2615).
La massima, da ultimo segnalata, pone, oltre tutto, il problema di cosa possa essere contestato, dai ricorrenti, gravando in sede giurisdizionale amministrativa il provvedimento di acquisizione gratuita e di diritto al patrimonio comunale, attesa la sua natura non direttamente lesiva: la risposta si rinviene, a parere del Tribunale, nell’ulteriore decisione, che di seguito si riporta: “La mancata impugnazione in sede giurisdizionale e il conseguente consolidamento degli effetti dell’ordinanza di demolizione, che muove proprio dal presupposto dell’abusività delle opere contestate in quanto realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, rende inammissibile la pretesa del ricorrente di contestazione dei conseguenti provvedimenti di irrogazione della sanzione e di acquisizione dei beni e delle aree al patrimonio comunale. Detti provvedimenti, a seguito della definitività e vincolatività dell’ordinanza di demolizione, presentano limitati margini di discrezionalità (nel quantum) e assumono contenuto predeterminato per legge una volta verificata l’inottemperanza all’ordine di demolizione e rimessione in pristino” (TAR Lazio–Roma, Sez. I, 09/01/2014, n. 217).
È, quindi, solo l’aspetto quantitativo dell’acquisizione che, presentando margini di discrezionalità, può essere censurato in sede di ricorso, proposto (esclusivamente) avverso l’acquisizione al patrimonio indisponibile dell’ente dell’immobile abusivo, in conseguenza dell’ordine di demolizione non opposto in sede giurisdizionale amministrativa.
Ciò posto, può passarsi all’esame delle ulteriori doglianze (dalla terza alla sesta), sollevate dai ricorrenti.
Iniziando dalla sesta, ed ultima, censura, è anzitutto pacifico che –proprio in virtù della sua evidenziata natura giuridica– l’acquisizione al patrimonio comunale dell’immobile abusivo non debba essere preceduta da alcuna comunicazione d’avvio del procedimento (“Il provvedimento di acquisizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata mancata ottemperanza al precedente ordine di demolizione” – TAR Campania–Napoli – Sez. II, 11/10/2013, n. 4573).
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In giurisprudenza, si legga, in argomento, la massima seguente: “La configurazione del procedimento sanzionatorio risulta compiutamente tipizzata dall’ordinamento e prevede l’acquisizione automatica o ex lege al patrimonio comunale delle opere abusivamente eseguite e dell’area di sedime una volta accertata l’inottemperanza nei termini di legge all’ordinanza di demolizione. L’effetto acquisitivo ex lege comporta quanto all’an l’esclusione di qualsivoglia discrezionalità in capo all’Amministrazione e porta a configurare l’acquisizione come atto dovuto. Unico discrimine rilevante consiste nella considerazione dell’esatta individuazione dell’area di sedime, atteso che se tale esatta individuazione risulta preventivamente effettuata da parte del Comune in sede di ordinanza di demolizione, il successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale va considerato come atto meramente dichiarativo e ricognitivo di un effetto maturato ex lege con conseguente possibilità di procedere direttamente alla trascrizione in favore del Comune. Mentre, viceversa, qualora tale esatta individuazione della superficie dell’area di sedime da acquisire non sia stata effettuata dal Comune in sede di ordinanza di demolizione, tale accertamento dovrà essere eseguito successivamente e/o contestualmente all’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale, la quale in tal caso – e a tali limitati fini – avrà natura di provvedimento costitutivo, con conseguente possibilità di contestazione limitatamente alla quantificazione della superficie dell’area di sedime, atteso che la legge consente sul punto di procedere all’acquisizione dell’area di sedime nel limite massimo di dieci volte l’area interessata dall’abuso, residuando pertanto sotto tale profilo uno spazio di discrezionalità in capo all’Amministrazione tale da precludere la configurazione del provvedimento acquisitivo come atto meramente ricognitivo e dichiarativo (e in quanto tale altresì privo di autonomi profili di lesività)” (TAR Puglia–Bari – Sez. III, 16/09/2013, n. 1325).
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È altresì fondata la censura sub 5), nella parte in cui, con la stessa, è stato denunziato che il Comune avrebbe acquisito, al patrimonio comunale, anche l’area su cui insiste il viale d’accesso (ubicato sulla particella 753) che conduce all’abitazione dei ricorrenti, legittimamente edificata (ubicata sulla particella 754).
Infatti, riferendosi l’acquisizione, ordinata nella specie dal Comune di Campagna, indistintamente ad “un’area di sedime pari a mq. 950, costituita da quella in cui insiste l’opera e quella comunque non superiore a dieci volte la complessiva superficie abusivamente costruita, identificata in Catasto Terreni al foglio 4, mappale n. 753 – classe 5 – R.D. € 1,72 – R.A. € 4,58”, è mancata ogni specificazione circa le ragioni per cui era necessario acquisire, al patrimonio comunale, anche la porzione della particella 753, su cui insiste il viale d’accesso all’abitazione (legittimamente edificata) dei ricorrenti, giusta l’indirizzo giurisprudenziale, espresso nella seguente decisione: “In caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, la sanzione dell’acquisizione al patrimonio comunale dell’area di sedime, oltre quella necessaria all’edificazione di opere analoghe a quelle abusive, si verifica “ex lege” una volta decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell’ordinanza: ma mentre per l’area di sedime l’automatismo dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore da acquisire deve essere giustificata dalla ricorrenza di una esplicitazione delle opere necessarie ai fini urbanistico–edilizi che siano destinate ad occupare l’intera zona di terreno che il comune intende acquisire” (TAR Campania–Napoli – Sez. VI, 20/04/2005, n. 4336).
Entro tali limiti, il ricorso si presta, quindi, ad essere accolto: la censura di difetto di motivazione assoluta dell’ordine di acquisizione impugnato, sollevata sub 3), resta infatti assorbita, secondo il Tribunale, dalla fondatezza delle doglianze, esposte sub 4) e 5) del ricorso, giusta quanto testé rilevato, apparendo per il resto il provvedimento impugnato sufficientemente motivato, anche in considerazione dell’orientamento restrittivo della giurisprudenza, formatasi sull’argomento (per la quale cfr., “ex multis”, la massima che segue: “L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’immobile abusivo, del sedime e della relativa area di pertinenza costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza alla ordinanza di ingiunzione della demolizione, ha natura meramente dichiarativa e non implica scelte di tipo discrezionale, con la conseguenza che, ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i suddetti presupposti, non incombe alla P.A. un peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura della acquisizione” (TAR Campania–Napoli – Sez. II, 11/10/2013, n. 4573)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 29.07.2014 n. 1419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIL’art. 108 (direttore generale) d.lgs. n. 267 del 2000 –t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali– configura certamente il direttore generale come funzionario di vertice destinato a fare da tramite tra organi di governo (competenti alla determinazione degli indirizzi ed obiettivi) e organi burocratici dell’ente (competenti per la gestione).
Nondimeno, deve sicuramente escludersi che il direttore generale possa ascriversi alla prima delle categorie di organi, siccome, nei comuni, gli organi politici di governo sono tassativamente elencati dall’art. 36 del citato decreto (il consiglio, la giunta e il sindaco), tutti strettamente legati da rapporto politico–rappresentativo alla collettività di cui l’ente è esponenziale e titolari delle funzioni di indirizzo politico–amministrativo (secondo le determinazioni riservate alla legislazione statale, ai sensi dell’art. 117, comma 1, lett. p), cost., esclusa, quindi, la competenza delle fonti statutarie e regolamentari di cui agli art. 6 e 7 d.lgs. n. 267 del 2000).
Pertanto, il direttore generale, pur essendo investito di compiti e funzioni che valgono a conferirgli una posizione differenziata rispetto a quella degli altri dirigenti, è esso stesso un dirigente.
Talché, la censura d’incompetenza del direttore generale a licenziare il provvedimento impugnato (concessione edilizia in sanatoria) deve concludersi nel senso che non si presta ad essere accolta, posto che l’affermazione dell’attuale dirigente del Settore Tecnico, circa il cumulo di funzioni in capo al direttore generale, pur orfana di riscontro documentale, promana da un pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, e pur non godendo (in ragione della sua natura di dichiarazione di scienza, relativa a fatti non avvenuti in sua presenza o da lui compiuti), di alcuna fede privilegiata, pur tuttavia, per essere superata, avrebbe richiesto di essere adeguatamente contrastata, mercé l’allegazione di circostanze, incompatibili con tale asserito cumulo di funzioni, il che non è avvenuto.

Va, anzitutto, esaminata la censura d’incompetenza del direttore generale del Comune di Ascea, a licenziare il provvedimento impugnato (concessione edilizia in sanatoria, prot. n. 123 del 28.02.2003).
L’art. 107 del d.l.vo 267/2000, comma 2, stabilisce: “Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico–amministrativo degli organi di governo dell’ente <o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale>, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108”.
Il successivo art. 108 dello stesso d.l.vo, dedicato appunto alla figura del direttore generale, prevede, al comma 1, quanto segue: “Il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti e il presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o provinciale, possono nominare un direttore generale, al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, e secondo criteri stabiliti dal regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi, che provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza. Compete in particolare al direttore generale la predisposizione del piano dettagliato di obiettivi previsto dall’articolo 197, comma 2 lettera a), nonché la proposta di piano esecutivo di gestione previsto dall’articolo 169. A tali fini, al direttore generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell’ente, ad eccezione del segretario del comune e della provincia”.
In ricorso, s’è posta in risalto la connotazione politica del direttore generale, dai cui compiti esulerebbe, del tutto, la materia edilizia.
La tesi pare trovare conferma nella massima seguente: “L’art. 107, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000 prevede che spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto fra le funzioni di indirizzo e controllo politico–amministrativo degli organi di governo dell’ente <o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli art. 97 e 108>. Per cui l’adozione del provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale dell’opera abusiva, pur recante l’indicazione del Sindaco, è legittima, ove sottoscritta da <dirigenti tecnici comunali>” (TAR Campania–Napoli, Sez. VI, 06/06/2013, n. 2980).
Detta tesi è stata tuttavia contrastata dalla difesa della controinteressata, la quale ha evidenziato come, all’epoca dell’adozione del provvedimento gravato, il direttore generale del Comune di Ascea assommasse, in sé, anche le funzioni di Responsabile del Settore Tecnico, quindi con sua piena competenza all’adozione di provvedimenti in materia di condono edilizio.
Inoltre, la stessa difesa ha posto in risalto la natura, in ogni caso, di dirigente, anziché di organo politico dell’ente, propria della figura in esame.
Anche tale tesi trova, del resto, addentellati in giurisprudenza, precisamente nella massima seguente: “L’art. 108 (direttore generale) d.lgs. n. 267 del 2000 –t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali– configura certamente il direttore generale come funzionario di vertice destinato a fare da tramite tra organi di governo (competenti alla determinazione degli indirizzi ed obiettivi) e organi burocratici dell’ente (competenti per la gestione); nondimeno, deve sicuramente escludersi che il direttore generale possa ascriversi alla prima delle categorie di organi, siccome, nei comuni, gli organi politici di governo sono tassativamente elencati dall’art. 36 del citato decreto (il consiglio, la giunta e il sindaco), tutti strettamente legati da rapporto politico–rappresentativo alla collettività di cui l’ente è esponenziale e titolari delle funzioni di indirizzo politico–amministrativo (secondo le determinazioni riservate alla legislazione statale, ai sensi dell’art. 117, comma 1, lett. p), cost., esclusa, quindi, la competenza delle fonti statutarie e regolamentari di cui agli art. 6 e 7 d.lgs. n. 267 del 2000). Pertanto, il direttore generale, pur essendo investito di compiti e funzioni che valgono a conferirgli una posizione differenziata rispetto a quella degli altri dirigenti, è esso stesso un dirigente” (Cassazione civile – Sez. un., 12/06/2006, n. 13538).
Per di più, la circostanza dello svolgimento, da parte del direttore generale del Comune, anche dell’incarico di Responsabile del Settore Tecnico, asserita dalla difesa di D’Acquisto Anna, è stata oggetto di richiesta istruttoria, da parte del Collegio, evasa dal Comune con la nota di chiarimenti, prodotta in giudizio il 25.11.2013, nella quale l’attuale Responsabile del Settore Tecnico di Ascea ha confermato la circostanza in questione, vale a dire che, all’epoca dei fatti per cui è causa, il d.g. dell’ente ricopriva anche il ruolo di Responsabile di detto Settore.
Tale asserzione è stata, peraltro, contestata dalla difesa del ricorrente, il quale ha rilevato come la stessa non fosse supportata da alcuna specifica delibera di conferimento, allo stesso direttore generale, dell’incarico in questione.
Tali essendo gli elementi ricavabili dagli atti, a disposizione del Tribunale, deve concludersi nel senso che la censura in oggetto non si presta ad essere accolta, posto che l’affermazione dell’attuale dirigente del Settore Tecnico, circa il cumulo di funzioni in capo al direttore generale, pur orfana di riscontro documentale, promana da un pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, e pur non godendo (in ragione della sua natura di dichiarazione di scienza, relativa a fatti non avvenuti in sua presenza o da lui compiuti), di alcuna fede privilegiata, pur tuttavia, per essere superata, avrebbe richiesto di essere adeguatamente contrastata, mercé l’allegazione di circostanze, incompatibili con tale asserito cumulo di funzioni, il che non è avvenuto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 29.07.2014 n. 1418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALILe opere interne abusive, per essere complete a fini di condonabilità, debbono risultare tali da permettere l’uso in relazione alla funzione cui sono destinate e quindi contenere tutti gli elementi essenziali alla loro destinazione d’uso.
In particolare, tra gli elementi necessari e sufficienti per assolvere alla destinazione d’uso abitativa rientrano quelli relativi all’altezza minima interna e ad una superficie minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art. 3, d.m. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218, r.d. 27.07.1934 n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie).
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Per costante giurisprudenza, le opere interne abusive, per essere complete, debbono risultare tali da permettere l’uso in relazione alla funzione cui sono destinate e quindi contenere tutti gli elementi essenziali alla loro destinazione d’uso.
Nel caso di specie, non è contestabile che il manufatto in questione non presenti le caratteristiche necessarie e sufficienti per assolvere alla destinazione d’uso abitativa, difettando dell’altezza minima interna e di una superficie minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art. 3 del D.M. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218 del R. D. 27.07.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie).
Del resto, le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975 integrano una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265, e pertanto, diversamente dalle disposizioni integrative e supplementari portate dai regolamenti comunali di igiene (espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate), sono inderogabili –ex art. 35, comma 20, l. n. 47/1985– anche in sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito del condono.
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E' sufficiente a denegare il condono anche soltanto la mancanza del requisito dell’altezza minima interna dei locali, conforme a quanto stabilito dal D.M. del 05.07.1975 ed inderogabile, perché discendente dalla legge (il D.M. in questione è stato, infatti, emanato “visti gli articoli 218, 344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con regio decreto 27.07.1934, n. 1265”).
Invero, “Ai sensi dell’art. 35, comma 20, l. 28.02.1985, n. 47 il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato conseguente al condono edilizio può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere eccezionale e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale”.

La questione che si pone è, dunque, se il Comune di Ascea poteva rilasciare il condono richiesto dalla controinteressata, pur in assenza dell’altezza minima interna dei locali.
La risposta, con il conforto di recente giurisprudenza di merito, è senz’altro negativa: “Le opere interne abusive, per essere complete a fini di condonabilità, debbono risultare tali da permettere l’uso in relazione alla funzione cui sono destinate e quindi contenere tutti gli elementi essenziali alla loro destinazione d’uso; in particolare, tra gli elementi necessari e sufficienti per assolvere alla destinazione d’uso abitativa rientrano quelli relativi all’altezza minima interna e ad una superficie minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art. 3, d.m. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218, r.d. 27.07.1934 n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie)” (TAR Liguria – Sez. I, 27/01/2012, n. 194).
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In parte motiva, la suddetta sentenza osservava quanto segue: “Quanto al secondo ed al terzo motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente attesa la loro connessione logica, giova richiamare l’art. 31, comma 2, della legge 28.02.1985, n. 47 (applicabile anche all’ultimo condono edilizio), a mente del quale, ai fini del conseguimento della sanatoria, “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
Ciò posto, si osserva che, per costante giurisprudenza, le opere interne abusive, per essere complete, debbono risultare tali da permettere l’uso in relazione alla funzione cui sono destinate e quindi contenere tutti gli elementi essenziali alla loro destinazione d’uso (cfr. Cons. di St., V, 21.06.2007, n. 3315; id., 08.05.2007, n. 2120; TAR Campania–Napoli, IV, 06.04.2011, n. 1928).
Nel caso di specie, non è contestabile che il manufatto in questione non presenti le caratteristiche necessarie e sufficienti per assolvere alla destinazione d’uso abitativa, difettando dell’altezza minima interna e di una superficie minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art. 3 del D.M. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218 del R. D. 27.07.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie).
Del resto, le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975 integrano una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265, e pertanto, diversamente dalle disposizioni integrative e supplementari portate dai regolamenti comunali di igiene (espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate), sono inderogabili –ex art. 35, comma 20, l. n. 47/1985– anche in sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito del condono (cfr. Cons. di St., IV, 03.05.2011, n. 2620).
Sicché, nel caso di specie, qualora il comune avesse concesso la sanatoria straordinaria, avrebbe comunque dovuto successivamente negare l’abitabilità del manufatto
”.
Ne deriva che giammai il Comune avrebbe potuto rilasciare il provvedimento di condono.
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L’argomento è irrilevante, essendo, come s’è visto, sufficiente a denegare il condono anche soltanto la mancanza del requisito dell’altezza minima interna dei locali, conforme a quanto stabilito dal D.M. del 05.07.1975 ed inderogabile, perché discendente dalla legge (il D.M. in questione è stato, infatti, emanato “visti gli articoli 218, 344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con regio decreto 27.07.1934, n. 1265”).
Cfr., al riguardo, da ultimo, la massima seguente, espressione di un orientamento pacifico della giurisprudenza amministrativa: “Ai sensi dell’art. 35, comma 20, l. 28.02.1985, n. 47 il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato conseguente al condono edilizio può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere eccezionale e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale” (Consiglio di Stato – Sez. V, 03/06/2013, n. 3034)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 29.07.2014 n. 1418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASì alle ristrutturazioni che riducono i volumi. Tar Napoli. L'ingombro originario incide solo sul massimo edificabile.
È possibile ristrutturare un edificio realizzando volumi inferiori a quelli preesistenti: lo sottolinea il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, nella sentenza 25.07.2014 n. 4265.
L'affermazione sembra banale, ma consente una rilevante elasticità nelle operazioni di riordino urbanistico, in particolare nei centri cittadini: appunto nel caso deciso si discuteva di una ristrutturazione di un edificio residenziale ubicato nel centro urbano di Caserta, in area con preesistenze storico ambientali.
Il principio è coerente alle linee di rinnovo urbano che si leggono nel disegno di legge in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana a firma del ministro Maurizio Lupi, che appunto parla (all'articolo 16) di innalzamento complessivo della qualità urbana e dell'abitare, con valorizzazione e rigenerazione del tessuto economico sociale e produttivo.
Dalla volumetria alla qualità
Fino ad oggi i principali problemi delle ristrutturazioni riguardavano gli aumenti di volumetria e i cambi di destinazione, tenendo presente che -ad esempio- per il contenimento dei consumi energetici (Dlgs 30.05.2008 n. 115) si discuteva dell'aumento delle sagome per poche decine di centimetri, al fine di evitare conflitti tra vicini in tema di distanze.
Secondo la stessa logica, la ristrutturazione è stata quasi sempre interpretata come anelastica, considerando la preesistenza come una gabbia rigida. Ora invece si ritiene che la volumetria preesistente costituisca solo uno standard massimo di edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso che sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione, essendone precluso soltanto un aumento.
La progressiva evoluzione parte dall'articolo 3 del Dpr 380/2001 (Testo unico edilizia) e cioè dalla fedele ricostruzione, ivi prevista «con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente», giungendo oggi alla «demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica».
È quindi evidente –sottolinea il Tar- l'intento del legislatore di impedire soltanto aumenti della complessiva cubatura degli edifici esistenti, ma non diminuzioni della stessa.
Il paradosso della diminutio
Fino ad oggi, chi costruiva meno dei volumi preesistenti si esponeva a una pluralità di critiche: sotto l'aspetto edilizio, costruire in meno esprimeva comunque una difformità, cioè un'opera diversa e, di fatto, un abuso edilizio. Abuso che, peraltro, era di difficile quantificazione sotto l'aspetto economico, poiché di sicuro una costruzione più piccola non può ritenersi di valore maggiore rispetto a una costruzione di volume superiore.
La soluzione consisteva in una sanzione pecuniaria di modesta entità, con successivo rilascio di un titolo edilizio in sanatoria. Questo ragionamento, tuttavia, era valido solo per le aree non vincolate ed in particolare per le aree esterne ai centri storici, dove un intervento con materiali e forme innovative, deve comunque superare il vaglio del parere ambientale ed essere conforme alle norme previste dal piano.
Nella città di Caserta, il piano in questione non prevedeva espressamente la possibilità di volumetrie inferiori e quindi si è dovuto aspettare il Tar per inserire questo elemento di elasticità. Sembra poi opportuno sottolineare che la contestazione circa il volume inferiore a quello preesistente veniva dai vicini di casa, che probabilmente non vedevano di buon grado l'innovazione rappresentata da un volume e da tipologia difformi dalla situazione preesistente
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Non costituisce pertinenza un garage, comportante nuova volumetria, costruito a ridosso di una abitazione, qualsiasi siano le sue modalità di realizzazione (nella fattispecie montato su ruote non portanti).
Nella materia edilizia, la nozione di pertinenza ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica.
Si deve infatti trattare di un'opera preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata di un volume minimo; inoltre la nozione di pertinenza, rilevante ai fini dell'autorizzazione, deve essere interpretata in modo compatibile con i principi della materia, di talché non è, quindi, possibile consentire la realizzazione di opere di rilevante consistenza solo perché destinate, dal proprietario, al servizio ed ornamento del bene principale.
La qualifica di pertinenza urbanistica è quindi applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Nel condividere tali orientamenti, il Collegio ritiene di precisare che nell’ordinamento statale vi è il principio generale per il quale -per ogni nuova volumetria– occorreva ratione temporis il rilascio della concessione edilizia così come ora occorre il rilascio del permesso di costruire (o del titolo avente efficacia equivalente), quando di tratti di una ‘nuova costruzione’.
Manca la natura pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio.
A tali fini, la natura pertinenziale è ravvisabile solo quando si tratti di opere che:
- non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati;
- comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico’ (così come definito ai fini urbanistici, fermo restando che anche i volumi tecnici, per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, mantengono rilievo ai fini paesaggistici, dovendosi essi considerare ai fini dell’applicazione del divieto di rilascio di autorizzazioni in sanatoria, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004);
- siano in ogni caso sfornite di un ‘autonomo valore di mercato’ e non comportino alcun consumo di suolo o carico urbanistico.

... per la riforma della sentenza del TAR Veneto–Venezia, Sezione II, n. 696/2003, resa tra le parti, di accoglimento del ricorso proposto per l’annullamento della ordinanza n. 74 del 16.03.1998, di ripristino dello stato dei luoghi, mediante rimozione delle opere consistenti in un garage prefabbricato di circa mq. 33 realizzato in assenza di concessione edilizia, prevista dall’art. 4, punto a), del Regolamento Edilizio comunale;
...
A seguito di accertamento dei tecnici dell’Ufficio controllo edilizio del Comune di Piove di Sacco è stata rilavata la realizzazione, da parte dei signori Adriano Benettello e Maria Boaretto, di un manufatto di circa mq. 33 realizzato, in assenza di concessione edilizia, sulla loro proprietà, ad uso garage con struttura in lamiera e montato su ruote non portanti.
Il dirigente del VI Settore - Edilizia privata- Controllo edilizio ha quindi adottato la ordinanza n. 74 del 16.03.1998, di ripristino dello stato dei luoghi, con cui è stata ordinata la rimozione del manufatto perché realizzato in assenza di concessione edilizia, prevista dall’art. 4, punto a), del Regolamento Edilizio comunale, e senza rispettare le distanze minime dai confini ai sensi dell’art. 24 delle vigenti N.T.A..
I suddetti proprietari hanno proposto il ricorso giurisdizionale n. 1457 del 1998 per l’annullamento di detto provvedimento presso il TAR Veneto, che lo ha accolto con la sentenza in epigrafe indicata.
...
Va rilevato in proposito che l’art. 7, comma 2, lettera a), del d.l. n. 9 del 1982, conv. in l. n. 94 del 1982, all’epoca vigente, stabiliva che erano “soggette ad autorizzazione gratuita, purché conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti, e non sottoposte ai vincoli previsti dalle leggi 01.06.1939, n. 1089, e 29.06.1939, n. 1497: a) le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti…”.
A sua volta l’art. 76, comma 1, lettera a), della l.r. Veneto n. 61 del 1985 stabiliva che “L'esecuzione degli interventi di trasformazione urbanistica e/o edilizia degli immobili è soggetta al rilascio di: 1) un' autorizzazione gratuita per: a) le opere, costituenti pertinenze non autonomamente utilizzabili o impianti tecnologici per edifici già esistenti, la cui cubatura non superi comunque un terzo di quella dell'edificio principale…”.
E stata quindi introdotta dalla legge regionale un ulteriore presupposto per la qualificazione di un manufatto come pertinenza, atteso che esso, oltre che non essere autonomamente utilizzabile ovvero costituire un impianto tecnologico al servizio di manufatti già realizzati, comunque non può essere considerato tale nell’ipotesi in cui la sua cubatura superi di un terzo quella dell’edificio principale.
La tesi fatta propria dal TAR, secondo il quale l’opera in questione andrebbe considerabile come pertinenza in quanto aveva una cubatura non superiore ad un terzo di quella dell’edificio principale, era limitrofa all’opera principale e destinata durevolmente al suo servizio, è ad avviso del Collegio erronea, come dedotto dal Comune appellante.
Il criterio del mancato superamento di un terzo della volumetria rispetto a quella dell’edificio principale va considerato aggiuntivo rispetto ai criteri fissati dalla legge statale.
Contrariamente a quanto rilevato dal TAR, nella specie rileva il fatto che il manufatto in questione, per le sue caratteristiche, non presenta le caratteristiche che la giurisprudenza ha precisato per qualificare un manufatto come pertinenza edilizia.
Nella materia edilizia, la nozione di pertinenza ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica.
Si deve infatti trattare di un'opera preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata di un volume minimo; inoltre la nozione di pertinenza, rilevante ai fini dell'autorizzazione, deve essere interpretata in modo compatibile con i principi della materia, di talché non è, quindi, possibile consentire la realizzazione di opere di rilevante consistenza solo perché destinate, dal proprietario, al servizio ed ornamento del bene principale (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1953).
La qualifica di pertinenza urbanistica è quindi applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (Cons. St., Sez. V, 12.02.2013, n. 817; Sez. IV, 02.02.2012, n. 615).
Nel condividere tali orientamenti, il Collegio ritiene di precisare che nell’ordinamento statale vi è il principio generale per il quale -per ogni nuova volumetria– occorreva ratione temporis il rilascio della concessione edilizia così come ora occorre il rilascio del permesso di costruire (o del titolo avente efficacia equivalente), quando di tratti di una ‘nuova costruzione’.
Manca la natura pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio.
A tali fini, la natura pertinenziale è ravvisabile solo quando si tratti di opere che:
- non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati;
- comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico’ (così come definito ai fini urbanistici, fermo restando che anche i volumi tecnici, per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, mantengono rilievo ai fini paesaggistici, dovendosi essi considerare ai fini dell’applicazione del divieto di rilascio di autorizzazioni in sanatoria, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004: cfr. Sez. VI, 26.03.2013, n. 1671; Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578);
- siano in ogni caso sfornite di un ‘autonomo valore di mercato’ e non comportino alcun consumo di suolo o carico urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1953; Cons. St., Sez. V, 31.12.2008, n. 6756; Sez. V, 13.06.2006, n. 3490).
In conclusione può ritenersi che non costituisca pertinenza un garage, comportante nuova volumetria, costruito a ridosso di una abitazione, qualsiasi siano le sue modalità di realizzazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.07.2014 n. 3952 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La certificazione di qualità afferendo alla capacità tecnica dell'imprenditore è coerente con l'istituto dell'avvalimento.
Nelle gare pubbliche, la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità tecnico professionale di un'impresa, assicurando che l'impresa cui sarà affidato il servizio o la fornitura sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto.
Afferendo la certificazione di qualità alla capacità tecnica dell'imprenditore, essa è coerente con l'istituto dell'avvalimento quale disciplinato con l'art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.07.2014 n. 3949 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

TRIBUTI: Sui criteri di assimilazione dei rifiuti speciali agli urbani.
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Sull'attività di trattamento dei rifiuti speciali e sulla riduzione tariffaria per il confèrimento di rifiuti urbani assimilati destinati al recupero.

Non avendo lo Stato ancora emanato alcun regolamento per la determinazione dei criteri di assimilazione dei rifiuti speciali agli urbani (art. 195, c. 2, lett. e), del d.lgs. n. 152-2006), si applicano i criteri per l'assimilazione previsti nella deliberazione 27.07.1984 del Comitato interministeriale recante "Disposizioni per la prima applicazione dell'art.4 del d.P.R. 10.09.1982, n. 915, concernente lo smaltimento dei rifiuti".
L'attività di trattamento dei rifiuti speciali conferiti al servizio pubblico di raccolta, previa convenzione con il gestore, costituisce essa stessa per qualificazione di legge (artt. 188, c. 3, lett. a) e 189, c. 3, lett. b), del d.lgs. n. 152-2006) un servizio pubblico e dunque deve essere considerata come attività svolta a favore del territorio di riferimento e cioè come attività prevalente per conto degli locali soci.
Per una società in house, avente per oggetto la gestione di servizi pubblici, l'attività che deve essere prevalente è quella da svolgere in attuazione di tale incarico di servizio pubblico attribuito dagli enti locali.
La riduzione tariffaria per il confèrimento di rifiuti urbani assimilati destinati al recupero non spetta soltanto all'utente che consegna tali rifiuti al gestore del servizio pubblico, ma anche all'utente che conferisce tali rifiuti ad un'impresa autorizzata diversa dal gestore del servizio, non determinando alcuna disparità di trattamento tariffario tra i diversi utenti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.07.2014 n. 3941 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

TRIBUTIIllegittima l'addizionale adottata dopo il bilancio. Consiglio di stato respinge il ricorso di un comune calabrese.
Il consiglio di stato dichiara illegittima la deliberazione dell'addizionale comunale Irpef adottata dopo il termine per l'approvazione del bilancio di previsione.

