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AGGIORNAMENTO AL 27.08.2014 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Le dotazioni standard di parcheggi si applicano
anche agli interventi di ristrutturazione.
Per risalente giurisprudenza, formatasi sull’art. 41-sexies
della legge 17.08.1942 n. 1150, le disposizioni che
riguardano le dotazioni standard di parcheggi si applicano
anche agli interventi di ristrutturazione, quantunque le
stesse disposizioni parlino di nuova costruzione.
Secondo questa giurisprudenza, infatti, il concetto di
“nuova costruzione” riguarda non solo la realizzazione di
manufatti su aree libere, ma anche ogni intervento di
ristrutturazione che renda il fabbricato oggettivamente
diverso da quello preesistente, determinando un differente e
più gravoso carico urbanistico.
Effettivamente, come rileva l’interessata, il recupero dei
sottotetti costituisce intervento di ristrutturazione
edilizia; e in ciò in base all’esplicito disposto di cui
all’art. 3, comma 3, della l.r. 15.07.1996 n. 15, recante “Recupero
ai fini abitativi dei sottotetti esistenti” (oggi non
più in vigore ma applicabile alla fattispecie di causa
ratione temporis), in base al quale “gli interventi
di cui alla presente legge sono classificati come
ristrutturazioni ai sensi dell'art. 31, comma 1, lett. d),
della legge 05.08.1978, n. 457…”.
Va tuttavia rilevato che per risalente giurisprudenza,
formatasi sull’art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n.
1150, le disposizioni che riguardano le dotazioni standard
di parcheggi si applicano anche agli interventi di
ristrutturazione, quantunque le stesse disposizioni parlino
di “nuova costruzione”. Secondo questa
giurisprudenza, infatti, ai fini che qui interessano, il
concetto di “nuova costruzione” riguarda non solo la
realizzazione di manufatti su aree libere, ma anche ogni
intervento di ristrutturazione che renda il fabbricato
oggettivamente diverso da quello preesistente, determinando
un differente e più gravoso carico urbanistico (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 27.09.2004, n. 6297; id.,
03.02.1999 n. 98; id., 22.06.1998, n. 921; TAR
Lombardia-Milano, sez. II, 03.03.2006, n. 571).
Ne consegue che l’art. 19 della NTA del PRG del Comune di
Meda (quantunque tale norma faccia riferimento alle “nuove
costruzioni”, richiamando in proposito proprio la
diposizione di cui all’art. 41-sexies della legge n.
1150/1942), va applicato anche agli interventi di
ristrutturazione.
La ricorrente soggiunge tuttavia che, anche volendo ritenere
che le disposizioni in materia di parcheggi siano
applicabili agli interventi di ristrutturazione, in ogni
caso le stesse, in ragione della norma derogatoria contenuta
nell’art. 3, comma 3, della l.r. n. 15/1996, non sarebbero
applicabili al caso specifico afferente al recupero dei
sottotetti.
Al riguardo si deve osservare che in base a tale norma “il
recupero dei sottotetti è ammesso anche in deroga (…) agli
indici o parametri urbanistici ed edilizi previsti dagli
strumenti urbanistici generali vigenti ed adottati”.
La disposizione, espressione della volontà del legislatore
regionale di favorire il recupero a fini abitativi dei
sottotetti degli edifici esistenti, con l'obiettivo di
contenere il consumo di nuovo territorio e di favorire la
messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento
dei consumi energetici (cfr. art. 1, comma 1, della l.r. n.
15/1996), è molto chiara nel sottrarre tale attività
edilizia dal rispetto degli indici e parametri contenuti
negli strumenti urbanistici.
Si deve pertanto ritenere che essa comporti anche lo
svincolo dall’osservanza dei parametri dettati dal Piano
Regolatore in materia di parcheggi privati, perlomeno
quando, come nel caso in esame, tali parametri non trovino
fondamento normativo ma siano prescritti dal Piano stesso in
eccedenza rispetto a quelli generali stabiliti dall’art.
41-sexies della legge n. 1150/1942.
A suffragio di tale conclusione, può altresì addursi che
solo con la l.r. 11.03.2005 n. 12, è stato escluso dalla
suddetta deroga l’obbligo di reperimento di spazi per
parcheggi pertinenziali nella misura prevista dagli
strumenti di pianificazione comunale (cfr. artt. 64, commi 2
e 3, e 65, comma 1-ter, della l.r. n. 12/2005, come
modificati dall’art. 1 della l.r. 27.12.2005 n. 20); che le
disposizioni recate dalla l.r. n. 12/2005 hanno carattere
innovativo rispetto alla previgente disciplina (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 22.03.2007 n. 1408); e che,
pertanto, prima dell’entrata in vigore di tali norme,
l’eccezione alla deroga non era operante
Nel caso concreto (non disciplinato, ratione temporis,
dalla l.r. n. 12/2005, ma dalla l.r. n. 15/1996) il Comune
di Meda ha contestato all’interessata la mancata osservanza
dei parametri aggiuntivi stabiliti dall’art. 19, comma III,
delle NTA, il quale, come visto, attribuisce
all’Amministrazione la facoltà di imporre la realizzazione
di dotazioni di parcheggio esterne alla recinzione del
fabbricato, in aggiunta a quelle standard di cui al citato
art. 41-sexies della legge n. 1150/1942.
Tali prescrizioni delle NTA, tuttavia, per le ragioni
illustrate, non potevano applicarsi al caso di specie. Ne
consegue che anche questo motivo è fondato
(massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.04.2013 n. 892 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che il concetto di
“nuova costruzione” di cui all’art. 41-sexies della l. n.
1150/1942 riguarda non solo la realizzazione di un manufatto
su un’area libera, ma anche ogni intervento di
ristrutturazione che rende un manufatto oggettivamente
diverso da quello preesistente, in ragione dell’entità delle
modifiche, tenendo presente che l’oggettiva diversità del
manufatto, come emerge dall’art. 8 della l. n. 47/1985, si
ha per il solo fatto del sussistere di un mutamento della
destinazione d’uso implicante la variazione degli standard.
Con il primo motivo di ricorso viene dedotta l’illegittimità
del diniego impugnato perché, al contrario di quanto
sostenuto dal Comune, alla fattispecie in esame non sarebbe
applicabile la disciplina posta in materia di parcheggi
dalla l. n. 122/1989.
In particolare, l’art. 2 della l. n. 122 cit., nel
modificare il testo dell’art. 41-sexies della l. n.
1150/1942, imporrebbe una dotazione minima di aree destinate
a parcheggio (in misura non inferiore a mq. 1 per ogni 10 mc.
di costruzione) solo per le nuove costruzioni, ossia per le
costruzioni successive all’entrata in vigore della predetta
l. n. 122/1989.
Tale disciplina non riguarderebbe, pertanto, l’immobile per
cui è stata richiesta la sanatoria, trattandosi di edificio
risalente agli anni Venti del Novecento.
La censura non è condivisibile.
Sul punto, infatti, in disparte l’eccezione di
inammissibilità sollevata dalla difesa comunale per avere la
ricorrente stessa richiesto di soddisfare il fabbisogno di
parcheggi indotto dalla destinazione commerciale impressa
all’edificio utilizzando il cortile interno di questo, deve
ritenersi infondata l’asserzione contenuta nel ricorso circa
l’inapplicabilità al caso di specie della disciplina in tema
di parcheggi di cui all’art. 41-sexies della l. n.
1150/1942.
Ed infatti, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di
“nuova costruzione” di cui all’art. 41-sexies della
l. n. 1150/1942 riguarda non solo la realizzazione di un
manufatto su un’area libera, ma anche ogni intervento di
ristrutturazione che rende un manufatto oggettivamente
diverso da quello preesistente, in ragione dell’entità delle
modifiche, tenendo presente che l’oggettiva diversità del
manufatto, come emerge dall’art. 8 della l. n. 47/1985, si
ha per il solo fatto del sussistere di un mutamento della
destinazione d’uso implicante la variazione degli standard
(C.d.S., Sez. V, 03.02.1999, n. 98; idem, 22.06.1998, n.
921; TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 27.11.2000, n.
940).
Tanto premesso, ritiene il Collegio che nell’ora visto
concetto di “nuova costruzione” ex art. 41-sexies
cit. vada ricompreso anche l’immobile per cui è causa. Ed
infatti, per quest’ultimo si deve ritenere intervenuto al
tempo del contratto di locazione con la Villa Belvedere
S.r.l., cioè nel 1997 –dunque in epoca successiva
all’entrata in vigore della l. n. 122/1989– quel mutamento
di destinazione d’uso (da residenziale a commerciale)
implicante la variazione degli standard che si è appena
visto essere il criterio che consente di qualificare
l’intervento appunto come una “nuova costruzione”.
Ne segue che nella fattispecie in esame debbono senz’altro
applicarsi i criteri in materia di parcheggi di cui all’art.
41-sexies della l. n. 1150/1942 (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.03.2006 n. 571). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Pur dovendosi condividere l’orientamento espresso
dalla Sezione nell’invocato precedente, che identifica il
concetto di «nuova costruzione» di cui all'art. 41-sexies L.
17.08.1942 n. 1150 con ogni intervento di ristrutturazione
che rende il fabbricato (o una sua porzione) oggettivamente
diverso da quello preesistente, in considerazione
dell'entità delle modifiche e del mutamento della
destinazione di uso cui esse sono finalizzate, occorre anche
rilevare che non tutte le modificazioni della destinazione
d’uso comportano, per ciò stesso, la variazione per eccesso
degli standard.
Se dunque, nel caso deciso con il citato precedente
giurisprudenziale (trasformazione di un capannone
industriale in immobile destinato a residenza, ad uffici o
ad attività commerciali), alla necessità della concessione
si accompagna anche l’altrettanto necessaria
rideterminazione degli standard, è anche evidente che tale
rideterminazione non si rende necessaria allorché il
mutamento d’uso riguardi una porzione dell’edificio già ab
origine gravato dalla riserva (per esserne stata autorizzata
la realizzazione in vigenza della normativa che l’impone), e
le modificazioni non siano tali che comportare, per i
profili urbanistici, esigenze eccedenti quelle derivanti
dalla originaria destinazione.
Pretestuosa è infine la censura di violazione dell’art.
41-sexies della legge n. 1150 del 1942, modificato dalla L.
n. 122 del 1989 e successive modificazioni di eccesso di
potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria,
sollevata con il ricorso introduttivo con riferimento al
mancato accertamento in ordine alla sussistenza di apposito
spazio da destinare a parcheggio.
E’ appena il caso di ricordare che l’edificio cui inerisce
la porzione di fabbricato di cui è stato concesso il
mutamento di destinazione d’uso è stato realizzato
compiutamente sulla base di licenza edilizia del 24.04.1968,
allorché, dunque, era già operativo il disposto dell'art. 18
della legge n. 765 del 1967 (che ha aggiunto l'art.
41-sexies alla L. 17.08.1942, n. 1150), in forza del quale "nelle
nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle
costruzioni stesse debbono essere riservati appositi spazi
per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato
per ogni venti metri cubi di costruzione".
Ne consegue che il locale a piano terra, originariamente
destinato a negozio (e costituente pertanto, per i fini che
interessano) costituisce una porzione che (sebbene destinata
al terziario piuttosto che ad abitazione) è stata fatta
oggetto di computo ai fini della riserva a parcheggio delle
aree cui era già condizionata, la tempo, la licenza di
costruzione.
Pur dovendosi condividere l’orientamento espresso dalla
Sezione nell’invocato precedente (Sez. V, n. 98 del
03.02.1999), che identifica il concetto di «nuova
costruzione» di cui all'art. 41-sexies L. 17.08.1942 n.
1150 con ogni intervento di ristrutturazione che rende il
fabbricato (o una sua porzione) oggettivamente diverso da
quello preesistente, in considerazione dell'entità delle
modifiche e del mutamento della destinazione di uso cui esse
sono finalizzate, occorre anche rilevare che non tutte le
modificazioni della destinazione d’uso comportano, per ciò
stesso, la variazione per eccesso degli standard.
Se dunque, nel caso deciso con il citato precedente
giurisprudenziale (trasformazione di un capannone
industriale in immobile destinato a residenza, ad uffici o
ad attività commerciali), alla necessità della concessione
si accompagna anche l’altrettanto necessaria
rideterminazione degli standard, è anche evidente che tale
rideterminazione non si rende necessaria allorché il
mutamento d’uso riguardi una porzione dell’edificio già
ab origine gravato dalla riserva (per esserne stata
autorizzata la realizzazione in vigenza della normativa che
l’impone), e le modificazioni non siano tali che comportare,
per i profili urbanistici, esigenze eccedenti quelle
derivanti dalla originaria destinazione.
Orbene, da nessuna parte risulta prescritto che dal computo
della percentuale di riserva, di cui al più volte citato
art,. 41-sexies, dovesse essere scorporata la quota del
piano terra destinato a negozi, cosicché la destinazione ad
abitazione, piuttosto che a negozio della porzione
considerata è del tutto indifferente ai fini del computo
prescritto dalla norma citata, con conseguente mancanza di
fondamento della esaminata censura (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.09.2004
n. 6297). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai sensi dell’ormai abrogata l.r. n. 15/1996, gli interventi edilizi finalizzati al recupero dei
sottotetti potevano comportare l'apertura di finestre,
lucernari, abbaini e terrazzi per assicurare l'osservanza
dei requisiti di aeroilluminazione; nonché, ove lo strumento
urbanistico generale comunale vigente risultasse approvato
dopo l'entrata in vigore della legge reg. 15.04.1975 n.
51, modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle
linee di pendenza delle falde, purché nei limiti di altezza
massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico ed
unicamente al fine di assicurare i parametri di altezza
media prescritti dalla legge regionale (art. 2).
Da ciò derivava, pertanto, che le modifiche di altezza e
volumetria, ai sensi della citata normativa regionale,
potevano ritenersi ammissibili solo laddove strettamente
necessarie a rendere abitabili i predetti volumi, con
conseguente esclusione di quelle trasformazioni, che si
sostanziassero nella creazione di nuove volumetrie, che
venissero in qualsiasi modo ad eludere (o, meglio, ad
eccedere) lo scopo unico, cui il legislatore regionale
aveva funzionalizzato le modifiche medesime.
Siffatte trasformazioni potevano avvenire, come s'è visto,
in déroga ad ogni previsione urbanistica comunale, comprese,
quindi, quelle in tema di limiti quantitativi di natura
volumetrica.
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La nuova l.r. n. 12/2005 ridefinisce ex
novo la disciplina in argomento (del recupero dei
sottotetti) con i seguenti tratti fondamentali:
- scompare la definizione aprioristica di qualunque intervento sui
sottotetti come intervento di ristrutturazione, sì che
l’intervento proposto sarà di volta in volta da qualificarsi
sulla base delle “definizioni degli interventi edilizi”
recate dall’art. 27 della legge ed il titolo abilitativo
necessario sarà quello previsto dagli artt. 33 e 41 in
stretta relazione con la operata qualificazione;
- scompare la possibilità di eseguire dette trasformazioni in
deroga ad indici e parametri stabiliti dagli strumenti
urbanistici comunali (ed in particolare dalle rispettive
norme tecniche di attuazione), sì che sarà in relazione alle
previsioni di questi ultimi (circa la tipologia di
interventi ammissibili in ciascuna zona, circa le possibili
limitazioni nell’àmbito di una determinata tipologia, circa
le definizioni di volume e circa le modalità di computo
della volumetria, circa gli indici di edificabilità, ecc.)
che un intervento siffatto potrà essere assentito o meno;
- rimane la sola deroga alle “condizioni di abitabilità previste
dai regolamenti vigenti” (art. 63, commi 5 e 6),
rappresentata da una “altezza media ponderale di m 2,40,
ulteriormente ridotta a m 2,10 per i comuni posti a quote
superiori a m 1000 di altitudine sul livello del mare,
calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la
cui altezza superi m 1,50 per la superficie relativa”;
- rimane la possibilità che detti interventi comportino
“modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle
linee di pendenza delle falde” (salvo il perdurante
impedimento rappresentato dai “limiti di altezza massima
degli edifici posti dallo strumento urbanistico”), nonché
“l'apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi”
(art. 64), ma ciò, si badi, non è previsto che avvenga in
deroga alle prescrizioni di piano, sì che la norma pare
indirizzata più al momento della pianificazione che a quello
del rilascio o acquisizione del titolo abilitativo, che non
potrebbe che adeguarsi a diverse prescrizioni di piano
(salva, ovviamente, l’impugnabilità di queste ultime per
contrasto con la legge regionale in caso di diniego di
permesso di costruire sulle stesse fondato o di accertamento
dell’inesistenza dei presupposti per la formazione di altro
titolo abilitativo sempre sulle stesse basato).
Se ne può nel complesso dedurre che l'evidente ratio
perseguita dal Legislatore regionale del 1996 (quella di
favorire la creazione di nuove residenze attraverso il
razionale recupero dei sottotetti e di evitare per tale via
un ulteriore consumo di nuovo territorio altrimenti
necessario per la soddisfazione dei bisogni delle famiglie)
viene sì condivisa dal primo intervento legislativo del
2005, ma in un’ottica e con una disciplina più restrittiva,
che si concretizza nella espunzione di quelle norme, che
prima consentivano la realizzabilità degli interventi in
questione in déroga agli indici o parametri urbanistici ed
edilizi.
Espunzione, questa, che, a differenza di quanto ritenuto dal
Giudice di primo grado (che ne ricava argomento per
sostenere la persistenza implicita della previsione
derogatoria), non svuota affatto la portata delle norme del
Capo in argomento, le quali pur sempre fanno salva, come s’è
visto, la déroga alle norme edilizie ed igieniche relative
alle altezze interne degli alloggi ricavati nel sottotetto,
pur sempre dettano prescrizioni per la pianificazione
comunale circa l’apertura di luci e terrazzi vòlti ad
assicurare i requisiti di aeroilluminazione, pur sempre,
infine, mirano a limitare il disordine urbanistico e
l’elusione di quelle disposizioni, che valgono a
salvaguardare un corretto vivere cittadino (finalità chiara
nella portata del comma 3 dell’art. 63 laddove stabilisce
che “ai sensi di quanto disposto dagli articoli 36, comma 2
e 44, comma 2, il recupero volumetrico di cui al comma 2 può
essere consentito solo nel caso in cui gli edifici
interessati siano serviti da tutte le urbanizzazioni
primarie, ovvero in presenza di impegno, da parte dei
soggetti interessati, alla realizzazione delle suddette
urbanizzazioni, contemporaneamente alla realizzazione
dell'intervento ed entro la fine dei relativi lavori”).
Nell’ottica del legislatore della legge regionale n. 12/2005
(nella sua primigenia versione applicabile ratione temporis
alla fattispecie) la controversa possibilità di déroga non
può dunque assolutamente riguardare lo sviluppo
dell’edificio in termini di superficie e/o di volumetria,
altezze e/o distacchi; e ciò al fine di non sacrificare
oltre misura gli interessi della collettività con
l’aggravamento incontrollato di equilibri urbanistici spesso
delicati.
A tal proposito, alle affermazioni del TAR circa la
superfluità di una previsione espressa di derogabilità degli
indicati indici in sede di realizzazione degli interventi in
questione e circa il carattere implicito di una tale
previsione, valga opporre che un siffatto argomentare pare
suscettibile di comportare lo stravolgimento dei principi e
delle regole essenziali per una corretta e razionale
gestione del territorio comunale e, in fin dei conti, lo
stesso esautoramento dei poteri pianificatòri, che
l’ordinamento urbanistico demanda, in via concorrente,
all’Autorità regionale ed a quella comunale, dal momento che
non consente al Comune, pur in assenza di una espressa
previsione della ridetta derogabilità, di opporre proprie
valutazioni circa la compatibilità concreta degli interventi
di recupero in argomento con le esigenze, sottese alle
relative norme, di tutela ambientale, urbanistica ed
edilizia.
Trattasi, invero, di valutazioni dovute:
- nel sistema della legge statale, per effetto dell'art. 4,
comma 1, della legge n. 10 del 1977, il quale stabiliva che
la concessione edilizia può essere rilasciata esclusivamente
per gli interventi conformi alle previsioni degli strumenti
urbanistici e dei regolamenti edilizi (v., oggi, l’art. 20,
comma 3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380); dell’art. 41-quater
della legge urbanistica (v. oggi l’art. 14 del D.P.R. n.
380/2001), recante il principio per cui le concessioni in
deroga possono essere rilasciate esclusivamente per la
costruzione di edifici pubblici o d'interesse pubblico;
dell’art. 15 della legge n. 47 del 1985, a tenore del quale
le varianti in corso d'opera, che possono essere richieste
prima dell'ultimazione dei lavori, devono essere conformi
agli strumenti urbanistici e non devono comportare modifiche
della sagoma, né delle superfici utili; dell’art. 22, comma
1, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui “sono
realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli
interventi … che siano conformi alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”;
- nel sistema della legislazione regionale all’esame, in
virtù del disposto dell’art. 36, comma 1, della l.r. n.
12/2005 (che stabilisce che “il permesso di costruire è
rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti di
pianificazione, dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigenti”) e dell’art. 42, comma 1,
primo periodo della stessa legge (che prevede che “il
proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare
la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima
dell'effettivo inizio dei lavori, presenta la denuncia,
accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un
progettista abilitato e dagli opportuni elaborati
progettuali, che asseveri la conformità delle opere da
realizzare agli strumenti di pianificazione vigenti ed
adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie”), a fronte dei quali la disciplina
dettata dagli artt. 63, 64 e 65 della stessa legge per il
recupero di cui trattasi, lungi dal potersi considerare,
come erroneamente ritenuto dal TAR, esaustiva ed in se
completa, si appalesa come meramente integrativa e
correttiva di quella generale, sì che la mancata previsione,
nel suo ristretto ambito, della detta valutazione di
compatibilità urbanistica non può affatto condurre alla
esclusione dell’applicabilità ad esso del disposto del
veduto art. 36.
Si deve dunque concludere, in mancanza di una previsione
esplicita di derogabilità, che la valutazione di
compatibilità dell’intervento edilizio in questione va
effettuata, alla luce della menzionata disciplina generale
recata dalla stessa legge regionale n. 12/2005, con riguardo
alla disciplina urbanistica vigente, salve le ipotesi
derogatorie ivi espressamente dettate.
---------------
La legge regionale n. 12/2005, frutto com’è di nuove
discrezionali valutazioni poste in essere dal legislatore
regionale nella materia de qua, ha in realtà sul punto
all’esame carattere radicalmente innovativo rispetto alle
previsioni della precedente legge che va a modificare, sì
che essa, lungi dal chiarire il significato delle
disposizioni previgenti (v., sul carattere della legge
interpretativa, l’ormai risalente sentenza Corte cost. n.
118 del 1957) e dunque lungi dal potersi qualificare come
legge di interpretazione, non fa altro che confermare che
l’interesse dei Comuni a tutelare l’assetto urbanistico del
territorio e la densità in queste degli edifici anche in
relazione agli interventi de quibus può recedere solo in
presenza di espresse previsioni normative, in assenza delle
quali nessuna ipotesi di déroga alle norme dei piani
regolatori generali e dei regolamenti edilizi locali può
considerarsi “implicita” o comunque esistente per effetto di
disinvolte interpretazioni estensive di ambiti derogatòri,
in quanto tali assolutamente tassativi.
Ciò posto, le articolate prospettazioni sul punto svolte
dall'appellante sono da condividersi, alla stregua delle
argomentazioni già svolte sulla questione dalla Sezione con
sentenza 21.12.2006, n. 7770, dalle quali non v’è qui motivo
per discostarsi.
Ai sensi della legge della regione Lombardia n. 15 del 1996
(art. 3 ) il recupero del sottotetto a fini abitativi era
qualificato come intervento di ristrutturazione, a norma
dell'art. 31, comma 1, lett. d), della legge 05.08.1978,
n. 457; la stessa norma, al comma 3, stabiliva che "il
recupero dei sottotetti è ammesso anche in deroga ai limiti
ed alle prescrizioni di cui agli artt. 14, 17 19 e 22 della L.R. 15.04.1975, n. 51 «Disciplina urbanistica del
territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela
del patrimonio naturale e paesistico» e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché in deroga agli indici
o parametri urbanistici ed edilizi previsti dagli strumenti
urbanistici generali vigenti ed adottati".
Il recupero volumetrico a scopo residenziale del piano
sottotetto in base alla citata legge regionale non poteva
prescindere dall'esistenza dell'edificio e del sottotetto
medesimo (da intendersi come vero e proprio volume
preesistente) e doveva avvenire nel rispetto delle
prescrizioni igienico-sanitarie e di abitabilità previste
dai regolamenti vigenti, salvo quanto disposto dal comma 6
dell'art. 1 della legge medesima ("il recupero abitativo dei
sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni
singola unità immobiliare l'altezza media ponderale di m
2,40, ulteriormente ridotta a m 2,10 per i comuni posti a
quote superiori a m 1000 di altitudine sul livello del mare,
calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la
cui altezza superi m 1,50 per la superficie relativa").
Gli interventi edilizi finalizzati al recupero dei
sottotetti potevano comportare l'apertura di finestre,
lucernari, abbaini e terrazzi per assicurare l'osservanza
dei requisiti di aeroilluminazione; nonché, ove lo strumento
urbanistico generale comunale vigente risultasse approvato
dopo l'entrata in vigore della legge reg. 15.04.1975 n.
51, modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle
linee di pendenza delle falde, purché nei limiti di altezza
massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico ed
unicamente al fine di assicurare i parametri di altezza
media prescritti dalla legge regionale (art. 2).
Da ciò derivava, pertanto, che le modifiche di altezza e
volumetria, ai sensi della citata normativa regionale,
potevano ritenersi ammissibili solo laddove strettamente
necessarie a rendere abitabili i predetti volumi, con
conseguente esclusione di quelle trasformazioni, che si
sostanziassero nella creazione di nuove volumetrie, che
venissero in qualsiasi modo ad eludere (o, meglio, ad
eccedere) lo scopo unico, cui il legislatore regionale
aveva funzionalizzato le modifiche medesime (Cons. St., IV,
30.05.2005, n. 2767).
Siffatte trasformazioni potevano avvenire, come s'è visto,
in déroga ad ogni previsione urbanistica comunale, comprese,
quindi, quelle in tema di limiti quantitativi di natura
volumetrica.
Tale essendo il quadro risultante dall’ormai abrogata legge
regionale n. 15/1996 e dagli interventi giurisprudenziali e
legislativi ad essa successivi (si ricordi che tale legge è
stata successivamente modificata dalla legge regionale n.
18/1997 e dalla legge regionale n. 22/1999, oltre che fatta
oggetto di interpretazione autentica con l.r. n. 18/2002,
tutte abrogate dall’art. 104 della citata legge n. 12/2005), il Capo I del Titolo IV della nuova legge regionale n.
12/2005 (che, dedicato alle “Attività edilizie specifiche”,
disciplina, oltre ai cambi d’uso, ai parcheggi, all’attività
edilizia nelle aree agricole ed alla realizzazione di
edifici di culto e di attrezzature destinate ai servizi
religiosi, il recupero dei sottotetti), ribaditi il
principio generale del “favor” per il recupero a fini
abitativi dei sottotetti esistenti (commi 1 e 2 dell’art.
63) e la definizione di sottotetto esistente come volume
soprastante l’ultimo piano degli edifici “esistente al
momento della presentazione della domanda di permesso di
costruire ovvero della denuncia di inizio attività” (commi 2
e 4 dell’art. 63), ridefinisce ex novo la disciplina in
argomento con i seguenti tratti fondamentali:
- scompare la definizione aprioristica di qualunque
intervento sui sottotetti come intervento di
ristrutturazione, sì che l’intervento proposto sarà di volta
in volta da qualificarsi sulla base delle “definizioni degli
interventi edilizi” recate dall’art. 27 della legge ed il
titolo abilitativo necessario sarà quello previsto dagli
artt. 33 e 41 in stretta relazione con la operata
qualificazione;
- scompare la possibilità di eseguire dette trasformazioni
in deroga ad indici e parametri stabiliti dagli strumenti
urbanistici comunali (ed in particolare dalle rispettive
norme tecniche di attuazione), sì che sarà in relazione alle
previsioni di questi ultimi (circa la tipologia di
interventi ammissibili in ciascuna zona, circa le possibili
limitazioni nell’àmbito di una determinata tipologia, circa
le definizioni di volume e circa le modalità di computo
della volumetria, circa gli indici di edificabilità, ecc.)
che un intervento siffatto potrà essere assentito o meno;
- rimane la sola deroga alle “condizioni di abitabilità
previste dai regolamenti vigenti” (art. 63, commi 5 e 6),
rappresentata da una “altezza media ponderale di m 2,40,
ulteriormente ridotta a m 2,10 per i comuni posti a quote
superiori a m 1000 di altitudine sul livello del mare,
calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la
cui altezza superi m 1,50 per la superficie relativa”;
- rimane la possibilità che detti interventi comportino
“modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle
linee di pendenza delle falde” (salvo il perdurante
impedimento rappresentato dai “limiti di altezza massima
degli edifici posti dallo strumento urbanistico”), nonché
“l'apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi”
(art. 64), ma ciò, si badi, non è previsto che avvenga in
deroga alle prescrizioni di piano, sì che la norma pare
indirizzata più al momento della pianificazione che a quello
del rilascio o acquisizione del titolo abilitativo, che non
potrebbe che adeguarsi a diverse prescrizioni di piano
(salva, ovviamente, l’impugnabilità di queste ultime per
contrasto con la legge regionale in caso di diniego di
permesso di costruire sulle stesse fondato o di accertamento
dell’inesistenza dei presupposti per la formazione di altro
titolo abilitativo sempre sulle stesse basato).
Se ne può nel complesso dedurre che l'evidente ratio
perseguita dal Legislatore regionale del 1996 (quella di
favorire la creazione di nuove residenze attraverso il
razionale recupero dei sottotetti e di evitare per tale via
un ulteriore consumo di nuovo territorio altrimenti
necessario per la soddisfazione dei bisogni delle famiglie)
viene sì condivisa dal primo intervento legislativo del
2005, ma in un’ottica e con una disciplina più restrittiva,
che si concretizza nella espunzione di quelle norme, che
prima consentivano la realizzabilità degli interventi in
questione in déroga agli indici o parametri urbanistici ed
edilizi; espunzione, questa, che, a differenza di quanto
ritenuto dal Giudice di primo grado (che ne ricava
argomento per sostenere la persistenza implicita della
previsione derogatoria), non svuota affatto la portata
delle norme del Capo in argomento, le quali pur sempre fanno
salva, come s’è visto, la déroga alle norme edilizie ed
igieniche relative alle altezze interne degli alloggi
ricavati nel sottotetto, pur sempre dettano prescrizioni per
la pianificazione comunale circa l’apertura di luci e
terrazzi vòlti ad assicurare i requisiti di
aeroilluminazione, pur sempre, infine, mirano a limitare il
disordine urbanistico e l’elusione di quelle disposizioni,
che valgono a salvaguardare un corretto vivere cittadino (finalità chiara nella portata del comma 3 dell’art. 63
laddove stabilisce che “ai sensi di quanto disposto dagli
articoli 36, comma 2 e 44, comma 2, il recupero volumetrico
di cui al comma 2 può essere consentito solo nel caso in cui
gli edifici interessati siano serviti da tutte le
urbanizzazioni primarie, ovvero in presenza di impegno, da
parte dei soggetti interessati, alla realizzazione delle
suddette urbanizzazioni, contemporaneamente alla
realizzazione dell'intervento ed entro la fine dei relativi
lavori”).
Nell’ottica del legislatore della legge regionale n. 12/2005
(nella sua primigenia versione applicabile ratione
temporis alla fattispecie) la controversa possibilità di
déroga non può dunque assolutamente riguardare lo sviluppo
dell’edificio in termini di superficie e/o di volumetria,
altezze e/o distacchi; e ciò al fine di non sacrificare
oltre misura gli interessi della collettività con
l’aggravamento incontrollato di equilibri urbanistici spesso
delicati.
A tal proposito, alle affermazioni del TAR circa la
superfluità di una previsione espressa di derogabilità degli
indicati indici in sede di realizzazione degli interventi in
questione e circa il carattere implicito di una tale
previsione, valga opporre che un siffatto argomentare pare
suscettibile di comportare lo stravolgimento dei principi e
delle regole essenziali per una corretta e razionale
gestione del territorio comunale e, in fin dei conti, lo
stesso esautoramento dei poteri pianificatòri, che
l’ordinamento urbanistico demanda, in via concorrente,
all’Autorità regionale ed a quella comunale (Cons. St., IV,
21.06.2005, n. 3243 e 14.04.2006, n. 2170), dal momento che
non consente al Comune, pur in assenza di una espressa
previsione della ridetta derogabilità, di opporre proprie
valutazioni circa la compatibilità concreta degli interventi
di recupero in argomento con le esigenze, sottese alle
relative norme, di tutela ambientale, urbanistica ed
edilizia.
Trattasi, invero, di valutazioni dovute:
- nel sistema della legge statale, per effetto dell'art. 4,
comma 1, della legge n. 10 del 1977, il quale stabiliva che
la concessione edilizia può essere rilasciata esclusivamente
per gli interventi conformi alle previsioni degli strumenti
urbanistici e dei regolamenti edilizi (v., oggi, l’art. 20,
comma 3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380); dell’art.
41-quater della legge urbanistica (v. oggi l’art. 14 del
D.P.R. n. 380/2001), recante il principio per cui le
concessioni in deroga possono essere rilasciate
esclusivamente per la costruzione di edifici pubblici o
d'interesse pubblico; dell’art. 15 della legge n. 47 del
1985, a tenore del quale le varianti in corso d'opera, che
possono essere richieste prima dell'ultimazione dei lavori,
devono essere conformi agli strumenti urbanistici e non
devono comportare modifiche della sagoma, né delle superfici
utili; dell’art. 22, comma 1, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
secondo cui “sono realizzabili mediante denuncia di
inizio attività gli interventi … che siano conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”;
- nel sistema della legislazione regionale all’esame, in
virtù del disposto dell’art. 36, comma 1, della l.r. n.
12/2005 (che stabilisce che “il permesso di costruire è
rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti di
pianificazione, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigenti”) e dell’art. 42, comma 1,
primo periodo della stessa legge (che prevede che “il
proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare
la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima
dell'effettivo inizio dei lavori, presenta la denuncia,
accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un
progettista abilitato e dagli opportuni elaborati
progettuali, che asseveri la conformità delle opere da
realizzare agli strumenti di pianificazione vigenti ed
adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie”), a fronte dei quali la disciplina
dettata dagli artt. 63, 64 e 65 della stessa legge per il
recupero di cui trattasi, lungi dal potersi considerare,
come erroneamente ritenuto dal TAR, esaustiva ed in se
completa, si appalesa come meramente integrativa e
correttiva di quella generale, sì che la mancata previsione,
nel suo ristretto ambito, della detta valutazione di
compatibilità urbanistica non può affatto condurre alla
esclusione dell’applicabilità ad esso del disposto del
veduto art. 36.
Si deve dunque concludere, in mancanza di una previsione
esplicita di derogabilità, che la valutazione di
compatibilità dell’intervento edilizio in questione va
effettuata, alla luce della menzionata disciplina generale
recata dalla stessa legge regionale n. 12/2005, con riguardo
alla disciplina urbanistica vigente, salve le ipotesi
derogatorie ivi espressamente dettate.
Né paiono poi corretti e pertinenti gli ulteriori argomenti
posti dal TAR a fondamento della declaratoria di
illegittimità del provvedimento oggetto del giudizio, che
invece una tale valutazione ha operato:
- né, invero, quello secondo cui non “avrebbe ragion
d’essere, nell’opposta ottica di inderogabilità degli indici
di piano, la previsione dell’art. 65 (secondo cui le
disposizioni del capo dedicato ai sottotetti non si
applicano negli ambiti per i quali i comuni ne abbiano
disposto l’esclusione ai sensi dell’art. 1, comma 7, legge
regionale n. 15/1996)”, dal momento che le determinazioni in
tal senso adottate dai Consigli Comunali si rivelano
comunque utili, nel nuovo sistema disegnato dalla l.r. n.
12/2005, ad escludere l’operatività della veduta déroga, di
cui al comma 6 dell’art. 63;
- né quello che fa riferimento al più recente intervento del
legislatore regionale, che, con legge 27.12.2005, n.
20 (pubblicata nel BURL del 30.12.05, spl. ord. n. 52), ha
novellato l’art. 64 della legge regionale n. 12/2005,
disponendo, tra l’altro (comma 2), che “il recupero ai fini
abitativi dei sottotetti esistenti è classificato come
ristrutturazione edilizia ai sensi dell’articolo 27, comma
1, lettera d)” e, inoltre, che “esso non richiede
preliminare adozione ed approvazione di piano attuativo ed è
ammesso anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli
strumenti di pianificazione comunale vigenti ed adottati, ad
eccezione del reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali secondo quanto disposto dal comma 3”: giacché,
invece, proprio tale successivo intervento legislativo, che
ha espressamente reintrodotto le previsioni derogatorie
eliminate dall’originaria legge n. 12/2005 peraltro
apponendo nuove prescrizioni e condizioni alla operatività
delle déroghe stesse, vale a segnare, in virtù del suo
obiettivo contenuto, un netto elemento di discontinuità tra
le previsioni della l.r. n. 15/1996, quelle della prima
versione della l.r. n. 12/2005 e quelle risultanti dalla sua
successiva revisione.
La legge regionale n. 12/2005, frutto com’è di nuove
discrezionali valutazioni poste in essere dal legislatore
regionale nella materia de qua, ha in realtà sul punto
all’esame carattere radicalmente innovativo rispetto alle
previsioni della precedente legge che va a modificare, sì
che essa, lungi dal chiarire il significato delle
disposizioni previgenti (v., sul carattere della legge
interpretativa, l’ormai risalente sentenza Corte cost. n.
118 del 1957) e dunque lungi dal potersi qualificare come
legge di interpretazione, non fa altro che confermare che
l’interesse dei Comuni a tutelare l’assetto urbanistico del
territorio e la densità in queste degli edifici anche in
relazione agli interventi de quibus può recedere solo in
presenza di espresse previsioni normative, in assenza delle
quali nessuna ipotesi di déroga alle norme dei piani
regolatori generali e dei regolamenti edilizi locali può
considerarsi “implicita” o comunque esistente per effetto di
disinvolte interpretazioni estensive di ambiti derogatòri,
in quanto tali assolutamente tassativi (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.03.2007
n. 1408). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
23.08.2014 n. 195 "Regolamento per la definizione delle
attribuzioni e delle modalità di organizzazione dell’Albo
nazionale dei gestori ambientali, dei requisiti tecnici e
finanziari delle imprese e dei responsabili tecnici, dei
termini e delle modalità di iscrizione e dei relativi
diritti annuali" (Ministero dell'Ambiente e della
Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 03.06.2014 n. 120). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI
PUBBLICI - PATRIMONIO:
G.U. 20.08.2014 n. 192, suppl. ordinario n. 72/L, "Testo
del decreto-legge 24.06.2014, n. 91, coordinato con la legge
di conversione 11.08.2014, n. 116, recante: «Disposizioni
urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento
energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il
rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei
costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la
definizione immediata di adempimenti derivanti dalla
normativa europea»".
---------------
Di particolare interesse si leggano:
● Art. 1-bis. (Disposizioni urgenti in
materia di semplificazioni)
● Art. 8-bis. (Contributo per il recupero di
pneumatici fuori uso)
● Art. 9. (Interventi per l'efficientamento
energetico degli edifici scolastici e universitari pubblici
e della segnaletica stradale)
● Art. 10. (Misure straordinarie per accelerare
l'utilizzo delle risorse e l'esecuzione degli interventi
urgenti e prioritari per la mitigazione del rischio
idrogeologico nel territorio nazionale e per lo svolgimento
delle indagini sui terreni della Regione Campania destinati
all'agricoltura)
● Art. 11. (Misure urgenti per la protezione di
specie animali, il controllo delle specie alloctone e la
difesa del mare, l'operatività del Parco nazionale delle
Cinque Terre, la riduzione dell'inquinamento da sostanze
ozono lesive contenute nei sistemi di protezione ad uso
antincendio e da onde elettromagnetiche, nonché parametri di
verifica per gli impianti termici civili)
● Art. 12-bis. (Soppressione della
Commissione prevista dal regolamento di cui al d.P.R.
18.11.1998, n. 459, in materia di inquinamento acustico
derivante da traffico ferroviario)
● Art. 13. (Procedure semplificate per le operazioni
di bonifica o di messa in sicurezza e per il recupero di
rifiuti anche radioattivi. Norme urgenti per gestione dei
rifiuti militari e per la bonifica delle aree demaniali
destinate ad uso esclusivo delle forze armate. Norme urgenti
per gli scarichi in mare)
● Art. 14. (Ordinanze contingibili e urgenti, poteri
sostitutivi e modifiche urgenti per semplificare il sistema
di tracciabilità dei rifiuti. Smaltimento rifiuti nella
Regione Campania - Sentenza 04.03.2010 - C 27/2010)
● Art. 15. (Disposizioni finalizzate al corretto
recepimento della direttiva 2011/92/UE del 13.12.2011 in
materia di valutazione di impatto ambientale. Procedura di
infrazione 2009/2086 e procedura di infrazione 2013/2170)
● Art. 30. (Semplificazione amministrativa e di
regolazione a favore di interventi di efficienza energetica
del sistema elettrico e impianti a fonti rinnovabili)
● Art. 30-bis. (Interventi
urgenti per la regolazione delle gare d’ambito per
l’affidamento del servizio di distribuzione del gas
naturale)
● Art. 33. (Semplificazione e razionalizzazione dei
controlli della Corte dei conti)
---------------
Per una migliore
comprensione della ratio sottesa ai vari articoli si leggano
anche:
►
Dossier del Servizio Studi SENATO DELLA REPUBBLICA sull’A.S.
n. 1541-B (agosto 2014)
►
Dossier CAMERA DEI DEPUTATI n. 209/2 (02.08.2014)
|
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: Prerogative sindacali nelle pubbliche
amministrazioni. Articolo 7 del decreto-legge 24.06.02014 n.
90, convertito con modificazioni dalla legge n. 114
dell'11.08.2014 (circolare
20.08.2014 n. 5/2014). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI -
INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI:
RIFORMA DELLA P.A. – ULTIME NEW (C.S.A. di Milano,
20.08.2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA:
G. Buscema,
Novità per il DURC: in arrivo il SIRCE
(25.08.2014 - tratto da www.ipsoa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
M. R. Gheido e A. Casotti,
Pubblico impiego, cosa cambia (19.08.2014 -
tratto da www.ipsoa.it). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Contributi sempre garantiti.
La Corte conti sugli amministratori locali.
L'amministratore locale, lavoratore autonomo, potrà ottenere
il pagamento dei contributi previdenziali anche in assenza
di una formale presentazione di sospensione dell'attività,
se dimostra, con idonea documentazione, di non aver
esercitato la libera professione, anche in maniera residuale
rispetto all'esercizio del mandato politico.
È quanto chiarito dalla Corte dei conti per la regione
Abruzzo (parere 08.08.2014 n. 145),
in merito alle disposizioni contenute all'art. 86, comma 2,
del Tuel.
Le recenti interpretazioni della magistratura
contabile sul punto hanno escluso che a un amministratore
locale, lavoratore dipendente, si possano versare da parte
dell'ente locale presso cui esercita il mandato gli oneri
contributivi e assistenziali, in assenza di una
dichiarazione che attesti la sospensione dell'attività di
lavoratore autonomo. Questo, per garantire parità di
condizioni nei confronti dei lavoratori dipendenti, sia
pubblici che privati, i quali per poter accedere al
beneficio sopra evidenziato dovrebbero porsi in aspettativa.
Sul punto, rispondendo a un quesito del comune di Poggiofiorito (Ch), la Corte abruzzese ha ricordato che la
ratio della norma consiste nel garantire al
lavoratore, autonomo o dipendente, di porsi a esclusivo
servizio della collettività in via esclusiva, senza
possibilità di esercitare altre attività e rinunciando alle
relative retribuzioni. Pertanto, prima di riconoscere
all'amministratore il beneficio de quo, l'ente locale, in
assenza della prevista dichiarazione di sospensione
dell'attività da parte del soggetto, deve verificare la
circostanza che lo stesso non abbia continuato a svolgere
attività di lavoratore autonomo, anche in forma minima.
Verifica che si potrà concretizzare con l'acquisizione di
documentazione attestante il requisito dell'esclusività a
favore dell'ente locale, quale, per esempio, la notifica
all'ente previdenziale di appartenenza della sospensione
dell'attività e la presentazione di documentazione fiscale,
ovvero delle dichiarazioni dei redditi, dalle quali si
evinca l'assenza di redditi percepiti a seguito di
svolgimento di lavoro autonomo
(articolo ItaliaOggi
del 22.08.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Danno all'immagine con «soglia minima».
Corte dei conti. I paletti al risarcimento.
Il danno all'immagine della pubblica amministrazione è
risarcibile quando la condotta del dipendente supera la
"soglia minima" dell'offesa, ed è quindi altamente lesiva al
l'immagine e determina una corale disapprovazione e sfiducia
nell'amministrazione.
Così ha deciso la Corte dei
conti (sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia,
sentenza 14.03.2014 n. 47), che
ha stabilito importanti princìpi su questo risarcimento.
Il caso che ha dato origine a questa sentenza è singolare e
può far sorridere. Un carabiniere, che era in servizio di
vigilanza, ha interrotto il servizio, si è recato "in
divisa" da un barbiere e si è fatto tagliare i capelli. Un
passante lo ha visto, e ha segnalato questo fatto alla
locale centrale operativa. Per questo comportamento, il
carabiniere è stato condannato a un mese e dieci giorni di
reclusione militare e a una sanzione disciplinare.
Ma è
sorto il problema della violazione dell'immagine della
pubblica amministrazione e del risarcimento di questo danno.
Secondo la Corte dei conti il risarcimento del danno
all'immagine può avvenire soltanto come conseguenza di uno
dei reati previsti nel Capo I, Titolo II, Libro secondo, del
Codice penale, accertato con sentenza irrevocabile di
condanna.
Non si ha quindi risarcimento per la violazione di
qualsiasi dovere di servizio. Inoltre l'entità del danno al
l'immagine, come stabilito dal comma 1-sexies, articolo 1,
legge 20/1994 si presume, salvo prova contraria, pari al
doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale o di
altra utilità illecitamente percepita dal dipendente.
La Corte ha anche precisato che la condotta del dipendente
deve superare una "soglia minima" di offensività. Questa
condotta deve essere quindi gravemente lesiva dell'immagine
pubblica, così da far sorgere un corale e persistente
sentimento di sfiducia verso l'amministrazione, e da
determinare la convinzione che i comportamenti patologici
posti in essere siano usuali nella pubblica amministrazione.
Il comportamento del Carabiniere non ha –a giudizio della
Corte– superato la "soglia minima", perché si è trattato di
un episodio, circoscritto anche nel tempo, e non vi è stata
un'ampia notizia del fatto.
La sentenza è da condividere. In contrario agli argomenti
della Corte si potrebbe obiettare che, anche se si è
trattato di un unico episodio, non ha di certo giovato al
prestigio del l'Arma il fatto che il carabiniere sia andato
a farsi tagliare i capelli "in divisa". Ma l'obiezione non
sarebbe persuasiva. Infatti, sia per questo fatto, sia –e
specialmente– per avere interrotto il servizio, il
carabiniere è stato condannato in sede penale e
disciplinare.
Per il risarcimento del danno di immagine, la sentenza ha il
pregio di avere puntualizzato la necessità del superamento
della "soglia minima" dell'offesa all'immagine
dell'amministrazione pubblica, tale da incrinare quel
rapporto di fiducia che deve necessariamente unire i
cittadini e l'amministrazione pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del
25.08.2014). |
QUESITI & PARERI |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti e box auto.
Domanda
Posso pretendere di non pagare la tassa per la raccolta dei
rifiuti su un box auto chiuso in autorimessa condominiale in
quanto non produttivo di rifiuti?
Risposta
Di recente, chiamata a decidere circa l'applicabilità o meno
della tassa sulla raccolta dei rifiuti (Tarsu) a un box
auto, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso del
Comune (che nei primi due gradi di giudizio aveva avuto però
torto da parte delle Commissioni tributarie provinciale di
Catania e regionale della Sicilia) affermando che, a termini
di legge, il presupposto della Tarsu è l'occupazione o la
detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti
e che non sono soggetti alla tassa i soli locali e aree che
non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il
particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in condizioni di obiettiva inutilizzabilità,
qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia
originaria o in una denuncia presentata successivamente e
debitamente riscontrate in base a elementi obiettivi
direttamente rilevabili o idoneamente documentati
(Cassazione, sentenze n. 11351/2012 e 17703/2004).
La
Cassazione ha così concluso che la legge presume che locali
e aree, in linea generale, producano rifiuti (di regola e
per loro natura) e che se ciò non accade la prova deve
essere fornita dal contribuente, ma non può essere presunta
dal giudice
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.08.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Consiglieri
provinciali.
Domanda
Con la legge Del Rio, i consigli provinciali scadranno tutti
a fine giugno. I consiglieri provinciali uscenti che hanno
incarichi nei cda delle partecipate (aeroporti, aziende di
trasporto ecc.) dovranno comunque lasciare, (anche in corso
di mandato), l'incarico nel Cda, dal momento che tale
incarico è strettamente connesso all'esercizio della loro
funzione pubblica, istituzionale, di consigliere provinciale
che viene a cessare?
Se tutto ciò non avvenisse, si manterrebbe in piedi un
poltronificio che permetterebbe ai consiglieri provinciali,
di uscire dalla porta principale e rientrare da quella di
servizio?
Risposta
L'art. 63 del dlgs 267/2000 stabilisce l'incompatibilità tra
la carica di sindaco, presidente della provincia,
consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale
o circoscrizionale e «l'amministratore o il dipendente con
poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente,
istituto o azienda soggetti a vigilanza in cui vi sia almeno
il 20% di partecipazione rispettivamente da parte del comune
o della provincia o che dagli stessi riceva, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
10% del totale delle entrate dell'ente».
La norma evidenzia l'incompatibilità tra la funzione di
vigilanza, che è attribuita e ai consiglieri degli enti
locali, e la posizione degli amministratori di una società
partecipata soggetta a vigilanza. A tal proposito la
giurisprudenza ha consolidato l'interpretazione secondo la
quale il concetto di «vigilanza» consiste nel potere-dovere
di controllo che l'ente esercita nei confronti delle
partecipate.
È importante, infine, sottolineare che
l'articolo 7, comma 2, del dlgs 39/2013 vieta alle Province,
ai Comuni con più di 15 mila abitanti e alle Unioni con la
stessa dimensione, di attribuire incarichi di
amministratore, in società o organismi sottoposti al loro
controllo, a soggetti che siano stati, nei due anni
precedenti, amministratori locali negli enti conferenti o,
nell'anno prima, amministratori locali in una provincia, in
un comune o un'unione con più di 15 mila abitanti
appartenenti alla stessa regione dell'amministrazione locale
che conferisce l'incarico
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.08.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità pro tempore.
All'assessore che sostituisce il sindaco.
Le regole del trattamento introdotto dalla legge 56
del 2014.
La legge 07.04.014, n. 56, ha introdotto nuovamente per i
comuni fino a 3 mila abitanti la presenza di due assessori.
È possibile attribuire all'assessore nominato vicesindaco
un'indennità nella misura del 15% rispetto a quella prevista
per il sindaco? Possono essere rimborsate le spese sostenute
dall'amministratore in questione per le missioni effettuate
in nome e per conto dell'ente al di fuori del territorio
comunale?
Il Ministero dell'interno, con le circolari del 4 e 24.04.2014, con le quali sono stati approfonditi alcuni
aspetti applicativi della legge 07.04.2014, n. 56,
nell'evidenziare che l'art. 1, comma 135, della citata legge
ha modificato la composizione del numero dei membri delle
giunte e dei consigli comunali negli enti fino a 10 mila
abitanti, ha precisato che la figura del vicesindaco dovrà
essere individuata nell'ambito dei due assessori previsti
dalla richiamata normativa, che avranno diritto ad una
indennità di carica parametrata a quella del sindaco.
In merito alle funzioni svolte dal vice sindaco il Consiglio
di stato (sez. I, par. n. 501 del 14/6/2001) ha specificato
che il vicesindaco, da un punto di vista funzionale «è il
“vicario” del sindaco, cioè l'organo persona-fisica
stabilmente destinato ad esercitare le funzioni del titolare
in ogni caso di mancanza, assenza o impedimento» e, nel caso
di rimozione, decadenza o decesso del sindaco, la
sostituzione ha un carattere stabile, fino a nuove elezioni.
Alla luce delle nuove disposizioni, pertanto, all'assessore
che sarà incaricato di sostituire il sindaco, spetterà, per
il solo periodo in cui sarà designato ad esercitare le
funzioni vicarie, l'indennità di funzione pari a quella
spettante al sindaco, nonché i permessi relativi di cui
all'art. 79 del decreto legislativo n. 267/2000.
L'art. 136 della citata legge 56/2014, inoltre, dispone, per
i comuni interessati dalla disposizione di cui al comma
precedente, la necessità di provvedere a rideterminare con
propri atti oneri connessi con le attività in materia di
status degli amministratori locali, tra cui anche il
rimborso delle spese sostenute dal vicesindaco per le
missioni effettuate in nome e per conto dell'Ente, al di
fuori del territorio comunale, nonché spostamenti
autorizzati dal sindaco o in forza della sua posizione di
vicario dello stesso.
L'amministratore interessato, dovrà fare richiesta di tale
rimborso all'ente di appartenenza, corredata da valida
documentazione quali: fatture di spesa carburante, pedaggi
autostradali, biglietti di viaggio, eventualmente in
possesso (articolo ItaliaOggi
del 22.08.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Gettoni di presenza.
È possibile erogare i gettoni di presenza ai componenti
della conferenza dei capogruppo, tenuto conto che il
regolamento del consiglio comunale equipara la conferenza
dei capogruppo alle commissioni consiliari?
Gli articoli 77 e seguenti del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 dettano puntuali disposizioni in materia di
indennità e permessi spettanti agli amministratori locali.
Laddove il legislatore ha voluto riconoscere determinati
diritti ai membri delle conferenze dei capogruppo, ha
espressamente disposto in tal senso, come nel caso dei
permessi retribuiti disciplinati dall'art. 79, comma 3, del
dlgs 18.08.2000, n. 267.
Poiché analoga previsione non è contemplata dall'art. 82,
comma 2, del citato decreto legislativo deve ritenersi,
sulla base anche dei principi di buon andamento e
contenimento della spesa pubblica, che abbiano diritto alla
corresponsione del gettone di presenza solo gli
amministratori locali espressamente indicati nella norma
medesima (articolo ItaliaOggi
del 22.08.2014). |
NEWS |
PUBBLICO
IMPIEGO: Permessi e distacchi sindacali dimezzati.
Madia firma la circolare per la Pa: mille revoche, entro
agosto le comunicazioni dei sindacati alle amministrazioni.
Scatterà dal 1° settembre
il dimezzamento alle prerogative sindacali stabilito dal dl
Madia. Entro il 31 agosto tutte le sigle dovranno comunicare
alle amministrazioni la revoca dei distacchi «non più
spettanti» (sono interessati circa mille lavoratori che
quindi tra cinque giorni rientreranno negli uffici). Il
taglio del 50%, finalizzato «alla razionalizzazione e alla
riduzione della spesa pubblica», interesserà anche i
permessi retribuiti. Ma non i permessi sindacali attribuiti
alle Rsu (questo perché non sono attribuiti alle singole
organizzazioni sindacali). E la riduzione prevista dal dl
Madia non si applicherà anche «alle aspettative sindacali
non retribuite, ai permessi non retribuiti e ai permessi per
la partecipazione a riunioni sindacali su convocazione
dell'amministrazione per il solo personale della carriera
diplomatica e della carriera prefettizia (ciò in quanto per
essi non è previsto alcun contingente).
La titolare di Palazzo Vidoni, Marianna Madia, ha reso nota
ieri la circolare
20.08.2014 n. 5/2014 che attua la sforbiciata del 50% alle
prerogative sindacali nelle pubbliche amministrazioni
prevista dall'articolo 7 del dl 90. Per le forze di polizia
ad ordinamento civile e per il corpo dei vigili del fuoco si
prevede, in sostituzione della riduzione del 50%, che alle
riunioni sindacali indette dall'amministrazione «possa
partecipare un solo rappresentante per sigla sindacale».
Sul fronte dei distacchi (che nella Pa corrispondono a
un'aspettativa retribuita con la sospensione dell'attività
lavorativa) la circolare specifica che la riduzione «non si
applica nell'ipotesi di attribuzione all'associazione
sindacale di un solo distacco». Il contingente complessivo
dei distacchi, rideterminato in virtù dell'articolo 7 del dl
Madia, potrà essere nuovamente ripartito tra le sigle
sindacali con le relative procedure contrattuali e
negoziali. In tale ambito, specifica la nota di Palazzo Vidoni, sarà possibile definire, «con invarianza di spesa»,
forme di utilizzo compensativo tra distacchi e permessi
sindacali.
Il distacco revocato dà diritto al rientro al lavoro (il
posto viene infatti accantonato). Si può tuttavia far
domanda per essere trasferiti in altra sede della propria
amministrazione quando si dimostri di aver svolto attività
sindacale e di aver tenuto il domicilio nell'ultimo anno
nella sede di richiesta ovvero in altra amministrazione
anche di diverso comparto della stessa sede. Una sorta di
mobilità, anche interdipartimentale, che va comunque
applicata, spiega la Funzione pubblica, «nel rispetto dei
principi ai quali si ispira questa disciplina con
particolare riferimento ai requisiti e alle competenze
professionali richiesti per il trasferimento».
Nel solo
comparto Scuola per il triennio 2013-2015 sono stati
autorizzati 681 distacchi (in 340 torneranno quindi nelle
scuole), con un risparmio di oltre 10 milioni annui (nel
caso dei docenti si eviteranno le nomine dei supplenti).
La riduzione del 50% si applica anche al monte ore
complessivo dei permessi sindacali retribuiti. Nell'anno
corrente, sottolinea Palazzo Vidoni, il taglio verrà
effettuato secondo il metodo del calcolo «pro-rata». Vale a
dire: dal 01.01.2014 al 31 agosto il contingente dei
permessi sindacali spetta in misura piena, mentre dal 1°
settembre al 31 dicembre, va ridotto nella misura del 50 per
cento. Con la conseguenza, pertanto, che dal 1° settembre,
qualora in seguito alla riduzione e alla rideterminazione
del contingente le associazioni sindacali abbiano esaurito
il relativo contingente a disposizione, «le medesime non
potranno più essere autorizzate alla fruizione di ulteriori
ore di permesso retribuito».
La circolare specifica come nel caso in cui i sindacati
abbiano comunque utilizzato prerogative sindacali in misura
superiore a quelle spettanti nell'anno dovranno restituire
il corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti.
In difetto l'amministrazione compenserà l'eccedenza l'anno
successivo (fino al completo recupero). Per il leader della
Cisl, Raffaele Bonanni, «non è con il taglio di distacchi e
permessi che si risolvono i problemi della Pa. Basta
demagogia. Ci aspettiamo ora che il Governo rinnovi i
contratti dei pubblici dipendenti fermi scandalosamente da
ben sette anni». Il taglio «chiaramente metterà in
difficoltà», ma «siamo forti e continueremo ad esercitare la
nostra funzione» sottolinea Michele Gentile, responsabile
Cgil dei settori pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del
26.08.201). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Albo gestori ambientali: parte la semplificazione.
Rifiuti. Dal 7 settembre in vigore il nuovo regolamento.
Semplificazione
amministrativa e qualificazione delle imprese.
Sono questi
gli obiettivi che l'Albo nazionale gestori ambientali si è
prefisso di raggiungere con il nuovo Regolamento di cui al
Dm 03.06.2014, n. 120 (Gazzetta ufficiale n. 195 del 23
agosto). Il nuovo decreto ministeriale entra in vigore il
prossimo 7 settembre e, dopo 16 anni di vigenza, abroga il
precedente Dm 406/1998.
Il decreto ministeriale rappresenta un importante punto di
arrivo del processo di semplificazione amministrativa posto
in essere dall'Albo gestori e rende la relativa funzionalità
più armonica con quanto attualmente previsto dalla
disciplina in materia di rifiuti, che in tutti questi anni
ha subito molte e profonde modifiche.
Sul fronte della semplificazione si registra, ad esempio, il
fatto che gli operatori non devono più comunicare le
modifiche anagrafiche al Registro imprese; queste, infatti,
sono trasmesse d'ufficio e telematicamente dal Registro alla
Sezione regionale dell'Albo, che le recepisce entro 30
giorni. Inoltre, è previsto l'accorpamento delle categorie
di iscrizione; pertanto le imprese iscritte per il trasporto
dei rifiuti non devono iscriversi per il transfrontaliero
oppure gli iscritti nelle categorie 4 e 5 possono
trasportare i rifiuti da sé stessi prodotti o i Raee
(rifiuti elettrici ed elettronici) senza richiedere altre
iscrizioni.
Per garantire nel breve periodo e a livello nazionale
l'informatizzazione dell'Albo viene anche disciplinata la
trasmissione telematica delle domande e delle comunicazioni.
Il che consentirà di ridurre ulteriormente i tempi, già
brevi, previsti per l'iscrizione e la gestione delle singole
pratiche. Per il rinnovo dell'iscrizione l'impresa
interessata dovrà presentare alla sezione locale dell'Albo
un'autocertificazione che attesti il permanere dei requisiti
previsti per l'iscrizione. L'attestazione di idoneità degli
automezzi è redatta e sottoscritta dal Responsabile tecnico
dell'impresa, pertanto decade l'obbligo di dimostrarla con
perizia redatta e giurata da un professionista.
Tali semplificazioni, in base alla procedura di stima dei
costi amministrativi di cui al Dpcm 25.01.2013, hanno
evidenziato una eliminazione di costi amministrativi a
carico delle imprese pari a 15.554.000 euro.
Sul fronte della qualificazione delle imprese, il nuovo
regolamento la persegue anche grazie alle nuove disposizioni
in materia di Responsabile tecnico (Rt). Infatti, fino ad
ora, la professionalità dell'Rt poteva essere dimostrata
(oltre che con il titolo di studio e l'esperienza acquisita)
anche mediante la partecipazione ad appositi corsi di
formazione e superamento dei relativi esami.
Le criticità indotte in molti casi da questa previsione
hanno ora condotto l'Albo a prevedere una verifica iniziale
della preparazione del candidato e, ogni cinque anni, una
verifica ulteriore sull'aggiornamento professionale in base
a contenuti, criteri e modalità di svolgimento stabiliti dal
Comitato nazionale dell'Albo.
Il regime transitorio di cui all'articolo 26 del Dm 120/2014
prevede che:
- le iscrizioni effettuate al 07.09.2014 e le garanzie
finanziarie già prestate restano valide ed efficaci fino
alla loro scadenza;
- le iscrizioni per raccolta e trasporto dei rifiuti avviati
al recupero agevolato in essere al 25.12.2010 sono
valide ed efficaci fino alla loro scadenza;
- le domande di iscrizione presentate entro il 07.09.2014 sono valide ed efficaci;
- le disposizioni adottate dal Comitato nazionale dell'Albo
entro il 07.09.2014 restano valide ed efficaci fino
alla emanazione delle altre disposizioni. Il Comitato entro
il 06.03.2015 detterà le disposizioni per il trasporto dei
rifiuti all'interno della laguna di Venezia;
- restano in vigore i decreti 05.02.2004 e 05.07.2005 in materia di garanzie finanziarie (articolo Il Sole 24 Ore del
26.08.2014). |
CONDOMINIO - EDILIZIA
PRIVATA: Amianto, il degrado obbliga alla bonifica. In base alla
spesa maggioranze variabili per le delibere.
Sicurezza. La valutazione del rischio deve essere affidata a
tecnici abilitati.
L'amianto piaceva: le sue
peculiari proprietà fonoassorbenti e termoisolanti e il
basso costo hanno spinto al suo utilizzo per decenni anche
negli edifici condominiali. Ma, dopo aver scoperto la sua
pericolosità, dato che Comune e Asl non sono tenuti a
effettuare sopralluoghi negli edifici privati, l'onere grava
totalmente sul condominio e, quindi, sull'amministratore.
I doveri dell'amministratore
Va precisato che l'amianto è stato applicato in due forme
diverse: l'amianto compatto e quello friabile.
La differenza è rilevante anche dal punto di vista giuridico
e degli obblighi dell'amministratore. Il comma 5
dell'articolo 12 della legge 257/1992 stabilisce che «presso
le unità sanitarie locali è istituito un registro nel quale
è indicata la localizzazione dell'amianto floccato o in
matrice friabile presente negli edifici».
I proprietari (quindi l'amministratore in caso di condomìni)
devono comunicare alle Asl i dati relativi alla presenza di
materiali. In caso di omessa comunicazione la legge 257
stabilisce la sanzione amministrativa da 2.582 a 5.164 euro
I lavori da eseguire
Per i materiali edilizi in cemento amianto presenti in forma
compatta in edifici privati e in condomìni, qualora essi
siano in buono stato, non è previsto alcun obbligo né di
comunicazione alla Asl né di rimozione.
Se però il manufatto compatto manifesta condizioni di
degrado l'amministratore deve far effettuare un'accurata
ispezione e una valutazione del rischio rivolgendosi a un
tecnico o a un'impresa abilitati e accuratamente
selezionati, oppure far eseguire le analisi da un
laboratorio in possesso dei requisiti previsti dall'allegato
5 del Dm del 14.05.1996. Sono poi necessari controlli
periodici dopo il primo intervento.
Ma che succede se l'analisi accerta la necessità di
intervenire sull'amianto? In tal caso è obbligatorio
rivolgersi a una ditta specializzata iscritta all'albo
nazionale gestori ambientali alla categoria 10 sub categoria
10A o 10B (articolo 26 del Dlgs 81/2008).
Sull'amministratore incombono anche responsabilità nei
confronti di chi lavora nei condomìni : gli articoli da 246
al 261 del Tu sulla sicurezza regolamentano la protezione
dai rischi connessi all'esposizione all'amianto.
Spese e maggioranze
La spesa va ripartita tra i condòmini (articolo 12, comma 3,
della legge 257/1992), con possibilità di rivalersi nei
confronti della ditta costruttrice solo se l'amianto sia
stato installato successivamente alla data in cui la legge
ne ha vietato l'uso.
Quanto alle maggioranze assembleari per deliberare gli
interventi relativi all'amianto, dato che dovrebbero
qualificarsi come manutenzione ordinaria poiché l'intervento
è imposto dalla legge, sarebbe sufficiente la maggioranza
prevista dal terzo comma dell'articolo 1136 del Codice
civile (la maggioranza degli intervenuti in assemblea che
rappresenti almeno 1/3 dei millesimi e dei condòmini).
Invece, quando l'opera di bonifica è di rilevante entità,
soprattutto economica, si ricade nella manutenzione
straordinaria e quindi si applica la maggioranza prevista
dal secondo comma dell'articolo 1136 del Codice civile
(maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno 500
millesimi) (articolo Il Sole 24 Ore del
26.08.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI:
Pneumatici col prelievo.
Va assoggettato all'Iva il contributo ambientale per la
raccolta dei pneumatici fuori uso.
Lo stabilisce l'art. 8-bis del dl 24.06.2014, n. 91,
aggiunto dalla legge di conversione n. 116/2014 che ha
integrato in tal senso l'art. 228 del dlgs 152/2006 (codice
dell'ambiente).
Questa disposizione, allo scopo di ottimizzare il recupero
dei pneumatici fuori uso e per ridurne la formazione, anche
attraverso la ricostruzione, ha introdotto l'obbligo per i
produttori e importatori di provvedere, singolarmente o in
forma associata e con periodicità almeno annuale, alla
gestione di quantitativi di pneumatici fuori uso pari a
quelli da essi stessi immessi sul mercato e destinati alla
vendita sul territorio nazionale, da finanziarie applicando,
in tutte le fasi della commercializzazione, un contributo a
carico degli utenti finali, da indicare nella fattura di
vendita.
Per chiarire il trattamento Iva di tale onere e di regolarne
le modalità di applicazione pratica, il dl 91/2014 integra
la disposizione, prevedendo che il contributo, «parte
integrante del corrispettivo di vendita, è assoggettato ad
Iva ed è riportato nelle fatture in modo chiaro e distinto».
Viene inoltre chiarito che il produttore o l'importatore
applicano il contributo nella misura vigente alla data della
immissione del pneumatico nel mercato nazionale del
ricambio.
Tale misura rimane invariata in tutte le successive fasi di
commercializzazione del pneumatico, con l'obbligo, per
ciascun rivenditore, di specificarlo in modo trasparente
nella fattura. Il trattamento Iva del contributo in
questione è simile a quello applicabile, secondo quanto
chiarito dalla risoluzione 55/2007 dell'Agenzia delle
entrate, all'addebito del Raee
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2014). |
APPALTI: In otto anni sono intervenuti tutti i quattro governi.
Appalti senza tregua: norme riscritte 200 volte.
La riforma degli appalti
è al sesto punto dei dieci di cui si compone il decreto Sblocca-Italia che il Governo si appresta a varare venerdì.
L'intervento sul Codice dei contratti è uno dei tasselli
messi in campo da Renzi insieme alla manovra sulle
infrastrutture (con 30 miliardi di opere da rimettere in
moto anche attraverso semplificazioni) e a quella sui
piccoli cantieri (il piano dei 6mila campanili e le oltre
1.400 segnalazioni arrivate direttamente dai sindaci su
lavori fermi).
Ma la riforma del Codice dei contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture non avrà il sapore della novità. Al
contrario, per le imprese che negoziano con la pubblica
amministrazione rischia di essere un film già visto. Molte
volte. Già perché il Codice dei contratti pubblici (il Dlgs
163/2006), vecchio di soli otto anni, ha subìto finora 223
interventi, una media di oltre due al mese per tutti i cento
mesi di vita del provvedimento.
Quando fu varato il decreto 163 nel 2006 fu salutato come
strumento di grande innovazione proprio perché accorpava in
un Testo unico tutte le norme per i contratti pubblici.
L'illusione di stabilità è durata poco: a colpi di decreti
legge di somma urgenza, leggi di stabilità e leggine varie
il Codice è sì rimasto unico ma è stato riscritto e
ritoccato appunto 223 volte (si veda la scheda a fianco).
Senza contare, poi, le altre norme che senza andare a
incidere direttamente sul decreto 163 hanno avuto comunque
un impatto sulla materia: dalla trasparenza per la Pa al
nuovo codice antimafia, all'anticorruzione tanto per citare
un esempio.
Obiettivi diversi
Tutti i quattro Governi che si sono succeduti in questo arco
di tempo hanno voluto sperimentare la propria ricetta per i
contratti pubblici. Con obiettivi anche molto diversi tra
loro. La riforma più corposa è quella a firma
Berlusconi–Tremonti–Matteoli del 2011: il decreto sviluppo
infatti conteneva oltre 100 modifiche del Codice. La spinta,
soprattutto nelle intenzioni di Tremonti, era quella ad
arginare il vorticoso aumento dei costi delle grandi opere.
Si spiegano così i tetti imposti alle varianti in corso
d'opera e alle riserve contabili, ovvero alle richieste di
aumenti avanzate dai costruttori.
Sempre al 2011 risale il primo e più sostanzioso intervento
sulla norma più tormentata del Codice appalti: l'articolo 38
sulle cause di esclusione dalle gare. Soltanto con il Dl
sviluppo ha subìto 18 modifiche. Certo, l'importanza è
centrale, perché è la norma che allarga o restringe il
perimetro dei concorrenti e dunque il mercato. E forse è
proprio per questo che l'articolo 38 è rimasto in balia
delle urgenze e delle pressioni del momento: dopo la
riscrittura datata maggio 2011 si è avvertita di nuovo
l'esigenza di un ritocco sei mesi dopo per aprire alle Pmi
(Statuto imprese) e il mese successivo per
l'autocertificazione (legge di stabilità).
A febbraio 2012,
in nome della semplificazione, anche Monti ha voluto
lasciare un piccolo segno, rendendo più flessibile la
sanzione dell'esclusione dalle gare con il Dl "semplifica-Italia".
Tutto qui? No di certo. L'ultima puntata (per ora) porta la
data del 18 agosto scorso, quando la legge di conversione
del Dl 90/2014 ha reso sanabili alcuni errori formali nella
documentazione. Per chi avesse perso il conto, in tutto
fanno 22 modifiche. Nate con l'intento di semplificare e
agevolare la partecipazione agli appalti, ma impossibili da
"digerire" con facilità per qualsiasi operatore.
Ed è sempre la semplificazione, insieme con il sostegno ai
capitali privati per le infrastrutture, la chiave di volta
delle modifiche targate Monti. Il primo obiettivo è basato
soprattutto sulla banca dati dei contratti pubblici (Avcpass),
che doveva eliminare alle imprese l'onere di documentare i
requisiti di gara, ma che tra farraginosità, ritardi e
cancellazione dell'Authority non è ancora partita. Project
bond, riforma della finanza di progetto e defiscalizzazione
degli investimenti privati, poi, sono l'eredità dell'ex
ministro banchiere, Corrado Passera. Letta si è distinto
invece per la solidarietà alle aziende in crisi di
liquidità, con alcuni ammorbidimenti procedurali.
Lo sblocca-Italia
Ora tocca a Renzi che ha annunciato l'ennesima riforma del
Codice degli appalti («con delega legislativa»), presentando
le linee guida dello Sblocca-Italia. Finora il suo Governo è
intervenuto solo sull'Authority di settore, prima
rafforzandone i compiti di vigilanza sulla spesa (Dl Irpef)
e due mesi dopo cancellandola. Ora il ridisegno dovrebbe
essere più organico. Dalla sua, stavolta, il premier ha il
fatto che le modifiche sono necessarie per recepire, entro
il 2016, l'ulteriore tornata di direttive europee sugli
appalti (articolo Il Sole 24 Ore del
25.08.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Le Spa partecipate evitano gli obblighi di pensionamento.
Società. La circolare sul personale.
Le società partecipate
non sono soggette direttamente ai vincoli sulle assunzioni
degli enti locali controllanti e per ottimizzare la gestione
delle risorse umane hanno a disposizione lo strumento della
mobilità.
Federutility e Federambiente forniscono con la circolare
congiunta 07.08.2014 n. 4183/AG di prot. l'interpretazione
applicativa delle disposizioni della legge n. 114/2014 sulle
società partecipate.
Nell'analisi si evidenzia anzitutto come l'abrogazione del
l'articolo 76, comma 7, della legge n. 133/2008 elimini
l'obbligo di consolidare le spese delle società nei bilanci
comunali al fine di controllare le politiche assunzionali
dell'ente: dunque le partecipate non risultano più
destinatarie dirette o indirette delle norme limitative in
materia di assunzioni e spesa per il personale, nonché sulla
contrattazione collettiva dettate oggi per gli enti
controllanti.
In base all'innovato assetto normativo, secondo le due
associazioni oggi l'ente locale socio esercita nei confronti
delle società controllate un ruolo di coordinamento delle
politiche di assunzione per promuovere il principio della
graduale riduzione della percentuale tra spese di personale
e spese correnti.
La legge 114/2014 apporta un'innovazione importante alla
norma che regola i rapporti tra enti e società, individuata
nel comma 2-bis dell'articolo 18 della legge n. 133/2008,
eliminando il riferimento al Ccnl in vigore al 01.01.2014 e riportando la disciplina dei rapporti tra
contrattazione collettiva nazionale e contrattazione
collettiva di secondo livello (aziendale) alla
regolamentazione tradizionale. Il contratto aziendale può
tuttavia derogare a quello nazionale qualora l'atto di
indirizzo dell'ente socio stabilisca criteri in tal senso.
Le due associazioni analizzano anche la disposizione
prevista dal neointrodotto comma 567-bis dell'articolo 1
della legge n. 147/2013, che consente al lavoratore
coinvolto in procedure di mobilità verso altre società
partecipate di richiedere la ricollocazione, in via
subordinata, in una qualifica inferiore, rilevando come il
percorso sia caratterizzato da elementi derogatori delle
previsioni del Codice civile.
La norma rafforza il quadro delle procedure di mobilità del
personale delle società partecipate previsto dalla legge di
stabilità 2014, sul quale Federutility, Federambiente e
Asstra hanno fornito elementi di analisi applicativa nella
circolare 04140/UPG del 2 luglio.
In tale analisi viene rilevato come il processo di mobilità
preveda il trasferimento di personale da una società
all'altra attraverso l'istituto della cessione del contratto
di lavoro del personale, ma senza il consenso del lavoratore
ceduto, risultando peraltro realizzabile con riferimento a
tutte le società controllate direttamente o indirettamente
dalla stessa amministrazione, indipendentemente
dall'attività esercitata, purchè, comunque, sussista il
requisito del controllo societario in base al l'art. 2359
del Codice civile. Le società emittenti strumenti finanziari
quotati nei mercati regolamentati e le loro controllate non
possono utilizzare le procedure di mobilità (articolo Il Sole 24 Ore del
25.08.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Residui, riutilizzo da dimostrare. Prova necessaria per
usufruire del regime semplificato. Dal dl Competitività nuove norme per l'allineamento alle
regole europee sul recupero.
Sarà necessario provare l'effettivo riutilizzo dei residui
recuperati per poter godere delle nuove deroghe
all'ordinario regime dei rifiuti previste da due meccanismi
introdotti dalla legge di conversione del dl 91/2014
direttamente nel «Codice ambientale», ossia: la gestione
come veri e propri beni dei materiali di dragaggio
processati; la conduzione sotto il regime autorizzatorio
light delle operazioni di riciclo effettuate nel rispetto
delle norme comunitarie sull'end of waste.
Seppur inquadrate tra le norme sulla «cessazione della
qualifica di rifiuti» di derivazione comunitaria, i due
nuovi meccanismi previsti dalla legge di conversione del
c.d. «dl Competitività» (approvata in via definitiva dal
parlamento lo scorso 07.08.2014) non appaiono aderenti
alle omonime disposizioni Ue in base alle quali si ha «end of waste» (ossia fuoriuscita dei residui di produzione dal
regime dei rifiuti) già con la cessione dei materiali
dall'operatore che li ha trattati a un nuovo soggetto
unitamente alla consegna di un «certificato di conformità»
agli standard di recupero.
La disciplina «end of waste» Ue. È bene ricordare come a
imporre a monte le regole che, se osservate, determinano con
certezza la riabilitazione a veri e propri beni dei residui
trattati è l'articolo 6 della direttiva 2008/98/Ce, in base
al quale i rifiuti cessano di essere tali se, all'esito di
una operazione di recupero, soddisfano le seguenti generali
condizioni: sono comunemente utilizzati per scopi specifici;
esiste per loro un mercato o una domanda di riferimento;
rispettano requisiti tecnici e standard di prodotto; non
comportano impatti negativi per ambiente e salute umana.
La
stessa direttiva affida poi a regolamenti attuativi della
Commissione Ue la declinazione di dette condizioni in
specifici criteri per singole tipologie di rifiuti,
lasciando gli stati membri liberi di stabilire, nelle more,
cedevoli regole locali. Sulla base di detto articolo 6,
direttiva 2008/98/Ce, la Commissione Ue ha così provveduto
ad adottare precise regole (direttamente operative sul
territorio degli Stati membri, in quanto veicolate da atti
«self executing») per l'end of waste dei rottami di rame
(regolamento n. 715/2013), vetro (n. 1179/2012) e ferro
(333/2011).
Tutti regolamenti che stabiliscono come i
rifiuti sottoposti a recupero cessino di essere tali al
momento della loro cessione da parte dal soggetto che li ha
processati al primo detentore successivo, allorché all'atto
di tale trasferimento risultino soddisfatti tutti gli
standard tecnici di trattamento e di riutilizzo previsti per
le specifiche tipologie di materiali, e questo sia altresì
attestato da un «certificato di conformità».
La
trasposizione nazionale delle generali norme ex direttiva
2008/98/Ce è avvenuta mediante l'articolo 184-ter del dlgs
152/2006, il quale riportandone pedissequamente il contenuto
sancisce in chiusura (e specularmente rispetto al dettato
Ue) come in mancanza di criteri comunitari per singole
categorie di rifiuti saranno adottate dal Minambiente le
relative regole nazionali e che, ancora, fino all'adozione
di tali ultime norme interne continueranno comunque a valere
le vecchie disposizioni sulla produzione di «materie prime
secondarie» previste dai decreti ministeriali dm 05.02.1998, 161/2002, 269/2005 e dal dl 172/2008, disposizioni che
spostano (però) la cessazione della qualifica di rifiuto più
avanti rispetto ai nuovi regolamenti «end of waste»,
imponendo oltre al rispetto di standard tecnici anche
l'effettiva e oggettiva prova del nuovo utilizzo, con chiara
estensione della responsabilità degli operatori della
filiera.
Alla previsione dell'articolo 184-ter il
legislatore nazionale ha dato una prima attuazione con il dm
Ambiente 22/2013 sull'end of waste dei combustibili solidi
secondari, provvedimento che in sintonia con le norme Ue,
sancisce come il «Css» «cessa di essere qualificato come
rifiuto con l'emissione della dichiarazione di conformità».
Le nuove regole del dl Competitività. Rispetto a tale ultimo
e delineato assetto normativo le nuove regole sulla
«cessazione della qualifica di rifiuti» previste dalla legge
di conversione del dl 91/2014 appaiono fare un passo
indietro. Appaiono farlo le norme «sull'utilizzo dei
materiali di dragaggio» inserite nel dlgs 152/2006 tramite
il nuovo articolo 184-quater, appaiono farlo quelle
sull'ammissibilità al regime autorizzatorio semplificato
delle operazioni di trattamento «end of waste» Ue introdotte
nel vigente articolo 216 dello stesso Codice (dalla rubrica:
«operazioni di recupero»).
Sotto il primo profilo viene,
infatti, sancito come i materiali dragati sottoposti a
operazioni di recupero in casse di colmata o altri impianti
autorizzati «cessano di essere rifiuti» solo se: all'esito
delle operazioni di recupero risultino il rispetto dei
valori di inquinanti stabiliti dal dlgs 152/2006, degli
standard di prodotto e di riutilizzo; sia certo fin
dall'origine il sito di destinazione; almeno 30 giorni prima
delle operazioni di utilizzo sia stata inviata alle Autorità
pubbliche competenti una «dichiarazione di conformità»
(evidentemente mediata dai citati regolamenti comunitari)
attestante tutto quanto citato unitamente alle modalità di (ri)utilizzo;
siano tali materiali riutilizzati nel rispetto delle citate
regole tecniche.
Stessa «prova del riutilizzo» è altresì
dalla nuova legge richiesta per poter godere del regime
burocratico semplificato (avvio delle attività decorsi 90
giorni dalla semplice comunicazione all'Ente provinciale in
luogo dell'attesa dell'autorizzazione regionale) in
relazione operazioni di recupero di rifiuti condotte secondo
i citati regolamenti Ue «end of waste». Anche in tale
contesto, le procedure semplificate sono concesse «a
condizione che siano rispettati tutti i requisiti, i criteri
e le prescrizioni soggettive e oggettive previsti dai
predetti regolamenti» con particolare riferimento, si legge
testualmente nella nuova norma, a quelli relativi «alla
destinazione dei rifiuti che cessano di essere considerati
rifiuti agli utilizzi individuati».
Prescrizione, quella
della cessazione della qualifica di rifiuto condizionata
alla prova del successivo utilizzo, della quale però nei
citati regolamenti Ue (come nella direttiva madre) non si
trova traccia, avvenendo la riabilitazione a veri e propri
beni, come già sottolineato, molto prima, ossia all'atto del
trasferimento dei materiali trattati da colui che li ha
recuperati ad altro soggetto, purché unitamente alla
«certificazione» del rispetto delle relative regole
tecniche
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.08.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dal 1° settembre dimezzati permessi e distacchi sindacali.
Decreto p.a./ circolare della funzione pubblica sulle novità
valide per tutte le amministrazioni.
Il dimezzamento delle prerogative sindacali nelle p.a.
scatterà il prossimo 1° settembre e riguarderà tutto il
personale, sia contrattualizzato sia in regime di diritto
pubblico.
È uno dei chiarimenti forniti dalla circolare
20.08.2014 n. 5/2014
della Funzione pubblica, che ha definito le modalità
applicative dell'art. 7 del dl 90/2014 (conv. dalla legge
114/2014).
Tale disposizione ha previsto che, a decorrere
dal 01.09.2014, i contingenti complessivi dei
distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali già
attribuiti al personale delle p.a. siano ridotti del 50% per
ciascuna associazione sindacale. Per i distacchi sindacali
(fra cui sono compresi anche quelli utilizzati in forma
cumulata), la riduzione è operata con arrotondamento
dell'eventuale frazione residua all'unità superiore e non
trova comunque applicazione qualora l'associazione sindacale
sia titolare di un solo distacco sindacale.
Entro il prossimo 31 agosto, tutte le associazioni sindacali
rappresentative dovranno comunicare la revoca dei distacchi
sindacali non più spettanti alle amministrazioni, che a loro
volta lo comunicheranno alla Funzione pubblica al fine di
consentire le opportune verifiche a consuntivo. Di
conseguenza, la revoca non è necessaria se, al momento
dell'attivazione del distacco sindacale, è stato già
previsto il termine del 31.08.2014.
La circolare ricorda che il rientro nelle amministrazioni
dei dirigenti sindacali oggetto dell'atto di revoca avverrà
nel rispetto dell'art. 18 del Ccnq 07.08.1998, nonché
delle altre disposizioni di tutela dei dirigenti sindacali
previste dagli ordinamenti di settore per il personale in
regime di diritto pubblico. In particolare, viene richiamata
l'attenzione, sulla disposizione del comma 1 dell'art. 18,
che introduce un criterio di priorità nei processi di
mobilità, anche intercompartimentale. La riduzione del 50%
si applica anche al monte-ore complessivo dei permessi
sindacali retribuiti. La circolare chiarisce che, nell'anno
corrente, il taglio deve essere effettuato secondo il metodo
del calcolo pro-rata.
Pertanto, dal 01.01.2014 al 31.08.2014, il contingente spetta in misura piena, mentre
il contingente relativo al periodo intercorrente tra il 01.09.2014 e il 31.12.2014 deve essere dimezzato.
Fino al 31 agosto, ogni amministrazione è tenuta a concedere
i permessi, qualora siano ancora disponibili in base al
calcolo del monte ore spettante per l'anno in corso. A
decorrere dal 1° settembre, qualora in seguito alla
riduzione e alla rideterminazione del contingente le
associazione sindacali abbiano esaurito il relativo
contingente a disposizione, non potranno più essere
autorizzate ulteriori ore di permesso retribuito.
Nel caso in cui le associazioni sindacali abbiano comunque
utilizzato prerogative sindacali in misura superiore a
quelle loro spettanti nell'anno, si provvederà secondo le
ordinarie previsioni contrattuali e negoziali. Di
conseguenza, ove le medesime organizzazioni non
restituiscano il corrispettivo economico delle ore fruite e
non spettanti, l'amministrazione compenserà l'eccedenza
nell'anno successivo, detraendo dal relativo monte-ore di
spettanza delle singole associazioni sindacali il numero di
ore risultate eccedenti nell'anno precedente fino al
completo recupero. Per le eventuali ore residue non
recuperate per saturazione del monte-ore complessivo si
procederà al recupero per equivalente.
La circolare precisa che il taglio, in ogni caso, non si
applica ai permessi sindacali attribuiti alle Rsu, previsti
dagli articoli 2 e 4 del Ccnq del 17.10.2013, nonché
alle aspettative sindacali non retribuite, ai permessi non
retribuiti e ai permessi per la partecipazione a riunioni
sindacali su convocazione dell'amministrazione per il solo
personale della carriera diplomatica e prefettizia, in
quanto per essi non è previsto alcun contingente.
Per le
Forze di polizia a ordinamento civile e per il Corpo
nazionale dei vigili del fuoco, in sostituzione della
riduzione del 50%, si è previsto che alle riunioni sindacali
indette dall'amministrazione possa partecipare un solo
rappresentante per associazione sindacale. In caso di
partecipazione di più di un rappresentante per ciascuna
sigla sindacale, i relativi permessi devono essere computati
nel monte ore annuo dei permessi sindacali retribuiti a
carico di ciascuna associazione sindacale
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sovrintendenze con poteri limitati. Occorre l'inedificabilità
assoluta per esercitare il veto alla regolarizzazione.
Condono. La legge regionale della Campania fa seguito al Dl
83/2014 che cancella la conferenza di servizi.
La Regione Campania fa da
apripista innovando in alcuni settori del governo del
territorio, con la legge regionale 16 del 07.08.2014.
Partendo dal l'ultimo condono edilizio (bloccato localmente
a causa della sentenza della Corte costituzionale 49/2006,
si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), nella Regione si limitano
i poteri della Sovrintendenza, ritenendo che le domande di
sanatoria possano fare a meno del suo parere qualora l'abuso
sia avvenuto (prima dell'aprile 2003) in aeree non soggette
a vincolo di inedificabilità assoluta.
La legge 16/2014 prosegue quindi un percorso che toglie
forza all'articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 42
del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio):
inizialmente, in caso di silenzio del Sovrintendente entro
45 giorni dalla ricezione degli atti, si prevedeva (fino al
maggio 2014) che il Comune potesse indire una conferenza di
servizi, concludendo poi il procedimento entro 60 giorni
dalla ricezione degli atti da parte del sovrintendente.
Con il Dl 83 del 31.05.2014 si è previsto che, decorsi
inutilmente 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte
del Sovrintendente, senza che questi renda il proprio
parere, l'amministrazione competente (il Comune delegato,
l'Ente parco o altri) provveda comunque sulla domanda di
autorizzazione, eliminando quindi la facoltà di indire una
conferenza di servizi. La conferenza stessa, infatti, è
stata vista con sfavore, esponendo il contenuto tecnico del
parere a un meccanismo di confronto diretto con i soggetti
interessati e l'ente locale.
L'eliminazione della conferenza è stata anche agevolata
dalla circostanza che nel frattempo gli strumenti
urbanistici si sono adeguati alle prescrizioni d'uso che
riguardano i beni paesaggistici e quindi agli orientamenti
dell'amministrazione centrale dei beni culturali dal quale
la Sovrintendenza stessa dipende. In questo contesto, la
legge della Regione Campania 16 del 2014 contribuisce ad una
diversa lettura del parere della Sovrintendenza,
sottolineando che solo un vincolo di inedificabilità
assoluta può mantenere i più ampi poteri di veto alla
Sovrintendenza.
La norma della Regione Campania, che entro 60 giorni
potrebbe essere impugnata dallo Stato (per violazione degli
articoli 9 e 117 della Costituzione, sulla tutela del
paesaggio), contiene alcune previsioni che anticipano la
legge sulle politiche pubbliche territoriali. Per esempio,
il recupero dei complessi produttivi dismessi può avvenire
(articolo 1, comma 73) con ristrutturazioni finalizzate la
riutilizzo mediante demolizione e ricostruzione di volumi
preesistenti.
Tutto ciò è affidato alla competenza degli
«uffici municipali», espressione che va letta come
alternativa alla precedente competenza sulla pianificazione:
si supera così la necessità di una variante al piano
urbanistica, affidando all'"ufficio" (e non al soggetto
normalmente pianificatore, cioè Giunta o Consiglio) la
gestione del recupero, ristrutturazione o delocalizzazione
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La residenza turistica diventa abitazione.
Sanatorie. Risolte le situazioni che rappresentavano una
grave violazione alle norme urbanistiche.
La Regione Campania vara
una soluzione al problema delle residenze turistico-alberghiere (Rta) con un compromesso parzialmente
sanzionatorio. Lo prevede l'articolo 1, comma 73, della legge
regionale 16/2014, secondo il quale nelle aree urbanizzate i
singoli edifici non superiori a 10mila metri cubi, destinati
prevalentemente o anche esclusivamente a residenze turistico
alberghiere, che non abbiano fruito di benefici
contributivi, è consentito il mutamento di destinazione
d'uso a fini abitativi.
Ciò è possibile se la volumetria modificata, in misura
superiore al 35%, è destinata a edilizia residenziale
sociale. Questa soluzione può essere trasferita in diverse
realtà dove, in modo diffuso, attraverso le residenze
turistico alberghiere (in Toscana, Liguria, Emilia Romagna),
le amministrazioni locali si sono trovate dinanzi ad
acquisti finalizzati a una generica residenzialità, con
rilevanti problemi di standard abitativi (scuole, luoghi
pubblici) e un forte affidamento da parte di acquirenti
ignari.
Il regime fiscale non ha contribuito alla chiarezza del
sistema in quanto gli acquisti delle unità erano ammessi ai
benefici della prima casa, qualora vi fosse localizzata la
residenza effettiva. In diversi casi le sanzioni
urbanistiche, calibrate a un abusivismo integrale, hanno
condotto alla perdita del bene, e a una paralisi operativa
che rende inutilizzabili complessi di una certa consistenza.
Il sistema varato dalla Regione Campania parte dal
presupposto che non vi siano stati contributi finalizzati
all'edilizia alberghiera (con relativi vincoli), o che
comunque tali contributi siano stati azzerati. Inoltre, le
aree devono già essere urbanizzate, e cioè dotate di
standard di tipo residenziale, in modo tale da poter essere
utilizzate come abitazioni. I vantaggi conseguiti dal
costruttore, consistenti nella possibilità di costruire
residenze in zone destinate a turismo (cioè di particolare
pregio, per esempio prossime al mare) viene azzerato dalla
destinazione a edilizia convenzionata (residenziale sociale)
con canoni concordati con l'amministrazione locale.
Emergerà probabilmente un rischio di convivenza tra più
categorie di residenti, ma si risolve il problema di un
utilizzo non alberghiero (con aree comuni e oneri di
pubblica sicurezza), convertendoli in uso residenziale (articolo Il Sole 24 Ore del
22.08.2014). |
APPALTI: Centrale unica in lista d'attesa. Per l'acquisto di beni e
servizi se ne riparla a gennaio. RIFORMA P.A./ Le principali novità della legge di
conversione del dl apparsa in G.U..
È legge la prima riforma della pubblica amministrazione
targata Renzi. Sul supplemento ordinario della Gazzetta
Ufficiale n. 190 del 18 agosto, infatti, è stato pubblicato
il testo della legge 114/2014, di conversione del dl 90
adottato dal governo lo scorso 24 giugno.
Le modifiche apportate nel corso dell'iter parlamentare sono
state davvero numerose, anche se non hanno stravolto le
linee essenziali del provvedimento varato dall'Esecutivo.
La novità più attesa è certamente la proroga dell'obbligo
per i comuni non capoluogo di ricorrere a una centrale unica
per gli acquisiti. Ora sono previste due nuove scadenze: 01.01.2015 per i beni e i servizi,
01.07.2015 per i
lavori. È stata quindi recepita l'intesa sancita in
Conferenza stato-città e autonomie locali lo scorso 10
luglio. Già prima dell'entrata in vigore della norma,
peraltro, l'Autorità nazionale anti-corruzione aveva ripreso
a rilasciare i Cig.
Parzialmente reintrodotte anche le deroghe per gli acquisti
di modesto valore, ma solo per i comuni con più di 10 mila
abitanti, che potranno fare da sé per importi inferiori a 40
mila euro. In caso di fusione, inoltre, l'obbligo scatta
solo dal terzo successivo a quello dell'istituzione del
nuovo comune. Poiché una proroga tira l'altra, è arrivato
anche l'ennesimo rinvio dei termini per l'avvio delle
gestioni associate dei piccoli comuni, che avranno tempo
fino al 30 settembre per conferire a unioni e convenzioni
altre tre funzioni fondamentali. Rimane fermo il termine del
31.12.2014 per le restanti tre funzioni.
Numerose e rilevanti anche le novità in materia di personale
(per maggiori dettagli si vedano la tabella e i pezzi nella
pagina accanto). Confermata la cd staffetta generazionale:
per svecchiare gli organici, sono stati aboliti i
trattenimenti in servizio: a partire dalla fine di ottobre,
i dipendenti delle pa non potranno più restare al lavoro una
volta raggiunti i requisiti pensionistici (fino ad ora era
possibile farlo per altri due anni). I lavoratori pubblici,
inoltre, potranno essere pensionati d'ufficio al compimento
dei 62 anni, a patto che abbiano raggiunto l'anzianità
contributiva massima. L'articolo 6, infine, stabilisce il
divieto di affidare incarichi di studio o consulenza al
personale in pensione: sarà possibile solo conferire
incarichi a titolo del tutto gratuito e per non più di un
anno. Stralciate, invece, le norme sulla «quota 96» per i
docenti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento
già nel 2012.