Con la sentenza 17.07.2014 n. 3817, Sez. V, palazzo Spada ha, infatti, respinto l'appello proposto da un comune calabrese avverso la sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, n. 471 del 21.03.2014, con la quale era stata annullata la deliberazione del consiglio comunale che aveva approvato le misure dell'addizionale comunale all'Irpef oltre il 30.11.2013, e cioè oltre termine stabilito per l'anno 2013 per l'approvazione del bilancio di previsione. A differenza degli altri tre comuni che si erano visti notificare sentenze di identico tenore (e precisamente la n. 470, 472 e 473), il comune in questione ha deciso di interporre appello lamentando, in sostanza:
1) la carenza di interesse del Mef all'impugnazione della delibera del consiglio comunale;
2) la mancata impugnazione della delibera del bilancio di previsione del 2013;
3) la natura ordinatoria del termine del 30.11.2013;
Tutte le eccezioni, però, sono state dichiarate infondate dai giudici che hanno controbattuto precisando che:
a) è l'art. 52 del dlgs n. 446 del 1977 ad attribuire al ministero una sorta di legittimazione straordinaria a ricorrere alla giustizia amministrativa per l'annullamento dei regolamenti e degli atti in materia di tributi adottati dall'ente locale, per motivi di legittimità. Per cui tale legittimazione prescinde dall'esistenza di una lesione di una situazione giuridica tutelabile in capo allo stesso dicastero;
b) nessun rilievo ha la mancata impugnazione della deliberazione del bilancio di previsione che ha natura di atto ricognitivo di atti e di provvedimenti impositivi già adottati dall'amministrazione, sicché non incide sulla validità degli stessi. Detta delibera, del resto, non è mai stata trasmessa al Mef, visto che l'unica delibera pubblicata sul sito è quella impugnata dallo stesso Mef per motivi di legittimità;
c) la perentorietà del termine per deliberare, prescritta dall'art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006 n. 296, è desumibile dal dato testuale di detta norma che impone agli enti locali di fissare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di competenza degli stessi entro la data fissata dalla norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione e stabilisce che in caso di mancata approvazione entro il termine per la deliberazione del bilancio di previsione, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno.
Infine, non ha trovato accoglimento neanche la considerazione in base alla quale il comune avendo pubblicato la delibera il 17.12.2013, avrebbe rispettato il termine del 20 dicembre stabilito dall'art. 14, comma 8, del dlgs n. 23 del 2011 il quale prevede che a decorrere dall'anno 2011, le delibere di variazione dell'addizionale comunale all'Irpe hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di pubblicazione sul sito informatico www.ministerofinanze.gov.it «a condizione che detta pubblicazione avvenga entro il 20 dicembre dell'anno a cui la delibera afferisce». Ciò perché la norma citata si riferisce solamente alle modalità di pubblicazione della delibera consiliare che modifichi le aliquote dell'addizionale Irpef, fermo restando che la delibera, ai fini della validità, deve essere approvata entro il termine del 30 novembre (articolo ItaliaOggi del 22.07.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Comuni, per i servizi legali serve la gara. Tar Salerno. Appalto non richiesto quando non si deve affidare il patrocinio in una causa.
Quando un Comune affida servizi legali, l'incarico non si esaurisce nel patrocinio legale a favore dell'ente, ma si configura quale modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato.
Lo sottolinea il TAR Campania-Salerno, Sez. II, nella sentenza 16.07.2014 n. 1383, per la quale i servizi legali possono anche comprendere la difesa giudiziale ma non si esauriscono in tale difesa.
Per affidare i servizi legali, quindi, occorre rispettare le regole delle procedure concorsuali, effettuare una selezione, adottare un procedimento diverso dal contratto di conferimento del singolo incarico legale. In particolare, hanno rilevanza l'aleatorietà dell'iter del giudizio, la non predeterminabilità dei tempi, costi ed entità della prestazione. Questi elementi rendono infatti oggettivamente impossibile fissare criteri di valutazione così come previsto dal Codice dei contratti pubblici. In conseguenza, un Comune non può affidare una serie di servizi legali a professionisti privati senza una procedura comparativa di tipo concorsuale per la scelta, una procedura cioè aperta alla partecipazione di tutti coloro che, in possesso dei titoli e requisiti richiesti, potrebbero aspirare al conseguimento dell'incarico.
La norma che regola la materia è l'articolo 7, comma 6, del dlgs n. 165/2001, per il quale le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione a professionisti esterni, potendo procedere al conferimento di incarichi individuali solo per soddisfare esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, e alle condizioni e con i presupposti individuati dal legislatore.
Nel caso esaminato al Tar Salerno, l'incarico affidato ai legali esterni consisteva nella complessiva attività di assistenza e consulenza legale a favore del Comune, ovvero nella gestione di tutto il servizio di attività legale dell'amministrazione, comprensivo, come specificato nello schema di convenzione, di attività di consultazioni orali, scritte, e di redazione di pareri. In sostanza, non si trattava dell'affidamento di un singolo incarico o di una singola attività afferente a una specifica vertenza legale, ma della organizzazione di una complessiva attività di assistenza in favore dell'ente locale, da farsi rientrare, a pieno titolo, nella nozione ampia di consulenza legale.
La sentenza è conforme all'orientamento della Corte dei conti (Sezione regionale controllo Basilicata, parere n. 8/09) che distingue il servizio legale dal singolo incarico difensivo: il primo ha più marcati profili di organizzazione, continuità e complessità, rispetto al singolo contratto d'opera intellettuale.
Mentre il patrocinio legale -il cui contratto è volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente- va inquadrato nell'ambito della prestazione d'opera intellettuale, il servizio legale presenta qualcosa in più, per prestazione o modalità organizzativa, che giustifica il suo assoggettamento alla disciplina concorsuale
 (articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla legittimità della richiesta di un utente di una società fornitrice di gas di accedere agli atti inerenti la propria posizione contrattuale per comprendere i motivi della richiesta di pagamento di una fattura eccessiva.
E' legittima la richiesta di una cliente di ottenere copia di taluni atti inerenti la propria posizione contrattuale alla società fornitrice di gas ed energia elettrica, in quanto sussiste in capo alla ricorrente l'"interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso", atto a giustificare la richiesta ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241 del 1990. Al fine di valutare la sussistenza di tale interesse occorre avere riguardo alle finalità che l'istante dichiara di perseguire, richiedendo la norma in parola un "legame tra finalità dichiarata ed il documento richiesto".
L'interesse enunciato dalla ricorrente ("comprendere quali siano state le ragioni che, in concreto, hanno condotto alla esorbitante richiesta di pagamento contenuta nella fattura onde attivare -all'esito dell'esame della documentazione e se del caso- gli idonei strumenti giudiziari a tutela della propria posizione giuridica"), è idoneo a supportare adeguatamente la pretesa dell'istante di ottenere in ostensione gli atti innanzi indicati. La richiesta di accesso è poi sufficientemente supportata dalla necessità della difesa degli interessi giuridici della ricorrente (ex art. 24, c. 7, l. 241/1990).
La valutazione che la P.A. in prima battuta e, quindi, il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva sono chiamati a compiere va effettuata in astratto e, per dir così, "ab externo", senza che nell'esercizio di quest'ultima funzione vi sia spazio per compiere apprezzamenti diretti (e indebiti) sulla documentazione richiesta quale strumento di prova diretta, o di mancata prova, della lesione sofferta dalla parte in sede di giudizio civile e sulla fondatezza della domanda giudiziale civile, ossia della pretesa sottostante.
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La natura formale di società di capitali non impedisce l'esercizio del diritto di accesso, non ponendosi il perseguimento di uno scopo pubblico in contraddizione con il fine societario lucrativo. Ed invero, a norma dell'art. 22 l. n. 241/1990, nella definizione di p.a. rientrano tutti i soggetti di diritto pubblico, anche quelli privati, seppur limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, mentre nel novero dei documenti amministrativi rientrano tutti gli atti concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.
Orbene, la progressiva liberalizzazione dei settori gas ed energia elettrica, la costituzione sotto forma di società per azioni dei soggetti operanti in tali settori e l'intento lucrativo che tipicamente permea un'attività industriale o commerciale esercitata sul libero mercato non contraddicono, per ciò solo, le finalità anche pubblicistiche tese al soddisfacimento di bisogni generali della collettività che gli operatori del settore perseguono, anche in relazione alla sola fase della vendita al consumatore finale. Prova ne sia il mantenimento di poteri pubblici di regolazione, vigilanza, controllo e sanzione sui settori gas ed energia, nonché l'adozione di un codice di condotta commerciale per gli operatori dei settori in parola, adottato dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas con deliberazione 08.07.2010 n. 104 proprio a tutela del cliente finale.
D'altronde la direttiva 03/55/CE introduce obblighi di servizio pubblico espliciti per la tutela dei consumatori (specificati in un apposito allegato alla Direttiva) nel settore vendita del gas e il Consiglio di Stato ha affermato che "l'obiettivo delle istituzioni comunitarie di liberalizzazione della vendita del gas non è incompatibile con misure di regolazione di salvaguardia dei consumatori, da ricondursi alla nozione di "oneri di servizio pubblico" di cui all'art. 106 del TFUE. Le predette circostanze persuadono ulteriormente della ricorrenza di un "pubblico interesse" rilevante ai fini dell'applicazione della normativa innanzi richiamata in tema di accesso (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 15.07.2014 n. 908 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sul c.d. potere di soccorso istruttorio nelle procedure di gara.
La norma sul soccorso istruttorio (art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006) deve essere intesa, alla luce di quanto affermato con la sentenza n. 9 del 2014 dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nel senso che occorre tenere separati i concetti di regolarizzazione documentale e di integrazione documentale: la prima, consistendo nel "completare dichiarazioni o documenti già presentati" dall'operatore economico, è ammessa, per i soli requisiti generali, al fine assicurare, evitando inutili formalismi, il principio della massima partecipazione; la seconda, consistendo nell'introdurre nel procedimento nuovi documenti, è vietata per garantire il principio della parità di trattamento.
La distinzione è superabile, si afferma sempre nella citata sentenza, in presenza di "clausole ambigue" che autorizzano il soccorso istruttorio anche mediante integrazione documentale.
Pertanto, le prescrizioni contenute nel bando di gara che contengono clausole contrarie alla suddetta norma imperativa, così come interpretata, devono ritenersi nulle. Esse, infatti, si risolverebbero nella previsione di una causa di esclusione non consentita dalla legge (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.07.2014 n. 3663 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Documenti e gare: regolarizzazione ma non integrazione. Consiglio di Stato. «Anticipato» il Dl 90/2014.
Novità per gli appalti pubblici, applicando il "principio di soccorso": lo sottolinea il Consiglio di Stato -Sez. VI- nella sentenza 14.07.2014 n. 3663, anticipando le innovazioni al decreto legislativo 163/2006 contenute nel Dl 90 del 24.06.2014 (articolo 39).
Le nuove norme in tema di irregolarità essenziali e dichiarazioni non indispensabili, si applicheranno infatti alle procedure di affidamento indette successivamente al 25.06.2014: per le procedure antecedenti, valgono i principi di clemenza posti dal Consiglio di Stato in questa sentenza 3663 del 2014 e, poco prima, dall'Adunanza plenaria 9/2014.
Il caso deciso al luglio riguarda presunte irregolarità nella documentazione di concorrenti alla gara di realizzazione delle cancellate di chiusura dei fornici del Colosseo. In quella gara sono emerse irregolarità formali, generando un contenzioso simile a quello che da anni invano l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici cercava di risolvere con determinazione n. 4 del 16.10.2012, elencando 90 cause di insanabile esclusione. Oggi la sentenza 3663/2014 chiarisce due concetti: da un lato l'altro vi è la «regolarizzazione documentale», dall'altro, l'«integrazione documentale».
Si può "regolarizzare", quando si intenda completare dichiarazioni o documenti già presentati dal concorrente, e ciò, in particolare, per i soli requisiti generali previsti dall'articolo 38 del decreto legislativo 163/2006. Invece, l'integrazione documentale (non consentita) consiste nell'introdurre nel procedimento nuovi documenti, ed è vietata per il principio della parità di trattamento tra concorrenti. La distinzione tra regolarizzazione e integrazione è a sua volta resa comprensibile dall'articolo 46 del dlgs 163/2006, secondo il quale sono nulle le clausole del bando di gara che aggravino le ipotesi di esclusione di concorrenti, oltrepassando le strette esigenze del preservare la segretezza delle offerte o mantenere certo il contenuto e la provenienza dell'offerta.
Si completano in questo modo i principi posti dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 9/2014, secondo la quale la stazione appaltante deve consentire di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti, prevedendo una procedura di richiesta di chiarimenti, funzionale alla rettifica di errori materiali o refusi, eliminando clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti.
Secondo questi principi, non è quindi possibile consentire la produzione tardiva di documenti o dichiarazioni mancanti, né è possibile sanare le omissioni di forme, se tali forme siano previste a pena di esclusione dal Codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali. Nel caso del Colosseo, uno dei concorrenti aveva genericamente dichiarato di non aver subito «condanne con il beneficio della non menzione», invece di dichiarare «tutte le condanne penali riportate, comprese quelle per le quali avesse beneficiato del beneficio della non menzione»: come si vede, si trattava di un problema di forma, ritenuto superabile attraverso una regolarizzazione.
Per le gare bandite dalla 26.06.2014, l'articolo 39 del dl 90 prevede che anche le irregolarità essenziali saranno sanabili entro 10 giorni, previa sanzione pecuniaria dell'1/1000 del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro. Se si può sanare, l'irregolarità scompare; se l'errore non è sanato, il concorrente viene escluso e perde la cauzione: i problemi sorgono quando occorre calcolare la media delle offerte, poiché la norma del 2014 cristallizza tutte le offerte che hanno superato la fase di ammissione, comprese quelle con irregolarità insanabili
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: BOSCO - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Attività di rimboschimento - Terreni boschivi vincolati - Bosco artificiale e bosco naturale - Individuazione e nozione - Artt. 142, lett. g), 146, 147, 149, 159 e 181 del D.Lgs. 42/2004 – Art. 2 D.Lgs. n. 227/2001.
La nozione di bosco comprende, in coerenza con l'art. 2 del D.Lgs. 227/2001 tanto il bosco latu senso inteso, sia di origine naturale che artificiale, e che, laddove il terreno su cui quel bosco sorge non sia destinato in via esclusiva alla produzione del legno, esso è assoggettato alla disciplina penalistica prevista dall'art. 181 del D. L.vo 42/2004.
Va, ancora, sottolineato che l'attività di rimboschimento costituisce indice inequivocabile della non esclusività della destinazione a produzione del legno per la particolare ampiezza dell'intervento, di guisa che un intervento di taglio indiscriminato degli alberi seguito dal dissodamento del terreno laddove non specificamente autorizzato, incide sull'assetto territoriale e paesaggistico integrando la fattispecie tipica dell'art. 181 D.Lgs. 42/04 come richiamata dagli artt. 142, lett. g), del medesimo D.Lgs. e 2, commi 5° e 6° del D.Lgs. 227/2001.
BOSCO - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Terreni boschivi protetti da vincolo - Individuazione - Tutela del paesaggio e nozione di bosco in senso normativo e non naturalistico.
In tema di tutela del paesaggio ed al fine di individuare i terreni boschivi protetti da vincolo va qualificato come bosco, alla luce della speciale normativa di settore (art. 2 del richiamato D.Lgs. 227/2001) qualsiasi terreno coperto da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, con il limite spaziale di una estensione non inferiore a 2000 mq., con larghezza media non inferiore a mt. 20 e con copertura per l'intera superficie non inferiore al 20% (Cass., Sez. 3^ 16.11.2006 n. 1874, Monni, Rv. 235869; Cass. Sez. 3^ 18.05.2011 n. 28928, Sardu, Rv. 250968 in cui si specifica che la nozione di bosco va intesa in senso normativo e non naturalistico; Sez. 3^ 20.06.2007 n. 24258; Sez. 3^ 10.03.2011 n. 9690).
BOSCO - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Nozione di "territorio coperto da bosco” ai fini del vincolo paesaggistico - Bosco naturale e artificiale - Giurisprudenza.
La nozione di "territorio coperto da bosco ai fini della sottoposizione a vincolo paesaggistico ai sensi dell'art. 146, comma 1, lett g), del D.Lgs. 29.10.1999 n. 490, [come successivamente sostituito dall'art. 142, lett. G), del D.Lgs. 42/2004] include tanto il bosco di origine naturale quanto quello di natura artificiale" (Cass. Sez. 3^ 17.05.2002 n. 26601, P.G. in proc. Varvara V.; Cass. Sez. 1^ 01.10.1987 n. 742, Carta).
E per una definizione "allargata" di bosco va menzionata la recente decisione di questa Sezione n. 32807 del 23.04.2013, P.M. in proc. Timori, Rv. 255904, secondo la quale in piena sintonia con il detto normativo rientra nel concetto di bosco "ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, purché aventi un'estensione non inferiore a mq. duemila, con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20 per cento".
BOSCO - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Tutela del paesaggio e vincolo di rimboschimento – Disciplina applicabile - Art. 2, 6 c., D.Lgs. 18/05/2001 n. 227.
In tema di tutela del paesaggio, i requisiti fissati dall'art. 2, comma sesto, del D.Lgs. 18.05.2001 n. 227, per qualificare una formazione vegetale quale bosco non sono richiesti per i fondi gravati dall'obbligo di rimboschimento, per la cui assimilazione ai boschi è sufficiente la presenza del provvedimento amministrativo o della disposizione normativa che abbia imposto il vincolo di rimboschimento (Sez. 3^ 07.06.2006 n. 32542, De Nardis, Rv. 234941) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2014 n. 30303 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, responsabilità in chiaro. Gestione illecita: sanzioni anche a enti e imprese di fatto. La Corte di cassazione definisce il campo d'applicazione del Codice ambientale.
Il reato di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione illecita di rifiuti è contestabile sono a chi riveste, anche di fatto, la qualifica di imprenditore o titolare di ente.
A chiarirlo è la sentenza 09.07.2014 n. 29992 con la quale la Corte di Cassazione, Sez. III penale, chiamata a esprimersi in relazione a una fattispecie di commercio ambulante di rifiuti, ha delimitato i confini della «gestione di rifiuti non autorizzata» prevista e punita dal Codice ambientale.
L'autore della gestione illecita di rifiuti. L'interpretazione restrittiva del Giudice di legittimità ruota intorno al corretto significato da dare al pronome utilizzato dal Legislatore per individuare il potenziale soggetto attivo del reato in parola, laddove l'articolo 256, comma 1, del dlgs 152/2006 testualmente punisce «chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216» dello stesso Codice ambientale.
Per la Cassazione il termine «chiunque» ivi contenuto deve essere letto non in modo isolato, ma insieme alle disposizioni recate dagli articoli richiamati dalla stessa disposizione, articoli che espressamente individuano in imprese ed enti i soggetti tenuti a procurarsi i necessari titoli abilitativi per poter lecitamente gestire rifiuti (il 208, comma 17-ter sull'autorizzazione per impianti e attività di gestione rifiuti, il 209, commi 1 e 2, sul rinnovo della stessa, il 212, commi 7, 8, 9 ed 11 sull'obbligo di iscrizione all'Albo gestori ambientali, il 214, comma 9, il 215 e il 216, comma 3, sulle procedure semplificate per recupero e smaltimento).
Dal tenore della sentenza si evince dunque come l'illecito previsto dall'articolo 256, comma 1, dlgs 152/2006 sia un «reato proprio» (dunque integrabile solo dai citati soggetti, riconducibili ai titolari di imprese o enti) e non un «reato comune» (commissibile da qualsiasi soggetto).
Questo, ricorda la pronuncia, fermo restando che a identificare come titolare di impresa o ente un soggetto è comunque la funzione in concreto svolta, non essendo necessaria l'esistenza di una formale investitura. Ben può dunque ritenersi tale qualunque soggetto che, in base all'attività svolta, assuma «di fatto» tali qualifiche (come ha già chiarito, ricorda il Giudice, la stessa Corte con precedenti pronunce, tra cui la 38364/2013). In base alla nuova sentenza della Cassazione non appaiono dunque sanzionabili come «gestione di rifiuti non autorizzata» (ex comma 1, articolo 256, dlgs 152/2006) quelle condotte caratterizzate da assoluta occasionalità poste in essere da soggetti non inquadrabili (sia dal punto di vista formale che materiale) come imprese o enti.
Così come, al contrario, appaiono sanzionabili per lo stesso illecito le analoghe condotte poste in essere da quei soggetti anche solo «di fatto» riconducibili nelle citate categorie, pur se adottate in modo secondario o solo consequenziale all'attività principale.
Il commercio ambulante di rifiuti. Effettuata la ricognizione generale sulla portata del reato di «gestione di rifiuti non autorizzata», la Corte di cassazione ha di conseguenza (e sulla scia della pregressa e consolidata giurisprudenza di legittimità) inquadrato nello stesso l'attività di commercio in forma ambulante di rifiuti (nella fattispecie, rottami ferrosi) realizzata senza alcun titolo abilitativo.
Il Giudice ha infatti ricordato come in materia lo stesso «Codice ambientale» preveda sì delle deroghe agli obblighi autorizzatori ambientali (iscrizione all'Albo gestori, tenuta dei registri di carico/scarico, formulario di trasporto, denuncia annuale rifiuti), ma (secondo il tenore dell'articolo 266, comma 5, dlgs 152/2006) solo per le «attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio».
Indefettibili ai fini della validità della deroga, sottolinea la Corte, sono quindi sia la sussistenza di un valido titolo per lo svolgimento della attività d'impresa (da rintracciarsi nella più generale e vigente disciplina sul commercio) sia la riconducibilità merceologica dei residui raccolti e trasportati all'attività autorizzata.
Sulla più generale portata della citata deroga il Giudice di legittimità ha invece ricordato la precedente e illuminate sentenza 19111/2013, con la quale la stessa Corte ha fissato precisi paletti al regime di eccezione, confinandolo alla sola raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi da parte di «commercianti al dettaglio». E in assenza dei citati elementi, non operando la deroga ex articolo 266, comma 5 descritta, l'attività condotta senza il supporto dei titoli abilitativi ambientali previsti dallo stesso dlgs 152/2006 integra dunque il reato di «gestione di rifiuti non autorizzata» ex articolo 256, comma 1, dlgs 152/2006, essendo posta in essere da soggetto titolare di impresa (seppur «di fatto»).
Il contesto sanzionatorio del «Codice ambientale». La ricognizione effettuata dalla Cassazione sul campo di applicazione del reato di «gestione di rifiuti non autorizzata» appare ad avviso dello scrivente utile anche per chiarire le conseguenza legate ad altre azioni aventi ad oggetto rifiuti residui.
È il caso della combustione di «rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali» (definiti ex articolo 184, comma 2, lettera e) del dlgs 152/2006 come rifiuti «urbani»): ai sensi del combinato disposto degli articoli 255 e 256-bis dello stesso Codice ambientale, se effettuata da soggetto privato (dunque, non inquadrabile in attività d'impresa) e avente ad oggetto residui «abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata», essa combustione (definita come «illecita») è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria.
Ma nel caso il caso il fuoco sia appiccato dallo stesso soggetto ad analoghi residui che tuttavia non versino nelle suddette condizioni di abbandono o stoccaggio illecito non apparirebbe rintracciabile nello stesso dlgs 152/2006 altra fattispecie punitiva cui ricondurre la condotta, essendo stato chiarito che il diverso illecito di «gestione di rifiuti non autorizzata» ex articolo 256, comma 1, del dlgs 152/2006 (che tra l'altro prevede sanzioni ben più gravi) è riservato alle sole condotte poste in essere da titolari, anche «di fatto», di enti o imprese (articolo ItaliaOggi Sette del 28.07.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Natura del reato di illecita gestione e trasporto in forma ambulante.
1. La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità;
2. La deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114 e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2014 n. 29992 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Sul ritardo nel pagamento di retribuzioni o contributi ai lavoratori dipendenti dell'appaltatore o subappaltatore negli appalti pubblici.
Per i contratti pubblici di appalto relativi a lavori, servizi e forniture, in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni o dei contributi dovuti al personale dipendente dell'esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all'art. 118, comma 8, ultimo periodo, del relativo codice, di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, i lavoratori devono avvalersi degli speciali strumenti di tutela previsti dal codice citato, le cui modalità di utilizzazione sono determinate, in particolare, dagli artt. 4 (per i contributi) e 5 (per le retribuzioni) del il D.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante il Regolamento di esecuzione ed attuazione del suddetto codice).
Tale disciplina che, peraltro, consente agli interessati di recuperare -anche in corso d'opera- quanto dovuto, è articolata in modo tale da dimostrare che, nell'ambito degli appalti pubblici, il legislatore attribuisce allo scorretto comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti un disvalore maggiorato dal fatto di considerarlo anche lesivo degli interessi pubblici al cui migliore perseguimento è preordinata la complessiva disciplina regolatrice degli appalti pubblici.
Ne consegue che alla suindicata fattispecie non è applicabile il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, come peraltro stabilisce il precedente art. 1, comma 2, che esclude che il decreto stesso sia applicabile "per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale" e come, di recente ha confermato dal D.L. 28.06.2013, n. 76, art. 9, comma, (convertito dalla L. 09.08.2013, n. 99).
Viceversa nel caso di mancata utilizzazione da parte dei lavoratori degli strumenti previsti dalla suindicata normativa speciale, è possibile fare ricorso, in via residuale, alla tutela di cui all'art. 1676 cod. civ., che in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, è applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni" (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 07.07.2014 n. 15432 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Reato di lottizzazione abusiva - Cd. reato progressivo nell'evento – Presupposti - Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001, Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Il reato di lottizzazione è inquadrabile nel cd. reato progressivo nell'evento (che è cosa ben diversa dal ritenere che la lottizzazione rientri nello schema del reato progressivo) in cui possono concorrere, nell'unicità della fattispecie incriminatrice, il momento negoziale, quello programmatorio mediante l'esecuzione di opere di urbanizzazione e quello attuativo con la costruzione degli edifici.
Pertanto, la condotta illegittima, pur nella sua unitarietà, può essere attuata in forme (il reato è a forma libera) e momenti diversi e da una pluralità di soggetti, in concorso fra loro (proprietari, costruttori, geometri, architetti, mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, ecc.) di conseguenza, correttamente si può configurare la figura del reato progressivo nell'evento lesivo dell'interesse urbanistico protetto.
Reato di lottizzazione abusiva - Reato progressivo nell'evento - Criteri per la configurabilità - Gravità dell'offesa - Reato a consumazione prolungata o frazionata - Artt. 30, c.7 e 29, d.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica, la contravvenzione di lottizzazione abusiva configura un reato progressivo nell'evento, che sussiste anche quando l'attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o ad opere già eseguite, atteso che tali iniziali attività, pur integrando la configurazione del reato, non esauriscono il percorso criminoso che si protrae con gli interventi successivi che incidono sull'assetto urbanistico, in quanto l'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria compromette ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica (Cass. S.U., n. 4708 del 24.04.1992, Fogliani; Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi ed altrine, da ultimo, Sez. 3, n. 12772 del 28/02/2012 Tallarini, nonché Sez. 3, n. 5105 del 13/02/2013 dep. 03/02/2014).
Ne consegue che l'illecito lottizzatorio si realizza (in altri termini, la consumazione ha inizio) allorquando sia al completo dei requisiti necessari e sufficienti per l'integrazione della fattispecie incriminatrice ed il momento consumativo perdura nel tempo sino a quando l'offesa tipica raggiunge, attraverso un passaggio graduale da uno stadio determinato ad un altro ad esso successivo, una sempre maggiore gravità, ed in ciò la lottizzazione, quale reato progressivo nell'evento, partecipa alla medesima disciplina del reato permanente, anche mutuandone ricadute giuridiche, e del quale ha in comune la struttura unitaria, l'instaurazione di uno stato antigiuridico ed il suo mantenimento ma ha in aggiunta un progressivo approfondimento dell'illecito attraverso condotte successive dirette ad aggravare l'evento del reato, atteso che gli interventi susseguenti incidono sull'assetto urbanistico, compromettendo ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica.
La gravità dell'offesa può invero spostare il tempo del reato ed il diritto vivente, oltre al reato progressivo nell'evento, tipico dell'illecito lottizzatorio, ha enunciato le categorie del reato a duplice schema (Sez. 2, n. 38812 del 01/10/2008, Barreca, Rv. 241452) e del reato a consumazione prolungata o frazionata (Sez. 4, n. 17036 del 15/01/2009, Palermo, Rv. 243959) che rispondono alla medesima ratio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2014 n. 25182 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, inaugurato da Cons. Stato, sez. VI, n. 5851/2000 con riguardo agli artt. 7 e 15 della l. n. 1497 del 1939, deve ritenersi ammissibile il rilascio di un'autorizzazione paesistica in un momento successivo alla realizzazione dell'intervento edilizio in area vincolata.
Il Consiglio di Stato ha nell’occasione osservato che “la possibilità di un'autorizzazione successiva, oltre a non essere contraddetta dalle caratteristiche precipue dell'atto di assenso di cui si discorre, è implicitamente ammessa dallo stesso legislatore. La tesi della non assentibilità a posteriori dell'intervento avrebbe avuto in ipotesi una reale consistenza sul piano positivo laddove la procedura sanzionatoria ex art. 15 della legge n. 1497/1939, prevedendo l'esito vincolato della demolizione anche in ordine a violazioni di carattere formale, non avesse posto l'alternativa tra la demolizione a spese del trasgressore delle opere abusivamente eseguite ed il pagamento di un'indennità equivalente alla maggior somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito.
La previsione di questa alternativa affida invece alla valutazione discrezionale dell'amministrazione, basata sull'esistenza e sulla consistenza del pregiudizio ambientale, la scelta tra la misura ripristinatoria e quella pecuniaria. Ne deriva che la via della demolizione sarà interdetta -lasciando residuare, come si vedrà la strada della sanzione pecuniaria- nell'ipotesi in cui l'opera si armonizzi con il contesto ambientale, dovendosi in tal caso escludere un qualsiasi profilo di vulnus sostanziale, così come nel caso in cui il pregiudizio si presenti marginale al punto da rendere sovradimensionata la drastica misura della demolizione.
Ebbene, fermandoci alla prima delle due ipotesi, non è chi non veda come la decisione di non procedere alla demolizione per effetto della ritenuta compatibilità dell'opera con il contesto paesaggistico oggetto di tutela implichi, sulla base di una precisa opzione del legislatore, un'implicita autorizzazione al mantenimento in vita dell'opera, ossia una verifica che nella sostanza replica, sia pure ai fini della scelta della sanzione da applicare, lo stesso apprezzamento previsto in via preventiva dall'art. 7 della legge in parola.
In definitiva la circostanza che il legislatore non preveda la necessità di un provvedimento formale in sanatoria, reputando sufficiente al fine di salvaguardare l'esistenza in vita dell'immobile la scelta di non accedere alla sanzione della demolizione, non esclude la possibilità che detta valutazione di compatibilità paesistica, alla base dell'esito del procedimento sanzionatorio, venga esplicitata attraverso una determinazione sostanzialmente riconducibile, con le differenze di cui si dirà, al paradigma di cui all'art. 7.
In sintesi un tale modus procedendi innesca una non preclusa inversione nella sequenza procedimentale di cui all'art. 15, facendo sì che la verifica di compatibilità, piuttosto che essere desumibile dalla non adozione della misura ripristinatoria, condizioni a monte l'esito del procedimento sanzionatorio nel senso di rendere non più praticabile la soluzione radicale dell'abbattimento delle opere abusive”.

Va soggiunto, a confutazione dei rilievi critici al riguardo articolati dal Primo Giudice, che, in ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, inaugurato da Cons. Stato, sez. VI, n. 5851/2000 con riguardo agli artt. 7 e 15 della l. n. 1497 del 1939, deve ritenersi ammissibile il rilascio di un'autorizzazione paesistica in un momento successivo alla realizzazione dell'intervento edilizio in area vincolata.
Il Consiglio di Stato ha nell’occasione osservato che “la possibilità di un'autorizzazione successiva, oltre a non essere contraddetta dalle caratteristiche precipue dell'atto di assenso di cui si discorre, è implicitamente ammessa dallo stesso legislatore. La tesi della non assentibilità a posteriori dell'intervento avrebbe avuto in ipotesi una reale consistenza sul piano positivo laddove la procedura sanzionatoria ex art. 15 della legge n. 1497/1939, prevedendo l'esito vincolato della demolizione anche in ordine a violazioni di carattere formale, non avesse posto l'alternativa tra la demolizione a spese del trasgressore delle opere abusivamente eseguite ed il pagamento di un'indennità equivalente alla maggior somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito.
La previsione di questa alternativa affida invece alla valutazione discrezionale dell'amministrazione, basata sull'esistenza e sulla consistenza del pregiudizio ambientale, la scelta tra la misura ripristinatoria e quella pecuniaria. Ne deriva che la via della demolizione sarà interdetta -lasciando residuare, come si vedrà la strada della sanzione pecuniaria- nell'ipotesi in cui l'opera si armonizzi con il contesto ambientale, dovendosi in tal caso escludere un qualsiasi profilo di vulnus sostanziale, così come nel caso in cui il pregiudizio si presenti marginale al punto da rendere sovradimensionata la drastica misura della demolizione. Ebbene, fermandoci alla prima delle due ipotesi, non è chi non veda come la decisione di non procedere alla demolizione per effetto della ritenuta compatibilità dell'opera con il contesto paesaggistico oggetto di tutela implichi, sulla base di una precisa opzione del legislatore, un'implicita autorizzazione al mantenimento in vita dell'opera, ossia una verifica che nella sostanza replica, sia pure ai fini della scelta della sanzione da applicare, lo stesso apprezzamento previsto in via preventiva dall'art. 7 della legge in parola (cfr., sia pure in un'ottica propensa ad escludere la possibilità di applicare anche la sola sanzione pecuniaria in caso di assenza di danno ambientale, Cons. Stato, Commiss. Spec., 09.05.1977, parere n. 5/1977; parere 15.02.1989, n. 28/89).
In definitiva la circostanza che il legislatore non preveda la necessità di un provvedimento formale in sanatoria, reputando sufficiente al fine di salvaguardare l'esistenza in vita dell'immobile la scelta di non accedere alla sanzione della demolizione, non esclude la possibilità che detta valutazione di compatibilità paesistica, alla base dell'esito del procedimento sanzionatorio, venga esplicitata attraverso una determinazione sostanzialmente riconducibile, con le differenze di cui si dirà, al paradigma di cui all'art. 7. In sintesi un tale modus procedendi innesca una non preclusa inversione nella sequenza procedimentale di cui all'art. 15, facendo sì che la verifica di compatibilità, piuttosto che essere desumibile dalla non adozione della misura ripristinatoria, condizioni a monte l'esito del procedimento sanzionatorio nel senso di rendere non più praticabile la soluzione radicale dell'abbattimento delle opere abusive (vedi in conformità, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2000, n. 421)
”.
Va per completezza puntualizzato che la tematica è ora disciplinata espressamente dal sopravvenuto art. 167, comma 4, lett. a), del decreto legislativo n. 42 del 2004, che limita l’ammissibilità dell’autorizzazione postuma proprio al caso, corrispondente alla fattispecie oggetto di giudizio, di lavori “realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, sia se eseguibili mediante "semplice" denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in base alla cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata disposizione, necessitano del preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.
Solo per gli interventi di restauro e risanamento conservativo e per quelli di manutenzione straordinaria non comportanti alterazione dello stato dei luoghi o dell'aspetto esteriore degli edifici, la D.I.A. non deve essere preceduta dall'autorizzazione paesaggistica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.04.2014 n. 16687 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Trasporto illecito, confisca del mezzo e terzo proprietario estraneo al reato.
In caso di trasporto illecito di rifiuti, il terzo proprietario del mezzo estraneo al reato (da intendersi come persona che non ha partecipato alla commissione dello stesso o ai profitti che ne sono derivati) può evitare la confisca se provi la sua buona fede, ossia, che l'uso illecito della res gli sia stato ignoto e non collegabile ad un suo comportamento negligente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.04.2014 n. 16665 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Esclusione dalla disciplina dei rifiuti delle materie fecali.
L'esclusione dalla disciplina dei rifiuti delle materie fecali opera a condizione che dette materie provengano da attività agricola e che siano riutilizzate nella stessa attività agricola L'esclusione è applicabile solo al letame agricolo, poiché quello non agricolo è sicuramente un rifiuto e l'effettiva riutilizzazione nell'attività agricola deve essere dimostrata dall'interessato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.04.2014 n. 16200 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Stoccaggio provvisorio.
Lo stoccaggio provvisorio, inteso come accantonamento di rifiuti in attesa del loro riutilizzo o smaltimento, è stato equiparato, sul piano sanzionatorio, alla fattispecie criminosa del deposito incontrollato o abbandono di rifiuti in via definitiva, costituendo anche lo stoccaggio un reato ove esso venga effettuato senza le prescritte autorizzazione di legge, che non ammettono equipollenti, non sono implicitamente ravvisabili e devono essere espressamente, formalmente, rilasciate prima dell'inizio dell'attività (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.04.2014 n. 15659 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Materiali residuanti dalla attività di demolizione edilizia.
I materiali residuanti dalla attività di demolizione edilizia conservano la natura di rifiuti sino al completamento delle attività di separazione e cernita, in quanto la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica sino al completamento delle operazioni di recupero, tra le quali l'art. 183, lett. h), d.lgs. 03.04.2006 n. 152 indica la cernita o la selezione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.04.2014 n. 14952 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dalla L. 28.01.1977 n. 10, la comunicazione del parere favorevole della Commissione edilizia -atto tipicamente endoprocedimentale del tutto privo di una propria autonomia funzionale e strutturale- non ha più né formalmente, né sostanzialmente valore provvedimentale di atto di assentimento della concessione edilizia richiesta.
Il parere della C.E. e gli atti endoprocedimentali non possono essere considerati equivalenti e non possono avere, anche implicitamente, un rilievo autorizzatorio in quanto solo il perfezionamento dell'iter normativo avrebbe consentito l'edificazione legittima.
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Quanto al periodo antecedente, si evidenzia che la giurisprudenza aveva effettivamente affermato il principio per cui “prima di annullare una concessione edilizia il sindaco deve verificare se non possa essere rimosso il vizio di legittimità che la inficiava: pertanto, nel caso di illegittimità della concessione per mancanza del nulla-osta dei vigili del fuoco, il sindaco deve verificare se sia possibile sanare il vizio, mediante l'acquisizione tardiva del nulla-osta medesimo. Solo nel caso che, integrata l'istruttoria, risultino elementi in contrasto con il provvedimento già formato, il sindaco può dar corso all'annullamento d'ufficio”.
Ciò però riguardava il caso di una concessione edilizia già rilasciata, e non appare traslabile alla fattispecie in esame, in cui, effettivamente, per quanto si è prima chiarito, nessuna concessione era stata in realtà emessa e comunque il parere favorevole era subordinato alla intrapresa di prescrizioni in realtà mai positivamente adempiute.

1. L’appello è parzialmente fondato e deve essere parzialmente accolto, nei termini di cui alla motivazione che segue.
2. Rammenta in primo luogo il Collegio che per giurisprudenza consolidata (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 22.02.2013, n. 1111) ”dalla L. 28.01.1977 n. 10, la comunicazione del parere favorevole della Commissione edilizia -atto tipicamente endoprocedimentale del tutto privo di una propria autonomia funzionale e strutturale- non ha più né formalmente, né sostanzialmente valore provvedimentale di atto di assentimento della concessione edilizia richiesta. Il parere della C.E. e gli atti endoprocedimentali non possono essere considerati equivalenti e non possono avere, anche implicitamente, un rilievo autorizzatorio in quanto solo il perfezionamento dell'iter normativo avrebbe consentito l'edificazione legittima” (ex aliis, si vedano anche Consiglio Stato, sez. IV, n. 811/2013; 30.06.2005, n. 3608; TAR Campania Salerno, sez. II, 27.05.2010, n. 8154).
Nel caso di specie, poi, la circostanza che il rilascio della concessione fosse subordinato ad adempimenti (mai posti in essere dal destinatario della stessa) impedisce ogni possibile equipollenza.
2.2. Quanto al periodo antecedente, si evidenzia che la giurisprudenza (Cons. Stato Sez. V, 08.10.1992, n. 977) aveva effettivamente affermato il principio per cui “prima di annullare una concessione edilizia il sindaco deve verificare se non possa essere rimosso il vizio di legittimità che la inficiava: pertanto, nel caso di illegittimità della concessione per mancanza del nulla-osta dei vigili del fuoco, il sindaco deve verificare se sia possibile sanare il vizio, mediante l'acquisizione tardiva del nulla-osta medesimo. Solo nel caso che, integrata l'istruttoria, risultino elementi in contrasto con il provvedimento già formato, il sindaco può dar corso all'annullamento d'ufficio”.
Ciò però riguardava il caso di una concessione edilizia già rilasciata, e non appare traslabile alla fattispecie in esame, in cui, effettivamente, per quanto si è prima chiarito, nessuna concessione era stata in realtà emessa e comunque il parere favorevole era subordinato alla intrapresa di prescrizioni in realtà mai positivamente adempiute.
Tali articolazioni dell’appello meritano la reiezione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2014 n. 1016 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche la giurisprudenza di merito maggiormente rigorosa. nell’affermare che l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso tale approdo affermando che “l'ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.”.
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L'abusività dell’opera, in se e per sé legittima il successivo, conseguente provvedimento di rimozione dell’abuso.
Esso è, di regola, atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale: “segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti del medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione dell’abuso, per rendere frustranee le esigenze di tutela dell’ordinato sviluppo urbanistico, del “governo del territorio”, dell’ambiente etc., che sono sottese all’ordine di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è stato consumato.
In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi; ciò può avvenire in casi in cui sia pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio.
Tutti i detti requisiti si manifestano con evidenza nel caso di specie: in simile evenienza, nel palese stato di buona fede del privato, l’amministrazione deve motivare in ordine alla sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche, tali da far ritenere recessivo lo stato di buona fede dell’attuale proprietario dell’ abuso.

2.3. L’appello, invece, merita di essere accolto, quanto al lasso di tempo trascorso, ed all’affidamento riposto dall’interessato, proprietario subentrante in quanto acquirente, sotto il profilo della circostanza che l’ordinanza ingiuntiva gravata appare indirizzata ad un soggetto che non è il diretto autore dell’opera, attinge un bene di realizzazione assai risalente, e non fa riferimento in alcun modo alle esigenze di pubblico interesse sottese alla emanazione del provvedimento gravato in primo grado, tanto più se finalizzato ad attingere la posizione di un soggetto che, pacificamente, non era il medesimo che l’opera aveva realizzato.
Rammenta in proposito il Collegio che anche la giurisprudenza di merito maggiormente rigorosa (ex aliis TAR Napoli sez. II 22/11/2013, n. 5317) nell’affermare che l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico)” fa presente che tale obbligo motivo sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso tale approdo (Consiglio di Stato sez. V 15/07/2013 n. 3847) affermando che “l'ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.”.
3.1. Il Collegio non ritiene che sul punto sia opportuno che residuino margini di incertezza od equivoci,e ritiene di meglio delineare il proprio convincimento: la abusività dell’opera, in se e per se legittima il successivo, conseguente provvedimento di rimozione dell’abuso.
Esso è, di regola, atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale: “segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti del medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione dell’abuso, per rendere frustranee le esigenze di tutela dell’ordinato sviluppo urbanistico, del “governo del territorio”, dell’ambiente etc., che sono sottese all’ordine di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è stato consumato (tra tante, C. Stato, V, 05.05.1998, n. 278 Sez. IV n. 6554/2008).
In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi; ciò può avvenire in casi in cui sia pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio.
Tutti i detti requisiti si manifestano con evidenza nel caso di specie: in simile evenienza, nel palese stato di buona fede del privato, l’amministrazione deve motivare in ordine alla sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche, tali da far ritenere recessivo lo stato di buona fede dell’attuale proprietario dell’ abuso.
E’ pacifico che ciò non sia avvenuto nel caso di specie, il che, con portata assorbente milita per l’accoglimento dell’appello, e, in riforma della gravata decisione, per l’accoglimento del mezzo di primo grado e l’annullamento degli atti gravati, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2014 n. 1016 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per ristrutturazione edilizia si intendono quegli «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti».
4.1. La seconda censura, relativa alle opere sub 1 (realizzazione di un diverso manufatto in luogo del precedente), poggia sulle medesime ragioni giuridiche ossia sulla non sanzionabilità dell’opera con la demolizione perché si sarebbe trattato di una mera ristrutturazione, tale da non “portare a un organismo diverso dal precedente”, e per questo autorizzabile con mera D.I.A..
4.2. Sul punto, va detto che per ristrutturazione edilizia si intendono quegli «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti».
4.3. Orbene, nel caso di specie, il manufatto originario, secondo quanto rilevato nel provvedimento impugnato, è stato “sostituito” da quello di nuova edificazione e parte ricorrente, pur essendo a ciò tenuto in ragione dell’applicazione del principio dispositivo, non ha dimostrato in senso contrario che, invece, si sia trattato di un intervento di sola ristrutturazione. Peraltro, neppure è dimostrata l’originaria legittimità del fabbricato qui sostituito. È evidente, in proposito, che giammai potrebbero essere considerati assentibili con D.I.A. interventi di completamento e di ampliamento relativi a un fabbricato illegittimamente edificato.
4.4. Esclusa, quindi, la sufficienza della mera D.I.A. al fine di “sostituire” il fabbricato, la censura va disattesa seguendo il medesimo percorso argomentativo condotto in relazione alla prima censura (par. 3) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione pecuniaria va disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e, quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”.
Inoltre, “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi”.

5.1. Analogamente, va rigettata la terza censura, secondo la quale si sarebbe dovuto far applicazione dell’art. 33 del D.P.R. 380/2001 nella parte in cui esclude la rimessione in pristino quando la stessa “non sia possibile”; escluso, infatti, che gli interventi in questione possano essere consentiti con mera D.I.A., non può trovare applicazione tale norma.
5.2. Ad abundantiam, vanno aggiunte alcune considerazioni convergenti nel senso dell’infondatezza della censura in esame.
5.3. In primo luogo, per gli immobili in area vincolata, l’art. 33, co. 3, D.P.R. 380/2001 prevede pur sempre la rimessione in pristino sia pur «indicando criteri e modalità diretti a ricostituire l'originario organismo edilizio».
5.4. In secondo luogo, come si è detto, non è in alcun modo dimostrata l’originaria legittimità del fabbricato originario che le opere in esame (sub 1 e 2) hanno sostituito o a cui sono accessorie e, pertanto, neppure è apprezzabile un’esigenza di tutela della parte “legittimamente edificata del fabbricato” così come invocata dal ricorrente.
5.5. In terzo luogo, l’affermazione sul pregiudizio del preesistente non è supportata da elementi tecnici atti a dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico: il che preclude l’ingresso all’accoglimento di tale profilo di denuncia alla stregua del condiviso orientamento giurisprudenziale secondo cui la sanzione pecuniaria va disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e, quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento” (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sezione quinta, sentenze 09.04.2013, n. 1912, 29.11.2012, n. 6071 e 05.09.2011, n. 4982).
5.6. In quarto luogola possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar Campania Napoli, questa sesta sezione, 24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012, n. 2291, 02.05.2012, n. 2006, 08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va negato il fatto che che l’edificazione di un muro esterno e di un parapetto accessorio a un balcone aggettante siano privi di rilievo paesistico, trattandosi, invece di opere che chiaramente alterano i prospetti e che sono suscettibili di incidere sui valori paesistici dell’area; la visibile alterazione del prospetto dell’edificio, conseguente all’intervento in esame, infatti, impone che il medesimo debba essere autorizzato mediante permesso di costruire preceduto dall’autorizzazione paesistica.
Ebbene, in ragione della mancanza del permesso di costruire e della conseguente abusività dell’opera, l’applicazione della sanzione demolitoria è doverosa ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 (T.U. edilizia) in quanto, come disposto dal successivo art. 32, co. 3, del medesimo T.U., qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art. 32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
Va detto, peraltro, che il Comune, più correttamente, avrebbe dovuto applicare l’art. 27 del medesimo testo unico che sanziona tutte le opere abusivamente eseguite in zona vincolata a prescindere dalla natura del titolo edilizio che ne consentirebbe la costruzione.
In tal senso, come ripetutamente affermato dalla sezione, in presenza di opere edificate senza titolo edilizio, e a maggior ragione in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, sia essa ai sensi dell’art. 31, di cui è stata fatta applicazione nel provvedimento impugnato, che dell’art. 27 D.P.R. 280/2001 (più correttamente applicabile alla fattispecie in esame), è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.

2.1. I provvedimenti impugnati sono relativi alla realizzazione:
1) di un fabbricato, ad uso abitativo, avente superficie di circa mq. 50,17 e volume di ca. mq. 130,94, con annesso terrazzo di superficie di mq. 39,59, in luogo del manufatto indicato al primo punto dell'ingiunzione prot. 14205 del 2.10.02;
2) di ulteriore muratura in elevazione a delimitazione del lato valle del manufatto indicato al punto 3 della citata ingiunzione prot. 14205 dei 2.10.2002 e della creazione di un parapetto in muratura a delimitazione dell'antistante balcone aggettante.
3.1. Il ricorrente, con la prima censura, contesta che la muratura e il parapetto possano essere interventi sanzionabili con la demolizione (bensì con la sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 37 D.P.R. 380/2001) in quanto, avendo una natura meramente manutentiva, sarebbero subordinati a una mera denuncia di inizio attività; neppure sarebbe necessaria l’autorizzazione paesistica ai sensi dell’art. 146 D.lgs. 42/2004 perché sarebbero interventi tali da non alterare lo stato dei luoghi.
3.2. Il mezzo non ha pregio. Va, infatti, negato che l’edificazione di un muro esterno e di un parapetto accessorio a un balcone aggettante siano privi di rilievo paesistico, trattandosi, invece di opere che chiaramente alterano i prospetti e che sono suscettibili di incidere sui valori paesistici dell’area; la visibile alterazione del prospetto dell’edificio, conseguente all’intervento in esame, infatti, impone che il medesimo debba essere autorizzato mediante permesso di costruire preceduto dall’autorizzazione paesistica (Consiglio di Stato sez. V, 23/07/2013, n. 3952; TAR Napoli sez. VI, 05/06/2013, n. 2912).
3.3. Ebbene, in ragione della mancanza del permesso di costruire e della conseguente abusività dell’opera, l’applicazione della sanzione demolitoria è doverosa ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 (T.U. edilizia) in quanto, come disposto dal successivo art. 32, co. 3, del medesimo T.U., qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art. 32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
3.4. Va detto, peraltro, che il Comune, più correttamente, avrebbe dovuto applicare l’art. 27 del medesimo testo unico che sanziona tutte le opere abusivamente eseguite in zona vincolata a prescindere dalla natura del titolo edilizio che ne consentirebbe la costruzione.
3.5. In tal senso, come ripetutamente affermato dalla sezione (cfr., da ultimo, sentenza 01.08.2013, n. 4037), in presenza di opere edificate senza titolo edilizio, e a maggior ragione in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, sia essa ai sensi dell’art. 31, di cui è stata fatta applicazione nel provvedimento impugnato, che dell’art. 27 D.P.R. 280/2001 (più correttamente applicabile alla fattispecie in esame), è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'01.08.2014

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IN EVIDENZA

URBANISTICA: La proroga triennale dei piani attuativi prevista dall’art. 30, c. 3-bis, della legge 09.08.2013 n. 98 di conversione del D.L. 21.06.2013 n. 69 c.d. “del fare” riguarda i soli piani attuativi non ancora scaduti alla data di entrata in vigore (21.08.2013) della legge.
Nell'ambito di un piano attuativo,
presupposto per il rilascio dei permessi a costruire è dato dal fatto che lo stesso sia valido ed efficace.
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La proroga triennale dei piani attuativi prevista dall’art. 30, c. 3-bis, della legge 09.08.2013 n. 98 di conversione del D.L. 21.06.2013 n. 69 c.d. “del fare” riguarda i soli piani attuativi non ancora scaduti alla data di entrata in vigore (21.08.2013) della legge, con conseguente negazione nel caso di specie di qualsiasi pretesa ultrattività dei piani già irrimediabilmente decaduti a tal data.
Infatti, costituisce un principio pacifico che la proroga dei termini di efficacia stabiliti da un atto amministrativo, in generale, non è ammissibile qualora l’atto la cui efficacia si intenda prolungare sia già scaduto, richiedendosi cioè che il provvedimento da prorogare sia ad "efficacia durevole", cioè che gli effetti del provvedimento originario non siano definitivamente esauriti, essendo altrimenti possibile la "rinnovazione" del provvedimento originario, caratterizzata dalla necessaria ripetizione di tutte le fasi procedimentali e dalla completa rivalutazione di tutte le circostanze di fatto e di diritto rilevanti, attuata mediante un'adeguata ponderazione dei diversi interessi pubblici e privati coinvolti.
Tali considerazioni ermeneutiche, di valenza generale, risultano a volte espressamente codificate anche dal legislatore, ad esempio quanto alla proroga dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità o nell’ultimo capoverso del comma 5 dell’art. 13 del d.p.r. n. 327/2001 il quale richiede coerentemente la necessità, ai fini della proroga, della perdurante efficacia del termine.

Prive di pregio sono anche le doglianze di cui al III motivo.
Presupposto per il rilascio dei permessi a costruire richiesti dalla società ricorrente è dato dall’esistenza di un piano attuativo valido ed efficace.
Il piano attuativo approvato il 16.10.2002 risulta decaduto per decorso del termine di efficacia decennale il 16.10.2012, termine che non può certo dirsi sospeso o interrotto per effetto del solo avvio dell’istruttoria e del conseguimento dei pareri favorevoli della Commissione edilizia e della locale Soprintendenza, o tantomeno per la scelta effettuata dalla ricorrente di procastinare l’attuazione degli interventi all’ottenimento del contributo post sisma.
Non merita condivisione neppure la doglianza di mancata applicazione dell’art. 30, c. 3-bis, della legge 09.08.2013 n. 98 di conversione del D.L. 21.06.2013 n. 69 “Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia” c.d. “del fare” a norma del quale “Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre anni.”
Sostiene la difesa della ricorrente che non operandosi secondo la “littera legis” alcuna distinzione tra piani validi e piani scaduti, la sopra citata norma dovrebbe dirsi applicabile anche ai piani scaduti -diversi dai piani di lottizzazione ma comunque assimilabili- e non ancora sostituiti da nuove disposizioni di attuazione del P.R.G., con conseguente ultrattività del piano attuativo.
Ritiene invece il Collegio l’inapplicabilità della norma al caso di specie, sotto un duplice profilo.
Anzitutto, perché secondo il quieto principio “tempus regit actum”, al momento dell’emanazione degli impugnati provvedimenti di archiviazione del 25.07.2013, il citato art. 30, c. 3-bis, non era ancora vigente; in secondo luogo, per l’inapplicabilità della disposta proroga triennale ai piani attuativi come quello di specie già scaduti.
Infatti, costituisce un principio pacifico (ex multis Consiglio di Stato sez V 18.09.2008, n. 4498; TAR Puglia-Bari sez. III, 29.09.2011, n. 1413) che la proroga dei termini di efficacia stabiliti da un atto amministrativo, in generale, non è ammissibile qualora l’atto la cui efficacia si intenda prolungare sia già scaduto, richiedendosi cioè che il provvedimento da prorogare sia ad "efficacia durevole", cioè che gli effetti del provvedimento originario non siano definitivamente esauriti, essendo altrimenti possibile la "rinnovazione" del provvedimento originario, caratterizzata dalla necessaria ripetizione di tutte le fasi procedimentali e dalla completa rivalutazione di tutte le circostanze di fatto e di diritto rilevanti, attuata mediante un'adeguata ponderazione dei diversi interessi pubblici e privati coinvolti.
Tali considerazioni ermeneutiche, di valenza generale, risultano a volte espressamente codificate anche dal legislatore, ad esempio quanto alla proroga dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (in questo senso con riferimento ai termini di cui all'art. 13, l. 25.06.1865 n. 2359, Consiglio Stato, sez. IV, 22.12.2003, n. 8462, id. sez IV, 22.05.2006 n. 302) o nell’ultimo capoverso del comma 5 dell’art. 13 del d.p.r. n. 327/2001 il quale richiede coerentemente la necessità, ai fini della proroga, della perdurante efficacia del termine.
Tanto premesso, la proroga triennale dei piani attuativi prevista dall’art. 30, c. 3-bis, della legge 09.08.2013 n. 98 di conversione del D.L. 21.06.2013 n. 69 c.d. “del fare” riguarda i soli piani attuativi non ancora scaduti alla data di entrata in vigore (21.08.2013) della legge, con conseguente negazione nel caso di specie di qualsiasi pretesa ultrattività dei piani già irrimediabilmente decaduti a tal data (TAR Umbria, sentenza 10.07.2014 n. 381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALISono incarichi di consulenza quelli volti ad acquisire da un soggetto esperto un giudizio su una determinata questione, sono incarichi di studio quelli volti a ricercare soluzioni su questioni inerenti alla attività di competenza della amministrazione conferente e sono incarichi di ricerca (in base ad un programma definito dalla amministrazione) quelli volti ad individuare norme o documenti e/o a ricostruire eventi o situazioni.
Tali incarichi sono tutti riconducibili al più ampio contesto degli incarichi di collaborazione esterna.
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In merito alla possibilità di affidare incarichi di consulenza, studio e ricerca nell’anno 2014, in assenza di spesa a tale titolo nell’anno 2009, il limite per gli incarichi di studio e consulenza (sono esclusi gli incarichi di ricerca per le ragioni già espresse) deve essere individuato non nella misura di una percentuale della spesa sostenuta a tale titolo nel 2009 (disposizione applicabile solo in via indiretta), circostanza questa che rende irrilevante la presenza o l’assenza di spese sostenute a tale titolo nel 2009, ma in rapporto alla spesa complessivamente sostenuta nel 2009 per le varie voci previste dalla norma indicata (es. acquisto autovetture, missioni, ecc.), con le riduzioni da apportare sempre in termini complessivi.
A tale limite complessivo, come già indicato, si aggiunge quello previsto dall’art. 14 del D.L. 66/2014 rapportato alle spese di personale (applicabile anche agli incarichi di ricerca).
Per il conferimento degli incarichi in argomento (ivi compresi gli incarichi di ricerca) rimane ferma, inoltre, la necessità della sussistenza dei numerosi presupposti richiesti dalla vigente normativa (es. art. 7 del D.Lgs. 165/2011) e del rispetto dei vari adempimenti previsti.