Per favorire il ricambio, sono stati alleggeriti i limiti
del turnover. Per gli enti soggetti al Patto, il tetto è
stato innalzato, dall'attuale 40 al 60% per gli anni
2014-2015, all'80% per il biennio 2016-2017, per arrivare al
100% nel 2018. Negli enti dove la spesa di personale non
supera il 25% della spesa corrente, il turnover sale all'80%
quest'anno e al 100% dal 2015. Spariscono, però, i regimi
agevolati per le assunzioni nell'istruzione, nei servizi
sociali e nella polizia locale.
Agli enti in regola con l'obbligo di riduzione delle spese
di personale, inoltre, non si applica più il limite del 50%
sulle assunzioni con contratti flessibili. Reintrodotti,
anche se solo parzialmente, gli incentivi per la
progettazione ed i diritti di rogito per i segretari.
L'articolo 7, infine, prevede la riduzione del 50% dei
distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali (articolo ItaliaOggi del
22.08.2014). |
ENTI LOCALI -
INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI: Assunzioni in comune facilitate. Stretta sui diritti di
rogito dei segretari e sui progettisti.
RIFORMA P.A./ Cosa cambia dal punto di vista della gestione
del personale negli enti.
Regole per le assunzioni meno rigide, stretta sui diritti di
rogito dei segretari comunali e sui compensi per i
progettisti.
La riforma della pubblica amministrazione
contenuta nel dl 90/2014 convertito in legge 114/2014
coinvolge molti aspetti dell'attività delle amministrazioni
locali.
Spesa di personale e turnover. Già dal 2014 gli enti locali
sottoposti al patto di stabilità (ma non le province, per le
quali resta il divieto assoluto di assumere a tempo
indeterminato) potranno assumere personale a tempo
indeterminato entro il limite della spesa pari non più al
40% ma al 60% di quella relativa al personale di ruolo
cessato nell'anno precedente. Tale percentuale resta
invariata nel 2015, sale all'80% nel 2016 e 2017 e si
assesta al 100% nel 2018.
Allo scopo di facilitare la programmazione e la gestione dei
concorsi, sempre dal 2014 si potranno cumulare le risorse
destinate alle assunzioni per un arco temporale non
superiore a tre anni.
Con l'abolizione dell'articolo 76, comma 7, del dl 112/2008,
convertito in legge 133/2008 saltano una serie di vincoli
alle assunzioni. Cade, dunque, il divieto assoluto di
assumere per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di
personale è pari o superiore al 50% delle spese correnti;
allo stesso modo, non sono più necessarie le deroghe per il
personale dedicato alle funzioni di polizia locale,
istruzione pubblica e settore sociale. Ancora, non saranno
più da computare nel calcolo della spesa di personale le
spese sostenute da aziende speciali, istituzioni e società
pubbliche.
La progressiva riduzione delle spese di personale prevista
dall'articolo 1, comma 557, della legge 290/2006, ai sensi
del nuovo comma 557-quater avrà come riferimento il valore
medio del triennio precedente.
Per gli enti particolarmente virtuosi, con un'incidenza
delle spese di personale sulla spesa corrente pari o
inferiore al 25% saranno possibili assunzioni a tempo
indeterminato già dal 2014, nel limite dell'80% della spesa
relativa al personale di ruolo cessato dal servizio
nell'anno precedente; la soglia sale al 100% a decorrere
dall'anno 2015.
Il limite alle assunzioni flessibili, pari al 50% della
spesa del 2009. I limiti di cui al primo e al secondo
periodo non si applicano ai lavori pubblica utilità e ai
cantieri di lavoro, qualora il costo del personale sia
coperto da finanziamenti specifici aggiuntivi o da fondi
dell'Unione europea; qualora vi sia cofinanziamento,
l'esclusione vale solo per la quota finanziata da altri
soggetti.
Saranno i revisori dei conti a certificare annualmente il
rispetto delle disposizioni sulla spesa di personale, nella
relazione di accompagnamento alla delibera di approvazione
del bilancio annuale.
Demansionamento. Per il personale inserito nelle liste di
disponibilità e, dunque, alle soglie del licenziamento, si
introduce la possibilità di presentare, entro i sei mesi
anteriori alla data di scadenza del termine di 24 mesi di
iscrizione nelle liste di disponibilità, un'istanza di
ricollocazione, in deroga all'art. 2103 del codice civile,
nell'ambito dei posti vacanti in organico.
Si tratta della possibilità di accettare di tornare a
lavorare presso l'amministrazione anche in una qualifica
inferiore o in posizione economica inferiore della stessa o
di inferiore area o categoria di un solo livello. La
ricollocazione non può comunque avvenire prima dei trenta
giorni anteriori alla data di scadenza del termine di
disponibilità.
Il personale ricollocato non ha diritto all'indennità di
disponibilità e potrà, comunque, essere successivamente
ricollocato nella propria originaria qualifica e categoria
di inquadramento, anche passando ad altre amministrazioni
mediante la mobilità volontaria.
Segretari comunali. Niente più compartecipazione ai diritti
di rogito per i segretari comunali aventi qualifica
dirigenziale o che, pur essendone privi, prestano in enti in
cui è presente la dirigenza, fruendo del «galleggiamento»
dello stipendio.
Gli altri segretari comunali potranno continuare a fruire
della compartecipazione, entro il tetto del quinto dello
stipendio in godimento. Le modifiche all'assetto dei diritti
di rogito non si applicano a quanto già maturato prima
dell'entrata in vigore del dl 90/2014.
Progettisti. L'incentivo pari al 2% lordo della base di gara
è abolito e sostituito da un «fondo per la progettazione e
innovazione» in misura non superiore al 2% degli importi
posti a base di gara: saranno gli enti, con un regolamento,
a determinare la percentuale effettiva in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
Di questo fondo, l'80% può essere ripartito, secondo
modalità e criteri stabiliti dalla contrattazione decentrata
integrativa, che confluiscono nel regolamento. A
beneficiarne saranno il responsabile del procedimento e gli
incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche
degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione.
Ciascun singolo dipendente non potrà percepire, nello stesso
anno, incentivi finanziati dal fondo per un importo
superiore del 50% del trattamento economico complessivo
annuo lordo. Nessun incentivo spetterà ai dirigenti.
Dirigenti a contratto e staff. La legge di conversione del
dl 90/2014 ha confermato l'estensione della possibilità di
assumere dirigenti esterni senza concorso fino al 30% della
dotazione organica.
Allo stesso modo, si conferma la possibilità di assegnare ai
dipendenti chiamati a lavorare in via fiduciaria negli staff
degli organi di governo, una retribuzione parametrata a
quella dei dirigenti, anche se i dipendenti risultino privi
di laurea (articolo ItaliaOggi del
22.08.2014). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Pa, fondo-progetti alimentato con il 2%.
Appalti. Spetterà alla contrattazione decentrata definire il
riparto.
Le amministrazioni
pubbliche alimentano un fondo per la progettazione e
l'innovazione destinando una percentuale massima del due
percento dell'importo a base di gara di ogni opera pubblica
o lavoro.
La legge 114/2014 ridefinisce la regolamentazione
generale delle risorse volte a sostenere le attività di
progettazione interna, eliminando le disposizioni contenute
nei commi 5 e 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti
pubblici ed inserendo nello stesso articolo un nuovo
complesso normativo che focalizza l'attenzione sulle
particolarità dei lavori e sull'effettivo coinvolgimento
delle risorse umane nei processi elaborativi dei progetti.
Secondo le nuove disposizioni introdotte dall'articolo 13-bis
dalla riforma della Pa spetta alle amministrazioni definire
con regolamento (e gli organismi di diritto pubblico possono
farlo con strumenti di disciplina analoghi), entro il valore
massimo del 2%, la quota effettiva rapportata alle varie
tipologie di opere e lavori, secondo il loro diverso grado
di complessità.
Le amministrazioni pubbliche dovranno differenziare le
risorse da ricondurre al fondo in relazione al livello di
importanza e di difficoltà progettuale dei lavori. L'80%
delle risorse finanziarie del fondo viene ad essere
ripartito, per ciascuna opera, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
Rispetto alla vecchia impostazione il nuovo quadro normativo
individua in modo preciso i soggetti coinvolti nel
procedimento di progettazione e realizzativo dei lavori,
eliminando qualsiasi possibilità estensiva dell'applicazione
del particolare modello. La definizione dei criteri di
riparto è demandata alla contrattazione decentrata ed alla
codificazione nel regolamento dell'amministrazione, che
dovrà tener conto delle responsabilità connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere, con particolare
riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti
nella qualifica funzionale ricoperta. Dalle opere per le
quali è previsto il riparto di risorse sono escluse quelle
manutentive, ma su questo punto il legislatore ha prodotto
una formulazione sintetica che assume a riferimento le
indicazioni elaborate sulla normativa precedente dalla Corte
dei conti, per le quali vanno esclusi dalla ripartizione i
lavori di manutenzione per i quali non vi sia progettazione.
Altro aspetto innovativo è dato dalla riduzione delle
risorse finanziarie ricondotte al fondo in caso di
incrementi dei tempi e dei costi dell'opera (fatti salvi i
tempi di sospensione).
La corresponsione delle somme è disposta dal dirigente o dal
responsabile di servizio competente, sulla base
dell'accertamento delle specifiche attività svolte dai
dipendenti coinvolti nei processi di progettazione e
realizzazione delle opere. In ogni caso, il particolare
incentivo non può superare nell'anno il valore del cinquanta
percento del trattamento economico complessivo annuo lordo
del dipendente interessato.
Il venti percento restante del fondo è invece destinato
all'acquisizione di beni e servizi finalizzati a sostenere
innovazione tecnologica e implementazione delle banche dati
per il controllo dell'efficienza della spesa.
(articolo Il Sole 24 Ore del
21.08.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Campania, riapre il condono. Sanatoria anche in zone
vincolate se non c'è inedificabilità assoluta.
Territorio. La legge pubblicata sul Bollettino regionale
consente l'istruttoria per abusi compiuti fino al 2003.
Acque agitate in Campania
per una legge che sembra allargare spazi per precedenti
sanatorie edilizie e modificare il ruolo delle
Sovrintendenze nelle aree vincolate.
La norma è l'articolo
1, comma 72, della legge regionale 16/2014, (pubblicata sul
bollettino ufficiale del 7 agosto scorso). Le previsioni
innovative sono due: una sposta dal 31.12.2006 al 31.12.2015 il termine per definire le domande di
sanatoria presentate in Campania secondo le norme del 1985
(legge 47) e del 1994 (legge 724). Un'altra previsione rende
elastico nella Regione il procedimento di condono,
prevedendo un'autocertificazione anche per abusi in zone con
vincoli, purché tali vincoli non siano di inedificabilità
assoluta.
La prima novità, cioè lo spostamento al 31.12.2015 del
termine per esaminare le domande di sanatoria in Campania,
potrebbe sembrare una banale diluizione dei tempi concessi
agli uffici per chiudere le pratiche: in realtà è anche
possibile una diversa interpretazione, che ripeschi le
domande di sanatoria presentate in quella Regione entro il
10.12.2004.
Infatti, nel 2003 il decreto legge 269,
convertito nella legge 326, non prevedeva una procedura di
sanatoria integralmente nuova ma richiamava le sanatorie del
1985 e del 1994: quindi, dando un significato letterale al
participio passato «le domande di sanatoria presentate»
(articolo 9 della legge regionale 10/2004), diventano
esaminabili fino al 31.12.2015 anche le domande di
sanatoria che risultino presentate entro il 10.12.2004, con le procedure delle leggi del 1985 e del 1994.
Ciò fornirebbe una soluzione ai problemi posti dalla Corte
costituzionale che, con sentenza 49 del 2006, ha ritenuto
illegittime alcune disposizioni del condono edilizio in
Campania. Si eliminerebbe infatti la disparità di
trattamento tra chi ha compiuto abusi nella Regione Campania
e ha chiesto la sanatoria con una procedura dichiarata in
parte incostituzionale nel 2006, rispetto a identici abusi
in altre zone del territorio nazionale (dove le leggi
regionali non sono state censurate).
In Campania, poi, le maglie della sanatoria si
allargherebbero per gli interventi in zone definite
inedificabili: la legge regionale 16/2014 ammette infatti la
sanatoria tramite autodichiarazione tutte le volte che si
discuta di interventi in zone con vincolo di inedificabilità
non «assoluto» ma derogabile da parte dell'autorità preposta
alla tutela del vincolo. Questa elasticizzazione anticipa
l'innovazione prevista nei rapporti con le Sovrintendenze
nell'ormai imminente intervento governativo con il Dl
«sblocca Italia». Già nella Regione Campania, infatti, si
delimita alle sole aree con vincoli di inedificabilità
assoluta la necessità di una autorizzazione ambientale.
Inoltre, in Campania, per gli abusi oggetto di sanatoria
(dichiarati entro il 10.12.2004), il parere della
Sovrintendenza non è necessario se il divieto assoluto di
edificazione risulta successivo all'epoca dell'intervento
abusivo.
In sintesi, la Regione Campania non ha riaperto il termine
del condono edilizio ma ha solamente consentito l'esame
delle domande presentate entro il 10.12.2004 (per
abusi compiuti entro il 31.03.2003) e rimaste
nell'incertezza dopo la sentenza della Corte costituzionale
49 del 2006. Più generale, in chiara espressione di un
orientamento condiviso dal Governo in tema di vincoli che
non generano inedificabilità assoluta, è la previsione di
una sanatoria che faccia a meno del parere della
Sovrintendenza.
Appena nel giugno 2014, con il Dl 83, il parere della
Sovrintendenza era stato depotenziato, eliminando il
passaggio in conferenza di servizi qualora mancasse il
parere vincolante della Sovrintendenza entro 45 giorni dal
termine (di 40 giorni) assegnato al Comune per provvedere su
domande in zone vincolate. Superando i dubbi che sorgono in
caso di conflitto tra parere sfavorevole tardivo della
Sovrintendenza e orientamento favorevole all'edificazione
del l'ente locale il Governo sembra orientarsi per un
rafforzamento dell'autorità del parere del Comune rispetto a
quello della Sovrintendenza qualora questa stessa rimanga
inerte: si tratta di applicare in modo generalizzato
l'orientamento espresso dalla giustizia amministrativa (Tar
Lecce, sentenza 321/2014) secondo il quale l'attività del
parere della Sovrintendenza sussiste solamente allorquando
il parere sfavorevole (o il preavviso di rigetto della
domanda) sia reso entro 45 giorni dalla ricezione degli atti
(Dlgs 42/2014) (articolo Il Sole 24 Ore del
21.08.2014). |
APPALTI: Certificazione antimafia soft. Contratti in 30 giorni dalla
richiesta di documenti. Lo schema di dlgs di modifica al dlgs 218/2012 al vaglio
delle commissioni parlamentari.
La p.a. può stipulare i contratti pubblici dopo 30 giorni
dalla richiesta della certificazione antimafia, fatti salvi
provvedimenti interdittivi del prefetto. E, in casi di
urgenza, i controlli sono tutti a posteriori, potendosi
firmare il contratto subito. Dalla platea dei soggetti da
controllare sono esclusi i familiari minorenni dei manager,
le certificazioni non scadute sono riutilizzabili e il
prefetto accerta, con una apposita informazione, i tentativi
di infiltrazioni mafiose nelle società, pur senza precedenti
negativi.
Sono queste le novità dello
schema del secondo
decreto correttivo del Codice antimafia (dlgs 159/2011,
modificato con il dlgs 218/2012) approvato in via
preliminare dal governo il 23/07/2014 e ora all'esame delle
commissioni parlamentari.
Vediamo, dunque, le novità
salienti.
Comunicazioni. Le certificazioni antimafia sono distinte in
comunicazioni e informazioni antimafia. Mentre la
comunicazione attesta le misure di prevenzione applicate a
carico di un'impresa, l'informazione ha contenuto più ampio
ed evidenzia anche i tentativi di infiltrazione mafiosa.
Per
i contratti pubblici di valore più basso viene acquisita,
tramite le prefetture, la comunicazione mentre per gli
appalti di valore più elevato ci vuole l'informazione. Il
correttivo, per le comunicazioni, prevede, in relazione alla
futura banca dati nazionale (un grande archivio a
disposizione delle amministrazioni procedenti),
l'acquisizione diretta da parte delle stazioni appaltanti.
Se emergeranno notizie ostative ci vorrà comunque il
provvedimento conclusivo (liberatorio o interdittivo) del
prefetto della provincia di sede dell'impresa.
Sempre per le
comunicazioni, viene ridotto da 45 a 30 giorni il tempo per
la risposta delle prefetture. Decorso i 30 giorni le
stazioni appaltanti potranno stipulare il contratto previa
dichiarazione sostitutiva dell'impresa interessata. Il
contratto deve, quindi, prevedere la clausola di
scioglimento nel caso di provvedimento interdittivo del
prefetto. Se non si tratta di appalti, ma di provvidenze
pubbliche subordinate alla regolarità antimafia, sarà
l'amministrazione concedente a dover decidere se procedere
subito o aspettare comunque la risposta prefettizia.
In ogni
caso la comunicazione antimafia dovrà essere trasmessa
all'impresa, anche con posta elettronica, così da accelerare
eventuali impugnative. La giurisprudenza amministrativa
considera autonomamente lesivo il provvedimento interdittivo
del prefetto e l'avviso consente agli interessati di poter
svolgere ricorsi motivati fin da subito.
Informazioni. Il correttivo colma un vuoto e introduce
l'informazione sui tentativi di infiltrazione a danno di
impresa immune da cause ostative: si tratta dei casi in cui
sul conto dell'impresa e del suo management non risultano
applicate misure interdittive e ostative, per le quali si
rischiava di avere un provvedimento liberatorio, nonostante
il tentativo di infiltrazione criminale.
Inoltre si fissa in
30 giorni (prorogabile a 75) il termine per le risposte
delle prefetture. Prevista, analogamente alle comunicazioni,
la possibilità di stipulare decorsi 30 giorni nelle more
dell'invio dell'informazione da parte della prefettura. In
caso di urgenza, a banca dati nazionale operativa, si potrà
stipulare subito dopo l'accesso al data base. Anche
l'informazione deve essere mandata all'impresa interessata,
per eventuali ricorsi.
Riciclo. Il provvedimento reintroduce la possibilità di
utilizzare la documentazione antimafia non scaduta
precedentemente acquisita in altri procedimenti. Questo fino
a che non sarà attivata la banca dati unica.
Familiari. Le verifiche vengono compiute anche sui familiari
dei titolari di incarichi nelle imprese. La limitazione
viene ulteriormente precisata dal secondo correttivo,
stabilendo che le verifiche riguardano solo i maggiorenni: i
minorenni non hanno potere decisionale nelle compagini
aziendali. Dalla riduzione dei soggetti controllati sono
attese riduzioni di spese e accelerazioni dei procedimenti.
Banca dati unica. Il correttivo interviene sulla futura
Banca dati unica (è all'esame del consiglio di stato il
regolamento attuativo). Si prevede che potrà
interconnettersi con l'Anagrafe dei residenti, per pescare i
dati dei familiari dei titolari di cariche societarie, da
sottoporre a verifica, senza doverli chiedere alle società
interessate. In prospettiva l'impresa dovrà comunicare solo
i dati non rintracciabili in sistemi informativi in possesso
delle amministrazioni (come i sottoscrittori di patti
parasociali).
Cciaa.
È stata definitivamente abbandonata l'opzione di equiparare
le comunicazioni antimafia ai certificati di iscrizione alle
camere di commercio (articolo ItaliaOggi del
21.08.2014). |
APPALTI: Gare d'appalto, stop all'esclusione per motivi formali.
Dl 90/2014. Novità sul «soccorso istruttorio».
Con la definitiva entrata
in vigore della legge di conversione del decreto legge sulla
Pubblica amministrazione (Dl 90/2014) -grazie alla
pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» di ieri (n. 190 del
18 agosto)-
entra a regime anche una delle principali
novità in materia di appalti pubblici: l'estensione del
campo applicativo del cosiddetto "soccorso istruttorio",
cioè la possibilità di integrare o regolarizzare i documenti
presentati in sede di gara per l'attestazione della presenza
dei requisiti di legge previsti dall'articolo 38 del Codice
Contratti (Dlgs 163/2006).
Fin dal titolo della norma (articolo 39 del Dl Pa
convertito, «Semplificazione degli oneri formali nella
partecipazione a procedure di affidamento dei contratti
pubblici»), l'obiettivo dichiarato dal legislatore è quindi
quello di semplificare gli adempimenti che gravano sui
concorrenti nelle gare, evitando che si proceda
all'esclusione automatica per errori o omissioni formali in
sede di rilascio delle dichiarazioni sostitutive.
L'istituto del "soccorso istruttorio" è stato introdotto
all'articolo 46 del Codice (comma 1-bis) dalla legge
106/2011, ma una formulazione poco chiara e
l'interpretazione dei giudici amministrativi ne hanno finora
fortemente limitato l'applicazione. In sostanza la
giurisprudenza prevalente ha ritenuto che, in presenza dei
requisiti di legge per partecipare alla gara ma con
dichiarazioni imprecise o lacunose, la Pa appaltante potesse
consentire all'impresa interessata di "rimediare", senza
essere esclusa così dalla gara, solo per regolarizzare la
forma di documenti già presentati, e non anche ove fosse
necessario allegare nuovi documenti o inserire nuovi
contenuti mancanti.
Ora invece, con l'aggiunta del comma 2-bis all'articolo 38
del Codice, da parte dell'articolo 39 del Dl Pa, il soccorso
istruttorio sarà sempre possibile. In caso di «irregolarità
non essenziali ovvero di mancanza o incompletezza di
dichiarazioni non indispensabili» l'ente appaltante non deve
neppure chiedere la regolarizzazione. In caso invece di
«mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale» circa gli «elementi e dichiarazioni sostitutive»
sui requisiti di cui all'articolo 38, se l'impresa vorrà
proseguire la gara dovrà pagare (secondo quanto stabilito
dal bando) una sanzione tra l'1 per mille e l'1% del valore
della gara (ma comunque non oltre 50mila euro), integrando
la documentazione entro un termine non superiore a 10
giorni.
Un problema non da poco è però che la legge non dice nulla
circa la definizione di «irregolarità essenziale» o «non
essenziale», lasciando così alle stazioni appaltanti il
compito di stabilirlo. Il rischio è che si apra un'altra
stagione di incertezza sul soccorso istruttorio, anziché
l'auspicata semplificazione (articolo Il Sole 24 Ore del
20.08.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità volontaria, obbligo di bando per i posti da coprire.
Pubblico impiego. La riforma in «Gazzetta».
La riforma del pubblico
impiego appena varata dal Parlamento riscrive le regole
della mobilità obbligatoria e volontaria del personale.
A occuparsene è l'articolo 4 del decreto Pa (Dl 90/14, come
convertito dalla legge 114/2014, pubblicata lunedì sulla
«Gazzetta Ufficiale»; si ricorda che sul Decreto Pa il Sole
24 Ore ha dedicato un focus il 15 agosto). La legge è in
vigore da ieri
La modifica delle disposizioni in materia di mobilità dei
dipendenti pubblici si realizza mediante la riscrittura dei
commi 1 a 2 dell'articolo 30 del Testo Unico Pubblico
Impiego (decreto legislativo n. 165 del 30.03.2001); la
nuova disciplina rende più semplici i percorsi di
trasferimento volontario, da un lato, e più agevoli quelli
di trasferimento obbligatorio, dall'altro.
Secondo la nuova disciplina, le pubbliche amministrazioni
possono ricoprire posti vacanti in organico mediante
passaggio diretto di dipendenti, qualora abbiano una
qualifica corrispondente a quella necessaria e siano in
servizio presso altre amministrazioni. Il passaggio si attua
a condizione che i dipendenti facciano domanda di
trasferimento, e che l'amministrazione di appartenenza dia
il proprio assenso all'operazione.
Per agevolare la diffusione delle opportunità e la
conoscenza dei posti vacanti, le amministrazioni devono
pubblicare sul proprio sito istituzionale, per un periodo
pari almeno a 30 giorni, un bando in cui sono indicati i
posti che intendono ricoprire attraverso passaggio diretto.
Il bando deve indicare anche i requisiti che deve possedere
il personale interessato al passaggio.
La legge prevede, in via sperimentale, e fino
all'introduzione di nuove procedure per la determinazione
dei fabbisogni di personale, che per il trasferimento tra le
sedi centrali di differenti ministeri, agenzie ed enti
pubblici non economici nazionali non è necessario l'assenso
dell'amministrazione di appartenenza. Quando ricorre questa
ipotesi, il trasferimento deve essere attuato entro due mesi
dalla richiesta dell'amministrazione di destinazione.
Per agevolare le procedure di mobilità il Dipartimento della
funzione pubblica deve istituire un portale finalizzato
all'incontro tra la domanda e l'offerta di mobilità.
Una volta attuato il trasferimento, l'amministrazione di
destinazione deve provvedere alla riqualificazione dei
dipendenti trasferiti, avvalendosi, ove necessario, della
Scuola nazionale dell'amministrazione.
La riforma contempla una seconda modalità di trasferimento,
che a differenza da quella appena vista si attua a
prescindere dalla volontà del dipendente.
Secondo la nuova normativa, i dipendenti pubblici possono
essere trasferiti all'interno della stessa amministrazione
o, previo accordo tra gli enti interessati, in altra
amministrazione, qualora la sede iniziale e quella finale si
trovino nel territorio dello stesso comune. Il trasferimento
può essere attuato anche quando, pur non trovandosi nello
stesso comune, le due sedi si trovino a distanza non
superiore a 50 chilometri. In questi casi, quindi, il
dipendente non può opporsi al trasferimento (con alcune
eccezioni, per i fruitori di congedi parentali e dei
permessi previsti dalla legge 104).
Rispetto a questa forma di trasferimento non si applica,
secondo la nuova disciplina, il terzo periodo del primo
comma dell'articolo 2103 del codice civile. Si tratta della
norma che vieta il trasferimento da una unità produttiva ad
un'altra in assenza di comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive.
La legge prevede la facoltà di emanare un decreto (a cura
del ministro per la Pubblica amministrazione) con cui
definire i criteri da applicare per realizzare i processi di
mobilità obbligatoria e volontaria. Si tratta di una
semplice facoltà, e quindi la mancata adozione del decreto
non condiziona la possibilità di attuare i trasferimenti.
La legge, infine, dichiara nulli gli accordi, gli atti o le
clausole dei contratti collettivi in contrasto con le
disposizioni appena descritte (articolo Il Sole 24 Ore del
20.08.2014). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Per il rumore si paga anche i danni passati.
Salute. I criteri del Codice civile.
La società che gestisce un'autostrada e non installa
barriere fono-assorbenti può essere chiamata a risarcire per
i danni, anche esistenziali, se l'inquinamento acustico
diventa intollerabile.
La Corte di Cassazione, Sez.
III civile, con la
sentenza 25.08.2014
n. 18195, pur prendendo atto che la società
autostradale aveva preso gli opportuni provvedimenti
anti-rumore installando le protezioni, conferma la condanna
a risarcire nove cittadini, con circa 5mila euro ciascuno.
Era la stessa società che aveva presentato un ricorso, alla
base del quale c'era la scelta del criterio cosiddetto
comparativo (3 decibel superiore al rumore di fondo)
adottato dai giudici di merito per stabilire la soglia di
"sopportazione", malgrado l'assenza di una specifica
normativa di settore.
Per i giudici della Terza sezione civile, però, la mancanza
di una norma ad hoc è facilmente superabile col procedimento
analogico, come spesso avviene nel nostro ordinamento. Per
spiegare come è perché, la Cassazione parte dalla Costituzione che, con gli articoli 2 e 32, indica come
fondamentale per l'individuo il diritto alla salute. A
disciplinare le immissioni, anche rumorose, nei rapporti tra
privati ci pensa invece l'articolo 844 del Codice civile.
Verificato il diritto a "salvaguardare i timpani" e
l'esistenza di una norma che aiuta in tal senso, i giudici
non vedono impedimenti alla sua estensione anche ai rapporti
tra i privati e i concessionari della pubblica
amministrazione. L'operazione da fare è quella di coordinare
il principio guida della normale tollerabilità, dettato
dall'articolo 844, coordinandolo con il criterio
comparativo, che assume come punto di riferimento il rumore
di fondo della zona e che consiste «nel confrontare il
livello medio del rumore di fondo con quello del rumore
rilevato nel luogo soggetto alle immissioni, al fine di
controllare se sussista un superamento non tollerabile del
livello medio di rumore, che viene fissato in tre decibel
superiore al rumore di fondo». Verificato che la soglia era
stata superata, è scattato il risarcimento
(articolo Il Sole 24 Ore del
26.08.2014). |
PATRIMONIO -
VARI:
Bimbo cade al parco, immune il comune.
Un genitore «che accompagna un bambino in un parco giochi
deve avere ben presente i rischi che ciò comporta» e se si
verifica una caduta non può invocare la responsabilità
altrui per l'esistenza di una situazione di pericolo «che
egli era tenuto doverosamente a calcolare».
Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con
la
sentenza 25.08.2014 n. 18167, dando torto -in un
contenzioso con in Comune- ai genitori di un bambino che ha
riportato danni permanenti al volto per la caduta da un
cavallo a dondolo in un parco a Fossacesia, in Abruzzo.
Il bambino, che all'epoca aveva sei anni, era scivolato
battendo il volto mentre giocava sorvegliato dalla madre. I
genitori avevano fatto causa al Comune puntando sul nesso
tra il gioco e l'incidente. Prima il tribunale, poi la Corte
d'appello dell'Aquila avevano rilevato che le giostre era
state installate da poco ed erano «pienamente conformi
alla normativa» in tema di sicurezza. Anzi, secondo i
giudici, l'incedente era da ricondursi all'insufficiente
attenzione da parte della madre del piccolo.
La Cassazione -sentenza 18167 della terza sezione civile-
conferma la ricostruzione dei giudizio di merito. E spiega
che, a meno che non risulti provato che le giostre fossero
difettose e quindi di per sé pericolose, non può essere
invocata la responsabilità di un terzo: «l'utilizzo delle
giostre», sottolinea la Corte, presuppone «una
qualche vigilanza da parte degli adulti»
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2014). |
CONDOMINIO: Terrazza a livello come il lastrico.
L'utilità per gli alloggi sottostanti coinvolge nella spesa
tutti i condomini. Cassazione. L'obbligo di pagare i lavori di riparazione non
grava solo sul proprietario del manufatto.
Nonostante le sostanziali differenze
strutturali che caratterizzano il lastrico solare e la
terrazza a livello, per i giudici di legittimità la
diversità tra i due manufatti continua a restare puramente
teorica e astratta. Il che significa che tutti i condomini
devono comunque concorrere con il proprietario della
terrazza a livello nel pagamento delle spese necessarie per
la riparazione o la ricostruzione della terrazza stessa,
quand'anche il suo deterioramento trovi causa nella mancata
manutenzione ovvero in difetti ricollegabili alle sue
caratteristiche costruttive.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con
la
sentenza 25.08.2014 n. 18164,
affermando che all'obbligo di provvedere alla sua
riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i
condomini in concorso con il proprietario superficiario.
Questo obbligo trova infatti fondamento non già nel diritto
di proprietà della terrazza medesima, ma nel principio in
base al quale i condomini sono tenuti a contribuire alle
spese in ragione dell'utilità che la cosa da riparare o da
ricostruire è destinata a dare ai singoli appartamenti
sottostanti.
Era successo che il proprietario dell'appartamento
sottostante il terrazzo a livello che serviva anche da
copertura dell'edificio condominiale aveva citato in
giudizio il proprietario esclusivo del terrazzo per ottenere
il ristoro dei danni che si erano verificati nel suo
immobile a seguito, a suo dire, di negligente omissione da
parte di costui nell'esecuzione di opere atte a eliminare la
fonte dei danni stessi, dovuta non già a vetustà o a difetto
di manutenzione, bensì a vizi originari delle opere
realizzate.
Il giudizio di primo grado si era concluso in
suo favore, ma i giudici supremi hanno capovolto la prima
sentenza sul presupposto che in ogni caso il condominio
continua a mantenere l'onere della custodia e risponde
quindi, ex articolo 2051 del Codice civile, dei danni
provocati negli appartamenti sottostanti al terrazzo a
livello a seguito di infiltrazioni d'acqua conseguenti a
difetti di manutenzione, sempre che tali danni non derivino
da fatto imputabile soltanto al proprietario o a colui che
ne fa uso esclusivo. Sotto questo profilo è stata peraltro
negata valenza probatoria alla perizia stragiudiziale
prodotta dal danneggiato che, per quanto "giurata",
costituisce un atto di parte anche in ordine ai fatti che il
consulente asserisce di avere direttamente accertato.
Quanto al concetto di "terrazza a livello", si intende tale
una superficie scoperta posta al sommo di alcuni vani e, nel
contempo, sullo stesso piano di altri, dei quali costituisce
parte integrante strutturalmente e funzionalmente, talché
deve ritenersi, per il modo in cui è stata realizzata, che
sia destinata non solo e non tanto a coprire una parte del
fabbricato, ma soprattutto a dare possibilità di espansione
e di ulteriore comodità all'appartamento del quale è
contigua, costituendo di esso una proiezione all'aperto.
È consolidato il principio per cui la spesa per la
riparazione o la ricostruzione della terrazza a livello, al
pari del lastrico solare, va sopportata dai condomini
secondo il criterio di cui all'articolo 1126 del Codice
civile, talché i due terzi restano a carico dei proprietari
delle unità immobiliari a essa sottostanti, limitatamente
alle porzioni di queste a cui la terrazza serve da copertura
(Cassazione 16583/2012). Il che comporta che non solo bisogna
separare i condomini che hanno l'uso esclusivo della
terrazza (o del lastrico) per addebitare l'onere di un terzo
della spesa per la riparazione o la ristrutturazione, ma
nell'abito dei rimanenti condomini va fatta un'ulteriore
distinzione fra chi ha o no l'appartamento nella zona
dell'edificio coperta dalla terrazza o dal lastrico
(articolo Il Sole 24 Ore del
26.08.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Circa
la costruzione di box prefabbricato
(31 mq. circa di superficie e 89 mc. circa di volume) non è
possibile affermare la natura pertinenziale di tale
manufatto, in quanto di dimensioni non modeste e privo di
una funzione strumentale di servizio od ornamentale rispetto
all’edificio principale.
Oltretutto, affinché un'opera possa essere annoverata tra le
pertinenze, è necessario che la sua strumentalità rispetto
all'immobile principale sia oggettiva, cioè connaturale alla
sua struttura, e non soggettiva, desunta cioè dalla
destinazione data dal possessore.
Tale nozione riguarda, quindi, soltanto opere di modesta
entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali
ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di
impianti tecnologici e simili, ma non anche opere che dal
punto di vista delle dimensioni e della funzione si
connotino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano, quindi, coessenziali al
bene principale.
Con il primo motivo il ricorrente deduce
l’illegittimità del diniego impugnato per violazione
dell’art. 7 della legge n. 94/1982 e per eccesso di potere
per carenza di motivazione poiché il Comune resistente
avrebbe erroneamente negato la natura pertinenziale del box
prefabbricato, oggetto dell’istanza ex art. 13 della legge
n. 47/1985, nonostante le sue dimensioni (31 mq.) e la sua
ubicazione rispetto all’immobile principale, sito in
località Serra Rifusa, fossero indici inequivocabili del suo
essere funzionalmente e oggettivamente posto a servizio del
fabbricato di proprietà del sig. D.B..
La censura deve essere disattesa.
E, infatti, non è possibile affermare la natura pertinenziale di tale manufatto, in quanto di dimensioni non
modeste (31 mq. circa di superficie e 89 mc. circa di
volume) e privo di una funzione strumentale di servizio od
ornamentale rispetto all’edificio principale. Oltretutto,
affinché un'opera possa essere annoverata tra le pertinenze,
è necessario che la sua strumentalità rispetto all'immobile
principale sia oggettiva, cioè connaturale alla sua
struttura, e non soggettiva, desunta cioè dalla destinazione
data dal possessore.
Tale nozione riguarda, quindi, soltanto opere di
modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale,
quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di
impianti tecnologici e simili, ma non anche opere che dal
punto di vista delle dimensioni e della funzione si
connotino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano, quindi, coessenziali al
bene principale (cfr. TAR Piemonte, I, 23.07.2013, n.
912).
Peraltro, della destinazione funzionale e della
secondarietà del manufatto in parola rispetto a quello che
si assume come principale, il ricorrente avrebbe dovuto
fornire una prova adeguata, non limitandosi, com’è avvenuto
nel caso in esame, ad affermarne la vicinanza –peraltro mai
specificata in termini di misure- rispetto all’immobile
sito in località Serra Rifusa e ad enunciarne le dimensioni,
assumendone l’idoneità al ricovero di una sola vettura.
Alla luce delle considerazioni esposte il box descritto
negli atti non pare, dunque, rivestire il richiesto
carattere oggettivo di pertinenza rispetto ad un immobile
principale, né tanto meno risulta essere stata dimostrata la
enunciata funzione servente e strumentale rispetto al
fabbricato di proprietà del ricorrente
(TAR Basilicata,
sentenza 22.08.2014 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Con riferimento all'art. 9, comma 1, della legge
n. 122/1989 la giurisprudenza ha chiarito che la sfera
applicativa delle agevolazioni da esso contemplate, in
considerazione delle finalità della legge e in relazione al
suo carattere eccezionale, non può estendersi al di fuori
delle ipotesi normativamente previste.
Ne discende che la costruzione di autorimesse e parcheggi,
se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di
sotto del piano di campagna naturale, rimane assoggettata al
regime urbanistico delle nuove costruzioni fuori terra.
Pertanto, la deroga agli strumenti urbanistici è operante,
solo quando i parcheggi siano realizzati nel sottosuolo
ovvero nei locali siti al piano terra dei fabbricati già
esistenti, mentre è da escludersi -e, quindi, i parcheggi
devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni
urbanistiche-, se non vengano a ciò adibiti i locali
(preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se le
autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei
fabbricati o delle aree pertinenziali.
Alla stregua di tali principi, e considerato che il
ricorrente ha realizzato una nuova costruzione totalmente
fuori terra, quest'ultima non può sottrarsi ai parametri ed
ai vincoli imposti dal vigente strumento urbanistico
sull'area di intervento con conseguente legittimità, sotto
tale profilo, del diniego dell’istanza di accertamento di
conformità.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta
l’illegittimità del diniego impugnato per violazione
dell’art. 9 della legge n. 122/1989 poiché la giurisprudenza
prima e il legislatore poi, con l’art. 17, comma 90, della
legge n. 127/1997, avrebbero seguito un’interpretazione
estensiva del disposto della citata norma, non limitando la
realizzazione dei parcheggi pertinenziali al solo sottosuolo
dei fabbricati, ma consentendola anche nel sottosuolo delle
aree pertinenziali esterne agli immobili. Ne discende,
quindi, che l’amministrazione non avrebbe dovuto negare la
sanatoria sulla base della sola constatazione della natura
non interrata del box, ma avrebbe dovuto interrogarsi circa
l’ammissibilità della detta realizzazione e soprattutto in
merito alla sua compatibilità con la ratio della legge n.
122/1989.
Anche tale censura non è meritevole di condivisione e
deve essere disattesa.
Con riferimento all'art. 9, comma 1, della legge n.
122/1989 la giurisprudenza ha chiarito che la sfera
applicativa delle agevolazioni da esso contemplate, in
considerazione delle finalità della legge e in relazione al
suo carattere eccezionale, non può estendersi al di fuori
delle ipotesi normativamente previste (cfr. Cons. Stato, V,
29.03.2006, n. 1608).
Ne discende che la costruzione di autorimesse e
parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o
totalmente al di sotto del piano di campagna naturale,
rimane assoggettata al regime urbanistico delle nuove
costruzioni fuori terra (cfr. Cons. Stato, V, 29.03.2004,
n. 1662; Cons. Stato, V, 29.03.2006 n. 1608; Cons. Stato, IV, 26.09.2008 n. 4645; TAR Lazio, Roma, I, 16.04.2008, n. 3259).
Pertanto, la deroga agli strumenti urbanistici è
operante, solo quando i parcheggi siano realizzati nel
sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei
fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi -e,
quindi, i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto
delle disposizioni urbanistiche-, se non vengano a ciò
adibiti i locali (preesistenti) siti al piano terra di un
fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel
sottosuolo dei fabbricati o delle aree pertinenziali (cfr.
TAR Campania, Napoli, VIII, 23.05.2013, n. 2724).
Alla stregua di tali principi, e considerato che il
ricorrente ha realizzato una nuova costruzione totalmente
fuori terra, quest'ultima non può sottrarsi ai parametri ed
ai vincoli imposti dal vigente strumento urbanistico
sull'area di intervento con conseguente legittimità, sotto
tale profilo, del diniego dell’istanza di accertamento di
conformità
(TAR Basilicata,
sentenza 22.08.2014 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Secondo
l’orientamento consolidato e prevalente della
giurisprudenza, condiviso dal Collegio, in tema di
prescrizione del diritto del Comune di percepire il
conguaglio dell'oblazione, la riduzione del relativo termine
da 10 anni a 36 mesi, stabilita dall'art. 35, comma 18,
della legge n. 47/1985, come modificato dal D.L. n. 2 del
1988, convertito nella legge n. 68/1988, non decorre prima
che la relativa obbligazione possa ritenersi definitivamente
accertata in tutti i suoi elementi, e ciò richiede,
necessariamente, che la domanda di condono sia completa di
tutta la documentazione necessaria anche ai fini della
formazione del silenzio-assenso.
Muovendo da siffatto presupposto, il Collegio reputa
che per il conguaglio dell'oblazione, dovuta in caso di
condono edilizio, il dies a quo non possa coincidere con la
presentazione della domanda, sfornita della documentazione
necessaria per la disamina della stessa e richiesta ai fini
della corretta e definitiva determinazione dell'entità
dell'oblazione.
In altre parole, la decorrenza del termine di
prescrizione di cui si discorre presuppone (tanto in favore
della P.A. per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del
privato per l'eventuale rimborso) che la pratica di
sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e
siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla
stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'an ed il
quantum dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che
riflette puntualmente la ratio sottesa all'art. 2935 c.c.,
ai sensi del quale la prescrizione non può decorrere se non
"... dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere".
---------------
In ordine ai presupposti legittimanti la formazione del
silenzio-assenso sulle domande di condono edilizio,
presentate ai sensi delle leggi n. 47/1985 e n. 724/1994, la
domanda di condono deve essere corredata dalla necessaria
documentazione indicata dalla legge, essendo la produzione
di tale documentazione indispensabile proprio al fine del
riscontro dei requisiti soggettivi ed oggettivi.
Infatti, sul piano oggettivo, la formazione del
silenzio-assenso richiede quale presupposto essenziale,
oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di
oblazione, che siano stati integralmente dimostrati gli
ulteriori requisiti sostanziali relativi al tempo di
ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza
delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché
possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica
dell'amministrazione comunale e, del pari, sotto il profilo
soggettivo, deve essere dimostrata la legittimazione attiva
del richiedente il condono.
---------------
Il termine decennale di prescrizione dell'obbligazione sul
pagamento degli oneri concessori decorre, nell'ipotesi di
mancata esplicita definizione della domanda di condono,
dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi
dell'art. 35 della legge n. 47/1985, si forma dopo il
termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella
quale viene depositata la documentazione completa a corredo
della domanda di concessione.
Secondo l’orientamento consolidato e
prevalente della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, in
tema di prescrizione del diritto del Comune di percepire il
conguaglio dell'oblazione, la riduzione del relativo termine
da 10 anni a 36 mesi, stabilita dall'art. 35, comma 18,
della legge n. 47/1985, come modificato dal D.L. n. 2 del
1988, convertito nella legge n. 68/1988, non decorre prima
che la relativa obbligazione possa ritenersi definitivamente
accertata in tutti i suoi elementi, e ciò richiede,
necessariamente, che la domanda di condono sia completa di
tutta la documentazione necessaria anche ai fini della
formazione del silenzio-assenso (cfr. tra le tante Cons.
St., IV, 03.10.2012, n. 5201; TAR Campania, Salerno, II n. 8224 del 2010).
Muovendo da siffatto presupposto, il Collegio reputa
che per il conguaglio dell'oblazione, dovuta in caso di
condono edilizio, il dies a quo non possa coincidere con la
presentazione della domanda, sfornita della documentazione
necessaria per la disamina della stessa e richiesta ai fini
della corretta e definitiva determinazione dell'entità
dell'oblazione.
In altre parole, la decorrenza del termine di
prescrizione di cui si discorre presuppone (tanto in favore
della P.A. per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del
privato per l'eventuale rimborso) che la pratica di
sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e
siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla
stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'an ed il
quantum dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che
riflette puntualmente la ratio sottesa all'art. 2935 c.c.,
ai sensi del quale la prescrizione non può decorrere se non
"... dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere".
Fermo restando quanto innanzi rappresentato, rileva,
con specifico riguardo alla questione del silenzio-assenso,
quanto affermato dalla consolidata giurisprudenza in
materia, secondo cui, in ordine ai presupposti legittimanti
la formazione del silenzio-assenso sulle domande di condono
edilizio, presentate ai sensi delle leggi n. 47/1985 e n.
724/1994, la domanda di condono deve essere corredata dalla
necessaria documentazione indicata dalla legge, essendo la
produzione di tale documentazione indispensabile proprio al
fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed oggettivi
(cfr. Cons. St. IV, 16.02.2011, n. 1005; Cons. St., V,
03.11.2010, n. 7770; Cons. St., IV, 30.06.2010, n.
4174)
Infatti, sul piano oggettivo, la formazione del
silenzio-assenso richiede quale presupposto essenziale,
oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di
oblazione, che siano stati integralmente dimostrati gli
ulteriori requisiti sostanziali relativi al tempo di
ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza
delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché
possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica
dell'amministrazione comunale e, del pari, sotto il profilo
soggettivo, deve essere dimostrata la legittimazione attiva
del richiedente il condono.
La giurisprudenza ha, infine, chiarito che il termine
decennale di prescrizione dell'obbligazione sul pagamento
degli oneri concessori decorre, nell'ipotesi di mancata
esplicita definizione della domanda di condono, dalla
formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi dell'art.
35 della legge n. 47/1985, si forma dopo il termine di
ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene
depositata la documentazione completa a corredo della
domanda di concessione
(TAR Basilicata,
sentenza 22.08.2014 n. 552 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
giurisprudenza costante, i provvedimenti con cui l'ente
locale rivendica somme a conguaglio dovute a titolo di
oblazione o di oneri concessori non abbisognano di
particolare motivazione, in quanto la determinazione di tali
somme costituisce il risultato di una mera operazione
materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o
da norme di natura regolamentare stabilite
dall'Amministrazione, sicché l'interessato può solo
contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente.
---------------
Una volta che sia stata giudizialmente accertata la
legittimità della pretesa dell’Amministrazione alla somma
richiesta a titolo di conguaglio dell’oblazione e, quindi,
con effetto retroattivo alla data in cui questa avrebbe
dovuto essere versata nel suo intero importo, la pretesa da
parte della stessa Amministrazione creditrice agli interessi
legali segue alla loro natura di corrispettivo di un’utilità
di cui l’accipiens ha potuto fruire solo con ritardo, con
conseguente vantaggio patrimoniale per il solvens.
In altri termini, secondo l’indirizzo giurisprudenziale
condiviso dal Collegio, l’obbligo di corresponsione degli
interessi legali decorre dalla data di presentazione della
domanda nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, il
richiedente la sanatoria abbia commesso un errore in sede di
autoliquidazione dell’oblazione.
Non coglie nel segno
l’ulteriore doglianza concernente il difetto di motivazione
dell’impugnato provvedimento. In senso contrario, va infatti
osservato che, per giurisprudenza costante, i provvedimenti
con cui l'ente locale rivendica somme a conguaglio dovute a
titolo di oblazione o di oneri concessori non abbisognano di
particolare motivazione, in quanto la determinazione di tali
somme costituisce il risultato di una mera operazione
materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o
da norme di natura regolamentare stabilite
dall'Amministrazione, sicché l'interessato può solo
contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente
(cfr. ex multis TAR Lazio, Sezione II-bis, 25.02.2014,
n. 2209; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.01.2012, n.