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Con la nota indicata, il Sindaco del Comune di Bitonto (BA), dopo aver richiamato l’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010, l’art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013 e l’art. 14, co. 1, del D.L. 66/2014, ha chiesto il parere di questa Sezione in merito alla possibilità di affidare incarichi di consulenza, studio e ricerca nell’anno 2014, in assenza di spesa a tale titolo nell’anno 2009, ferma restando la necessità della sussistenza di tutti gli altri presupposti richiesti dalla vigente normativa in materia.
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Il quesito posto dalla amministrazione richiedente riguarda essenzialmente la possibilità, per un ente locale, di affidare incarichi di consulenza, studio e ricerca nell’anno 2014 se il medesimo ente non ha sostenuto alcuna spesa a tale titolo nell’anno 2009.
Negli ultimi anni il legislatore si è occupato più volte e per vari aspetti della possibilità, per gli enti locali, di affidare incarichi di consulenza, studio e ricerca. Le varie norme che si sono susseguite nel tempo, fondamentalmente, hanno riguardato sia i limiti di spesa che i presupposti necessari per il conferimento di tali incarichi. Non sempre le norme in argomento hanno riguardato testualmente tutte le tre diverse tipologie di incarico elencate, infatti, in molti casi, come di seguito riportato, il legislatore ha formulato disposizioni solo sugli incarichi di studio e sulle consulenze senza occuparsi, quindi, degli incarichi di ricerca.
I vari interventi legislativi che si sono susseguiti nel corso degli ultimi anni sono stati tutti caratterizzati dalla evidente volontà di arginare il conferimento di tali incarichi, non solo in attuazione di una generale politica di contenimento della spesa pubblica, ma anche per evitare (o almeno ridurre) un fenomeno che ha spesso originato una spesa inutile ed aggiuntiva rispetto a quella che gli enti interessati avrebbero potuto e dovuto sostenere mediante un adeguato ed efficiente utilizzo del proprio personale.
In varie occasioni, peraltro, gli enti hanno fatto ricorso a tali incarichi sostanzialmente per aggirare la normativa in materia di assunzioni o, comunque, per celare rapporti di vero e proprio lavoro subordinato. Per la realizzazione di tali obiettivi, il legislatore ha operato su più piani prevedendo, per il conferimento degli incarichi in argomento, rigidi limiti di spesa, precisi presupposti, una elevata procedimentalizzazione, varie forme di controllo e pubblicità e un articolato e severo apparato sanzionatorio.
Prima di procedere alla soluzione del quesito proposto,
risulta necessario definire il contenuto di tali incarichi, tutti riconducibili al più ampio contesto degli incarichi di collaborazione esterna.
Anche alla luce delle indicazioni offerte dalla Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, con la deliberazione 15.02.2005 n. 6, può ritenersi che
sono incarichi di consulenza quelli volti ad acquisire da un soggetto esperto un giudizio su una determinata questione, sono incarichi di studio quelli volti a ricercare soluzioni su questioni inerenti alla attività di competenza della amministrazione conferente (in tal senso anche il D.P.R. 338/1994) e sono incarichi di ricerca (in base ad un programma definito dalla amministrazione) quelli volti ad individuare norme o documenti e/o a ricostruire eventi o situazioni.
La Corte dei conti, sia a livello centrale che a livello regionale, sia in sede di controllo che in sede giurisdizionale, con numerose deliberazioni e sentenze, ha dedicato particolare attenzione agli incarichi di studio, ricerca e consulenza in virtù degli evidenti e rilevanti riflessi sulla spesa pubblica degli stessi. Pur essendo state approvate in un quadro normativo diverso da quello attuale, rivestono tuttora una particolare utilità per una adeguata conoscenza della fattispecie in esame la già richiamata deliberazione 15.02.2005 n. 6 delle Sezioni riunite in sede di controllo (con la quale sono state approvate le linee di indirizzo e i criteri interpretativi sulle disposizioni della legge 311/2004 in materia di affidamento di incarichi di studio, ricerca o consulenza) e la
deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008 della Sezione delle Autonomie (con la quale sono state approvate le linee di indirizzo e i criteri interpretativi dell’art. 3, co. 54-57, della legge 244/2007 in materia di regolamenti degli enti locali per l’affidamento di incarichi di collaborazione, studio, ricerca e consulenza).
Ciò premesso,
al fine di dare risposta al quesito proposto, appare necessario procedere alla individuazione della vigente normativa in materia di limiti di spesa per l’affidamento di incarichi di studio, ricerca e consulenza, con particolare riferimento ai limiti posti dalla legge in rapporto alla spesa sostenuta, a tale titolo, nell’anno 2009.
L’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010, con l’espresso fine di valorizzare le professionalità interne, seguendo una linea ormai consolidata (es. art. 1, co. 11, legge 311/2004), anche per i Comuni, prevede che,
a decorrere dall’anno 2011, la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza (anche conferiti a dipendenti pubblici) non può essere superiore al 20% di quella sostenuta nell’anno 2009. Con riferimento a tale norma, la Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, con deliberazione n. 7/CONTR/2011, ha chiarito che il concetto di “spesa sostenuta nell’anno 2009” deve riferirsi alla spesa programmata per la suddetta annualità e che le spese alimentate con risorse provenienti da enti pubblici o privati estranei all’ente devono essere escluse dal computo.
Successivamente, con sentenza n. 139/2012, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 6 del D.L. 78/2010 (e, quindi, anche della norma in argomento), la Corte costituzionale ha affermato che i tagli disposti dal legislatore non operano per gli enti locali in via diretta, ma solo come disposizioni di principio.
Quindi, una volta determinato il volume complessivo delle riduzioni da effettuare (tra le spese da ridurre ai sensi del citato art. 6 figurano anche quelle per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità, rappresentanza, sponsorizzazioni, missioni, formazione e acquisto, manutenzione, noleggio ed esercizio di autovetture), ogni ente ha la possibilità di decidere su quali voci effettuarle, senza sottostare ai vincoli specifici stabiliti dal menzionato art. 6.
La normativa descritta successivamente è stata implicitamente modificata. L’art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013, infatti, anche per gli enti locali, ha stabilito che la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza (anche conferiti a dipendenti pubblici) non può essere superiore, per l’anno 2014, all’80% del limite di spesa per l’anno 2013 e, per l’anno 2015, al 75% dell’anno 2014, così come determinati dalla applicazione dell’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010 sopra riportato. In sostanza, il legislatore ha ulteriormente ridotto il limite di spesa precedentemente previsto dal citato art. 6, co. 7: in rapporto alla spesa sostenuta nell’anno 2009, infatti, il nuovo limite è pari al 16% (80% del 20%) per l’anno 2014 e al 15% (75% del 20%) per l’anno 2015.
Appare doveroso evidenziare sin d’ora che anche all’art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013 occorre dare una lettura conforme a quanto espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 139/2012. Pertanto, anche tale taglio disposto dal legislatore non opera per gli enti locali in via diretta, ma solo come disposizione di principio. Quindi, ancora una volta, determinato il volume complessivo delle riduzioni da effettuare, ogni ente ha la possibilità di decidere su quali voci effettuarle, senza sottostare a vincoli specifici. La necessità di leggere l’art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013 alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 139/2012 deriva non solo dalla evidente omogeneità esistente tra le due norme, ma anche dall’espresso rinvio operato dallo stesso art. 1, nel quantificare il limite di spesa, all’applicazione dell’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010.
Una nuova modifica alla disciplina relativa al conferimento degli incarichi in esame è stata disposta dall’art. 14 del D.L. 66/2014 (in attesa di conversione in legge) il quale ha previsto, anche per gli enti locali, confermando espressamente i limiti derivanti dalle vigenti disposizioni e, in particolare, le disposizioni prima riportate (art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010 e art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013), a decorrere dall’anno 2014, un ulteriore limite di spesa rapportato non più alla spesa precedentemente sostenuta per la medesima ragione ma alla spesa per il personale dell’ente che conferisce l’incarico (1,4% se la spesa del personale è superiore a 5 milioni di euro, 4,2% se la spesa è pari o inferiore).
In pratica, consolidando l’orientamento restrittivo seguito costantemente negli ultimi anni, il legislatore ha ritenuto di limitare, sempre sotto il profilo della spesa ma in modo diverso dal passato, la possibilità di conferire incarichi di consulenza, studio e ricerca: ai limiti basati sulla spesa storica si affiancano quelli derivanti dal rapporto delle relative spese con le spese del personale. Tale ultimo limite di spesa risulta non interessato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 139/2012 e può considerarsi aggiuntivo e non sostitutivo rispetto a quelli precedentemente stabiliti.
Appare necessario evidenziare che mentre l’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010 e l’art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013 riguardano “la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza” (senza comprendere, quindi, gli incarichi di ricerca), l’art. 14 del D.L. 66/2014 limita gli “incarichi di consulenza, studio e ricerca”. Si tratta di una osservazione non irrilevante: nel caso in cui l’incarico non sia sussumibile nelle due categorie degli incarichi per studi e consulenza (ad esempio perché riconducibile nell’ambito degli incarichi di ricerca) non si applicano i limiti previsti in materia dal D.L. 78/2010 e dal D.L. 101/2013.
Appare infatti preferibile, anche in virtù del rigoroso apparato sanzionatorio previsto dalle due norme citate, la valorizzazione di una interpretazione letterale (Sez. Lombardia
parere 07.02.2011 n. 68). Tale conclusione risulta confermata da un altro aspetto: laddove il legislatore ha voluto porre dei freni anche agli incarichi di ricerca lo ha espressamente previsto. Indicativo in tal senso è il secondo periodo del comma 9 dell’art. 1 del D.L. 168/2004 (non più vigente in quanto abrogato dall’art. 46 del D.L. 112/2008) il quale, contrariamente al primo periodo (formalmente non abrogato) che prevedeva un taglio lineare di spesa nei confronti dei soli incarichi di studio e consulenza, stabiliva precisi presupposti per “l’affidamento di incarichi di studio o di ricerca ovvero di consulenza”.
Analoga conclusione si ricava dall’art. 1, co. 11, della legge 311/2004. Ciò conduce a ritenere che il limite di spesa recentemente stabilito dal D.L. 66/2014, di contenuto diverso dai precedenti in quanto rapportato non alle spese precedentemente sostenute al medesimo titolo ma alla spesa per il personale, si aggiunge (non si sostituisce) a quelli già precedentemente previsti dal D.L. 78/2010 e dal D.L. 101/2013 solo per gli incarichi di studio e di consulenza in quanto, per gli incarichi di ricerca (ai quali i limiti previsti dal D.L. 66/2014 certamente si applicano), i limiti indicati non si applicavano e non si applicano.
In base, quindi, alla ricostruzione normativa effettuata, con particolare riferimento agli enti che (come il Comune richiedente) non hanno sostenuto alcuna spesa nell’anno 2009 per incarichi di studio, ricerca e/o consulenza, i dubbi interpretativi, eventualmente, si pongono per gli incarichi di studio e di consulenza e non per gli incarichi di ricerca i quali non erano disciplinati dall’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010 e per i quali non valgono i relativi limiti di spesa.
La questione relativa alla individuazione dei limiti di spesa per il conferimento di incarichi di consulenza e di studio nei confronti degli enti che non hanno sostenuto a tale titolo spese nell’anno 2009 è stata già affrontata dalla Corte dei conti in sede consultiva (Sez. Lombardia, parere 29.04.2011 n. 227). In tale occasione è stato osservato che
la ratio sottesa alla legge statale in esame è quella di rendere operante, a regime, una riduzione della spesa per gli incarichi di consulenza e di studio e non di vietare agli enti locali la possibilità di conferire incarichi esterni quando ne ricorrono i presupposti di legge.
In questo senso, infatti, verrebbe disattesa la finalità perseguita dal legislatore per quegli enti locali che, nel corso dell’anno 2009, non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze; infatti, se si adottasse una interpretazione letterale, si finirebbe per ritenere che la norma de qua fissa per essi un divieto assoluto alla stipula di questa tipologia di contratti. In base a tale considerazione, la Sez. Lombardia, con la deliberazione menzionata, è giunta alla conclusione che
la norma de qua, per gli enti locali che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze, va applicata individuando un diverso parametro di riferimento.
D’altra parte, se non si adottasse questa interpretazione, la riduzione lineare prevista finirebbe per premiare gli enti meno virtuosi che, nel corso dell’anno 2009, hanno sostenuto una spesa per consulenze eventualmente rilevante; al contrario, si tradurrebbe in un divieto assoluto per gli enti più virtuosi che, quello stesso anno, hanno sostenuto una spesa pari a zero.
Non essendoci un parametro finanziario precostituito (in quanto la spesa per l’anno 2009 è stata pari a zero), il limite individuato dalla Sez. Lombardia è stato quello della spesa strettamente necessaria nell’anno in cui si verifica l’assoluta necessità di conferire un incarico di consulenza o di studio (limite di spesa che, a sua volta, sarebbe il parametro finanziario per gli anni successivi).
La soluzione prospettata nel parere 29.04.2011 n. 227 della Sez. Lombardia (che poteva essere sostenuta anche in base all’art. 3, co. 56, della legge 244/2007, come modificato dall’art. 46 del D.L. 112/2008, secondo il quale “il limite massimo della spesa annua per incarichi di collaborazione è fissato nel bilancio preventivo degli enti territoriali”), come già sostenuto da questa Sezione in occasione dell’esame di un rendiconto (deliberazione n. 15/PRSP/2014), deve essere rivista alla luce della successiva sentenza della Corte costituzionale n. 139/2012. Con quest’ultima sentenza, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione anche al comma 7 dell’art. 6 del D.L. 78/2010, è stato ribadito che il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio ma che questi vincoli possono considerarsi rispettosi della autonomia delle Regioni e degli enti locali solo quando stabiliscono un limite complessivo che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa.
In altre parole,
con riferimento agli enti locali, l’art. 6 in argomento prevede un limite complessivo nell’ambito del quale gli enti interessati restano liberi di allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa. Una volta, quindi, determinato il volume complessivo delle riduzioni da apportare in base all’art. 6 citato, ogni ente ha la possibilità di decidere su quali voci effettuare le riduzioni, senza sottostare ai vincoli specifici previsti. E’ possibile, in sostanza, non rispettare un vincolo specifico ma tale sforamento dovrà essere compensato da una corrispondente maggiore riduzione della spesa rispetto ad un altro vincolo specifico previsto.
La Corte dei conti ha tenuto conto immediatamente dell’orientamento espresso in materia da parte della Corte costituzionale (Sezione delle Autonomie, deliberazione n. 10/2012). A tale orientamento, come già riferito, non poteva non adeguarsi anche questa Sezione che ha pure avuto modo di evidenziare che “l’assenza di spese per consulenze nell’esercizio 2009, in considerazione della necessità di individuare un obiettivo complessivo di risparmio secondo le indicazioni ermeneutiche contenute nella sentenza n. 139/2012 cit., non giustifica l’individuazione di un “nuovo” tetto di spesa” (deliberazione n. 14/PRSP/2014). La distribuzione degli interventi riduttivi tra le singole voci previste dalla norma, tuttavia, non comporta la libera ed incondizionata derogabilità delle misure di contenimento, trattandosi pur sempre di norma assistita da sanzioni specifiche in caso di inosservanza (Sez. Veneto, n. 189/2013/PAR).
In considerazione, quindi, della lettura data all’art. 6 del D.L. 78/2010 dalla Corte costituzionale dalla quale questa Sezione non ha motivo di discostarsi, lettura che deve essere estesa anche all’analogo art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013, sia per non incorrere in interpretazioni censurabili sul piano della legittimità costituzionale, sia per l’espresso rinvio disposto dal legislatore all’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010,
il limite per gli incarichi di studio e consulenza (sono esclusi gli incarichi di ricerca per le ragioni già espresse) deve essere individuato non nella misura di una percentuale della spesa sostenuta a tale titolo nel 2009 (disposizione applicabile solo in via indiretta), circostanza questa che rende irrilevante la presenza o l’assenza di spese sostenute a tale titolo nel 2009, ma in rapporto alla spesa complessivamente sostenuta nel 2009 per le varie voci previste dalla norma indicata (es. acquisto autovetture, missioni, ecc.), con le riduzioni da apportare sempre in termini complessivi.
A tale limite complessivo, come già indicato, si aggiunge quello previsto dall’art. 14 del D.L. 66/2014 rapportato alle spese di personale (applicabile anche agli incarichi di ricerca).
Per il conferimento degli incarichi in argomento (ivi compresi gli incarichi di ricerca) rimane ferma, inoltre, la necessità della sussistenza dei numerosi presupposti richiesti dalla vigente normativa (es. art. 7 del D.Lgs. 165/2011) e del rispetto dei vari adempimenti previsti
(es. obblighi di pubblicazione) (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 07.07.2014 n. 131).

UTILITA'

URBANISTICA: Consultazione pubblica on-line del disegno di legge: Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana.
Il giorno 24.07.2014 il Ministro Lupi ha presentato alle Amministrazioni e ai principali stakeholders il testo del disegno di legge "Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana".
La proposta è il risultato del lavoro coordinato dalla Segreteria tecnica del Ministro Lupi e svolto da un gruppo di esperti esterni, nominati dal Ministro, di diritto, urbanistica, politiche territoriali e fiscalità immobiliare.
Obiettivo del provvedimento è quello di predisporre un quadro normativo unitario in grado di rinnovare le norme urbanistiche di valenza nazionale, risalenti al 1942.
La bozza di ddl si compone di 20 articoli, non ha carattere meramente procedurale, ma intende integrare procedure e politiche pubbliche territoriali. Inoltre, una seconda finalità è quella di fornire una strumentazione aggiornata per il coordinamento delle politiche settoriali che incidono sugli usi e le trasformazioni del territorio.
Partendo dalle nuove finalità di un'urbanistica del rinnovo e non più dell'espansione della città, il disegno di legge ha lo scopo di fornire alla ricchissima esperienza legislativa regionale un quadro omogeneo di norme di principio sui temi della proprietà immobiliare, sia pubblico/collettiva che privata, dell'uso razionale della risorsa suolo, della qualificazione del servizio di edilizia residenziale sociale e degli strumenti più idonei alla sua promozione.
Fuori da ogni logica competitiva -o peggio conflittuale- fra i diversi livelli di governo, la legge nazionale è concepita come strumento a disposizione degli enti territoriali per cogliere meglio le opportunità offerte dalle strategie europee in materia di sviluppo urbano e territoriale.
La bozza del testo è oggetto di consultazione pubblica on-line, che resterà aperta fino al 15 settembre per la raccolta di proposte e spunti critici.
Tali contributi, in forma mirata come emendamento al testo, o sotto forma di riflessioni sulla materia, potranno essere inviate al seguente indirizzo e-mail: lecittavivibili@mit.gov.it utilizzando possibilmente la scheda allegata.
Il provvedimento arricchito dai vostri contributi nel mese di settembre sarà presentato al Consiglio dei Ministri è inizierà il suo iter formale (24.07.2014 - tratto da e link a www.mit.gov.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: ENTE PROVINCIA – chiarezza sui conti e sui tagli per evitare il caos (CGIL-FP di Bergamo, nota 25.07.2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Utilizzo piscine come riserva idrica antincendio. Riscontro (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico ed ella Difesa Civile, nota 14.07.2014 n. 9102 di prot.).
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Reti idriche e alimentazione attraverso piscine.
I Vigili del Fuoco con nota del 14.07.2014 n. 9102 chiariscono che la norma UNI 10779 "Impianti di estinzione incendi - Reti di idranti - Progettazione, installazione ed esercizi" non prevede l'utilizzo dell'acqua di una piscina natatoria per uso antincendio.
Secondo il Dipartimento, l'organo competente dell'UNI ha confermato che la norma UNI 10779 non prevede l'utilizzo dell'acqua di una piscina natatoria per uso antincendio; ogni eventuale utilizzo dovrà avvenire in conformità ai requisiti tecnici e legislativi di sicurezza ed affidabilità.
Il dubbio era sorto da un quesito in cui si chiedeva se era consentito alimentare le reti idriche antincendio con l'acqua presente nelle piscine, una soluzione auspicata dai titolari delle attività turistico-ricettive per abbattere i costi dell'impianto antincendio. Nel punto 5.2.3. si stabilisce come "Le reti idranti devono avere alimentazioni idriche adibite a loro esclusivo servizio, con eccezione per gli acquedotti e le riserve virtualmente inesauribili".
Secondo la Direzione VVF dell'Umbria, investita del quesito per "esclusivo servizio" della riserva idrica si intende che non siano presenti altre utenze che, emungendo acqua dalla riserva idrica, potrebbero rendere non efficiente la rete antincendio.
La Direzione regionale riteneva pertanto, che fosse praticabile l'ipotesi dell'alimentazione di una rete idrica antincendio con l'acqua contenuta in una piscina a servizio dell'attività nella quale deve essere installata la rete idrica (commento tratto da www.insic.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 30.07.2014 n. 175 "Testo del decreto-legge 31.05.2014, n. 83 coordinato con la legge di conversione 29.07.2014, n. 106, recante: “Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo".
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 4 - Disposizioni urgenti per la tutela del decoro dei siti culturali
Art. 12 - Misure urgenti per la semplificazione, la trasparenza, l’imparzialità e il buon andamento dei procedimenti in materia di beni culturali e paesaggistici
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Per una migliore leggibilità del testo integrale e, soprattutto, della ratio degli articoli di legge sopra evidenziati si legga anche il "Dossier n. 182/2 - Elementi per l'esame in Assemblea - 03.07.2014".

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2014, "Quarto aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 25.07.2014 n. 7177).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 29.07.2014, "Approvazione iniziativa anno 2014 per l’accesso ai contributi in conto capitale a fondo perduto per la riqualificazione degli impianti sportivi di proprietà pubblica" (decreto D.S. 24.07.2014 n. 7145).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 29.07.2014 n. 174 "Regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio degli asili nido" (Ministero dell'Interno, decreto 16.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 28.07.2014 n. 173 "Regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio degli interporti, con superficie superiore a 20.000 m², e alle relative attività affidatarie" (decreto interministeriale 18.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 28.07.2014 n. 173 "Regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle attività di aerostazioni con superficie coperta accessibile al pubblico superiore a 5.000 m²" (Ministero dell'Interno, decreto 17.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 24.07.2014 n. 170 "Comunicato relativo al decreto legislativo 04.07.2014, n. 102, recante: «Attuazione della direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica, che modifica le direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le direttive 2004/8/CE e 2006/32/CE» - (Decreto legislativo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – serie generale - n. 165 del 18.07.2014)" (avviso di rettifica).

ENTI LOCALI: G.U. 23.07.2014 n. 169 "Ulteriore differimento al 30.09.2014 del termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2014 degli enti locali" (Ministero dell'Interno, decreto 18.07.2014).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 30 del 23.07.2014, "Parco regionale Adda Nord - Trezzo sull’Adda (MI) - approvazione Statuto" (deliberazione G.R. 11.07.2014 n. 2125).

APPALTI: G.U. 21.07.2014 n. 167 "Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, comunicato).
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Interessi di mora: tasso all’8,15%.
E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il comunicato del MEF relativo al saggio degli interessi legali moratori da applicare in favore dei creditori nel caso di ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali.
Ai sensi dell’art. 5, D.Lgs. n. 231/2002, “per il periodo 1° luglio-31.12.2014 il tasso di riferimento per il calcolo degli interessi moratori sui ritardati pagamenti da parte della PA è pari allo 0,15 per cento”.
Al fine di dare pieno recepimento alla direttiva n. 2011/7/UE, il D.Lgs. n. 192/2012 ha modificato il D.Lgs. n. 231/2002, in materia di lotta ai ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali.
In conseguenza del recepimento dei dettami comunitari, per tutte le transazioni in essere dal 01.01.2013 la PA è tenuta pagare i fornitori nel termine di 30 giorni dal ricevimento della fattura da parte dell’ente debitore ovvero, quando non risulti certa la data di arrivo della fattura, dalla consegna della merce o dalla data di prestazione dei servizi.
Le uniche deroghe previste (termine esteso a 60 giorni) riguardano le imprese pubbliche e gli enti (quali ASL e strutture ospedaliere) che forniscono assistenza sanitaria. Per le altre amministrazioni pubbliche, invece, la proroga è possibile esclusivamente se giustificata “dalla natura o dall’oggetto del contratto”.
In caso di mancato rispetto dei termini, scatta in automatico -e senza necessità di messa in mora- il computo degli interessi legali moratori, i quali sono calcolati aggiungendo 8 punti percentuali al tasso fissato dalla BCE per le operazioni di rifinanziamento.
Nelle transazioni commerciali tra imprese, si ricorda, è consentito alle parti concordare un tasso di interesse diverso, nei limiti previsti dall’art. 7, D.Lgs. n. 231/2002.
Conseguentemente, gli interessi legali moratori complessivi, al ricorrere dei presupposti individuati nel D.Lgs. n. 231 sono determinati in misura pari all’8,15% (commento tratto da www.ipsoa.it).

SICUREZZA LAVORO: Lombardia, Linee guida "Uso delle piattaforme di lavoro elevabili" (cantieri temporanei e mobili) (Regione Lombardia, Direzione Generale Salute, decreto 08.07.2014 n. 6551).

A.N.AC. - AUTORITA' NAZIONALE ANTICORRUZIONE (già A.V.C.P.)

APPALTI: Codice Identificativo di Gara (CIG) - L’Autorità Nazionale Anticorruzione rilascerà il CIG ai comuni non capoluogo di provincia.
Nelle more della conversione in legge del decreto legge n. 90/2014, che prevede il rinvio dei termini dell’entrata in vigore delle disposizioni introdotte dall’art. 9 comma 4, del decreto legge 24.04.2014, convertito con modificazioni dalla legge 23.06.2014, n. 89, si comunica che l’Autorità Nazionale Anticorruzione, rilascerà il Codice Identificativo di Gara (CIG) ai comuni non capoluogo di provincia (30.07.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: L. Oliveri, Appalti: l’illusione delle centrali-bacchetta magica - Troppo spesso la stampa si ferma a dare per buone le veline ministeriali, forse anche nella convinzione in buona fede che esse riportino notizie o indicazioni corrette e complete (31.07.2014 - link a www.leggioggi.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L. Oliveri, Nomine dei dirigenti a contratto, a tirare troppo la corda pericolo abuso d’ufficio? - Le assunzioni a dirigente di funzionari interni possono costare l’iscrizione nel registro degli indagati per abuso d’ufficio, al dirigente che le attiva (22.07.2014 - link a www.leggioggi.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: C. Sabbatini, Il ruolo del sindaco nella gestione dei rifiuti (nota a Cass. pen. n. 37544/2013) (Ambiente & Sviluppo n. 5/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Muratori, Scarico di acque meteoriche di dilavamento: non più equiparabile a quello dei reflui industriali (nota a Cass. pen. n. 2867/2014) (Ambiente & Sviluppo n. 3/2014).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Dipendenti neoassunti e ferie.
L'ARAN ha chiarito che il periodo di servizio di tre anni, di cui all'art. 18, comma 4, del CCNL del 07.07.1995, deve intendersi esclusivamente quale servizio di ruolo a tempo indeterminato, non rilevando precedenti rapporti di lavoro a tempo determinato.
Il Comune ha chiesto se, ai fini del conteggio dei tre anni di servizio previsti dall'art. 18, comma 4, del CCNL del 07.07.1995, debbano essere considerati esclusivamente i periodi di servizio in ruolo, oppure se possano essere sommati anche precedenti periodi di assunzione a tempo determinato.
La citata norma contrattuale
[1] dispone che, ai neo assunti nella pubblica amministrazione, spettino i giorni di ferie previsti nel comma 2 (32 giorni lavorativi), 'dopo tre anni di servizio'.
Preliminarmente, si osserva che l'art. 22 del CCRL del 07.12.2006 ha aumentato il numero delle giornate di ferie spettanti al personale degli enti locali del comparto unico, con decorrenza 01.01.2006 e 01.01.2007.
A prescindere, comunque, dal numero delle giornate di ferie, la questione, non trovando soluzione nel contesto contrattuale, va esaminata sulla scorta degli orientamenti espressi in materia dall'ARAN, considerato che, nella particolare fattispecie, la disciplina contrattuale nazionale di riferimento non è stata modificata dalla contrattazione collettiva regionale.
A tal proposito, si evidenzia che la predetta Agenzia ha affermato, ai fini della determinazione del numero dei giorni di ferie, l'interpretazione secondo cui il termine 'neo assunto' deve essere riferito al lavoratore che non abbia avuto precedenti rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
Non hanno, pertanto, alcuna influenza, ai fini della disciplina in questione, i rapporti a termine, precedentemente costituiti, anche con il medesimo ente
[2]. Si è, infatti, precisato che, se si tratta di personale con rapporto a termine, vige la specifica disciplina contrattuale [3], per cui al dipendente competono solo i giorni maturati in relazione alla durata del rapporto di lavoro.
Pertanto, l'art. 18 in esame si riferisce al periodo di servizio in ruolo.
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[1] Sull'applicabilità di detta norma del contratto nazionale al personale degli enti locali del comparto unico, cfr. Commento e prime note interpretative relativi al CCRL del 07.12.2006, a cura dell'Areran, pagg. 45-46.
[2] Cfr. RAL 472, RAL 473 e RAL 1068.
[3] Cfr. art. 7, comma 10, del CCRL del 25.07.2001
(24.07.2014 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Convenzione ex art. 7 del CCRL del 26.11.2004.
Si ritiene che le convenzioni stipulate ex art. 7 del CCRL del 26.11.2004 possano essere prorogate, con il consenso delle parti interessate, per un periodo comunque definito, in relazione alle motivate esigenze organizzative degli enti locali.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di 'prorogare ulteriormente' una convenzione in essere ai sensi dell'art. 7 del CCRL del 26.11.2004 e gradirebbe sapere se, alternativamente, possa essere nominato titolare di posizione organizzativa del settore interessato un assessore comunale, ai sensi delle vigenti disposizioni.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione e relazioni sindacali della Direzione generale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Il citato art. 7 del CCRL del 26.11.2004 contempla una disposizione speciale che disciplina l'utilizzazione di personale presso altri enti e servizi in convenzione, nell'ambito del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale.
Il comma 1 di detto articolo stabilisce, infatti, che, al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una economica gestione delle risorse, gli enti locali possono utilizzare, con il consenso dei lavoratori interessati, personale assegnato da altri enti cui si applica il medesimo CCRL, per periodi predeterminati e per una parte del tempo di lavoro d'obbligo, mediante convenzione e previo assenso dell'ente di appartenenza. Si precisa altresì che la convenzione, atto di gestione di diritto privato del rapporto di lavoro e come tale non assimilabile alle convenzioni di cui all'art. 30 del d.lgs. n. 267/2000
[1], definisce, tra l'altro, il tempo di lavoro in assegnazione, nel rispetto del vincolo dell'orario settimanale d'obbligo, la ripartizione degli oneri finanziari e tutti gli altri aspetti utili per regolare il corretto utilizzo del lavoratore.
Pertanto, previo accordo fra tutte le parti interessate, non è da escludere la possibilità che la convenzione in essere sia prorogata, in relazione alle esigenze concrete, per un periodo comunque definito.
E' ovvio che l'istituto in argomento non può comunque essere utilizzato sine die in quanto, pur con la finalità di contribuire al miglioramento dell'erogazione dei servizi istituzionali e al conseguimento di un risparmio di spesa, si configura quale soluzione temporanea (e non definitiva) per ovviare ad esigenze organizzative degli enti locali, che devono in ogni caso trovare una stabile soluzione.
In tale ottica va letta pertanto la locuzione contrattuale 'per periodi predeterminati', che prevede una durata prestabilita e non eccessivamente protratta nel tempo per la forma collaborativa in argomento.
In relazione al secondo quesito prospettato, si osserva che l'art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000 prevede che gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni
[2], e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
La predetta norma, pertanto, ha espressamente introdotto la possibilità di deroga al generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al fine di favorire anche il contenimento della spesa e consentire, comunque, soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste dimensioni demografiche.
Si ritiene utile precisare, a tal proposito, che la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l'art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta applicazione, richieda che l'attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi comunali agli organi politici, ed il conseguente potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme regolamentari organizzative
[3]. L'adozione della richiesta norma organizzativa si pone, pertanto, quale condizione necessaria per l'applicazione dell'articolo in esame, con la conseguenza che, in mancanza di detto preliminare adempimento, si renderebbe, di fatto, inapplicabile la norma stessa [4].
In conclusione, l'Amministrazione istante può valutare discrezionalmente quale sia la scelta organizzativa più consona a soddisfare le reali esigenze operative del settore interessato.
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[1] Vedasi anche l'art. 21 della L.R. n. 1/2006.
[2] Vedasi ora l'art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, sentenza n. 9545 del 29.07.2008.
[4] Si sottolinea, altresì, come il giudice amministrativo abbia individuato proprio nella determinazione di carattere organizzativo la fonte legittimante del potere esercitato (nella fattispecie esaminata) dal Sindaco cui erano state attribuite le funzioni di responsabile del Servizio tecnico (cfr. TAR Emilia Romagna, sez. staccata di Parma, sentenza n. 160 del 2009)
(23.07.2014 - link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’Amministrazione che intende coprire un nuovo posto di cat. D3, ha chiesto se sia possibile, ai sensi dell’art. 91, 4° comma, del D.L.gs n. 267/2000 e s.m.i., utilizzare una graduatoria tuttora efficace per effetto delle successive proroghe legislative, alla luce del fatto che la stessa approvata in data 12.06.2008, si riferisce ad una procedura concorsuale indetta in data 02.05.2007 quando i posti in dotazione organica erano 2, successivamente variati in 3 in data 09.04.2008 e riportati a 2 in data 24.04.2013, posti attualmente coperti.
Una Amministrazione nel richiamare la pronuncia del Tar ha formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta interpretazione della norma recata dall’art. 91, 4° comma, del D.Lgs. n. 267/2000 e s.m.i., ovvero alla possibilità di utilizzare una graduatoria, tuttora efficace per effetto delle successive proroghe legislative, la quale è stata approvata in data 12.6.2008 e relativa ad una procedura concorsuale indetta in data 02.05.2007 per il conferimento di n. 1 posto (cat. D3). A tal fine, fa presente che in data 09.04.2008 è stata variata la dotazione organica portando da n. 2 a n. 3 i posti previsti in dotazione organica per il citato profilo per poi riportarli a n. 2 in data 24.04.2013, posti attualmente coperti. Poiché l’attuale Amministrazione, insediatasi nel giugno 2013, avrebbe intenzione di riportare a n. 3 i posti in questione, si pone la questione relativa alla possibilità di utilizzare la precitata graduatoria.
Al riguardo, com’è noto l’art. 91, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 e s.m.i., stabilisce la durata delle graduatorie concorsuali degli enti locali in tre anni e prevede la possibilità della loro utilizzazione, per l’eventuale copertura dei posti che si venissero a rendere successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione per i posti istituiti o trasformati successivamente all’indizione del concorso. Come rilevato dal Tar con la richiamata pronuncia n. 552/2013, “la ratio della previsione è quella di evitare che le amministrazioni possano essere indotte a modificare la pianta organica al fine di assumere uno dei candidati inseriti in graduatoria”.
Relativamente, quindi, al caso rappresentato, per quanto è dato desumere dalle notizie fornite, pare che al momento dell’indizione del concorso, avvenuta in data 02.05.2007, i posti in dotazione organica per il predetto profilo fossero 2, considerato che solo in data 09.04.2008 è intervenuta la modifica della dotazione organica che li ha portati a tre. Quindi, sembra di poter sostenere che già al momento dell’assunzione del primo e secondo classificato della graduatoria in esame, avvenute rispettivamente nell’agosto e nell’ottobre 2008, si è contravvenuto al limite stabilito dalla norma in commento, a nulla rilevando poi che, in quell’occasione, si sia effettivamente proceduto alla copertura di un solo posto, a causa della rinuncia all’assunzione comunicata dal primo classificato.
Alla luce di quanto sopra, nell’ipotesi di una nuova variazione della dotazione organica per i posti in discorso, eventualmente deliberata dall’attuale Amministrazione, si è dell’avviso che la predetta graduatoria, seppure efficace, non possa essere utilizzata. Si deve ritenere, infatti, che il vincolo stabilito dall’art. 91, comma 4 del D.Lgs. n. 267/2000 sia ancora pienamente valido e preponderante rispetto all’estensione della validità delle graduatorie  (Ministero dell'Interno, parere 29.05.2014 - link a http://incomune.interno.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative - Interpretazione art. 15 C.C.N.L. del 22.01.2004, e art. 53, comma 23, L. n. 388 del 23.12.2000.
Si fa riferimento ad una nota, con la quale un’Amministrazione ha chiesto dei chiarimenti in merito all’interpretazione della norma contrattuale prevista dall’art. 15 del C.C.N.L. del 22.1.2004, nonché relativamente alla disposizione di cui all’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388, ed in particolare:
- se il citato art. 15, che disciplina le posizioni organizzative apicali negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, sia applicabile a tutti gli enti locali ovvero si riferisca esclusivamente alle unioni di comuni e ai servizi attivati in convenzione;
- se detta nuova disposizione comporti l’automatica attribuzione della posizione organizzativa agli apicali di cat. D e C presenti nella varie aree dell’Ente, con relativa corresponsione delle previste indennità, oppure se sia necessario un atto formale di individuazione delle posizioni organizzative stesse, nonché il provvedimento sindacale per l’attribuzione delle funzioni di cui all’art. 107, commi 2 e 3, del d.lgs. 267/2000;
- se, alla luce del richiamato art. 15, sia ancora applicabile, per i comuni inferiori a tremila abitanti, la normativa di cui all’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 che consente di attribuire agli organi politici la responsabilità di uffici e di servizi con il conseguente potere di adottare atti di natura tecnico-gestionale.
Al riguardo, nell’evidenziare che l’art. 15 del C.C.N.L. del 22.01.2004 prevede testualmente che: “Negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del C.C.N.L. del 31.03.1999”, si rappresenta che detta disciplina ha come destinatari tutti gli enti del comparto delle regioni e delle autonomie locali che non abbiano personale con qualifica dirigenziale, così come specificato nella dichiarazione congiunta n. 12, allegata al contratto medesimo.
In merito al secondo quesito, occorre chiarire prima di tutto che ai sensi dell’art. 11 del c.c.n.l. del 31.03.1999 è possibile attribuire le posizioni organizzative al personale di categoria C solo nel caso in cui l’Ente sia sprovvisto di posti di categoria D, pertanto qualora risulti presente nella struttura organica di codesta Amministrazione anche un solo posto di categoria D, solo ad esso può farsi riferimento ai fini dell’attribuzione della posizione organizzativa.
Per quel che concerne la ratio della disposizione contrattuale di cui all’art. 15 del c.c.n.l. del 22.01.2004, si ritiene che la stessa non debba considerarsi volta al riconoscimento automatico della posizione organizzativa alle figure apicali presenti nella struttura dell’Ente, bensì, più propriamente, finalizzata a garantire l’attribuzione della posizione organizzativa (in base ai criteri di cui agli artt. 8 e seg. c.c.n.l. del 31.03.1999) a quei dipendenti di categoria D responsabili di servizio (o cat. C nei comuni privi di figure di cat. D), cui è stato attribuito, con atto formale, il conferimento dell’incarico allo svolgimento delle funzioni previste dall’art. 107, comma 2, del d.lgs. 267/2000, pertanto destinatari della peculiare funzione di adottare atti e provvedimenti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno.
L’art. 15 in commento peraltro, non interferisce con la disposizione di cui all’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 (come integrato dall’art. 29, comma 4, della legge 448/2001), talché gli enti locali continuano ad avere la facoltà di attribuire ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti di natura gestionale, in presenza dei seguenti presupposti: 1) avere una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, 2) non avere affidato le relative funzioni al segretario comunale ai sensi dell’art. 97, c. 4, lett. d), del d.lgs. 267/2000, 3) poter conseguire risparmi di spesa (Ministero dell'Interno, parere 27.05.2014 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto di accesso agli atti amministrativi da parte dei consiglieri comunali. – Fascicolo contribuenti. Richiesta chiarimenti.
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto esercizio del diritto di accesso agli atti riservato ai consiglieri comunali.
In particolare, il Responsabile del Servizio Tributi comunali del Comune ha chiesto se occorra dare seguito alla richiesta di un consigliere comunale di accedere ai fascicoli personali di 154 contribuenti fisici e giuridici -iscritti a ruolo per il tributo sui rifiuti Tarsu/Tares- che hanno ricevuto l’avviso di accertamento per omessa/infedele denuncia.
Al riguardo, si osserva che il diritto d’accesso agli atti amministrativi dell’ente locale è disciplinato dall’art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267 del 18.08.2000, il quale prevede in capo ai consiglieri comunali e provinciali il diritto di ottenere dagli uffici comunali tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato (ribadito anche dalla Commissione per l’Accesso ai Documenti Amministrativi, nel Plenum del 02.02.2010 e del 23.02.2010 e nel parere del 05.10.2010).
Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato (cfr. C.d.S. Sez. V. n. 929/2007), il diritto di accesso da parte del consigliere “non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’ente con l’unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente …” (limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste), restando ferma la “necessità di contemperare nel modo più ragionevole e adeguato possibile dette richieste, finalizzate all’espletamento del mandato, con le esigenze di funzionamento degli uffici” (C.d.S., Sezione V, del 17.09.2010, n. 6963).
Dal contenuto del citato art. 43 si desume il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia, più in generale, nei confronti della pubblica amministrazione, genericamente intesa, come disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del d.lgs. n. 165/2001) sancita per gli enti locali dall’art. 107 del T.U.O.E.L. n. 267/2000 che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato si è orientata nel senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti un’ampia prerogativa a ottenere informazioni, senza che possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in cui la richiesta riguardi l’esercizio del mandato istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza, secondo la quale, ai sensi del più volte richiamato art. 43, comma 2, i consiglieri comunali e provinciali “sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
In ogni caso, ad avviso di questa Direzione Centrale, appare necessaria una regolamentazione della materia da parte del Consiglio comunale nell’ambito anche degli strumenti di autorganizzazione dello stesso Consiglio.
Anche il TAR Toscana, Sez. I, con sentenza 11.11.2009, n. 1607 ha ritenuto opportuno sottolineare (concordando, in questo, con l'indicazione fornita dal Ministero dell'Interno in fattispecie analoghe) l'opportunità che l'ente locale, nell’ambito della propria autonomia, si doti, da un lato, di apposita regolamentazione, utile a disciplinare il corretto esercizio del diritto di accesso agli atti e alle informazioni sancito dall’art. 43, comma 2, del T.U.O.E.L., dall'altro, di strumenti organizzativi adeguati a soddisfare le esigenze connesse con l'esercizio del diritto in questione.
In merito alla specifica fattispecie segnalata, appare utile richiamare il parere in data 14.12.2010 con cui la Commissione per l’Accesso ai documenti amministrativi, ribadendo che “gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato”, ha riconosciuto il diritto ad accedere agli atti relativi al pagamento dei tributi (per le concessioni cimiteriali) in quanto le informazioni richieste attengono formalmente all’esercizio del mandato consiliare, essendo esse preordinate a verificare l’efficacia e l’imparzialità dell’azione amministrativa in un settore particolarmente nevralgico come quello dell'effettiva riscossione delle imposte comunali da parte dell'amministrazione competente e pertanto sono da ritenere accessibili dal consigliere comunale.
Su quanto precede si prega codesta Prefettura di fare analoga comunicazione all’Amministrazione comunale interessata (Ministero dell'Interno, parere 23.05.2014 - link a http://incomune.interno.it).