16).
Il ricorrente, infine, deduce che gli interessi
legali sulle somme dovute a titolo di differenza di
oblazione e di oneri concessori dovrebbero decorrere dalla
data di messa in mora e non dalla data di presentazione
della domanda di condono, perché l’inerzia
dell’amministrazione non potrebbe tradursi in un vantaggio
per quest’ultima.
Anche questo motivo è privo di pregio. Invero, una
volta che sia stata giudizialmente accertata la legittimità
della pretesa dell’Amministrazione alla somma richiesta a
titolo di conguaglio dell’oblazione e, quindi, con effetto
retroattivo alla data in cui questa avrebbe dovuto essere
versata nel suo intero importo, la pretesa da parte della
stessa Amministrazione creditrice agli interessi legali
segue alla loro natura di corrispettivo di un’utilità di cui
l’accipiens ha potuto fruire solo con ritardo, con
conseguente vantaggio patrimoniale per il solvens (cfr.
TAR Basilicata, 03.05.2004, n. 305).
In altri termini,
secondo l’indirizzo giurisprudenziale condiviso dal
Collegio, l’obbligo di corresponsione degli interessi legali
decorre dalla data di presentazione della domanda nel caso
in cui, come nella fattispecie in esame, il richiedente la
sanatoria abbia commesso un errore in sede di
autoliquidazione dell’oblazione (cfr. TAR Campania, sez. VII,
08.02.2013, n. 823; TAR Puglia, sez. III, 13.04.2011, n.
581)
(TAR Basilicata,
sentenza 22.08.2014 n. 548 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Il negoziante paga caro il gradino rotto.
Cassazione. Alla cliente caduta vanno risarciti il danno
biologico e quello morale.
Costa cara al negoziante
la rovinosa caduta di un proprio cliente, all'interno del
suo esercizio –nella fattispecie su «una rotta e sconnessa
pavimentazione di scalini»– se l'episodio ne provoca
«postumi permanenti». Il commerciante dovrà, infatti, anche
corrispondere tanto il danno biologico quanto quello morale.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione (Sez. VI civile, con l'ordinanza
21.08.2014 n. 18101) in merito a un ricorso presentato dai
parenti della vittima –una donna successivamente morta,
dopo l'avvio della causa, risalente al 1999– stabilendo che
il giudice non può limitarsi a riconoscere «i soli
pregiudizi connessi all'inabilità temporanea assoluta e
parziale», che era stata fissata in una quota pari al 15 per
cento.
Il provvedimento ha avuto l'effetto di rimandare la
questione (e il ricalcolo dei danni, compresa la
determinazione delle spese processuali) alla Corte d'appello
di Salerno che si era pronunciata in modo «limitato»,
secondo la Suprema corte. Il procedimento in questione,
portato inizialmente all'attenzione del Tribunale di Nocera
Inferiore, si era interrotto con il decesso della donna
rimasta infortunata in modo permanente. E c'è voluta
l'ostinazione dei familiari eredi per rimettere in pista il
caso.
Questi, dopo il no all'istanza di indennizzo cinque anni
dopo la citazione, non si scoraggiano e si rivolgono alla
Corte d'appello che, alla fine, dà loro ragione, condannando
i titolari del negozio dove avvenne l'infortunio, al
pagamento di 3.150 euro «oltre accessori e spese di entrambi
i gradi».
La sorpresa è che non è il negoziante a ribellarsi
alla sentenza, ma nuovamente i parenti della vittima i
quali, non soddisfatti, tornano alla carica e, tramite i
propri legali, evidenziano che «il giudice di merito aveva
omesso di liquidare sia il danno biologico che quello
morale». E, anzi, rincarando la dose, «si dolgono della
mancata attribuzione della maggiorazione del 20%» prevista
da una specifica norma.
I parenti della vittima dovranno ora attendere il nuovo
pronunciamento della Corte d'appello di Salerno, ma avranno
almeno modo di poter dire che «giustizia è fatta» (articolo Il Sole 24 Ore del
22.08.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sull'intestatario di un impianto pubblicitario incorporato
da un'altra società laddove quest'ultima non abbisogna che
richieda al comune la "volturazione" dell'impianto
medesimo.
La Unicredit non aveva alcun onere di
inoltrare al Comune di Palermo una richiesta di “voltura”
dell’autorizzazione precedentemente intestata al Banco di
Sicilia.
Ed invero con regolare atto notarile di fusione il Banco di
Sicilia è stato incorporato nella Unicredit.
Ne consegue che in forza dell’art. 2504-bis del codice
civile la Unicredit ha assunto tutti i diritti e gli
obblighi del Banco di Sicilia.
E poiché il Banco di Sicilia aveva titolo per utilizzare
l’impianto di pubblicità per cui è causa, essendo titolare
dell’autorizzazione all’uopo rilasciata dal Comune, tale
diritto è automaticamente transitato in capo alla Unicredit
che è subentrata al primo.
L’ordine di idee testé espresso è confermato dal pacifico
orientamento della giurisprudenza, la quale afferma
costantemente, al riguardo:
- che “… la fusione per incorporazione determina
automaticamente l’estinzione della società incorporata ed il
sub ingresso, per successione a titolo universale, della
società incorporante nei rapporti sostanziali e processuali
relativi alla prima …”;
- e che “… il complesso delle situazioni soggettive in
precedenza proprie delle società incorporate o fuse si
trasferisce ipso jure alla società incorporante o risultante
dalla fusione; e ciò alla stregua del principio di
continuità postulato dall’art. 2504-bis c.c.”.
Il ricorso è fondato sotto gli assorbenti profili di cui al
secondo, terzo e quarto motivo di gravame.
Con il secondo mezzo di gravame la società ricorrente
lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2504-bis
del codice civile ed eccesso di potere per illogicità e
travisamento dei fatti, deducendo:
- che erroneamente l’Amministrazione comunale ha ritenuto
che l’Unicredit -dante causa della DAMIR- non fosse
regolarmente subentrata al Banco di Sicilia (non avendo
illo tempore chiesto la volturazione in suo favore
dell’autorizzazione a gestire l’impianto);
- che, invero, non occorreva affatto che l’Unicredit
chiedesse la volturazione in proprio favore
dell’autorizzazione già rilasciata al Banco di Sicilia; e
ciò in quanto la prima ha “incorporato” quest’ultima
mediante un regolare atto di fusione.
La doglianza merita accoglimento.
Come correttamente rilevato dalla Difesa della DAMIR, la
Unicredit non aveva alcun onere di inoltrare al Comune di
Palermo una richiesta di “voltura”
dell’autorizzazione precedentemente intestata al Banco di
Sicilia.
Ed invero con regolare atto di fusione (rogato in Notaio
Andrea Ganelli, Rep. n. 19430 del 19.10.2010), il Banco di
Sicilia è stato incorporato nella Unicredit.
Ne consegue che in forza dell’art. 2504-bis del codice
civile la Unicredit ha assunto tutti i diritti e gli
obblighi del Banco di Sicilia.
E poiché il Banco di Sicilia aveva titolo per utilizzare
l’impianto di pubblicità per cui è causa, essendo titolare
dell’autorizzazione all’uopo rilasciata dal Comune, tale
diritto è automaticamente transitato in capo alla Unicredit
che è subentrata al primo.
L’ordine di idee testé espresso è confermato dal pacifico
orientamento della giurisprudenza, la quale afferma
costantemente, al riguardo:
- che “… la fusione per incorporazione determina
automaticamente l’estinzione della società incorporata ed il
sub ingresso, per successione a titolo universale, della
società incorporante nei rapporti sostanziali e processuali
relativi alla prima …” (TAR Lazio, Roma, II, 24.10.2006
n. 11027; TAR Toscana, Firenze, II, 06.02.2006 n. 267; TAR
Lazio, Roma, III, 23.07.2004 n. 7296);
- e che “… il complesso delle situazioni soggettive in
precedenza proprie delle società incorporate o fuse si
trasferisce ipso jure alla società incorporante o risultante
dalla fusione; e ciò alla stregua del principio di
continuità postulato dall’art. 2504-bis c.c.” (C.S., IV,
15.09.2003 n. 5150).
E poiché il Comune di Palermo era stato avvisato
dell’avvenuta fusione per incorporazione con nota prot.
2011/721217 del 14.10.2011, il provvedimento non resiste
sotto alcun profilo alla doglianza.
In conclusione, posto che la Unicredit era automaticamente (ipso
jure, e dunque regolarmente) subentrata al Banco di
Sicilia nella titolarità dell’autorizzazione a suo tempo
rilasciata al Banco di Sicilia, la DAMIR ben poteva (e può)
acquistare direttamente dalla Unicredit la proprietà
dell’impianto, ed ottenere dal Comune la volturazione in suo
favore dell’autorizzazione per cui è causa
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 21.08.2014 n. 2226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Invasione di pista.
Il pedone risarcisce il ciclista danneggiato.
Il pedone che invade la
pista ciclabile risarcisce il ciclista che cade per
schivarlo.
La Corte di Cassazione con la
sentenza
19.08.2014 n. 35957 spezza una lancia a difesa dello
spazio dedicato esclusivamente alle due ruote che non può
essere «usurpato» dai pedoni neppure per distrazione.
La ricorrente viene condannata a pagare 8 mila euro, più
duemila euro di spese legali (l'avvocato della parte civile)
per i danni provocati a causa della sua disattenzione. La
donna era scesa «repentinamente e senza guardare» da un
marciapiede e si era trovata sulla traiettoria della
ciclista che per evitare, con successo, il contatto con lei
era caduta ferendosi a un occhio.
La passante, era finita davanti al giudice di pace che
l'aveva però prosciolta –per non aver commesso il fatto–
dall'accusa di aver colposamente violato le norme sulla
disciplina della circolazione stradale. Dopo l'appello della
ciclista il Tribunale di Firenze aveva però punito
l'invasione di campo, dimostrando una severità che la
Cassazione condivide.
Del tutto inutile per la signora distratta far notare che
lei non si era fatta nulla perché lei e la signora sulla
bici non si erano neppure sfiorate. Sia la Cassazione sia i
giudici di merito danno un maggior peso alla testimonianza
della parte lesa che aveva riportato una ferita, guaribile
in 40 giorni, pur di evitare l'ostacolo imprevisto
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.08.2014). |
APPALTI: Nelle
gare pubbliche le valutazioni in ordine alla gravità delle
eventuali condanne riportate dai concorrenti, e la loro
incidenza sulla moralità professionale, spettano
esclusivamente all'Amministrazione appaltante, e non già ai
concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad indicare tutte
le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro
in sede di domanda di partecipazione alla gara, ciò
implicando un giudizio inevitabilmente soggettivo,
evidentemente inconciliabile con la finalità della norma.
D'altra parte, non può sottacersi che la completezza e la
veridicità, sotto il profilo della puntuale indicazione di
tutte le sentenze penali di condanna eventualmente
riportate, della dichiarazione sostitutiva di notorietà, si
rende necessaria, rappresentando essa lo strumento
indispensabile, adeguato e ragionevole, capace di
contemperare i contrapposti interessi in gioco, e cioè
quello privato dei concorrenti alla semplificazione e
all'economicità del procedimento di gara e quello pubblico,
delle Amministrazioni appaltanti, di poter verificare, con
immediatezza e tempestività, se ricorrono ipotesi di
condanne per reati gravi che incidono sulla moralità
professionale, potendo così evitarsi o limitarsi ritardi e
rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza
pubblica di scelta del contraente, realizzando quanto più
celermente ed efficacemente possibile l'interesse pubblico
perseguito con la gara di appalto.
---------------
I reati in materia di violazione delle norme sulla
repressione dell'evasione fiscale, a cui vanno ascritti
quelli commessi dal legale rappresentante della ricorrente,
risultano tra quelli, in astratto, idonei ad incidere sulla
moralità professionale.
La stazione appaltante ha altresì valutato in concreto la
gravità delle dette condotte penalmente rilevanti, con
riferimento allo specifico oggetto dell’appalto,
evidenziando, in particolare, il reiterarsi della medesima
condotta criminosa, l’entità delle pene irrogate, la mancata
concessione del beneficio della non menzione della condanna
sul casellario giudiziale, la non risalenza nel tempo dei
fatti, e che “l’ambito nel quale si è concretizzata la
condotta criminosa e la finalità della stessa sono
direttamente riferibili all’attività imprenditoriale” del
concorrente.
I) Preliminarmente, ed in linea generale,
il Collegio richiama il pacifico orientamento
giurisprudenziale secondo cui nelle gare pubbliche le
valutazioni in ordine alla gravità delle eventuali condanne
riportate dai concorrenti, e la loro incidenza sulla
moralità professionale, spettano esclusivamente
all'Amministrazione appaltante, e non già ai concorrenti, i
quali sono pertanto tenuti ad indicare tutte le condanne
riportate, non potendo essi operare alcun filtro in sede di
domanda di partecipazione alla gara, ciò implicando un
giudizio inevitabilmente soggettivo, evidentemente
inconciliabile con la finalità della norma.
D'altra parte,
non può sottacersi che la completezza e la veridicità, sotto
il profilo della puntuale indicazione di tutte le sentenze
penali di condanna eventualmente riportate, della
dichiarazione sostitutiva di notorietà, si rende necessaria,
rappresentando essa lo strumento indispensabile, adeguato e
ragionevole, capace di contemperare i contrapposti interessi
in gioco, e cioè quello privato dei concorrenti alla
semplificazione e all'economicità del procedimento di gara e
quello pubblico, delle Amministrazioni appaltanti, di poter
verificare, con immediatezza e tempestività, se ricorrono
ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla
moralità professionale, potendo così evitarsi o limitarsi
ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad
evidenza pubblica di scelta del contraente, realizzando
quanto più celermente ed efficacemente possibile l'interesse
pubblico perseguito con la gara di appalto (C.S., Sez. V, 06.03.2013 n. 1378, TAR Friuli-Venezia Giulia, Sez. I,
24.11.2011 n. 537).
II) Con riferimento alla fattispecie per cui è causa,
ritiene il Collegio che la valutazione di incidenza posta in
essere dall’Amministrazione sia esente da profili di
irragionevolezza ed arbitrarietà, atteso che, in primo
luogo, i reati in materia di violazione delle norme sulla
repressione dell'evasione fiscale, a cui vanno ascritti
quelli commessi dal legale rappresentante della ricorrente,
risultano tra quelli, in astratto, idonei ad incidere sulla
moralità professionale (C.S. Sez. V, 20.03.2007 n. 1331).
La stazione appaltante ha altresì valutato in concreto la
gravità delle dette condotte penalmente rilevanti, con
riferimento allo specifico oggetto dell’appalto,
evidenziando, in particolare, il reiterarsi della medesima
condotta criminosa, l’entità delle pene irrogate, la mancata
concessione del beneficio della non menzione della condanna
sul casellario giudiziale, la non risalenza nel tempo dei
fatti, e che “l’ambito nel quale si è concretizzata la
condotta criminosa e la finalità della stessa sono
direttamente riferibili all’attività imprenditoriale” del
concorrente.
III) Alla luce di quanto precede non colgono nel segno gli
argomenti difensivi della ricorrente, secondo cui gli
effetti di una recente sentenza della Corte Costituzionale
(n. 80/2014) avrebbero comportato la sua assoluzione, atteso
che, in primo luogo, la stessa ricollega tali effetti solo
ad alcuni dei provvedimenti penali pronunciati a suo carico,
e non quindi anche alla sentenza del 29.11.2012, e che
comunque, come osservato dalla difesa comunale, la pronuncia
della Corte è stata depositata successivamente alla domanda
di partecipazione, che avrebbe pertanto dovuto menzionare
anche tali condanne
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.08.2014 n. 2208 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
linea generale, nelle procedure di gara pubblica, il potere
di soccorso, previsto dall'art. 46, c. 1, D.Lgs. 12.4.2006
n. 163, si sostanzia nel dovere della stazione appaltante di
consentire la regolarizzazione di certificati, documenti o
dichiarazioni già esistenti, consentendo di dare concreta
applicazione ai principi di proporzionalità e di favor
partecipationis, secondo cui il pur necessario formalismo
nello svolgimento delle procedure per l'affidamento dei
contratti pubblici non può giungere fino all'esclusione dal
confronto di quanti abbiano presentato dichiarazioni
complete, ma non del tutto univoche.
Nel caso in cui l'impresa concorrente abbia invece
integralmente omesso la produzione documentale prevista,
alla stazione appaltante è precluso sopperirvi con il detto
rimedio della regolarizzazione.
Osserva il Collegio che, in linea
generale, nelle procedure di gara pubblica, il potere di
soccorso, previsto dall'art. 46, c. 1, D.Lgs. 12.4.2006 n.
163, si sostanzia nel dovere della stazione appaltante di
consentire la regolarizzazione di certificati, documenti o
dichiarazioni già esistenti, consentendo di dare concreta
applicazione ai principi di proporzionalità e di favor partecipationis, secondo cui il pur necessario formalismo
nello svolgimento delle procedure per l'affidamento dei
contratti pubblici non può giungere fino all'esclusione dal
confronto di quanti abbiano presentato dichiarazioni
complete, ma non del tutto univoche (C.S. Sez. V, 17.06.2014
n. 3093). Nel caso in cui l'impresa concorrente abbia invece
integralmente omesso la produzione documentale prevista,
alla stazione appaltante è precluso sopperirvi con il detto
rimedio della regolarizzazione (C.S. Sez. IV, 04.07.2012 n.
3925).
Ritiene il Collegio che, nella fattispecie per cui è causa,
la ricorrente versasse in una situazione di mera irregolare
dimostrazione del possesso del requisito, e non di sua
radicale mancata allegazione, ciò che doveva dare luogo
all’applicazione, da parte della stazione appaltante,
dell’istituto di cui al cit. art. 46, consentendo così di
sanare l’omissione parziale in cui la stessa era incorsa. In
via di fatto, va peraltro osservato che, nella stessa
giornata dell’esclusione, con lettera prot. n. 62/2014, il
legale rappresentante della ricorrente ha prodotto la
documentazione mancante, senza pertanto che l’omessa
applicazione del c.d. soccorso istruttorio potesse essere
giustifica da ragioni di celerità.
Come infatti già evidenziato, la lex specialis, come
interpretata dal predetto chiarimento del 24.04.2014,
richiedeva ai fini della dimostrazione della capacità
economica e finanziaria la produzione di due referenze
bancarie, o in alternativa, di una sola referenza, di una
dichiarazione sostitutiva, e di taluni bilanci. La
ricorrente ha corredato la propria domanda di partecipazione
con la referenza bancaria e la vista dichiarazione
sostitutiva, ciò che consente di escludere che la stessa
abbia radicalmente omesso di comprovare il requisito di che
trattasi, che è stato invece irregolarmente documentato
dalla stessa, a causa della mancata ulteriore allegazione
dei detti bilanci, che avrebbero pertanto dovuto essere
richiesti dalla stazione appaltante, prima di escludere la
ricorrente.
Il ricorso va pertanto accolto, potendosi prescindere dallo
scrutinio della domanda di risarcimento del danno, atteso
che, in virtù del decreto monocratico n. 928/2014, il
provvedimento impugnato non ha cagionato alcun pregiudizio
alla ricorrente, che è stata comunque provvisoriamente
ammessa alla procedura di gara
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.08.2014 n. 2207 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
repressione degli abusi edilizi ha natura obbligatoria e
vincolata per l’amministrazione che ne ha accertato
l’esistenza, per cui l’esercizio del relativo potere
discende dalla sola constatazione di una situazione di fatto
difforme da quella di diritto e l’ordinanza che ingiunge la
demolizione di un’opera abusiva mediante ripristino dello
stato dei luoghi è meramente finalizzata a ristabilire la
legalità oggettivamente violata.
Presupposto per la sua adozione è dunque l’accertamento non
di responsabilità storiche nella commissione dell’illecito
ma di una situazione di fatto dei luoghi contrastante con
quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia.
Ne deriva che, ai fini dell’esercizio del potere repressivo
in materia edilizia, è ininfluente l’elemento soggettivo
della colpa, potendo l’amministrazione procedere
all’adozione della misura demolitoria anche nei confronti
del proprietario non autore dell’abuso, fermo restando che
l’eventuale estraneità del proprietario dell’area alla
realizzazione dell’abuso comporta che l’ordine di
demolizione non possa costituire titolo per l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla
quale insistono le opere abusive.
Nella sentenza invocata dal ricorrente, la Corte
costituzionale ha affermato che qualora non ricorrano i
presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel
caso in cui l’area sia di proprietà del terzo incolpevole,
la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato
dall’abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della
demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi
comunali di darvi esecuzione d’ufficio. E ciò senza che a
tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell’area che,
se di proprietà del terzo estraneo all’abuso, deve rimanere
nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d’ufficio la
demolizione. Quanto sopra a condizione che risulti, in modo
inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
dell’area al compimento dell’opera abusiva o che, essendone
egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con
gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
La verifica di tali condizioni non costituisce presupposto
di legittimità dell’ordinanza di demolizione, ma semmai del
provvedimento di acquisizione gratuita che faccia seguito
all’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione.
---------------
Il provvedimento, che ingiunge la demolizione di opera
edilizia abusivamente realizzata, non richiede la previa
comunicazione d’avvio del procedimento, essendo esso
obbligatorio e con contenuto vincolato, tanto più quando,
come nella specie, le opere abusive insistano su aree
vincolate.
---------------
Il verbale di accertamento dell’inadempienza all’ordine di
demolizione, nel caso di specie, si limita a descrivere e
dichiarare le operazioni effettuate durante l’accesso ai
luoghi e a constatare che le opere abusive “risultano essere
ancora in sito e solo in parte rimosse”, ma non riporta la
misura e l’identificazione della superficie da acquisire
gratuitamente al patrimonio comunale.
Ne discende che il verbale impugnato, in quanto mero atto di
accertamento dello stato dei luoghi e dell’inottemperanza a
quanto precedentemente ordinato dall’amministrazione, non è
configurabile quale espressione di esercizio di una potestà
amministrativa e come tale è atto privo di carattere
provvedimentale.
Sicché, come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza
amministrativa in analoghe fattispecie, il mero verbale
redatto dagli agenti della Polizia locale ha valore
endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate dalla polizia municipale, alla quale
non è attribuita la competenza all’adozione di atti di
amministrazione attiva, a tal uopo occorrendo che la
competente autorità amministrativa ne faccia proprio l’esito
attraverso un formale atto di accertamento produttivo degli
effetti previsti dall’art. 31, comma 4, del D.P.R. n.
380/2001.
La censura non ha fondamento.
La repressione degli abusi edilizi ha natura obbligatoria e
vincolata per l’amministrazione che ne ha accertato
l’esistenza, per cui l’esercizio del relativo potere
discende dalla sola constatazione di una situazione di fatto
difforme da quella di diritto e l’ordinanza che ingiunge la
demolizione di un’opera abusiva mediante ripristino dello
stato dei luoghi è meramente finalizzata a ristabilire la
legalità oggettivamente violata. Presupposto per la sua
adozione è dunque l’accertamento non di responsabilità
storiche nella commissione dell’illecito ma di una
situazione di fatto dei luoghi contrastante con quella
codificata nella normativa urbanistica ed edilizia.
Ne deriva che, ai fini dell’esercizio del potere repressivo
in materia edilizia, è ininfluente l’elemento soggettivo
della colpa, potendo l’amministrazione procedere
all’adozione della misura demolitoria anche nei confronti
del proprietario non autore dell’abuso, fermo restando che
l’eventuale estraneità del proprietario dell’area alla
realizzazione dell’abuso comporta che l’ordine di
demolizione non possa costituire titolo per l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla
quale insistono le opere abusive.
Nella sentenza invocata dal ricorrente, la Corte
costituzionale ha affermato che qualora non ricorrano i
presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel
caso in cui l’area sia di proprietà del terzo incolpevole,
la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato
dall’abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della
demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi
comunali di darvi esecuzione d’ufficio. E ciò senza che a
tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell’area che,
se di proprietà del terzo estraneo all’abuso, deve rimanere
nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d’ufficio la
demolizione. Quanto sopra a condizione che risulti, in modo
inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
dell’area al compimento dell’opera abusiva o che, essendone
egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con
gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
La verifica di tali condizioni non costituisce presupposto
di legittimità dell’ordinanza di demolizione, ma semmai del
provvedimento di acquisizione gratuita che faccia seguito
all’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione.
---------------
Nel motivo successivo
il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 7 l. n. 241/1990
per la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento sanzionatorio.
La censura è infondata alla luce del costante orientamento
secondo cui il provvedimento, che ingiunge la demolizione di
opera edilizia abusivamente realizzata, non richiede la
previa comunicazione d’avvio del procedimento, essendo esso
obbligatorio e con contenuto vincolato (cfr., da ultimo, CdS,
sez. IV 20.05.2014 n. 2568), tanto più quando, come
nella specie, le opere abusive insistano su aree vincolate (CdS,
sez. IV 09.05.2014, n. 2380).
---------------
I secondi motivi aggiunti
si dirigono avverso il verbale 28.01.2003 di
accertamento dell’inadempienza all’ordine di demolizione.
In proposito va precisato che il citato verbale si limita a
descrivere e dichiarare le operazioni effettuate durante
l’accesso ai luoghi e a constatare che le opere abusive
“risultano essere ancora in sito e solo in parte rimosse”,
ma non riporta la misura e l’identificazione della
superficie da acquisire gratuitamente al patrimonio
comunale.
Ne discende che il verbale impugnato, in quanto mero atto di
accertamento dello stato dei luoghi e dell’inottemperanza a
quanto precedentemente ordinato dall’amministrazione, non è
configurabile quale espressione di esercizio di una potestà
amministrativa e come tale è atto privo di carattere
provvedimentale.
I secondi motivi aggiunti sono quindi inammissibili poiché -come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza
amministrativa in analoghe fattispecie (cfr. Cons. giust.
amm. Sicilia sez. giurisd., 15.02.1999, n. 32; TAR
Lazio, Sezione II-ter, 12.11.2001, n. 9155; TAR
Campania, Sezione IV, 24.09.2002, n. 5582; Sezione VI,
17.01.2011 n. 215; Sezione II, 18.05.2005 n. 6526;
14.06.2010 n. 6555; 27.08.2010 n. 17245)- il mero
verbale redatto dagli agenti della Polizia locale ha valore endoprocedimentale
ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni
effettuate dalla polizia municipale, alla quale non è
attribuita la competenza all’adozione di atti di
amministrazione attiva, a tal uopo occorrendo che la
competente autorità amministrativa ne faccia proprio l’esito
attraverso un formale atto di accertamento produttivo degli
effetti previsti dall’art. 31, comma 4, del D.P.R. n.
380/2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.08.2014 n. 2206 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
ossequio a quell’orientamento giurisprudenziale, di recente
confermato, qualora l’amministrazione, a fronte di una
domanda di sanatoria incompleta, richieda all’interessato
l’integrazione della documentazione, assegnandogli un
termine per provvedere, quest’ultimo deve ritenersi
tassativo, sicché l’inottemperanza a tale richiesta
determina la chiusura della pratica e costituisce legittimo
motivo di diniego della concessione edilizia in sanatoria.
È ovvio, infatti, che l’incompletezza della domanda non
consente neppure lo svolgimento dell’istruttoria con la
conseguenza che è irrilevante che l’amministrazione
comunale, nel rigettare l’istanza di sanatoria, non abbia
preventivamente acquisito i pareri che, se favorevoli, sono
invece necessari per procedere al rilascio della
concessione.
---------------
Ai sensi dell’art. 13 l. 28.02.1985 n. 47, la concessione in
sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante postula
che le opere risultino conformi tanto alla normativa
urbanistica vigente al momento della loro realizzazione,
quanto a quella vigente al momento della domanda di
sanatoria.
Le doglianze non possono essere apprezzate.
In punto di fatto va precisato che l’amministrazione
comunale, con nota in data 12.10.2000, su conforme
parere della commissione edilizia, ha considerato necessario
acquisire, ai fini dell’esame della domanda di sanatoria, la
documentazione prescritta dal Regolamento edilizio per gli
impianti di radiodiffusione e ha richiesto al ricorrente di
provvedere alle dovute integrazioni, entro il termine di
sessanta giorni.
Come risulta dalla relazione tecnica allegata alla (non
completa) documentazione integrativa prodotta, il ricorrente
ha rifiutato di depositare la documentazione richiesta
sostenendo che “la domanda di accertamento di conformità
riguarda impianti eseguiti prima dell’entrata in vigore del
regolamento che pertanto è inapplicabile per il rilascio
della sanatoria”.
In tale quadro, l’infondatezza dei rilievi del ricorrente
può affermarsi in ossequio a quell’orientamento
giurisprudenziale, di recente confermato, secondo il quale,
qualora l’amministrazione, a fronte di una domanda di
sanatoria incompleta, richieda all’interessato
l’integrazione della documentazione, assegnandogli un
termine per provvedere, quest’ultimo deve ritenersi
tassativo, sicché l’inottemperanza a tale richiesta
determina la chiusura della pratica e costituisce legittimo
motivo di diniego della concessione edilizia in sanatoria.
È ovvio, infatti, che l’incompletezza della domanda non
consente neppure lo svolgimento dell’istruttoria con la
conseguenza che è irrilevante che l’amministrazione
comunale, nel rigettare l’istanza di sanatoria, non abbia
preventivamente acquisito i pareri che, se favorevoli, sono
invece necessari per procedere al rilascio della
concessione.
Quanto, poi, alla tesi esposta anche nel sesto motivo del
ricorso, circa l’applicabilità della sola disciplina vigente
al momento della realizzazione dell’opera, e non anche di
quella vigente al momento della presentazione dell’istanza e
al tempo dell’adozione del provvedimento, il Collegio
osserva che, ai sensi dell’art. 13 l. 28.02.1985 n.
47, la concessione in sanatoria di opere eseguite senza
titolo abilitante postula che le opere risultino conformi
tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della
loro realizzazione, quanto a quella vigente al momento della
domanda di sanatoria (Cons. St., sez. IV, 26.04.2006, n.
2306; sez. IV, n. 6474 del 2006; sez. V, n. 1126 del 2009;
sez. IV, 23.07.2009, n. 4671; sez. V, 17.09.2012,
n. 4914).
Ne consegue che la legittimità del provvedimento abilitativo
assume necessariamente a riferimento la normativa vigente al
momento della sua adozione, sicché del tutto correttamente
l’amministrazione ha assoggettato la domanda di sanatoria
agli obblighi documentali introdotti dal regolamento
edilizio già vigente all’epoca della sua presentazione, con
prescrizioni non fatte oggetto di alcuna contestazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.08.2014 n. 2205 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione
la giurispruenza ha raggiunto le seguenti conclusioni:
a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il
danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del
danno che assume di aver sofferto;
b) in tema di risarcimento danni nei confronti della Pubblica
amministrazione, il giudice amministrativo è chiamato a
valutare (art. 30, comma 3, c.p.a.), senza necessità di
eccezione di parte e acquisendo anche d'ufficio gli elementi
di prova all'uopo necessari, se il presumibile esito del
ricorso di annullamento dell'atto illegittimo e
dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe
evitato in tutto o in parte il danno, secondo un giudizio di
causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che
apprezzi il comportamento globale del ricorrente;
c) spetta all’impresa danneggiata offrire la prova della
percentuale di utile che avrebbe conseguito, qualora fosse
risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell’azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo opera con
pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod.
proc. amm.).
Quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto
sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria
informativa tra amministrazione e privato la quale
contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il
correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si
riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei
danni, in relazione alla quale il criterio della c.d.
vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto
principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697,
comma 1, cod. civ.;
d) il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226
cod. civ. è ammesso soltanto in presenza di situazione di
impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova
sull'ammontare del danno;
e) le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere
l'accertamento dei propri diritti all'attività del
consulente neppure nel caso di consulenza tecnica d'ufficio
cosiddetta "percipiente", che può costituire essa stessa
fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente
l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché,
anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse
deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a
fondamento di tali diritti;
f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere
raggiunta anche mediante presunzioni.
Per la configurazione di una presunzione giuridicamente
valida non occorre che l'esistenza del fatto ignoto
rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto,
secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva
(sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è
sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente
quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità
basato sull'"id quod plerumque accidit" (in virtù della
regola dell'inferenza probabilistica), sicché il giudice può
trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento
discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché
dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e
concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad
una presunzione fondata su dati meramente ipotetici.
In ragione di ciò va esclusa la pretesa di ottenere
l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché
detto criterio non può essere oggetto di applicazione
automatica ed indifferenziata, sia perché non può formularsi
un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque
accidit secondo il quale allegato l’importo a base d’asta
può presumersi che il danno da lucro cessante del
danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo;
g) il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la
concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti
utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a
disposizione in vista dell'aggiudicazione; in difetto di
tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver
ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri
lavori o servizi, con la conseguente decurtazione del
risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel
percipiendum;
h) anche per il cd. danno curricolare il presunto danneggiato deve
offrire prova puntuale del danno che asserisce di aver
subito
Sulla scorta delle cennate premesse va,
quindi, confermata la sentenza del primo giudice,
rammentando che la giurisprudenza di questo Consiglio (Cons.
Stato, Sez. V, 25.06.2014, n. 3220; Sez. IV, 18.11.2013, n. 5453; Sez. IV, 12.02.2013, n. 848; Sez. V, 20.04.2012, n. 2317; Sez. V,
02.11.2011, n. 5837; Sez.
V, 30.06.2011, n. 3670; Sez. VI, 21.05.2009 n. 3144;
Sez. V, 06.04.2009, n. 2143; Sez. V, 17.10.2008, n.
5098; Sez. V, 05.04.2005, n. 1563; Sez. VI, 04.04.2003, n. 478) in tema di determinazione del danno da mancata
aggiudicazione ha raggiunto le seguenti conclusioni:
a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il
danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del
danno che assume di aver sofferto;
b) in tema di risarcimento danni nei confronti della
Pubblica amministrazione, il giudice amministrativo è
chiamato a valutare (art. 30, comma 3, c.p.a.), senza
necessità di eccezione di parte e acquisendo anche d'ufficio
gli elementi di prova all'uopo necessari, se il presumibile
esito del ricorso di annullamento dell'atto illegittimo e
dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe
evitato in tutto o in parte il danno, secondo un giudizio di
causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che
apprezzi il comportamento globale del ricorrente (Cons. St.,
Ad. Plen., 2011, n. 3);
c) spetta all’impresa danneggiata offrire la prova della
percentuale di utile che avrebbe conseguito, qualora fosse
risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell’azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo opera con
pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod.
proc. amm.). Quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica
in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria
informativa tra amministrazione e privato la quale
contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il
correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si
riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei
danni, in relazione alla quale il criterio della c.d.
vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto
principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697,
comma 1, cod. civ.;
d) il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi
dell'art. 1226 cod. civ. è ammesso soltanto in presenza di
situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di
una precisa prova sull'ammontare del danno;
e) le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e
rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del
consulente neppure nel caso di consulenza tecnica d'ufficio
cosiddetta "percipiente", che può costituire essa stessa
fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente
l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché,
anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse
deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a
fondamento di tali diritti;
f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può
essere raggiunta anche mediante presunzioni. Per la
configurazione di una presunzione giuridicamente valida non
occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica
conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di
necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della
regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal
fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla
stregua di un giudizio di probabilità basato sull'"id quod
plerumque accidit" (in virtù della regola dell'inferenza
probabilistica), sicché il giudice può trarre il suo libero
convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli
elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti
legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non
può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata
su dati meramente ipotetici. In ragione di ciò va esclusa la
pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a
base d'asta, sia perché detto criterio non può essere
oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, sia
perché non può formularsi un giudizio di probabilità fondato
sull’id quod plerumque accidit secondo il quale allegato
l’importo a base d’asta può presumersi che il danno da lucro
cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto
importo;
g) il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la
concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti
utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a
disposizione in vista dell'aggiudicazione; in difetto di
tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver
ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri
lavori o servizi, con la conseguente decurtazione del
risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel
percipiendum;
h) anche per il cd. danno curricolare il presunto
danneggiato deve offrire prova puntuale del danno che
asserisce di aver subito
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.08.2014 n. 4248 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
disposizione di cui al comma 18°
dell’articolo 35 della legge 28.02.1985 n. 47 (la quale dà
per accolta la domanda di sanatoria una volta decorso il
termine di ventiquattro mesi dalla presentazione
dell’istanza) non trova applicazione in relazione alle
domande relative ad aree sottoposte a vincolo, quale quella
che qui viene in rilievo. Non a caso, la medesima
disposizione esclude in modo espresso le ipotesi di cui
all’articolo 33 della stessa l. 47 del 1985, fra cui
rientrano –ai fini che qui rilevano– i vincoli di tipo
paesaggistico imposti prima della realizzazione delle opere.
Al riguardo, un consolidato orientamento di questo Consiglio
ha stabilito che dal combinato disposto degli artt. 32, 33 e
35, l. 47 del 1985 può desumersi il principio che non sono
suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in aree
sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo
all’uopo in ogni caso richiesto il parere espresso
dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione
per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione
del silenzio-assenso sull'istanza di condono.
Il primo motivo (con cui l’appellante
ha lamentato l’erroneità della sentenza in epigrafe per la
parte in cui ha dichiarato infondato il motivo di ricorso
con il quale si era sottolineata l’intervenuta formazione
del silenzio-assenso di cui al comma diciottesimo
dell’articolo 35 della legge 28.02.1985, n. 47 in
relazione alla domanda di condono edilizio presentata il 01.04.1986) è infondato.
Al riguardo, i primi Giudici hanno correttamente
rilevato che la disposizione da ultimo richiamata (la quale
dà per accolta la domanda di sanatoria una volta decorso il
termine di ventiquattro mesi dalla presentazione
dell’istanza) non trovi applicazione in relazione alle
domande relative ad aree sottoposte a vincolo, quale quella
che qui viene in rilievo. Non a caso, la medesima
disposizione escludeva in modo espresso le ipotesi di cui
all’articolo 33 della stessa l. 47 del 1985, fra cui
rientrano –ai fini che qui rilevano– i vincoli di tipo
paesaggistico imposti prima della realizzazione delle opere.
Al riguardo, un consolidato –e qui condiviso- orientamento
di questo Consiglio ha stabilito che dal combinato disposto
degli artt. 32, 33 e 35, l. 47 del 1985 può desumersi il
principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita
immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all’uopo in ogni caso
richiesto il parere espresso dell'Autorità competente alla
gestione del vincolo, ragione per cui in tali ipotesi non è
configurabile la formazione del silenzio-assenso
sull'istanza di condono (in tal senso –ex plurimis -: Cons.
Stato, V, 02.05.2013, n. 2395; id., IV, 18.09.2012, n. 4945; id., VI, 14.08.2012,
n. 4573)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.08.2014 n. 4226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Né l’articolo 7 della l. 29.06.1939, n. 1497 (si
tratta della disposizione in base alla quale era stato
adottato il decreto impositivo del vincolo), né l’articolo
32 della l. 47 del 1985 sanciscono in modo automatico
l’incompatibilità fra un qualunque intervento sul territorio
e i valori oggetto di tutela (si tratta di un effetto che
può verificarsi solo nelle ipotesi di vincoli di carattere
assoluto).
Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato (e qui
condiviso) orientamento secondo cui in ipotesi quale quella
che qui viene in rilievo l'Amministrazione preposta alla
tutela del vincolo è chiamata a valutare l'effettiva
consistenza e la localizzazione dell’intervento, oggetto di
sanatoria, al fine di confermare o escludere la concreta
compatibilità dello stesso con i valori tutelati nello
specifico contesto di riferimento, non potendo ritenersi
sufficiente il generico richiamo ad un vincolo, con
conseguente necessario apprezzamento di compatibilità, da
condurre sulla base di rilevazioni e giudizi puntuali.
Allo stesso modo, la
sentenza in epigrafe risulta meritevole di riforma per la
parte in cui ha respinto il motivo di ricorso (qui
puntualmente riproposto) con il quale si era lamentato il
difetto di istruttoria e di motivazione che viziava gli atti
con i quali l’amministrazione aveva affermato
l’incompatibilità fra i realizzati interventi e i valori
paesaggistici dell’area (sottoposta a vincolo con decreto
ministeriale del 14.02.1959).
Al riguardo l’appellante ha correttamente rilevato
(reiterando un motivo di ricorso già esaminato e disatteso
dai primi Giudici con motivazioni non condivise da questo
Giudice di appello) che il Comune di Orbetello non avesse
operato un’effettiva e puntuale valutazione in ordine al
pregiudizio che i più volte richiamati interventi erano
idonei a sortire sui valori paesaggistici dell’area, ma si
era limitato a descrivere la consistenza oggettiva degli
interventi concludendo in modo automatico e sostanzialmente
apodittico nel senso dell’incompatibilità degli stessi con i
valori tutelati.
Sotto tale aspetto l’appellante ha condivisibilmente
osservato che né l’articolo 7 della l. 29.06.1939, n.
1497 (si tratta della disposizione in base alla quale era
stato adottato il decreto impositivo del vincolo), né
l’articolo 32 della l. 47 del 1985 sanciscono in modo
automatico l’incompatibilità fra un qualunque intervento sul
territorio e i valori oggetto di tutela (si tratta di un
effetto che può verificarsi solo nelle ipotesi –che qui non
ricorrono– di vincoli di carattere assoluto).
Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato (e qui
condiviso) orientamento secondo cui in ipotesi quale quella
che qui viene in rilievo l'Amministrazione preposta alla
tutela del vincolo è chiamata a valutare l'effettiva
consistenza e la localizzazione dell’intervento, oggetto di
sanatoria, al fine di confermare o escludere la concreta
compatibilità dello stesso con i valori tutelati nello
specifico contesto di riferimento, non potendo ritenersi
sufficiente il generico richiamo ad un vincolo, con
conseguente necessario apprezzamento di compatibilità, da
condurre sulla base di rilevazioni e giudizi puntuali (in
tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, VI, 05.04.2012, n.
2018).
Ebbene, non avendo l’amministrazione appellata operato una
siffatta, doverosa valutazione in ordine ai pertinenti
elementi di fatto, essa ha effettivamente realizzato
un’illegittimità attizia, conformemente alle censure nella
presente sede reiterate dalla parte appellante
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.08.2014 n. 4226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Costituisce principio consolidato e pacifico che
in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i
confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui
il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla
violazione delle norme in materia è titolare, da un lato,
del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla
riduzione in pristino nei confronti dell'autore
dell'attività edilizia illecita (con competenza del G.O.) e,
dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del
provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale
attività sia stata autorizzata, consentita, permessa
(conosciuto dal G.A.).
Il privato, che si ritiene danneggiato da un'attività
edilizia autorizzata, che ha violato le norme in tema di
distanza fra costruzioni o di queste con i confini, ha
diritto alla c.d. "doppia tutela" che si caratterizza per
essere concorrente ma separata per le diverse posizioni
giuridiche di diritto soggettivo e interesse.
Pertanto per tali controversie la giurisdizione spetta al
giudice amministrativo, qualora si tratti di impugnazione
del relativo provvedimento per l'annullamento di
quest'ultimo, poiché in tal caso si fa valere una posizione
di interesse legittimo, mentre spetta al giudice ordinario,
qualora venga richiesto il risarcimento del danno, ovvero
alla rimozione dell'opera (in tal caso infatti è implicita
una richiesta di disapplicazione dell'atto medesimo).
La controversia derivante dalla impugnazione di un permesso
di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione
delle distanze legali costituisce una disputa non già tra
privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella
quale la posizione del primo si atteggia a interesse
legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione
(anche e certamente) al giudice amministrativo.
Costituisce principio consolidato e
pacifico che in tema di distanze fra costruzioni o di queste
con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per
cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla
violazione delle norme in materia è titolare, da un lato,
del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla
riduzione in pristino nei confronti dell'autore
dell'attività edilizia illecita (con competenza del G.O.) e,
dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del
provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale
attività sia stata autorizzata, consentita, permessa
(conosciuto dal G.A.).
Il privato, che si ritiene danneggiato da un'attività
edilizia autorizzata, che ha violato le norme in tema di
distanza fra costruzioni o di queste con i confini, ha
diritto alla c.d. "doppia tutela" che si caratterizza per
essere concorrente ma separata per le diverse posizioni
giuridiche di diritto soggettivo e interesse.
Pertanto per tali controversie la giurisdizione spetta al
giudice amministrativo, qualora si tratti di impugnazione
del relativo provvedimento per l'annullamento di
quest'ultimo, poiché in tal caso si fa valere una posizione
di interesse legittimo, mentre spetta al giudice ordinario,
qualora venga richiesto il risarcimento del danno, ovvero
alla rimozione dell'opera (in tal caso infatti è implicita
una richiesta di disapplicazione dell'atto medesimo) (in tal
senso, tra tante, si veda Consiglio Stato, sez. V, 24.10.1996, n. 1273).
La controversia derivante dalla impugnazione di un permesso
di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione
delle distanze legali costituisce una disputa non già tra
privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella
quale la posizione del primo si atteggia a interesse
legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione
(anche e certamente) al giudice amministrativo (cfr. CdS n.
678/2011)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.08.2014 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E’ infondata l’eccezione di difetto di
legittimazione del condominio, in quanto lo stesso fa valere
non un preteso diritto di proprietà sulle fondazioni e sulla
proiezione verticale verso il basso dell’edificio ovvero un
diritto pro quota dei singoli condomini, ma la pretesa alla
legittimità dell’azione amministrativa, cui precipuo
obiettivo è quello della completa verifica della sussistenza
di tutti i presupposti per il rilascio del titolo edilizio,
primo fra tutti l’accertamento della sicurezza statica della
erigenda costruzione nel complesso delle edificazioni in cui
la stessa si inserisce, accertamento particolarmente
delicato trattandosi di opera in zona sismica.
In realtà -premesso che legittimazione ed interesse a
ricorrere si esauriscono nella mera affermazione (e non
nella prova) della necessità di tutela giurisdizionale
derivante dalla lesione di un proprio interesse, perché
legittimazione ed interesse non sono altro che modalità
della domanda giudiziale, ma non attengono ancora al merito-
si ritiene che non possa essere fondatamente messa in
discussione la legittimazione a ricorrere per opere che
vengono localizzate in territorio prossimo a quello di
residenza.
Sono, infatti, “legittimati all'impugnazione coloro che
possono lamentare una pregiudizievole alterazione del
preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto
della realizzazione dell'intervento controverso”, e il
paventato pregiudizio alla statica dell’edificio porta a
ritenere sussistente l’interesse al ricorso di chi agisce
contro il provvedimento che ha permesso la realizzazione
delle nuove opere.
E’ altresì infondata l’eccezione di difetto di
legittimazione del condominio, in quanto lo stesso fa valere
non un preteso diritto di proprietà sulle fondazioni e sulla
proiezione verticale verso il basso dell’edificio ovvero un
diritto pro quota dei singoli condomini, ma la pretesa alla
legittimità dell’azione amministrativa, cui precipuo
obiettivo è quello della completa verifica della sussistenza
di tutti i presupposti per il rilascio del titolo edilizio,
primo fra tutti l’accertamento della sicurezza statica della
erigenda costruzione nel complesso delle edificazioni in cui
la stessa si inserisce, accertamento particolarmente
delicato trattandosi di opera in zona sismica.
In realtà -premesso che legittimazione ed interesse a
ricorrere si esauriscono nella mera affermazione (e non
nella prova) della necessità di tutela giurisdizionale
derivante dalla lesione di un proprio interesse, perché
legittimazione ed interesse non sono altro che modalità
della domanda giudiziale, ma non attengono ancora al merito-
si ritiene che non possa essere fondatamente messa in
discussione la legittimazione a ricorrere per opere che
vengono localizzate in territorio prossimo a quello di
residenza.
Sono, infatti, “legittimati all'impugnazione coloro che
possono lamentare una pregiudizievole alterazione del
preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto
della realizzazione dell'intervento controverso” (Trga
Trento 46/2010), e il paventato pregiudizio alla statica
dell’edificio porta a ritenere sussistente l’interesse al
ricorso di chi agisce contro il provvedimento che ha
permesso la realizzazione delle nuove opere
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.08.2014 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' incontestata
acquisizione giurisprudenziale l’avviso che l’avvenuta
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in
uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che
in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria
l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva
contraria e positiva determinazione dell’amministrazione,
mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza
stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista
efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per
far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del
provvedimento di rigetto della domanda di conservazione.