ENTI LOCALI: DISSESTO FINANZIARIO - MANCATO RENDICONTO E BILANCIO DI PREVISIONE - RICHIESTA PARERE ATTIVAZIONE INTERVENTI SOSTITUTIVI DEL PREFETTO. 
Oggetto: Comune di ... – dissesto finanziario – rendiconto 2012 e bilancio di previsione 2013. Richiesta parere attivazione interventi sostitutivi.
Si fa riferimento alla nota n. 16420 in data 01.04.2014, con la quale viene chiesto il parere di questo Dipartimento in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’avvio della procedura di scioglimento del consiglio comunale di …, ai sensi dell’art. 141 del TUOEL, a seguito della mancata approvazione del rendiconto di gestione 2012 e del bilancio 2013.
In ordine agli aspetti procedurali relativi alla mancata adozione del rendiconto nei termini di legge non si è ancora formato un definitivo orientamento giurisprudenziale che possa indirizzare l’operato dell’Amministrazione. Pur tuttavia, in relazione ad alcune pronunce relative a fattispecie inerenti adempimenti di natura finanziario contabile, si ritiene di dover rappresentare quanto segue.
Come è noto, l’inosservanza del termine per l’approvazione del rendiconto di gestione comporta l’applicazione delle misure sanzionatorie di cui all’art. 227 del decreto legislativo n. 267/2000, con il ricorso alla procedura di cui al comma 2 dell’art. 141, relativa alla mancata approvazione del bilancio.
Su tale materia è intervenuto il decreto legge n. 13/2002, convertito, con modificazioni dalla legge n. 75/2002 che ha attribuito al prefetto, in via transitoria, il controllo formale sugli atti contabili, in sostituzione dell’organo regionale di controllo, ai fini dell’eventuale intervento sostitutivo.
Il potere del prefetto, subordinato all’assenza di specifiche disposizioni statutarie, è stato prorogato con provvedimenti successivi, emanati annualmente.
La procedura in questione prevede l’assegnazione di un termine, non superiore a 20 giorni al consiglio comunale, per l’adozione della delibera di approvazione del rendiconto di gestione predisposto dalla giunta.
In caso di mancata approvazione dello schema da parte della giunta, il prefetto nomina un commissario ad acta che lo predispone d’ufficio, assegnando il termine all’organo consiliare, decorso inutilmente il quale si provvederà in via sostitutiva.
Verificatasi quest’ultima circostanza, il rendiconto verrà deliberato dal commissario ad acta e si avvierà la procedura di scioglimento del consiglio.
L’inerzia dell’ente sul fondamentale adempimento comporta, quindi, l’intervento sostitutivo da parte del prefetto.
Secondo il Consiglio di Stato, che si è espresso in materia di approvazione del bilancio, l’art. 1 del decreto legge n. 13/2002 citato “non collega all’inosservanza del termine alcuna immediata e concreta conseguenza dissolutoria, ma la semplice apertura di un procedimento sollecitatorio, che può bensì condurre all’adozione della grave misura dello scioglimento dell’organo, ma il cui presupposto non è la mera inosservanza del termine suddetto, bensì la constatata inadempienza ad un’intimazione puntuale ed ultimativa dell’organo competente, che attesta l’impossibilità, o la volontà del consiglio di non approvare il bilancio” (Consiglio di Stato, sez V, 19.02.2007, n. 826).
In tal senso, le norme che incidono sull’autonomia delle amministrazioni locali devono essere considerate di stretta interpretazione ed appaiono giustificate solo a fronte di gravi violazioni di legge (TAR Sicilia, 19.01.2006, n. 154).
Tale orientamento non appare innovato atteso che, anche recentemente, a fronte di una mancata inerzia dell’amministrazione comunale è stata esclusa la legittimità dell’intervento sostitutivo (TAR Campania, Sez. I, 10.07.2013, n. 2792; TAR Molise 27.02.2014, n. 163).
Nel caso di specie, il comune di … ha avviato l’iter per l’approvazione del rendiconto 2012 che, secondo le previsioni di cui al decreto ministeriale dell’08.10.2013, avrebbe dovuto essere concluso nel termine di 120 giorni dalla notifica di detto provvedimento e quindi entro il 21.03.2014.
A seguito della delibera della giunta, con l’osservanza dei tempi tecnici necessari per acquisire la relazione dei revisori e per consentire l’esame da parte dei consiglieri comunali dello schema, sono state fissate, per il 24 e il 25 aprile p.v., le due sedute dell’organo consiliare, in prima e seconda convocazione, per l’esame ed approvazione del conto consuntivo 2012.
Ciò premesso, pur non essendo configurabile una situazione di inerzia dell’amministrazione comunale, l’ente non ha rispettato i termini prescritti e, pertanto, il ricorso all’istituto della diffida non può che perseguire la finalità di richiamare l’attenzione dei consiglieri circa l’esigenza non procrastinabile ulteriormente dell’adempimento di legge di approvazione del rendiconto, non essendo, al momento, ipotizzabile il ricorso alla misura di cui all’art. 141 TUOEL.
Quanto all’adozione del bilancio previsionale del 2013, i relativi adempimenti non sono collegati alle misure richieste con il citato decreto ministeriale dell’08.10.2013, ben potendo il comune, preso atto della riconosciuta validità dei provvedimenti di risanamento adottati, approvare il documento contabile entro il termine del 30.11.2013, di cui all’art. 8 del decreto legge 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.10.2013, n. 124.
Si richiama a tal proposito l’art. 172 del TUOEL che include tra gli allegati del bilancio di previsione il rendiconto deliberato del penultimo esercizio antecedente quello cui si riferisce il bilancio di previsione stesso (quindi il rendiconto 2011, già approvato dal comune di ...).
Ciò premesso, per quanto riguarda tale ultimo aspetto, si ritiene che –previa diffida- debba essere avviata la procedura di cui all’art. 141, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, relativa alla mancata approvazione nei termini del bilancio (Ministero dell'Interno, parere 07.04.2014 - link a http://incomune.interno.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Albo pretorio on-line.
Si fa riferimento alla nota allegata in copia, con la quale il ..., residente nel Comune di …, ha formulato un quesito concernente la pubblicazione delle delibere di giunta comunale e le determinazioni adottate dai responsabili di settore.
Al riguardo, l’art. 32, comma 1, della legge 28.06.2009, n. 69, recante norme per l’eliminazione degli sprechi relativi al mantenimento di documenti in forma cartacea, dispone che “gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati”; il successivo comma 5 prevede, altresì, che a decorrere dall’01.01.2011 le pubblicità effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale”.
La disposizione in parola ha implicitamente modificato l’art. 124 del decreto legislativo n. 267/2000 nella parte in cui disponeva che la pubblicazione avvenisse “mediante affissione all’albo pretorio nella sede dell’ente …”, sostituita dalla pubblicazione sul sito istituzionale dell’ente, fermo restando il termine di 15 giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge.
Il legislatore è successivamente intervenuto con l’articolo 9, comma 5-bis, del decreto legge n. 179, del 18.10.2012, convertito dalla legge n. 221, del 17.12.2012, sostituendo espressamente le parole “affissione”, contenute nel citato articolo 124, con “pubblicazione”.
Il decreto legislativo n. 33, del 14.03.2013, disponendo il riordino della disciplina degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, ha rafforzato, in particolare, l’esigenza di pubblicità degli atti.
Si rileva, pertanto, che lo strumento informatico ha sostituito il tradizionale albo pretorio, rimanendo inalterati, sotto la nuova forma, gli obblighi di pubblicazione.
Peraltro, giova richiamare la sentenza n. 1370 del 15.03.2006, con la quale il Consiglio di Stato ha stabilito che “la pubblicazione all’albo pretorio del Comune è prescritta dall’art. 124 T.U. n. 267/2000 per tutte le deliberazioni del comune e della provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipale) ma anche le determinazioni dirigenziali”.
Anche il TAR Campania, Sezione I, con sentenza n. 3090/2012 del 28.06.2012 ha ritenuto che la pubblicazione all’albo pretorio del Comune è prescritta per tutte le deliberazioni del Comune e della Provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipale), ma anche le determinazioni dirigenziali, esprimendo la parola "deliberazione" "ab antiquo" sia risoluzioni adottate da organi collegiali che da organi monocratici con l'intento di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo emanante.
Sempre secondo il citato Tribunale Amministrativo, la pubblicazione nel caso in cui non si richieda una notifica individuale, vale di per sé ad integrare la piena conoscenza del provvedimento e il termine per impugnare le relative determinazioni decorre al più tardi dall'ultimo giorno della relativa pubblicazione.
Inoltre, si osserva che l’inclusione delle determinazioni tra gli atti soggetti all’obbligo di pubblicazione è stata sostenuta anche dall’Ente Nazionale per la Digitalizzazione della Pubblica Amministrazione - DIGIT PA, nelle “Linee guida per i siti web della Pubblica Amministrazione” ed in particolare nel “Vademecum sulle Modalità di pubblicazione dei documenti nell’albo on-line”, predisposto sulla base della direttiva n. 8 del 26.11.2009 del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione. In particolare è stato ritenuto che “… per gli enti locali …. l’attività dell’albo consiste nella pubblicazione di tutti quegli atti sui quali viene apposto il referto di pubblicazione”, includendo tra tali atti le deliberazioni ed altri provvedimenti comunali tra cui anche le determinazioni in argomento”.
Siffatte linee guida si aggiungono a quelle, adottate con deliberazione in data 19.04.2007, “in materia di trattamento dei dati personali per finalità di pubblicazione e diffusione di atti e documenti di enti locali” che, al punto 6, dedicano appositi chiarimenti sulla “pubblicità assicurata mediante pubblicazione all’albo pretorio”.
Pertanto, si ritiene che le deliberazioni dell’Ente, ivi comprese quelle di Giunta, e le determinazioni debbano essere rese leggibili integralmente nei termini di legge.
Si soggiunge, per completezza, che qualora emergano esigenze di riservatezza, gli atti devono essere pubblicati con i limiti prescritti dall’articolo 4 del citato decreto legislativo n. 33, del 14.03.2013 e con gli accorgimenti individuati dal Garante per la protezione dei dati personali.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione all’esponente (Ministero dell'Interno, parere 05.03.2014 - link a http://incomune.interno.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Una Amministrazione ha chiesto il parere circa la possibilità di accogliere la richiesta di un dipendente cat. B7 di essere inquadrato nella cat. C1 mediante lo scorrimento di una graduatoria relativa ad un procedura di selezione interna per progressione verticale indetta nel 2007 e tuttora vigente ai sensi dell’art. 4 del D.L. n. 101 convertito della legge n. 125.
Con riferimento ad una mail una Amministrazione ha chiesto il parere di questo Ufficio in ordine alla possibilità di accogliere la richiesta di un dipendente di cat. B7, di essere inquadrato nella cat. C1 mediante lo scorrimento di una graduatoria relativa ad una procedura di selezione interna per progressione verticale, indetta nel 2007 e tuttora vigente ai sensi dell’art. 4, del D.L. n. 101 convertito dalla legge n. 125, tenuto conto che: nella dotazione organica risultano vacanti posti di cat. C.; il predetto dipendente è risultato idoneo essendosi classificato al 2° posto; l’utilizzo della citata graduatoria non garantirebbe il rispetto del principio dell’adeguato accesso dall’esterno.
Al riguardo, si fa presente che il Dipartimento della Funzione Pubblica con circolare n. 5/2013, ha impartito direttive in merito all’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 4, del richiamato D.L. n. 101/2013.
Sull’utilizzo delle graduatorie per assunzioni a tempo indeterminato, il citato Dipartimento, al punto 3.1 di detta circolare, ha chiarito che resta fermo il principio affermato dall’art. 52, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 165/2001, come modificato ed integrato dall’art. 62 del D.Lgs. n. 150/2009, secondo il quale l’utilizzo delle graduatorie relative ai passaggi di area banditi anteriormente al 01.01.2010, in applicazione della previgente disciplina normativa, è consentito al solo fine di assumere i candidati vincitori e non anche gli idonei della procedura selettiva.
Ne consegue, quindi, che la proroga dell’efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici, disposta dal comma 4 dello stesso art. 4 del D.L. n. 101/2013 in commento, non può trovare applicazione per le graduatorie relative a concorsi riservati al solo personale interno.
Per quanto sopra, si ritiene che la richiesta del dipendente non possa trovare favorevole accoglimento (Ministero dell'Interno, parere 28.02.2014 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Sedute di Consiglio comunale - Registrazione audio-video da parte di un cittadino.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale codesta Prefettura ha chiesto un parere in ordine al diritto dei cittadini di filmare, per la conseguente diffusione, i lavori del Consiglio comunale.
In particolare, è stata rappresentata la questione inerente alle riprese video effettuate da un cittadino in costanza di un regolamento (successivamente modificato) il quale affidava al Presidente del Consiglio comunale il potere di autorizzare l’ingresso in Aula dei fotografi e dei teleoperatori e di emanare apposite direttive in merito -sentita la Conferenza dei presidenti di gruppo- e di decidere la diffusione radiofonica, televisiva e telematica dei lavori, sentendo sempre la citata Conferenza ed informando i consiglieri.
In merito, si osserva che ai sensi dell’art. 38, comma 7, del T.U.O.E.L., le sedute del consiglio comunale sono pubbliche, salvo i casi previsti dal regolamento. La disposizione va letta nel senso che, in linea generale, deve essere consentito al pubblico di assistere alle sedute consiliari dalle apposite postazioni riservate.
A fronte di detto principio, il successivo art. 39, comma 1, attribuisce al presidente del consiglio i poteri di direzione dei lavori e delle attività del consiglio, ove è compresa ogni facoltà strumentale alla garanzia del regolare svolgimento delle sedute ed a tutela delle prerogative dell’organo assembleare medesimo.
Peraltro, il consiglio, ai sensi del comma 3 del richiamato articolo 38, ha potestà di disciplinare, con apposite norme regolamentari, ogni aspetto attinente al funzionamento dell’assemblea.
E’, pertanto, nell’ambito delle norme interne all’ente locale, che dovrebbero rinvenirsi anche disposizioni sulla possibilità di registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all’attività di verbalizzazione del segretario comunale (art. 97, comma 4, lett. a, del T.U.O.E.L.) che da parte dei consiglieri comunali, nonché dei cittadini ammessi ad assistere alla seduta e degli organi di informazione radiotelevisiva.
In assenza di esplicita previsione regolamentare l’ammissione alla registrazione potrebbe essere regolata caso per caso dal presidente del consiglio proprio nell’esercizio dei richiamati poteri di direzione dei lavori dell’assemblea, in stretta correlazione alle esigenze di ordinato svolgimento dell’attività consiliare.
Tuttavia, occorre osservare che il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, con la sentenza n. 826/2010, ha negato il potere in parola in capo al Sindaco-Presidente del Consiglio Comunale il quale in carenza di apposita fonte regolamentare di competenza consiliare non può procedere ad estemporanei assensi alla videoregistrazione.
A margine di tale potere regolamentare e, nell’ambito del citato principio di pubblicità della seduta, l’amministrazione può legittimamente riservarsi il compito di registrazione con mezzi audiovisivi, anche escludendo che altri soggetti e il pubblico in aula possano procedervi. In questo senso, la pubblicità della seduta non implica la facoltà di registrazione ma la libera presenza di chi abbia interesse ad assistere alle sedute.
Tale posizione trova conforto nella giurisprudenza che non ha rilevato profili di illegittimità in un regolamento che poneva il divieto di introdurre nella sala del consiglio apparecchi di riproduzione audiovisiva, se non previa autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. I n. 5128/2001).
Di uguale tenore è la pronuncia n. 44094 del 17.03.2002 del Garante per la protezione dei dati personali nella quale si afferma la necessità di regolamentare la materia che scaturisce dall’obbligo di informare i partecipanti alla seduta dell’esistenza delle telecamere, della successiva diffusione delle immagini e degli altri elementi previsti dalla legge sulla tutela dei dati personali, o per impedire la diffusione di dati sensibili che riguardino le persone.
Sempre il Garante, con nota del 03.01.2008 ha riaffermato che l’ente, con apposita norma regolamentare, può porre limiti al regime di pubblicità degli atti e delle sedute del consiglio comunale. Tale regolamento può costituire fonte idonea a disciplinare i limiti e le modalità di pubblicità delle sedute consiliari, ivi compresi eventuali divieti di registrazione e di diffusione di immagini relative alle riunioni di consiglio da parte di terzi. Sono previsti, altresì, a carico dell’amministrazione, l’onere della preventiva informazione dei presenti in aula circa le riprese con le telecamere e l’individuazione delle ipotesi in cui eventualmente limitare le riprese stesse per assicurare la riservatezza dei soggetti presenti o oggetto del dibattito.
Peraltro, le limitazioni alle riprese potrebbero essere correlate anche alla mancata attivazione, da parte dell’amministrazione comunale di un autonomo sistema di registrazione, stante l’esigenza di escludere che l’unico supporto audiovisivo di documentazione dello svolgimento dei lavori consiliari resti nella disponibilità esclusiva di soggetti estranei all’amministrazione, fuori dalle necessarie garanzie di autenticità.
Pertanto, tenendo presente che la normativa tende ormai ad evolvere verso la più totale trasparenza della pubblica amministrazione (decreto legislativo 14.03.2013, n. 33), nel caso in esame, in presenza di apposita disciplina regolamentare, alla luce dei sopra delineati principi e al di fuori dei casi in cui il consiglio si riunisca in seduta riservata ai sensi statutari e delle norme regolamentari, è riservata al presidente del consiglio comunale la possibilità di valutare di volta in volta se ammettere la videoregistrazione, anche in relazione all’oggetto dei lavori previsti all’ordine del giorno per la specifica occasione (Ministero dell'Interno, parere 23.05.2014 - link a http://incomune.interno.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Ai “...fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale”, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo.
“Pertanto, ove tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione contrattuale delle componenti del trattamento economico, alla luce dei quali, nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio….”
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Nella stesura di un documento di pianificazione deve necessariamente attribuirsi “….alle specifiche professionalità del personale tecnico la elaborazione di una analisi che richiede una complessità superiore, frutto del necessario, imprescindibile apporto di una pluralità di professionalità”.
Va peraltro sottolineato che la redazione di un piano di lottizzazione e, in genere, di uno strumento di pianificazione urbanistica costituisce attività che richiede una competenza specifica in tale settore attraverso una visione di insieme e la capacità di affrontare e risolvere i problemi di carattere programmatorio.
Il Collegio, conclusivamente, ritiene che una volta valutato e verificato il collegamento tra l’attività di pianificazione e la successiva realizzazione dell’opera pubblica, i soggetti destinatari dell’incentivo di cui trattasi siano i dipendenti dell’ente, in possesso dei requisiti abilitanti (previsti dalla vigente normativa) per eseguire prestazioni professionali, seppur in quota parte, funzionali alla redazione dell’atto di pianificazione.
Dipendenti appositamente individuati ed incaricati dalla stessa amministrazione con specifico provvedimento, mentre tra i destinatari dell’incentivo non potrà essere tuttavia annoverato, a mente del citato art. 13 del D.L. 90/2014, il personale con qualifica dirigenziale, in ragione della onnicomprensività del relativo trattamento economico.

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Il Sindaco del Comune di Mirano, formula a questa Sezione una richiesta di parere, in merito all’applicazione dei compensi per atti di pianificazione ai sensi dell’art. 90, commi 1 e 4, e dell’art. 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006 ovvero sulla possibilità di erogare i compensi richiesti da alcuni dipendenti comunali per la redazione di atti di pianificazione urbanistica-PAT, tenuto conto:
- “della normativa prevista agli artt. 90 e 92 del D.Lgs. n. 163/2006;
- del parere della delibera n. 7 del 04.04.2014 della Corte dei Conti - Sezione Autonomie,
- che l'attività di pianificazione Urbanistica - PAT, oggetto della presente richiesta, è iniziata nell'anno 2011 ed è tuttora in corso, - che il Regolamento comunale sui compensi della progettazione interna di atti di pianificazione, approvato con delibera di C.C. n. 217 del 06.12.2007, era antecedente alle pronunce della Corte dei Conti
” e facendo “inoltre presente che il Piano di Assetto del Territorio (PAT) è lo strumento di pianificazione generale che individua preventivamente gli interventi manutentivi e di realizzazione di nuove opere pubbliche sul territorio che l'Amministrazione Comunale intenderà attuare. Inoltre chiede “se, in tal senso, il PAT è da intendersi come strumento di pianificazione finalizzato alla realizzazione delle medesime opere pubbliche”.
...
Venendo al merito, con il primo quesito il sindaco di Mirano chiede se “il PAT è da intendersi come strumento di pianificazione finalizzato alla realizzazione delle medesime opere pubbliche" o possa rientrare nel novero degli atti di pianificazione comunque denominati previsti dalla norma di cui all’articolo 92, comma 6, del Codice appalti, atteso che è lo strumento di pianificazione generale che individua preventivamente gli interventi manutentivi e di realizzazione di nuove opere pubbliche sul territorio che l'Amministrazione Comunale intenderà attuare.
La disposizione citata prevede espressamente che “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
In questa sede giova evidenziare che la Sezione, con il proprio parere 26.07.2011 n. 337, nel dare risposta ad un quesito sempre vertente sulla possibilità di corresponsione del corrispettivo di cui trattasi in caso di pianificazione urbanistica generale, aveva proceduto ad una attenta ricostruzione dell’istituto contemplato dal richiamato comma 6. Si affermava, in detto parere che la pianificazione urbanistica implica una complessa partecipazione multispecialistica che porta ad allargare necessariamente le figure professionali coinvolte (oltre a ingegneri, architetti, urbanisti non possono mancare geologi, economisti, esperti di mobilità e infrastrutture, ecc.).
La questione del rapporto tra la pianificazione comunque denominata e l’attività di pianificazione contemplata nell’articolo 92, comma 6, ha trovato, invece, approfondimento nel recente
parere 22.11.2013 n. 361 della Sezione nella quale, tra l’altro e per quello che qui interessa, si richiama anche la posizione assunta dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (AVCP) nell'atto di segnalazione 25.09.2013 n. 4 sul significato che deve assumere la dizione letterale “atto di pianificazione comunque denominato” utilizzata dal legislatore nel richiamato comma 6.
In detto Atto si sottolineava come “….l’applicazione della norma è particolarmente ampia al punto che possano essere ritenuti assoggettati alla categoria di “atti di pianificazione comunque denominati” i piani di lottizzazione, i piani per insediamenti produttivi, i piani di zona, i piani particolareggiati, i piani regolatori, i piani urbani del traffico, e tutti quegli atti aventi contenuto normativo e connessi alla pianificazione, quali i regolamenti edilizi, le convenzioni, purché completi per essere approvati dagli organi competenti, ribadendo la considerazione, svolta nelle citate note precedenti, che “tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano" (l’Autorità a tal fine richiamava anche le seguenti pronunce rese in precedenza:
la determinazione 25.09.2000 n. 43, la deliberazione 13.06.2000 ed il parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10 e parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12).
Il Collegio, in relazione al quesito posto dal Sindaco del comune di Mirano ed alla luce di quanto evidenziato nei richiamati pareri della Sezione (ai contenuto dei quali si rinvia) e nell’Atto di segnalazione n. 47/2013 dell’Autorità citato, ritiene che il redigendo Piano di Assetto del Territorio (PAT) è lo strumento di pianificazione generale che individua preventivamente gli interventi manutentivi e di realizzazione di nuove opere pubbliche sul territorio che l'Amministrazione Comunale intenderà attuare, assumendo valenza pianificatoria nel senso sopra richiamato, e possa ben essere ritenuto quale “atto di pianificazione comunque denominato”.
Il quesito proposto presuppone altresì la questione sulla spettanza dell’incentivo in oggetto nelle ipotesi di pianificazione “comunque denominata”.
Sul punto, giova richiamare la posizione interpretativa già assunta dalla Sezione con proprio
parere 22.11.2013 n. 361 sopra richiamato.
In tale sede, questa Sezione, sul tema specifico relativo alla possibilità offerta agli enti pubblici appaltanti dall’articolo 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006, di corrispondere quale incentivo il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato ai dipendenti che lo abbiano redatto (con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento in materia approvato dall’Amministrazione), aveva riconosciuto tale possibilità indipendentemente dal collegamento dell’attività di pianificazione alla successiva realizzazione di un opera pubblica.
Il Collegio, affermando dapprima che le mansioni di pianificazione generali richiedono una attività multidisciplinare che non potrebbe trovare deroga alcuna attese le tassatività delle competenze professionali stabilite dalla legge, conclusivamente aveva ritenuto che la stessa modalità di commisurazione del compenso (collegato ad una percentuale delle tariffe professionali e fissato dalla norma in modo sensibilmente diverso rispetto a quello stabilito per l’attività di progettazione dell’opera pubblica ove la commisurazione è legata ad una percentuale del valore dell’opera), sia indice dell’intenzione del legislatore di attribuire la giusta retribuzione all’attività di pianificazione, anche mediata, a prescindere dal suo collegamento con un’opera pubblica.
Tale posizione interpretativa, peraltro, consentiva di attribuire piena effettività all’operatività della norma in oggetto anche in considerazione del fatto che non necessariamente all’attività di pianificazione consegue nell’immediatezza una successiva attività di progettazione prima e realizzazione poi, di un opera pubblica. L’assenza di detti ultimi elementi renderebbe di fatto non operativa la disposizione di cui trattasi nei casi, tutt’altro che rari, di pianificazione generale ove la realizzazione dell’opera pubblica può essere assente o procrastinata nel tempo.
Sulla questione oggetto del parere di cui trattasi, si sono espresse altre Sezioni regionali di controllo che hanno assunto divergenti posizioni interpretative in considerazione del fatto che la disposizione in oggetto –riferendosi alle amministrazioni aggiudicatrici– avrebbe ristretto la corresponsione dell’incentivo alle sole ipotesi di pianificazione urbanistica direttamente collegata alla realizzazione di opere pubbliche.
La Sezione di controllo della Liguria, alla luce degli emersi contrasti interpretativi sollevava questione interpretativa davanti alla Sezione delle Autonomie ai sensi dell’articolo 6, comma 4, del D.L. 10.10.2012, n. 174. La sezione ligure, infatti, con l
parere 21.01.2014 n. 6, rimetteva al Presidente della Corte dei conti per il successivo deferimento alla Sezione delle Autonomie una questione di massima in relazione a cosa debba intendersi per “atti di pianificazione comunque denominati”: dizione, quest’ultima, contenuta nel citato comma 6, dell’art. 92 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
In particolare si dibatteva se la stessa dizione dovesse essere intesa nel senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussista solo nel caso in cui l’atto medesimo sia collegato direttamente ed in modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero se l’anzidetto diritto si configuri anche nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione generale (quali ad esempio la redazione di un piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una variante), ancorché non puntualmente connessi alla realizzazione di un’opera pubblica.
La Sezione delle Autonomie, con propria
deliberazione 15.04.2014 n. 7 di orientamento, dopo aver ricostruito le diverse e contrastanti posizioni interpretative delle varie Sezioni regionali ha preliminarmente affermato che le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 “…..esprimono, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale e, pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego; il cui sistema retributivo è basato sui due principi cardine di onnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nonché di definizione contrattuale delle componenti economiche, fissato dal successivo art. 45, comma 1. Principi alla luce dei quali nulla è dovuto oltre il trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio….”.
Nel prosieguo, la Sezione delle Autonomie ha poi ritenuto che
il legislatore “……con le disposizioni in esame, ha voluto riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando agli anzidetti principi. In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92 ai commi 5 e 6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato, da ripartire fra i dipendenti dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto, entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche. La norma deve essere considerata, dunque, norma di stretta interpretazione, non suscettibile di applicazione in via analogica, alla luce del divieto posto dall’art.14 delle disposizioni preliminari al codice civile, e neppure appare possibile una lettura della definizione in essa contenuta che attribuisca alla volontà del legislatore quanto dallo stesso non esplicitato (lex minus dixit quam voluit)”.
In relazione a quanto sopra richiamato, i giudici della nomofilachia hanno conclusivamente ritenuto che
ai “…...fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale”, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo. “Pertanto, ove tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione contrattuale delle componenti del trattamento economico, alla luce dei quali, nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio…..
Un siffatto principio, di natura assolutamente cogente e valevole per tutte le fattispecie regolate dalla norma in questione, affermato anche nella citato
parere 22.11.2013 n. 361 di questa Sezione, è stato vieppiù corroborato dalla espressa previsione contenuta nell’art. 13 del D.L. 90/2014, rubricato “Incentivi per la progettazione” che all’articolo 92 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, aggiunge dopo il comma 6 il seguente comma 6-bis: "In ragione della onnicomprensività del relativo trattamento economico, al personale con qualifica dirigenziale non possono essere corrisposte somme in base alle disposizioni di cui ai commi 5 e 6.".
E, come sottolineato dalla citato
parere 22.11.2013 n. 361 di questa Sezione, la materia è demandata alle leggi ed ai contratti collettivi nazionali, non derogabile a livello di regolamento del singolo ente locale, che anzi dovrà sottostare ai principi enunciati in chiave nomofilattica dalla deliberazione 15.04.2014 n. 7 Sez. Aut. citata, in relazione all’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213.
Alla luce di quanto sopra evidenziato
deve essere affrontata, dunque, la questione interpretativa implicitamente posta dal quesito in merito all’ampiezza della platea dei destinatari dell’incentivo di cui alla norma in oggetto.
A tal fine, come si è accennato, l’amministrazione dovrà preliminarmente (tenendo in debita evidenza il principio interpretativo affermato dalla Sezione centrale), verificare se il “contenuto specifico” del Piano di Assetto del Territorio (PAT), sia “strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica”, in quanto strumento di pianificazione generale che individua preventivamente gli interventi manutentivi e di realizzazione di nuove opere pubbliche sul territorio che l'Amministrazione Comunale intenderà attuare, e sia caratterizzato da “quel quid pluris di progettualità interna”.
Una volta che l’amministrazione (la sola che detiene le informazioni utili per detto accertamento), avrà confermato l’esistenza di detto necessario presupposto legittimante l’attribuzione dell’incentivo, si tratterebbe di verificare l’ampiezza del novero dei destinatari dello stesso. Ciò, in quanto il riferimento è ad una potenziale platea variegata di dipendenti dell’ente (urbanisti, avvocati, agronomi, geologi, informatici, geometri, periti, disegnatori) che, a diverso titolo e con diversi apporti professionali, potrebbero contribuire alla redazione dell’atto di pianificazione cui si riferisce il comune di Mirano.
Proprio richiamando il dato testuale dell’articolo 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006 emerge chiaramente come la platea dei destinatari dell’incentivo (incentivo da ripartire con criteri e modalità fissati ex ante da apposito strumento regolamentare), possa essere ampia –con l’espressa eccezione contenuta nel comma 6-bis- atteso che vi si annoverano “….i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto…”.
Sul punto, tuttavia, in relazione all’esigenza di fissare criteri idonei atti ad individuare detti dipendenti, appare necessario preliminarmente richiamare il già citato
parere 22.11.2013 n. 361 di questa Sezione laddove si è affermato che nella stesura di un documento di pianificazione debba necessariamente attribuirsi “….alle specifiche professionalità del personale tecnico la elaborazione di una analisi che richiede una complessità superiore, frutto del necessario, imprescindibile apporto di una pluralità di professionalità”.
Va peraltro sottolineato che, secondo la prevalente giurisprudenza (cfr. TAR Brescia, sez. I, 29.10.2008 n. 1466, Cons. St. Sez. IV 03.09.2001 n. 4620)
la redazione di un piano di lottizzazione e, in genere, di uno strumento di pianificazione urbanistica costituisce attività che richiede una competenza specifica in tale settore attraverso una visione di insieme e la capacità di affrontare e risolvere i problemi di carattere programmatorio.
Il Collegio, conclusivamente, ritiene che
una volta valutato e verificato il collegamento tra l’attività di pianificazione e la successiva realizzazione dell’opera pubblica, i soggetti destinatari dell’incentivo di cui trattasi siano i dipendenti dell’ente, in possesso dei requisiti abilitanti (previsti dalla vigente normativa) per eseguire prestazioni professionali, seppur in quota parte, funzionali alla redazione dell’atto di pianificazione.
Dipendenti appositamente individuati ed incaricati dalla stessa amministrazione con specifico provvedimento, mentre tra i destinatari dell’incentivo non potrà essere tuttavia annoverato, a mente del citato art. 13 del D.L. 90/2014, il personale con qualifica dirigenziale, in ragione della onnicomprensività del relativo trattamento economico
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 24.07.2014 n. 403).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di precisare come, nel caso della progettazione interna, la prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae", risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego", nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale, vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
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I punti fermi che il regolamento interno (per la disciplina dell'incentivo) deve rispettare paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;

- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito.
Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione.
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La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti
”.
Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, la norma, adotta la medesima regola della devoluzione in economia, prevista per il caso di attività eseguita da professionisti esterni.
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Circa il corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte
, a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente”.
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L’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs. 163/2006, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali.

In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Salva la discrezionalità dell’amministrazione richiedente nel determinare le scelte nel caso ipotizzato alla luce dei principi sopra declinati, il collegio osserva che
la mera redazione di un progetto preliminare senza che si sia ottenuto il finanziamento per appaltare l’opera pubblica e in carenza di qualsivoglia titolo giuridico per l’impegno della spesa di progettazione, non appare idonea a consentire la corresponsione del compenso incentivante ai sensi dell’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006.

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Il sindaco del comune di Mezzanino (PV), mediante nota n. 961 del 15.05.2014, ha posto un quesito in merito alla corretta interpretazione dell’art. 95, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 .
Il sindaco riferisce che il comune, con deliberazione di giunta comunale n. 16 del 22.10.2013 ha approvato il progetto preliminare per la realizzazione di una scuola dell'infanzia, finalizzato alla partecipazione del bando "6000 campanili" (di cui all'articolo 18, comma 9, del DL 69/2013, convertito con modificazioni dalla legge 09.08.2013, n. 98), dando atto che alla spesa necessaria per la realizzazione dei lavori “si farà fronte con le risorse rese disponibili dal Programma 6000 Campanili”. Pertanto, non è stato assunto alcun impegno di spesa.
Il responsabile dell'area tecnica comunale (dipendente a tempo indeterminato e titolare di posizione organizzativa) è stato nominato RUP e ha predisposto il progetto preliminare dell'opera.
Il comune di Mezzanino, all'esito del bando, non è risultato utilmente collocato in graduatoria e pertanto non ha avuto accesso alle risorse messe a disposizione dal citato programma “6000 campanili”. In mancanza dell'integrale finanziamento previsto, non è stata avviata alcuna procedura per l'appalto e la realizzazione dell'opera.
Il responsabile dell'area tecnica ha richiesto la liquidazione dell'incentivo di cui all'art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 in relazione alla attività svolta in qualità di RUP di progettista interno.
Ciò premesso il sindaco chiede se sia legittima la corresponsione del compenso richiesto, anche in considerazione dei seguenti aspetti:
le risorse destinate all'incentivo ex art. 92, c. 5, sono previste nel quadro economico dell'opera;
l'opera è risultata non finanziata (mancato accesso ai fondi del programma 6000 campanili);
conseguentemente, non è stato possibile indire la procedura di appalto;
non risulta alcun impegno di spesa per la liquidazione dell'incentivo;
in caso di dovuta liquidazione dell'incentivo si configurerebbe un debito fuori bilancio.
...
Con riferimento ai quesiti posti nel presente interpello, il collegio evidenzia la sussistenza di un consolidato orientamento consultivo, che può essere sintetizzato nelle argomentazioni del precedente parere 24.10.2012 n. 452 SRC Lombardia, in relazione alla quale non si rilevano motivi idonei a mutarne le conclusioni.
Si riporta in sintesi la citata deliberazione: “
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di precisare come, nel caso della progettazione interna, la prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae", risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386), nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale, vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
Come evincibile dalla lettera del comma,
la legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;

- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008).
Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, deliberazione 13.12.2007 n. 315
, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alla deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 in base al quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, nella formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1 del d.l. n. 162/2008, dispone che “
la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, la norma, adotta la medesima regola della devoluzione in economia, prevista per il caso di attività eseguita da professionisti esterni (in proposito l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha affermato, nella Deliberazione n. 69 del 22/06/2005, emessa nel previgente similare contesto normativo, che l’incentivo assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti che abbiano in concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali. Pertanto, la previsione, da parte di un regolamento interno, della corresponsione anche nell’ipotesi di progettazione nella sostanza redatta da professionisti esterni, risulta in contrasto con la ratio della disposizione legislativa, concretando un’ipotesi di duplicazione di spesa).
Per quanto concerne la prospettata questione
circa il corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr. parere 30.08.2012 n. 290), a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione),
si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente (in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia, parere 30.05.2012 n. 259, parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che
l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs. 163/2006, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Salva la discrezionalità dell’amministrazione richiedente nel determinare le scelte nel caso ipotizzato alla luce dei principi sopra declinati, il collegio osserva che
la mera redazione di un progetto preliminare senza che si sia ottenuto il finanziamento per appaltare l’opera pubblica e in carenza di qualsivoglia titolo giuridico per l’impegno della spesa di progettazione, non appare idonea a consentire la corresponsione del compenso incentivante ai sensi dell’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 15.07.2014 n. 220).

ENTI LOCALI: Sull'erogazioni di contributi da parte dei comuni.
In base alle norme e ai principi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo”.
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Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, le cautele debbono essere maggiori, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa.
Il finanziamento concesso a privati, in particolare, deve essere tale da non incorrere nel divieto di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del decreto legge 31.05.2010, n. 78.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione è la relativa funzione: la spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine.
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che (direttamente) da parte di Comuni e Province costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere indicato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione è inoltre tenuta ad evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio.
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare conforme al principio di congruità della spesa mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale.

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Con la nota sopra citata, a firma del vicesindaco del comune di Asso (CO), si formulano i quesiti di seguito riportati.
- la Parrocchia, tramite l'Oratorio, intende organizzare un campo estivo da svolgere durante la chiusura delle scuole a favore di minori e di giovani.
Si chiede se è possibile erogare contributi comunali e di quale entità a supporto delle spese che la stessa deve sostenere per tale iniziativa, in considerazione della funzione educativa e sociale svolta dalla Parrocchia
(tra l'altro riconosciuta dalla Legge Regionale 23.11.2001 n. 22).
- il Dirigente Scolastico dell'Istituto Comprensivo di Asso ha manifestato la necessità di svolgere il servizio dopo-scuola a favore di bambini e ragazzi.
Si chiede se il Comune può finanziare direttamente tale iniziativa nell'ambito del Piano Diritto allo Studio, affidando l'incarico alla Caritas local
e.
...
L’esame del merito della questione, nei termini sopra riferiti, richiede quindi di stabilire se ed entro quali limiti un Comune possa finanziare soggetti privati per lo svolgimento di determinate attività.
Si richiama, al riguardo, il consolidato orientamento emergente dai pareri emessi sul punto da questa Sezione (deliberazioni n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012) nei quali è stato precisato che,
in base alle norme e ai principi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 262/2012/PAR).
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che la svolge e, in quanto tale, riceve il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata.
Si consideri anche, sotto questo profilo, che l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, le cautele debbono essere maggiori, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa.
Il finanziamento concesso a privati, in particolare, deve essere tale da non incorrere nel divieto di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del decreto legge 31.05.2010, n. 78.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione è la relativa funzione: la spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 23.12.2010 n. 1075).
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che (direttamente) da parte di Comuni e Province costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere indicato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione è inoltre tenuta ad evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio.
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare conforme al principio di congruità della spesa mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale.

Il Comune potrà avvalersi delle predette indicazioni per l’adozione degli atti di esclusiva competenza rispetto alle fattispecie concrete descritte nella richiesta di parere (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 15.07.2014 n. 218).

ENTI LOCALI - PATRIMONIO: Chiarimenti sulla disciplina del riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
Il procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano dell’adempimento.
Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura
(procedura ex art. 194 TUEL).
La funzione di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
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Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare impegno
(amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile ai sensi dell’art. 191 TUEL).
Proprio perché le passività pregresse si pongono all’interno di una regolare procedura di spesa, esulano dalla fenomenologia del debito fuori bilancio e costituiscono, invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile all’esercizio di loro manifestazione.
In tali casi, lo strumento procedimentale di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
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Quando nell’anno di competenza finanziaria non è stata attivata la procedura di spesa ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi eccezionali ivi tipicamente indicati.
Nel caso di specie, invece, risulta evidente che il debito in questione, è, per competenza finanziaria, riferibile solo all’anno delle liquidazione degli importi.
Anche in considerazione del dato che detta posta non rientra tra i casi tassativamente elencati di riconoscimento fuori bilancio, quindi, nel caso di specie, non paiono sussistere i requisiti per il ricorso a tale procedura, atteso che il comune ben poteva, e potrà, procedere a stanziare le somme necessarie nella programmazione finanziaria di propria competenza per il periodo interessato.

Resta invece salva la facoltà di un riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dal comune a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di responsabilità connessi a esborsi illegittimi.
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Il sindaco del comune in epigrafe richiede chiarimenti sulla disciplina del riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
In particolare, espone che il comune, con atto consiliare, ha approvato una convenzione per la cessione in proprietà di un suolo da sistemare ad area verde e parcheggi; successivamente la suddetta convenzione è stata sottoscritta dalle parti.
Nella succitata convenzione era previsto l’impegno del comune a versare ai proprietari la somma dell’area la somma di euro 40.000, a seguito del collaudo finale delle opere.
Successivamente, i proprietari hanno eseguito le opere, come da convenzione, e hanno comunicato l’intendimento di cederle al comune previo pagamento del corrispettivo; tuttavia è stato accertato che all’epoca nessuno stanziamento era stato predisposto.
Il comune chiede quindi se possa procedere legittimamente al riconoscimento del debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del T.U. n. 267/2000 e procedere al pagamento di quanto convenuto.
...
La Sezione ha già avuto modo in diverse occasioni di occuparsi della tematica dei debiti fuori bilancio (da ultimo
parere 22.07.2013 n. 339; e parere 05.02.2014 n. 41) con considerazioni da cui non sussiste motivo per discostarsi.
Si deve ricordare che,
il procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano dell’adempimento. Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura (procedura ex art. 194 TUEL). La funzione di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
Al fine di evitare l’insorgere di situazioni debitorie non assistite dai relativi impegni, il legislatore ha previsto che solo in alcuni casi tassativi tali debiti possano essere riconosciuti, attraverso il procedimento di riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio; ciò è infatti possibile solo qualora tali debiti derivino da: “a) sentenze esecutive; b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l’obbligo di pareggio del bilancio di cui all’articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione; c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali; d) procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza” (art. 194, comma 1, lett. a)-e), Tuel)”.
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare impegno (amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile ai sensi dell’art. 191 TUEL). Proprio perché le passività pregresse si pongono all’interno di una regolare procedura di spesa, esulano dalla fenomenologia del debito fuori bilancio (cfr., in proposito, la recente deliberazione di questa Sezione in merito al caso delle prestazioni professionali, n. 441/2012/PAR) e costituiscono, invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile all’esercizio di loro manifestazione.
In tali casi, lo strumento procedimentale di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
Tanto premesso circa la funzione e l’effetto della procedura di riconoscimento e alla distinzione della fenomenologia delle passività pregresse e dei debiti fuori bilancio, per rispondere al quesito qui posto è opportuno rammentare i criteri attraverso cui, in contabilità finanziaria, i debiti assumono rilevanza e vanno imputati ai bilanci degli enti pubblici.
In base al principio dell’annualità, i documenti di bilancio devono rappresentare, a cadenza annuale, fatti che finanziariamente si riferiscano ad un periodo di gestione coincidente con l’esercizio finanziario, in modo che siano rese evidenti tutte le poste di entrata e di spesa che afferiscono in termini sostanziali al corso dell’anno di riferimento. Solo così il bilancio potrà servire correttamente alla sua funzionalità di controllo, sia in chiave autorizzatoria (bilancio di previsione) che ispettiva (rendiconto).
Si deve rammentare, infatti, che in contabilità finanziaria, un debito rileva nella misura in cui esso è certo, liquido e esigibile. Detto in altri termini, è assai frequente che vi sia un disallineamento tra esistenza giuridica e rilevanza contabile di un debito. Un debito, infatti, assume rilevanza contabile solo se sono venute a maturazione tutte le condizioni per il suo adempimento pecuniario, in particolare se il debito è “certo” (non contestato nell’an e/o nel quantum), liquidato o di pronta liquidazione (cioè è stato determinato nel suo ammontare) ed è esigibile (scadenza del termine). Solo la concorrenza di queste condizioni radica la “competenza finanziaria”.
In presenza di tali condizioni è possibile attivare dell’ordinaria procedura di spesa (adozione del provvedimento amministrativo; assunzione dell’impegno di spesa; presenza e attestazione della copertura finanziaria; cfr. l’art. 191 T.U.E.L.), nei limiti degli stanziamenti autorizzati. Tale procedura di spesa consente non solo di dare rilevanza nel bilancio al debito, ma costituisce il titolo per l’imputazione istituzionale del debito.
Ciò comporta, altresì, che il tempo dell’esistenza giuridica di una posta passiva, della manifestazione finanziaria (competenza finanziaria) e quello della competenza economica tendono a disallinearsi, vale a dire l’imputazione temporale di un costo è di norma diversa da quella che caratterizza l’esigibilità del credito da parte del creditore.
La competenza finanziaria, infatti, va tenuta radicalmente distinta dalla competenza economica, secondo cui un debito non è rilevante in base alla sua dimensione di “spesa” (cioè l’essersi un debito manifestato finanziariamente, in quanto liquidabile ed esigibile) ma di “costo” (debito, anche di valore e non solo di valuta, sostenuto per l’acquisto dei fattori produttivi che hanno sostenuto il ciclo annuale di produzione). Detto in altri termini, a livello contabile, un debito può avere una competenza annuale (economica) disallineata rispetto alla sua manifestazione finanziaria (competenza finanziaria), che può essere anteriore o successiva.
Tanto premesso,
quando nell’anno di competenza finanziaria non è stata attivata la procedura di spesa ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi eccezionali ivi tipicamente indicati.
Nel caso di specie, invece, risulta evidente che il debito in questione, è, per competenza finanziaria, riferibile solo all’anno delle liquidazione degli importi.
Anche in considerazione del dato che detta posta non rientra tra i casi tassativamente elencati di riconoscimento fuori bilancio, quindi, nel caso di specie, non paiono sussistere i requisiti per il ricorso a tale procedura, atteso che il comune ben poteva, e potrà, procedere a stanziare le somme necessarie nella programmazione finanziaria di propria competenza per il periodo interessato.

Resta invece salva la facoltà di un riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dal comune a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di responsabilità connessi a esborsi illegittimi (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 15.07.2014 n. 212).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIIl quesito posto dal comune volto a conoscere se, stante l’obbligo previsto (all’atto della formulazione della richiesta di parere) dall’articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, del ricorso ad una unica centrale di committenza, la stessa centrale (qualora costituita mediante accordo convenzionale, ai sensi dell’articolo 30 del “d.p.r. 267/2000”) potesse comunque far riferimento ad altri mercati elettronici presenti nell’ambito della pubblica amministrazione, senza costituirne uno proprio sembra, ad oggi, avere trovato risposta attraverso la nuova formulazione del comma 3-bis del sopra citato articolo 33, come sostituito dall’articolo 9, comma 4, d.l. 66/2014, convertito dalla l. n. 89 del 23.06.2014), il quale non prevede più l’esclusivo affidamento ad una unica centrale di committenza, da costituirsi obbligatoriamente tra i comuni fino a cinquemila abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna provincia, potendo gli enti in oggetto, pur continuando a procedere all’acquisizione nell’ambito delle unioni di comuni di cui all’articolo 32 del TUEL, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, anche ricorrere ad altro soggetto aggregatore o alle province stesse, ai sensi della l. 07.04.2014 n. 56, ferma restando l’alternativa dell’acquisizione di beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento (che, con questa ultima formulazione della norma, sono individuati negli “strumenti elettronici gestiti da Consip spa o da altro soggetto aggregatore di riferimento”).
Ciò che, in definitiva, sembra emergere dalla novella legislativa ad ancor più chiare lettere,
è la rafforzata esigenza di tutela delle pubbliche risorse, che ogni ente deve poter perseguire, anche attraverso forme di acquisizione di beni e servizi basate su gestioni che rispettino il più possibile il miglior rapporto prezzo-qualità, attuate attraverso l’ampia gamma di possibilità poste a loro disposizione dalla legge per la gestione dei propri contratti.

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Il Sindaco del comune di Atena Lucana chiede a questa Corte un parere in merito alle esatte modalità di applicazione dell’articolo 33, comma 3-bis, del decreto legislativo 163/2006 (codice degli appalti), nei termini che seguono.
Il Comune istante, considerando che l’articolo sopracitato obbliga i comuni con popolazione inferiore ai cinquemila abitanti, ai fini dell’acquisto di beni e servizi, al ricorso a una centrale di committenza, chiede se la stessa, costituita mediante accordo convenzionale “ai sensi dell’articolo 30 del d.p.r. n. 267/2000”, laddove non voglia realizzare ad hoc un proprio mercato elettronico, possa far riferimento al mercato elettronico MEPA (mercato elettronico della pubblica amministrazione), gestito da Consip o ad altri mercati elettronici realizzati da altre centrali di committenza, istituite da altri enti pubblici territoriali o organismi di diritto pubblico, possibilità prevista dalla norma quale alternativa alla costituzione di una centrale di committenza specificamente dedicata.
...
La richiesta di parere in esame (formulata dall’ente in data 12.03.2014) si pone a valle delle numerose modifiche, fino ad allora apportate all’art. 33 del d.lgs. n. 163/2006 ad opera di susseguenti interventi legislativi dei quali si intende, di seguito, dare conto.
Il comma 3-bis è stato inserito nell’art. 33 del d.lgs. 163/2006 ai sensi dell’art. 23, comma 4 e 5, del d.l. 06.12.2011 n. 201, convertito con modificazioni nella legge 22.12.2011, n. 214, nell’ambito di un complessivo programma (poi proseguito con le statuizioni previste dall’articolo 1, comma 4, del d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito dalla l. 07.08.2012 n. 135, e dall’articolo 1, comma 343, della l. 27.12.2013, n. 147), volto, tra l’altro, alla riduzione della spesa e dei costi degli apparati pubblici.
La novella del 2011 introduce un regime speciale per gli acquisti di lavori, servizi e forniture da parte dei Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti (quale quello di Atena Lucana), a norma del quale i suddetti enti “... ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture nell’ambito delle unioni dei comuni, di cui all’articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici”.
La ratio sottesa al disposto in questione, come emerge dalla relativa relazione tecnica, è “limitare l’elevata frammentazione del sistema degli appalti pubblici e la concentrazione delle procedure di evidenza pubblica, al fine di ridurre i costi di gestione delle procedure e di far ottenere risparmi di spesa, quantificabili a consuntivo, per le conseguenti economie di scala”.
Il comma 5 dell’art. 23 del D.L. 201/2011 aveva originariamente previsto che il comma 3-bis della norma in questione, si applicasse alle “gare bandite” successivamente al 31.03.2012. Detto termine è stato da ultimo posticipato al 30.06.2014 (cfr. d.l. 30.12.2013 n. 150, convertito con modificazioni dalla l. 27.02.2014, n. 15).
Nel 2012, il legislatore, con il d.l. 95/2012 (“spending review”) ha ulteriormente inciso su tale disposto, concedendo ai suddetti comuni la possibilità di adempiere all’obbligo di acquisto centralizzato ricorrendo anche agli “strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 e il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328 del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207”.
Nel 2013, con la legge di stabilità 2014 (l. 27.12.2013 n. 147, art. 1, comma 343), anche in considerazione dei dubbi sorti in merito alla latitudine applicativa del complesso di norme in questione, ne sono stati chiariti i connotati precettivi,
stabilendo che il regime di acquisto centralizzato prescritto ai sensi del comma 3-bis non si applica nel caso di acquisti in economia, mediante amministrazione diretta e nei casi di affidamento diretto di cui ai commi 8, seconda parte e 11, seconda parte dell’art. 125 del d.lgs. 163/2006.
Appare utile ricordare in che modo la disciplina sopra descritta si integri con le coesistenti norme, previste e più volte variate da interventi legislativi, in materia di acquisto di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni, norme tutte volte, a partire dalla citata l. 488/1999 (art. 26), alla centralizzazione degli acquisti in vista della riduzione dei costi della pubblica amministrazione, ed in particolare:
- il suddetto articolo 26 della l. 488/2009, nella prima versione, nel prevedere l’adesione necessaria delle amministrazioni statali alle convenzioni centralizzate, lasciava nella disponibilità di quelle non statali, tra cui quelle locali, la scelta di aderirvi o meno obbligandole, però, a utilizzarne i parametri di qualità prezzo e, nella seconda versione (riformulata con d. l. 168/2004), escludeva i comuni con popolazione fino a mille abitanti e quelli montani fino a 5000 abitanti;
- successivamente la materia veniva ridisciplinata dalla l. 27.12.2006 n. 296 (finanziaria 2007, art. 1, comma 449), sia con riguardo agli appalti sopra soglia che quelli sotto soglia stabilendo, per i primi, l’obbligo per le amministrazioni statali di approvvigionarsi attraverso le convenzioni-quadro Consip, limitatamente ad alcune categorie di beni e servizi ben individuati, ribadendo la facoltà delle restanti amministrazioni di ricorrere alle convenzioni (quelle stipulate da Consip o da centrali di committenza regionali – di cui al comma 456, dell’art. 1, stessa legge, e il vincolo di utilizzarne alternativamente i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi negli acquisti) e, per i secondi –comma 450- imponendo l’obbligo alle amministrazioni dello Stato di ricorrere al mercato elettronico della pubblica amministrazione, nulla disponendo riguardo alle altre amministrazioni;
- i due commi (449 e 450) dell’articolo 1 della l. n. 296 del 2006 venivano poi modificati dall’articolo 7 del d. l. 07.05.2012 n. 52, convertito dalla l. 06.07.2012 n. 94, nel senso (comma 449) di estendere l’obbligo di approvvigionamento attraverso le convenzioni quadro Consip a tutte le tipologie di beni e servizi acquistabili dalle amministrazioni statali e innovando (comma 450) la disciplina prevista per le amministrazioni diverse da quelle statali, e quindi anche per le autonomie locali, cui è stato imposto il ricorso al mercato della pubblica amministrazione, analogamente alle amministrazioni dello Stato, fatto salvo il rispetto del sistema delle convenzioni previsto nel ridetto comma 449;
- si ricorda, da ultimo, il dpr 207/2010 - Regolamento di esecuzione del codice dei contratti pubblici che, all’articolo 328 prevede, fatti salvi i casi di ricorso obbligatorio al mercato elettronico di cui alle norme in vigore, che la stazione appaltante “può stabilire di procedere all’acquisto di beni e servizi attraverso il mercato elettronico della pubblica amministrazione realizzato dal Ministero dell’economia e delle finanze sulle proprie infrastrutture tecnologiche avvalendosi di Consip s.p.a., ovvero attraverso il mercato elettronico realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di cui all’articolo 33 del codice”.
Ebbene,
il quesito posto dal comune istante, come sopra rappresentato, volto a conoscere se, stante l’obbligo previsto (all’atto della formulazione della richiesta di parere) dall’articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, del ricorso ad una unica centrale di committenza, la stessa centrale (qualora costituita mediante accordo convenzionale, ai sensi dell’articolo 30 del “d.p.r. 267/2000”) potesse comunque far riferimento ad altri mercati elettronici presenti nell’ambito della pubblica amministrazione, senza costituirne uno proprio sembra, ad oggi, avere trovato risposta attraverso la nuova formulazione del comma 3-bis del sopra citato articolo 33, come sostituito dall’articolo 9, comma 4, d.l. 66/2014, convertito dalla l. n. 89 del 23.06.2014), il quale non prevede più l’esclusivo affidamento ad una unica centrale di committenza, da costituirsi obbligatoriamente tra i comuni fino a cinquemila abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna provincia, potendo gli enti in oggetto, pur continuando a procedere all’acquisizione nell’ambito delle unioni di comuni di cui all’articolo 32 del TUEL, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, anche ricorrere ad altro soggetto aggregatore o alle province stesse, ai sensi della l. 07.04.2014 n. 56, ferma restando l’alternativa dell’acquisizione di beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento (che, con questa ultima formulazione della norma, sono individuati negli “strumenti elettronici gestiti da Consip spa o da altro soggetto aggregatore di riferimento”).
Ciò che, in definitiva, sembra emergere dalla novella legislativa ad ancor più chiare lettere,
è la rafforzata esigenza di tutela delle pubbliche risorse, che ogni ente deve poter perseguire, anche attraverso forme di acquisizione di beni e servizi basate su gestioni che rispettino il più possibile il miglior rapporto prezzo-qualità, attuate attraverso l’ampia gamma di possibilità poste a loro disposizione dalla legge per la gestione dei propri contratti (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 10.07.2014 n. 180).

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIERI COMUNALII consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive; pertanto, l'impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere.
Più in particolare si è affermato che le violazioni delle regole procedurali che possono far sorgere la legittimazione in capo al singolo consigliere comunale devono attenere ai seguenti profili:
a) erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare;
b) violazione dell'ordine del giorno;
c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare;
d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico rivestito.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive; pertanto, l'impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere (cfr. ex multis TAR Puglia Lecce, sez. II, 28.11.2013 n. 2388).
Più in particolare si è affermato che le violazioni delle regole procedurali che possono far sorgere la legittimazione in capo al singolo consigliere comunale devono attenere ai seguenti profili: a) erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare; b) violazione dell'ordine del giorno; c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico rivestito (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 24.03.2011 n. 1771; TAR Lombardia Milano, sez. II, 01.07.2013, n. 1683)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 1433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALINell'ordinamento contabile degli enti locali la delibera consiliare di approvazione del bilancio di previsione rappresenta l'atto attraverso cui il Consiglio Comunale autorizza preventivamente, all'inizio dell'anno, le spese e le entrate previste in termini valoristici nel bilancio, ovvero nel documento contabile, predisposto dall'esecutivo, con funzione programmatoria, in cui sono elencate tutte le spese che saranno sostenute nel corso dell'esercizio di riferimento e tutte le entrate che serviranno per finanziarle, ovvero sono programmate tutte le attività e sono destinate le risorse ai servizi che il comune eroga.
L’approvazione del bilancio consente, dunque, il preventivo controllo democratico sulla gestione finanziaria, indirizzandola verso il miglior utilizzo delle risorse, al fine del soddisfacimento dei bisogni della collettività di riferimento.
Ai sensi dell'art. 162 del D.lgs. n. 267 del 2000 “gli enti locali deliberano annualmente il bilancio di previsione finanziario redatto in termini di competenza, per l’anno successivo, osservando i principi di unità, annualità, universalità ed integrità, veridicità, pareggio finanziario e pubblicità.”
Da tali principi, che sostanzialmente rispecchiano quelli involgenti il bilancio dello Stato, si ricava, come precisato dal Consiglio di Stato in una recente sentenza che "Le previsioni dei bilanci che si susseguono anno dopo anno e le poste dei bilanci annuali e di quelli pluriennali devono, per il principio di unitarietà del bilancio trovare corrispondenza fra loro. Ciò comporta che ogni atto di bilancio debba trovare il suo fondamento in un atto anteriore e presupposto, in modo che sia assicurata al contempo l’unitarietà della finanza pubblica e la continuità e coerenza delle scritturazioni".
Il bilancio di previsione, poi, presuppone le risultanze contabili dell'esercizio precedente, che per i principi di continuità ed universalità dei bilanci, si saldano a quelle dell'anno immediatamente successivo, rappresentandone la premessa imprescindibile delle nuove previsioni di entrata e di spesa.
Ne deriva che sussiste un nesso di conseguenzialità tra il rendiconto annuale e il bilancio di previsione dell’anno successivo che trova il suo ineludibile presupposto nel primo. Ne deriva che se i vizi fatti valere contro il provvedimento che ha approvato il rendiconto annuale non vengono reiterati nei confronti della delibera che approva il bilancio di previsione, viene meno l’interesse ad agire dei ricorrenti, in quanto l’annullamento della delibera che ha approvato il rendiconto annuale non comporterebbe alcun beneficio per i ricorrenti medesimi, perché la lesione per gli stessi sarebbe reiterata dal bilancio di previsione non impugnato.

Nell'ordinamento contabile degli enti locali la delibera consiliare di approvazione del bilancio di previsione rappresenta l'atto attraverso cui il Consiglio Comunale autorizza preventivamente, all'inizio dell'anno, le spese e le entrate previste in termini valoristici nel bilancio, ovvero nel documento contabile, predisposto dall'esecutivo, con funzione programmatoria, in cui sono elencate tutte le spese che saranno sostenute nel corso dell'esercizio di riferimento e tutte le entrate che serviranno per finanziarle, ovvero sono programmate tutte le attività e sono destinate le risorse ai servizi che il comune eroga.
L’approvazione del bilancio consente, dunque, il preventivo controllo democratico sulla gestione finanziaria, indirizzandola verso il miglior utilizzo delle risorse, al fine del soddisfacimento dei bisogni della collettività di riferimento.
Ai sensi dell'art. 162 del D.lgs. n. 267 del 2000 “gli enti locali deliberano annualmente il bilancio di previsione finanziario redatto in termini di competenza, per l’anno successivo, osservando i principi di unità, annualità, universalità ed integrità, veridicità, pareggio finanziario e pubblicità.”
Da tali principi, che sostanzialmente rispecchiano quelli involgenti il bilancio dello Stato, si ricava, come precisato dal Consiglio di Stato in una recente sentenza (sez. V n. 2457/2010) che "Le previsioni dei bilanci che si susseguono anno dopo anno e le poste dei bilanci annuali e di quelli pluriennali devono, per il principio di unitarietà del bilancio trovare corrispondenza fra loro. Ciò comporta che ogni atto di bilancio debba trovare il suo fondamento in un atto anteriore e presupposto, in modo che sia assicurata al contempo l’unitarietà della finanza pubblica e la continuità e coerenza delle scritturazioni".
Il bilancio di previsione, poi, presuppone le risultanze contabili dell'esercizio precedente, che per i principi di continuità ed universalità dei bilanci, si saldano a quelle dell'anno immediatamente successivo, rappresentandone la premessa imprescindibile delle nuove previsioni di entrata e di spesa.
Ne deriva che sussiste un nesso di conseguenzialità tra il rendiconto annuale e il bilancio di previsione dell’anno successivo che trova il suo ineludibile presupposto nel primo. Ne deriva che se i vizi fatti valere contro il provvedimento che ha approvato il rendiconto annuale non vengono reiterati nei confronti della delibera che approva il bilancio di previsione, viene meno l’interesse ad agire dei ricorrenti, in quanto l’annullamento della delibera che ha approvato il rendiconto annuale non comporterebbe alcun beneficio per i ricorrenti medesimi, perché la lesione per gli stessi sarebbe reiterata dal bilancio di previsione non impugnato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 1433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la distinzione del vincolo archeologico diretto da quello indiretto bisogna dire che il primo è connesso all'effettivo ritrovamento, o alla certezza dell'esistenza di reperti archeologici, mentre il vincolo cosiddetto indiretto può essere imposto su beni ed aree circostanti a quelli oggetto di vincolo diretto, per garantire la migliore visibilità o fruizione di questi ultimi, ovvero migliori condizioni ambientali o di decoro;
L'individuazione e le modalità di tutela dei beni soggetti a vincolo costituisce espressione di discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, insindacabile nel merito, ma soggetta a sindacato di legittimità in rapporto ai consueti parametri di corretto apprezzamento dei presupposti di fatto e congruità delle valutazioni, con possibilità di riscontro di tali fattori -indice di completezza dell'istruttoria espletata e di logicità delle conclusioni tratte- in base alla motivazione del provvedimento conclusivo, da cui deve potersi desumere l'adeguatezza del sacrificio imposto ai privati proprietari, nel superiore interesse pubblico perseguito.
Va, peraltro, evidenziato che il vincolo archeologico poiché comporta, comunque, un sacrificio per il proprietario deve essere imposto solo laddove sia necessario. Sul punto la giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, ha precisato che per rendere legittimo il provvedimento di vincolo è comunque necessario che la Soprintendenza dimostri, anche solo in via indiziaria, la rilevanza archeologica della più vasta area in cui non sono stati rilevati reperti né dati sufficientemente univoci della letteratura scientifica di riferimento.
L’Amministrazione dei beni culturali ed ambientali può estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti, ma in tal caso è necessario che i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l'imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità di pubblico interesse cui è preordinata.

In via generale occorre evidenziare come bisogna distinguere il vincolo archeologico diretto da quello indiretto.
Il primo è connesso all'effettivo ritrovamento, o alla certezza dell'esistenza di reperti archeologici, mentre il vincolo cosiddetto indiretto può essere imposto su beni ed aree circostanti a quelli oggetto di vincolo diretto, per garantire la migliore visibilità o fruizione di questi ultimi, ovvero migliori condizioni ambientali o di decoro; l'individuazione e le modalità di tutela dei beni soggetti a vincolo costituisce espressione di discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, insindacabile nel merito, ma soggetta a sindacato di legittimità in rapporto ai consueti parametri di corretto apprezzamento dei presupposti di fatto e congruità delle valutazioni, con possibilità di riscontro di tali fattori -indice di completezza dell'istruttoria espletata e di logicità delle conclusioni tratte- in base alla motivazione del provvedimento conclusivo, da cui deve potersi desumere l'adeguatezza del sacrificio imposto ai privati proprietari, nel superiore interesse pubblico perseguito (cfr. in tal senso, TAR sez. I Campobasso , Molise, 11/04/2014, n. 240 e Cons. St., sez. VI, 04.08.2008, n. 3880).
Va, peraltro, evidenziato che il vincolo archeologico poiché comporta, comunque, un sacrificio per il proprietario deve essere imposto solo laddove sia necessario. Sul punto la giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, ha precisato che per rendere legittimo il provvedimento di vincolo è comunque necessario che la Soprintendenza dimostri, anche solo in via indiziaria, la rilevanza archeologica della più vasta area in cui non sono stati rilevati reperti né dati sufficientemente univoci della letteratura scientifica di riferimento.
L’Amministrazione dei beni culturali ed ambientali può estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti, ma in tal caso è necessario che i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l'imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità di pubblico interesse cui è preordinata (cfr., TAR Campobasso (Molise), cit.) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.07.2014 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’adozione di un provvedimento esplicito (anche non satisfattivo dell’interesse fatto valere) in risposta all’istanza dell’interessato, rende il ricorso inammissibile per carenza originaria dell’interesse ad agire, se il provvedimento interviene prima della proposizione del ricorso.
Ciò in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro i termini all’uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, il soggetto interessato è tutelato dalla normativa in materia che consente di proporre contro di esso una nuova impugnazione, anche ex art. 117 c. p. a., con motivi aggiunti.

In giurisprudenza, si tenga presente, a sostegno della decisione assunta dal Tribunale, la massima che segue: “L’adozione di un provvedimento esplicito (anche non satisfattivo dell’interesse fatto valere) in risposta all’istanza dell’interessato, rende il ricorso inammissibile per carenza originaria dell’interesse ad agire, se il provvedimento interviene prima della proposizione del ricorso. Ciò in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro i termini all’uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, il soggetto interessato è tutelato dalla normativa in materia che consente di proporre contro di esso una nuova impugnazione, anche ex art. 117 c. p. a., con motivi aggiunti” (Consiglio di Stato – Sez. VI, 17/01/2014, n. 233) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 29.07.2014 n. 1420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAi fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento della attività amministrativa, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione.
Tale nesso di strumentalità deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse.
In sostanza, l’interesse all’accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che possa essere operata, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante.
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Non può negarsi che la società ricorrente vanti un interesse qualificato ed una certa legittimazione ad accedere alla documentazione negata, posta l’inconfigurabilità di esigenze di tutela di riservatezza ed essendo del tutto evidente la propria posizione differenziata e la titolarità di una posizione giuridica soggettiva, anche meramente potenziale, in conformità al disposto dell’art. 24, comma 7, della l. 241/1990, dove è chiarito che <deve comunque essere garantito l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici>, nonché tenuto presente che, per la giurisprudenza: “Il contribuente vanta un interesse concreto e attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva (in tal senso l’art. 22 comma 1, lett. b), 1. n. 241/1990)”.

Come opportunamente rilevato da parte ricorrente, infatti, in materia deve trovare applicazione l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa, compendiato nella seguente massima: “Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento della attività amministrativa, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione. Tale nesso di strumentalità deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse. In sostanza, l’interesse all’accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che possa essere operata, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante” (Consiglio di Stato – Sez. V, 10/01/2007, n. 55 – conferma TAR. Campania, Napoli, sez. V, 15.02.2005, n. 1070).
Sotto tale profilo, non può negarsi che la società ricorrente vanti un interesse qualificato ed una certa legittimazione ad accedere alla documentazione negata, posta l’inconfigurabilità di esigenze di tutela di riservatezza ed essendo del tutto evidente la propria posizione differenziata e la titolarità di una posizione giuridica soggettiva, anche meramente potenziale, in conformità al disposto dell’art. 24, comma 7, della l. 241/1990, dove è chiarito che <deve comunque essere garantito l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici>, nonché tenuto presente che, per la giurisprudenza: “Il contribuente vanta un interesse concreto e attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva (in tal senso l’art. 22 comma 1, lett. b), 1. n. 241/1990)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.02.2012, n. 766) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 29.07.2014 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e, per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, né, infine, è necessaria alcuna verifica sull’astratta sanabilità dell’opera.
In particolare, in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia).
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.

Infondato è il primo motivo di ricorso basato sul difetto di motivazione in ordine, anche sul profilo dell’applicazione della misura demolitoria in luogo di una misura pecuniaria, sul contrasto con l’interesse pubblico tutelato dagli artt. 10 e 13 legge n. 47/1985 e dall’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, nonché dal mancato riferimento alla sanabilità delle opere.
Osserva in proposito il Collegio che l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria (Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357) e, per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis, C.d.S., VI, 28.06.2004, n. 4743; C.d.S., sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702), né, infine, è necessaria alcuna verifica sull’astratta sanabilità dell’opera (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013, n. 2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357).
In particolare, in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia). Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato (TAR Campania Napoli, Sez. III, 08.11.2013, n. 5023; TAR Campania Napoli Sez. VI, 26.09.2012, n. 3950) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4323 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
In ogni caso il Collegio ritiene applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Nel terzo motivo di ricorso parte ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 per aver l’amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento che ha portato al provvedimento gravato.
La censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129).
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4323 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha chiarito che, nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi abbiano interessato un edificio del quale, all'esito degli stessi, rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduce nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali.
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Si è quindi precisato che il concetto di ristrutturazione edilizia resta distinto dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda (nella ristrutturazione), quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito. Con la conseguenza che l’opera si palesa pertanto assoggettata al regime del permesso di costruire, in quanto l’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 6-6-2001 n. 380, indica come interventi soggetti al permesso di costruire quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio anche in parte diverso dal precedente, che comportino, come nel caso di specie, aumento modifiche del volume (oppure dei prospetti o delle superfici).
La necessità di rispettare l’originaria volumetria risulta viepiù rinforzata alla luce delle modifiche di recente apportate al T.U. dell’edilizia dal decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (cd decreto del fare), con cui il legislatore (mediante la modifica della lettera d) del citato comma 1 dell’art. 3 del T.U. dell’edilizia) ha considerando fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche gli interventi «consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente», senza fare più riferimento al rispetto della sagoma precedente. Ed invero resta fermo che deve sempre considerarsi nuova costruzione «la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente» (lettera e.1 del comma 1 dell’art. 3 del T.U.) e resta ferma quindi la necessità del rilascio del permesso di costruire quando l’immobile ricostruendo ha una diversa volumetria, in disparte la concorrente circostanza relativa al mutamento della destinazione d’uso.
Facendo applicazione di tali principi l’intervento edilizio concernete il piano in sopraelevazione deve inevitabilmente qualificarsi come di nuova costruzione.

1. Il ricorso non merita accoglimento.
2. Occorre premettere che a seguito di accertamenti da parte dei vigili urbani si è constatato che la ricorrente, senza alcun titolo edilizio, abbia proceduto alla edificazione in sopraelevazione di un piano intero.
2.1. Portata dirimente rivesta la corretta qualificazione dell’intervento effettuato in sopraelevazione della ricorrente ed oggetto di demolizione.
In primo luogo vale considerare che l’aumento di volume, pacificamente sussistente (mediante la sopraelevazione, la modifica della sagoma e dei volumi con creazione di tre appartamenti) non consente di annoverare l’intervento nell’ambito della ristrutturazione edilizia assentibile con Dia.
2.2. Al di là del tenore letterale dell’articolo 124 del regolamento comunale, ai fini della distinzione fra nuova costruzione e ristrutturazione edilizia debba farsi riferimento alle disposizioni contenute nel T.U. dell’edilizia che di tali nozioni danno la definizione e ne individuano i limiti.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, nel testo precedente le modifiche apportate dal D.L. 21.06.2013, n. 69 (e quindi all’epoca vigente), sono «interventi di ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica».
Ai sensi della successiva lettera e) sono «interventi di nuova costruzione, quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da considerarsi tali: e.1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6) ….».
2.3. Sulla base di tali definizioni la giurisprudenza ha chiarito che, nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi abbiano interessato un edificio del quale, all'esito degli stessi, rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduce nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3221 dell’11.06.2013).
2.4. Si è quindi precisato che il concetto di ristrutturazione edilizia resta distinto dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda (nella ristrutturazione), quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3278 del 13.06.2013). Con la conseguenza che l’opera si palesa pertanto assoggettata al regime del permesso di costruire, in quanto l’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 6-6-2001 n. 380, indica come interventi soggetti al permesso di costruire quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio anche in parte diverso dal precedente, che comportino, come nel caso di specie, aumento modifiche del volume (oppure dei prospetti o delle superfici).
2.5. La necessità di rispettare l’originaria volumetria risulta viepiù rinforzata alla luce delle modifiche di recente apportate al T.U. dell’edilizia dal decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (cd decreto del fare), con cui il legislatore (mediante la modifica della lettera d) del citato comma 1 dell’art. 3 del T.U. dell’edilizia) ha considerando fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche gli interventi «consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente», senza fare più riferimento al rispetto della sagoma precedente. Ed invero resta fermo che deve sempre considerarsi nuova costruzione «la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente» (lettera e.1 del comma 1 dell’art. 3 del T.U.) e resta ferma quindi la necessità del rilascio del permesso di costruire quando l’immobile ricostruendo ha una diversa volumetria, in disparte la concorrente circostanza relativa al mutamento della destinazione d’uso.
Facendo applicazione di tali principi l’intervento edilizio concernete il piano in sopraelevazione deve inevitabilmente qualificarsi come di nuova costruzione
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 3 della legge n. 241/1990 consente l’uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti dell’Amministrazione, che devono essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità dell’atto va intesa nel senso che all’interessato deve essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su richiesta dell’interessato.
Per costante giurisprudenza l’art. 3 della legge n. 241/1990 consente l’uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti dell’Amministrazione, che devono essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità dell’atto va intesa nel senso che all’interessato deve essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su richiesta dell’interessato (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.05.2005, n. 6500; 18.01.2005, n. 178) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 3 della legge n. 241/1990 consente l’uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti dell’Amministrazione, che devono essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità dell’atto va intesa nel senso che all’interessato deve essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su richiesta dell’interessato.
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Per la motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione.
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Risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
E seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
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Secondo la giurisprudenza la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.
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Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’Amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse.
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L’ordinanza di demolizione non è certo illegittima ove sia omessa la specifica indicazione delle norme urbanistiche violate, essendo sufficiente la descrizione dell’abuso ed il fatto che il tipo di intervento in questione necessitasse del permesso di costruire.
Né può sostenersi che sia stato commesso un eccesso di potere, atteso che la sanzione è fissata dalla legge e che l’Amministrazione non gode di alcuna discrezionalità nella graduazione della stessa.

La prima censura è infondata: l’art. 3 della legge n. 241/1990 consente l’uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti dell’Amministrazione, che devono essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità dell’atto va intesa nel senso che all’interessato deve essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su richiesta dell’interessato (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.05.2005, n. 6500; 18.01.2005, n. 178).
È infondata anche la seconda censura. Per giurisprudenza costante, per la motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione (tra le tante, Tar Campania, Napoli, VI, n. 2000/2012).
Risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato. Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.
È irrilevante la pretesa conformità dell’opera alla normativa urbanistica. Infatti dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale. Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’Amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
Infine, l’ordinanza di demolizione non è certo illegittima ove sia omessa la specifica indicazione delle norme urbanistiche violate, essendo sufficiente la descrizione dell’abuso ed il fatto che il tipo di intervento in questione necessitasse del permesso di costruire; né può sostenersi che sia stato commesso un eccesso di potere, atteso che la sanzione è fissata dalla legge e che l’Amministrazione non gode di alcuna discrezionalità nella graduazione della stessa (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”.
A tal proposito vale appena rammentare che le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione” (Tar Campania, questa sesta sezione, ancora n. 5835 del 18.12.2013 e n. 2245 del 30.04.2013, nel cui seno è richiamata Cass. Penale, sezione terza, pronuncia n. 2733 del 31.01.1994); l’amministrazione comunale ha verificato in radice l’inesistenza dei presupposti per l’accoglimento della istanza di conformità, onde l’interpello della Soprintendenza si sarebbe risolto in una violazione del principio di non aggravamento, corollario del principio di economicità ed efficienza dell’agire della p.a., in un settore in cui la mole delle istanze da evadere non consente sprechi di risorse organizzatorio.
Non a caso la stessa Soprintendenza, con la circolare richiamata in atti, ha emanato istruzioni, del tutto ragionevoli, intese ad evitare un’inutile e defatigante attività istruttoria nei confronti di richieste di compatibilità paesaggistica chiaramente divergenti dalla fattispecie consentite dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I procedimenti iniziati ad istanza di parte non abbisognano di comunicazione di avvio del procedimento.
I procedimenti iniziati ad istanza di parte non abbisognano di comunicazione di avvio del procedimento, così che non è stato violato l’art. 7 L. 241/1990; mentre il ricorrente è stato regolarmente invitato a controdedurre alla comunicazione ostativa dei motivi di rigetto della sua domanda, formulata ex art. 10-bis L. 241/1990 dal Comune con nota prot. 1823/2007. In quella sede l’amministrazione ha comunicato l’intenzione di procedere alla sanzione demolitoria solo per le parti del fabbricato non oggetto della domanda di condono, mentre in sede di redazione del provvedimento finale tale limitazione è venuta a mancare.
Come si è rilevato a più riprese, tali omissioni, non inficiano la legittimità di siffatti provvedimenti proprio per la loro assoluta vincolatezza, tenuto conto che il Comune ha esitato sfavorevolmente la domanda di condono delle opere originarie, con conseguente riespansione della misura repressiva.
Infatti, alla stregua del disposto dell’art. 21-octies della legge 241 del 1990 -di cui qui, nelle descritte condizioni, va fatta indubbia applicazione- non può essere utilmente lamentata la violazione delle diverse garanzie partecipative previste dalla medesima legge sul procedimento (sul punto, ex multis, TAR Campania, questa Sezione, n. 4873/2012, nonché Tar Campania, sez. ottava, 05.05.2011, n. 2497 e cfr. ancora, più di recente, Cons. Stato, sez. IV, 06.07.2012, n. 3969)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Pertanto, il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente all'istanza di concessione in sanatoria, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto; in tal caso, l’Amministrazione dovrà emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, eventualmente di demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere.

Il ricorso introduttivo va dichiarato improcedibile.
Infatti, secondo l’orientamento giurisprudenziale seguito da questa Sezione, la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.04.1997, n. 3563; sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; CGA 27.05.1997, n. 187; TAR Sicilia, sez. II, 05.10.2001, n. 1392; TAR Liguria, sez. II, 14.12.2000, n. 1310; TAR Toscana, sez. III, 18.12.2001, n. 2024; TAR Puglia, Bari, sez. II, 11.01.2002, n. 154; TAR Campania, Sez. IV, 25.05.2001, n. 2340, 11.12.2002, n. 7994, 30.06.2003, n. 7902, 22.02.2004, n. 1239, 13.09.2004, n. 11983).
Pertanto, il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente all'istanza di concessione in sanatoria, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto (TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 16.03.2004, n. 499; TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310); in tal caso, l’Amministrazione dovrà emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, eventualmente di demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere (TAR Lazio, Latina, 28.11.2000, n. 826; TAR Lazio, sez. II, 17.01.2001, n. 230; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 12.12.2001, n. 2424; TAR Puglia, Bari, sez. II, 11.01.2002, n. 154; TAR Emilia Romagna, sez. II, 11.06.2002, n. 857; TAR Campania, sez. IV, 26.07.2002, n. 4399) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
E, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
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Dall’art. 8 della legge n. 241/1990 si desume chiaramente che la comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento è parte integrante dell’avviso di cui all’art. 7 della stessa legge.
Pertanto, non essendo necessaria nei procedimenti ad istanza di parte la comunicazione di avvio del procedimento, non costituisce motivo di illegittimità neppure l’omessa comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento, fermo restando che a tale è comunque possibile supplire considerando responsabile il funzionario preposto alla competente unità organizzativa. Né costituisce violazione di legge la presunta violazione dell’ordine cronologico di esame della domande.
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato. Infatti, secondo la giurisprudenza la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.
Quanto alla quarta censura, l’art. 3 della legge n. 241/1990 consente l’uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti dell’Amministrazione, che devono essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità dell’atto va intesa nel senso che all’interessato deve essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su richiesta dell’interessato.

Il ricorso per motivi aggiunti è invece infondato.
Risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
Quanto alla seconda censura, dall’art. 8 della legge n. 241/1990 si desume chiaramente che la comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento è parte integrante dell’avviso di cui all’art. 7 della stessa legge. Pertanto, non essendo necessaria nei procedimenti ad istanza di parte la comunicazione di avvio del procedimento, non costituisce motivo di illegittimità neppure l’omessa comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 15.03.2006, n. 2987), fermo restando che a tale è comunque possibile supplire considerando responsabile il funzionario preposto alla competente unità organizzativa (ex multis, TAR Lazio Roma, sez. I, 30.08.2005, n. 6359). Né costituisce violazione di legge la presunta violazione dell’ordine cronologico di esame della domande.
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato. Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.
Quanto alla quarta censura, l’art. 3 della legge n. 241/1990 consente l’uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti dell’Amministrazione, che devono essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità dell’atto va intesa nel senso che all’interessato deve essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su richiesta dell’interessato (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.05.2005, n. 6500; 18.01.2005, n. 178) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi del comma 4 dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 la notifica dell’atto di accertamento dell’inottemperanza non costituisce presupposto per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, che si verifica ope legis, costituendo detto accertamento solo presupposto per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Invero, “l'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione di una costruzione abusiva emesso dall'autorità comunale, comporta l'automatica acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune, indipendentemente dalla notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza che ha solo funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà”.
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Nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono all’eventuale successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale.
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Per consolidato orientamento giurisprudenziale l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, che, come detto, si verifica pertanto ope legis, a seguito dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione dopo il decorso del termine di novanta giorni dalla sua notifica.
In tale prospettiva l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'abusività e dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione, essendo in re ipsa l'interesse pubblico all'adozione della misura, senza l'obbligo di alcuna specifica argomentazione in ordine all'acquisizione dell'area di sedime., venendo nella specie in rilievo un atto vincolato al verificarsi delle condizioni di legge.
Né alcuna rilevanza ha al riguardo la mancata specificazione del tipo di catasto, terreni ovvero fabbricati, cui ricondurre gli evidenziati dati catastali, in quanto l’area di sedime oggetto di acquisizione risulta comunque specificatamente individuata per relationem, in riferimento alle opere abusive, potendo per contro la specificazione esatta dei dati catastali essere contenuta in un atto successivo, ai fini della sua trascrizione nei registri immobiliari.

Va rilevato che ai sensi del comma 4 dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 la notifica dell’atto di accertamento dell’inottemperanza non costituisce presupposto per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, che si verifica ope legis, costituendo detto accertamento solo presupposto per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (Cass. pen. Sez. III, Sent. n. 1819 del 21.10.2008; in senso analogo Cass. pen. Sez. III, sent. n. 39075 del 21.05.2009, secondo cui “L'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione di una costruzione abusiva emesso dall'autorità comunale, comporta l'automatica acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune, indipendentemente dalla notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza che ha solo funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà”).
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Con altro ordine di censure lamenta l’illegittimità dell’ordinanza di acquisizione in mancanza del necessario presupposto, dato, secondo parte ricorrente, dalla necessaria specificazione nell’ordinanza di demolizione, dell’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza alla medesima.
Nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono all’eventuale successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale.
L’art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, al pari del precedente disposto dell’art. 7, comma 3, l. 47/1985, precisa al riguardo che “Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, che, come detto, si verifica pertanto ope legis, a seguito dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione dopo il decorso del termine di novanta giorni dalla sua notifica.
In tale prospettiva l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'abusività e dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione, essendo in re ipsa l'interesse pubblico all'adozione della misura, senza l'obbligo di alcuna specifica argomentazione in ordine all'acquisizione dell'area di sedime., venendo nella specie in rilievo un atto vincolato al verificarsi delle condizioni di legge.
Né alcuna rilevanza ha al riguardo la mancata specificazione del tipo di catasto, terreni ovvero fabbricati, cui ricondurre gli evidenziati dati catastali, in quanto l’area di sedime oggetto di acquisizione risulta comunque specificatamente individuata per relationem, in riferimento alle opere abusive, potendo per contro la specificazione esatta dei dati catastali essere contenuta in un atto successivo, ai fini della sua trascrizione nei registri immobiliari
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer orientamento costante di questo Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, rispetto al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
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L'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e non è necessaria una motivazione "ad hoc" sulla non sanabilità dell'opera.

CONSIDERATO CHE:
- preliminarmente va escluso il rilievo delle censure di natura formale attinenti la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, il difetto di motivazione sull’interesse pubblico attuale e l’assunta omessa comparazione degli interessi coinvolti.
Al riguardo va rimarcato che, per orientamento costante di questo Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, rispetto al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo;
- né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa;
- quanto all’ulteriore doglianza secondo cui l’intervento sarebbe assentibile in sanatoria (la cui istanza però non è stata allegata) va osservato che l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e non è necessaria una motivazione "ad hoc" sulla non sanabilità dell'opera (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013, n. 2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.07.2014 n. 4267 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppare, infatti, corretta e conforme a legge l’affermazione che la volumetria preesistente costituisce lo standard massimo di edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso che sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione, essendone precluso soltanto un aumento; cosa desumibile dalle modifiche della normativa di riferimento (l’art. 3 DPR 380/2001) intervenute nel tempo, posto che si è passati dalla necessità di una “fedele ricostruzione” ad una ricostruzione “con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”, ed oggi alla “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria…preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”: è quindi evidente l’intento del legislatore di impedire soltanto aumenti della complessiva cubatura degli edifici esistenti, ma non diminuzioni della stessa.
Pertanto, la prevista diminuzione di volumetria non appare ostativa alla riconducibilità dell’intervento alla fattispecie della ristrutturazione edilizia.

Orbene, ritiene il Collegio che la tesi dei ricorrenti debba essere disattesa, essendo da condividere quanto precisato dal TAR Puglia-Bari nella sentenza n. 3210 del 22.07.2004 in tema di limiti entro i quali è possibile inquadrare la demolizione e ricostruzione di un immobile nella ristrutturazione edilizia.
Appare, infatti, corretta e conforme a legge l’affermazione che la volumetria preesistente costituisce lo standard massimo di edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso che sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione, essendone precluso soltanto un aumento; cosa desumibile dalle modifiche della normativa di riferimento (l’art. 3 DPR 380/2001) intervenute nel tempo, posto che si è passati dalla necessità di una “fedele ricostruzione” ad una ricostruzione “con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”, ed oggi alla “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria…preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”: è quindi evidente l’intento del legislatore di impedire soltanto aumenti della complessiva cubatura degli edifici esistenti, ma non diminuzioni della stessa.
Pertanto, la prevista diminuzione di volumetria non appare ostativa alla riconducibilità dell’intervento alla fattispecie della ristrutturazione edilizia (come invece sostenuto dei ricorrenti), per cui, risultando rispettato il disposto delle N.T.A. del PRG, il motivo in commento va respinto, siccome infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.07.2014 n. 4265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 11, co. 1, t.u.ed., il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Nel caso di specie, è pacifico che si tratti di rifacimento del tetto, e dunque di un bene che non apparteneva in via esclusiva al N., ma era condominiale. In caso di comproprietà, per costante giurisprudenza si ritiene che il singolo comproprietario sia legittimato a chiedere il permesso di costruire solo laddove la situazione di fatto consenta di supporre l'esistenza di un «pactum fiduciae» intercorrente tra gli stessi comproprietari, mentre in caso contrario occorre acquisire l'assenso espresso di tutti.
In particolare, in caso di parti condominiali, è facoltà del singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell’edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere; se tuttavia l’intervento edilizio coinvolge in maniera diretta e rilevante anche parti comuni, occorre acquisire e valutare l'assenso condominiale; in tal caso l'assenso deve essere valutato alla luce della situazione dei luoghi e delle ragioni espresse dal condominio (giurisprudenza ha ritenuto legittimo il diniego del permesso di costruire, subordinando il suo rilascio al preventivo assenso dei comproprietari dell’immobile interessato dalla richiesta di rilascio del titolo abilitativo, nel caso in cui le opere oggetto del permesso di costruire diano luogo ad una innovazione vietata ex art. 1120, comma 2, c.c., comportando una alterazione del decoro architettonico del fabbricato).

È infatti fondata la censura basata sulla violazione dell’art. 11 d.P.R. n. 380/2001 (seconda del ricorso 3974/2013 e prima del ricorso 3975/2013) e cioè sulla carenza di legittimazione del contro interessato Napoletano ad ottenere il permesso di costruire.
Ai sensi dell’art. 11, co. 1, t.u.ed., il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo. Nel caso di specie, è pacifico che si tratti di rifacimento del tetto, e dunque di un bene che non apparteneva in via esclusiva al N., ma era condominiale. In caso di comproprietà, per costante giurisprudenza si ritiene che il singolo comproprietario sia legittimato a chiedere il permesso di costruire solo laddove la situazione di fatto consenta di supporre l'esistenza di un «pactum fiduciae» intercorrente tra gli stessi comproprietari, mentre in caso contrario occorre acquisire l'assenso espresso di tutti (Tar Lombardia, Brescia, I, n. 460/2007; Tar Campania, Salerno, II, n. 7921/2009).
In particolare, in caso di parti condominiali, è facoltà del singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell’edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere (CdS, sez. VI, n. 717/2009); se tuttavia l’intervento edilizio coinvolge in maniera diretta e rilevante anche parti comuni, occorre acquisire e valutare l'assenso condominiale; in tal caso l'assenso deve essere valutato alla luce della situazione dei luoghi e delle ragioni espresse dal condominio (Tar Liguria, II, n. 43/2009; Tar Basilicata, I, n. 15/2008; Tar Lombardia, Milano, II, n. 4414/2010, che ha ritenuto legittimo il diniego del permesso di costruire, subordinando il suo rilascio al preventivo assenso dei comproprietari dell’immobile interessato dalla richiesta di rilascio del titolo abilitativo, nel caso in cui le opere oggetto del permesso di costruire diano luogo ad una innovazione vietata ex art. 1120, comma 2, c.c., comportando una alterazione del decoro architettonico del fabbricato).
Nel caso di specie, l’intervento edilizio coinvolgeva in maniera diretta e rilevante anche parti comuni: sicché, secondo la giurisprudenza sopra citata, occorreva acquisire e valutare l'assenso condominiale (nel caso di specie, senz’altro mancante) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.07.2014 n. 4256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa Sezione osserva come il principio di buon andamento impegni la P.A. ad adottare gli atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire ed autorizzi quindi anche il riesame degli atti adottati, ove reso opportuno da circostanze sopravvenute ovvero da un diverso apprezzamento della situazione preesistente.
In particolare, mentre l’annullamento “guarda al passato”, nel senso che costituisce un rimedio volto alla rimozione di un errore commesso nell’esercizio della funzione di primo grado e quindi opera in una logica essenzialmente correttiva dell’azione pubblica, la revoca assume una funzione più propriamente adeguatrice, intesa in termini di attualizzazione delle modalità di perseguimento dell’interesse pubblico specifico di cui occorre seguire la costante dinamica evolutiva.
Pertanto entrambi gli istituti hanno come oggetto immediato del provvedere l’eliminazione di un precedente atto o provvedimento di primo grado cui coniugare l’esigenza di un’azione amministrativa che si ponga pur sempre come cura attuale dell’interesse pubblico: esigenza che, in termini funzionali, nelle ipotesi di annullamento si caratterizza come momento valutativo ulteriore rispetto al mero accertamento dell’illegittimità del provvedimento di primo grado, mentre nei casi di revoca discende proprio dalla necessità di adeguare per il futuro scelte ormai non più idonee ed efficaci, con inevitabile eliminazione dei provvedimenti formali che le contenevano.
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Costituisce ius receptum che l’acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata l'ordinanza di demolizione, a sua volta costituente il presupposto per l'irrogazione dell’ulteriore sanzione acquisitiva, opera di diritto e automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, cosicché la sua notifica all'interessato ha una esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà.
Detto effetto acquisitivo di diritto è automatico per le opere abusive e la loro area di sedime, mentre richiede una specificazione, sulla base di adeguata motivazione, per quanto riguarda le aree ulteriori.

... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, della Determinazione dirigenziale del Comune di Cardito n. 2 del 03/08/2005 di annullamento del permesso di costruire n. 9 del 10/02/2005 per le opere da realizzare alla via Curiel n. 10.
...
Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce la violazione della Legge n.127/1997, dell’art. 7 della Legge n. 47/1985, della Legge n.15/2005, nonché l’incompetenza e l’eccesso di potere.
La Sezione in via preliminare osserva come il principio di buon andamento impegni la P.A. ad adottare gli atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire ed autorizzi quindi anche il riesame degli atti adottati, ove reso opportuno da circostanze sopravvenute ovvero da un diverso apprezzamento della situazione preesistente (TAR Calabria, Reggio Calabria, 24.10.2007, n. 1077; Cons. Stato, V, n. 508/1999; n. 1263/1996; VI, 29.03.1996, n. 518; 30.04.1994, n. 652).
In particolare, mentre l’annullamentoguarda al passato”, nel senso che costituisce un rimedio volto alla rimozione di un errore commesso nell’esercizio della funzione di primo grado e quindi opera in una logica essenzialmente correttiva dell’azione pubblica, la revoca assume una funzione più propriamente adeguatrice, intesa in termini di attualizzazione delle modalità di perseguimento dell’interesse pubblico specifico di cui occorre seguire la costante dinamica evolutiva.
Pertanto entrambi gli istituti hanno come oggetto immediato del provvedere l’eliminazione di un precedente atto o provvedimento di primo grado cui coniugare l’esigenza di un’azione amministrativa che si ponga pur sempre come cura attuale dell’interesse pubblico: esigenza che, in termini funzionali, nelle ipotesi di annullamento si caratterizza come momento valutativo ulteriore rispetto al mero accertamento dell’illegittimità del provvedimento di primo grado, mentre nei casi di revoca discende proprio dalla necessità di adeguare per il futuro scelte ormai non più idonee ed efficaci, con inevitabile eliminazione dei provvedimenti formali che le contenevano.
Con riguardo a quanto reclamato da parte ricorrente, il potere di autotutela decisoria in capo all'Amministrazione non ha in verità come unica finalità il mero ripristino della legalità, costituendo una potestà discrezionale che deve contemplare la verifica di determinate condizioni, previste dall'ordinamento e concernenti l'opportunità di correggere l'azione amministrativa svoltasi illegittimamente; l'annullamento è stato, pertanto, connotato dall’art. 21-nonies, comma 1, in termini di rinnovata manifestazione, entro un termine ragionevole, della funzione amministrativa.
In tale ambito rilevano, oltre all'attualità di un interesse pubblico distinto ed ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità violata, anche gli interessi di tutte le parti coinvolte e il tempo trascorso dalla determinazione viziata. Per effetto dell'art. 21-nonies, l'esercizio della potestà di autotutela decisoria richiede non solo l'esistenza di un vizio dell'atto da rimuovere, ma anche la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione e la sua comparazione con gli interessi privati sacrificati, quando, per effetto del provvedimento reputato illegittimo, siano sorte posizioni giuridiche qualificate e consolidate nel tempo.
Ora, con riguardo alla fattispecie in esame, si ritiene che –come peraltro anticipato in fase cautelare– il ricorso non sia meritevole di accoglimento ove si consideri che nessun affidamento poteva ritenersi maturato in capo a parte ricorrente dopo che l’Amministrazione aveva disposto l’acquisizione del bene prima di evadere positivamente l’istanza di rilascio di concessione edilizia. Proprio per effetto di detta acquisizione come disposta con ordinanza n. 7 del 29/01/1998 e successiva nota di trascrizione del 20/02/2002 il ricorrente non era più proprietario del suolo e del tutto legittimamente l’Amministrazione ha provveduto all’annullamento in autotutela del Permesso di costruire, tanto più che la stessa opera se realizzata da parte ricorrente sarebbe rientrata nel patrimonio comunale.
I motivi di ricorso quali si prestano ad una trattazione unitaria non sono fondati anche in considerazione del fatto che con nota n. 8380 del 14/07/2005 era stata comunicata la sospensione dell’efficacia del Permesso di costruire diffidando parte ricorrente dall’iniziare i lavori; in ogni caso costituisce ius receptum che l’acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata l'ordinanza di demolizione, a sua volta costituente il presupposto per l'irrogazione dell’ulteriore sanzione acquisitiva, opera di diritto e automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, cosicché la sua notifica all'interessato ha una esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà (cfr. Cons. di Stato, V, n. 6174 del 12.12.2008; Cass. Pen. n. 22237 del 22.04.2010; Cass. Pen. n. 39075 del 21.05.2009; Cass. Pen. n. 2912 del 17.11. 2009; TAR Lazio-Roma, n. 6326 del 30.06.2009; TAR Campania, Napoli n. 3198 del 10.04.2007).
Detto effetto acquisitivo di diritto è automatico per le opere abusive e la loro area di sedime, mentre richiede una specificazione, sulla base di adeguata motivazione, per quanto riguarda le aree ulteriori (cfr. TAR Lazio, Roma n. 2031 del 07.03.2011; TAR Campania, Napoli n. 536 del 28.01.2011; TAR Campania, Napoli n. 22291 del 03.11.2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 25.07.2014 n. 4243 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sul tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio...”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile esigere periodicamente la richiesta di integrazione del pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga modificato, posto che tale rideterminazione appare nella specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo.
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione Comunale di addossare al titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca.
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Per ragione di completezza, si precisa che, anche qualificando come conseguenza del potere di autotutela la richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente in violazione dell’art. 21-nonies Legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm. posto che:
- non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere, limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e le tabelle succedutesi nel tempo;
- non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell' affidamento ingeneratosi nel privato;
- in particolare non viene data alcuna motivazione in relazione al tempo trascorso, quasi tre anni, tra la determinazione originaria e la successiva rideterminazione, tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della Legge n. 241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato “entro un ragionevole termine”.

Il ricorrente impugna la nota dirigenziale in epigrafe indicata, notificata in data 28.05.2013, con cui il Comune di Castro gli ha richiesto il “conguaglio” (a seguito della rideterminazione in base a nuovi parametri stabiliti ex post) degli oneri concessori versati in relazione al permesso di costruire n. 23 del 19.05.2008 (realizzazione di n. 2 civili abitazioni in via ...) in misura pari ad € 4.224,85, nonché la delibera del Consiglio Comunale di Castro n. 64 del 30.11.2012, e ogni altro atto comunque connesso.
Chiede, altresì, l’accertamento del diritto a non corrispondere al Comune di Copertino la predetta somma, con declaratoria dell’illegittimità di ogni pretesa integrazione dei costi precedentemente determinati con il permesso di costruire n. 24 del 19.05.2008.
...
La doglianza merita di essere condivisa.
Osserva il Collegio che il provvedimento dirigenziale impugnato -recante in oggetto “Richiesta conguaglio oneri concessori”- accolla ex post al ricorrente, in ragione del titolo edilizio rilasciato circa cinque anni prima, ulteriori oneri concessori rinviando a quanto stabilito nella deliberazione 30.11.2012 n. 64 del Consiglio Comunale di Castro.
In tale deliberazione, preso atto che è operante un meccanismo legislativo (cfr. art. 16 D.P.R. n. 380/2001, art. 2 L.R. n. 1/2007) di adeguamento automatico del contributo concessorio, il Consiglio Comunale di Castro ha invitato l’Ufficio competente a porre in essere tutte le necessarie attività tecnico-amministrative finalizzate al recupero della differenza tra il contributo concessorio riscosso e quello dovuto in relazione alle pratiche edilizie pervenute a far data del 01.01.2007.
In base a tale direttiva, il Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Castro ha dunque richiesto il “conguaglio” (a seguito della rideterminazione in base a nuovi parametri stabiliti ex post) degli oneri concessori versati dal ricorrente in relazione al permesso di costruire n. 23 del 19.05.2008, in misura pari ad € 4.224,85.
Il Tribunale, in seguito alla lettura dei provvedimenti contestati, ritiene di escludere che si sia di fronte all’esercizio di un potere di autotutela volto a correggere eventuali errori di determinazione o calcolo, peraltro nemmeno chiaramente evidenziati in atti, compiuti all’epoca del rilascio del permesso di costruire.
L’attività comunale appare invece orientata ad addossare al privato successivamente al rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori.
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale” (cfr. art. 16, sesto comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o, in relazione alla voce relativa al costo di costruzione, facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'ISTAT” (cfr. art. 16, nono comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare l’importo degli oneri concessori a fenomeni di natura sostanzialmente inflattiva -legati all’aumento generalizzato dei costi di urbanizzazione o costruzione- in maniera da far corrispondere a permessi edilizi rilasciati in epoche diverse un impegno economico sostanzialmente uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio...”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia (Cfr. ex multis: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile esigere periodicamente la richiesta di integrazione del pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga modificato, posto che tale rideterminazione appare nella specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo (cfr. ex multis: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione Comunale intimata di addossare al titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca.
Per ragione di completezza, si precisa che, anche qualificando come conseguenza del potere di autotutela la richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente in violazione dell’art. 21-nonies Legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm. posto che:
- non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere, limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e le tabelle succedutesi nel tempo;
- non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell' affidamento ingeneratosi nel privato;
- in particolare non viene data alcuna motivazione in relazione al tempo trascorso, quasi tre anni, tra la determinazione originaria e la successiva rideterminazione, tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della Legge n. 241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato “entro un ragionevole termine”.
In conclusione, per le ragioni esposte, vista l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 25.07.2014 n. 1981 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' fatto obbligo all’autorità comunale in sede di rilascio dei titoli abilitativi, verificare la sussistenza della titolarità del diritto di proprietà o altro diritto reale in capo al soggetto istante.
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Se è vero che i titoli edilizi siano rilasciati "con salvezza dei diritti dei terzi" con la conseguenza che la loro rilevanza si esaurisce nel rapporto pubblicistico tra il richiedente e l'Amministrazione che, quindi, non è tenuta a interessarsi di controversie esistenti tra il richiedente e terzi né a svolgere particolari e approfondite indagini, la legge -stabilendo che il titolo è rilasciato al "proprietario o a chi abbia titolo per richiederlo"- impone comunque all'Amministrazione di procedere a una verifica circa l'esistenza del diritto di proprietà o di un altro diverso e idoneo diritto di godimento.

Preliminarmente va respinta l’eccezione di giurisdizione.
Con il ricorso all’esame del Collegio la ricorrente lamenta la illegittimità dell’esercizio di un potere indubbiamente autoritativo quale la pianificazione urbanistica, lamentando la lesione di posizione sostanziale di interesse legittimo, secondo il criterio della “causa petendi” cioè dell'intrinseca natura della controversia dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti sono manifestazione (Cassazione Sez. Unite, 26.01.2011 n. 1767; TAR Campania Napoli, sez. V, 01.04.2011, n. 1909).
Le questioni civilistiche intercorse tra la ricorrente ed il controinteressato in materia di titolarità del diritto di proprietà dell’area interessata dall’intervento oggetto della adottata variante, pur effettivamente poste ad unico motivo della deliberazione impugnata, costituiscono in linea generale presupposto per l’esercizio dello ius aedificandi, dal momento che è fatto obbligo all’autorità comunale in sede di rilascio dei titoli abilitativi, verificare la sussistenza della titolarità del diritto di proprietà o altro diritto reale in capo al soggetto istante (ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2546; TAR Lazio-Latina 23.09.2013, n. 725)
Va pertanto affermata la giurisdizione del giudice amministrativo.
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Questione dirimente per la decisione della controversia va individuata nella legittimità del disposto stralcio per effetto delle contestazioni sorte in sede di osservazioni alla variante adottata in merito alla titolarità del diritto di proprietà sulle aree interessate dall’intervento richiesto dalla ricorrente, si da consentire l’esame unitario delle doglianze rubricate, da essa tutte dipendenti in senso logico.
Ritiene la ricorrente, in buona sostanza, che tale unica motivazione sia frutto di evidente sviamento, non potendo l’Amministrazione sottrarsi dal compito di interpretare le proprie norme urbanistiche, con particolare riferimento all’art. 120 delle N.T.A., in luogo di una indebita ingerenza nelle questioni interprivate sorte tra la ricorrente ed il controinteressato.
Trascura la ricorrente che se è vero che i titoli edilizi siano rilasciati "con salvezza dei diritti dei terzi" con la conseguenza che la loro rilevanza si esaurisce nel rapporto pubblicistico tra il richiedente e l'Amministrazione che, quindi, non è tenuta a interessarsi di controversie esistenti tra il richiedente e terzi né a svolgere particolari e approfondite indagini, la legge -stabilendo che il titolo è rilasciato al "proprietario o a chi abbia titolo per richiederlo"- impone comunque all'Amministrazione di procedere a una verifica circa l'esistenza del diritto di proprietà o di un altro diverso e idoneo diritto di godimento (ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2546; TAR Lazio-Latina 23.09.2013, n. 725; TAR Umbria 29.08.2013, n.452).
L’incertezza della titolarità del diritto di proprietà, nel caso di specie, è sorta fin dal rilascio del permesso di costruire n. 15/2011 dal momento che da prima il Comune resistente ne ha condizionato il rilascio alla previa verifica della effettiva conformità del progetto presentato con le disposizioni di P.R.G., mentre in seguito la stessa ricorrente ha preferito sospendere l’esecuzione dei lavori già assentiti, comportamento del tutto anomalo laddove fosse invece certa la possibilità di edificare, come vorrebbe invece far intendere la ricorrente.
In tal quadro di obiettiva incertezza ben noto all’odierna istante, la scelta del Comune di procedere allo stralcio della variante in riferimento all’area di proprietà della sig.ra D., nella sostanza (Consiglio di Stato sez. IV, 03.10.2012, n. 3697) equivalente ad atto di diniego dell’approvazione della variante stessa, appare senz’altro riconducibile alle prerogative pubblicistiche comunali in materia di gestione del territorio, per accertata insussistenza dei presupposti normativi per realizzare l’intervento richiesto.
Per le suesposte considerazioni la deliberazione consiliare impugnata risulta immune da tutte le censure di violazione di legge ed eccesso di potere dedotte
(TAR Umbria, sentenza 25.07.2014 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, “ma per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'Ente dotato della relativa potestà provvedimentale” con la conseguenza che “il ricorso proposto contro il mero verbale è inammissibile, in quanto incentrato su atto avente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi, occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un formale atto di accertamento. La potestà lesiva è, quindi, ravvisabile soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità amministrativa comunale recepisce gli esiti del sopralluogo e forma, quindi, il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al proprio patrimonio”.
Giova osservare, in merito, che ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, “ma per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'Ente dotato della relativa potestà provvedimentale” con la conseguenza che “il ricorso proposto contro il mero verbale è inammissibile, in quanto incentrato su atto avente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi, occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un formale atto di accertamento. La potestà lesiva è, quindi, ravvisabile soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità amministrativa comunale recepisce gli esiti del sopralluogo e forma, quindi, il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al proprio patrimonio” (cfr. ex multis, Tar Valle d’Aosta, Aosta, sezione prima, 24.07.2012, n. 74; Tar Campania, Napoli, sezione ottava, 11.10.2011, n. 4645; sezione settima, 08.07.2011, n. 3647; sezione terza, 01.02.2011, n. 633) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.07.2014 n. 4211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria che riguardi opere abusive realizzate su un'area oggetto di vincolo paesaggistico—ambientale, produce l'effetto, così come in caso di proposizione di istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente all'impugnazione dell'ordine di demolizione, di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per carenza di interesse.
Infatti, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto (espresso o tacito), che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio, oggetto dell'originario ricorso, che deve conseguentemente essere dichiarato improcedibile per carenza di interesse perché l'interesse del responsabile dell'abuso si sposta, dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace, all'annullamento dell'eventuale provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti sanzionatori.
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Tali conclusioni valgono a condizione che si tratti di opere che, prima facie, non hanno determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero un aumento di quelli legittimamente realizzati, e questo in quanto l'art. 146, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004 esclude dal divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica, in sanatoria (ossia successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi) i casi previsti dall'articolo 167, comma 4, del medesimo decreto legislativo, costituiti -oltre che dall'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria- proprio dai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” (per contro, per i lavori realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica che hanno determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero un aumento di quelli legittimamente realizzati, deve affermarsi l'inidoneità della presentazione dell'istanza di accertamento di conformità a determinare l'inefficacia dell'ordine di demolizione relativo a tali lavori, posto che tale istanza avrebbe un intento meramente dilatorio ed è palese che il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato -ossia l'ordine di demolizione- non potrà essere diverso a seguito della pronuncia dell'Amministrazione sulla richiesta di sanatoria).

Al di là del contenuto del parere, il collegio si riporta alla giurisprudenza consolidata, anche di questo Tribunale, secondo la quale la presentazione dell'istanza di sanatoria che riguardi opere abusive realizzate su un'area oggetto di vincolo paesaggistico—ambientale, produce l'effetto, così come in caso di proposizione di istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente all'impugnazione dell'ordine di demolizione, di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per carenza di interesse. Infatti, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto (espresso o tacito), che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio, oggetto dell'originario ricorso, che deve conseguentemente essere dichiarato improcedibile per carenza di interesse perché l'interesse del responsabile dell'abuso si sposta, dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace, all'annullamento dell'eventuale provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti sanzionatori (ex multis TAR Napoli sez. VII, 07.10.2011 n. 4633).
Tali conclusioni valgono a condizione che si tratti di opere che, prima facie, non hanno determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero un aumento di quelli legittimamente realizzati, e questo in quanto l'art. 146, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004 esclude dal divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica, in sanatoria (ossia successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi) i casi previsti dall'articolo 167, comma 4, del medesimo decreto legislativo, costituiti -oltre che dall'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria- proprio dai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” (per contro, per i lavori realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica che hanno determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero un aumento di quelli legittimamente realizzati, deve affermarsi l'inidoneità della presentazione dell'istanza di accertamento di conformità a determinare l'inefficacia dell'ordine di demolizione relativo a tali lavori, posto che tale istanza avrebbe un intento meramente dilatorio ed è palese che il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato -ossia l'ordine di demolizione- non potrà essere diverso a seguito della pronuncia dell'Amministrazione sulla richiesta di sanatoria) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa misura della demolizione per la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate è applicabile sia che venga accertato l'inizio, sia nel caso di avvenuta completa esecuzione di interventi abusivi.
In particolare, la corretta interpretazione dell'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 -la cui formulazione differisce, tra l'altro, dal precedente art. 4 della L. n. 47/1985 anche nel riferimento espresso all'accertamento dell'esecuzione (e non più soltanto dell'"inizio") delle opere- conduce a ritenere innanzi tutto che l'inizio dell'esecuzione dell'opera abusiva costituisca la condizione minima per l'adozione del provvedimento di demolizione, ma né la lettera né lo scopo della norma legittimano a ritenere che l'adozione di tale provvedimento sia preclusa nel caso in cui l'opera sia ultimata.

Da rigettare è altresì la censura, in verità appena ventilata, contenuta nel primo motivo di ricorso, basata sulla circostanza di fatto che al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio, le opere sarebbero state terminate e, pertanto, non sarebbe applicabile la procedura di demolizione d’ufficio, prevista dall’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001.
Il testo del comma 2 dell’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che il dirigente o il responsabile ordini la demolizione, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite” senza titolo in area vincolata.
Dal testo della norma in questione si evince chiaramente come la misura della demolizione per la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate è applicabile sia che venga accertato l'inizio, sia nel caso di avvenuta completa esecuzione di interventi abusivi
In particolare, la corretta interpretazione dell'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 -la cui formulazione differisce, tra l'altro, dal precedente art. 4 della L. n. 47/1985 anche nel riferimento espresso all'accertamento dell'esecuzione (e non più soltanto dell'"inizio") delle opere- conduce a ritenere innanzi tutto che l'inizio dell'esecuzione dell'opera abusiva costituisca la condizione minima per l'adozione del provvedimento di demolizione, ma né la lettera né lo scopo della norma legittimano a ritenere che l'adozione di tale provvedimento sia preclusa nel caso in cui l'opera sia ultimata (TAR Lazio Roma Sez. I-quater Sent., 16.04.2008, n. 3259; in termini Cons. Stato, Sez. IV Sent., 10.08.2007, n. 4396, TAR Campania Napoli Sez. VI, 30.01.2007, n. 766) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.07.2014 n. 4197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISulla possibilità -o meno- di accedere alla documentazione (segnalazione pervenuta al Comune e verbale di sopralluogo esperito dall’UTC) che ha determinato il Comune ad adottare nei confronti dei ricorrenti la diffida ad eliminare ad horas pigne e rami secchi dei pini che sorgono sul terreno di loro proprietà suscettibili di determinare, secondo l’amministrazione, pericoli per la pubblica e privata incolumità.
In linea generale, il Collegio rileva che non può essere negato l’accesso ai documenti che riguardano espressamente la posizione giuridica degli instanti e che possono da questi essere utilizzati a fini di tutela giurisdizionale.
Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, che è condivisa da questo Collegio, rientrano nel novero di questi atti, le diffide, le denunce, gli esposti presentati da un privato ad una pubblica amministrazione, che abbiano determinato l’attivazione di un potere di controllo, ispettivo o di vigilanza; non vi osta, infatti, il diritto alla riservatezza che non può essere invocato quando la richiesta di accesso ha ad oggetto il contenuto di denunce o rapporti informativi nell’ambito di un procedimento ispettivo o di controllo, giacché la conoscenza integrale dell’esposto rappresenta uno strumento indispensabile per la tutela degli interessi giuridici del richiedente, in quanto solo avendo accesso agli atti che lo riguardano egli può eventualmente difendere in giudizio la propria posizione e i propri interessi giuridici.
Ciò in quanto nell’attuale sistema di diritto positivo, la tutela dell'accesso prevale sulla tutela della riservatezza qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei propri interessi giuridici, salvo che vengano in considerazione dati sensibili o sensibilissimi, evenienza che non risulta nel caso in questione.

... per l'annullamento del silenzio serbato sull'istanza di accesso del 25.03.2014 e conseguente accertamento del diritto all’accesso e ordine di esibizione dei documenti richiesti e precisamente della segnalazione che ha dato origine al sopralluogo e al verbale redatto in sede di sopralluogo e tutti gli atti consequenziali;
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Come esposto in fatto i ricorrenti hanno chiesto di accedere alla documentazione (segnalazione pervenuta al Comune e verbale di sopralluogo esperito dall’UTC) che ha determinato il Comune di Caserta ad adottare nei loro confronti la diffida n. 13/2014 ad eliminare ad horas pigne e rami secchi dei pini che sorgono sul terreno di loro proprietà suscettibili di determinare, secondo l’amministrazione, pericoli per la pubblica e privata incolumità.
In linea generale, il Collegio rileva che non può essere negato l’accesso ai documenti che riguardano espressamente la posizione giuridica degli instanti e che possono da questi essere utilizzati a fini di tutela giurisdizionale.
Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, che è condivisa da questo Collegio (ex multis, C.d.S. sez. V, sentenze n. 5132 del 28.09.2012, sez. IV n. 4769/2011, TAR Campania, Napoli, questa stessa sezione, 16.06.2010 n. 14859), rientrano nel novero di questi atti, le diffide, le denunce, gli esposti presentati da un privato ad una pubblica amministrazione, che abbiano determinato l’attivazione di un potere di controllo, ispettivo o di vigilanza; non vi osta, infatti, il diritto alla riservatezza che non può essere invocato quando la richiesta di accesso ha ad oggetto il contenuto di denunce o rapporti informativi nell’ambito di un procedimento ispettivo o di controllo, giacché la conoscenza integrale dell’esposto rappresenta uno strumento indispensabile per la tutela degli interessi giuridici del richiedente, in quanto solo avendo accesso agli atti che lo riguardano egli può eventualmente difendere in giudizio la propria posizione e i propri interessi giuridici.
Ciò in quanto nell’attuale sistema di diritto positivo, la tutela dell'accesso prevale sulla tutela della riservatezza qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei propri interessi giuridici, salvo che vengano in considerazione dati sensibili o sensibilissimi (cfr. ex multis, Consiglio Stato, sez. VI, 23.10.2007, n. 5569), evenienza che non risulta nel caso in questione.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, va dichiarato illegittimo l’impugnato silenzio-rigetto e ordinato all’amministrazione di consentire, ai sensi dell’art. 25 l. 241/1990 s.m.i, agli interessati l’accesso ai documenti richiesti secondo le modalità indicate in dispositivo (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.07.2014 n. 4177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Sulla qualificazione del certificato di esecuzione dei lavori.
Con la sentenza 21.07.2014 n. 32046 la V Sez. penale della Corte di Cassazione ha preso posizione in ordine alla natura del certificato di esecuzione dei lavori (cd. CEL)
giungendo ad escludere che possa essere ritenuto un atto pubblico e, conseguentemente, che il direttore dei lavori dell’opera cui si riferisce sia un pubblico ufficiale nel momento in cui lo sottoscrive.
La nozione di atto pubblico -si legge in sentenza– comprende un’ampia estensione tipologica di scritti, inclusi gli atti non previsti tassativamente dalla legge come tali: ai fini della configurabilità dell’atto pubblico, riveste carattere essenziale la provenienza dell’atto da un pubblico ufficiale, la formazione dello stesso per uno scopo inerente alle funzioni svolte dal medesimo, ed il contributo fornito dall’atto ad un procedimento della pubblica amministrazione.
Ciò posto –prosegue la Corte– i certificati di esecuzione dei lavori rilasciati dai committenti privati e controfirmati dal direttore dei lavori, sono espressamente configurati dal D.Lgs. n. 163 del 2006, la cui allegazione alla richiesta di attestazione per la qualificazione SOA ha il fine di documentare il possesso da parte del richiedente, di alcuni requisiti tecnici previsti dalla normativa per il rilascio dell’anzidetta attestazione.
Ebbene, il fatto che tale documento sia disciplinato da norma di diritto pubblico e che il suo rilascio si inserisce in una procedura da esse disciplinata, non costituiscono ragioni sufficienti per conferirgli dignità di atto pubblico e per attribuire al professionista che lo sottoscrive la qualifica di pubblico ufficiale (tratto da www.giurisprudenzapenale.com).

EDILIZIA PRIVATACostituisce orientamento condiviso dal Collegio quello a mente del quale ai sensi dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, è illegittimo il diniego di rilascio della concessione edilizia che non sia stato preceduto dalla previa comunicazione all'interessato dei motivi che ostano all'accoglimento della sua istanza.
La norma invocata assume carattere e natura di principio, le cui eccezioni sono individuate ex lege e, in quanto tali, non sono estensibili analogicamente.
In proposito, l'amministrazione deve adeguatamente valutare le osservazioni formulate dal privato a seguito della comunicazione ex art. 10-bis, dal momento che tale norma sancisce espressamente che: "dell'eventuale mancato accoglimento di tali ragioni è data motivazione nel provvedimento finale”.

- atteso che, in linea di diritto, costituisce orientamento condiviso dal Collegio quello a mente del quale ai sensi dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, è illegittimo il diniego di rilascio della concessione edilizia che non sia stato preceduto dalla previa comunicazione all'interessato dei motivi che ostano all'accoglimento della sua istanza (cfr. ad es. Tar Campania 5940/2013);
- considerato che la norma invocata assume carattere e natura di principio, le cui eccezioni sono individuate ex lege (senza che vi rientri il caso di specie) e, in quanto tali, non sono estensibili analogicamente;
- atteso che, in proposito, l'amministrazione deve adeguatamente valutare le osservazioni formulate dal privato a seguito della comunicazione ex art. 10-bis, dal momento che tale norma sancisce espressamente che: "dell'eventuale mancato accoglimento di tali ragioni è data motivazione nel provvedimento finale” (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa divisione ed il frazionamento di un immobile in due unità, autonomamente utilizzabili e con distinti ingressi e servizi, costituisce ristrutturazione edilizia che, comportando mutamento di destinazione d'uso e comunque un evidente maggiore carico urbanistico, giustifica il pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Ad analoghe conclusioni è altresì giunta la giurisprudenza penale (a conferma della qualificazione in termini di principio della materia edilizio–urbanistica) laddove, proprio in relazione a lavori finalizzati a suddividere un preesistente fabbricato in due unità immobiliari, mediante opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte e finestre esterne, si è ritenuto integrato il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380) l'esecuzione di interventi di ristrutturazione edilizia incidenti sul carico urbanistico realizzati mediante d.i.a. semplice, in quanto attività edilizia eseguibile esclusivamente in base alla d.i.a. alternativa al permesso di costruire.
In generale, per una corretta qualificazione dell’intervento edilizio occorre guardare non solo alla mera opera materiale bensì al complessivo risultato ottenuto mediante la stessa, per cui anche semplici interventi edilizi interni che danno vita ad un'unica vasta unità immobiliare ovvero a due nuove unità in luogo dell’unica precedente provocano una diversa utilizzazione dell'area interessata ed una sensibile variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.

Sul secondo versante, la correttezza della qualificazione posta a base della determinazione comunale trova il proprio dirimente sostegno nella palese sussistenza di un aumento del c.d. carico urbanistico, a fronte della consistenza dell’intervento progettato.
In proposito, costituisce opinione prevalente, condivisa dal Collegio ed integrante un’indicazione di principio tale da fungere da ausilio ermeneutico anche per le discipline regionali e locali, la considerazione in base alla quale la divisione ed il frazionamento di un immobile in due unità, autonomamente utilizzabili e con distinti ingressi e servizi, costituisce ristrutturazione edilizia che, comportando mutamento di destinazione d'uso e comunque un evidente maggiore carico urbanistico, giustifica il pagamento degli oneri di urbanizzazione (CdS 2838/2012).
Ad analoghe conclusioni è altresì giunta la giurisprudenza penale (a conferma della qualificazione in termini di principio della materia edilizio–urbanistica) laddove, proprio in relazione a lavori finalizzati a suddividere un preesistente fabbricato in due unità immobiliari, mediante opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte e finestre esterne, si è ritenuto integrato il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380) l'esecuzione di interventi di ristrutturazione edilizia incidenti sul carico urbanistico realizzati mediante d.i.a. semplice, in quanto attività edilizia eseguibile esclusivamente in base alla d.i.a. alternativa al permesso di costruire (cfr. ad es. Cass. Pen. 20350/2010).
In generale, per una corretta qualificazione dell’intervento edilizio occorre guardare non solo alla mera opera materiale bensì al complessivo risultato ottenuto mediante la stessa, per cui anche semplici interventi edilizi interni che danno vita ad un'unica vasta unità immobiliare ovvero a due nuove unità in luogo dell’unica precedente provocano una diversa utilizzazione dell'area interessata ed una sensibile variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
Nel caso de quo, la suddivisione dell’unità immobiliare in due immobili distinti appare pacifica, con la conseguenza che il relativo impatto urbanistico ne impone una qualificazione che, a norma della pianificazione comunale vigente, comporta la necessaria presentazione di uno strumento urbanistico attuativo, senza poter quindi seguire la strada tentata da parte ricorrente della c.d. d.i.a. semplice (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa norma di cui all’art. 10-bis l. 241/1990, nel disciplinare l'istituto del cd. "preavviso di rigetto", ha lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e giuridiche, dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti.
Tuttavia, l'obbligo di motivazione gravante sulla P.A. a fronte delle osservazioni proposte a seguito del preavviso di rigetto non impone ai fini della legittimità del definitivo diniego dell'istanza dell'interessato, la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dall'interessato, essendo sufficiente la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno del provvedimento finale.
Inoltre, avendo la norma lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da queste assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni (fattuali e giuridiche) dell'interessato, che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo, è ben possibile che la motivazione finale non coincida in toto, negli esiti e negli ambiti, con quanto paventato in sede di comunicazione.

In proposito, costituisce esito fisiologico della stessa funzione della comunicazione di cui all’art. 10-bis che la p.a. procedente possa giungere a meglio definire e chiarire la posizione negativa proprio sulla scorta delle osservazioni che il privato, posto in condizione di conoscere preventivamente l’avviso negativo della p.a., ha avuto modo di formulare partecipando.
In linea di diritto, va ribadito che la norma di cui all’art. 10-bis l. 241 cit., nel disciplinare l'istituto del cd. "preavviso di rigetto", ha lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e giuridiche, dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti; tuttavia, l'obbligo di motivazione gravante sulla P.A. a fronte delle osservazioni proposte a seguito del preavviso di rigetto non impone ai fini della legittimità del definitivo diniego dell'istanza dell'interessato, la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dall'interessato, essendo sufficiente la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno del provvedimento finale (Tar Lombardia n. 395/2014); inoltre, avendo la norma lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da queste assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni (fattuali e giuridiche) dell'interessato, che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo, è ben possibile che la motivazione finale non coincida in toto, negli esiti e negli ambiti, con quanto paventato in sede di comunicazione (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia edilizia la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo.
In linea di diritto, va ulteriormente ribadito che in materia edilizia la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (cfr. ex multis Consiglio di Stato n. 3094/2014 e Tar Liguria n. 1257/2013).
Nel caso di specie la vicinanza e l'identità del contesto territoriale ed urbanistico fra immobile dei ricorrenti ed immobile interessato dalle opere contestate è indiscussa, come emerge dalla documentazione cartografica, fotografica e anche progettuale versata in atti
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In relazione all’impugnativa di titoli in sanatoria, la giurisprudenza prevalente, condivisa dal Collegio, ritiene che nel caso d'impugnazione del titolo edilizio in sanatoria il termine decorra dalla data in cui sia portato a conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria.
In proposito, anche per evidenti ragioni connesse alla natura delle opere, in materia occorre distinguere:
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "ordinario" -salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento in precedenza assentito;
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "in sanatoria" il termine decorre invece solamente dalla data in cui sia portato a conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria.

In linea di diritto, in relazione all’impugnativa di titoli in sanatoria, la giurisprudenza prevalente, condivisa dal Collegio, ritiene che nel caso d'impugnazione del titolo edilizio in sanatoria il termine decorra dalla data in cui sia portato a conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato n. 1699/2013 e 8017/2011).
In proposito, anche per evidenti ragioni connesse alla natura delle opere, in materia occorre distinguere: nel caso di impugnazione del titolo edilizio "ordinario" -salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento in precedenza assentito (cfr. ex multis Cons. St., Ad. Plen., 29.07.2011 n. 15; Cons. St., sez. VI, 10.12.2010 n. 8705); nel caso di impugnazione del titolo edilizio "in sanatoria" il termine decorre invece solamente dalla data in cui sia portato a conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATACostituisce jus receptum il principio a mente del quale in materia di autotutela decisoria, stante la pacifica natura discrezionale dell'atto di annullamento d'ufficio, occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi pur sempre di attività di secondo grado incidente su situazioni giuridiche "medio tempore" consolidatesi ed astretta pertanto a stringenti limiti applicativi.
In proposito, costituisce jus receptum il principio a mente del quale in materia di autotutela decisoria, stante la pacifica natura discrezionale dell'atto di annullamento d'ufficio, occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi pur sempre di attività di secondo grado incidente su situazioni giuridiche "medio tempore" consolidatesi ed astretta pertanto a stringenti limiti applicativi (cfr. ad es. CdS 4997/2012) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che per gli appalti di lavori le stazioni appaltanti sono tenute a verificare gli oneri per la sicurezza nella sola fase di verifica dell’anomalia dell’offerta. Non è, pertanto, necessario indicare nell’offerta i costi per la sicurezza aziendale.
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L’art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che le concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e del codice dei contratti pubblici e che ad esse si applicano i principi desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
I costi sostenuti per la sicurezza non possono farsi rientrare tra i principi generali a tutela della concorrenza, in quanto perseguono la diversa finalità di tutela dei lavoratori e vengono in rilievo, come sopra rilevato, nella fase di verifica dell’anomalia dell’offerta.
Del resto, se la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha escluso che sussiste finanche per i contratti di appalto di lavori disciplinati dal Codice l’obbligo di indicare nell’offerta gli oneri di sicurezza, non potrebbe sostenersi, come ha fatto il primo giudice, che tale obbligo trovi applicazione per le concessioni di servizi.

L’art. 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture».
L’art. 87 dello stesso decreto legislativo dispone, al comma 4, che: «nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture».
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che, alla luce di quanto disposto dalle norme sopra riportate, per gli appalti di lavori le stazioni appaltanti sono tenute a verificare gli oneri per la sicurezza nella sola fase di verifica dell’anomalia dell’offerta. Non è, pertanto, necessario indicare nell’offerta i costi per la sicurezza aziendale (in questo senso, da ultimo, Cons. Stato, V, 17.06.2014, n. 3056).
L’art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che le concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e del codice dei contratti pubblici e che ad esse si applicano i principi desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
I costi sostenuti per la sicurezza non possono farsi rientrare tra i principi generali a tutela della concorrenza, in quanto perseguono la diversa finalità di tutela dei lavoratori e vengono in rilievo, come sopra rilevato, nella fase di verifica dell’anomalia dell’offerta.
Del resto, se la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha escluso che sussiste finanche per i contratti di appalto di lavori disciplinati dal Codice l’obbligo di indicare nell’offerta gli oneri di sicurezza, non potrebbe sostenersi, come ha fatto il primo giudice, che tale obbligo trovi applicazione per le concessioni di servizi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.07.2014 n. 3864 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALIL’art. 38 del d.lgs. n. 267/2000, dando seguito al principio di pubblicità degli atti dell’amministrazione comunale sancito dall’art. 10, dispone: “Quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Il regolamento determina i poteri delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori. Le sedute del consiglio e delle commissioni sono pubbliche salvi i casi previsti dal regolamento”.
Ciò vuol dire che chiunque può assistere ai lavori delle Commissioni senza doverne spiegare le ragioni.
Ne consegue che non può denegarsi al cittadino l’accesso ai verbali che sono il resoconto delle sedute delle Commissioni, sul presupposto che la relativa istanza sarebbe preordinata ad esercitare un controllo generalizzato sull’attività che esse svolgono.
Ammettere il contrario sarebbe come dire che le sedute delle Commissioni sono pubbliche, ma non lo sono i relativi verbali, in aperta violazione sia con il principio sancito dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 -tutti gli atti dell'amministrazione comunale e provinciale sono pubblici- che con l’art. 1 del d.lgs. 33/2013 che dispone: “La trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”.
La lettura coordinata delle diposizioni in rassegna consente di affermare che non può opporsi il diniego alla ostensione degli atti amministrativi, motivato dall’essere l’istanza preordinata ad esercitare un controllo generalizzato laddove gli atti richiesti, per giunta pubblici, afferiscano all’attività istituzionale della pubblica amministrazione –nel caso in esame proprio di questo di tratta- per la quale il legislatore, lungi dal considerarle con sfavore, perfino esige che siano promosse forme diffuse di controllo.
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In generale l’onere di specificazione dei documenti richiesti serve a consentire alla pubblica amministrazione l’individuazione dei documenti, la valutazione dell'interesse del richiedente rispetto al documento richiesto e l'eventuale esistenza di controinteressati per ragioni di riservatezza.
Nel caso in decisione poiché gli atti pubblici per definizione escludono l’esistenza di soggetti controinteressati alla loro divulgazione e, come detto, sono accessibili senza necessità di allegare un interesse qualificato, occorre avere riguardo solo alla prima di tali finalità e quindi accertare se la richiesta di accedere a tutti i verbali delle Commissioni abbia impedito al Comune di identificare i documenti richiesti.

Il ricorso è fondato.
Occorre premettere, in linea di principio, che l’art. 38 del d.lgs. n. 267/2000, dando seguito al principio di pubblicità degli atti dell’amministrazione comunale sancito dall’art. 10, dispone: “Quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Il regolamento determina i poteri delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori. Le sedute del consiglio e delle commissioni sono pubbliche salvi i casi previsti dal regolamento”.
Ciò vuol dire che chiunque può assistere ai lavori delle Commissioni senza doverne spiegare le ragioni.
Ne consegue che non può denegarsi al cittadino l’accesso ai verbali che sono il resoconto delle sedute delle Commissioni, sul presupposto che la relativa istanza sarebbe preordinata ad esercitare un controllo generalizzato sull’attività che esse svolgono.
Ammettere il contrario sarebbe come dire che le sedute delle Commissioni sono pubbliche, ma non lo sono i relativi verbali, in aperta violazione sia con il principio sancito dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 -tutti gli atti dell'amministrazione comunale e provinciale sono pubblici- che con l’art. 1 del d.lgs. 33/2013 che dispone: “La trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”.
La lettura coordinata delle diposizioni in rassegna consente di affermare che non può opporsi il diniego alla ostensione degli atti amministrativi, motivato dall’essere l’istanza preordinata ad esercitare un controllo generalizzato laddove gli atti richiesti, per giunta pubblici, afferiscano all’attività istituzionale della pubblica amministrazione –nel caso in esame proprio di questo di tratta- per la quale il legislatore, lungi dal considerarle con sfavore, perfino esige che siano promosse forme diffuse di controllo.
Né può trovare accoglimento l’eccezione di genericità della richiesta di accesso formulata in discussione dal Comune perché avente ad oggetto indistintamente tutti i verbali delle Commissioni.
In generale l’onere di specificazione dei documenti richiesti serve a consentire alla pubblica amministrazione l’individuazione dei documenti, la valutazione dell'interesse del richiedente rispetto al documento richiesto e l'eventuale esistenza di controinteressati per ragioni di riservatezza.
Nel caso in decisione poiché gli atti pubblici per definizione escludono l’esistenza di soggetti controinteressati alla loro divulgazione e, come detto, sono accessibili senza necessità di allegare un interesse qualificato, occorre avere riguardo solo alla prima di tali finalità e quindi accertare se la richiesta di accedere a tutti i verbali delle Commissioni abbia impedito al Comune di identificare i documenti richiesti.
E’ evidente che così non è perché il Comune non ha avuto alcuna difficoltà ad individuare e consentire l’accesso a “tutte” le determine di liquidazione dei gettoni di presenza dei membri alle riunioni delle Commissioni consiliari e, quindi, a fortiori avrebbe potuto accogliere l’istanza di estrazione di copia dei relativi verbali, fatta eccezione per i verbali delle sedute che il Regolamento consiliare eventualmente escluda dal regime di pubblicità dei lavori, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 18.07.2014 n. 958 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere subordinato all'accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari, presuppone altresì la conformità urbanistica ed edilizia dell'opera.
E’ stato anche chiarito che il requisito dell'agibilità riflette non solo la regolarità igienico-sanitaria dell'edificio, ma anche alla sua conformità urbanistico-edilizia e paesaggistica.

Ciò premesso, secondo il dato normativo vigente, il rilascio del certificato di agibilità presuppone la conformità del fabbricato ai parametri normativi e regolamentari urbanistici ed edilizi.
Invero, l'art. 24, comma 3, DPR n. 380 del 2001 dispone che "il soggetto titolare del permesso di costruire" è tenuto "a chiedere il certificato di agibilità".
L'art. 35, comma 20, L. 28.02.1985, n. 47 (norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizia) prevede che "a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica".
I dati normativi sopra richiamati ed il principio di ragionevolezza dell’azione amministrativa, nella valutazione e nel bilanciamento degli interessi pubblici e privati in campo, escludono l’utilizzo, per qualsivoglia destinazione, di un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata.
Non a caso le sopra descritte precise indicazioni normative sono seguite da univoca giurisprudenza, secondo cui il rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere subordinato all'accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari, presuppone altresì la conformità urbanistica ed edilizia dell'opera (cfr. TAR Palermo, sez. III, 20.12.2013, n. 2534). E’ stato anche chiarito che il requisito dell'agibilità riflette non solo la regolarità igienico-sanitaria dell'edificio, ma anche alla sua conformità urbanistico-edilizia e paesaggistica (ex multis: Cons. Stato, sez. V, 16.05.2013, n. 2665; idem 30.04.2009, n. 2760; TAR Palermo, II, 24.05.2012, n. 1055).
Se quindi può censurarsi l’ordinanza impugnata per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, in applicazione dell’art. 7 L. n. 241/1990, e per il fatto che l’amministrazione abbia intimato la sospensione dell’attività prima di avere concluso il procedimento relativo alla richiesta di rilascio del certificato di agibilità, il provvedimento impugnato si sottrae tuttavia alle molteplici censure formulate col primo motivo di ricorso, posto che, nella fattispecie in esame, erano del tutto assenti i presupposti per ottenere tale rilascio (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 17.07.2014 n. 3992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Deve, sul punto, premettersi la distinzione tra il piano dei servizi e il piano delle regole in relazione alla funzione dagli stessi perseguita.
Mentre, infatti, il piano dei servizi mira a conseguire, sulla base della valutazione dei servizi esistenti e delle risorse disponibili, una migliore politica urbana per il benessere dei cittadini, individuando, di conseguenza, gli spazi necessari per realizzare le nuove infrastrutture, il piano delle regole mira a disciplinare la migliore utilizzazione possibile del tessuto urbano consolidato.
Inoltre, per l’opinione costante della dottrina e della giurisprudenza amministrativa, ogni previsione pianificatoria ha finalità ed effetti propri rispetto alle precedenti, non sussistendo, quindi, alcun vincolo di pregiudizialità fra piani.
Con l’approvazione della variante al PGT le previgenti previsioni urbanistiche vengono sostituite, non potendo sussistere alcuna ultrattività delle medesime. Ne scaturisce un rinnovato interesse di coloro che sono danneggiati dalle nuove determinazioni ad impugnarle.
E’ stato, in proposito, osservato che “in base al principio della successione nel tempo delle norme, con l'approvazione di un nuovo Piano Regolatore, le disposizioni successivamente intervenute sostituiscono integralmente le precedenti prescrizioni del vecchio Piano riguardanti la zona medesima, che vengono del tutto meno per la fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica, che ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la finalità di adeguare la disciplina del territorio alle sopravvenute esigenze. Pertanto, essendo espressione di valutazione all'attualità delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio, le nuove previsioni del Piano Regolatore: - hanno un carattere di assoluta prevalenza; - non possono essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività" del precedente PRG; - si sostituiscono integralmente (salvo il caso di una specifica norma transitoria ah hoc) alle precedenti disposizioni le quali non possono comunque conservare alcuna efficacia”.
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Il ricorso è fondato per il primo motivo, con il quale gli istanti hanno dedotto la carenza di istruttoria e di motivazione alla base delle nuove previsioni urbanistiche in relazione alla precedente vocazione edificatoria dell’area di loro proprietà e al cospetto, dunque, di un indubbio affidamento nei confronti dei medesimi ingenerato riguardo alla possibilità di costruirvi una determinata volumetria.
Tale affidamento, peraltro, aveva formato oggetto di istanze specifiche all’amministrazione comunale, ed era stato opportunamente esternato anche mediante la presentazione di analitiche osservazioni nel corso dell’iter di adozione e approvazione della variante urbanistica, alle quali non si è fornito, peraltro, specifico e adeguato riscontro.
Nonostante generalmente si ritenga, invero, sufficiente che l’amministrazione fornisca una sommaria motivazione delle proprie scelte pianificatorie e che non contenga, dunque, un’analitica confutazione delle singole osservazioni svolte dalla parte interessata, la scelta deve, pur sempre, esternare le ragioni a supporto di una legittima e ragionevole potestà pianificatoria.
La motivazione degli atti di pianificazione urbanistica deve, infatti, trovare un concreto raffronto con la realtà territoriale del comune cui si riferisce, evidenziandone le peculiarità che ne giustificano la scelta anche in relazione ai contrapposti interessi dei privati, eventualmente contemperando le più varie esigenze, soprattutto quando si va a modificare un assetto ormai consolidato e per gli stessi molto più vantaggioso.
Deve, inoltre, osservarsi che, sebbene non sussista un obbligo di previsione di un sistema urbanistico perequativo o compensativo, la tendenza è in tal senso, in adesione a politiche urbanistiche fondate su scelte operative volte a rendere i proprietari delle aree coinvolte compartecipi delle determinazioni, oltre che basate su una sempre più equa ripartizione del peso derivante dai vincoli imposti ai privati, anche di tipo conformativo.