Si è infatti precisato che “la validità ovvero l’efficacia
dell’ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla
successiva presentazione di un’istanza ex art. 36 del D.P.R.
n. 380/2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una
previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto,
sicché, se, da un lato, la presentazione dell’istanza ex
art. 36 cit. determina inevitabilmente un arresto
dell’efficacia dell’ordine di demolizione, all’evidente fine
di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la
demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o
difformità dal permesso di costruire, è conforme alla
strumentazione urbanistica vigente, dall’altro, occorre
ritenere che l’efficacia dell’atto sanzionatorio sia
soltanto sospesa, cioè che l’atto sia posto in uno stato di
temporanea quiescenza. All’esito del procedimento di
sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di
demolizione rimarrà privo di effetti in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento della
presentazione della domanda, con conseguente venir meno
dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola
precisazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato
dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso”.
Più di recente la Sezione ha ribadito che “L’avvenuta
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in
uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che
in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria
l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva
contraria e positiva determinazione dell’amministrazione,
mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza
stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista
efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per
far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del
provvedimento di rigetto della domanda di conservazione”.
Con il secondo motivo la ricorrente si
duole che le opere de quibus, pur prive di titolo
legittimante, sarebbero assentibili ex post mediante la c.d.
sanatoria formale, nella specie rappresentata dall’istanza
di sanatoria ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 presentata al
Comune il 19.07.2007, non ostando alla piena conformità
dell’opus realizzato, rilevanti interessi di tutela
paesaggistica di contrario segno.
Tale doglianza non trova concorde il Collegio alla luce
della pacifica giurisprudenza del Tribunale, espressa più
volte anche dalla Sezione, in ordine all’irrilevanza
inficiante l’ordinanza demolitoria che va predicata con
riguardo alla successiva istanza di accertamento di
conformità.
Si rammenta in proposito come sia incontestata acquisizione
giurisprudenziale l’avviso che l’avvenuta presentazione di
un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida
l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di
temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di
accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza
demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e
positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso
di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la
pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia,
decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo
alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di
rigetto della domanda di conservazione.
Si è infatti precisato che “la validità ovvero l’efficacia
dell’ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla
successiva presentazione di un’istanza ex art. 36 del D.P.R.
n. 380/2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una
previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto,
sicché, se, da un lato, la presentazione dell’istanza ex
art. 36 cit. determina inevitabilmente un arresto
dell’efficacia dell’ordine di demolizione, all’evidente fine
di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la
demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o
difformità dal permesso di costruire, è conforme alla
strumentazione urbanistica vigente, dall’altro, occorre
ritenere che l’efficacia dell’atto sanzionatorio sia
soltanto sospesa, cioè che l’atto sia posto in uno stato di
temporanea quiescenza. All’esito del procedimento di
sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di
demolizione rimarrà privo di effetti in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento della
presentazione della domanda, con conseguente venir meno
dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola
precisazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato
dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso”
(cfr. in questo senso, TAR, Campania Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961 e C.d.S., sez. IV, 19.02.2008,
n. 849 ord.).
Anche la Sezione ha di recente sposato il rassegnato
indirizzo: TAR Campania–Napoli, Sez. III, 05.12.2012,
n. 4941; ID: 17/05/2012, n. 2887.
Più di recente la Sezione ha ribadito che “L’avvenuta
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in
uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che
in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria
l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva
contraria e positiva determinazione dell’amministrazione,
mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza
stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista
efficacia (in tal senso, da ultimo TAR Campania–Napoli,
Sez. III, 28.01.2013 n. 651; ID, 05.12.2012, n. 4941),
decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo
alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di
rigetto della domanda di conservazione” (TAR Campania–Napoli, III, 22.02.2013
n. 1070)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 4492 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per giurisprudenza
costante l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e
dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi,
escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del
procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di
demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento
e l’inutilità della partecipazione del destinatario.
Più di recente la Sezione ha confermato l’avviso in ordine
all’irrilevanza viziante dell’omessa comunicazione di avvio
del procedimento.
Con il terzo mezzo
la deducente rubrica violazione dell’art. 7, L. n. 241/1990
ed eccesso di potere per violazione del giusto procedimento,
lamentando di non aver ricevuto la comunicazione dell’avvio
del procedimento sfociato nell’adozione del provvedimento
sanzionatorio impugnato.
Anche questa censura è infondata e va disattesa, poiché
per giurisprudenza costante l’ordine di demolizione, in
quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato,
presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle
medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del
procedimento (TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666;
TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710;
TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499; TAR Campania–Napoli,
Sez. IV, 17.01.2007, n. 357).
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi,
escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del
procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di
demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento
e l’inutilità della partecipazione del destinatario (TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.2012, n. 3302).
Più di recente la Sezione ha confermato l’avviso in ordine
all’irrilevanza viziante dell’omessa comunicazione di avvio
del procedimento: TAR Campania–Napoli, sez. III 10.10.2013 n. 4534; ID, 26.09.2013, n. 4450; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 26.06.2013 n. 3328; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 22.02.2013
n. 1069 (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 4492 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza anche di recente ha precisato
che “Il sequestro di un immobile abusivo non determina
l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione, ma soltanto
l'eventuale differimento del termine fissato per la rimessa
in pristino, decorrente dalla data del dissequestro penale,
che sarà onere dell'interessato richiedere tempestivamente”.
Anche la Sezione aveva del resto già enunciato il principio
illustrato avendo affermato che “È legittima l'ordinanza di
demolizione che ha ad oggetto immobili realizzati
abusivamente che siano sottoposti a sequestro penale, in
quanto è onere del responsabile domandare all'autorità
giudiziaria il dissequestro dell'immobile al fine di
ottemperare all'ordine di demolizione”.
Con il quarto ed
ultimo motivo la ricorrente lamenta l’illegittimità
dell’ordinanza impugnata per non aver tenuto conto che è
stata adottata per opere sottoposte a sequestro giudiziario,
circostanza dalla quale discenderebbe l’impossibilità per la
destinataria, di prestare ottemperanza all’intimazione di
demolirle effettuata dal Comune.
La doglianza è destituita di fondamento, avendo la
giurisprudenza anche di recente precisato che “Il sequestro
di un immobile abusivo non determina l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione, ma soltanto l'eventuale
differimento del termine fissato per la rimessa in pristino,
decorrente dalla data del dissequestro penale, che sarà
onere dell'interessato richiedere tempestivamente”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.01.2014 n. 1804).
Anche la Sezione aveva del resto già enunciato il principio
illustrato avendo affermato che “È legittima l'ordinanza di
demolizione che ha ad oggetto immobili realizzati
abusivamente che siano sottoposti a sequestro penale, in
quanto è onere del responsabile domandare all'autorità
giudiziaria il dissequestro dell'immobile al fine di
ottemperare all'ordine di demolizione” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 13.04.2011, n. 2136) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 4492 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In materia di demolizione di immobili abusivi,
attesa la natura vincolata del potere, non è configurabile
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente, che il tempo non può, di
per sé, legittimare in via di fatto.
Inoltre, in caso di ordine di demolizione, non è richiesta
una specifica motivazione che dia conto della valutazione
delle ragioni di interesse pubblico sottese alla
determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto
il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è
costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua
assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove
ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato
con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla
loro accertata abusività.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che –previa trattazione unitaria dei motivi di gravame- i
ricorsi vadano rigettati ove si consideri che, in materia di
demolizione di immobili abusivi, attesa la natura vincolata
del potere, non è configurabile alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di illecito permanente,
che il tempo non può, di per sé, legittimare in via di
fatto.
Inoltre, in caso di ordine di demolizione, non è
richiesta una specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla
determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto
il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è
costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua
assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove
ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato
con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla
loro accertata abusività (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III,
04.02.2012, n. 227; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
09.02.2012, n. 693)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.08.2014 n. 4491 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In caso di ordine di demolizione ed anche di
acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una
specifica motivazione che dia conto della valutazione delle
ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione
assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il
presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito
esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in
difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la
conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti
requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione
delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata
abusività.
---------------
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione e lo stesso provvedimento
di acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non
devono essere preceduti da tale comunicazione, perché
trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle
medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che
ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n.
241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in
cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato".
Circa l’asserita violazione dell’art. 3
della Legge n. 241/1990, il Collegio osserva che, in caso di
ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio
dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia
conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico
sottese alla determinazione assunta o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione
dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla
constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo
abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il
provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con la descrizione delle opere
abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr.
TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 04.02.2012, n. 227; TAR
Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2012, n. 693).
Risultano parimenti infondate le censure di natura
procedimentale, coerentemente a quanto affermato dalla
Sezione (da ultimo, n. 203/2014) allorché si è statuito che
l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione e lo stesso provvedimento
di acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto. I provvedimenti
repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere
preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre,
seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art.
21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990
(introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui
dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato"
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.08.2014 n. 4490 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In materia di demolizione di immobili abusivi,
attesa la natura vincolata del potere, non è configurabile
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente, che il tempo non può, di
per sé, legittimare in via di fatto.
Per tali motivi non è meritevole di condivisione la censura
che in termini di violazione di legge viene sviluppata con
riguardo all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, ove si consideri
che ai sensi del comma terzo dell’invocata disposizione
normativa <<Se il responsabile dell'abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area
di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non
può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva
superficie utile abusivamente costruita>>.
La norma in esame conferisce evidentemente al Comune il
potere di dichiarare l’acquisizione in relazione ad un’area
maggiore rispetto a quella sulla quale è stata realizzata la
costruzione abusiva, ma nella specie, senza avvalersi di
tale facoltà, il Comune si è limitato a disporre
l’acquisizione delle sole opere abusive realizzate dalla
ricorrente, indicandole esattamente nell’impugnato
provvedimento.
---------------
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere
edilizie abusivamente realizzate costituisce una misura di
carattere sanzionatorio che consegue automaticamente
all'inottemperanza all'ordine di demolizione; né in senso
ostativo all'acquisizione può assumere rilevanza l'assenza
di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico
perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa
l'interesse all'adozione della misura, stante la natura
interamente vincolata del provvedimento, sicché risulta
necessario solo che in detto atto siano esattamente
individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze
urbanistiche.
Tuttavia, non potendosi ragionevolmente ritenere che il
Legislatore abbia rimesso la determinazione dell'ulteriore
area acquisibile al puro arbitrio dell'Amministrazione,
quest’ultima è tenuta a specificare, volta per volta, in
motivazione le ragioni che rendono necessario disporre
l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione
l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione.
L'acquisizione opera di diritto e automaticamente allo
scadere del termine stabilito, con la conseguenza che
l'accertamento all'inottemperanza all'ingiunzione ha solo
valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari, cosicché la sua
notifica all'interessato ha una sua esclusiva funzione
certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di
proprietà.
---------------
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non
devono essere preceduti da tale comunicazione, perché
trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle
medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che
ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n.
241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in
cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato".
La Sezione ritiene nella fattispecie di
dover premettere che, in materia di demolizione di immobili
abusivi, attesa la natura vincolata del potere, non è
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può, di per sé, legittimare in via di fatto.
Per tali motivi non è meritevole di condivisione la
censura che in termini di violazione di legge viene
sviluppata con riguardo all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, ove
si consideri che ai sensi del comma terzo dell’invocata
disposizione normativa <<Se il responsabile dell'abuso non
provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il
bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo
le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non
può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva
superficie utile abusivamente costruita>>.
La norma in esame conferisce evidentemente al Comune il
potere di dichiarare l’acquisizione in relazione ad un’area
maggiore rispetto a quella sulla quale è stata realizzata la
costruzione abusiva, ma nella specie, senza avvalersi di
tale facoltà, il Comune di Acerra si è limitato a disporre
l’acquisizione delle sole opere abusive realizzate dalla
ricorrente, indicandole esattamente nell’impugnato
provvedimento (<<opere edili descritte…foglio n. 53 p.lla 981
sub.21>>).
Ora l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle
opere edilizie abusivamente realizzate costituisce una
misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza all'ordine di
demolizione; né in senso ostativo all'acquisizione può
assumere rilevanza l'assenza di motivazione specifica sulle
ragioni di interesse pubblico perseguite mediante
l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione
della misura, stante la natura interamente vincolata del
provvedimento, sicché risulta necessario solo che in detto
atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le
relative pertinenze urbanistiche.
Tuttavia, non potendosi
ragionevolmente ritenere che il Legislatore abbia rimesso la
determinazione dell'ulteriore area acquisibile al puro
arbitrio dell'Amministrazione, quest’ultima è tenuta a
specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che
rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad
indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene
disposta l'acquisizione. L'acquisizione opera di diritto e
automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la
conseguenza che l'accertamento all'inottemperanza
all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione
in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari,
cosicché la sua notifica all'interessato ha una sua
esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento
del diritto di proprietà.
Parimenti infondate sono le censure di natura
procedimentale, essendo orientamento della Sezione (da
ultimo, n. 203/2014) che l'esercizio del potere repressivo
degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa
acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto. I provvedimenti
repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere
preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre,
seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art.
21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990
(introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui
dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato"
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.08.2014 n. 4484 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Poiché le procedure di
gara non sono state definitivamente aggiudicate, nessun
affidamento tutelabile può essere sorto in capo all’odierna
ricorrente, essendo fisiologico che all’aggiudicazione
provvisoria, che costituisce ancora un mero atto
endoprocedimentale, possa non conseguire quella definitiva,
tanto è vero che si ritiene in giurisprudenza che se
l’amministrazione decide di revocare, in sede di autotutela,
il provvedimento di aggiudicazione provvisoria, l'avvio del
relativo procedimento non deve essere neppure notificato al
soggetto provvisoriamente aggiudicatario, siccome titolare
di una aspettativa di mero fatto.
Infondata è anche la censura con cui essa si
duole dell’omessa ponderazione dell’affidamento che avrebbe
legittimamente maturato in qualità di aggiudicataria delle
due gare.
Infatti, poiché le procedure di gara non sono state
definitivamente aggiudicate, nessun affidamento tutelabile
può essere sorto in capo all’odierna ricorrente, essendo
fisiologico che all’aggiudicazione provvisoria, che
costituisce ancora un mero atto endoprocedimentale, possa
non conseguire quella definitiva (cfr., ex multis, C.d.S.,
sez. III, 28.02.2014, n. 942), tanto è vero che si
ritiene in giurisprudenza che se l’amministrazione decide di
revocare, in sede di autotutela, il provvedimento di
aggiudicazione provvisoria, l'avvio del relativo
procedimento non deve essere neppure notificato al soggetto
provvisoriamente aggiudicatario, siccome titolare di una
aspettativa di mero fatto (ex ceteris, cfr. C.d.S.,
sez. V, 18.07.2012, n. 4189)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.08.2014 n. 4481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' pacifico che debbano
intendersi per costruzioni soggette a concessione edilizia,
ai sensi dell'art. 1 della l. 28.01.1977 n. 10, tutti i
manufatti che alterassero lo stato dei luoghi in modo non
irrilevante e non meramente occasionale, in quanto destinati
a soddisfare esigenze costanti nel tempo, anche se non
infissi al suolo ma semplicemente aderenti allo stesso, a
prescindere dai materiali usati e dalle tecniche
costruttive.
Con riferimento alla normativa vigente
all’epoca, è pacifico che dovevano intendersi per
costruzioni soggette a concessione edilizia, ai sensi
dell'art. 1 della l. 28.01.1977 n. 10, tutti i
manufatti che alterassero lo stato dei luoghi in modo non
irrilevante e non meramente occasionale, in quanto destinati
a soddisfare esigenze costanti nel tempo, anche se non
infissi al suolo ma semplicemente aderenti allo stesso, a
prescindere dai materiali usati e dalle tecniche costruttive
(cfr., ex ceteris, TAR Campania, Napoli, 23.04.1999, n. 1094;
C.d.S., sez. V, 20.06.1987, n. 397) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.08.2014 n. 4479
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza è concorde nel senso che per
individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire
non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per
cui un’opera può anche non essere stabilmente infissa al
suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere
realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può
beneficiare del regime delle opere precarie.
Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per
la quale occorre la concessione edilizia e che possono
essere oggetto di domanda di condono in caso di
realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei
manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel
suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo
stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non
meramente occasionale, come impianti per attività produttive
all’aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Tanto premesso deve ritenersi che la natura “precaria” di un
manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore,
ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale
di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini
specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo
sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto
smontabile e/o non infisso al suolo.
Per quanto specificamente riguarda i possibili criteri
d’identificazione della natura precaria di un’opera, l’uno
strutturale (precario è ciò che non è stabilmente infisso al
suolo), l’altro funzionale (precario è ciò che è destinato a
soddisfare un'esigenza temporanea), ancora di recente è
stato ribadito che occorre seguire quello funzionale: «la
giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la
natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio
strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un’opera può
anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa
presenta la caratteristica di essere realizzata per
soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del
regime delle opere precarie. Rientrano quindi nella nozione
giuridica di costruzione, per la quale occorre la
concessione edilizia e che possono essere oggetto di domanda
di condono in caso di realizzazione delle stesse in sua
assenza, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come
impianti per attività produttive all’aperto ove comportino
l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione
permanente del suolo inedificato. Tanto premesso deve
ritenersi che la natura “precaria” di un manufatto, non può
essere desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve
ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a
un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente
che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o
non infisso al suolo» (cfr. C.d.S., sez. V, 27.03.2013 n.
1776).
Nel caso ora in esame, non vi è alcuna evidenza e non è
stato neppure allegato che il capannone fosse destinato ad
una necessità temporanea e contingente.
Il ricorrente si è limitato a sostenere che per i materiali
utilizzati e per il sistema di ancoraggio al suolo
(peraltro, non meglio specificati) il manufatto non avrebbe
potuto incidere irreversibilmente sull’assetto edilizio, ma
la tesi difensiva, alla luce del condivisibile indirizzo
interpretativo che si è appena ricordato, non può essere
condivisa (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.08.2014 n. 4479
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'interesse pubblico all'annullamento va ritenuto
sottinteso e relativo alle ordinarie esigenze di
salvaguardia dell'assetto territoriale come disciplinato
dalla normativa di piano, come, d’altra parte, rende
evidente il richiamo del provvedimento alla significativa e
permanente alterazione del territorio arrecata dal manufatto
autorizzato (della superficie di circa 300 mq.).
Non può configurarsi, inoltre, alcuna violazione dell'art.
21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 in relazione al tempo
trascorso dal rilascio dell’autorizzazione annullata,
poiché, se è vero che, ai fini della valutazione comparativa
tra interessi confliggenti, l’impegno motivazionale
dell’amministrazione deve essere tanto più intenso, quanto
maggiore sia l'arco temporale trascorso dall'adozione
dell'atto da annullare e solido appaia, pertanto,
l'affidamento ingenerato nel privato, nel caso di specie
l’arco temporale intercorso tra la data di adozione
dell’autorizzazione annullata, ossia il 24.10.2000, e
l'attivazione delle garanzie partecipative di cui al
procedimento di autotutela, da ascriversi alla comunicazione
di avvio del procedimento del 14.07.2003, consente di
qualificare tale periodo come “ragionevole” per un valido
esercizio della potestà di annullamento ai sensi dell'art.
21-nonies cit..
---------------
Quanto alla doglianza con cui il ricorrente lamenta l’omessa
valutazione della memoria presentata ai sensi dell’art.
10-bis della l. 07.08.1990 n 241, costituisce principio
consolidato quello per cui la norma in questione non impone
nel provvedimento finale la puntuale e analitica
confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte
privata, essendo sufficiente ai fini della sua
giustificazione una motivazione complessivamente e
logicamente resa a sostegno dell'atto stesso, la cui
solidità non è stata scalfita neppure nel corso del presente
giudizio.
---------------
Sebbene parte ricorrente si dolga che l’annullamento in
autotutela non sia stato preceduto dal parere della
Commissione edilizia comunale, nonostante il principio del
contrarius actus richiedesse l’osservanza delle stesse forme
e della medesima procedura seguita per l’atto da annullare,
non vi è evidenza alcuna che l’autorizzazione edilizia
annullata fosse stata preceduta dal parere della Commissione
edilizia (fermo che, per condivisibile orientamento
giurisprudenziale, anche se in sede di rilascio di un titolo
edilizio sia stato acquisito il parere della Commissione
edilizia, si può prescindere dall’acquisire tale parere
all'atto dell'annullamento d'ufficio del titolo abilitativo
nelle ipotesi in cui il provvedimento di autotutela sia
supportato da evidenti ragioni di tipo giuridico oppure
presenti carattere vincolato e non discrezionale).
Non sono meritevoli di accoglimento neppure le rimanenti
censure.
L'interesse pubblico all'annullamento va ritenuto sottinteso
e relativo alle ordinarie esigenze di salvaguardia
dell'assetto territoriale come disciplinato dalla normativa
di piano (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 26.10.2011, n. 4923), come, d’altra parte, rende evidente il
richiamo del provvedimento alla significativa e permanente
alterazione del territorio arrecata dal manufatto
autorizzato (della superficie di circa 300 mq.); non può
configurarsi, inoltre, alcuna violazione dell'art. 21-nonies
della l. 07.08.1990 n. 241 in relazione al tempo
trascorso dal rilascio dell’autorizzazione annullata,
poiché, se è vero che, ai fini della valutazione comparativa
tra interessi confliggenti, l’impegno motivazionale
dell’amministrazione deve essere tanto più intenso, quanto
maggiore sia l'arco temporale trascorso dall'adozione
dell'atto da annullare e solido appaia, pertanto,
l'affidamento ingenerato nel privato, nel caso di specie
l’arco temporale intercorso tra la data di adozione
dell’autorizzazione annullata, ossia il 24.10.2000, e
l'attivazione delle garanzie partecipative di cui al
procedimento di autotutela, da ascriversi alla comunicazione
di avvio del procedimento del 14.07.2003, consente di
qualificare tale periodo come “ragionevole” per un valido
esercizio della potestà di annullamento ai sensi dell'art.
21-nonies cit.
Quanto alla doglianza con cui il ricorrente lamenta l’omessa
valutazione della memoria presentata ai sensi dell’art. 10-bis della l.
07.08.1990 n 241, costituisce principio
consolidato quello per cui la norma in questione non impone
nel provvedimento finale la puntuale e analitica
confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte
privata, essendo sufficiente ai fini della sua
giustificazione una motivazione complessivamente e
logicamente resa a sostegno dell'atto stesso, la cui
solidità non è stata scalfita neppure nel corso del presente
giudizio.
Infine, sebbene parte ricorrente si dolga che l’annullamento
in autotutela non sia stato preceduto dal parere della
Commissione edilizia comunale, nonostante il principio del
contrarius actus richiedesse l’osservanza delle stesse forme
e della medesima procedura seguita per l’atto da annullare,
non vi è evidenza alcuna che l’autorizzazione edilizia
annullata fosse stata preceduta dal parere della Commissione
edilizia (fermo che, per condivisibile orientamento
giurisprudenziale, anche se in sede di rilascio di un titolo
edilizio sia stato acquisito il parere della Commissione
edilizia, si può prescindere dall’acquisire tale parere
all'atto dell'annullamento d'ufficio del titolo abilitativo
nelle ipotesi in cui il provvedimento di autotutela sia
supportato da evidenti ragioni di tipo giuridico oppure
presenti carattere vincolato e non discrezionale: cfr. TAR
Trentino Alto Adige, Trento, sez. I, 05.02.2012, n. 356;
C.d.S., sez. V, 12.05.2011, n. 2821; sez. IV, 17.05.2010, n.
3126 e 31.03.2009, n. 1909).
La relazione del dirigente tecnico richiamata
nell’autorizzazione annullata, invece, è palesemente un atto
istruttorio endoprocedimentale del medesimo funzionario che
ha adottato e sottoscritto l’atto finale e non un parere di
altro ufficio od organo che dovesse essere replicato in sede
di esercizio del potere di annullamento in autotutela (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.08.2014 n. 4479
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno
natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in
assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del
territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario.
Inoltre, l'omessa attuazione delle garanzie partecipative di
cui alla legge n. 241/1990 preclude, ai sensi dell'articolo
21-octies, secondo comma, prima parte, della legge n.
241/1990, l'annullamento del provvedimento sanzionatorio di
un'opera abusiva, stante sia il carattere vincolato del
provvedimento stesso, che l’evidenza della inidoneità della
partecipazione della parte interessata al procedimento, con
la conseguenza che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
In relazione alla prima
censura, si deve osservare che, per pacifica giurisprudenza,
gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura
urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza
di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con
la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario
(cfr. C.d.S., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; TAR
Campania, Napoli, sez. II, 07.06.2013, n. 3026).
Inoltre, sempre secondo il pacifico orientamento
giurisprudenziale formatosi sul punto, l'omessa attuazione
delle garanzie partecipative di cui alla legge n. 241/1990
preclude, ai sensi dell'articolo 21-octies, secondo comma,
prima parte, della legge n. 241/1990, l'annullamento del
provvedimento sanzionatorio di un'opera abusiva, stante sia
il carattere vincolato del provvedimento stesso, che
l’evidenza della inidoneità della partecipazione della parte
interessata al procedimento, con la conseguenza che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato (cfr. C.d.S., Sez. IV,
01.10.2007, n. 5049; C.d.S., Sez. IV, 10.04.2009, n.
2227; Cass. SS.UU., 25.06.2009, n. 14878)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
A norma degli articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001,
si verificano difformità totale del manufatto o variazioni
essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i
lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista
dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione,
destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità
parziale quando le modificazioni incidano su elementi
particolari e non essenziali della costruzione e si
concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non
incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
--------------
Un intervento abusivo che sia tale, per dimensioni e
consistenza, da snaturare le caratteristiche dell'edificio
originario è legittimamente sanzionato a termini dell'art.
31 (e non dell'art. 33), del T.U. Edilizia, che qualifica
come interventi eseguiti in totale difformità del permesso
di costruire quelli che comportano la realizzazione di un
organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche
tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello
oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi
edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da
costituire un organismo edilizio o parte di esso con
specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile,
sanzionando con la rimozione o la demolizione -e, in caso di
inottemperanza, con l'acquisizione di diritto del bene alla
mano pubblica- l'esecuzione di interventi in assenza di
permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con
variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'art. 32.
Al riguardo, occorre
quindi richiamare il pacifico orientamento giurisprudenziale
(C.d.S., Sez. IV, 27.11.1010, n. 8260; C.d.S., Sez. IV,
10.04.2009, n. 2227; C.d.S., Sez. V, 21.03.2011, n. 1726)
secondo il quale, <<a norma degli articoli 31 e 32 DPR n.
380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o
variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione,
allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella
prevista dall'atto di concessione per conformazione,
strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si
configura la difformità parziale quando le modificazioni
incidano su elementi particolari e non essenziali della
costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e
quantitative non incidenti sulle strutture essenziali
dell'opera>> (cfr., altresì, TAR Campania, Napoli, sez. IV,
08/05/2014, n. 2500, secondo cui <<un intervento abusivo
che sia tale, per dimensioni e consistenza, da snaturare le
caratteristiche dell'edificio originario è legittimamente
sanzionato a termini dell'art. 31 (e non dell'art. 33), del
T.U. Edilizia, che qualifica come interventi eseguiti in
totale difformità del permesso di costruire quelli che
comportano la realizzazione di un organismo edilizio
integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del
permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre
i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un
organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza
ed autonomamente utilizzabile, sanzionando con la rimozione
o la demolizione -e, in caso di inottemperanza, con
l'acquisizione di diritto del bene alla mano pubblica-
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
determinate ai sensi dell'art. 32>>) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La destinazione abitativa di un sottotetto, che
secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una
funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione
d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del
permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra
categorie non omogenee.
Il carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso
di costruire sono elementi sufficienti, ai sensi
dell’applicata disposizione normativa di cui all’art. 31
D.P.R. n. 380/2001, a rendere legittima l'adozione
dell'impugnata ordinanza di demolizione.
Infine, <<il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi
contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se
non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio
può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai
fini della legittimità dell'ordine demolitorio>>.
In relazione al secondo, si deve osservare che le suindicate
caratteristiche dei manufatti realizzati ne imponevano
l’assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Oltre alla già citata giurisprudenza del giudice
amministrativo, si veda, altresì, Cassazione penale, Sez.
III, 8/03/2007, n. 17359, secondo cui <<la destinazione
abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti
urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce
mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il
rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la
variazione avviene tra categorie non omogenee>>).
Non sussistono quindi i lamentati vizi, in quanto il
carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso di
costruire sono elementi sufficienti, ai sensi dell’applicata
disposizione normativa di cui all’art. 31 D.P.R. n.
380/2001, a rendere legittima l'adozione dell'impugnata
ordinanza di demolizione.
In ordine alla richiesta di applicazione della sanzione
pecuniaria, si deve poi in contrario osservare che <<il
privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la
costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare
l'applicazione a suo favore della disposizione oggi
contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non
fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio
può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai
fini della legittimità dell'ordine demolitorio>> (cfr.
C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n. 4982; TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di
demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva
presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art.
art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un
tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della
domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento
di conformità determina inevitabilmente un arresto
dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine
di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di
sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia
dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno
dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia.
--------------
Il provvedimento che ordina la demolizione di manufatti
abusivi è atto dovuto in presenza di opere realizzate senza
alcun titolo abilitativo e quindi non abbisogna di congrua
motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso, la quale è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato
(- <<l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo
riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico, da indicare solo
nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla
conoscenza della commissione dell'abuso edilizio ed il
protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla
vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una
posizione di legittimo affidamento del privato>>; -
<<l'ordine di demolizione di una opera edilizia abusiva è
sufficientemente motivato con l’affermazione della accertata
abusività dell'opera stessa>>; - <<la motivazione
dell'ordine di demolizione sia pur sintetica è perfettamente
compatibile con le disposizioni normative di cui alla l. n.
241 del 1990 ed assolve, in concreto, alla funzione di
rendere ostensibile al destinatario l'iter logico seguito.
Invero, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
salvo ipotesi particolari delle quali non ricorrono gli
estremi nella fattispecie, non necessitano di alcuna
motivazione in ordine alla prevalenza dell'interesse
pubblico, perché la repressione degli abusi edilizi
costituisce un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non
gode di alcuna discrezionalità al riguardo>>).
In ordine alla terza
censura, occorre evidenziare che né la mera intenzione
dell’interessato di presentare istanza di sanatoria ex art.
36 D.P.R. n. 380/2001 per l’abuso contestato, né l’effettiva
presentazione successiva di tale istanza incidono sulla
legittimità del provvedimento di demolizione (che ovviamente
va valutata con riferimento alla situazione di fatto e di
diritto esistente al momento della sua emanazione).
Come inoltre chiarito dalla giurisprudenza anche di questa
Sezione, <<la validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di
demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva
presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art.
art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un
tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della
domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento
di conformità determina inevitabilmente un arresto
dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine
di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di
sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia
dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno
dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia>> (in termini,
C.d.S., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania,
Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961).
Per quanto riguarda la quinta censura, il Collegio si
limita infine a rilevare che il provvedimento che ordina la
demolizione di manufatti abusivi è atto dovuto in presenza
di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e quindi
non abbisogna di congrua motivazione in ordine all'attualità
dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, la quale
è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato (fra le tante: cfr. C.d.S. sez. V, 09.09.2013, n. 4470, secondo cui <<l’ordinanza di
demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente
motivata con riferimento all’oggettivo riscontro
dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità
di queste al regime del permesso di costruire, non essendo
necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico, da indicare solo nel caso di un lungo
lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione
dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da
evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo
affidamento del privato>>; C.d.S., sez. IV, 12.04.2011,
n. 2266, secondo cui <<l'ordine di demolizione di una opera
edilizia abusiva è sufficientemente motivato con
l’affermazione della accertata abusività dell'opera
stessa>>; TAR Campania Napoli, sez. II, 14.02.2011,
n. 922, secondo cui <<la motivazione dell'ordine di
demolizione sia pur sintetica è perfettamente compatibile
con le disposizioni normative di cui alla l. n. 241 del 1990
ed assolve, in concreto, alla funzione di rendere
ostensibile al destinatario l'iter logico seguito. Invero, i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, salvo
ipotesi particolari delle quali non ricorrono gli estremi
nella fattispecie, non necessitano di alcuna motivazione in
ordine alla prevalenza dell'interesse pubblico, perché la
repressione degli abusi edilizi costituisce un preciso
obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo>>) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel procedimento di
accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del
2001, il vizio connesso alla mancata previa comunicazione
dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di
sanatoria (dovuta in applicazione dell'art. 10-bis, l. n.
241 del 1990) risulta superabile ai sensi dell'art.
21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che, trattandosi di
attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
stabilito.
--------------
I provvedimenti di diniego di concessione di costruzione in
sanatoria devono essere congruamente motivati con
l'indicazione delle ragioni che ostano al suo rilascio e con
particolare riferimento alle norme urbanistiche violate, in
modo da consentire all'interessato da un lato, di rendersi
conto degli impedimenti che si frappongono alla
realizzazione del suo progetto e di poterlo adeguare alle
esigenze pubbliche che l'Amministrazione ha inteso tutelare
e, dall'altro, di confutare in maniera esaustiva la
legittimità del provvedimento davanti al giudice competente.
È quindi carente di motivazione, il diniego di concessione
in sanatoria fondato su un generico contrasto del progetto
edilizio con norme legislative e regolamentari in materia
edilizia, dovendo, invece, diffondersi il provvedimento di
diniego in ordine alle disposizioni che si assumono ostative
al rilascio del provvedimento concessorio.
Nella fattispecie in esame l’impugnato diniego di sanatoria
reca un generico riferimento al mancato rispetto della
<<distanza dal confine>> ed al contrasto del progetto con
<<gli strumenti urbanistici vigenti>>, senza la specifica,
necessaria, indicazione delle norme ritenute in concreto
violate.
Il suddetto diniego è pertanto illegittimo e deve essere
annullato.
La prima censura deve
essere disattesa, dal momento che nel procedimento di
accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del
2001, il vizio connesso alla mancata previa comunicazione
dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di
sanatoria (dovuta in applicazione dell'art. 10-bis, l. n.
241 del 1990) risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che, trattandosi di
attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
stabilito (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VII, 06.09.2012, n. 3775; TAR Campania, Napoli, Sez. II,
10.04.2013, n. 1903).
---------------
Per pacifico principio
generale, condiviso dal Collegio, <<i provvedimenti di
diniego di concessione di costruzione in sanatoria devono
essere congruamente motivati con l'indicazione delle ragioni
che ostano al suo rilascio e con particolare riferimento
alle norme urbanistiche violate, in modo da consentire
all'interessato da un lato, di rendersi conto degli
impedimenti che si frappongono alla realizzazione del suo
progetto e di poterlo adeguare alle esigenze pubbliche che
l'Amministrazione ha inteso tutelare e, dall'altro, di
confutare in maniera esaustiva la legittimità del
provvedimento davanti al giudice competente. È quindi
carente di motivazione, il diniego di concessione in
sanatoria fondato su un generico contrasto del progetto
edilizio con norme legislative e regolamentari in materia
edilizia, dovendo, invece, diffondersi il provvedimento di
diniego in ordine alle disposizioni che si assumono ostative
al rilascio del provvedimento concessorio>> (in termini,
TAR Toscana, Sez. II, 31/01/2000, n. 22; cfr., altresì,
TAR Lazio, Roma, Sez. II, 10/04/2001, n. 3092; TAR
Liguria, sez. I, 04/04/2014, n. 525).
Nella fattispecie in esame, come correttamente sostenuto dal
ricorrente, l’impugnato diniego di sanatoria reca un
generico riferimento al mancato rispetto della <<distanza
dal confine>> ed al contrasto del progetto con <<gli
strumenti urbanistici vigenti>>, senza la specifica,
necessaria, indicazione delle norme ritenute in concreto
violate.
Il suddetto diniego è pertanto illegittimo e deve essere
annullato (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Trattasi di due edifici che sono stati
realizzati, sebbene dall’allora unica proprietà, sulla base
di due diversi titoli rilasciati in epoche diverse (per
quanto riguarda l’edificio ora di proprietà della
ricorrente, il titolo risale al 1968, per quello
frontistante al 1969).
In ogni caso, anche a voler prescindere da tale dato di
fatto, si osserva che il rispetto delle distanze imposte dal
D.M. 1444/1968, art. 9, è norma che trova comunque
applicazione, senza che assuma alcuna rilevanza l’eventuale
unica proprietà dei due edifici (“...è assorbente la
contestazione…che l’art. 9 del D.M. 1444/1968, laddove
impone l’anzidetta distanza di 10 metri tra pareti
finestrate, prevale anche sulla disciplina regionale
eventualmente difforme e va pertanto applicata anche a corpi
distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa
l’ipotesi di sopraelevazione).
... per l'annullamento della nota prot. n. 027008.AOO.
Registro Ufficiale U. 0016870 del 09.04.2014, a firma del
Dirigente del Settore Urbanistica del Comune di Chioggia
avente ad oggetto: "Diniego alla domanda di permesso di
costruire presentata in data 24.10.2013 con numero 45851 di
protocollo", nonché di qualsivoglia atto ad esso
presupposto, antecedente, conseguente e connesso.
...
Il ricorso è infondato e quindi va respinto.
Assume, invero, preliminare e dirimente rilevanza il
profilo, evidenziato nel provvedimento impugnato,
interessante la mancata osservanza delle distanze dettate,
in termini inderogabili, dalla normativa statale (D.M.
1444/1968, artt. 8 e 9) onde assicurare il rispetto delle
distanze tra pareti finestrate, nella specie in rapporto
all’altezza di edifici frontistanti.
A tale proposito, va sottolineato, come comprovato
dall’amministrazione, che trattasi di due edifici che sono
stati realizzati, sebbene dall’allora unica proprietà, sulla
base di due diversi titoli rilasciati in epoche diverse (per
quanto riguarda l’edificio ora di proprietà della
ricorrente, il titolo risale al 1968, per quello
frontistante al 1969).
In ogni caso, anche a voler prescindere da tale dato di
fatto, si osserva che il rispetto delle distanze imposte dal
D.M. 1444/1968, art. 9, è norma che trova comunque
applicazione, senza che assuma alcuna rilevanza l’eventuale
unica proprietà dei due edifici (“...è assorbente la
contestazione…che l’art. 9 del D.M. 1444/1968, laddove
impone l’anzidetta distanza di 10 metri tra pareti
finestrate, prevale anche sulla disciplina regionale
eventualmente difforme e va pertanto applicata anche a corpi
distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa
l’ipotesi di sopraelevazione (cfr. sul punto, Cass. Civ.,
Sez. II, 27.03.2001, n. 4413)”, così, C.d.S, IV,
2483/2013).
Né, infine, è consentito, neppure in occasione
dell’applicazione della normativa sul “Piano Casa”,
derogare a tali parametri, essendo questi imposti al fine di
assicurare le condizioni di salubrità ed evitare la
creazione di dannose intercapedini
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 04.08.2014 n. 1137 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Costituisce
giurisprudenza amministrativa ormai consolidata che la
presentazione, in epoca successiva all’ingiunzione alla
demolizione, di istanza di accertamento di conformità
“produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento
e, quindi, improcedibile il ricorso proposto avverso la
stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il
riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, provocato da detta
istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa. Pertanto, il ricorso giurisdizionale
avvero un provvedimento sanzionatorio, proposto
anteriormente all'istanza di condono edilizio, deve
ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, spostandosi l'interesse del responsabile
dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già
adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento di
rigetto”.
Il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse;
costituisce, infatti, giurisprudenza amministrativa ormai
consolidata che la presentazione, in epoca successiva
all’ingiunzione alla demolizione, di istanza di accertamento
di conformità “produce l'effetto di rendere inefficace tale
provvedimento e, quindi, improcedibile il ricorso proposto
avverso la stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in
quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al
fine di verificarne l'eventuale sanabilità, provocato da
detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa. Pertanto, il ricorso giurisdizionale
avvero un provvedimento sanzionatorio, proposto
anteriormente all'istanza di condono edilizio, deve
ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, spostandosi l'interesse del responsabile
dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già
adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento di
rigetto” (Consiglio di Stato, sez. VI, 12.11.2008, n.
5846, TAR Lazio, Roma, sez. II, 10.05.2010, n.
10574)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 04.08.2014 n. 694 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
ambito amministrativo per ordinanze si intendono tutti
quegli atti che creano obblighi o divieti ed in sostanza
impongono ordini. Segnatamente, le ordinanze di necessità ed
urgenza sono statuizioni straordinarie adottate nei casi
espressamente previsti dalla legge, espressione di un potere
amministrativo “extra ordinem”, al fine di fronteggiare
situazioni di urgente necessità (in materia di ordine e
sicurezza pubblica nonché di sanità ed igiene pubblica), là
dove, all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari
posti a disposizione dal legislatore.
In ordine ai limiti, entro i quali può essere esercitato il
potere in questione, la recente giurisprudenza
amministrativa ha, in più occasioni, rimarcato che la
possibilità concessa all’amministrazione di adottare
provvedimenti, in deroga alla disciplina di legge, impone il
rigido rispetto di alcuni adempimenti a garanzia
dell’operato della stessa pubblica amministrazione. Tra
questi l’obbligo di munire i provvedimenti in questione di
una motivazione adeguata: … ”in grado di far comprendere le
ragioni del provvedimento e di adottare il provvedimento
all’esito di un’istruttoria congrua”.
Ne consegue che il ricorso al potere extra ordinem può
essere esercitato dall’amministrazione previa adeguata
istruttoria e con l’espressa indicazione delle ragioni di
necessità ed urgenza che lo giustificano.
---------------
Il potere dell’Autorità comunale di emanare ordinanze
contingibili ed urgenti postula, per giurisprudenza
costante, “la necessità di provvedere con immediatezza in
ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile,
cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari
apprestati dall'ordinamento”.
Allo stesso tempo va rimarcato che l’amministrazione può
utilizzare lo strumento in questione solo ove occorra far
fronte ad un’effettiva situazione di emergenza.
In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza
amministrativa secondo cui: “Il potere del Sindaco di
emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la
necessità di provvedere con immediatezza in ordine a
situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia
impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati
dall'ordinamento, nonché l'esistenza e l'indicazione nel
provvedimento impugnato di una situazione di pericolo, quale
ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel
caso in cui l'Amministrazione non intervenga prontamente”.
Con ricorso notificato il 27.07.2013, tempestivamente
depositato, la sig.ra P.P. ha impugnato l’ordinanza 28.06.2013, n. 321 con cui il Sindaco del Comune di
Frosinone aveva dichiarato l'inagibilità, il divieto
d'accesso, l’immediato sgombero e la messa in sicurezza del
fabbricato, sito in Frosinone, alla via Pozzillo, 15 (già
via del cipresso, 117), sul rilievo dell’asserita
inagibilità dell’immobile, anche al fine ... di salvaguardare
la pubblica e privata incolumità.
...
Osserva, preliminarmente, il Collegio che
in ambito amministrativo per ordinanze si intendono tutti
quegli atti che creano obblighi o divieti ed in sostanza
impongono ordini. Segnatamente, le ordinanze di necessità ed
urgenza sono statuizioni straordinarie adottate nei casi
espressamente previsti dalla legge, espressione di un potere
amministrativo “extra ordinem”, al fine di fronteggiare
situazioni di urgente necessità (in materia di ordine e
sicurezza pubblica nonché di sanità ed igiene pubblica), là
dove, all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari
posti a disposizione dal legislatore.
In ordine ai limiti, entro i quali può essere esercitato il
potere in questione, la recente giurisprudenza
amministrativa ha, in più occasioni, rimarcato che la
possibilità concessa all’amministrazione di adottare
provvedimenti, in deroga alla disciplina di legge, impone il
rigido rispetto di alcuni adempimenti a garanzia
dell’operato della stessa pubblica amministrazione. Tra
questi l’obbligo di munire i provvedimenti in questione di
una motivazione adeguata: … ”in grado di far comprendere le
ragioni del provvedimento e di adottare il provvedimento
all’esito di un’istruttoria congrua” (cfr. Tar Lazio, sez. III-quater, 15.09.2006, n. 8614).
Ne consegue che il ricorso al potere extra ordinem può
essere esercitato dall’amministrazione previa adeguata
istruttoria e con l’espressa indicazione delle ragioni di
necessità ed urgenza che lo giustificano.
E’ vero che l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 esclude
che, in ipotesi di adozione di provvedimenti contingibili ed
urgenti, l’Autorità procedente abbia necessità di comunicare
all’interessato, ai fini della validità del provvedimento
adottato, l’avvio del procedimento; è altrettanto vero,
tuttavia che, nella specie, in ragione della documentazione
prodotta in atti, sembra inequivocabilmente evincersi come
il provvedimento qui impugnato, pur rivestendo formalmente
le sembianze di un’ordinanza contingibile ed urgente al fine
di salvaguardare la pubblica e privata incolumità, non è
accompagnato dai requisiti necessari che caratterizzano
indefettibilmente tali atti eccezionali, attesa
l’inconsistenza di idonei accertamenti istruttori.
Il potere dell’Autorità comunale di emanare ordinanze
contingibili ed urgenti postula, infatti, per giurisprudenza
costante, “la necessità di provvedere con immediatezza in
ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile,
cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari
apprestati dall'ordinamento”.
Allo stesso tempo va rimarcato che l’amministrazione può
utilizzare lo strumento in questione solo ove occorra far
fronte ad un’effettiva situazione di emergenza.
In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza
amministrativa (cfr. Tar Toscana, sez. II, 09.04.2004, n.
1006), secondo cui: “Il potere del Sindaco di emanare
ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la necessità di
provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura
eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte
con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento,
nonché l'esistenza e l'indicazione nel provvedimento
impugnato di una situazione di pericolo, quale ragionevole
probabilità che accada un evento dannoso nel caso in cui
l'Amministrazione non intervenga prontamente”.
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata non appare
congruamente motivata là dove pone in correlazione
l’inagibilità del fabbricato e l’allegato pericolo per
l’igiene pubblica.
In effetti detta conclusione appare confermata dagli esiti
del successivo sopralluogo (cfr verbale 05.08.2013), là dove
si conferma l’assenza di elementi significativi che possano
compromettere la staticità del fabbricato o che possano
evidenziare pericoli imminenti per la pubblica e privata
incolumità.
Per le svolte considerazioni, l’ordinanza impugnata merita
di essere annullata
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 04.08.2014 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Per
mobbing deve intendersi una condotta
del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa,
continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un
lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con
comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e
sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria
gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione od alla vessazione del
lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua
salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del
datore di lavoro deve essere accertata la presenza di una
pluralità di elementi costitutivi quali: la molteplicità e
globalità di comportamenti a carattere persecutorio,
illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente
secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute
psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la
condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione
dell’integrità psicofisica del lavoratore ed, infine, la
prova dell’elemento soggettivo, ovvero dell’intento
persecutorio.
... occorre procedere ad una sintetica ricognizione dei
principi affermati da una giurisprudenza ormai univoca e
consolidata (dalla quale non si ravvisano ragioni per
discostarsi) sugli elementi costitutivi dell’azione di
mobbing, onde verificare se risultano rintracciabili nella
fattispecie controversa.
E’ stato, innanzitutto, rilevato che per mobbing deve
intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore
gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo,
tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di
lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente
ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui
rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di
un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla
vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto
lesivo della sua salute psicofisica e con l’ulteriore
conseguenza che, ai fini della configurabilità della
condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la
presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati:
a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a
carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti,
posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato
contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b)
dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del
superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica
del lavoratore;
d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento
persecutorio (Cons. St., sez. IV, 06.08.2013, n. 4135; sez.
VI, 12.03.2012, n. 1388).
Si è, poi, ulteriormente precisato che l'azione offensiva
posta in essere a danno del lavoratore deve essere
sistematica e frequente, deve essere posta in essere con una
serie prolungata di atti e di comportamenti e deve avere le
caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione
o rivelare intenti meramente emulativi (Cons. St., sez. IV,
19.03.2013, n. 1609).
Sotto il profilo del rilievo del fattore psicologico del
datore di lavoro, è stato, ancora, chiarito che la
sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata
dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o
discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo
finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti
e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di
provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso
alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del
lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è
inserito e che è imprescindibile ai fini dell'enucleazione
del mobbing (Cons. St., sez. IV, 16.02.2012, n. 815)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 01.08.2014 n. 4105 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'ordine
di demolizione di un fabbricato realizzato senza titolo
abilitativo, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato, che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di
fatto.
---------------
L’ordinanza di demolizione non deve essere preceduta né da
un avviso di avvio del relativo procedimento, né da alcuna
comunicazione ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 (peraltro,
neppure ipotizzabile, non essendovi stata alcuna istanza di
parte), anche in considerazione della consequenziale sua
intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del
1990.
---------------
L'art. 31, commi 2 e 3, d.P.R. n. 380 del 2001 -nelle
ipotesi in cui il proprietario dimostri la sua assoluta
estraneità all'abuso edilizio commesso da altri- fa
unicamente salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione … ”che lo
stesso sia stato impossibilitato ad eseguire”.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo dedotto è sufficiente richiamare il
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui:
“L'ordine di demolizione di un fabbricato realizzato senza
titolo abilitativo, come tutti i provvedimenti sanzionatori
in materia edilizia, è atto vincolato, che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di
fatto" (Consiglio di Stato, sez. IV 29/04/2014, n. 2228)
Analogamente deve essere respinta la seconda censura, attesa
la natura del provvedimento sanzionatorio impugnato da
qualificarsi atto doveroso e vincolato nel contenuto.
Ne consegue che l’ordinanza di demolizione non deve essere
preceduta né da un avviso di avvio del relativo
procedimento, né da alcuna comunicazione ex art. 10-bis, l.
n. 241 del 1990 (peraltro, neppure ipotizzabile, non
essendovi stata alcuna istanza di parte), anche in
considerazione della consequenziale sua intangibilità ai
sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990 (TAR
Campania sez. VII 05/03/2014 n.332)
Anche il terzo motivo deve essere respinto, dovendosi
ritenere che l'art. 31, commi 2 e 3, d.P.R. n. 380 del 2001
-nelle ipotesi in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri-
fa unicamente salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione … ”che lo
stesso sia stato impossibilitato ad eseguire” (TAR
Napoli sez. VII 13/02/2013 n. 873)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 01.08.2014 n. 685 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
sospensione dei lavori per fatti estranei alla volontà del
titolare della concessione edilizia costituisce fatto
interruttivo dei termini di esecuzione delle opere.
Il termine triennale di ultimazione dei lavori deve
ritenersi, infatti, interrotto o sospeso in presenza di un
factum principis che determini un impedimento assoluto alla
loro esecuzione, casistica nella quale ben può rientrare la
sospensione lavori disposta dal Pretore ex art. 1171 c.c.
per denunzia di nuova opera o di danno temuto.
L’appello è fondato e deve essere accolto.
Come emerge dai fatti rappresentati, non si sono mai
verificate le condizioni per la decadenza della concessione
edilizia rilasciata nel 1992 ai ricorrenti Mazzotti–Zani,
atteso che l’avvio dei lavori è intervenuto nei termini, ma
la loro esecuzione è stata sospesa dal Pretore di Rimini e
tale sospensione si è protratta dal 1993 al 1998, fino alla
sentenza della Corte di Appello di Bologna che ha escluso
che i limiti derivanti dalle disposizioni del d.p.r. n. 236
del 1988 comportassero l’inedificabilità dell’area, bensì
l’assunzione di particolari cautele nell’esecuzione delle
opere.
La sospensione dei lavori per fatti estranei alla volontà
del titolare della concessione edilizia costituisce fatto
interruttivo dei termini di esecuzione delle opere, sicché
impropriamente il provvedimento di autorizzazione del Comune
del 1998 parla di proroga del termine.
Il termine triennale di ultimazione dei lavori deve
ritenersi, infatti, interrotto o sospeso in presenza di un
factum principis che determini un impedimento
assoluto alla loro esecuzione, casistica nella quale ben può
rientrare la sospensione lavori disposta dal Pretore ex art.
1171 c.c. per denunzia di nuova opera o di danno temuto
(cfr., per tutte, Cons. stato, sez. V, 03.02.2000, n. 597;
30.09.1998, n. 1354; 23.11.1996, n. 1414; 12.12.1988, n.
885; 24.05.1988, n. 350).
La ricostruzione del succedersi temporale dei fatti e
l’improprio uso del termine “proroga” evidenziano
l’insussistenza dell’asserito obbligo di motivazione
ravvisato nella sentenza impugnata.
L’obbligo di motivazione sussiste, infatti, ove
l’amministrazione eserciti una facoltà e non già quando
l’atto è doveroso, come nel caso di specie, in cui la
concessione del termine è la necessaria conseguenza del
venir meno del fatto interuttivo del decorso dell’originario
termine di durata della concessione edilizia di cui trattasi
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.07.2014 n. 4020 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
le più recenti e condivisibili interpretazioni della
giurisprudenza amministrativa e costituzionale, discende la
riconduzione ex lege alla categoria dei beni culturali delle
piazze pubbliche, vie, strade ed altri spazi aperti urbani
appartenenti all’ente territoriale e realizzate da oltre
settant’anni, che presentano interesse artistico o storico,
indipendentemente dall’avvio del procedimento di verifica e
dalla specifica dichiarazione di interesse culturale
prevista dal successivo art. 13 del Codice, con la
conseguente immediata applicazione del regime di tutela
disciplinato dalla Parte Seconda del Codice.
---------------
La presenza del vincolo rende quindi applicabile la
disposizione dell’art. 49 (manifesti e cartelli
pubblicitari) per i beni culturali, e art. 153 (cartelli
pubblicitari) per i beni paesaggistici d.lgs. 22.01.2004, n.
42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, entrato in
vigore il 01.05.2004) -finalizzata alla cura dell’interesse
culturale e paesaggistico. Questa cura, anche per ragioni
costituzionali (posto che trova base nel principio
fondamentale dell’art. 9 Cost., secondo cui la Repubblica
tutela il patrimonio culturale), è preminente, nel senso che
anche nei casi in cui altra amministrazione presume la
compatibilità dell’installazione riguardo agli interessi di
sua propria cura, nondimeno occorre –a consentire di
legittimare definitivamente l’installazione– che vi sia,
quale presupposto provvedimentale, un concreto e positivo
giudizio di compatibilità culturale e paesaggistica
[mediante, per i beni culturali, il “previo parere
favorevole della soprintendenza sulla compatibilità della
collocazione o della tipologia dell'insegna con l'aspetto,
il decoro e il pubblico godimento (fruizione, nel testo dal
01.05.2004) degli edifici o dei luoghi soggetti a tutela” e,
per i beni paesaggistici, con “previo parere favorevole
della Regione [dal 2004: del soprintendente] sulla
compatibilità della collocazione o della tipologia
dell'insegna con l'aspetto, il decoro e il pubblico
godimento degli edifici o dei luoghi soggetti a tutela” (dal
01.05.2004 con “con i valori paesaggistici degli immobili o
delle aree soggetti a tutela”)].
... per l'annullamento:
-
della disposizione n. 1115 del 07/03/2006 di rimozione
impianto pubblicitario n. 888 installato in prossimità dei
Giardini Principessa Jolanda e ripristino dello stato dei
luoghi;
-
della nota 35029 del 23.12.2005 emessa dalla Soprintendenza
per i Beni Architettonici e Paesaggio di Napoli e Provincia,
che ha ordinato al Comune di Napoli il ripristino dello
stato dei luoghi;
...
La società Publionda s.r.l. espone di essere titolare di
autorizzazione concessa il 01.12.2005 dal Comune di Napoli,
di validità nove anni, per la installazione di un impianto
pubblicitario in Napoli alla via Capodimonte fronte
emiciclo, della tipologia cartello monofacciale di
dimensione mt 6 per 3, individuato con il n. 888, destinato
all’ affissione di manifesti di natura commerciale.
Con nota del 09.02.2006 il Comune le comunicava per conoscenza
l’esistenza di una denuncia della Soprintendenza per
interventi abusivi su area vincolata ai sensi del D.Lgs.
42/2004, relativo all’ installazione del cartello de quo,
invitando alla rimozione dello stesso, ed in data 01.03.2006
seguiva una comunicazione dell’ufficio comunale che
sollecitava un intervento risolutivo della problematica.
La ricorrente contesta la qualificazione di area vincolata
del sito ove è posto l’impianto, ed articola le seguenti
censure.
...
La tesi non convince.
In proposito soccorre il chiaro disposto degli artt. 10, 12
e 13 d.lgs. citato, che configurano un regime di tutela dei
beni elencati sino all’effettuazione della verifica di
interesse culturale, per cui non è conferente l’assunto
della società che, con specifico riferimento alle pubbliche
piazze, strade e vie menzionate all’art. 10, comma 4, lett.
g) (che riguarda il carattere di beni culturali di
“pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani
di interesse artistico o storico”), dell’art. 10, non
sussisterebbe un regime vincolistico ope legis, quantomeno
anteriormente alla attivazione da parte dell’ente
proprietario, per ciascun luogo, della procedura di cui agli
artt. 12 e 13 citati, supportata da congrua dimostrazione
dell’interesse storico o artistico di dette piazze, vie e
spazi urbani.
In sostanza, le citate disposizioni pongono una presunzione
di interesse culturale o storico del bene individuato ex lege fino a quando non sia stata effettuata la relativa
verifica , con una tutela cd. de jure di quei beni di
proprietà pubblica risalenti ad oltre 50 anni (oggi ad
oltre 70 anni per effetto della disposizione della legge
106/2011 in vigore dal 14.05.2011).
Dalla citata norma, secondo le più recenti e condivisibili
interpretazioni della giurisprudenza amministrativa e
costituzionale, discende la riconduzione ex lege alla
categoria dei beni culturali delle piazze pubbliche, vie,
strade ed altri spazi aperti urbani appartenenti all’ente
territoriale e realizzate da oltre settant’anni, che
presentano interesse artistico o storico, indipendentemente
dall’avvio del procedimento di verifica e dalla specifica
dichiarazione di interesse culturale prevista dal successivo
art. 13 del Codice, con la conseguente immediata
applicazione del regime di tutela disciplinato dalla Parte
Seconda del Codice (cfr., in questi termini: Cons. Stato,
sez. VI, 24.01.2011, n. 482; in precedenza, Corte
cost., 08.07.2010 n. 247; da ultimo, si veda la Direttiva
11.10.2012 del Ministro per i Beni e le Attività
Culturali, concernente “l’esercizio di attività commerciali
e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su
posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non
compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio
culturale”).
In definitiva, il vincolo in oggetto non necessita di
verifiche, perché è automatico a norma dell’art. 10, comma
1, del Codice, e dunque opera dal 01.05.2004, e non
risulta risolutiva la considerazione dell’avvenuto rilascio
di autorizzazione da parte del Comune di Napoli alla
installazione dell’impianto pubblicitario, in quanto ciò non
vale né ad escludere la sussistenza del vincolo, né comporta
che debbano ritenersi gravare sul Comune di Napoli tutti gli
adempimenti relativi all’acquisizione della valutazione di
compatibilità dell’installazione degli impianti coi i
vincoli esistenti (l’art. 2 del titolo IV del piano generale
degli impianti prevede che “Il richiedente è, comunque,
tenuto a produrre tutti i documenti ed a fornire i dati
ritenuti necessari al fine dell’esame della domanda” cfr. TAR
Campania n. 1527/2012, CdS n. 4010/2013) .
Non risulta determinante neppure la circostanza, su cui
parte ricorrente pone ripetutamente l’accento, che il sito
in questione non rientrasse negli elenchi di cui al P.G.I.,
atteso che quest’ultimo è precedente l'approvazione del
D.lgs. n. 42/2004.
La presenza del vincolo rende quindi applicabile la
disposizione dell’art. 49 (manifesti e cartelli
pubblicitari) per i beni culturali, e art. 153 (cartelli
pubblicitari) per i beni paesaggistici d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio,
entrato in vigore il 01.05.2004) -finalizzata alla cura
dell’interesse culturale e paesaggistico. Questa cura, anche
per ragioni costituzionali (posto che trova base nel
principio fondamentale dell’art. 9 Cost., secondo cui la
Repubblica tutela il patrimonio culturale), è preminente,
nel senso che anche nei casi in cui altra amministrazione
presume la compatibilità dell’installazione riguardo agli
interessi di sua propria cura, nondimeno occorre –a
consentire di legittimare definitivamente l’installazione–
che vi sia, quale presupposto provvedimentale, un concreto e
positivo giudizio di compatibilità culturale e paesaggistica
[mediante, per i beni culturali, il “previo parere
favorevole della soprintendenza sulla compatibilità della
collocazione o della tipologia dell'insegna con l'aspetto,
il decoro e il pubblico godimento (fruizione, nel testo dal
01.05.2004) degli edifici o dei luoghi soggetti a
tutela” e, per i beni paesaggistici, con “previo parere
favorevole della Regione [dal 2004: del soprintendente]
sulla compatibilità della collocazione o della tipologia
dell'insegna con l'aspetto, il decoro e il pubblico
godimento degli edifici o dei luoghi soggetti a tutela”
(dal 01.05.2004 con “con i valori paesaggistici degli
immobili o delle aree soggetti a tutela”)].
Dato che questo giudizio è procedimentalmente delineato
dalla disposizione del comma 2 di entrambi gli articoli come
un parere nei fatti vincolante (proprio perché attinente
alla cura di altri interessi pubblici), l’autorizzazione
“comunale” non può essere rilasciata se quel medesimo previo
parere è sfavorevole alla istanza ovvero manchi del
tutto, come nella specie.
Su tale presupposto, l’ordine di rimozione emesso dalla
Soprintendenza e fatto proprio dal Comune di Napoli risulta
congruamente motivato in riferimento all’esigenza di
tutelare la piena fruizione, anche visiva, del bene
pubblico, atteso che l’autorizzazione rilasciata dal Comune
di Napoli non contiene alcuna menzione dell’intervento
dell’autorità competente alla gestione del vincolo e dunque
del necessario parere favorevole di compatibilità .
Del resto, anche il comunale piano generale degli impianti
pubblicitari (approvato con delibera consiliare n. 419 del
24.10.1999), al titolo IV prevede all’art. 5
(“Rilascio”) la definizione del procedimento con atto
complesso per gli impianti da installare in zone vincolate,
richiedendo il consenso della Soprintendenza in caso vincoli
storico-artistici ovvero apposito provvedimento sindacale
per quelli ambientali. Pertanto, in mancanza di detto parere
preventivo, il procedimento autorizzatorio non poteva
neppure dirsi perfezionato.
Risulta conseguentemente legittima, in quanto atto
strettamente consequenziale e vincolato, la disposizione
dirigenziale 1115 del 01.03.2006 del Comune di Napoli con cui
si ordina la rimozione ad horas dell’impianto pubblicitario.
Quanto al verbale di accertamento di mancata rimozione
adottato il 10.10.2006 dal Dipartimento di polizia
municipale del Comune di Napoli con richiesta di pagamento
della sanzione di Euro 413,00, osserva il Collegio che si
tratta di atto privo di carattere provvedimentale, in quanto
riferito ad organi di polizia amministrativa, che si sono
limitati ad accertare la mancata esecuzione dell’ordine di
rimozione
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4203 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Premesso che il contributo
di costruzione è posto a carico del costruttore a titolo di
partecipazione del concessionario ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae, la deroga all’onerosità
della concessione ricorre nelle ipotesi tassativamente
previste dalla legge e, per quanto attiene in particolare la
lett. f) dell’art. 9 della l. 10/1977, se sussistano due
requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo
speciale regime di gratuità della concessione, l'uno
di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono
essere eseguite da un ente istituzionalmente competente, e
l'altro di carattere oggettivo per effetto del quale
la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di
interesse generale.
---------------
Il titolare della concessione edilizia è una società privata
che svolge un’attività commerciale e l'intervento realizzato
non costituisce espletamento di un'attività istituzionale o
di interesse pubblico, essendo le opere edilizie in
questione (un albergo) palesemente finalizzate ad
assecondare le finalità di lucro proprie del soggetto di
diritto privato. Pertanto, l'intervento edilizio è oneroso.
Altresì, deve pure escludersi la configurazione
dell’intervento quale opera interesse generale o di
urbanizzazione secondaria, in adesione a quanto sullo
specifico punto affermato dal Consiglio di Stato, con
riferimento a fattispecie concernente proprio la
realizzazione di un albergo a servizio dell’aeroporto di
Genova.
L’art. 9, lett. f), della legge n. 10/1977 -richiamato dalla
società ricorrente a sostegno del gravame- stabilisce che “il
contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto (…)
f) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o
di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
Premesso che il contributo di costruzione è posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all'insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae (cfr., C.S., V, 21.04.2006, n. 2258),
la deroga all’onerosità della concessione ricorre nelle
ipotesi tassativamente previste dalla legge e, per quanto
attiene in particolare la lett. f) dell’art. 9, citata, se
sussistano due requisiti che devono entrambi
concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della
concessione, l'uno di tipo soggettivo, per effetto
del quale le opere devono essere eseguite da un ente
istituzionalmente competente, e l'altro di carattere
oggettivo per effetto del quale la costruzione deve
riguardare opere pubbliche o di interesse generale (cfr.
C.S., V, 20.10.2004, n. 6818; C.S., VI, 05.06.2007, n. 2981;
C.S., IV, 02.03.2011, n. 1332; C.S., V, 07.05.2013, n.
2467).
Nella fattispecie difettano entrambi i requisiti.
Il titolare della concessione edilizia non riveste lo
status di soggetto pubblico o equiparato, essendo invece
una società privata che svolge un’attività commerciale, e
l'intervento realizzato non costituisce espletamento di
un'attività istituzionale o di interesse pubblico, essendo
le opere edilizie in questione (un albergo) palesemente
finalizzate ad assecondare le finalità di lucro proprie del
soggetto di diritto privato.
Sotto altro profilo deve pure escludersi la configurazione,
ai fini in questione, dell’intervento quale opera interesse
generale o di urbanizzazione secondaria, in adesione a
quanto sullo specifico punto affermato dal Consiglio di
Stato, con riferimento a fattispecie concernente proprio la
realizzazione di un albergo a servizio dell’aeroporto di
Genova (C.S., VI, n. 2981/2007, cit.).
Né può condividersi la questione di legittimità
costituzionale prospettata da parte ricorrente, attesa la
diversità delle situazioni che la legge disciplina
diversamente. Non appare infatti né incongruo, né
irragionevole, che l’esenzione dal pagamento del contributo
de quo sia limitata alle opere pubbliche o di
pregnante interesse pubblico, senza fine di lucro (TAR
Liguria, Sez. II,
sentenza 10.07.2014
n. 1098 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel caso di mancato
pagamento delle rate di contributi di concessione, non può
considerarsi rilevante la circostanza che il Comune non si
sia attivato per la riscossione nei confronti del
fideiussore che ha concluso il contratto di garanzia a prima
richiesta.
Il contratto di garanzia a prima richiesta, infatti, ha
aggiunto una posizione debitoria a quella dei debitori
principali, i quali, a seguito del loro inadempimento, sono
risultati tenuti a pagare senz'altro le differenze dovute ai
sensi dell'art. 3 della legge n. 47/1985, senza che questo,
però, comporti la doverosità della contestazione della
pretesa preventivamente nei confronti del garante.
Quanto, infine, alla mancata escussione del fideiussore, il
collegio non ha motivo di discostarsi dalla giurisprudenza
consolidata del Consiglio di Stato, secondo cui nel caso di
mancato pagamento delle rate di contributi di concessione,
non può considerarsi rilevante la circostanza che il Comune
non si sia attivato per la riscossione nei confronti del
fideiussore che ha concluso il contratto di garanzia a prima
richiesta.
Il contratto di garanzia a prima richiesta, infatti, ha
aggiunto una posizione debitoria a quella dei debitori
principali, i quali, a seguito del loro inadempimento, sono
risultati tenuti a pagare senz'altro le differenze dovute ai
sensi dell'art. 3 della legge n. 47/1985, senza che questo,
però, comporti la doverosità della contestazione della
pretesa preventivamente nei confronti del garante (v. C.S.,
V, 09.12.2013, n. 5880; C.S., IV, 10.08.2007, n. 4419) (TAR
Liguria, Sez. II,
sentenza 10.07.2014
n. 1098 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza evidenzia come, ai fini
dell'esenzione dal pagamento dagli oneri contributivi
relativi alla concessione edilizia, l'art. 9, comma 1, lett.
f), l. 28.01.1977 n. 10 richieda due requisiti che
devono concorrere contestualmente, l'uno di tipo soggettivo,
per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un
ente istituzionalmente competente e l'altro, di carattere
oggettivo, per effetto del quale la costruzione deve
riguardare opere pubbliche o di interesse generale.
Pertanto
l'esenzione è legittimamente negata per la costruzione di un
complesso abitativo realizzato da società privata per scopo
di lucro e destinato a residenza di anziani, trattandosi di
opera che non soddisfa direttamente un interesse pubblico ma
si pone, con riguardo ad esso, in rapporto di mera
strumentalità.
La censura è fondata e va accolta.
Occorre osservare come la questione in contestazione sia
relativa agli ambiti di applicazione soggettiva della
disposizione di cui alla legge 28.01.1977, n. 10 “Norme
per la edificabilità dei suoli” (normativa peraltro ora
trasfusa nel vigente D.P.R. 06.06.2001, n. 380), che,
all’art. 9 recante “Cessione gratuita”, individua i casi in
cui è esclusa la corresponsione di un contributo commisurato
all'incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo
di costruzione. In particolare, questo contributo non è
dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
La giurisprudenza in tema (da ultimo, Consiglio di Stato,
sez. V, 07.05.2013 n. 2467) evidenzia come, ai fini
dell'esenzione dal pagamento dagli oneri contributivi
relativi alla concessione edilizia, l'art. 9, comma 1, lett.
f), l. 28.01.1977 n. 10 richieda due requisiti che
devono concorrere contestualmente, l'uno di tipo soggettivo,
per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un
ente istituzionalmente competente e l'altro, di carattere
oggettivo, per effetto del quale la costruzione deve
riguardare opere pubbliche o di interesse generale. Pertanto
l'esenzione è legittimamente negata per la costruzione di un
complesso abitativo realizzato da società privata per scopo
di lucro e destinato a residenza di anziani, trattandosi di
opera che non soddisfa direttamente un interesse pubblico ma
si pone, con riguardo ad esso, in rapporto di mera
strumentalità.
Per altro verso, una diversa decisione più
risalente, evocata dalla parte appellata (Consiglio di
Stato, sez. V, 31.10.1992 n. 1145) aveva ritenuto che
anche la vendita di un terreno da parte di un privato ad un
ente pubblico, nella specie proprio l’INAIL, con contestuale
assunzione dell'obbligo di costruirvi un edificio da adibire
a sede dell'ente stesso, costituisce un'ipotesi
riconducibile nella previsione di cui all'art. 9, lett. l), l.
28.01.1977 n. 10 in forza della quale non è dovuto il
contributo di concessione ove l'opera sia realizzata
dall'ente istituzionalmente competente.
Osserva la Sezione come il tema del profilo soggettivo
appaia in questa sede dirimente, atteso che la norma in
esame impone che sia l’ente pubblico a realizzare l’opera,
ovviamente anche potendosi avvalere di soggetti privati.
Il primo giudice ha ben colto la centralità della questione,
tanto che il nucleo fondante della sentenza è teso a
indagare sulla natura del contratto intercorso tra la
Galassia Immobiliare s.r.l. e l’ INAIL. Afferma infatti il
TAR che, non essendo in questione l’aspetto oggettivo “è
invece in contestazione la sussistenza dell'elemento
soggettivo, ossia se l'opera in esame possa essere
considerata come realizzata da un ente istituzionalmente
competente al riguardo, ancorché, nel caso in esame,
l'esecutore materiale sia un privato imprenditore. Il
Collegio ritiene di dover fare applicazione del principio
giurisprudenziale secondo cui l'elemento soggettivo, che
determina la gratuità della concessione, è soddisfatto ogni
qualvolta sussista un collegamento giuridicamente rilevante
tra l'Amministrazione pubblica e il privato che realizza
l'opera per conto di essa”.
Per radicare tale conclusione, il TAR, esaminati gli
elementi di fatto ampiamente descritti sopra, afferma che
“in sostanza non si è trattato di una operazione economica
posta autonomamente in essere dalla ricorrente per
realizzare un edificio da collocare sul libero mercato
immobiliare (e da offrire ad incertam personam) al fine di
trarre il massimo profitto, ma di un intervento edilizio
(sostanzialmente su commissione), realizzato per soddisfare
le esigenze di uno specifico acquirente disposto
all'acquisto (al prezzo e alle condizioni da esso ritenute
congrue) una volta maturati tutti i presupposti per la sua
regolare e sollecita esecuzione”.
In sintesi, il primo
giudice ha ricondotto la fattispecie in esame nell’ambito
dell’appalto e non in quella della vendita di cosa futura,
ritenendo così sussistente il collegamento soggettivo e,
conseguentemente, l’esistenza di un titolo per l’esonero dal
pagamento del contributo di cui alla legge n. 10 del 1977.
La Sezione non condivide la posizione del TAR.
Occorre evidenziare come qui non sia in contestazione la
correttezza dell’inquadramento della fattispecie
contrattuale.
In questo senso, la giurisprudenza civile (da
ultimo, Cassazione civile, sez. II, 30.04.2012, n. 6636)
evidenzia come la distinzione tra appalto e vendita (e
vendita di cosa futura) si basa su due elementi: da un lato,
la volontà dei contraenti e, dall’altro, il rapporto fra il
valore della materia (prestazione di dare) ed il valore
della prestazione d'opera (prestazione di fare), da
considerare non in senso oggettivo (quale valore economico
della materia o dell'opera), bensì avuto riguardo alla
comune intenzione dei contraenti.
Pertanto, si è in presenza
d'un contratto d'appalto o d'opera se l'oggetto effettivo e
prevalente dell'obbligazione assunta dal
produttore-venditore è la realizzazione d'un opus unicum od
anche d'un opus derivato dalla serie, ma oggetto di
sostanziali adattamenti o modifiche a richiesta del
destinatario, laddove la fornitura della materia è un
semplice elemento concorrente nel complesso della
realizzazione dell'opera e di tutte le attività a tal fine
intese.
Al contrario, si è in presenza d'un contratto di
compravendita, se le attività necessarie a produrre il bene
costituiscono solo l'ordinario ciclo produttivo del bene,
che può anche concludersi con l'assemblaggio delle sue
componenti presso il destinatario, ma è la sola consegna del
bene stesso, l'effettiva obbligazione del
produttore-venditore, insomma, nella compravendita, oggetto
dell'obbligazione è un dare, nel contratto d'appalto o
d'opera, oggetto dell'obbligazione è un facere.
Ciò che è invece problematico è la possibilità stessa di
dare vita ad una riqualificazione del contratto, come
operata dal primo giudice, per un duplice ordine di ragioni.
La prima è assolutamente tranciante ed è di carattere
oggettivo.
Non può non notarsi come l’esito della disamina del TAR
sia fondamentalmente quello di affermare che, pur essendo
stato pubblicato un avviso per concludere un’operazione
economica di compravendita, anche di cosa futura, sarebbe
possibile per la pubblica amministrazione, in questo caso
l’INAIL, concludere un diverso contratto, ossia quello di
appalto. E ciò nonostante che anche il rapporto contrattuale
tra le parti qualifichi espressamente, all’art. 1 recante
“Oggetto”, la detta operazione come condotta ex art. 1472 c.c..
In concreto, il primo giudice, pur di fronte ad una espressa
qualificazione pattizia e al rispetto della procedura
finalizzata alla detta compravendita, ha riqualificato
l’operazione contrattuale senza rendersi conto che il
contratto, come derivante dalla lettura datane del TAR,
si connotava come nullo quanto meno sotto due diversi
profili: in primo luogo, trattandosi di una fattispecie
contrattuale formatasi in elusione della disciplina cogente
sulla contrattazione pubblica, l’appalto sarebbe un
contratto in frode alla legge, ex art. 1343, quindi con
causa illecita, quindi nullo e quindi, per ultimo,
assolutamente non produttivo di effetti (sui rapporti tra le
due tipologie contrattuali, vedi Consiglio di Stato, ad.
gen., 17.02.2000 n. 2 che precisa che l'istituto della
compravendita di cosa futura non è stato espunto
dall'ordinamento con il sopravvenire della più recente
legislazione sui lavori pubblici, salvo verificare se, in
concreto, l'amministrazione abbia stipulato un contratto di
vendita o di appalto: verifica che tuttavia va svolta, sul
piano del merito, secondo criteri di rilevazione -quali
intento delle parti, obbligazioni dedotte- elaborati dalla
giurisprudenza, i quali non intaccano, ma anzi
presuppongono, la distinzione giuridica fra i tipi negoziali
giuridicamente ammissibili); in secondo luogo, la nullità
sarebbe parimenti predicabile sulla carenza dei requisiti di
forma, atteso che il contratto stipulato è relativo alla
fattispecie della compravendita.
La seconda connotazione è di carattere soggettivo. Il TAR
ha interpretato il contratto intercorso tra Galassia
Immobiliare s.r.l. e INAIL e ha usato gli esiti di questa
interpretazione in malam partem contro un soggetto terzo,
ossia il Comune di Crema, il quale peraltro era legato con
un altro rapporto negoziale, ossia la convenzione di
lottizzazione, con la stessa Galassia Immobiliare s.r.l.. In
questo caso, non è stato condotto un vaglio sulla fides, di
cui all’art. 1366 c.c., e quindi sull’affidamento, in questo
caso dell’ente pubblico.
Le osservazioni appena svolte evidenziano quindi come la
decisione del TAR non abbia tenuto conto
dell’impossibilità dell’applicazione meccanica degli
strumenti ermeneutici civilistici in una fattispecie
strettamente regolata dalle regole pubblicistiche sugli
appalti, per cui ha proposto un’interpretazione del
contratto che ne avrebbe determinato la sua nullità, con le
ovvie conseguenze, anche di carattere restitutorio, tra le
parti.
Vero è, invece, che il contratto intercorso tra Galassia
Immobiliare s.r.l. e INAIL continua a essere qualificabile
unicamente come contratto di vendita di cosa futura, come
peraltro dimostrato dalla circostanza che, alla data del
rilascio della concessione edilizia, ossia il 23.09.2002, la Galassia Immobiliare s.r.l. non aveva alcun
rapporto negoziale con l'INAIL, né in relazione alla
vendita, atteso che il contratto che è stato stipulato oltre
un anno dopo, ossia il 18.12.2003; né in merito ad un
presunto contratto d'appalto, mai stipulato fra le parti.
Assodato che quindi il rapporto negoziale è quello
disciplinato dall’art. 1472 c.c., recante “Vendita di cose
future”, come desumibile sia dall’offerta di INAIL del 07.06.2000 come pure dall’art. 1 dello stesso contratto del
18.12.2003, deve ritenersi carente il requisito
soggettivo indispensabile per l’applicazione dell’art. 9,
lett. f), della legge 10 del 1977.
È, infatti, sicuramente vero che la ratio della disposizione
ora citata sia quella di incentivare l'esecuzione di opere
dalle quali la collettività possa trarre un utile ed evitare
che il soggetto che interviene per l'istituzionale
attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo
che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla
stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro
pagamento. Il beneficio dello sgravio si traduce, quindi, in
un abbattimento dei costi a cui corrisponde un minore
aggravio di oneri per gli utenti.
Tuttavia, nel caso in
esame, la tipologia contrattuale e la costruzione del
regolamento negoziale rendevano del tutto indipendenti le
due diverse serie procedimentali, per cui non può
concordarsi, nemmeno dal punto di vista funzionale, sulla
ricostruzione proposta dal primo giudice
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.07.2014 n. 3421 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Appalti con responsabilità solidale.
Tribunale di Reggio Emilia. In caso di vizi di progettazione.
In caso di vizi di progettazione negli appalti la
responsabilità è solidale se i danni sono provocati da più
soggetti e il committente può rivolgersi a tutti per
ottenere l'intero risarcimento. Il debitore escusso avrà poi
regresso verso ciascuno degli altri responsabili per la
ripetizione della parte da ognuno di essi dovuta, da
presumersi uguale se non c'è accertamento contrario. Per
ritenere la solidarietà di tutti nel risarcimento, è
sufficiente che le azioni o le omissioni di ciascuno abbiano
concorso a produrre l'evento.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di
Reggio Emilia, Sez. II civile,
sentenza 27.06.2014 n. 988, (tratta da
www.dirittodelrisparmio.it) in una controversia relativa a
lavori di progettazione e installazione di un impianto
termico.
I committenti, supponendo che il cattivo funzionamento dell'apparecchiatura fosse dovuto a un errore nel progetto,
avevano chiamato in causa solo il progettista, chiedendo il
risarcimento dei danni. Il convenuto chiamava in garanzia
anche l'appaltatore, il direttore dei lavori e il fornitore
dei materiali. In corso di causa veniva dunque disposta una
perizia tecnica che chiariva la sussistenza dei vizi e dei
malfunzionamenti del l'impianto nonché la responsabilità,
diretta o indiretta, a vario titolo e in misura diversa, di
tutti i convenuti, con obbligo di risarcitorie in solido.
Il giudice ha evidenziato:
a) che il progettista deve
risarcire il danno conseguente agli errori del l'opera
progettuale a lui riconducibile;
b) che l'appaltatore
(vincolato da una obbligazione di risultato) deve rispondere
in solido, sia nel caso in cui si sia accorto degli errori e
non li abbia denunciati al committente, sia nel caso in cui,
pur non essendosi accorto degli stessi, lo avrebbe potuto
fare con l'uso della normale diligenza;
c) lo stesso dicasi
per il fornitore dei materiali, nel caso in cui questi non
si sia limitato a vendere il materiale, ma abbia proceduto a
un sopralluogo senza segnalare le carenze funzionali;
d)
infine, il direttore dei lavori (obbligato a riscontrare la
conformità del l'opera al progetto) risponde per i vizi
derivanti sia dal mancato rispetto del progetto quanto da
carenze progettuali.
L'impegno dell'appaltatore di provvedere all'eliminazione
dei vizi, che può anche essere assunto tramite comportamenti
concludenti, implica il riconoscimento unilaterale della
loro esistenza, e costituisce un'obbligazione nuova rispetto
a quella ordinaria, soggetta a prescrizione decennale
(articolo Il Sole 24 Ore del
21.08.2014).
--------------
Massima
Appalto – vizi dell’opera per errori di progettazione –
responsabilità solidale di appaltatore e direttore lavori –
sussiste – limiti e condizioni -
Artt. 1667 e 2055 c.c.
Nel caso di vizi dell’opera derivanti da
una carente progettazione, l’appaltatore risponde, in solido
col progettista, sia nel caso in cui si sia accorto degli
errori e non li abbia tempestivamente denunciati, sia nel
caso in cui, pur non essendosi accorto degli errori, lo
avrebbe potuto fare con l’uso della normale diligenza;
conseguentemente, l’appaltatore è esentato da responsabilità
solo ove dimostri che gli errori non potevano essere
riconosciuti con l’ordinaria diligenza richiesta
all’appaltatore stesso, ovvero nel caso in cui, pur essendo
gli errori stati prospettati e denunciati al committente,
questi ha però imposto l’esecuzione del progetto, posto che
in tale eccezionale caso l’appaltatore ha agito come nudus
minister, a rischio del committente e con degradazione del
rapporto di appalto a mero lavoro subordinato.
Il direttore dei lavori risponde nei confronti del
committente non solo nel caso in cui i vizi dell’opera
derivino dal mancato rispetto del progetto, posto che tra
gli obblighi del direttore stesso vi è quello di riscontrare
la progressiva conformità dell’opera al progetto; ma
risponde anche, in solido con progettista e appaltatore,
anche nel caso i vizi derivino da carenze progettuali, posto
che è suo obbligo quello di controllare che le modalità
dell’esecuzione dell’opera siano in linea non solo con il
progetto, ma anche con le regole della tecnica, fino al
punto di provvedere alla correzione di eventuali carenze
progettuali.
L’impegno dell’appaltatore di provvedere all’eliminazione
dei vizi dell’opera, che può anche essere assunto tramite
comportamenti concludenti, implica il riconoscimento
unilaterale dell’esistenza dei vizi stessi, e dà vita ad
un’obbligazione nuova rispetto a quella ordinaria,
svincolata dai termini di decadenza e di prescrizione di cui
all’art. 1667 c.c. e soggetta invece all’originaria
prescrizione decennale
(massima tratta da www.dirittodelrisparmio.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La concessione urbanistica non esonera dal rispetto delle
norme.
Con la
sentenza 09.06.2014 n. 12956,
la Corte di Cassazione ha riaffermato il consolidato
principio secondo cui nelle controversie tra privati
derivanti dall'esecuzione di opere edilizie non conformi
alle prescrizioni di leggi o degli strumenti urbanistici
viene sempre e soltanto in rilievo la lesione di diritti
soggettivi attribuiti ai privati dalle norme medesime, anche
se trattasi di norme non integrative di quelle dettate dal
codice civile in materia di distanze fra le costruzioni,
mentre la rilevanza giuridica della concessione edilizia si
esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra
l'amministrazione e il richiedente.
La conseguenza è che, ove dette norme siano state violate,
il diritto del vicino alla riduzione in pristino (o al
risarcimento del danno) non trova deroga per il fatto che la
costruzione sia stata realizzata in base a concessione
edilizia e resta pertanto tutelabile davanti al giudice
ordinario, senza necessità di una preventiva decisione del
giudice amministrativo in ordine alla legittimità o meno del
provvedimento di concessione e senza che occorra neppure una
delibazione di detto provvedimento, in via meramente
incidentale, da parte del giudice ordinario.
Il permesso a costruire della Pa - Ne consegue che
l'esistenza di un permesso a costruire rilasciato dalla
pubblica amministrazione non esonera dal rispetto delle
norme dettate in tema di distanze legali, per cui, in caso
di loro inosservanza, ben può il proprietario vicino
chiedere la riduzione in pristino mediante eliminazione
dell'opera. In altre parole, i rapporti tra i privati
restano regolati alla stregua della disciplina fissata dal
diritto comune, con le consentite integrazioni della
normativa speciale ed alle norme in ordine al diritto di
proprietà ed alle relative limitazioni, legali o
convenzionali.
I precedenti - Il principio riprende un consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo il titolo edilizio
assentivo è un atto amministrativo che rende legittima
l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico e regola
il rapporto che in relazione a quell'attività si pone in
essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il
soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a
tale soggetto diritti soggettivi verso i terzi al riguardo
dell'attività stessa, la cui liceità, rispetto a costoro,
deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina
fissata dal diritto comune.
Per converso, ha avuto modo di precisare la giurisprudenza,
è da precisare che il solo fatto che una costruzione sia
sorta in mancanza del prescritto permesso a costruire, ove
non si sia avuta violazione delle norme cui sono riconnesse
le conseguenze previste dall'articolo 872, comma 2, del Cc,
non può essere causa di danno risarcibile a favore del
confinante, atteso che questo, anche se lamenti la lesione
di un suo personale interesse a seguito della costruzione
eseguita senza concessione, non è titolare di un diritto
soggettivo, la cui lesione possa dar luogo al risarcimento
del danno, a fronte delle norme che regolano, in ordine allo
jus aedificandi, il potere della Pa ispirato alla tutela
dell'interesse generale all'ordinato sviluppo edilizio.
In altri termini, la conformità o meno della costruzione al
permesso a costruire o perfino la costruzione senza permesso
è, nei rapporti tra privati, del tutto irrilevante, trovando
la tutela del diritto di proprietà fondamento soltanto nelle
norme che regolano i rapporti privatistici e non invece in
quelle, dirette alla Pa, intese a regolare, nel prevalente
interesse pubblico, l'ordinato sviluppo dell'attività
edilizia (tratto da
www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO:
Copertura dei box: pagano i proprietari e il condominio.
Immobili. Manutenzione ripartita al 50 per cento.
Le spese necessarie per
la manutenzione e il rifacimento dell'area condominiale
adibita a parcheggio che svolge anche la funzione di
copertura dei box sottostanti vanno sostenute in parti
uguali dal condominio e dai proprietari delle sottostanti
proprietà esclusive.
Lo ha ribadito il TRIBUNALE di Trento
con la
sentenza
01.04.2014 n. 417, che ha respinto
l'impugnazione proposta da un condomino contro la delibera
di riparto delle spese assunta dall'assemblea.
Per il giudice, infatti, allo stato di degrado dell'area in
questione avevano contribuito due fattori: il traffico dei
veicoli e l'omessa manutenzione da parte dei condomini.
Nella determinazione del criterio di riparto delle spese è
inoltre necessario considerare l'utilità derivante dal bene
comune; se è vero che l'area di transito è utilizzata da
tutti i condomini per accedere o per recedere oppure per
parcheggiare, è anche innegabile che nel contempo essa
riveste l'importante funzione di riparo e copertura dei
locali che stanno al di sotto.
Tenuto peraltro conto che,
nel caso esaminato, gli interventi non hanno riguardato solo
la pavimentazione dell'area a parcheggio, ma soprattutto
l'impermeabilizzazione della soletta, il giudice, peraltro
aderendo a precedenti giurisprudenziali (come la sentenza
15841/2011 della Cassazione), ha applicato in via analogica
l'articolo 1125 del Codice civile, secondo cui le spese per
la manutenzione e ricostruzione di volte e solai sono
sostenute in parti uguali dai proprietari dei due piani uno
all'altro sovrastanti.
Nel caso esaminato dal tribunale di Trento, non si ha una
utilizzazione particolare del solaio di copertura da parte
di un condomino rispetto agli altri, ma una utilizzazione
conforme alla destinazione tipica, anche se non esclusiva,
di tale manufatto da parte di tutti i condomini. L'area è
infatti utilizzata da questi ultimi sia come parcheggio, sia
per andare alle proprie unità immobiliari, ma riveste
contemporaneamente la funzione di riparo e copertura del
l'autorimessa.
Con questi presupposti, non può essere accolta la tesi del
condomino impugnante per cui, trattandosi di interventi
concernenti la praticabilità dell'area, le spese si
sarebbero dovute porre a carico dei proprietari utilizzatori
della stessa.
Va escluso invece che possa trovare giustificazione una
diversa misura di addebito tra i comproprietari in ragione
di un terzo al condominio e due terzi ai proprietari dei
locali sottostanti, come invece avevano in precedenza
ritenuto alcune sentenze, applicando l'analogo principio
dettato per i lastrici solari e andando in tal modo a
penalizzare i proprietari dei box, spesso vittime
incolpevoli di una cattiva manutenzione della sovrastante
area comune e di una incuria nella gestione di essa.
Non va peraltro dimenticato che il condominio è custode di
tutti i beni comuni e quindi anche dell'area adibita a
parcheggio. In tale veste risponde dei danni conseguenti a
negligenza nella manutenzione o, in genere, di quelli per
cui non abbia adottato tutte le necessarie misure per
evitarli.
La principale fonte di danni, in questi casi, è costituita
dalle infiltrazioni d'acqua. La responsabilità per quelli
causati alle unità immobiliari sottostanti all'area comune,
se dovuti a mancanza di manutenzione e/o di ricostruzione,
ha natura extracontrattuale e trova origine dalla violazione
del dovere di custodia previsto dall'articolo 2051 del
Codice civile (articolo Il Sole 24 Ore del
25.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Legittimità diniego sanatoria ex art. 181
del D.Lgs. 42/2004 per traliccio porta antenne.
Il giudizio negativo è giustificato dal fato che il
traliccio costituisce: “una presenza estremamente stridente
nel pregevole contesto circostante”, che “comporta
un’alterazione sostanziale sullo stato dei luoghi”, che
“rappresenta un elemento avulso e fortemente prevaricante
all’interno della zona collinare cittadina riconosciuta di
notevole interesse pubblico”, per ritenere conseguente
l’affermazione finale secondo cui si reputa che “la presenza
della struttura in questione pregiudichi fortemente
l’immagine della zona collinare cittadina e rappresenti un
intervento lesivo dei valori storici, architettonici e
paesaggistici tutelati dal vincolo”.
Si deve in ogni caso
chiarire che il d.lgs. n. 259/2003 ha disciplinato un
procedimento semplificato per la realizzazione delle
infrastrutture delle comunicazioni elettroniche ai soli fini
urbanistici, edilizi ed igienico sanitari, che è destinato a
prevalere unicamente sulla disciplina edilizia dettata con
il T.U. di cui al d.p.r. 380/2001, restando salva invece la
piena applicabilità delle norme a tutela paesaggistica.
Non
è corretta la tesi secondo la quale la realizzazione degli
impianti in questione tralicci compresi, persino se
risalenti nel tempo, dovrebbe ritenersi consentita
sull'intero territorio nazionale con riferimento a qualsiasi
tipo di destinazione di zona omogenea, concetto questo
chiaramente riferibile unicamente alle destinazioni di tipo
urbanistico. Infatti, è lo stesso d.lgs n. 259/2003,
all'art. 86, co. 4, a prevedere espressamente la soggezione
degli interventi di cui trattasi alle disposizioni di cui al
d.lgs. n. 42/2004.
5.1. L’eccezione è infondata.
5.2. Premessa la natura fondamentalmente duale, ovvero
complessa, dell’atto impugnato con il ricorso in primo
grado, data la natura vincolante e non solamente
obbligatoria del parere ostativo della Sovrintendenza
(definibile, sulla scorta di autorevole dottrina, come una
vera e propria “decisione preliminare”), è evidente
che il Ministero ha interesse a rivendicare l’applicabilità
alla fattispecie in contestazione del d.lgs. 42/2004, non
fosse altro perché in tale ambito il suo eventuale dissenso
non è superabile e ha quindi efficacia ostativa, a
differenza di quanto previsto invece dal d.lgs. 259/2003.
5.3. Né rileva, in senso contrario, il fatto che il Comune
non abbia proposto appello alla sentenza, sembrando prestare
acquiescenza ad essa (per quanto della conferenza di servizi
annunciata all’indomani della sentenza non si sia più avuto
alcuna comunicazione ufficiale), ove si consideri la natura
della procedura che è all’origine della vicenda e gli
interessi che vengono in evidenza e di cui, si vedrà,
l’Amministrazione dei beni culturali è principale tutore.
6. Infatti, è necessario ricordare e precisare come alla
base dell’atto di diniego impugnato con il ricorso in primo
grado vi fosse una richiesta di autorizzazione paesaggistica
in sanatoria, presentata dalla proprietà a norma dell’art.
181, co. 1-quater, del d.lgs. 42/2004, nell’ambito di un
procedimento sanzionatorio già avviato dall’Autorità per
un’ipotesi di abuso che, come noto, può avere rilevanza non
solo sul piano amministrativo.
6.1. Sul presupposto, peraltro non contestato neppure in
questa sede, che la zona in questione fosse sottoposta a
vincolo paesaggistico e che dovesse applicarsi la disciplina
prevista per i beni soggetti a tutela, era stata quindi la
stessa proprietà del bene a chiedere un accertamento sulla
compatibilità paesaggistica degli interventi effettuati in
precedenza sul proprio bene, senza richiamare né invocare in
alcun modo la disciplina di cui al d.lgs. 259/2003.
Il che si spiega anche in ragione del fatto che era stato
contestato un abuso (non semplicemente edilizio) e che non
si trattava di realizzare un nuovo intervento ma, semmai, di
sanare un intervento già realizzato, anni prima, in assenza
di autorizzazione paesaggistica.
6.2. In tale contesto, nel dare corso ad una domanda
proposta in tal senso, l’Amministrazione non poteva non fare
coerente e conseguente applicazione della disciplina che la
stessa parte privata aveva invocato per prima, finendo per
accertare, attraverso il parere della Sovrintendenza,
l’incompatibilità dell’intervento in questione, date anche
le dimensioni del traliccio, nell’ordine di 20 metri di
altezza.
Solamente in quel momento, e solamente quindi a seguito del
diniego ricevuto, la strategia difensiva dell’originaria
ricorrente è mutata radicalmente, spostando la propria
attenzione sul Codice delle comunicazioni elettroniche.
6.3. Al riguardo si deve in ogni caso chiarire come il
d.lgs. n. 259/2003 abbia disciplinato un procedimento
semplificato per la realizzazione delle infrastrutture delle
comunicazioni elettroniche ai soli fini urbanistici, edilizi
ed igienico sanitari (cfr. Cons. St., VI, n. 889/2006), che
è destinato a prevalere unicamente sulla disciplina edilizia
dettata con il T.U. di cui al d.p.r. 380/2001 (cfr. TAR
Lazio, Roma, II, n. 6056/2006), restando salva invece la
piena applicabilità delle norme a tutela paesaggistica
(cfr., già TAR Marche, n. 52/2004 e TAR Lazio, n.