Deve, sul punto, premettersi la distinzione tra il piano dei servizi e il piano delle regole in relazione alla funzione dagli stessi perseguita.
Mentre, infatti, il piano dei servizi mira a conseguire, sulla base della valutazione dei servizi esistenti e delle risorse disponibili, una migliore politica urbana per il benessere dei cittadini, individuando, di conseguenza, gli spazi necessari per realizzare le nuove infrastrutture, il piano delle regole mira a disciplinare la migliore utilizzazione possibile del tessuto urbano consolidato.
Inoltre, per l’opinione costante della dottrina e della giurisprudenza amministrativa, ogni previsione pianificatoria ha finalità ed effetti propri rispetto alle precedenti, non sussistendo, quindi, alcun vincolo di pregiudizialità fra piani.
Con l’approvazione della variante al PGT le previgenti previsioni urbanistiche vengono sostituite, non potendo sussistere alcuna ultrattività delle medesime. Ne scaturisce un rinnovato interesse di coloro che sono danneggiati dalle nuove determinazioni ad impugnarle.
E’ stato, in proposito, osservato che “in base al principio della successione nel tempo delle norme, con l'approvazione di un nuovo Piano Regolatore, le disposizioni successivamente intervenute sostituiscono integralmente le precedenti prescrizioni del vecchio Piano riguardanti la zona medesima, che vengono del tutto meno per la fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica, che ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la finalità di adeguare la disciplina del territorio alle sopravvenute esigenze. Pertanto, essendo espressione di valutazione all'attualità delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio, le nuove previsioni del Piano Regolatore: - hanno un carattere di assoluta prevalenza; - non possono essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività" del precedente PRG; - si sostituiscono integralmente (salvo il caso di una specifica norma transitoria ah hoc) alle precedenti disposizioni le quali non possono comunque conservare alcuna efficacia” (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2012, n. 693).
Nel merito, il ricorso è fondato per il primo motivo, con il quale gli istanti hanno dedotto la carenza di istruttoria e di motivazione alla base delle nuove previsioni urbanistiche in relazione alla precedente vocazione edificatoria dell’area di loro proprietà e al cospetto, dunque, di un indubbio affidamento nei confronti dei medesimi ingenerato riguardo alla possibilità di costruirvi una determinata volumetria. Tale affidamento, peraltro, aveva formato oggetto di istanze specifiche all’amministrazione comunale, ed era stato opportunamente esternato anche mediante la presentazione di analitiche osservazioni nel corso dell’iter di adozione e approvazione della variante urbanistica, alle quali non si è fornito, peraltro, specifico e adeguato riscontro.
Nonostante generalmente si ritenga, invero, sufficiente che l’amministrazione fornisca una sommaria motivazione delle proprie scelte pianificatorie e che non contenga, dunque, un’analitica confutazione delle singole osservazioni svolte dalla parte interessata, la scelta deve, pur sempre, esternare le ragioni a supporto di una legittima e ragionevole potestà pianificatoria.
La motivazione degli atti di pianificazione urbanistica deve, infatti, trovare un concreto raffronto con la realtà territoriale del comune cui si riferisce, evidenziandone le peculiarità che ne giustificano la scelta anche in relazione ai contrapposti interessi dei privati, eventualmente contemperando le più varie esigenze, soprattutto quando si va a modificare un assetto ormai consolidato e per gli stessi molto più vantaggioso.
Deve, inoltre, osservarsi che, sebbene non sussista un obbligo di previsione di un sistema urbanistico perequativo o compensativo, la tendenza è in tal senso, in adesione a politiche urbanistiche fondate su scelte operative volte a rendere i proprietari delle aree coinvolte compartecipi delle determinazioni, oltre che basate su una sempre più equa ripartizione del peso derivante dai vincoli imposti ai privati, anche di tipo conformativo.
Nella fattispecie in questione, invece, di tale tendenza non si rinviene alcuna manifestazione, avendo il pianificatore diminuito in maniera rilevante la capacità edificatoria di un’area privata ed avendola assoggettata, per di più, a un esclusivo vincolo a parcheggio che in precedenza era suddiviso a carico di tutte le aree del piano attuativo. Il tutto senza che possa evincersene a fondamento un’approfondita istruttoria e a supporto un’adeguata motivazione, soprattutto in corrispondenza dei contrapposti interessi privati sussistenti.
Alla luce delle suesposte considerazioni e assorbendosi le ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto, e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati.
In relazione all’istanza di risarcimento del danno formulata da parte ricorrente, allo stato non ne sussistono i presupposti, dovendo l’amministrazione comunale rideterminarsi in ordine alle proprie scelte pianificatorie alla luce dei succitati principi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 11.07.2014 n. 1842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIOE' illegittima la vendita di un immobile comunale laddove il prezzo base è desunto (genericamente) dal piano triennale delle alienazioni senza che sia stato determinato in conformità a quanto previsto dal regolamento comunale per la vendita.
Invero, il regolamento comunale stabilisce che  “la vendita non può in ogni caso avvenire ad un prezzo inferiore a quello di mercato determinato ai sensi del precedente art. 5, posto a base delle offerte da presentare”.
Il richiamato art. 5 dispone che i beni da alienare vengono preventivamente valutati al più probabile prezzo di mercato a cura di un tecnico abilitato dipendente dall’amministrazione comunale, o da commissioni tecniche, o da professionisti esterni appositamente incaricati.
Inoltre, si stabilisce che la perizia deve espressamente specificare: a) i criteri obiettivi e le motivazioni tecniche che hanno portato alla determinazione del valore di mercato dell’immobile; b) il grado di appetibilità del bene ed il mercato potenzialmente interessato all’acquisizione, configurato in relazione al territorio nazionale o regionale, locale e particolare, al fine di individuare le forme di pubblicità più efficaci per la vendita.
L’ultimo comma della norma in esame aggiunge che il prezzo a base di vendita sarà costituito dal valore di stima maggiorato del 2%, per compensare le spese tecniche e di pubblicità sostenute dall’Ente.
E nel caso di specie l’amministrazione non ha effettuato una stima del valore dell’immobile messo in vendita coerente con i criteri regolamentari appena richiamati.

E’ fondata e presenta carattere assorbente, perché di natura sostanziale, la censura con la quale si lamenta la violazione degli artt. 5 e 11 del regolamento speciale per la vendita di immobili, approvato con deliberazione del Consiglio Comunale di Calolziocorte n. 44, del 02.07.2007.
Nel caso di specie l’amministrazione ha posto in essere una procedura a trattativa privata, in coerenza con le previsioni dell’art. 11 del regolamento n. 44.
Tale norma dispone che “la vendita non può in ogni caso avvenire ad un prezzo inferiore a quello di mercato determinato ai sensi del precedente art. 5, posto a base delle offerte da presentare”.
Il richiamato art. 5 dispone che i beni da alienare vengono preventivamente valutati al più probabile prezzo di mercato a cura di un tecnico abilitato dipendente dall’amministrazione comunale, o da commissioni tecniche, o da professionisti esterni appositamente incaricati.
Inoltre, si stabilisce che la perizia deve espressamente specificare: a) i criteri obiettivi e le motivazioni tecniche che hanno portato alla determinazione del valore di mercato dell’immobile; b) il grado di appetibilità del bene ed il mercato potenzialmente interessato all’acquisizione, configurato in relazione al territorio nazionale o regionale, locale e particolare, al fine di individuare le forme di pubblicità più efficaci per la vendita.
L’ultimo comma della norma in esame aggiunge che il prezzo a base di vendita sarà costituito dal valore di stima maggiorato del 2%, per compensare le spese tecniche e di pubblicità sostenute dall’Ente.
Come condivisibilmente contestato dalla società ricorrente, nel caso di specie l’amministrazione non ha effettuato una stima del valore dell’immobile individuato al n. 11 del bando coerente con i criteri regolamentari appena richiamati.
L’amministrazione sostiene che la stima dei terreni è stata effettuata e ciò emergerebbe dagli allegati alla delibera consiliare n. 25 del 04.06.2012, recante l’approvazione del piano delle alienazioni e delle acquisizioni per il triennio 2012–2014.
In particolare, la stima risulterebbe dall’allegato denominato “elenco alienazioni anno 2012”. Tuttavia, tale documento si limita ad individuare, al n. 11, tra i terreni da alienare anche quelli situati in località Macorna, rispetto ai quali evidenzia i dati catastali, la superficie complessiva, la destinazione urbanistica ad “ambiti agricoli di interesse strategico”, l’assenza di possibilità edificatoria, nonché il valore fissato in 30.800,00 euro.
E’ evidente che la quantificazione del valore così operata non integra la stima prevista dall’art. 5 del regolamento speciale comunale.
Difatti, non vi è alcun riferimento al più probabile prezzo di mercato e manca ogni indicazione in ordine ai criteri e alle ragioni tecniche sottese alla determinazione; parimenti, difetta ogni indicazione in ordine al grado di appetibilità del bene e all’ambito territoriale del mercato potenzialmente interessato all’acquisto.
Insomma, dall’allegato alla delibera n. 25 risulta solo la fissazione di un valore monetario, mentre non vi sono elementi dai quali inferire i criteri utilizzati per la sua determinazione, né il rapporto in cui esso si colloca rispetto al valore di mercato del bene.
Si badi, la violazione non è meramente formale, in quanto i criteri posti dal citato art. 5 del regolamento comunale sono evidentemente diretti ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa e a garantire che l’alienazione degli immobili avvenga per valori coerenti con l’andamento del mercato, così da evitare che possano verificarsi indiretti e distorsivi fenomeni di preferenza di un acquirente all’altro, in dipendenza di logiche del tutto estranee all’esigenza di assegnare l’immobile a colui che ha fatto l’offerta più vantaggiosa per l’amministrazione alla luce dei valori di mercato
Nel caso di specie la ratio e il contenuto specifico dell’art. 5 sono stati violati dall’amministrazione, in quanto dalla documentazione prodotta e dagli atti impugnati non emergono le ragioni tecniche e i criteri di quantificazione utilizzati per la determinazione del prezzo posto a base di gara.
Va, pertanto, ribadita la fondatezza della censura in esame, che, presentando carattere sostanziale, ha portata assorbente e consente di prescindere dall’analisi delle ulteriori censure articolate nel ricorso.
In definitiva, il ricorso è fondato e deve essere accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 08.07.2014 n. 1762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer consolidato orientamento, l'art. 167 D.Lgs. 42/2004 (già art. 15 L. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.Lgs. 490/1999) va interpretato nel senso che l'indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) e prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
L'illecito ambientale ha carattere permanente e cessa solo con la demolizione delle opere o con il pagamento della indennità risarcitoria senza possibilità di far decorrere alcuna prescrizione né dal rilascio del titolo edilizio in sanatoria né dal parere favorevole ai fini della detta concessione in sanatoria.

Ritenuto:
- che per consolidato orientamento, l'art. 167 D.Lgs. 42/2004 (già art. 15 L. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.Lgs. 490/1999) va interpretato nel senso che l'indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) e prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. TAR Palermo Sicilia, sez. II 26.07.2012 n. 1663; Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2010 n. 2160, sez. VI, 28.07.2006, nr. 4690);
- che l'illecito ambientale ha carattere permanente e cessa solo con la demolizione delle opere o con il pagamento della indennità risarcitoria senza possibilità di far decorrere alcuna prescrizione né dal rilascio del titolo edilizio in sanatoria né dal parere favorevole ai fini della detta concessione in sanatoria (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd. 22/01/2013 n. 21);
- che va accolta la tesi del Comune circa la decorrenza della prescrizione dal momento in cui cessa la permanenza dell'illecito paesaggistico, e dunque dalla concessione del provvedimento di sanatoria edilizia, il quale presuppone, ai sensi dell'art. 32, L. n. 47/1985, il parere di compatibilità paesaggistica della Sovrintendenza;
- che va disatteso l’assunto del ricorrente circa la decorrenza della prescrizione quinquennale ex art. 28, L. n. 689/1981 dalla commissione del fatto abusivo o illecito (TAR Umbria, sentenza 08.07.2014 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIa) la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, come per esempio lo scioglimento dell’organo o la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo rispetto all’organo di cui fa parte;
b) la legittimazione ad agire del consigliere non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una sua prerogativa inerente all’ufficio, occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, “alla natura e al contenuto della delibera impugnata” e non già delle norme interne relative al funzionamento dell’organo;
c) la contestazione del componente di un organo collegiale non può limitarsi a censurare l’oggetto o le modalità di formazione della deliberazione del medesimo organo, senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazioni di forma o di sostanza nell’adozione di un atto deliberativo;
d) l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale la copia di atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fa parte, affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto corollario del più generale principio sopra affermato.

La Sezione osserva innanzitutto -anche in considerazione della mera riproposizione da parte degli appellati di tutti i motivi proposti in primo grado, diversi da quelli fatti oggetto di specifica impugnazione- che va confermata la sentenza di primo grado nella parte in cui ha esaminato solo le censure di cui ai punti c), d) ed e) dei motivi aggiunti, ritenendo inammissibili tutte le altre, essendo stato al riguardo anche di recente ribadito (cons. Stato, sez. V, 19.04.2013, n. 2213) che:
a) la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, come per esempio lo scioglimento dell’organo o la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo rispetto all’organo di cui fa parte (Cons. Stato, sez. V, 31.01.2001, n. 358 e più recentemente 19.02.2007, n. 826; 09.10.2007, n. 5280; 29.04.2010, n. 2457; 24.03.2011, n. 1771; 21.03.2012, n. 1610);
b) la legittimazione ad agire del consigliere non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una sua prerogativa inerente all’ufficio, occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, “alla natura e al contenuto della delibera impugnata” e non già delle norme interne relative al funzionamento dell’organo (Cons. St., sez. V, 15.12.2005, n. 7122);
c) la contestazione del componente di un organo collegiale non può limitarsi a censurare l’oggetto o le modalità di formazione della deliberazione del medesimo organo, senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazioni di forma o di sostanza nell’adozione di un atto deliberativo (Cons. Stato, sez. V, 29.04.2010, n. 2457);
d) l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale la copia di atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fa parte, affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto corollario del più generale principio sopra affermato (Cons. Stato, 21.03.2012, n. 1610) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2014 n. 3446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.
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E' jus receptum che il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine di 90 giorni (nel vigore della legge n. 47 del 1985, vigente ratione temporis), non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate.

Innanzitutto non sussiste il dedotto vizio di violazione dell’articolo 7 della legge 07.08.1990, n. 241, per la mancata comunicazione di avvio del procedimento in relazione all’ordinanza di demolizione delle opere abusive realizzate.
Secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo (tra le più recenti, Cons. stato, sez. IV, 28.04.2014, n. 2194; 26.08.2008, n. 4659).
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Diversamente da quanto sostenuto dagli appellanti con il terzo motivo di gravame, la circostanza che l’ordine di demolizione non contenesse l’indicazione dell’effetto acquisitivo e non descrivesse l’area da acquisire non è causa di illegittimità dello stesso.
Precisato che, quanto all’effetto acquisitivo, esso costituisce una conseguenza fissata direttamente dalla legge, senza la necessità dell’esercizio di alcun potere (valutativo) a parte dell’autorità eccetto quello del mero accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi, deve rilevarsi, quanto alla pretesa necessità dell’indicazione dell’area da acquisire, che è jus receptum che il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine di 90 giorni (nel vigore della legge n. 47 del 1985, vigente ratione temporis), non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate (Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659; sez. VI, 08.04.2004, n. 1998; 26.01.2000, n. 341).
Gli stessi appellanti del resto riconoscono sotto tale ultimo profilo la infondatezza del loro stesso motivo, ammettendo che solo con l’art. 31 del D.P.R n. 380 del 2001 è stato introdotta la necessità della esatta identificazione dell’area da acquisire già nel provvedimento di demolizione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2014 n. 3438 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIL’Amministrazione, invece di disporre l’aggiudicazione della gara in favore delle ricorrenti, procedeva all’indizione di una nuova gara.
Di talché, non merita positiva valutazione il motivo di ricorso con il quale si rivendica il danno emergente rappresentato dalle spese sostenute per la partecipazione alla gara, ostandovi il pacifico principio giurisprudenziale alla stregua del quale trattasi di costo necessario per la partecipazione alla gara, come tale non risarcibile, pena un’indebita locupletazione, congiuntamente al valore economico dell’aggiudicazione o della relativa chance.
Diversamente opinando, infatti, si giungerebbe infatti ad arricchire il danneggiato attribuendo al concorrente un beneficio maggiore di quello che ad esso sarebbe derivato dall’aggiudicazione, in palese violazione della funzione reintegratoria che permea il rimedio risarcitorio.
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Va, invece, accolta in parte la domanda con la quale si rivendica il lucro cessante commisurato all’utile economico che sarebbe stato conseguito in caso di aggiudicazione.
Con la sentenza di accoglimento del ricorso per ottemperanza il Primo Giudice ha accertato la spettanza, in capo alle ricorrenti, del bene della vita dato dal diritto all’aggiudicazione, rinviando ad una successiva fase la quantificazione del danno.
Osserva la Sezione, in ordine appunto al quantum debeatur, che la documentazione in atti, se non consente, in ossequio ad una consolidata giurisprudenza, di accogliere la richiesta di applicazione del criterio di liquidazione forfettario equitativo del lucro cessante nella misura del 10 % (basato sull'art. 345, l. n. 2248 del 1865 All. F., poi trasfuso nell’articolo 134 del codice dei contratti pubblici), non suffraga neanche l’assunto, sostenuto dal Primo Giudice, in merito disconoscimento integrale di tale voce di danno.
Ad avviso del Collegio l’analisi del tipo di gara, dell’oggetto del contratto e della media delle offerte presentate congiuntamente all’utile presumibilmente conseguibile, consente di quantificare il danno in esame, ex artt. 1226 e 2056 c.c., in una misura che, attualizzata ad oggi, è pari al 5% dell’offerta economica presentata dalle ricorrenti.
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Va, altresì, parzialmente accolta la domanda di risarcimento del "danno curriculare", voce che ha già trovato riconoscimento nella giurisprudenza amministrativa, rapportato all’oggettivo mancato incremento dell'esperienza dell'impresa e, conseguentemente, delle opportunità rispetto alle gare future.
Ad escludere la ricorrenza di siffatta posta risarcitoria non vale la dedotta violazione, ad opera delle parti ricorrenti, del duty to mitigate ex art. 1227 c.c., in quanto detta condotta omissiva, salvi casi eccezionali non rinvenibili nel caso di specie, incide sulla consistenza e non sull’esistenza del pregiudizio risarcibile.
Detto danno può allora essere equitativamente fissato in una misura pari all’uno per cento dell’offerta economica.

1. Con sentenza n. 2912/2006 il TAR per la Lombardia accoglieva il ricorso proposto da Impresa Costruzioni Edili Bianchi P.I.E. Umberto S.r.l. e da Tecnoimpianti F.lli Capra di Capra Fulvio & C. avverso gli atti relativi alla procedura di gara indetta dal Comune di Ossuccio per l’affidamento dei lavori di “recupero dell’edificio specialistico dell’Antico Hospitalis dell’Antiquarium”, per un importo a base d’asta pari a € 372.657,17, procedura culminata nell’aggiudicazione in favore della società Petazzi Costruzioni S.r.l.
All’esito del decisum di accoglimento l’Amministrazione, invece di disporre l’aggiudicazione della gara in favore delle ricorrenti, procedeva all’indizione di una nuova gara.
Con sentenza non definitiva n. 7591 del 18.12.2010, il Primo Giudice accoglieva il ricorso volto a dedurre l’inadempimento degli obblighi discendenti dal giudicato.
Con successiva ordinanza presidenziale il Tribunale richiedeva all’amministrazione in via istruttoria: “1) copia di tutti gli atti di gara al fine di poter accertare quale fosse il margine di utile dichiarato o comunque ricavabile dagli stessi atti da parte della ricorrente; 2) una relazione da redigersi da parte del responsabile dell’originario procedimento con ogni ulteriore elemento utile al fine di rappresentare l’ammontare dello spettante risarcimento del danno”.
L’Amministrazione, in esito alla descritta richiesta istruttoria, rappresentava di non essere in possesso di alcun documento dal quale ricavare l’utile d’impresa che la ricorrente avrebbe ipoteticamente conseguito in caso di esecuzione dell’appalto.
Con la sentenza appellata i Primi Giudici hanno respinto la domanda risarcitoria in ragione del mancato assolvimento del necessario onere probatorio ad opera delle parti ricorrenti.
Le parti appellanti contestano gli argomenti posti a fondamento del decisum.
Resiste il Comune intimato.
2. Il gravame è parzialmente fondato.
2.1. Non merita positiva valutazione il motivo di ricorso con il quale si rivendica il danno emergente rappresentato dalle spese sostenute per la partecipazione alla gara, ostandovi il pacifico principio giurisprudenziale alla stregua del quale trattasi di costo necessario per la partecipazione alla gara, come tale non risarcibile, pena un’indebita locupletazione, congiuntamente al valore economico dell’aggiudicazione o della relativa chance. Diversamente opinando, infatti, si giungerebbe infatti ad arricchire il danneggiato attribuendo al concorrente un beneficio maggiore di quello che ad esso sarebbe derivato dall’aggiudicazione, in palese violazione della funzione reintegratoria che permea il rimedio risarcitorio (v. recentemente Cons. di Stato, sez. IV, n. 6000/2013; sez. V, n. 799/2013; sez. III, n. 3437/2013; sez. V, n. 2967/2008).
2.2. Va, invece, accolta in parte la domanda con la quale si rivendica il lucro cessante commisurato all’utile economico che sarebbe stato conseguito in caso di aggiudicazione.
Con la sentenza di accoglimento del ricorso per ottemperanza il Primo Giudice ha accertato la spettanza, in capo alle ricorrenti, del bene della vita dato dal diritto all’aggiudicazione, rinviando ad una successiva fase la quantificazione del danno.
Osserva la Sezione, in ordine appunto al quantum debeatur, che la documentazione in atti, se non consente, in ossequio ad una consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V, n. 5846/2012; 06.04.2009, n. 2143; 17.10.2008, n. 5098; 05.04.2005, n. 1563; VI, 04.04.2003, n. 478), di accogliere la richiesta di applicazione del criterio di liquidazione forfettario equitativo del lucro cessante nella misura del 10 % (basato sull'art. 345, l. n. 2248 del 1865 All. F., poi trasfuso nell’articolo 134 del codice dei contratti pubblici), non suffraga neanche l’assunto, sostenuto dal Primo Giudice, in merito disconoscimento integrale di tale voce di danno.
Ad avviso del Collegio l’analisi del tipo di gara, dell’oggetto del contratto e della media delle offerte presentate congiuntamente all’utile presumibilmente conseguibile, consente di quantificare il danno in esame, ex artt. 1226 e 2056 c.c., in una misura che, attualizzata ad oggi, è pari al 5% dell’offerta economica presentata dalle ricorrenti.
2.3. Va, altresì, parzialmente accolta la domanda di risarcimento del "danno curriculare", voce che ha già trovato riconoscimento nella giurisprudenza amministrativa (v., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1323; sez. IV, 12.02.2014. n. 674; sez. V, n. 5846/2012; sez. IV, n. 6000/2013), rapportato all’oggettivo mancato incremento dell'esperienza dell'impresa e, conseguentemente, delle opportunità rispetto alle gare future.
Ad escludere la ricorrenza di siffatta posta risarcitoria non vale la dedotta violazione, ad opera delle parti ricorrenti, del duty to mitigate ex art. 1227 c.c., in quanto detta condotta omissiva, salvi casi eccezionali non rinvenibili nel caso di specie, incide sulla consistenza e non sull’esistenza del pregiudizio risarcibile.
Detto danno può allora essere equitativamente fissato in una misura pari all’uno per cento dell’offerta economica (conf. Cons. Stato, sez. III, n. 50081/2013).
3. Le considerazioni che precedono conducono all’accoglimento parziale del ricorso nei termini fin qui specificati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2014 n. 3432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIA’ sensi dell’art. 152, comma 2, cod. proc. civ. –recante un principio generale del nostro ordinamento– “i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”: questo principio è applicabile anche ai termini nei procedimenti amministrativi.
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Il comma 2 dell’art. 48 del D.L.vo 163 del 2006 di per sé non ha fissato un termine perentorio per il deposito da parte dell’aggiudicatario della documentazione a comprova dei propri requisiti: la disciplina complessivamente contenuta nel comma medesimo sanziona con l’esclusione dal procedimento di scelta del contraente soltanto l’ipotesi della mancata comprova del possesso dei requisiti contemplati dalla legge e dalla lex specialis di gara, e non già l’intempestiva produzione della documentazione richiesta al riguardo.
Invero, il termine per comprovare il possesso dei requisiti di cui all’art. 48, comma 2, del D.L.vo 163 del 2006 ha carattere ordinatorio-sollecitatorio con riferimento alle posizioni dell’aggiudicatario e del secondo graduato, nel mentre è dichiaratamente perentorio il termine stabilito dal comma 1 del medesimo art. 48, concernente la diversa ipotesi della verifica a campione delle imprese offerenti sorteggiate.
La giurisprudenza citata da ... afferma –per contro– che non potrebbe ritenersi che la perentorietà del termine imposto nel comma 1 dell’art. 48 si riferisca solo all’obbligo per le imprese offerenti scelte mediante sorteggio prima dell’apertura delle buste; e ciò in quanto il comma 2 dello stesso articolo espressamente riferisce tale obbligo anche all’aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi tra i concorrenti sorteggiati, e prevede le medesime conseguenze in caso di inottemperanza: dal che dovrebbe pertanto ricavarsi la conseguenza che la perentorietà del termine si estenda anche all’aggiudicatario provvisorio.
Il Collegio non condivide tale assunto, in quanto il comma 2 dell’art. 48 testualmente rinvia alla “richiesta” di cui al comma 1, la quale deve essere “inoltrata, entro dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, anche all’aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria”, ma senza disporre che essa deve essere riscontrata da tali concorrenti entro un termine perentorio; né l’ulteriore previsione della medesima fonte di legge, secondo la quale la “richiesta” medesima non va inoltrata dalla stazione appaltante all’aggiudicatario e al concorrente che lo segue in graduatoria nel caso in cui costoro siano stati in precedenza sorteggiati per il controllo di cui al comma 1, può -di per sé- implicare che la perentorietà del termine di cui al comma 1 si estenda pure al comma 2 dello stesso articolo.
A conforto di ciò va evidenziato che lo stesso comma 2 prevede la sanzione dell’esclusione dalla gara soltanto nei casi in cui tali concorrenti “non forniscano la prova o non confermino le loro dichiarazioni”, e non nei casi di violazione del termine per il deposito della documentazione richiesta dalla stazione appaltante; e che tale conclusione è obbligata a fronte dell’anzidetto principio ermeneutico che impone di qualificare come perentorio solo un termine espressamente definito tale da una disposizione normativa.

A’ sensi dell’art. 152, comma 2, cod. proc. civ. –recante un principio generale del nostro ordinamento– “i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”: questo principio è applicabile anche ai termini nei procedimenti amministrativi (cfr. sul punto Cass., SS.UU., 22.03.1999, n. 175).
Il comma 2 dell’art. 48 del D.L.vo 163 del 2006 di per sé non ha fissato un termine perentorio per il deposito da parte dell’aggiudicatario della documentazione a comprova dei propri requisiti: la disciplina complessivamente contenuta nel comma medesimo sanziona con l’esclusione dal procedimento di scelta del contraente soltanto l’ipotesi della mancata comprova del possesso dei requisiti contemplati dalla legge e dalla lex specialis di gara, e non già l’intempestiva produzione della documentazione richiesta al riguardo.
Va in proposito richiamata la decisione di Cons. Stato, Sez. V, 07.07.2011, n. 4053, secondo la quale il termine per comprovare il possesso dei requisiti di cui all’art. 48, comma 2, del D.L.vo 163 del 2006 ha carattere ordinatorio-sollecitatorio con riferimento alle posizioni dell’aggiudicatario e del secondo graduato, nel mentre è dichiaratamente perentorio il termine stabilito dal comma 1 del medesimo art. 48, concernente la diversa ipotesi della verifica a campione delle imprese offerenti sorteggiate (cfr. al riguardo anche Cons. Stato, Sez. V, 27.10.2005, n. 6003, e 29.11.2004, n. 7758, relative all’omologa disciplina già contenuta nell’art. 10, comma 1-quater della L. 11.02.1994, n. 109, poi, per l’appunto, riprodotta nell’art. 48 del D.L.vo 163 del 2006).
La giurisprudenza citata da La Lucentezza afferma –per contro– che non potrebbe ritenersi che la perentorietà del termine imposto nel comma 1 dell’art. 48 si riferisca solo all’obbligo per le imprese offerenti scelte mediante sorteggio prima dell’apertura delle buste; e ciò in quanto il comma 2 dello stesso articolo espressamente riferisce tale obbligo anche all’aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi tra i concorrenti sorteggiati, e prevede le medesime conseguenze in caso di inottemperanza: dal che dovrebbe pertanto ricavarsi la conseguenza che la perentorietà del termine si estenda anche all’aggiudicatario provvisorio.
Il Collegio non condivide tale assunto, in quanto il comma 2 dell’art. 48 testualmente rinvia alla “richiesta” di cui al comma 1, la quale deve essere “inoltrata, entro dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, anche all’aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria”, ma senza disporre che essa deve essere riscontrata da tali concorrenti entro un termine perentorio; né l’ulteriore previsione della medesima fonte di legge, secondo la quale la “richiesta” medesima non va inoltrata dalla stazione appaltante all’aggiudicatario e al concorrente che lo segue in graduatoria nel caso in cui costoro siano stati in precedenza sorteggiati per il controllo di cui al comma 1, può -di per sé- implicare che la perentorietà del termine di cui al comma 1 si estenda pure al comma 2 dello stesso articolo.
A conforto di ciò va evidenziato che lo stesso comma 2 prevede la sanzione dell’esclusione dalla gara soltanto nei casi in cui tali concorrenti “non forniscano la prova o non confermino le loro dichiarazioni”, e non nei casi di violazione del termine per il deposito della documentazione richiesta dalla stazione appaltante; e che tale conclusione è obbligata a fronte dell’anzidetto principio ermeneutico che impone di qualificare come perentorio solo un termine espressamente definito tale da una disposizione normativa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2014 n. 3431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia, è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente. Ciò determina il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
In questo ambito si pone senza ombra di dubbio il frazionamento di immobile (nella specie da sei a tredici unità) che, stante l’autonoma utilizzabilità, realizza anche un aumento dell’impatto sul territorio incompatibile con il semplice restauro.

Parimenti infondati sono i motivi, da trattare congiuntamente data la loro connessione, con cui parte appellante nega che le opere configurerebbero una ristrutturazione.
In merito, basta richiamare consolidati principi per cui, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia, è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente. Ciò determina il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie (Cons. Stato Sez. V, 17.03.2014, n. 1326).
In questo ambito si pone senza ombra di dubbio il frazionamento di immobile (nella specie da sei a tredici unità) che, stante l’autonoma utilizzabilità, realizza anche un aumento dell’impatto sul territorio incompatibile con il semplice restauro (Cons. St. Sez. IV, 17.05.2012, n. 2838) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.07.2014 n. 3417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime al patrimonio comunale debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili e che sono soggetti a caducazione automatica in caso di annullamento dell’atto presupposto.
Da disattendere è anche l’eccezione di improcedibilità, secondo cui l’intervenuto provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale dell’edificio e dell’area di sedime a seguito dell’inottemperanza all’ordine di rimessione in pristino, non impugnato, avrebbe determinato la carenza sopravvenuta di interesse alla decisione.
A riguardo, si osserva che il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime al patrimonio comunale debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili e che sono soggetti a caducazione automatica in caso di annullamento dell’atto presupposto (Cons. Stato Sez. V, 10.01.2007, n. 40) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.07.2014 n. 3415 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa i criteri di determinazione e motivazione dell’entità della sanzione pecuniaria ex art. 167 dlgs 42/2004, la commisurazione del danno paesistico sfugge, per sua natura intrinseca, ad una indagine dettagliata ed analitica, essendo ricollegato ad una stima tecnica di carattere generale, mentre il profitto conseguito dal trasgressore va commisurato anche alla destinazione del manufatto oggetto di abuso.
Risulta, infine, generico il motivo con il quale l’appellante lamenta l’omessa pronuncia in ordine alla misura eccessiva dell’entità della sanzione.
Invero, l’appellante non fornisce alcuna concreta ragione di contestazione dei criteri di determinazione e motivazione sull’entità della sanzione pecuniaria comminata, che è stata calcolata in base al criterio indicato dall’art. 167, tenuto conto che la commisurazione del danno paesistico sfugge, per sua natura intrinseca, ad una indagine dettagliata ed analitica, essendo ricollegato ad una stima tecnica di carattere generale (Cons. St. Sez. V, 26.09.2013, n. 4783), mentre il profitto conseguito dal trasgressore va commisurato anche alla destinazione del manufatto oggetto di abuso, nella specie consistente nell’esercizio di attività alberghiera (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.07.2014 n. 3414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa “realizzazione sul lastrico solare di un tetto termico …. necessario per favorire l’uso dell’abitazione attualmente priva di isolamento termico” si sostanzia in un'opera priva di autonomia strutturale e funzionale in quanto destinata alla copertura termica del sottostante fabbricato.
Invero, dal verbale di sopralluogo richiamato nel provvedimento impugnato emerge la realizzazione di un organismo edilizio radicalmente difforme, avente i caratteri della ristrutturazione edilizia destinata alla fruizione abitativa, con una evidente, notevole volumetria palesemente estranea al tetto termico originariamente assentito.
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Nessuna portata derogativa all’obbligo della previa acquisizione del permesso di costruire può riconoscersi in ragione della circostanza che l’usufruttario dell’immobile, responsabile dell’abuso, sia affetto da handicap, dato che in nessun modo l’opera realizzata può considerarsi funzionale alla miglior fruizione da parte di persona non vedente.
Il signor G.P. chiede la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale amministrativo della Campania ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento del Comune di Napoli in data 10.05.2011 recante ordine di ripristino dello stato dei luoghi per opere edilizie realizzate senza permesso su un preesistente manufatto, abusivamente realizzato e già oggetto di concessione edilizia in sanatoria e di DIA per la realizzazione di un tetto termico.
Le opere considerate nel provvedimento oggetto del giudizio di primo piano consistono nel mutamento di destinazione del tetto termico a doppia falda, mutamento realizzato mediante la posa in opera di impiantistica idroelettrica, di condizionamento, di riscaldamento, di box doccia e arredamento.
La sentenza impugnata, che ha rilevato come la DIA n. 238/2006, assentita per silentium dal Comune di Napoli fosse relativa, per ammissione dello stesso interessato, alla “realizzazione sul lastrico solare di un tetto termico …. necessario per favorire l’uso dell’abitazione attualmente priva di isolamento termico”, quindi per opera priva di autonomia strutturale e funzionale in quanto destinata alla copertura termica del sottostante fabbricato, ha respinto il ricorso poiché dal verbale di sopralluogo richiamato nel provvedimento impugnato emerge la realizzazione di un organismo edilizio radicalmente difforme, avente i caratteri della ristrutturazione edilizia destinata alla fruizione abitativa, con una evidente, notevole volumetria palesemente estranea al tetto termico originariamente assentito.
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La sentenza impugnata è del tutto condivisibile, essendo infondate le doglianze che l’appellante ripropone in questo secondo grado (perciò, può prescindersi dall’esaminare l’eccezione di rito proposta dal Comune resistente).
Come ha ritenuto il Tar, nessuna portata derogativa all’obbligo della previa acquisizione del permesso di costruire può riconoscersi in ragione della circostanza che l’usufruttario dell’immobile, responsabile dell’abuso, sia affetto da handicap, dato che in nessun modo l’opera realizzata può considerarsi funzionale alla miglior fruizione da parte di persona non vedente.
La già rilevata diversità strutturale e funzionale dell’intervento sanzionato rispetto a quello assentito dalla precedente DIA consente di apprezzare l’inconsistenza anche della censura di contraddittorietà tra i provvedimenti, del quale quello impugnato si pone anzi, come ha rilevato il Tar, in rapporto di rigorosa coerenza con l’oggetto dell’assenso, limitato alla realizzazione del tetto di copertura (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.07.2014 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Appalti: sui vizi progettuali rispondono in solido appaltatore e direttore lavori.
In caso di vizi progettuali, l’impegno dell’appaltatore all’eliminazione dei vizi comporta il riconoscimento unilaterale degli stessi.
Così si è pronunciata la II Sez. civile del Tribunale di Reggio Emilia, in persona del Giudice Istruttore Dott. Gianluigi Morlini, con la sentenza in commento.
Nel caso in oggetto, gli attori, committenti di lavori di progettazione ed installazione di un impianto termico presso un edificio, denunciando il non corretto funzionamento dello stesso e l’erroneità del progetto, hanno citato in giudizio il progettista per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Costituitosi in giudizio, il convenuto ha chiamato in garanzia per essere manlevato, sia la propria assicurazione, sia l’appaltatore, nonchè il direttore dei lavori ed il fornitore dei materiali, indicati come i veri responsabili dei danni lamentati dagli attori.
Esperita la fase istruttoria, il Giudice adìto, condividendo le conclusioni della CTU, ha ritenuto tutti i soggetti processuali evocati in giudizio, direttamente o indirettamente, responsabili dei vizi, a vario titolo ed in misura diversa. Inoltre risponde in solido con il progettista l’appaltatore, sia, qualora egli si sia accorto degli errori e non li abbia denunciati prontamente al committente; sia nel caso in cui, non essendosi accorto degli stessi, avrebbe dovuto individuarli secondo gli obblighi di diligenza ordinaria. Non sussiste tale responsabilità solo se l’appaltatore dimostri che gli errori non potevano essere riconosciuti con l’ordinaria diligenza richiesta; ovvero nel caso in cui, pur essendo gli errori stati chiaramente evidenziati al committente, questi’ultimo ha comunque stabilito l’esecuzione del progetto (Cass. n. 8016/2012, Cass. n. 6202/2009, Cass. n. 28605/2008, Cass. n. 7755/2007, Cass. n. 6931/2007, Cass. n. 3752/2007, Cass. n. 15782/2006, Cass. n. 12995/2006, 7515/2005, Cass. n. 4361/2005).
Inoltre, secondo il Tribunale adito, deve rispondere in solido con il progettista e l’appaltatore anche il direttore dei lavori, il quale risponde nei confronti del committente non solo nel caso in cui i vizi derivino dal mancato rispetto del progetto,ma anche nel caso i vizi derivino da carenze progettuali.
Tra l’altro, il fatto che l’appaltatore si sia impegnato all’eliminazione dei vizi dell’opera, comporta il riconoscimento unilaterale dell’esistenza dei vizi stessi e ciò costituisce un’obbligazione nuova rispetto a quella ordinaria, soggetta a prescrizione decennale (Cass. n. 19560/2009, Cass. n. 6670/2009); e tale impegno, può anche essere assunto tramite comportamenti concludenti (Cass. n. 6670/2009).
Nel caso in oggetto, l’attore ha avanzato la propria domanda risarcitoria solo nei confronti del progettista non estendendola ai terzi, neanche dopo la loro chiamata in giudizio effettuata dal convenuto. Quest’ultimo sarà condannato a risarcire il danno ed avrà diritto di regresso verso le altre parti processuali
(TRIBUNALE Reggio Emilia, Sez. II civile, sentenza 27.06.2014 n. 988 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza di questo Consiglio ha ritenuto che sia qualificabile pertinenza, dal punto di vista urbanistico-edilizio, qualsiasi manufatto strumentale rispetto ad uno principale di dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo.
La giurisprudenza ha già precisato che:
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce;
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, e anche sfornito di un ‘autonomo valore di mercato’ e non comporta un cosiddetto carico urbanistico.
Nel condividere tali orientamenti, il Collegio ritiene di precisare che nell’ordinamento statale vi è il principio generale per il quale -per ogni nuova volumetria- occorre il rilascio del permesso di costruire (o del titolo avente efficacia equivalente): ai sensi dell’art. 10, primo comma, lettera a), del testo unico approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001 (in cui è stato trasfuso in parte qua e con modificazioni l’art. 4 della legge n. 47 del 1985, rilevante nel presente giudizio ratione temporis), occorre il rilascio del permesso di costruire (così come in precedenza occorreva il rilascio di una concessione edilizia) per la realizzazione di una ‘nuova costruzione’.
Non può esservi alcun dubbio sulla assenza della natura pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio.
A tali fini, la natura pertinenziale è ravvisabile solo quando si tratti:
a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati;
b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico’ (così come definito ai fini urbanistici, fermo restando che anche i volumi tecnici, per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, mantengono rilievo ai fini paesaggistici, dovendosi essi considerare ai fini dell’applicazione del divieto di rilascio di autorizzazioni in sanatoria, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004).
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Nella fattispecie in esame, le opere realizzate consistono in un pollaio di 40 mc., una concimaia ed una struttura con cisterna per deposito di gasolio.
Esse non possono essere valutate come mere pertinenze, avendo la nozione di “pertinenza” in ambito edilizio, come sopra ricostruita, un significato assai circoscritto e limitato alle sole ipotesi di manufatti privi di intrinseco valore e non autonomamente utilizzabili e che non occupano una superficie ulteriore rispetto al manufatto principale.
Tutte le opere in questione, infatti, presentano invece un’autonoma utilità ai fini dell’esercizio della attività di allevamento o di stoccaggio di carburante, occupano una superficie diversa e ulteriore rispetto al manufatto che si assume come principale e sono palesemente idonee a modificare l’assetto territoriale, vista l’incidenza che le correlate attività produttive hanno anche ai fini del carico urbanistico.
Pertanto, poiché tutte le opere in questione non possono essere valutate come mere opere pertinenziali le stesse necessitano di titolo edilizio ed in sua assenza del tutto legittimamente l’amministrazione ne dispone la demolizione.

La giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, ha ritenuto che sia qualificabile pertinenza, dal punto di vista urbanistico-edilizio, qualsiasi manufatto strumentale rispetto ad uno principale di dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo (Cons. St., Sez. V, 12.02.2013, n. 817).
La giurisprudenza ha già precisato che:
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce (Cons. St., Sez. IV, 02.02.2012, n. 615);
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, e anche sfornito di un ‘autonomo valore di mercato’ e non comporta un cosiddetto carico urbanistico (Cons. St., Sez. V, 31.12.2008, n. 6756; Id., 13.06.2006, n. 3490).
Nel condividere tali orientamenti, il Collegio ritiene di precisare che nell’ordinamento statale vi è il principio generale per il quale -per ogni nuova volumetria- occorre il rilascio del permesso di costruire (o del titolo avente efficacia equivalente): ai sensi dell’art. 10, primo comma, lettera a), del testo unico approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001 (in cui è stato trasfuso in parte qua e con modificazioni l’art. 4 della legge n. 47 del 1985, rilevante nel presente giudizio ratione temporis), occorre il rilascio del permesso di costruire (così come in precedenza occorreva il rilascio di una concessione edilizia) per la realizzazione di una ‘nuova costruzione’.
Non può esservi alcun dubbio sulla assenza della natura pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio.
A tali fini, la natura pertinenziale è ravvisabile solo quando si tratti:
a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati;
b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico’ (così come definito ai fini urbanistici, fermo restando che anche i volumi tecnici, per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, mantengono rilievo ai fini paesaggistici, dovendosi essi considerare ai fini dell’applicazione del divieto di rilascio di autorizzazioni in sanatoria, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004: cfr. Sez. VI, 26.03.2013, n. 1671; Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578).
Nella fattispecie in esame, le opere realizzate consistono in un pollaio di 40 mc., una concimaia ed una struttura con cisterna per deposito di gasolio.
Esse non possono essere valutate come mere pertinenze, avendo la nozione di “pertinenza” in ambito edilizio, come sopra ricostruita, un significato assai circoscritto e limitato alle sole ipotesi di manufatti privi di intrinseco valore e non autonomamente utilizzabili e che non occupano una superficie ulteriore rispetto al manufatto principale.
Tutte le opere in questione, infatti, presentano invece un’autonoma utilità ai fini dell’esercizio della attività di allevamento o di stoccaggio di carburante, occupano una superficie diversa e ulteriore rispetto al manufatto che si assume come principale e sono palesemente idonee a modificare l’assetto territoriale, vista l’incidenza che le correlate attività produttive hanno anche ai fini del carico urbanistico.
Pertanto, poiché tutte le opere in questione non possono essere valutate come mere opere pertinenziali, va respinto il terzo motivo di censura del ricorso di primo grado, sul quale si è fondata la sentenza di accoglimento ricorso del TAR.
I manufatti descritti negli impugnati provvedimenti necessitavano, infatti, di titolo edilizio ed in sua assenza del tutto legittimamente l’amministrazione ne ha disposta la demolizione.
Per le ragioni che precedono, l’appello del Comune risulta fondato e va accolto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2014 n. 3074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Non licenziabile il dirigente di ente locale che sporge denuncia nei confronti dei superiori.
La Sez. lavoro della S.C. di Cassazione torna a soffermarsi sul tema dei limiti di espressione critica riservati al dipendente nei confronti dell'amministrazione nella veste di proprio datore di lavoro.
La fattispecie scrutinata dai giudici di legittimità è riferita invero ad un dirigente di un'amministrazione provinciale sottoposto a procedimento disciplinare e successivamente fatto segno di provvedimento di licenziamento per giusta causa, “configurata nell’avere presentato denunce all’Autorità giudiziaria penale nei confronti della Giunta provinciale, del suo Presidente e del Segretario generale, cui la stampa locale aveva dato ampio rilievo, aventi ad oggetto fatti falsi e privi di riscontro, tanto che il Tribunale aveva assolto gli imputati per insussistenza del fatto”.
Le riflessioni ivi svolte sono però estensibili senz'altro anche ai dipendenti di qualifica non dirigenziale, per cui la pronuncia che si segnala appare vieppiù significativa (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 07.04.2014 n. 8077 - link a www.teleconsul.it).
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STRALCIO SENTENZA
La rilevanza a fini disciplinari del
la denuncia da parte del dipendente all’autorità giudiziaria di fatti attributi ai propri superiori è stata oggetto di numerose pronunce di questa Corte, che ha sempre ritenuto che essa non viola i doveri di diligenza, di subordinazione o di fedeltà (artt. 2104 e 2105 c.c.), non potendosi ipotizzare che rientri fra i doveri del prestatore di lavoro il tacere fatti illeciti (da un punto di vista penale, civile od amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in azienda o che lo riguardino personalmente, e che la legittimità del comportamento del lavoratore che denuncia al giudice penale un fatto posto in essere dal datore di lavoro nei suoi confronti deriva sia dal principio dettato dall’art. 24, primo comma, della Costituzione, con il quale viene garantita a tutti i cittadini, senza distinzioni di sorta e verso chiunque, la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, sia dal più generale principio contenuto nell'art. 21, primo comma, della stessa Costituzione, che tutela il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero "con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Cosa diversa è la precipua volontà di danneggiare il proprio datore di lavoro mediante false accuse, od anche il travalicare, con dolo o con colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva nel riferire all’autorità giudiziaria i fatti, nonché la condotta del dipendente che con il propalare la notizia all'interno o all'esterno dell'azienda abbia arrecato offesa all'onore ed alla reputazione del datore di lavoro (in tal senso Cass. n. 1749 del 16/02/2000, n. 13738 del 16/10/2000, n. 6501 del 14/03/2013). Condotte, queste, ulteriori rispetto al mero inoltro della denuncia, che devono essere dedotte e dimostrate dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 legge n. 604/1966.
In tal senso, l’accertamento compiuto dal giudice penale in esito alla denuncia del dipendente costituisce uno degli elementi della complessa valutazione che attiene alla legittimità della condotta, ma non l’indispensabile antecedente logico-giuridico di questa, sicché non sussiste la pregiudizialità necessaria che ai sensi dell’art. 295 c.p.c. impone la sospensione del procedimento pregiudicato.
Nel caso in esame, la Corte ha fatto corretta applicazione di tali principi, ed ha esaminato le risultanze processuali concludendo che non risultava provato che il dipendente avesse travalicato i limiti consentiti alla sua condotta, con valutazione delle risultanze processuali che attiene al merito della controversia, né tale passaggio motivazionale è stato fatto oggetto di censura dal ricorrente principale.
La Provincia ricorrente valorizza poi l’accertamento contenuto nella sentenza del Tribunale di Gorizia che ha assolto gli imputati con la formula "perché il fatto non sussiste" (gravata da appello del P.M. ritenuto inammissibile). Non riporta però in alcun modo il contenuto della sentenza assolutoria, né i passaggi della motivazione che ritiene rilevanti al fine di comprovare la tesi secondo la quale la valutazione del giudice penale avrebbe manifestato la ricorrenza nel dipendente della situazione soggettiva riprovevole sopra individuata, per cui il motivo è sotto tale aspetto inammissibile in quanto non fornisce gli elementi per valutare la decisività della censura al fine di disattendere l’esito della sentenza gravata.
L’esistenza di un giudicato penale di assoluzione non è infatti di per sé elemento univoco nel senso di prospettare l’intento calunnioso o la denuncia esorbitante con colpa grave dalla verità oggettiva, potendo l’accertamento di non sussistenza dei fatti derivare da incertezze probatorie o acquisizioni successive ai fatti stessi che ne mutano la lettura ed il significato.
Il ricorso si pone sotto tale aspetto in insanabile contrasto con il principio reiteratamente affermato da questa Corte, secondo il quale "Il ricorrente che denunci in sede di legittimità il difetto di motivazione sulla valutazione di risultanze probatorie o processuali, ha l'onere di indicare specificamente il contenuto dell’elemento non adeguatamente valutato, provvedendo alla sua trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e delle prove stesse, che, per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative" (Cass. Ord. n. 17915 del 30/07/2010, Sent. n. 13677 del 31/07/2012).

EDILIZIA PRIVATANel caso di condono edilizio, gli oneri di concessione vanno rapportati al momento di ultimazione dell’opera e della presentazione della domanda di sanatoria, e non al momento del rilascio del titolo concessorio.
Il ricorrente chiede l’accertamento dell’esatto ammontare degli importi contributivi (costo di costruzione ed oneri di urbanizzazione) effettivamente dovuti al Comune di Melendugno in relazione alle sue quattro domande di condono edilizio, ex artt. 31 e ss. Legge 28.02.1985 n. 47, presentate in data 01.04.1986, aventi ad oggetto alcuni edifici abusivamente realizzati in Melendugno, località Torre Specchia, Villaggio Nettuno, (ove necessario) previo annullamento della determinazione definitiva dei medesimi importi contributivi da parte del Responsabile dell’U.T.C. del Comune di Melendugno e delle eventuali deliberazioni comunali di approvazione di tabelle parametriche sulla base di criteri di calcolo contrastanti con la legislazione statale e regionale di settore, nonché l’accertamento dell’illegittimità della pretesa comunale di cessione a titolo gratuito dell’area destinata a sede stradale (abusivamente realizzata dall’Amministrazione Comunale intimata su proprietà del ricorrente).
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Il Tribunale ritiene, invece, fondato il ricorso nella parte in cui il ricorrente lamenta l’erroneità dei conteggi effettuati dal Comune resistente nel calcolo dei contributi concessori (riferimento alle tariffe per il calcolo degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione fissate con sopravvenute deliberazioni consiliari vigenti nel 2008, anziché a quelle vigenti il 01.04.1986 al momento della presentazione delle domande di condono), posto che –alla stregua dell’orientamento consolidato di questa Sezione, da cui non si ravvisano motivi per discostarsi– nel caso di condono edilizio, gli oneri di concessione vanno rapportati al momento di ultimazione dell’opera e della presentazione della domanda di sanatoria, e non al momento del rilascio del titolo concessorio (TAR Puglia Lecce, III Sezione, 24.03.2006 n. 1725; 07.07.2005 n. 3803).
In conclusione, il Comune di Melendugno per il corretto calcolo dei contributi concessori (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) dovuti dal ricorrente deve applicare sugli immobili di che trattasi le tariffe vigenti nell’Aprile 1986, al momento della presentazione delle domande di condono in questione (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 27.08.2013 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome chiarito dalla giurisprudenza, nel caso di concessione in sanatoria di cui alla legge n. 47 del 1985, diversamente che nella concessione edilizia rilasciata prima della costruzione, tenuta presente dalla legge n. 10 del 1977, la costruzione precede e non segue il rilascio del titolo, e quindi gli oneri di concessione devono essere rapportati al momento della presentazione della domanda e non al momento del rilascio del titolo.
È coerente con il principio di ragionevolezza individuare una data, alla quale ricondurre il calcolo degli oneri, che faccia riferimento più a quella di ultimazione dell'opera (è tale è il termine ultimo di presentazione della domanda) che a quella di rilascio del titolo.
Diversamente, in effetti, si creerebbe una violazione sia del principio di uguaglianza - ben potendo due identiche violazioni edilizie, contemporaneamente ultimate, essere sanate con la corresponsione di oneri di diverso importo - sia del principio di buon andamento della pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.), rimettendosi alle scelte discrezionali in sede organizzativa del Comune la facoltà di determinare la tariffa applicabile al caso concreto

Con nota prot. n. 19472-UT del 09.12.2005, l’Amministrazione comunale di Galatone richiedeva al ricorrente, oltre al deposito della documentazione mancante ai fini delle definizione del procedimento, il pagamento degli oneri concessori relativi all’istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269 (conv. in l. 24.11.2003 n. 326) presentata in data 29.01.2004; determinazione effettuata sulla base del parametro di valutazione del costo di costruzione previsto nella delib. G.M. 19.11.2004 n. 319.
La problematica è già stata affrontata dalla Sezione con la sentenza 07.07.2005 n. 3803 e decisa nel senso prospettato da parte ricorrente: <<come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 4562/2002; Consiglio Stato sentenza n. 4716/2002) ed evidenziato dal ricorrente, nel caso di concessione in sanatoria di cui alla legge n. 47 del 1985, diversamente che nella concessione edilizia rilasciata prima della costruzione, tenuta presente dalla legge n. 10 del 1977, la costruzione precede e non segue il rilascio del titolo, e quindi gli oneri di concessione devono essere rapportati al momento della presentazione della domanda e non al momento del rilascio del titolo.
È coerente con il principio di ragionevolezza individuare una data, alla quale ricondurre il calcolo degli oneri, che faccia riferimento più a quella di ultimazione dell'opera (è tale è il termine ultimo di presentazione della domanda) che a quella di rilascio del titolo.
Diversamente, in effetti, si creerebbe una violazione sia del principio di uguaglianza - ben potendo due identiche violazioni edilizie, contemporaneamente ultimate, essere sanate con la corresponsione di oneri di diverso importo - sia del principio di buon andamento della pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.), rimettendosi alle scelte discrezionali in sede organizzativa del Comune la facoltà di determinare la tariffa applicabile al caso concreto
>>.
Nel caso di specie, gli oneri concessori sono stati determinati con riferimento ad un parametro relativo al costo di costruzione previsto da una deliberazione (la delib. G.M. 19.11.2004 n. 319) intervenuta in data successiva al 29.01.2004, data di presentazione dell’istanza di condono.
In definitiva, il ricorso deve essere accolto e deve essere accertato l’obbligo, per l’amministrazione, di calcolare gli oneri concessori sulla base dei parametri in vigore al 29.01.2004, data di presentazione dell’istanza di condono (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 24.03.2006 n. 1725).

EDILIZIA PRIVATANel caso di concessione in sanatoria di cui alla legge n. 47 del 1985, diversamente che nella concessione edilizia rilasciata prima della costruzione, tenuta presente dalla legge n. 10 del 1977, la costruzione precede e non segue il rilascio del titolo, e quindi gli oneri di concessione devono essere rapportati al momento della presentazione della domanda e non al momento del rilascio del titolo.
È coerente con il principio di ragionevolezza individuare una data, alla quale ricondurre il calcolo degli oneri, che faccia riferimento più a quella di ultimazione dell'opera (è tale è il termine ultimo di presentazione della domanda) che a quella di rilascio del titolo.
Diversamente, in effetti, si creerebbe una violazione sia del principio di uguaglianza -ben potendo due identiche violazioni edilizie, contemporaneamente ultimate, essere sanate con la corresponsione di oneri di diverso importo- sia del principio di buon andamento della pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.), rimettendosi alle scelte discrezionali in sede organizzativa del Comune la facoltà di determinare la tariffa applicabile al caso concreto.

L’amministrazione ha altresì errato nel calcolare gli oneri di concessione facendo riferimento alle tariffe vigenti al tempo del rilascio del titolo e non invece al momento della domanda di condono.
Come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 4562/2002; Consiglio Stato sentenza n. 4716/2002) ed evidenziato dal ricorrente, nel caso di concessione in sanatoria di cui alla legge n. 47 del 1985, diversamente che nella concessione edilizia rilasciata prima della costruzione, tenuta presente dalla legge n. 10 del 1977, la costruzione precede e non segue il rilascio del titolo, e quindi gli oneri di concessione devono essere rapportati al momento della presentazione della domanda e non al momento del rilascio del titolo.
È coerente con il principio di ragionevolezza individuare una data, alla quale ricondurre il calcolo degli oneri, che faccia riferimento più a quella di ultimazione dell'opera (è tale è il termine ultimo di presentazione della domanda) che a quella di rilascio del titolo.
Diversamente, in effetti, si creerebbe una violazione sia del principio di uguaglianza -ben potendo due identiche violazioni edilizie, contemporaneamente ultimate, essere sanate con la corresponsione di oneri di diverso importo- sia del principio di buon andamento della pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.), rimettendosi alle scelte discrezionali in sede organizzativa del Comune la facoltà di determinare la tariffa applicabile al caso concreto.
E tali considerazione valgono sia per l’accoglimento espresso sia per i casi di silenzio-assenso sulla domanda (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 22.07.2005 n. 3803).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ambito della previsione di cui all’art. 35 L. 47/1985, il termine iniziale da cui decorre la prescrizione dell’eventuale diritto al conguaglio od al rimborso spettanti per le somme pagate è lo stesso termine previsto per la formazione del silenzio-accoglimento, cioè la data di presentazione della domanda di sanatoria o, nel caso di immobile sottoposto a vincoli di inedificabilità , la data dell’emissione del parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Peraltro, come è stato chiarito dalla giurisprudenza, deve escludersi che qualunque inesattezza od omissione sia idonea a produrre l’effetto de quo, dovendo trattarsi o di domanda infedele o di omissioni che incidano sulla concreta consistenza dell’immobile tanto da impedirne la sua identificazione, non essendo rilevanti le omissioni che incidano solo sull’entità dell’oblazione, potendo il Comune avvalersi di poteri di accertamento successivo.
Tali considerazioni risultano suffragate dal dato testuale consistente nel mancato richiamo da parte dell’art. 35, c. 9°, della L. n. 47/1985, vigente in materia di diritto al conguaglio, dell’art. 40 succitato .
In particolare, tale ultima norma citata, che introduce il principio del silenzio-assenso in materia di condono edilizio, stabilisce che perché esso si formi è necessario che sussistano comunque i presupposti di accoglibilità della domanda e cioè che il manufatto abusivo sia stato realizzato al momento della domanda stessa, che la medesima non sia dolosamente infedele e che non sussistano sull’area su cui è sorto il manufatto abusivo vincoli di inedificabilità.
Difatti, la medesima norma espressamente richiama non solo l’art. 40 ma anche l’art. 33 (contrasto delle opere abusive con vincoli di inedificabilità assoluta preesistenti all’esecuzione delle opere), tanto che si ritiene che il silenzio-accoglimento possa verificarsi in tutti gli altri casi, compreso quello in cui non sia fornita la prova dell'ultimazione delle opere entro il 01.10.1983, non richiamati dal 12º comma dell’art. 35, in cui le opere abusive non sarebbero suscettibili di sanatoria con provvedimento espresso.
Invero, soltanto l’omessa presentazione della documentazione prescritta per le domanda di condono edilizio non fa decorrere, oltre che il termine di ventiquattro mesi per la formazione di silenzio-assenso, quello collegato e già citato, di trentasei mesi per la prescrizione del diritto al conguaglio della oblazione previsto dall’art. 35 l. 28.02.1985 n. 47, come modificato dall’art. 4, 6º comma, l. 13.03.1988 n. 68.
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Circa la prescrizione degli oneri concessori, in materia di condono edilizio, va premessa la soggezione del credito in questione all’ordinario termine decennale di prescrizione.
Con riferimento al dies a quo, lo stesso va fatto coincidere con il rilascio della concessione cui si ricollega l’obbligo contributivo in discorso (ciò sulla scorta dell’art. 11 l. 28.01.1977 n. 10, che ricollega l’esigibilità del credito comunale “all’atto del rilascio della concessione”).
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Il Collegio, aderendo ad una giurisprudenza pressoché unanime, ritiene che l’entità del contributo debba essere individuata con riferimento al momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia in sanatoria, poiché il costo da considerare ai fini della commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello del momento in cui sorge l'obbligazione, che è appunto quello del rilascio della concessione.
Difatti, l’esercizio delle potestà pubbliche, che è destinato a soddisfare interessi preminenti della collettività, deve avvenire in conformità alla disciplina che è prevista al momento dell’adozione dell’atto (tempus regit actum) secondo principi di relazione e di stretta connessione con le esigenze e le valutazioni correnti , in quel preciso momento storico, nella società .
A questo riguardo è stato infatti acutamente osservato che sarebbe quanto meno anomalo pretendere che l’Amministrazione preposta alla cura dei pubblici interessi agisca, invece, facendo ossequio a modelli che sono stati ritenuti superati e non più rispondenti ed aderenti a reali bisogni collettivi.

... per l’annullamento della nota del 25.02.2003 prot. n. 5243/CO del Dirigente dell’Ufficio Tecnico Ripartizione Urbanistica ed assetto del territorio del Comune di Brindisi notificata in data 03.03.2003, con la quale sono stati determinati in via definitiva gli importi oblativi e concessori per la sanatoria delle opere abusive richiesta dal ricorrente con istanza del 29.04.1986 ed è stato intimato al ricorrente il pagamento del relativo importo quale condizione per il rilascio della concessione in sanatoria;
...
Il ricorso deve ritenersi fondato limitatamente alla dedotta prescrizione del diritto del conguaglio dell’oblazione ed infondato per le restanti censure.
Invero, l’art. 35 della L. 47/1985, come modificato dall’art. 4, comma 6, del D.L. n. 2 del 12.01.1988, prevede la prescrizione , trascorsi trentasei mesi, dell’eventuale diritto al conguaglio od al rimborso spettanti .
Vi è da precisare che il nuovo termine di prescrizione, come introdotto dalla normativa citata, decorre dalla data di entrata in vigore della legge che ne ha disposto l’abbreviazione, purché, a norma della legge precedente non rimanga a decorrere un termine minore (CDS 28.04.1999 n. 495).
Inoltre, è stato chiarito che, nell’ambito della previsione di cui all’art. 35 L. 47/1985, il termine iniziale da cui decorre la prescrizione dell’eventuale diritto al conguaglio od al rimborso spettanti per le somme pagate è lo stesso termine previsto per la formazione del silenzio-accoglimento, cioè la data di presentazione della domanda di sanatoria o, nel caso di immobile sottoposto a vincoli di inedificabilità , la data dell’emissione del parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Peraltro, come è stato chiarito dalla giurisprudenza, deve escludersi che qualunque inesattezza od omissione sia idonea a produrre l’effetto de quo, dovendo trattarsi o di domanda infedele o di omissioni che incidano sulla concreta consistenza dell’immobile tanto da impedirne la sua identificazione, non essendo rilevanti le omissioni che incidano solo sull’entità dell’oblazione, potendo il Comune avvalersi di poteri di accertamento successivo.
Tali considerazioni risultano suffragate dal dato testuale consistente nel mancato richiamo da parte dell’art. 35, c. 9°, della L. n. 47/1985, vigente in materia di diritto al conguaglio, dell’art. 40 succitato .
In particolare, tale ultima norma citata, che introduce il principio del silenzio-assenso in materia di condono edilizio, stabilisce che perché esso si formi è necessario che sussistano comunque i presupposti di accoglibilità della domanda e cioè che il manufatto abusivo sia stato realizzato al momento della domanda stessa, che la medesima non sia dolosamente infedele e che non sussistano sull’area su cui è sorto il manufatto abusivo vincoli di inedificabilità (Tar Puglia, sez. II, 28.03.1998, n. 349).
Difatti, la medesima norma espressamente richiama non solo l’art. 40 ma anche l’art. 33 (contrasto delle opere abusive con vincoli di inedificabilità assoluta preesistenti all’esecuzione delle opere), tanto che si ritiene (Tar Piemonte, sez. I, 06.04.1995, n. 207) che il silenzio-accoglimento possa verificarsi in tutti gli altri casi, compreso quello in cui non sia fornita la prova dell'ultimazione delle opere entro il 01.10.1983, non richiamati dal 12º comma dell’art. 35, in cui le opere abusive non sarebbero suscettibili di sanatoria con provvedimento espresso.
Invero, soltanto l’omessa presentazione della documentazione prescritta per le domanda di condono edilizio non fa decorrere, oltre che il termine di ventiquattro mesi per la formazione di silenzio-assenso, quello collegato e già citato, di trentasei mesi per la prescrizione del diritto al conguaglio della oblazione previsto dall’art. 35 l. 28.02.1985 n. 47, come modificato dall’art. 4, 6º comma, l. 13.03.1988 n. 68 (Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 21.11.1997, n. 509).
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Va invece respinta la censura riguardante la prescrizione degli oneri concessori.
A tal fine, va necessariamente premessa la soggezione del credito in questione all’ordinario termine decennale di prescrizione (C. Stato, sez. V, 04.08.2000 n. 4302).
Con riferimento al dies a quo, lo stesso va fatto coincidere con il rilascio della concessione cui si ricollega l’obbligo contributivo in discorso (ciò sulla scorta dell’art. 11 l. 28.01.1977 n. 10, che ricollega l’esigibilità del credito comunale “all’atto del rilascio della concessione”).
Nella fattispecie, il rilascio del titolo concessorio è avvenuto in data 07.09.1996 in considerazione della maturazione, da tale data, del silenzio-assenso.
Ne consegue che il termine di prescrizione, al momento della adozione del provvedimento impugnato, non era ancora decorso con la conseguente legittimità della richiesta del contributo concessorio in esame.
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Con il terzo motivo di ricorso, ed assorbite le censure subordinate riguardanti la contestazione della somma richiesta a titolo di conguaglio oblazione in considerazione dell’accoglimento della richiesta principale riguardante la prescrizione della stessa, il ricorrente censura il provvedimento impugnato nella parte in cui non ha ancorato il pagamento degli oneri ai parametri in vigore alla fine degli anni 80, coincidenti con l’epoca di presentazione della domanda di condono.
Il motivo è infondato.
In merito, il Collegio, aderendo ad una giurisprudenza pressoché unanime, ritiene che l’entità del contributo debba essere individuata con riferimento al momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia in sanatoria, poiché il costo da considerare ai fini della commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello del momento in cui sorge l'obbligazione, che è appunto quello del rilascio della concessione (Cons. Stato, V Sez., 26.03.2003 n. 1564; 22.09.1999 n. 1113; 25.10.1993 n. 1071, 26.10.1987 n. 661, 12.05.1987 n. 278 e 04.08.1986 n. 40; TAR Lazio 13.11.2002 n. 9982).
Difatti, l’esercizio delle potestà pubbliche, che è destinato a soddisfare interessi preminenti della collettività, deve avvenire in conformità alla disciplina che è prevista al momento dell’adozione dell’atto (tempus regit actum) secondo principi di relazione e di stretta connessione con le esigenze e le valutazioni correnti , in quel preciso momento storico, nella società .
A questo riguardo è stato infatti acutamente osservato che sarebbe quanto meno anomalo pretendere che l’Amministrazione preposta alla cura dei pubblici interessi agisca, invece, facendo ossequio a modelli che sono stati ritenuti superati e non più rispondenti ed aderenti a reali bisogni collettivi (Cons. Stato, V Sez., 04.08.1986 n. 40, cit.)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 05.06.2004 n. 3394).

EDILIZIA PRIVATAL'ipotesi di opere abusive realizzate in base a concessione annullata, a seguito di pronuncia giurisdizionale, non costituisce propriamente una tipologia di abuso, perché assentite da un atto rilasciato dalla stessa amministrazione.
Infatti in colui che si vede annullare il titolo abilitativo rilasciato dall'Amministrazione, a volte dopo diversi anni, come nella fattispecie, si è ingenerato un affidamento causato dal lungo lasso di tempo trascorso.
Ne consegue che, in seguito all'annullamento di un titolo abilitativo edilizio, "l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo, anzi, tale scelta, tipicamente discrezionale, essere adeguatamente motivata, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati".

Il Collegio al riguardo non condivide l'assunto che la rimozione dei vizi sarebbe possibile solo allorché essi siano di carattere formale, dato che l’art. 38 nulla dice al riguardo e che tale norma costituisce una normativa di favore che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di un titolo annullato, rispetto a coloro che hanno realizzato opere abusive senza alcun titolo, tutelando l'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata.
In tal senso si è espressa anche l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 23.04.2009, n. 4, laddove afferma che "l'ipotesi di opere abusive realizzate in base a concessione annullata, a seguito di pronuncia giurisdizionale, non costituisce propriamente una tipologia di abuso", perché assentite da un atto rilasciato dalla stessa amministrazione.
Infatti in colui che si vede annullare il titolo abilitativo rilasciato dall'Amministrazione, a volte dopo diversi anni, come nella fattispecie, si è ingenerato un affidamento causato dal lungo lasso di tempo trascorso e, nel caso della trattoria di parte controinteressata, anche dalla sentenza favorevole del TAR Veneto nel 2004.
Ne consegue che, in seguito all'annullamento di un titolo abilitativo edilizio, "l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo, anzi, tale scelta, tipicamente discrezionale, essere adeguatamente motivata, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati" (TAR Bari, Puglia, sez. III n. 187 del 13.01.2012; C.S., Sez. IV, sent. n. 7731 del 02.11.2010)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.06.2014 n. 761 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di sanatoria ambientale, ex art. 181 dlgs 42/2004, il volume tecnico non può avere alcuna rilevanza e la superficie utile a cui fa riferimento l’art. 167, ad impedimento della regolarizzazione postuma degli interventi edilizi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, è soltanto quella che muta l'assetto dei luoghi o meglio, come afferma la stessa sentenza della Cassazione penale citata dalla ricorrente, quella che determina "l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio”, in modo che questo sia idoneo a determinare una compromissione ambientale.
Anche il quindicesimo motivo è infondato.
L’intervento “sanato” ai sensi dell’art. 181 d.lgs. 42/2004 consiste infatti nella mera diversa realizzazione del porta vivande, che non crea ovviamente superficie né volume di cui all’art. 167, d.lgs. 42/2004.
Infatti il volume tecnico non può avere alcuna rilevanza e la superficie utile a cui fa riferimento l’art. 167, ad impedimento della regolarizzazione postuma degli interventi edilizi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, è soltanto quella che muta l'assetto dei luoghi o meglio, come afferma la stessa sentenza della Cassazione penale citata dalla ricorrente (sez. III, 29.11.2011, n. 889), quella che determina "l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio”, in modo che questo sia idoneo a determinare una compromissione ambientale.
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Con il sedicesimo motivo parte ricorrente illustra le ragioni di illegittimità del decreto di accertamento di compatibilità paesaggistica del montavivande sotto due profili:
1) sarebbe stato emesso in violazione dell'art. 146 del D.Lgs. 4272004 perché sottoscritto dal medesimo dirigente comunale che ha rilasciato il permesso di costruire in sanatoria;
2) sarebbe stato emesso senza preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia comunale integrata, illegittimamente abrogata e neppure sostituita dalla commissione locale di cui alla legge regionale 26.05.2011 n. 10.
Entrambi i profili di censura sono privi di fondamento.
Con riguardo al primo punto, va osservato che l'art. 146, comma 6, del Codice dei Beni Culturali prescrive che gli enti ai quali la Regione delega l'esercizio delle funzioni in materia di autorizzazione paesaggistica "dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche, nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia di urbanistica ed edilizia".
Se ne evince quindi la prescrizione di una duplice organizzazione amministrativa, cioè una duplicazione o separazione di strutture destinate all'emissione degli atti di natura paesaggistica e di natura urbanistico-edilizia: diversi devono essere i settori di gestione dei due procedimenti e diverse le professionalità agli stessi assegnate, mentre nulla vieta che il responsabile del provvedimento finale sia unico, come nel caso del Comune di Verona, il quale ha regolarmente attivato, con specifiche delibere giuntali, la doppia struttura strutturandone organizzazione e funzionamento con atti in nessun modo contestati ed è quindi legittimato ad esercitare le funzioni in materia di autorizzazione paesaggistica secondo le modalità organizzative che si è dato.
Con riguardo al secondo profilo, premesso che l'art. 4, comma 2, del DPR 380/2001 ha reso facoltativa la nomina della Commissione edilizia comunale, va ricordato che l'art. 49 della L.R. 11/2004, come modificato dall'art. 13 della L.R. 10/2011, ha abrogato la L.R. 63/1994, che prevedeva l'attivazione della Commissione edilizia integrata, eliminandola definitivamente dall'ordinamento urbanistico regionale. Contemporaneamente, la medesima L.R. 10/2011 ha introdotto nella L.R. 11/2004, l'art. 45-nonies, il quale non ha imposto l'obbligo ma ha meramente dato facoltà ai Comuni ("possono") di istituire "preferibilmente in forma associata, la Commissione locale per il paesaggio"
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.06.2014 n. 761 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza della Sezione è ferma nel ritenere, per quanto attiene alla disciplina di carattere generale, che l’entità del contributo dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia, giacché il costo delle opere da prendere in considerazione ai fini della commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello del momento in cui sorge l’obbligazione, ossia, appunto, quello del rilascio della concessione.
Ciò in quanto l’esercizio delle potestà pubbliche, che è destinato a soddisfare interessi preminenti della collettività, non può avvenire che in conformità della disciplina che è prevista per l’epoca in cui l’Autorità agisce e che è conformata dal legislatore, per l’appunto, in stretta connessione con le esigenze e valutazioni correnti nella società contemporanea; sicché costituirebbe, di massima, un fuor d’opera pretendere che l’Amministrazione preposta alla cura dei pubblici interessi agisca, invece, facendo ossequio a modelli che sono stati ritenuti superati e non più rispondenti ed aderenti a reali bisogni collettivi.
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Né a queste conclusioni possono essere sottratte le opere oggetto di sanatoria edilizia, non avendo, il legislatore, con riguardo alle stesse, introdotto alcuna specifica disposizione di carattere derogatorio.
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Riassunto il quadro normativo di settore per quanto attiene specificamente alla Regione Lombardia, è da ritenere che, richiamando ai fini della determinazione degli oneri di urbanizzazione applicabili alla sanatoria edilizia la legge regionale del 1977, la legge regionale del 1985 non abbia inteso fare un rinvio di carattere statico, avente riferimento a costi cristallizzati, determinati in sede di prima applicazione della legge regionale n. 60 del 1977, ma che abbia inteso, invece, logicamente riferirsi ai costi via via, nel tempo, determinati in base a tale ultima legge e al carattere dinamico della stessa, in quanto legati al continuo variare degli elementi di cui ai citati artt. 1, 2 e 3.
Correttamente, quindi, il Comune ha determinato, nella specie, gli oneri di urbanizzazione applicando i valori definiti e aggiornati in base alla disciplina ivi vigente al momento del rilascio del titolo in sanatoria.
Contrariamente, infine, a quanto ritenuto dai primi giudici, non si vede il motivo per cui ragioni di “giustizia sostanziale” dovrebbero indulgere a far ritenere operante, in caso di sanatoria, una sorta di deroga implicita al predetto principio di carattere generale, dal momento che la relativa disciplina di favore già costituisce un’eccezione destinata a privilegiare l’autore delle opere abusive; sicché non è dato vedere la ragione per cui il medesimo, già avvantaggiato dalla mancata sottoposizione alla norma penale e dalla mancata rimozione o perdita dell’opera realizzata, dovrebbe essere anche beneficiato dall’assoggettamento ad oneri urbanistici ormai da molto tempo “storicamente” superati.

Con l’appello in epigrafe è impugnata la sentenza con Cui il TAR ha parzialmente accolto il ricorso proposto dalla società qui appellata avverso le ordinanze sindacali 09.04.1990, nn. 6936 e 6937, recanti la determinazione degli importi dovuti dalla detta società a titolo di conguaglio oblazione ed oneri di urbanizzazione a fronte del rilascio di concessione edilizia in sanatoria per la costruzione di un capannone industriale e di tettoie ad uso deposito di materiale. 
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La giurisprudenza della Sezione è ferma nel ritenere, per quanto attiene alla disciplina di carattere generale, che l’entità del contributo dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia, giacché il costo delle opere da prendere in considerazione ai fini della commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello del momento in cui sorge l’obbligazione, ossia, appunto, quello del rilascio della concessione (cfr. 22.09.1999, n. 1113; 25.10.1993, n. 1071; 26.10.1987, n. 661, 12.05.1987, n. 278; 04.08.1986, n. 401).
Ciò in quanto l’esercizio delle potestà pubbliche, che è destinato a soddisfare interessi preminenti della collettività, non può avvenire che in conformità della disciplina che è prevista per l’epoca in cui l’Autorità agisce e che è conformata dal legislatore, per l’appunto, in stretta connessione con le esigenze e valutazioni correnti nella società contemporanea; sicché costituirebbe, di massima, un fuor d’opera pretendere che l’Amministrazione preposta alla cura dei pubblici interessi agisca, invece, facendo ossequio a modelli che sono stati ritenuti superati e non più rispondenti ed aderenti a reali bisogni collettivi (cfr. la decisione n. 401/1986 cit.).
Né a queste conclusioni possono essere sottratte le opere oggetto di sanatoria edilizia, non avendo, il legislatore, con riguardo alle stesse, introdotto alcuna specifica disposizione di carattere derogatorio.
L’art. 37 della citata legge n. 47/1985 prevede, invero (primo comma), che “il versamento dell’oblazione non esime i soggetti di cui all’art. 31, primo e terzo comma, dalla corresponsione al comune, ai fini del rilascio della concessione, del contributo previsto dall’art. 3 della L. 28.01.1977, n. 10, ove dovuto”, e che (comma 2) “le regioni possono modificare, ai fini della sanatoria, le norme di attuazione degli articoli 5, 6 e 10, L. 28.01.1977, n. 10…….”; al terzo comma prevede, poi, che “le regioni possono inoltre prevedere la corresponsione di un contributo ai fini del rilascio della concessione in sanatoria per opere realizzate dopo il 01.09.1967 e prima del 30.01.1977, in misura non superiore, comunque, a quello previsto per le opere di urbanizzazione; sempreché tali opere non siano state già eseguite a cura e spese degli interessati…….”.
La Regione Lombardia è intervenuta, in attuazione della norma ora detta, con le legge regionale n. 77 del 20.06.1985.
All’art. 1, comma 2, tale legge prevede che “per le opere realizzate dopo il 01.09.1967 e prima del 30.01.1977, il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato al versamento di un contributo per opere di urbanizzazione in misura pari a quella determinata dai comuni in applicazione della legge regionale 05.12.1977, n. 60, sempreché tali opere non siano state già eseguite a cura e spese degli interessati.....”; al comma 4 prevede, poi, che “per le opere realizzate dopo il 29.01.1977 ed entro il 01.10.1983, il rilascio di concessione in sanatoria comporta, oltre al versamento dell’oblazione, la corresponsione del contributo di concessione in misura pari a quanto previsto, per il costo di costruzione, dall’art. 6, terzo comma, della legge 28.01.1977, n. 10, così come sostituito dal sesto comma dell’articolo 9 della legge 25.03.1982, n. 94, nonché per gli oneri di urbanizzazione, dalla L.R. 05.12.1977, n. 60”.
A sua volta, la legge regionale 05.12.1977, n. 60, prevede, all’art. 1, che “ai fini della determinazione da parte dei consigli comunali della incidenza degli oneri di urbanizzazione ai sensi degli artt. 5 e 10 della legge 28.01.1977, n. 10, il consiglio regionale, con deliberazione da emanarsi su proposta della giunta regionale, approva:
a) tabelle di determinazione dei costi base regionali delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di smaltimento dei rifiuti;
b) tabelle di classificazione dei comuni e di coefficienti per l’adeguamento dei costi base regionali alle diverse classi di comuni, da applicarsi alle costruzioni destinate a residenza;
c) tabelle parametriche di incidenza degli oneri di urbanizzazione
”.
All’art. 2 la stessa legge prevede che “le tabelle approvate ai sensi dell’articolo precedente possono essere aggiornate di anno in anno, con deliberazione del consiglio ……”.
All’art. 3, comma 1, è poi previsto che “i comuni, con deliberazione consiliare, determinano l’incidenza degli oneri di urbanizzazione applicando i parametri indicati nelle tabelle di cui alla lettera C) del precedente art. 1 ai costi delle opere di urbanizzazione da stabilirsi, secondo le disposizioni previste dal secondo, terzo e quarto comma del presente articolo, con la stessa deliberazione del consiglio comunale"; mentre, al comma 2, si prevede che: “i comuni determinano i propri costi effettivi delle opere di urbanizzazione in conformità ai criteri adottati dalla regione per la determinazione dei costi base indicati nelle tabelle di cui alla lettera A) del precedente art. 1, tenendo conto inoltre:
1) del livello di urbanizzazione generale;
2) del livello di dotazione dei servizi pubblici comunali;
3) delle caratteristiche geomorfologiche del territorio;
4) dell’andamento demografico della popolazione;
5) del valore delle aree determinato secondo i valori medi di espropriazione aumentati del cinquanta per cento
”.
Così riassunto il quadro normativo di settore per quanto attiene specificamente alla Regione Lombardia, è da ritenere che, richiamando, ai fini della determinazione degli oneri di urbanizzazione applicabili alla sanatoria edilizia la legge regionale del 1977, la legge regionale del 1985 non abbia inteso fare un rinvio di carattere statico, avente riferimento a costi cristallizzati, determinati in sede di prima applicazione della legge regionale n. 60 del 1977, ma che abbia inteso, invece, logicamente riferirsi ai costi via via, nel tempo, determinati in base a tale ultima legge e al carattere dinamico della stessa, in quanto legati al continuo variare degli elementi di cui ai citati artt. 1, 2 e 3.
Correttamente, quindi, il Comune ha determinato, nella specie, gli oneri di urbanizzazione applicando i valori definiti e aggiornati in base alla disciplina ivi vigente al momento del rilascio del titolo in sanatoria.
Contrariamente, infine, a quanto ritenuto dai primi giudici, non si vede il motivo per cui ragioni di “giustizia sostanziale” dovrebbero indulgere a far ritenere operante, in caso di sanatoria, una sorta di deroga implicita al predetto principio di carattere generale, dal momento che la relativa disciplina di favore già costituisce un’eccezione destinata a privilegiare l’autore delle opere abusive; sicché non è dato vedere la ragione per cui il medesimo, già avvantaggiato dalla mancata sottoposizione alla norma penale e dalla mancata rimozione o perdita dell’opera realizzata, dovrebbe essere anche beneficiato dall’assoggettamento ad oneri urbanistici ormai da molto tempo “storicamente” superati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2003 n. 1564).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di prescrizione del diritto al conguaglio dell’oblazione per istanza di condono edilizio, il dies a quo del termine di prescrizione va individuato, non già nella data di presentazione della domanda di condono, ma in quella di rilascio del provvedimento concessorio, sia essa espresso o tacito, tenuto conto che, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 10/1977, la concessione, e non la semplice domanda, comporta “la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione”.
In tal senso è del resto la giurisprudenza amministrativa, secondo cui l’entità del contributo dovuto per oneri concessori va individuato nel momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia, poiché il costo da considerare ai fini della commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello del momento in cui sorge l’obbligazione, che è appunto quello del rilascio della concessione e a tale data occorre avere riguardo per determinare l’entità del contributo con applicazione della normativa vigente al momento del rilascio della concessione.

Il ricorso merita accoglimento nella parte in cui oppone la prescrizione del diritto al conguaglio dell’oblazione, atteso che la stessa A.ne ha riconosciuto fondata tale eccezione.
L’ulteriore eccezione di prescrizione (ordinaria) degli oneri concessori, dedotta col secondo motivo, va invece disattesa.
Invero, il dies a quo del termine di prescrizione va individuato, non già nella data di presentazione della domanda di condono, ma in quella di rilascio del provvedimento concessorio, sia essa espresso o tacito, tenuto conto che, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 10/1977, la concessione, e non la semplice domanda, comporta “la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione”.
In tal senso è del resto la giurisprudenza amministrativa, secondo cui l’entità del contributo dovuto per oneri concessori va individuato nel momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia, poiché il costo da considerare ai fini della commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello del momento in cui sorge l’obbligazione, che è appunto quello del rilascio della concessione e a tale data occorre avere riguardo per determinare l’entità del contributo con applicazione della normativa vigente al momento del rilascio della concessione (cfr. in termini C.d.S., V, 22.09.1999, n. 1113 e 06.12.1999, n. 2056; cfr. anche C.d.S., V, 25.10.1993, n. 1071; 21.10.1998, n. 1512; 26.10.1987, n. 661; 12.05.1987, n. 278; 04.08.1986, n. 401)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 13.11.2002 n. 9982).

EDILIZIA PRIVATA: A seguito del frazionamento dell’originaria abitazione, questa è stata suddivisa in tre appartamenti, di cui due a destinazione abitativa ed uno con destinazione d’uso ad ufficio, intervento che valutato nel suo complesso appare sicuramente comportare un maggior carico urbanistico che giustifica la richiesta dell’A.ne di pagamento degli oneri concessori in contestazione.
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La giurisprudenza in più occasioni ha affermato che, in sede di rilascio della concessione edilizia, ai fini dell’imposizione degli oneri di urbanizzazione, la richiesta di pagamento dei medesimi risulta illegittima ogni qualvolta non sia ravvisabile a seguito dell’intervento edilizio un aumento del carico urbanistico e correlativamente legittima qualora si sia verificata una variazione in aumento del carico medesimo.
La giurisprudenza ha anche precisato che, ai fini dell’esonero dal pagamento del contributo in questione, è determinante il risultato complessivo, onde il giudizio deve essere formulato non già scomponendo l’intervento nei suoi singoli elementi, ma valutando se l’insieme delle modificazioni, considerate in modo globale e contestuale, con inclusione di quelle di carattere funzionale, determini o meno una situazione riconducibile a quella che giustifica, secondo la ratio della norma, la partecipazione agli oneri in parola e cioè determini o meno un aumento del carico urbanistico, ravvisato (nella specie considerata) proprio nell’aumento di unità abitative.
Anzi è stato ritenuto che, poiché l’art. 9 della legge n. 10 del 1977 assoggetta a concessione gratuita soltanto le modifiche interne necessarie per migliorare le condizioni igieniche e statiche delle abitazioni, nonché per realizzare volumi tecnici, tutti gli altri mutamenti interni, se rivolti a realizzare opere e risultati diversi (e quindi un maggior carico urbanistico) dal miglioramento igienico e statico dell’edificio richiedono il rilascio della concessione edilizia a titolo oneroso (cfr. C.d.S., V, 02.11.1998, n. 1557; cfr. anche TAR Marche 12.02.1998, n. 250, secondo cui la gratuità della concessione ex lettera d) dell’art. 9 della legge n. 10/1977 presuppone la permanenza della destinazione d’uso degli edifici oggetto degli interventi ivi previsti).

Al riguardo, va osservato che la giurisprudenza in più occasioni ha affermato che, in sede di rilascio della concessione edilizia, ai fini dell’imposizione degli oneri di urbanizzazione, la richiesta di pagamento dei medesimi risulta illegittima ogni qualvolta non sia ravvisabile a seguito dell’intervento edilizio un aumento del carico urbanistico e correlativamente legittima qualora si sia verificata una variazione in aumento del carico medesimo (cfr. C.d.S., V, 15.09.1997, n. 959).
La giurisprudenza (cfr. C.d.S., V, 30.10.1995, n. 1494) ha anche precisato che, ai fini dell’esonero dal pagamento del contributo in questione, è determinante il risultato complessivo, onde il giudizio deve essere formulato non già scomponendo l’intervento nei suoi singoli elementi, ma valutando se l’insieme delle modificazioni, considerate in modo globale e contestuale, con inclusione di quelle di carattere funzionale, determini o meno una situazione riconducibile a quella che giustifica, secondo la ratio della norma, la partecipazione agli oneri in parola e cioè determini o meno un aumento del carico urbanistico, ravvisato (nella specie considerata) proprio nell’aumento di unità abitative.
Anzi è stato ritenuto che, poiché l’art. 9 della legge n. 10 del 1977 assoggetta a concessione gratuita soltanto le modifiche interne necessarie per migliorare le condizioni igieniche e statiche delle abitazioni, nonché per realizzare volumi tecnici, tutti gli altri mutamenti interni, se rivolti a realizzare opere e risultati diversi (e quindi un maggior carico urbanistico) dal miglioramento igienico e statico dell’edificio richiedono il rilascio della concessione edilizia a titolo oneroso (cfr. C.d.S., V, 02.11.1998, n. 1557; cfr. anche TAR Marche 12.02.1998, n. 250, secondo cui la gratuità della concessione ex lettera d) dell’art. 9 della legge n. 10/1977 presuppone la permanenza della destinazione d’uso degli edifici oggetto degli interventi ivi previsti).
In relazione ai suindicati criteri giurisprudenziali, appare evidente che il ricorrente non può ritenersi esonerato dal contributo di cui all’art. 3 della legge n. 10/1977, tenuto conto che, a seguito del frazionamento dell’originaria abitazione, questa è stata suddivisa in tre appartamenti, di cui due a destinazione abitativa ed uno con destinazione d’uso ad ufficio, intervento che valutato nel suo complesso appare sicuramente comportare un maggior carico urbanistico che giustifica la richiesta dell’A.ne di pagamento degli oneri concessori in contestazione.
In conclusione, il ricorso merita accoglimento con riguardo alla eccezione di prescrizione del diritto dell’A.ne al conguaglio delle somme dovute a titolo di oblazione, mentre esso va respinto per il resto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 13.11.2002 n. 9982).

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