2737/2007).
Non si reputa, pertanto, pertinente la giurisprudenza
richiamata dalle controparti (v., ad esempio, Cons. St., VI,
n. 4557/2010), secondo la quale la realizzazione degli
impianti in questione –tralicci compresi, persino se
risalenti nel tempo- dovrebbe ritenersi consentita
sull'intero territorio nazionale con riferimento a qualsiasi
tipo di destinazione di zona omogenea, concetto questo
chiaramente riferibile unicamente alle destinazioni di tipo
urbanistico.
La citata giurisprudenza, infatti, si riferisce alla
disciplina urbanistico-edilizia e non anche a quella
paesaggistica, rispetto alla quale è significativamente lo
stesso d.lgs. n. 259/2003, all'art. 86, co. 4, a prevedere
espressamente la soggezione degli interventi di cui trattasi
alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 42/2004.
6.4. Tanto chiarito in ordine a quale disciplina fosse da
applicare a fronte della domanda presentata in sede
amministrativa dalla proprietà, venendo ora ad esaminare il
parere della Sovrintendenza, reputa il Collegio che il
giudizio negativo in esso formulato si fondi su una
motivazione sufficientemente dettagliata e che rivela
l’esistenza di un’istruttoria all’apparenza completa ed
approfondita.
6.5. E’ sufficiente osservare, infatti, come il giudizio
negativo sia giustificato sul rilievo che il traliccio “costituisce
una presenza estremamente stridente nel pregevole contesto
circostante”, che “comporta un’alterazione
sostanziale sullo stato dei luoghi”, che “rappresenta un
elemento avulso e fortemente prevaricante all’interno della
zona collinare cittadina riconosciuta di notevole interesse
pubblico”, per ritenere conseguente l’affermazione finale
secondo cui si reputa che “la presenza della struttura in
questione pregiudichi fortemente l’immagine della zona
collinare cittadina e rappresenti un intervento lesivo dei
valori storici, architettonici e paesaggistici tutelati dal
vincolo”.
6.6. Giudizi circostanziati e articolati avverso i quali, a
ben vedere, la proprietà non ha opposto contestazioni di
sostanza, limitandosi a sostenere la tesi che in nome della
prevalenza delle comunicazioni elettroniche la tutela dei
beni culturali sarebbe per definizione recessiva (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 13.01.2014 n. 96 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Vincoli urbanistici non indennizzabili.
I vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla
previsione dell’articolo 2 della L. 19.11.1968, n.
1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni,
quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i
vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che
devono invece essere indennizzati, sono:
a) quelli
preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere
sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno
svuotamento incisivo della proprietà, se non
discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore
statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo
particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata
non irragionevole e non arbitraria ove non si compia
l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa
preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani
urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano
quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una
concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito
dell'art. 42 della Costituzione.
2.3. Fermo il detto convincimento, aderente al dato
letterale ivi contenuto, neppure persuade la ratio
della necessità di una interpretazione restrittiva della
detta disposizione, siccome postulato da parte appellante.
2.4. E’ ben vero che la legislazione nazionale è ancorata al
binomio vincolo conformativo/durata indeterminata, vincolo
espropriativo/scadenza prefissata.
Ma è altresì vero, che tale scissione concettuale “nasce”
a tutela della posizione del privato e si rende necessaria
alla stregua dei principi espressi dalla Corte
costituzionale, con la “storica” sentenza 20.05.1999,
n. 179 (dichiarativa dell'illegittimità costituzionale del
combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della
L. 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo comma, della L.
19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui consente
all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici
scaduti preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità,
senza la previsione di un indennizzo).
Il che ha portato la uniforme giurisprudenza amministrativa
ad affermare (ex multis Cons. Stato Sez. V,
13.04.2012, n. 2116) che “i vincoli urbanistici non
indennizzabili, che sfuggono alla previsione del predetto
articolo 2 della L. 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che
riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo
conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli
urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono
invece essere indennizzati, sono: a) quelli preordinati
all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente
espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo
della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel
tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso
l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di
condizioni di inedificabilità assoluta; b) quelli che
superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove
non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura
attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione
dei piani urbanistici esecutivi; c) quelli che superano
quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una
concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito
dell'art. 42 Cost..”.
Non apparirebbe quindi contrario ad alcun principio, né
collidente con la valutazione espressa dal Giudice delle
leggi, una prescrizione contenuta in una legge regionale che
prevedesse la perdita di efficacia anche dei vincoli
conformativi (mentre, al contrario, lo sarebbe certamente,
l’inversa ipotesi di una durata sine die di quelli
espropriativi).
E d’altro canto, allorché l’appellante richiama la
consolidata interpretazione del Giudice delle Leggi secondo
la quale “categorie” ed “istituti” contenuti del TU
edilizia e nel TU espropriazioni hanno natura generale e
vincolano i Legislatori regionali (ex aliis Corte
Cost. n. 303 del 2003) è poi “costretto” a mentovare
una disposizione del dPR n. 327/2001 (l’art. 9) che ben poco
ausilio può portare alla tesi dallo stesso patrocinata, in
quanto ivi è certamente affermato il principio della
decadenza del vincolo preordinato all’esproprio, ma non il
divieto di disporlo per quello zonizzante, per cui non è
agevole comprendere quale prescrizione “nazionale”
avrebbe violato il Legislatore regionale (e/o il Tar
nell’interpretare secondo lettera la prescrizione
legislativa regionale surriportata)
Se così è, e non pare al Collegio di ciò si possa dubitare,
non v’è ragione né esigenza di forzare la lettera della
prescrizione regionale in esame, limitandola ai vincoli di
natura espropriativa, laddove invece esse fa generico ed
indeterminato richiamo al “piano attuativo di iniziativa
privata” senza aggettivazioni (vedasi punto 5 della
memoria depositata in primo grado dalla resistente
amministrazione comunale e datata 20.02.2012).
2.5. Ne consegue che: stante la univoca interpretazione
della succitata norma, e la incontestata circostanza che
l’atto d’obbligo venne sottoscritto a più di 5 anni di
distanza dall’approvazione del RU non v’era neppure
necessità di interrogarsi sulla natura della prescrizione
attingente il compendio immobiliare di parte appellante, e
ciò sarebbe sufficiente a disattendere l’appello.
2.6. A fortiori, osserva comunque il Collegio che
neppure sotto tale ultimo angolo prospettico la critica
appellatoria è fondata.
Come è noto, per costante considerazione della dottrina e
della giurisprudenza i vincoli urbanistici non
indennizzabili, che sfuggono alla previsione del predetto
articolo 2 della L. 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che
riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo
conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli
urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono
invece essere indennizzati, sono: a) quelli preordinati
all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente
espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo
della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel
tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso
l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di
condizioni di inedificabilità assoluta; b) quelli che
superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove
non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura
attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione
dei piani urbanistici esecutivi; c) quelli che superano
quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una
concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito
dell'art. 42 Cost..
2.7. Nel caso di specie l’art. 7, lett. L.L.3 delle Norme
Urbanistiche del R.U., non contiene previsioni conformative
(siccome inesattamente affermato da parte appellante), bensì
sostanzialmente espropriative nella parte in cui contempla
la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria quali
la strada di collegamento tra le due vie esistenti (che
include la realizzazione di un ponte), ed un parcheggio
pubblico (opere di urbanizzazione che si trovano poi
specificamente dettagliate nel progetto approvato con
Deliberazione G.C. 07.07.2008, n. 90 (doc. 9), che, in
particolare, individua un’area complessiva di 1.670 mq. di
proprietà dell’Istituto Diocesano, da cedere gratuitamente
al Comune ai sensi dell’art. 127, comma 11, l.reg. n. 1/2005
previa realizzazione delle opere sopra ricordate).
Anche ad avviso del Collegio tale previsione avrebbe natura
sostanzialmente espropriativa. In particolare, non vale a
conferirle natura conformativa, contrariamente a quanto si
prospetta ex adverso, il fatto che sia attuabile ad
iniziativa privata: laddove la disciplina urbanistica
prevede la realizzazione di un’opera pubblica che comporta
l’azzeramento del diritto di proprietà dell’area su cui deve
essere costruita in quanto ne annulla ogni possibilità di
sfruttamento economico, essa configura un vincolo
sostanzialmente espropriativo.
Costante giurisprudenza che proprio in tema di opere di
urbanizzazione da realizzare a scomputo dei relativi oneri
ha avuto modo di affermare che le relative previsioni
urbanistiche, indipendentemente dal fatto che la
realizzabilità dell’opera sia per mano pubblica o privata,
hanno natura sostanzialmente espropriativa, in quanto
determinano ex lege
(v. art. 16 d.P.R. n. 380/2001 e il già citato art. 127
l.reg. n. 1/2005) la cessione gratuita della proprietà
dell’opera e della relativa area all’ente pubblico,
sottraendo la stessa al regime dell’economia di mercato (in
questo senso: Cons. Giust. Amm. Sic., 19.12.2008, n. 1113;
Tar Puglia, Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815; TAR Sicilia,
Palermo, sez. III, 07.05.2010, n. 6465; id., 22.04.2010, n.
5716).
Per altro verso, neppure può affermarsi che, avuto riguardo
alla concreta natura delle opere predette, si trattasse di
opere sfruttabili dal privato (ponte, strada, e parcheggio
pubblico).
Solo per quest’ultima (parcheggio) potrebbe residuare
qualche dubbio, sennonché anche la giurisprudenza “aperturista”
(di recente TAR Puglia Lecce Sez. III, 24.06.2011, n. 1142)
nel sottolineare che la destinazione nel P.R.G. a parcheggio
pubblico, non costituisce necessariamente e ontologicamente
un vincolo espropriativo, fa presente che dipende tale
qualificazione, in concreto, dalla effettiva incidenza che
la relativa previsione esplica sul contenuto del diritto di
proprietà, elemento questo che necessariamente va coordinato
con l'onere della prova.
Può dirsi pertanto che la destinazione a parcheggio
pubblico, impressa dallo strumento urbanistico, concreta
vincolo preordinato ad esproprio in quanto esula dall'ottica
della suddivisione zonale del territorio e mira a
individuare beni singolarmente determinati in vista della
creazione di un'area non edificata all'interno di zona a
spiccata vocazione edificatoria (Cassazione civile, sez. I,
07.02.2006, n. 2613), privando il bene di qualsiasi utilità
economica (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2014 n. 44
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono l. 326 del 2003, nozione di strutture
realizzate.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la
nozione di “strutture realizzate”, necessitanti di lavori di
completamento funzionale, postula che i manufatti abbiano
acquistato una fisionomia tale da renderne riconoscibile il
disegno progettuale e la destinazione debbano solo essere
completati ai fini della loro funzionalità, pertanto, l’art.
43, comma 5, l. 28.02.1985, n. 47, nella parte in cui
prevede il completamento di opere, va inteso nel senso che
deve trattarsi di semplici lavori strutturalmente necessari
alla funzionalità di quanto già edificato e non anche di
integrazione delle dette opere con interventi edilizi che
danno luogo di per sé a nuove strutture. Infatti, la norma
non impiega la dizione di costruzioni o opere “ultimate”,
cioè un manufatto completo almeno al rustico, privo solo
delle finiture, ma la diversa nozione di “strutture
realizzate”.
Quindi, si deve ritenere che la realizzazione
delle strutture può dirsi verificata anche se difettano le
tamponature esterne, nei termini in cui questo risultato
consenta comunque di percepire la concreta fisionomia del
manufatto e la sua destinazione: cioè di identificare nei
tratti essenziali l’opera da straordinariamente sanare e
completare.
1.2 A quest’ultimo riguardo, secondo la giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato, la nozione di “strutture
realizzate”, necessitanti di lavori di completamento
funzionale, postula che i manufatti “abbiano acquistato
una fisionomia tale da renderne riconoscibile il disegno
progettuale e la destinazione debbano solo essere completati
ai fini della loro funzionalità” (Cons. Stato, VI,
27.06.2008, n. 3286; V, 24.02.1999, n. 192), pertanto,
l’art. 43 cit., nella parte in cui prevede il completamento
di opere, va inteso nel senso che deve trattarsi di semplici
lavori strutturalmente necessari alla funzionalità di quanto
già edificato e non anche di integrazione delle dette opere
con interventi edilizi che danno luogo di per sé a nuove
strutture (Cons. Stato, IV, 30.06.2005, n. 3542; V,
19.10.2011, n. 5625).
Il detto precedente di questa VI sezione n. 3286/2008,
invocato dall’appellante, ha ritenuto sanabile la struttura
priva delle tamponature esterne (non così quello della IV
sezione n. 3542/2005).
1.3 Il Collegio è dell’avviso che debba darsi continuità al
precedente di questa Sezione.
Come ivi evidenziato, infatti, la norma non impiega la
dizione di costruzioni o opere “ultimate”, cioè un
manufatto completo almeno al rustico, privo solo delle
finiture, ma la diversa nozione di “strutture realizzate”.
Come in quel precedente, si deve ritenere che la
realizzazione delle strutture può dirsi verificata anche se
difettano le tamponature esterne, nei termini in cui questo
risultato consenta comunque -come qui appare- di percepire
la concreta fisionomia del manufatto e la sua destinazione:
cioè di identificare nei tratti essenziali l’opera da
straordinariamente sanare e completare.
2. Come osserva l’appellante, inoltre, non è pertinente il
riferimento, operato dal giudice di primo grado, all’art.
35, comma 13, l. n. 47 del 1985, a norma della quale il
presentatore di domanda di sanatoria può completare le opere
abusive purché abbia notificato al comune “il proprio
intendimento”, e abbia inoltre presentato alla stessa
autorità perizia giurata o documentazione avente data certa
“in ordine allo stato dei lavori abusivi”.
Questo onere comunicativo concerne però una fattispecie di
sanatoria diversa da quella qui in contestazione, vale a
dire quella generale di cui all’art. 31 della medesima l. n.
47 del 1985, concernente “le costruzioni e di altre opere
che risultino essere state ultimate” alla data ultima di
condonabilità. Le quali costruzioni o altre opere sono
quelle di cui stato realizzato il rustico ed occorra ancora
provvedere alle relative finiture.
Per contro, nel presente caso viene in rilievo la diversa
fattispecie, eccezionale, di edifici di cui sia stata
realizzata la sola struttura portante e non siano state
ultimate a causa di provvedimenti amministrativi o
giurisdizionali di sequestro (massima tratta da
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Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 39 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Alta velocità necessità barriere fonoassorbenti.
Illegittimità variante per interventi di mitigazione
acustica su ricettori isolati.
La mitigazione del rumore con apposite barriere è una misura
di prevenzione materiale degli effetti dell’inquinamento
acustico che va applicata secondo scelte tecniche da operare
non in ragione del solo costo economico ma anche, nei limiti
di ragionevolezza e proporzionalità, degli effetti e della
incidenza sugli interessi potenzialmente lesi da
quell’inquinamento.
Una barriera di mitigazione materiale
del rumore da alta velocità ferroviaria applicata al
ricettore anziché alla sorgente appare irragionevole e
sproporzionata. Essa infatti appare muovere dalla
considerazione del fenomeno dell’inquinamento acustico come
danno da circoscrivere a un puntuale immobile che ne sia
destinatario nella sua oggettiva materialità e nel suo uso
dal solo interno, quasi si tratti di un bilaterale rapporto
di scontato danno a cose anziché di prevenzione di un
effetto diffuso nell’ambiente circostante.
Invece si tratta
di contenere l’emissione, piuttosto che prevenire
l’immissione, di danni e disagi diffusi, da propagazione in incertam personam, che compromettono beni primari come la
salute umana e la qualità della vita (quiete) e la stessa
consistenza materiale delle cose altrui.
Nel merito, gli appelli sono infondati in quanto non può
condividersi l’interpretazione, prospettata dagli appellanti
RFI-Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e Consorzio Alta
Velocità Torino-Milano, dell’art. 4 (Infrastrutture di nuova
realizzazione con velocità di progetto superiore a 200 km/h)
del d.P.R. 18.11.1998, n. 459 (Regolamento recante norme di
esecuzione dell'articolo 11 della legge 26.10.1995, n. 447,
in materia di inquinamento acustico derivante da traffico
ferroviario), secondo cui valutazioni di opportunità, basate
anche solo su mere ragioni di convenienza economica,
potrebbero giustificare l’imposizione di soluzioni di
mitigazione acustica sul ricettore anziché sulla sorgente
del rumore.
Invero, la mitigazione del rumore con apposite barriere è
una misura di prevenzione materiale degli effetti
dell’inquinamento acustico che va applicata secondo scelte
tecniche da operare non in ragione del solo costo economico
ma anche, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità,
degli effetti e della incidenza sugli interessi
potenzialmente lesi da quell’inquinamento.
In questo quadro, una barriera di mitigazione materiale del
rumore da alta velocità ferroviaria applicata al ricettore
anziché –come qui domandato- alla sorgente appare
irragionevole e sproporzionata. Essa infatti appare muovere
dalla considerazione del fenomeno dell’inquinamento acustico
come danno da circoscrivere a un puntuale immobile che ne
sia destinatario nella sua oggettiva materialità e nel suo
uso dal solo interno, quasi si tratti di un bilaterale
rapporto di scontato danno a cose anziché di prevenzione di
un effetto diffuso nell’ambiente circostante. Invece si
tratta di contenere l’emissione, piuttosto che prevenire
l’immissione, di danni e disagi diffusi, da propagazione in
incertam personam, che compromettono beni primari
come la salute umana e la qualità della vita (quiete) e la
stessa consistenza materiale delle cose altrui. Dunque va
considerato che, ai fini dell’abbattimento del rumore
ferroviario mediante schermi fonoassorbenti o altri mezzi
passivi di contenimento, l’immobile andava seriamente preso
in considerazione come un ambiente di vita, con tanto di
spazio circostante, dal quale si va e si viene, ed
eventualmente (come è qui stato rappresentato) anche di una
fonte di reddito d’impresa.
Del resto, lo stesso art. 2, comma 1, della legge
26.10.1995, n. 447 (Legge quadro sull'inquinamento acustico)
definisce (lett. a)) “inquinamento acustico” tra
l’altro “l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo
o nell'ambiente esterno”; e (lett. e)) per “ricettore”
non solo l’edificio ma anche “le relative aree esterne di
pertinenza” ed altre aree all’aperto. E l’art. 4, comma
2, del d.P.R. n. 459 del 1998 enuncia con evidenza il
principio di una preferenza per le opere di mitigazione
sulla sorgente che non può, anche ai fini di
un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 3 e
32 Cost.), non essere considerato come tendenzialmente
generale.
Perciò, nei termini in cui è materialmente possibile, la
mitigazione materiale va senz’altro applicata “a monte”,
vale a dire nella maggior prossimità possibile alla sorgente
del rumore, in quanto posizione che massimizza l’effetto
schermante. A fronte di tali considerazioni circa i beni
sostanziali toccati, non appaiono ragionevoli valutazioni
restrittive, che possono apparire surrettiziamente tese a
mantenere integra, in loro danno, l’esternalizzazione del
costo dell’inquinamento.
Il quadro normativo di riferimento imponeva dunque, nel caso
di specie, all’Amministrazione di seguire, come bene
ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale, una linea
di priorità volta a privilegiare, sulla base delle
tecnologie disponibili, la soluzione meno gravosa per la
proprietà e la vita limitrofa.
Poiché tale priorità è stata disattesa senza alcuna
plausibile motivazione, la scelta progettuale adottata
risulta illegittima. La sentenza appellata merita, quindi,
conferma (massima tratta da
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Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 35 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità ordinanza demolizione al
proprietario attuale anche se non responsabile dell’abuso.
Secondo la prevalente giurisprudenza, l'ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente
essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche
se non responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto
che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e
che l'adozione dell’ordinanza, di carattere ripristinatorio,
non richiede l'accertamento del dolo o della colpa del
soggetto interessato.
Con il quinto mezzo l’istante sostiene che essa non potrebbe
rispondere delle violazioni, né potrebbe subirne le
conseguenti sanzioni, essendo estranea all’esecuzione
dell’opera.
Al riguardo è sufficiente osservare che, secondo la
prevalente giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione di una
costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto che
l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e che
l'adozione dell’ordinanza, di carattere ripristinatorio, non
richiede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto
interessato (per tutte, TAR Lazio, Latina, n. 1026/2008, TAR
Umbria, n. 477/2007, TAR Piemonte, I, 25.10.2006, n. 3836;
TAR Campania, Salerno, II, 15.02.2006, n. 96; TAR Lazio,
Roma, II, 02.05.2005, n. 3230; TAR Valle d'Aosta,
12.11.2003, n. 188) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.12.2013 n. 5567 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme in materia di partecipazione al
procedimento non vanno applicate necessariamente e
formalmente a qualunque ipotesi di azione amministrativa.
Così, ad esempio, attribuendosi valore decisivo al profilo
funzionale della partecipazione procedimentale, si è
ritenuto, talvolta, che non sussista l'obbligo della
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora non vi sia
alcuna utilità all'azione amministrativa che scaturisca
dalla comunicazione stessa; l'obbligo sarebbe sancito in
funzione dell'arricchimento che deriva all'azione
amministrativa, sul piano del merito e della legittimità,
dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, e,
qualora questo non sussista, tale comunicazione sarebbe
superflua e quindi l'obbligo non sussiste.
Analogamente, si è ritenuto che l'omissione della
comunicazione di inizio del procedimento comporti
l'illegittimità dell'atto conclusivo soltanto nel caso in
cui il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove
avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento
stesso, avrebbe potuto presentare osservazioni ed
opposizioni che avrebbero avuto la ragionevole possibilità
di avere un'incidenza causale nel provvedimento finale.
Nel caso in esame l'azione amministrativa è stata
determinata dalla necessità di ripristinare tempestivamente
la legittimità della stessa, violata attraverso l’abusiva
realizzazione delle opere in questione.
È ormai orientamento consolidato della giurisprudenza
amministrativa quello secondo cui le norme in materia di
partecipazione al procedimento non vanno applicate
necessariamente e formalmente a qualunque ipotesi di azione
amministrativa.
Così, ad esempio, attribuendosi valore decisivo al profilo
funzionale della partecipazione procedimentale, si è
ritenuto, talvolta, che non sussista l'obbligo della
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora non vi sia
alcuna utilità all'azione amministrativa che scaturisca
dalla comunicazione stessa; l'obbligo sarebbe sancito in
funzione dell'arricchimento che deriva all'azione
amministrativa, sul piano del merito e della legittimità,
dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, e,
qualora questo non sussista, tale comunicazione sarebbe
superflua e quindi l'obbligo non sussiste (TAR Lazio, Sez.
III, 17.06.1998, n. 1405).
Analogamente, si è ritenuto che l'omissione della
comunicazione di inizio del procedimento comporti
l'illegittimità dell'atto conclusivo soltanto nel caso in
cui il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove
avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento
stesso, avrebbe potuto presentare osservazioni ed
opposizioni che avrebbero avuto la ragionevole possibilità
di avere un'incidenza causale nel provvedimento finale.
Nel caso in esame l'azione amministrativa è stata
determinata dalla necessità di ripristinare tempestivamente
la legittimità della stessa, violata attraverso l’abusiva
realizzazione delle opere in questione.
Anche il contesto di fatto in cui si è mossa
l'Amministrazione presenta aspetti certi e incontestabili,
in quanto connesso a opere già eseguite, senza quindi la
necessità di acquisire l'apporto partecipativo del privato,
il quale non ha introdotto elementi tali da evidenziare
l’utilità della sua partecipazione al procedimento (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.12.2013 n. 5567 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità ordinanza demolizione di una
barriera metallica sopraelevata su preesistente
La mera sopraelevazione mediante saldatura sui monconi di
una preesistente ed autorizzata recinzione con paletti in
ferro, non è assoggettata al regime del permesso di
costruire, poiché la trasformazione edilizia è già diretta
conseguenza dell’opera preesistente autorizzata e il mero
prolungamento in altezza della pregressa barriera metallica
non aggiunge alcunché sotto il profilo urbanistico.
2.1. Fondato ed assorbente è il secondo motivo di gravame,
con il quale si rubrica violazione e falsa applicazione
degli artt. 31 e 37 del d.p.r. n. 380/2001 ed eccesso di
potere per difetto di presupposto.
In particolare la deducente lamenta che per l’abuso
contestatole, consistente nella sistemazione del fondo di
sua proprietà mediante estirpazione di arbusti, livellamento
del terreno con posa di pietrisco e completamento della
recinzione preesistente regolarmente autorizzata, non era
necessario il previo permesso di costruire, ragion per cui
la sanzione demolitoria è illegittima, presidiando la
demolizione la sola realizzazione di opere senza il
prescritto permesso di costruire, atteso che quanto alla
posa di pali in ferro sulla preesistente recinzione, tutt’al
più poteva essere ritenuta necessaria la DIA, la cui
mancanza comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria
ma non di quella reale demolitoria.
La censura è fondata avuto riguardo alle concreta attività
edilizia posta in essere dalla deducente.
Orbene, va debitamente considerato che la medesima già era
titolare del permesso di costruire in sanatoria n. 2/2007,
concernente la realizzazione di paletti in ferro ancorati
alla muratura perimetrale. L’abuso contestato con
l’ordinanza odiernamente al vaglio del Collegio si risolve,
dunque, nel prolungamento di detti preesistenti paletti
metallici mediante saldatura sui monconi di una propaggine
degli stessi, fino a raggiungere un’altezza di mt. 1,30.
2.2. Non sfugge, peraltro al Collegio che di recente la
Sezione è intervenuta in materia di titoli edilizi necessari
per realizzare opere di recinzione, distinguendo il caso
delle recinzioni precarie e facilmente amovibili, non
infisse al suolo con opere di muratura e perciò inidonee ad
immutare lo stato dei luoghi e a determinare trasformazione
edilizia, da quello delle recinzioni consistenti, infisse al
suolo con opere rilevanti e pertanto stabili e non
amovibili, integranti nuova costruzione e come tali
assoggettate al permesso di costruire.
Ha di recente precisato, infatti, che “Al fine di
stabilire se una recinzione sia assoggettata o meno a
permesso di costruire, occorre infatti accertarne la facile
rimuovibilità, la natura precaria o meno e l’idoneità ad
incidere o meno sull’assetto edilizio del territorio. E
siffatti caratteri vanno sicuramente ascritti al manufatto
realizzato dalla deducente, siccome stabilmente infisso al
suolo ed idoneo ad alterare permanentemente l’assetto
edilizio del territorio”, concludendo come in quel caso
“I paletti in questione risultano invece pacificamente
stabilmente infissi nel suolo, discendendone la necessità
del previo ottenimento del titolo abilitativo” (TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 26.06.2013, n. 3328).
Pur tuttavia, nel caso in esame, malgrado si sia al cospetto
della posa di una barriera metallica di 1,30 mt. di altezza,
deve fondatamente affermarsi che non era necessario il
permesso di costruire, in considerazione della circostanza
che la ricorrente era già titolare del permesso di costruire
in sanatoria n. 2/2007 che la legittimava a detenere una
barriera metallica composta da paletti in ferro
(presumibilmente infissi su cordolo di muratura).
La trasformazione edilizia era quindi già conseguenza di un
titolo autorizzatorio, ancorché in sanatoria, ragion per cui
l’abuso contestato alla deducente si risolve nel mero
prolungamento, mediante saldatura sui monconi, della
preautorizzata barriera metallica con paletti in ferro fino
a raggiungere la complessiva altezza suindicata.
2.3. Ritiene al riguardo il Collegio che la mera
sopraelevazione mediante saldatura sui monconi, di una
preesistente ed autorizzata recinzione con paletti in ferro,
non sia assoggettata al regime del permesso di costruire,
poiché la trasformazione edilizia è già diretta conseguenza
dell’opera preesistente autorizzata e il mero prolungamento
in altezza della pregressa barriera metallica non aggiunge
alcunché sotto il profilo urbanistico.
Ne consegue l’illegittimità della sanzione della demolizione
ingiunta con l’ordinanza impugnata, in violazione degli
artt. 31 e 37 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
L’annullamento dell’ordinanza di demolizione importa
conseguentemente l’accoglimento anche del ricorso per motivi
aggiunti, diretto contro i conseguenziali provvedimenti di
acquisizione al patrimonio previo accertamento
dell’inottemperanza alla demolizione (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.12.2013 n. 5616 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Legittimità annullamento autorizzazione ex
art. 151 D.Lgs. 490/1999, per 2 vasche idromassaggio
all’interno di stabilimento balneare.
Quanto alla motivazione che deve
assistere l’autorizzazione paesaggistica, la giurisprudenza
ha ripetutamente osservato come, anche in caso di
provvedimento positivo, l’Amministrazione sia tenuta ad
esplicitare le ragioni della ritenuta effettiva
compatibilità dell’intervento con gli specifici valori
paesaggistici dei luoghi, e debba per questo fornire tutti
gli elementi utili al riscontro dell’idoneità
dell’istruttoria, dell’apprezzamento delle varie circostanze
di fatto rilevanti nel singolo caso e della non manifesta
irragionevolezza del giudizio formulato circa la prevalenza
di un valore in conflitto con quello tutelato in via
primaria, di modo che l’insufficienza della motivazione,
costituendo un vizio di legittimità dell’atto, ne giustifica
per ciò solo l’annullamento da parte dell’Autorità statale
investita della verifica in sede di controllo.
Se, poi, l’annullamento è fondato su più vizi
dell’autorizzazione paesaggistica, il giudice chiamato a
sindacare la legittimità del provvedimento dell’Autorità
statale può limitarsi ad accertare la sussistenza del vizio
di motivazione dell’atto annullato senza necessità di
vagliare le altre irregolarità rilevate, alla luce del
consolidato principio per cui, quando il provvedimento
amministrativo sia sorretto da una pluralità di ragioni
giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente la
fondatezza anche di una sola di esse perché l’atto rimanga
legittimo.
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E’ legittimo l’annullamento del Soprintendente
dell'autorizzazione del Comune di Rimini ex art. 151 D.Lgs.
n. 490/1999, per l'installazione di 2 vasche idromassaggio
completamente interrate con pedana in legno all’interno di
stabilimento balneare.
Rileva la Soprintendenza che
l’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dall’Amministrazione comunale era nella circostanza priva di
indicazioni puntuali circa l’impatto dell’intervento
edilizio sull’area vincolata e circa la tollerabilità di una
simile trasformazione del territorio rispetto alla
salvaguardia dell’integrità dei valori ambientali oggetto di
tutela, e, pertanto, legittimamente ha annullato il
provvedimento abilitativo sottoposto al suo controllo.
2.Il ricorso è infondato.
In linea di diritto va osservato che, quanto alla
motivazione che deve assistere l’autorizzazione
paesaggistica, la giurisprudenza ha ripetutamente osservato
come, anche in caso di provvedimento positivo,
l’Amministrazione sia tenuta ad esplicitare le ragioni della
ritenuta effettiva compatibilità dell’intervento con gli
specifici valori paesaggistici dei luoghi, e debba per
questo fornire tutti gli elementi utili al riscontro
dell’idoneità dell’istruttoria, dell’apprezzamento delle
varie circostanze di fatto rilevanti nel singolo caso e
della non manifesta irragionevolezza del giudizio formulato
circa la prevalenza di un valore in conflitto con quello
tutelato in via primaria, di modo che l’insufficienza della
motivazione, costituendo un vizio di legittimità dell’atto,
ne giustifica per ciò solo l’annullamento da parte
dell’Autorità statale investita della verifica in sede di
controllo (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI,
22.03.2007 n. 1362).
Se, poi, l’annullamento è fondato su più vizi
dell’autorizzazione paesaggistica, il giudice chiamato a
sindacare la legittimità del provvedimento dell’Autorità
statale può limitarsi ad accertare la sussistenza del vizio
di motivazione dell’atto annullato senza necessità di
vagliare le altre irregolarità rilevate, alla luce del
consolidato principio per cui, quando il provvedimento
amministrativo sia sorretto da una pluralità di ragioni
giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente la
fondatezza anche di una sola di esse perché l’atto rimanga
legittimo (v. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 29.07.2008 n.
2195).
3. Nel caso concreto l’autorizzazione paesaggistica
rilasciata dal comune ha ritenuto che l’intervento sia
compatibile con il piano territoriale di coordinamento
provinciale; che non è ancora in vigore uno specifico
programma pianificatorio “piano dell’arenile”, a cui
rimanda il PRG, che regolamenti la localizzazione e le
caratteristiche di volumi analoghi al caso in esame
nell’ambito territoriale di specie; che l’area sulla quale
si interviene è situata nella fascia di arenile
tradizionalmente riservata ai servizi, a ridosso della
strada litoranea e quindi più arretrata rispetto alla linea
di battigia; che l’intervento in oggetto si configura come
installazione di strutture precarie, amovibili e temporanee;
che la struttura presenta dimensioni e caratteristiche tali
da non precludere ulteriormente la permeabilità visuale tra
la spiaggia e l’abitato retrostante; che per l’installazione
delle strutture di cui si tratta, non si prevede una
impermeabilizzazione aggiuntiva dei suoli.
4. Orbene, venendo al caso di specie, la Soprintendenza, nel
lamentare che l’intervento edilizio risulta incoerente con
la percezione armonica del paesaggio, -tenuto conto che “la
spiaggia per il suo rapporto fra l’interno e la battigia
rappresenta un’area in cui le visuali prospettiche
dall’entroterra verso il mare e da un punto all’altro della
costa si sommano e si concentrano in modo tale da esprimere
con grande intensità i valori paesaggistici dell’ambiente
del mare“ e che gli interventi in parola “addensano
l’aggregato della spiaggia, alterano in tal modo lo spazio
circostante pertinente l’intero sistema della costa, ormai
abbondantemente compresso anche dalle costruzioni degli anni
passati”-, pone a fondamento delle proprie conclusioni
critiche anche un inadeguato esercizio delle funzioni di
pertinenza dell’Amministrazione comunale, cui
sostanzialmente rimprovera di avere omesso di “…verificare
la compatibilità dell’opera che si intende realizzare con la
salvaguardia dei valori paesistici protetti dal vincolo …”
giacché non è “…concesso in sede autorizzatoria di
derogare all’accertamento di detti valori contenuto nel
relativo provvedimento …”; appare, insomma, lampante che
tra le censure mosse all’ente locale, allorché denuncia che
il “…provvedimento … è viziato da eccesso di potere …”,
l’Autorità statale abbia inteso riferirsi ad un difetto di
motivazione, per non avere l’ente dato rigorosamente conto
delle valutazioni operate e delle logiche seguite al fine di
approdare alla scelta di ammissibilità di un intervento
preordinato all’attuazione di valori diversi da quello
tutelato in via primaria.
In sostanza, rileva la Soprintendenza, con argomentazione
condivisa da questo TAR, che l’autorizzazione paesaggistica
rilasciata dall’Amministrazione comunale era nella
circostanza priva di indicazioni puntuali circa l’impatto
dell’intervento edilizio sull’area vincolata e circa la
tollerabilità di una simile trasformazione del territorio
rispetto alla salvaguardia dell’integrità dei valori
ambientali oggetto di tutela, e, pertanto, legittimamente ha
annullato il provvedimento abilitativo sottoposto al suo
controllo.
Né, d’altra parte, persuade l’assunto secondo cui, a ben
vedere, una più approfondita motivazione sul punto non
sarebbe stata necessaria –a fronte della preesistenza di un
piano particolareggiato che avrebbe già a suo tempo
accertato la conformità degli interventi in loco rispetto al
piano territoriale paesistico regionale e al piano
territoriale di coordinamento provinciale–, in quanto, ad
avviso del Collegio, in una pianificazione attuativa, sia
paesistica che urbanistica, per quanto minuziosa, non sono
certamente definite in concreto le dettagliate
caratteristiche delle opere edilizie che si possono
realizzare, essendo questo livello di specificazione proprio
della successiva fase di progettazione delle opere stesse e
non potendo la compatibilità ambientale ovviamente
prescindere da ciò che in realtà dovrà essere edificato.
5. Quanto alla dedotta violazione dell’articolo 7 della
legge n. 241 del 1990, per mancata comunicazione dell’avvio
del procedimento innanzi alla Soprintendenza, si deve
osservare che costituisce un orientamento consolidato di
questo Tribunale quello della non necessità di un formale
avviso di avvio del procedimento quando l'interessato abbia
avuto conoscenza del procedimento aliunde.
Ciò sia con riferimento alla legge n. 241 del1990 che
disciplina la generalità dei procedimenti amministrativi,
sia con riferimento allo speciale procedimento oggetto di
causa (vedi tra le tante Consiglio di Stato, sez. VI,
sentenza 22.02.2010, n. 1013; Consiglio di Stato, sez. VI,
sentenza 10.12.2009, n. 7756; Consiglio di Stato, sez. VI,
sentenza 09.02.2007, n. 533; TAR Campania–Napoli, sez. II,
08.01.2010, n. 19; TAR per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 344
del 10/03/2004, TAR per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 148
del 26/02/2013).
5.1.Nel caso concreto il provvedimento di autorizzazione
comunale specifica che il Ministero dei beni Culturali può
annullarlo nel termine di sessanta giorni dalla
comunicazione, il che dà notizia del fatto che
l’amministrazione avrebbe trasmesso copia del provvedimento
stesso al Ministero.
In tale contesto i ricorrenti conoscevano la pendenza del
procedimento davanti alla Soprintendenza; pertanto le
esigenze partecipative cui è preordinato l’articolo 7 della
legge 241 del '90 citata sono state, nel caso concreto,
soddisfatte.
5.2. Va, inoltre, osservato che, a fronte di un vizio
–carenza di motivazione in sede di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica– che per le sue
caratteristiche si sottrae ad apporti del privato
suscettibili di colmare la lacuna, in alcun modo la
partecipazione della ricorrente avrebbe potuto nella
fattispecie dare luogo ad un differente esito dell’attività
di riscontro della Soprintendenza per i Beni architettonici
e per il Paesaggio di Ravenna, sicché è legittimo invocare
il disposto di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241 del 1990, secondo il quale “non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio
del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato”
(cfr. TAR per l’Emilia Romagna, Bologna, sez. I, n. 13 del
10/01/2013) (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 05.12.2013 n. 790 -
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EDILIZIA PRIVATA: Diversità ontologica tra contributi per spese di
urbanizzazione e contributi dovuti per monetizzazione di
aree standard.
Fra i contributi per spese di urbanizzazione e i contributi
dovuti per monetizzazione di aree standard vi è una
diversità ontologica.
Infatti, i contributi della prima
specie sono dovuti per realizzare dette opere senza che
insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è
inserita l'area interessata all'imminente trasformazione
edilizia, e quindi, per così dire, a titolo di contributo
per i costi generali del Comune; i contributi della seconda
specie per contro riguardano aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all'interno della specifica zona di intervento, ovvero i
costi specifici inerenti all’intervento stesso.
In tale
ordine di idee, quindi, non vi è giustificazione alcuna a
scomputare dai primi l’importo dei secondi, trattandosi di
distinti e ugualmente necessari costi che l’amministrazione
deve sopportare per la sostenibilità dell’intervento.
2. Infondato è anzitutto il primo motivo di ricorso, col
quale la società ricorrente sostiene, in buona sostanza, di
aver titolo per scomputare da quanto dovuto a titolo di
contributo spese di urbanizzazione quanto versato a titolo
di monetizzazione di standard. In sintesi estrema, il
ragionamento che sta alla base della relativa domanda di
restituzione del corrispondente importo è il seguente: chi
realizza opere di urbanizzazione a propria cura e spese non
paga in danaro il contributo per spese di urbanizzazione,
perché trasferendo le opere al Comune lo paga in natura per
il valore corrispondente. La società ricorrente, in luogo di
realizzare opere di urbanizzazione, le ha monetizzate,
quindi si è impegnata a pagare il valore corrispondente; ha
quindi titolo ad uno sconto di pari importo sul contributo
spese di urbanizzazione.
3. Tale ordine di idee, apparentemente convincente, peraltro
sta e cade con una premessa non esplicitata, ovvero la
natura omogenea delle opere di urbanizzazione e delle aree
standard. Solo se si trattasse di entità omogenee, infatti,
si potrebbe sostenere la possibilità che il valore di
entrambe, corrisposto che sia in natura o in danaro, vada a
scomputo del contributo del relativo contributo spese di
urbanizzazione.
4. Secondo la giurisprudenza, peraltro, la premessa
descritta non è corretta. Fra i contributi per spese di
urbanizzazione e i contributi dovuti per monetizzazione di
aree standard vi è infatti una “diversità ontologica”,
nei termini ribaditi da ultimo da C.d.S. sez. IV 08.01.2013
n. 32, da cui si cita e che ribadisce un orientamento
formatosi, quanto alle sentenze edite, a partire da C.d.S.
sez. IV 16.02.2011 n. 1013.
5. Infatti, i contributi della prima specie sono dovuti per
realizzare dette opere “senza che insorga un vincolo di
scopo in relazione alla zona in cui è inserita l'area
interessata all'imminente trasformazione edilizia”, e
quindi, per così dire, a titolo di contributo per i costi
generali del Comune; i contributi della seconda specie per
contro riguardano “aree necessarie alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione secondaria all'interno della
specifica zona di intervento”, ovvero i costi specifici
inerenti all’intervento stesso. In tale ordine di idee,
quindi, non vi è giustificazione alcuna a scomputare dai
primi l’importo dei secondi, trattandosi di distinti e
ugualmente necessari costi che l’amministrazione deve
sopportare per la sostenibilità dell’intervento (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.11.2013 n. 1034 -
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EDILIZIA PRIVATA:
La ricostruzione con ampliamento di un edificio,
la quale come nella specie porti a realizzare un edificio
più ampio e funzionale, va assoggettata a contributo come se
si trattasse di opera nuova, dato che il carico urbanistico
del nuovo manufatto va valutato tenendo conto della sua
consistenza complessiva, e non è a priori riducibile alla
somma del carico urbanistico dell’organismo preesistente e
di quello corrispondente alla nuova superficie.
Infondato è anche il secondo motivo, per cui, a dire della
ricorrente, i contributi versati al Comune si sarebbero
dovuti commisurare non già, come fatto, alla superficie
dell’intero edificio così come risultante dall’intervento,
ma al solo ampliamento realizzato rispetto al fabbricato
preesistente.
In proposito, vale il principio che si desume da C.d.S. sez.
V 16.06.2009 n. 3847, nel senso che la ricostruzione con
ampliamento di un edificio, la quale come nella specie porti
a realizzare un edificio più ampio e funzionale, va
assoggettata a contributo come se si trattasse di opera
nuova, dato che il carico urbanistico del nuovo manufatto va
valutato tenendo conto della sua consistenza complessiva, e
non è a priori riducibile alla somma del carico urbanistico
dell’organismo preesistente e di quello corrispondente alla
nuova superficie (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.11.2013 n. 1034 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Disapplicazione regolamento comunale in
contrasto con D.M. n. 1444/1968.
Non può costituire esenzione dall’obbligo del rispetto della
distanza dei dieci metri tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti, la normativa di tipo derogatorio recata
dalle NTA del Comune.
Dovendosi qui ancora una volta
sottolineare come, stante il carattere tassativo e
inderogabile del limite di distanza in controversia, non è
ammessa deroga alla disposizioni recate dal D.M. n. 1444/68
e, conseguentemente ogni previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite va disapplicata, stante la
sua automatica sostituzione con la clausola legale della
fonte normativa sovraordinata costituita appunto dall’art. 9
del D.M. citato.
Passando alle doglianze relative al merito della
controversia all’esame, le critiche rivolte alle
osservazioni e statuizioni rese dal primo giudice non
colgono nel segno.
Nella specie è accaduto che il permesso in contestazione
consente la realizzazione di un manufatto lungo il confine
della proprietà. Cosi, in aderenza con il box costruito a
pianterreno e soprattutto, (circostanza, questa , decisiva)
detto manufatto è in sopraelevazione nel senso che supera in
altezza il piano di copertura così come ne supera la
dimensione in lunghezza., fronteggiando il fabbricato
dell’appellata ad una distanza inferiore a metri dieci,
dandosi qui atto che tale ultimo dato non risulta essere
stato smentito nella sua esistenza fisiologica.
Rimane altresì il fatto che la parete del fabbricato di
proprietà Cosi ( quello posto a ridosso del box e che si
eleva per due piani fuori terra ), nei confronti della quale
si erge la parete del manufatto in ampliamento dell’Albergo
Victoria, è contrassegnata ( come evidenziato nella
documentazione agli atti) dalla presenza di finestre, di
guisa che viene a concretizzarsi la violazione della
disposizione di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M.
02.04.1968 n. 1444 che fissa inderogabilmente la distanza di
10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti.
La prescrizione in questione, avuto riguardo alle finalità
di salvaguardia di esigenze igienico sanitarie dalla stessa
perseguite è tassativa ed inderogabile (ex plurimis
Cons. Stato Sez. IV 12.06.2007 n. 3094; idem 09.05.2011 n.
2749 e 27.10.2011 n. 5759) e nella specie le caratteristiche
tipologiche degli immobili coinvolti impongono senz’altro
l’applicazione del divieto di autorizzare una costruzione
quale il manufatto in ampliamento dell’albergo de quo
ad una distanza inferiore a quella stabilita dal citato art.
9, come in concreto, invece, avvenuto.
Parte appellante deduce a giustificazione della legittimità
del posizionamento dell’erigendo manufatto, due circostanze,
a suo avviso di carattere derogatorio, ebbene:
a) quanto alla circostanza per cui il box della
controinteressata sarebbe stato realizzato sul confine e a
meno di 5 metri di distanza, l’esimente può valere solo per
una costruzione in parallelo al box che però sia omologa al
medesimo in quanto ad altezza e lunghezza, ma non fa venir
meno lo standard fissato dal D.M. n. 1444/1968 laddove come
nel caso di specie il manufatto successivamente autorizzato
sopravanza il piano di copertura del preesistente box,
ponendosi a meno di 10 metri dalla parete finestrata del
fabbricato posto di fronte.
b) il fatto che l’art. 9 non si applichi ad interventi di
mera ristrutturazione, come si qualificherebbe l’intervento
in ampliamento, ma solo a nuove costruzioni, neppure appare
configurabile come causa giustificativa di esenzione
dall’obbligo de quo, ove si rilevi che l’ampliamento
autorizzato costituisce sicuramente “nuova costruzione”,
esattamente coincidente con la tipologia edilizia sancita
dalla norma de qua, non potendosi certo qualificare come
modesto ampliamento o intervento di ristrutturazione o
risanamento il manufatto da realizzarsi di fronte alla
proprietà Cosi.
Infine non può costituire esenzione dall’ obbligo del
rispetto della distanza dei dieci metri la normativa di tipo
derogatorio recata dalle NTA del Comune di Gallipoli,
dovendosi qui ancora una volta sottolineare come, stante il
carattere tassativo e inderogabile del limite di distanza in
controversia, non è ammessa deroga alla disposizioni recate
dal D.M. n. 1444/1968 e, conseguentemente ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite va
disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale della fonte normativa sovraordinata
costituita appunto dall’art. 9 citato ( Cons. Stato, Sez. IV
12.02.2013 n. 844) (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.11.2013 n. 5633 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Presupposti per il rilascio del certificato di
agibilità.
Ai sensi dell'art. 24, comma 1, T.U. dell’Edilizia
06.06.2001 n. 380, il certificato di agibilità attesta la
sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene,
salubrità, ma tale accertamento fa proprio anche l'integrale
conformità delle opere realizzate al progetto approvato come
attestato dalla licenza di abitabilità.
Al tempo stesso
l'accertamento della piena conformità dei manufatti alle
norme urbanistico-edilizie ed alle prescrizioni del permesso
di costruire, nonché alle disposizioni di convenzione
urbanistica, costituisce il presupposto indispensabile per
il legittimo rilascio del certificato di agibilità.
Il motivo di appello è infondato.
La tesi di parte appellante era di poter rioccupare
l’immobile pur senza il prescritto certificato di agibilità,
in virtù di autocertificazione semplificata redatta dal
progettista; ciò sarebbe stato consentito dalla natura
limitata degli interventi effettuati.
Il Collegio osserva che già con la prima ingiunzione del
2009, non impugnata, il Comune aveva vietato l’utilizzo
dell’immobile fino al positivo rilascio del certificato di
agibilità.
Con la successiva comunicazione del 12.02.2010, rispondendo
ad e-mail della parte appellante, l’amministrazione si era
limitata a confermare quanto già espresso con la precedente
determinazione.
Pertanto, è immune da vizi di censura la sentenza appellata
nella parte in cui ha concluso per la inammissibilità del
ricorso originario, per mancata tempestiva impugnazione
dell’atto presupposto realmente lesivo.
Soltanto quando l'antecedente determinazione della stessa
amministrazione, non impugnata, viene successivamente
sottoposta a riesame nell'ambito di una nuova attività
istruttoria, seppure con esito sostanzialmente confermativo,
non incorre nel termine decadenziale l'interessato che
promuove ricorso nei riguardi della sol determinazione
finale successiva e degli atti riesaminati, che ne hanno
rappresentato il presupposto per l'adozione (in tal senso,
tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 07.02.2011, n. 813).
Nella specie, come detto, non si dava luogo ad alcuna
attività istruttoria nuova.
La successiva comunicazione, poi impugnata, si limitava a
richiamare la precedente ingiunzione del 24.09.2009, ma non
riesaminava la possibilità di rioccupare l’edificio senza
certificato di agibilità, e semplicemente si limitava a
ribadire il divieto già impartito.
Senza acquisizione di nuovi elementi di fatto e senza alcuna
valutazione –in sostanza senza alcuna nuova istruttoria-
sono state tenute ferme le statuizioni in precedenza già
adottate, in modo da non toccare la portata precettiva del
provvedimento originario non impugnato.
Non vale il ragionamento di parte appellante, che sostiene
che la comunicazione del febbraio 2010 avrebbe portata
differente da quella del settembre 2009, in quanto
riguarderebbe la situazione abusiva in essere in quel
momento.
Infatti, l’ordinanza precedente ordina il ripristino dello
stato legittimo, vietando la rioccupazione senza rilascio di
un nuovo certificato di agibilità; la esigenza di munirsi
del certificato di agibilità non può intendersi limitato
alla sola fase anteriore al ripristino dell’abuso, in quanto
la normativa generale pretende –senza distinzioni- la
conformità dell’immobile alla normativa edilizia.
Ai sensi dell'art. 24, comma 1, t.u. 06.06.2001 n. 380 il
certificato di agibilità attesta la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, ma tale
accertamento fa proprio anche l'integrale conformità delle
opere realizzate al progetto approvato come attestato dalla
licenza di abitabilità.
Al tempo stesso l'accertamento della piena conformità dei
manufatti alle norme urbanistico-edilizie ed alle
prescrizioni del permesso di costruire, nonché alle
disposizioni di convenzione urbanistica, costituisce il
presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del
certificato di agibilità (tra tante, Consiglio di Stato sez.
IV, 24.10.2012, n. 5450) (massima tratta da
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Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.11.2013 n. 5523 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Nozione di bosco ex art. 2, co. 6, D. Lgs.
18/05/2001, n. 227.
Alla luce della nozione generale sostanziale stabilita
dall’art. 2, co. 6, del D. Lgs. 18/05/2001, n. 227, non ogni
formazione di vegetazione arborea e/o arbustiva può condurre
al riconoscimento di un’area boscata, ma solo quelle
normativamente specificate ed enumerate come tali e solo tra
esse quelle che hanno i requisiti di dimensioni previste
dalla legge.
Con un primo motivo di appello, riproponendo il primo motivo
di censura del ricorso originario, si deduce in sostanza
che, sulla base della dizione normativa di cui all’art. 2
della legge 227 del 2001, che definisce come bosco i terreni
con estensione non inferiore a metri quadrati 2000,
larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non
inferiore al 20 per cento, si desume che non ogni formazione
vegetazionale arborea e/o arbustiva può ritenersi per forza
area boscata, ma soltanto quelle formazioni normativamente
specificate e elencate nella disposizione e solo quelle, tra
esse, dalle caratteristiche dimensionali definite dalla
norma, mentre il primo giudice ha considerato a tal fine
solo le caratteristiche dimensionali; sostiene di avere
dedotto come, per caratteristiche intrinseche delle
vegetazioni, non poteva qualificarsi bosco l’area in
questione, a prescindere dalle caratteristiche di
dimensioni; può infatti essere considerato bosco solo la
formazione vegetazionale (diversa da giardini e frutteti)
costituente un ecosistema completo; la perizia giurata
depositata in atti era idonea a comprovare che l’area in
questione non conteneva alcuna delle vegetazioni previste
dalla disciplina normativa (vegetazione forestale arborea o
arbustiva, castagneto, sughereto, macchia mediterranea) né
potevano considerarsi sufficienti i resti di un frutteto
(escluso comunque dalla nozione di bosco) o i giardini
privati.
In definitiva, sarebbe erronea la sentenza di prime cure
laddove ha sostenuto la mancanza di prova circa la
insussistenza del bosco e al fine si chiede disporsi, ove
necessario, consulenza tecnica di ufficio o verificazione
sulla inconsistenza arborea.
Il D.Lgs.227 del 18.05.2001 (Gazz. Uff., 15 giugno, n. 137)
all’art. 2 definisce il bosco e l’arboricoltura da legno nel
modo seguente: "1. Agli effetti del presente decreto
legislativo e di ogni altra normativa in vigore nel
territorio della Repubblica i termini bosco, foresta e selva
sono equiparati.
2. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del
presente decreto legislativo le regioni stabiliscono per il
territorio di loro competenza la definizione di bosco e:
a) i valori minimi di larghezza, estensione e copertura
necessari affinché un'area sia considerata bosco;
b) le dimensioni delle radure e dei vuoti che interrompono
la continuità del bosco;
c) le fattispecie che per la loro particolare natura non
sono da considerarsi bosco.
3. Sono assimilati a bosco:
a) i fondi gravati dall'obbligo di rimboschimento per le
finalità di difesa idrogeologica del territorio, qualità
dell'aria, salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione
della biodiversità, protezione del paesaggio e dell'ambiente
in generale;
b) le aree forestali temporaneamente prive di copertura
arborea e arbustiva a causa di utilizzazioni forestali,
avversità biotiche o abiotiche, eventi accidentali, incendi;
c) le radure e tutte le altre superfici d'estensione
inferiore a 2000 metri quadrati che interrompono la
continuità del bosco non identificabili come pascoli, prati
e pascoli arborati (1).
4. La definizione di cui ai commi 2 e 6 si applica ai fini
dell'individuazione dei territori coperti da boschi di cui
all'articolo 146, comma 1, lettera g), del decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490.
5. Per arboricoltura da legno si intende la coltivazione di
alberi, in terreni non boscati, finalizzata esclusivamente
alla produzione di legno e biomassa. La coltivazione è
reversibile al termine del ciclo colturale.".
Il comma 6 prevede che “nelle more dell'emanazione delle
norme regionali di cui al comma 2 e ove non diversamente già
definito dalle regioni stesse si considerano bosco i terreni
coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a
quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in
qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e
la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e
privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in
attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e
d'arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi comprese, le
formazioni forestali di origine artificiale realizzate su
terreni agricoli a seguito dell'adesione a misure agro
ambientali promosse nell'ambito delle politiche di sviluppo
rurale dell'Unione europea una volta scaduti i relativi
vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali di
interesse storico coinvolti da processi di forestazione,
naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini
produttivi. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su
cui essi sorgono devono avere estensione non inferiore a
2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20
metri e copertura non inferiore al 20 per cento, con
misurazione effettuata dalla base esterna dei fusti. È fatta
salva la definizione bosco a sughera di cui alla legge 18
luglio 1956, n. 759. Sono altresì assimilati a bosco i fondi
gravati dall'obbligo di rimboschimento per le finalità di
difesa idrogeologica del territorio, qualità dell'aria,
salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della
biodiversità, protezione del paesaggio e dell'ambiente in
generale, nonché le radure e tutte le altre superfici
d'estensione inferiore a 2000 metri quadri che interrompono
la continuità del bosco non identificabili come pascoli,
prati o pascoli arborati o come tartufaie coltivate”.
Pertanto, secondo la tesi appellante, sono necessari sia un
requisito di tipo qualitativo che un requisito a carattere
dimensionale.
Il primo giudice avrebbe dichiarato erroneamente
inammissibile il motivo sulla base della asserita mancanza
di principio di prova; secondo la tesi appellante, al
contrario, la perizia di parte, nel descrivere lo spazio
antistante retrostante il fabbricato esistente come
totalmente libero da piantumazioni di alcun tipo nonché la
descrizione degli alberi presenti ai margini della stessa
area di pertinenza come sparsi in piccoli gruppi (il tutto
all’interno di una particella catastale della estensione di
75,5 are) e comprovando a mezzo del rilievo celerimetrico in
perizia e la documentazione fotografica le “inconsistenze
arboree”, ritiene di avere soddisfatto l’onere del
principio di prova relativamente alla inconsistenza
dimensionale e qualitativa rispetto alla categoria normativa
di bosco.
In effetti, la definizione normativa alla quale deve rifarsi
l’interprete prevede quale requisito necessario, ma non
sufficiente, il dato dimensionale, la cui assenza, secondo
il primo giudice, non è stata dimostrata.
In realtà, come deduce parte appellante, il dato normativo,
valevole in mancanza di normativa regionale (in tal senso
questa sezione, 06.08.2012, n.4502), prevede anche una
componente naturalistica qualitativa costituita da:
vegetazione forestale, castagneti, sugherete, macchia
mediterranea. Nella specie, dalla perizia depositata in
atti, si evince che l’area in questione non comprende alcuna
delle formazioni di vegetazione sopra elencate.
Pertanto, non ogni formazione di vegetazione arborea e/o
arbustiva può condurre al riconoscimento di un’area boscata,
ma solo quelle normativamente specificate ed enumerate come
tali e solo tra esse quelle che hanno i requisiti di
dimensioni previste dalla legge e tenute in considerazione
dal primo giudice.
I rilievi fotografici e la perizia hanno dimostrato: la
totale assenza di formazioni vegetazionali riconducibili
alla nozione di bosco; lo spazio antistante e retrostante il
fabbricato esistente è totalmente libero da piantumazioni di
alcun tipo e gli alberi presenti ai margini della stessa
area di pertinenza, sparsi in piccoli gruppi, rappresentano
i resti di un frutteto, allo stato incolto, privo
ontologicamente di caratteristiche forestali.
Pertanto, è fondato il primo motivo di appello e deve
ritenersi la assenza, in relazione all’area di proprietà di
parte appellante, dei requisiti qualitativi per sostenere la
presenza di un bosco ai fini di legge, con conseguente
illegittimità della destinazione impressa di “Area
boscata” e le consequenziali previsioni di minore
edificabilità (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.11.2013 n. 5452 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I beni costituenti bellezze naturali possono
formare oggetto di distinte forme di tutela ambientale,
anche in via cumulativa, a seconda del profilo considerato,
con la duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è
perfettamente compatibile con quella urbanistica o
ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione,
preordinate a curare, con diversi strumenti, distinti
interessi pubblici, e che il Comune conserva la titolarità,
nella sua attività pianificatoria generale, della competenza
ad introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al
soddisfacimento di interessi paesaggistici.
Il rapporto fra piano regolatore generale o sue varianti da
un lato, e vincoli e destinazioni di zone a vocazione
storica, ambientale e paesistica, dall'altro, fa sì che i
beni costituenti bellezze naturali possono formare oggetto
di distinte forme di tutela ambientale, anche in via
cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la
duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è
perfettamente compatibile con quella urbanistica o
ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione,
preordinate a curare, con diversi strumenti distinti
interessi pubblici, e che il Comune conserva la titolarità,
nella sua attività pianificatoria generale, della competenza
a introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al
soddisfacimento di interessi paesaggistici.
---------------
L’Amministrazione ha inteso tutelare il territorio, noto per
suo pregio ambientale, storico ed artistico attraverso
restrizioni edificatorie della zona agricola, la cui
funzione non è solo quella di valorizzare l'attività
agricola vera a propria, ma altresì quella di garantire ai
cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando loro quella quota di valori naturalistici
necessaria a compensare gli effetti dell'espansione
dell'aggregato urbano.
---------------
In sede di adozione del p.r.g., il Comune può legittimamente
introdurre vincoli o limitazioni di carattere ambientale;
l’art. 1 l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto
del p.r.g. anche all'indicazione dei "vincoli da osservare
nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico",
legittima l'autorità comunale titolare del potere di
pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali
interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti
dalle amministrazioni competenti, ad imporre nuove e
ulteriori limitazioni.
Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e
regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la
tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di
adozione e approvazione di un p.r.g.; il p.r.g.,
nell'indicare i limiti da osservare per l'edificazione nelle
zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può
disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli
conservativi, indipendentemente da quelli disposti dalle
commissioni competenti nel perseguimento della salvaguardia
delle cose di interesse storico, artistico o ambientale; la
distinzione tra le forme di tutela previste dalla
legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte
alla valorizzazione di complessi edilizi di interesse
culturale, storico ed ambientale non risiede nel dato
quantitativo relativo all'ambito, puntuale o meno, degli
oggetti interessati dalle determinazioni limitative, quanto
nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che
permea le rispettive statuizioni amministrative; il p.r.g.
può recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli
edifici, configurati in sé quali "zone", quante volte la
scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata, sia
rivolta non alla tutela autonoma dell'immobile "ex se"
considerato ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche
evidenziate dal carattere qualificante che il singolo
immobile assume nel contesto dell'assetto territoriale.
In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione
rispetto alla sfera di azione della legislazione statale di
settore, in quanto il pregio del bene, pur se non
sufficiente al fine di giustificare l'adozione di un
provvedimento impositivo di vincolo culturale o
paesaggistico in base alla considerazione atomistica delle
caratteristiche del bene, viene valutato come elemento di
particolare valore urbanistico e può quindi, costituire
oggetto di salvaguardia in sede di scelta pianificatoria.
L'art. 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto
del piano regolatore generale anche all'indicazione dei
vincoli da osservare nelle zone a carattere storico,
ambientale e paesisticoo, legittima l'Autorità titolare del
potere di pianificazione urbanistica a valutare
autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già
esistenti posti dalle Amministrazioni competenti, ad imporre
nuove e ulteriori limitazioni; ne consegue che la
sussistenza di competenze statali e regionali in materia di
bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi
beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un
piano regolatore generale.
Il motivo è
infondato.
I beni costituenti bellezze naturali possono formare oggetto
di distinte forme di tutela ambientale, anche in via
cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la
duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è
perfettamente compatibile con quella urbanistica o
ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione,
preordinate a curare, con diversi strumenti, distinti
interessi pubblici, e che il Comune conserva la titolarità,
nella sua attività pianificatoria generale, della competenza
ad introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al
soddisfacimento di interessi paesaggistici (Consiglio Stato
sez. IV, 13.10.2010, n. 7478).
Il rapporto fra piano regolatore generale o sue varianti da
un lato, e vincoli e destinazioni di zone a vocazione
storica, ambientale e paesistica, dall'altro, fa sì che i
beni costituenti bellezze naturali possono formare oggetto
di distinte forme di tutela ambientale, anche in via
cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la
duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è
perfettamente compatibile con quella urbanistica o
ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione,
preordinate a curare, con diversi strumenti distinti
interessi pubblici, e che il Comune conserva la titolarità,
nella sua attività pianificatoria generale, della competenza
a introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al
soddisfacimento di interessi paesaggistici.
Nella specie, le delibere comunali non hanno determinato il
blocco dell'attività edilizia, poiché hanno mantenuto la
possibilità di edificare, sia pure nei contenutissimi limiti
previsti all'origine, facendo un equilibrato uso dei propri
poteri pianificatori, costituendo affermato principio in
giurisprudenza quello secondo cui l'Amministrazione può
utilizzare lo strumento della variante per risolvere
specifici problemi di disciplina urbanistica, anche solo con
scopo di tutela del territorio.
L’Amministrazione ha inteso tutelare il territorio, noto per
suo pregio ambientale, storico ed artistico attraverso
restrizioni edificatorie della zona agricola, la cui
funzione non è solo quella di valorizzare l'attività
agricola vera a propria, ma altresì quella di garantire ai
cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando loro quella quota di valori naturalistici
necessaria a compensare gli effetti dell'espansione
dell'aggregato urbano (così in tal senso Cons. Stato, IV
Sez., n. 4818 del 2005).
Di recente questo Consesso (Consiglio di Stato sez. V,
24.04.2013, n. 2265) ha avuto modo di affermare che in sede
di adozione del p.r.g., il Comune può legittimamente
introdurre vincoli o limitazioni di carattere ambientale;
l’art. 1 l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto
del p.r.g. anche all'indicazione dei "vincoli da
osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e
paesistico", legittima l'autorità comunale titolare del
potere di pianificazione urbanistica a valutare
autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già
esistenti posti dalle amministrazioni competenti, ad imporre
nuove e ulteriori limitazioni.
Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e
regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la
tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di
adozione e approvazione di un p.r.g.; il p.r.g.,
nell'indicare i limiti da osservare per l'edificazione nelle
zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può
disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli
conservativi, indipendentemente da quelli disposti dalle
commissioni competenti nel perseguimento della salvaguardia
delle cose di interesse storico, artistico o ambientale; la
distinzione tra le forme di tutela previste dalla
legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte
alla valorizzazione di complessi edilizi di interesse
culturale, storico ed ambientale non risiede nel dato
quantitativo relativo all'ambito, puntuale o meno, degli
oggetti interessati dalle determinazioni limitative, quanto
nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che
permea le rispettive statuizioni amministrative; il p.r.g.
può recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli
edifici, configurati in sé quali "zone", quante volte
la scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata,
sia rivolta non alla tutela autonoma dell'immobile "ex se"
considerato ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche
evidenziate dal carattere qualificante che il singolo
immobile assume nel contesto dell'assetto territoriale.
In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione
rispetto alla sfera di azione della legislazione statale di
settore, in quanto il pregio del bene, pur se non
sufficiente al fine di giustificare l'adozione di un
provvedimento impositivo di vincolo culturale o
paesaggistico in base alla considerazione atomistica delle
caratteristiche del bene, viene valutato come elemento di
particolare valore urbanistico e può quindi, costituire
oggetto di salvaguardia in sede di scelta pianificatoria
(Consiglio di Stato sez. V, 24.04.2013, n. 2265).
L'art. 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto
del piano regolatore generale anche all'indicazione dei
vincoli da osservare nelle zone a carattere storico,
ambientale e paesisticoo, legittima l'Autorità titolare del
potere di pianificazione urbanistica a valutare
autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già
esistenti posti dalle Amministrazioni competenti, ad imporre
nuove e ulteriori limitazioni; ne consegue che la
sussistenza di competenze statali e regionali in materia di
bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi
beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un
piano regolatore generale
(Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 18.11.2013 n. 5452 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Delocalizzazione di impianto ripetitore per
telefonia cellulare.
Deve considerarsi legittima la previsione di spostamento di
un impianto per telefonia cellulare inserita nel piano di
localizzazione delle stazioni radio base di un comune,
integrando essa una prescrizione non generalizzata attinente
all'urbanistica ed alla pianificazione del territorio che ha
natura consentita dalla legge quadro n. 36/2001.
L'autorizzazione di cui all'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 è
necessaria, perché espressamente prevista anche per “la
modifica delle caratteristiche di emissione" e l’intervento
eseguito nella fattispecie, per le sue connotazioni
innovative concrete, non può considerarsi di mera
manutenzione dell’esistente ma (essendo anche assimilato in
via normativa ad un incremento dell’urbanizzazione primaria)
non può ritenersi sottratto ad una doverosa valutazione pure
sotto il profilo urbanistico.
Il silenzio-assenso di cui al
comma 9 dell’art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 non può
ritenersi formato in mancanza di conformità dell'opera
realizzata alle prescrizioni contenute nell’anzidetto piano
di localizzazione (massima
tratta da e link a www.lexambiente.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.09.2013 n. 39415). |
EDILIZIA PRIVATA:
Chiusura portico.
La chiusura del portico e la sua nuova utilizzazione come
vano residenziale determinano indiscutibilmente un aumento
di volumetria non riconducibile alla categoria della
ristrutturazione edilizia, nozione che presuppone comunque
la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra
vecchio e nuovo edificio.
Per quanto riguarda la chiusura del portico al piano
seminterrato, non è fondata la pretesa dei ricorrenti volta
all’applicazione in via di analogia della deroga prevista
dall’art. 33 comma 5 legge regionale sopra citata, che, ai
fini della sanatoria, esonera dai limiti dimensionali gli “interventi
di chiusura di logge o balconi”.
E’ evidente, infatti che, essendo contenuta in una norma
eccezionale, e quindi di stretta interpretazione, la deroga
non può estendersi oltre ai limiti specificati, e, in
particolare, non può essere applicata per la sanatoria della
chiusura del portico, manufatto diverso, sia
strutturalmente, sia funzionalmente, da quelli
esplicitamente contemplati (logge e balconi).
Come ha puntualmente rilevato il Tribunale amministrativo,
inoltre, la chiusura del portico e la sua nuova
utilizzazione come vano residenziale hanno determinato
indiscutibilmente un aumento di volumetria non riconducibile
alla categoria della ristrutturazione edilizia, nozione che
presuppone comunque la piena conformità di sagoma, volume e
superficie tra vecchio e nuovo edificio (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 15.06.2010 n. 3744) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.08.2013 n. 4089 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo una consolidata giurisprudenza occorre
distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto
civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in
senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche
dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente
risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il
predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene
principale e potendo essere successivamente utilizzato anche
in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai
fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia
sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di
seguito precisati.
Risulta infondata la censura incentrata sulla natura
pertinenziale delle opere abusive in questione. Infatti
secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR
Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio,
Sez. II, 04.02.2005, n. 1036) occorre distinguere il
concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più
ristretto concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche
dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente
risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il
predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene
principale e potendo essere successivamente utilizzato anche
in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai
fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia
sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Nel caso di specie, la ricorrente vive in un edificio sito
in una via diversa da quella del parcheggio a raso (via
Michelangelo n. 33) e cioè a centinaia di metri di distanza
dall’abitazione. È evidente che il concetto di pertinenza
non può essere inteso in senso così ampio (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.05.2013 n. 2655 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tettoia e permesso a costruire.
La realizzazione di una tettoia è soggetta al preventivo
rilascio del permesso di costruire quando essa, pur avendo
carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui accede,
incide sull’assetto edilizio preesistente.
In secondo luogo, come correttamente eccepito
dall’Amministrazione resistente, la ricorrente ha realizzato
un’opera diversa da quella oggetto di dia (una tettoia con
struttura fissa, anziché amovibile, ancorata al suolo in
acciaio e plastica di circa 37 mq. e di mt. 2,65 di
altezza); e come ai sensi dell’art. 2 del R.E. del Comune le
tettoie e pensiline debbano essere a servizio delle
residenze, requisito che manca nel caso di specie.
Né si deve dimenticare che, secondo una consolidata
giurisprudenza (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez.
IV, 19.12.2005, n. 20427; 29.07.2005, n. 10479; 02.12.2004,
n. 18027), la realizzazione di una tettoia è soggetta al
preventivo rilascio del permesso di costruire quando essa,
pur avendo carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui
accede, incide sull’assetto edilizio preesistente. Tale
principio è certamente applicabile ad una tettoia di
rilevanti dimensioni, come quella realizzata nel caso di
specie (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.05.2013 n. 2655 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di pertinenza urbanistica.
La pertinenza urbanistica ha caratteristiche diverse da
quella contemplata dal codice civile: si fonda su dati
desumibili anche dalla normativa catastale; comporta
l'impossibilità di destinazioni ed utilizzazioni autonome;
si sostanzia nei requisiti della destinazione strumentale
alle esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il
profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta
dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella
al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore
economico rispetto alla cosa principale e dall'assenza del
cosiddetto carico urbanistico.
In definitiva, la nozione di
"pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita
dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la
realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché
destinate al servizio del bene principale. In tal caso
l'impatto volumetrico proprio, incidendo in modo permanente
e non precario sull'assetto edilizio del territorio è
assoggettabile a permesso di costruire con conseguente
applicabilità del regime demolitorio in caso di abusività.
Né hanno pregio le residue censure con cui parte ricorrente
rivendica la natura meramente pertinenziale del manufatto in
contestazione.
Dirimenti in senso ostativo alla pretesa attorea si
rivelano, infatti, la consistenza dell’opera e l’assenza di
un vincolo di strumentalità funzionale ad altra res,
che nella specie non è apprezzabile in modo oggettivo, ma
resta affidato –in modo del tutto inappagante– alle sole
dichiarazioni di parte (secondo cui i volumi in questione
sarebbero destinati ad ospitare sia la caldaia che i
contatori idrici).
La cd. pertinenza urbanistica ha, infatti, caratteristiche
diverse da quella contemplata dal codice civile: si fonda su
dati desumibili anche dalla normativa catastale; comporta
l'impossibilità di destinazioni ed utilizzazioni autonome;
si sostanzia nei requisiti della destinazione strumentale
alle esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il
profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta
dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella
al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore
economico rispetto alla cosa principale e dall'assenza del
cosiddetto carico urbanistico (cfr. Cass. Sez. III, sent. n.
4056 del 21.03.1997; Cfr. Cass. Sez. III, sent. n. 1970 del
27.02.1985; Cass. Sez. III, sent. n. 702 del 19.01.1990;
Sez. III, sent. n. 1731 del 09.02.1990; Sez. III, ord. n.
1108 del 13.07.1992; Sez. III, sent. n. 8353 del 23.07.1994;
Sez. III, sent. n. 5652 del 12.05.1994; Sez. III, sent. n.
10709 del 25.11.1997; Sez. III, sent. n. 4134 del
03.04.1998), profili qui non riscontrabili.
In definitiva, la nozione di "pertinenza urbanistica"
è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque
non può consentire la realizzazione di opere di grande
consistenza soltanto perché destinate al servizio del bene
principale. In tal caso l'impatto volumetrico proprio,
incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto
edilizio del territorio è assoggettabile a permesso di
costruire con conseguente applicabilità del regime
demolitorio in caso di abusività (ancora, TAR Campania
Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 22.05.2013 n. 2638 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’autorizzazione all’esercizio dell’attività
commerciale, non vale a surrogare il titolo abilitativo
edilizio.
E’ legittima la demolizione d’ufficio di un chiosco abusivo
per la vendita di alimenti e bevande, fornito di
autorizzazioni alla vendita. La pluralità dei titoli
amministrativi ottenuti dagli odierni e dai precedenti
soggetti gestori del chiosco (autorizzazione alla
occupazione di suolo pubblico, autorizzazione all’esercizio
dell’attività commerciale, autorizzazione rilasciata a
sanatoria di alcune irregolarità igienico-sanitarie) non
vale a surrogare il titolo abilitativo edilizio.
Risulta
irrilevante la circostanza che l’originario gestore del
chiosco fosse iscritto ante 1967 tra gli esercenti il
commercio ambulante nel Comune di Venezia. L’allegazione non
prova, neppure in via mediata ed indiretta, che l’assetto e
le dimensioni del manufatto fossero illo tempore conformi a
quelle attuali.
L’appello è infondato e va respinto.
L’appellante torna a prospettare in questo grado le censure,
già disattese dal giudice di prime cure, che si rilevano non
condivisibili sul piano giuridico per le seguenti brevi
considerazioni.
La pluralità dei titoli amministrativi ottenuti dalla
appellante e dai precedenti soggetti gestori del chiosco
destinato alla vendita di cibi e bevande (autorizzazione
alla occupazione di suolo pubblico, autorizzazione
all’esercizio dell’attività commerciale, autorizzazione
rilasciata a sanatoria di alcune irregolarità
igienico-sanitarie) non vale a surrogare l’unico titolo
abilitativo (quello edilizio), il cui rilascio avrebbe
potuto consentire all’appellante, nel concorso delle altre
condizioni, di contrastare efficacemente la pretesa della
amministrazione comunale alla rimozione delle opere edilizie
abusive realizzate in un’area così qualificata del centro
storico comunale.
Le dedotte circostante dimostrano caso mai che
l’amministrazione avrebbe potuto o dovuto agire già da tempo
per ristabilire l’ordine giuridico violato, senza tuttavia
che tale ritardo possa comportare conseguenze di sorta (e
tampoco estintive) sull’illecito edilizio, che è di natura
permanente e legittima pertanto senza limiti di tempo
l’intervento sanzionatorio dell’autorità.
L’appellante non può di certo dolersi del decorso del tempo
successivo alla commissione dell’illecito, in quanto ne ha
tratto addirittura un indebito vantaggio.
Del pari risulta irrilevante la circostanza che l’originario
gestore del chiosco fosse iscritto ante 1967 tra gli
esercenti il commercio ambulante nel Comune di Venezia.
L’allegazione non prova, neppure in via mediata ed
indiretta, che l’assetto e le dimensioni del manufatto
fossero illo tempore conformi a quelle attualmente
nella disponibilità dell’appellante, ma anzi avvalora la
tesi del Comune di Venezia secondo cui l’originaria
struttura, di più modeste dimensioni rispetto a quella
attuale, avesse natura precaria e che la sua trasformazione
in un chiosco saldamente infisso al terreno di proprietà
comunale sia avvenuta sine titulo e giustifichi
pertanto la riduzione in pristino dello stato dei luoghi,
disposta, ai sensi dell’art. 35 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, a mezzo dei provvedimenti in primo grado impugnati.
Ad ulteriore conferma del quadro fattuale che denota la
sussistenza dei presupposti legittimanti l’esercizio del
potere sanzionatorio comunale, vale richiamare il diniego di
concessione in sanatoria adottato dal Comune di Venezia nel
1982 sulla istanza prodotta da un precedente titolare del
chiosco (tal sig. Miani) e della persistenza attuale delle
ragioni ostative alla realizzazione di un chiosco del tipo
di quello in titolarità della società appellante, proprio a
motivo della incompatibilità delle opere realizzate con
quanto consentito dall’art. 19 delle norme tecniche di
attuazione della variante al PRG comunale per la città
antica (che ammette solo opere amovibili realizzate con
materiali della tradizione locale).
Pienamente condivisibili, infine, risultano le
considerazioni del giudice di primo grado, oggetto di
specifica censura in questo giudizio, riguardo al carattere
vincolato del provvedimento di ripristino dello stato dei
luoghi, della carenza di un affidamento da tutelare
nonostante il tempo trascorso, tenuto conto del carattere
abusivo del manufatto e della natura permanente
dell’illecito edilizio e della adeguata istruttoria e
motivazione dei provvedimenti adottati dalla amministrazione
comunale a salvaguardia dell’ordinato assetto
urbanistico-edilizio della città lagunare (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.05.2013 n. 2721 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio di destinazione da agricolo ad
agrituristica.
La Corte Costituzionale ha affermato che i limiti alla
utilizzabilità per fini agrituristici dei fabbricati rurali
sono posti dalla legge per regolare in modo razionale
l’inserimento nei territori agricoli di attività connesse,
esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, destinate
alla ricezione ed all’ospitalità, mediante l’utilizzazione
prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda
normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata
(art. 2135 Cod. civ.).
La ratio del principio fondamentale
posto dalla legge statale e recepito dalla legge regionale
«è quella di promuovere l’attività agrituristica, senza
tuttavia consentire edificazioni nuove ed estranee allo
svolgimento delle attività agricole in senso stretto, allo
scopo di garantire il mantenimento della natura peculiare
del territorio e preservarlo così dalla proliferazione di
fabbricati sorti in vista soltanto dell’esercizio di
attività ricettive in immobili non facenti parte, ab
origine, dell’azienda agricola».
Si vuole in sostanza
prevenire, si sottolinea nella sentenza costituzionale, «il
sorgere ed il moltiplicarsi di attività puramente
turistiche, che finiscano con il prevalere su quelle
agricole, in violazione della norma codicistica prima citata
e con l’effetto pratico di uno snaturamento del territorio,
usufruendo peraltro delle agevolazioni fiscali previste per
le vere e proprie attività ricettive connesse al prevalente
esercizio dell’impresa agricola».
Con un terzo motivo si assume che, anche qualora si volesse
ritenere esistente una nuova costruzione, la disposizione
regionale, sopra riportata, sarebbe contraria:
a) all’art. 3 Cost., perché l’esclusione dal campo di
applicazione della norma degli edifici di nuova costruzione
sarebbe priva di adeguata giustificazione e imporrebbe una
non semplice distinzione tra interventi di ristrutturazione
edilizia e di nuova costruzione;
a.1.) all’art. 3 Cost., in quanto creerebbe una
ingiustificata «discriminazione tra i soggetti non
proprietari di un edificio da recuperare e coloro che,
invece, di tali fabbricati sono titolari, consentendo solo a
questi ultimi di esercitare l’attività di agriturismo»;
b) all’art. 41 Cost., comportando una illegittima
compromissione della libertà di iniziativa economica;
c) all’art. 42 Cost., in quanto, prevedendo una
ingiustificata limitazione del diritto di proprietà, «si
limiterebbero gli intereventi di trasformazione dei fondi
agricoli, senza tener conto delle concrete caratteristiche
degli stessi e, quindi, delle diversità che possono
presentarsi nella realtà».
Il motivo non è fondato.
La Corte costituzionale, con sentenza 18.04.2012, n. 96, ha
già avuto modo di esaminare la questione posta con l’atto di
appello.
Con riferimento all’art. 3 della Costituzione, la Corte ha
affermato che i limiti alla utilizzabilità per fini
agrituristici dei fabbricati rurali sono posti dalla legge
per regolare in modo razionale l’inserimento nei territori
agricoli di attività connesse, esercitate dal medesimo
imprenditore agricolo, destinate alla ricezione ed
all’ospitalità, mediante l’utilizzazione prevalente di
attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate
nell’attività agricola esercitata (art. 2135 Cod. civ.).
La ratio del principio fondamentale posto dalla legge
statale e recepito dalla legge regionale «è quella di
promuovere l’attività agrituristica, senza tuttavia
consentire edificazioni nuove ed estranee allo svolgimento
delle attività agricole in senso stretto, allo scopo di
garantire il mantenimento della natura peculiare del
territorio e preservarlo così dalla proliferazione di
fabbricati sorti in vista soltanto dell’esercizio di
attività ricettive in immobili non facenti parte, ab
origine, dell’azienda agricola».
Si vuole in sostanza prevenire, si sottolinea nella sentenza
costituzionale, «il sorgere ed il moltiplicarsi di
attività puramente turistiche, che finiscano con il
prevalere su quelle agricole, in violazione della norma
codicistica prima citata e con l’effetto pratico di uno
snaturamento del territorio, usufruendo peraltro delle
agevolazioni fiscali previste per le vere e proprie attività
ricettive connesse al prevalente esercizio dell’impresa
agricola».
L’indicata ragione giustificativa della norma consente anche
di ritenere che la differenza di trattamento tra i soggetti
proprietari o non proprietari di un edificio è giustificata.
Con riferimento all’art. 41 Cost., la Corte ha affermato che
gli stessi motivi che portano ad escludere la manifesta
irragionevolezza della disposizione censurata valgono a
ritenerla immune da tale ulteriore vizio di legittimità
costituzionale. Infatti, «l’iniziativa economica privata
in campo agrituristico è libera, in quanto a nessuno è
inibito l’accesso a questo settore di attività
imprenditoriale, purché segua determinate modalità, uguali
per tutti, ritenute dal legislatore nazionale e da quello
regionale indispensabili a mantenere le attività
agrituristiche nel proprio alveo, senza sovrapposizioni
prevaricanti sull’attività agricola o aggiramenti della
prescrizione fondamentale contenuta nell’art. 2135 Cod. civ.».
Non vi è quindi «un limite all’avvio di nuove iniziative,
né alla concorrenza tra gli imprenditori del settore, ma
solo una restrizione nell’uso di beni immobili, allo scopo
di preservare razionalmente il territorio e di valorizzarne
le caratteristiche specifiche, in coerenza con le finalità
perseguite da tutte le leggi in materia di urbanistica».
Con riferimento, infatti, all’art. 42 Cost. (parametro non
esaminato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza),
deve qui ritenersi che la normativa (statale e) regionale,
richiedendo il requisito dell’esistenza del fabbricato,
valorizza, contrariamente a quanto affermato
dall’appellante, la situazione reale del bene introducendo
un regime giuridico differenziato in ragione proprio della
natura del fondo. Sicché la questione appare manifestamente
infondata (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.05.2013 n. 2665 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Illegittimità Ordinanza di demolizione impianto
radioelettrico (SRB)
Nel contesto del procedimento in corso (l’ordinanza si
riferisce erroneamente ad una SRB invece che ad impianto
radio televisivo sperimentale) non è sufficiente affermare
che l’impianto in questione determina una modificazione
permanente urbanistica ed edilizia in assenza del titolo
abilitativo.
L’impianto è lì infatti in attesa della autorizzazione
all’uso delle frequenze per una sperimentazione temporanea,
e, fin quando permane questa situazione, è dunque per
definizione temporaneo. Il Comune può sì affermare che
l’attesa non è a tempo indefinito e che la scadenza fa venir
meno l’autorizzazione, ma una volta che viene avanzata una
richiesta sia pure tardiva di proroga, ha il dovere di
esaminarla con piena cognizione di causa, con preciso
riferimento alla natura dell’impianto e del procedimento in
corso e alla normativa che la regola.
6. - L’appello è fondato salvo che per la richiesta di
risarcimento danni.
6.1. - Il provvedimento adottato dal Comune è illegittimo in
quanto non adeguatamente motivato con riferimento
all’oggetto specifico concernente un impianto per la
trasmissione radiotelevisiva (e non impianto di telefonia
mobile) e ai provvedimenti precedentemente adottati dallo
stesso Comune nonché al procedimento tuttora in corso per
iniziativa dello stesso Comune per ottenere l’assegnazione
delle frequenze da parte del Ministero delle Comunicazioni
necessarie a consentire la sperimentazione di tecnologie
avanzate, per la quale l’impianto era stato sia pure
temporaneamente autorizzato dallo stesso Comune.
6.2. – Alla luce dei principi che regolano la materia degli
impianti di telecomunicazione l’autorizzazione a suo tempo
concessa dal Comune il 07.02.2007 per l’impianto in
questione può correttamente definirsi un atto ricognitivo
come la qualifica la sentenza del TAR anche tenendo conto
della disciplina prevista dall’art. 36 del D.Lgs. n.
259/2003, ma in tal caso essa è un atto strettamente
connesso alla richiesta di autorizzazione all’uso delle
frequenze rivolta al Ministero e deve evidentemente seguirne
le vicende salvo che, alla scadenza del termine, senza che
le frequenze siano state concesse o utilizzate subentrino
nuove valutazioni da parte del Comune che deve però
puntualmente esplicitarle.
6.3. - Nel contesto del procedimento in corso non è invece
sufficiente affermare che l’impianto in questione determina
una modificazione permanente urbanistica ed edilizia in
assenza del titolo abilitativo. L’impianto è lì infatti in
attesa della autorizzazione all’uso delle frequenze per una
sperimentazione temporanea, e, fin quando permane questa
situazione, è dunque per definizione temporaneo. Il Comune
può sì affermare che l’attesa non è a tempo indefinito e che
la scadenza fa venir meno l’autorizzazione, ma una volta che
viene avanzata una richiesta sia pure tardiva di proroga, ha
il dovere di esaminarla con piena cognizione di causa, con
preciso riferimento alla natura dell’impianto e del
procedimento in corso e alla normativa che la regola.
6.4. – Nel valutare la richiesta di proroga sia pure
tardivamente presentata dagli interessati in sede di
procedimento ex art. 10 della legge n. 241/1990, avrebbe
dunque riconsiderare l’intera questione e il procedimento a
suo tempo avviato ancora in corso e assumere conseguenti e
pertinenti determinazioni. il cui rigetto doveva essere
motivato con specifico riferimento a tali aspetti. Non è
invece sufficiente adottare un provvedimento motivato solo
dalla constatazione della mancanza di un valido titolo
abilitativo a determinare modificazioni rilevanti sul piano
edilizio e urbanistico. Inoltre il Comune avrebbe dovuto
contestualmente revocare la propria richiesta al Ministero
competenti di assegnazione delle frequenze di trasmissione.
6.5. – La decisione adottata è invece incompleta e
immotivata e pertanto deve essere annullata (massima tratta
da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 15.05.2013 n. 2642 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Innalzamento della linea di gronda di 25cm. va
computato come volume tecnico
Un innalzamento della linea di gronda di
cm. 25 rispetto al progetto assentito, non può essere
configurata come “totale difformità”, né come “variazione
essenziale”, ma va computato come volume tecnico, in quanto
irrilevante ai fini del calcolo della volumetria per il suo
carattere meramente interno e non utilizzabile o praticabile
direttamente.
Il Collegio ritiene dirimente ai fini della decisione il
fatto rappresentato nel terzo motivo riguardante
l’intervenuto giudicato penale di cui alla sentenza del
pretore di Pontassieve n. 42 del 04.05.1989, con la quale è
stata esclusa la sussistenza di una parziale difformità
dell’intervento contestato rispetto alla concessione
edilizia al tempo rilasciata.
E’ pacifico che l’immobile abbia subìto un innalzamento
della linea di gronda di cm. 25 rispetto al progetto
assentito, in quanto il solaio posto tra piano terreno e
piano primo, che doveva inizialmente collocarsi a m. 2,70
dal pavimento dell’autorimessa al piano terreno, è stato poi
realizzato a m. 2,95, visto che la preesistente apertura ad
arco non consentiva una rottura muraria per il connesso
abbassamento senza provocare lesioni strutturali.
Ed è conseguentemente altrettanto pacifico che la riduzione
in pristino, nel caso l’eliminazione dell’aumento della
quota di imposta, avrebbe comportato sia problemi
ingegneristici radicali, sostanzialmente una demolizione e
ricostruzione quasi totali, sia un pregiudizio alla
struttura, come riportato nel precedente capoverso; quindi
appare erronea –si veda il secondo motivo dell’atto di
appello– l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata
di un’assenza di prova riguardo al pregiudizio derivante
alla costruzione dall’assunzione della sanzione demolitoria.
In ogni caso, comunque, prevale il riconoscimento svolto dal
pretore, secondo il quale la maggiore altezza ricavata non
può essere configurata come “totale difformità”, né come
“variazione essenziale”, ma va computata come volume
tecnico, in quanto irrilevante ai fini del calcolo della
volumetria per il suo carattere meramente interno e non
utilizzabile o praticabile direttamente.
Visto quindi il disposto dell’art. 654 c.p.p., i fatti
accertati nella sentenza n. 42 del 04.05.1989 devono
assurgere a giudicato nel presente appello che deve dunque
essere accolto (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.05.2013 n. 2587 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione per opere abusive su
edificio realizzate prima o dopo della legge n. 765 del 1967.
L’ordine di demolizione per la sua
natura vincolata può essere emesso, in ragione della
riscontrata abusività delle opere, quando l’edificio sia
stato realizzato dopo la data di entrata in vigore della
legge n. 765 del 1967, ovvero quando l’edificio sia stato
realizzato prima di tale data, ma vi siano obiettivi
elementi che inducano a ritenere che successivamente ad essa
sia stato commesso un abuso (come risulta dai verbali di
accertamento, da ordini di sospensione dei lavori, dai
materiali adoperati, ecc.).
Se invece, per un edificio realizzato sulla base di un
legittimo titolo edilizio, emesso in data anteriore
all’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967, sia
riscontrata una difformità, riferibile a una data
imprecisata, rispetto al progetto a suo tempo approvato,
l’Amministrazione non può senz’altro emanare l’ordine di
demolizione, ma deve consentire al proprietario di
partecipare al procedimento sanzionatorio, affinché siano
eventualmente acquisiti elementi oggettivi che possano
chiarire se la difformità risalga al periodo anteriore
all’entrata in vigore della medesima legge.
In tal caso, l’ordine di demolizione va emesso se, all’esito
di tale istruttoria, non emergono elementi tali da indurre a
ritenere che l’abuso sia stato commesso prima dell’entrata
in vigore della medesima legge.
Ritiene al riguardo la Sezione che l’ordine di demolizione
per la sua natura vincolata può essere senz’altro emesso, in
ragione della riscontrata abusività delle opere, quando
l’edificio sia stato realizzato dopo la data di entrata in
vigore della legge n. 765 del 1967, ovvero quando l’edificio
sia stato realizzato prima di tale data, ma vi siano
obiettivi elementi che inducano a ritenere che
successivamente ad essa sia stato commesso un abuso (come
risulta dai verbali di accertamento, da ordini di
sospensione dei lavori, dai materiali adoperati, ecc.).
Se invece –per un edificio realizzato sulla base di un
legittimo titolo edilizio, emesso in data anteriore
all’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967- sia
riscontrata una difformità, riferibile a una data
imprecisata, rispetto al progetto a suo tempo approvato,
l’Amministrazione non può senz’altro emanare l’ordine di
demolizione, ma deve consentire al proprietario di
partecipare al procedimento sanzionatorio, affinché siano
eventualmente acquisiti elementi oggettivi che possano
chiarire se la difformità risalga al periodo anteriore
all’entrata in vigore della medesima legge.
In tal caso, l’ordine di demolizione va emesso se, all’esito
di tale istruttoria, non emergono elementi tali da indurre a
ritenere che l’abuso sia stato commesso prima dell’entrata
in vigore della medesima legge.
Al riguardo, possono rilevare le risultanze catastali o
fotografiche (di data incontestabile), i verbali della
polizia municipale, l’identità dei materiali e la stretta
riconducibilità delle opere aggiuntive alla struttura
portante dell’edificio, il fatto che l’intero edificio
risulti costruito con una determinata sagoma, ovvero se solo
per un appartamento risulti realizzata la veranda.
Nella specie, l’appellante ha supportato le proprie
deduzioni, sulla avvenuta realizzazione dell’edificio negli
anni Cinquanta con la veranda oggetto del giudizio, con una
perizia giurata a firma dell’ingegner M. (depositata in atti
in una con il ricorso introduttivo), la quale ha concluso
nel senso che “(…) è possibile asserire che la
costruzione della veranda in argomento è coeva alla
costruzione del corpo di fabbrica (nel 1951), in quanto le
strutture sono concatenate, i getti di calcestruzzo continui
e caratterizzati dai medesimi componenti e mineralogie”.
Concludendo sul punto, la sentenza in epigrafe è meritevole
di riforma, poiché, in primo luogo, non ha rilevato che
l’ordine di rimessione in pristino risulta illegittimo per
la mancata comunicazione di avvio del relativo procedimento.
Sotto tale aspetto, va ribadito che l’ordine di demolizione
può e deve senz’altro essere emesso quando sia incontestata
l’abusività delle opere (in tal senso –ex plurimis-:
Cons. Stato, IV, 17.09.2012, n. 4925; id., IV, 18.04.2012,
n. 2286; id., IV, 15.12.2011, n. 6618). Ebbene, nel caso in
questione, la realizzazione della veranda in un edificio
legittimamente assentito nel 1951 e le sue caratteristiche
strutturali (tipiche dell’edilizia dell’epoca) avrebbero
dovuto indurre l’Amministrazione ad approfondire, in
contraddittorio con la proprietaria, la questione della
effettiva data di realizzazione del manufatto, evidente
essendo che il corretto accertamento di tale presupposto di
fatto ha un rilievo dirimente per la legittimità dell’ordine
di demolizione.
In secondo luogo, il TAR avrebbe dovuto valutare le
deduzioni di parte (supportate dalla circostanziata
perizia), con le quali l’odierna appellante aveva rilevato
l’insussistenza dei presupposti di fatto per l’adozione
dell’impugnato ordine di rimessione in pristino (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2560 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. I materiali inerti da scavo e i materiali
provenienti da operazioni di disalveo sono considerati
rifiuti.
E’ legittimo l’art. 1, primo comma,
lettera b), del decreto del 03.07.2007 del Ministero
dell’Ambiente, secondo il quale “i materiali inerti da scavo
e i materiali provenienti da operazioni di disalveo sono
considerati rifiuti e pertanto devono essere gestiti ai
sensi della vigente normativa sui rifiuti”.
Dunque, la Regione, non può utilizzare i materiali inerti da
scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo,
senza alcun controllo delle loro caratteristiche. Con tale
decreto il Ministero autorizza la Regione Valle d’Aosta per
gli interventi di bonifica e messa in sicurezza permanente
delle ex cave e delle discariche di amianto.
4. Il giudice di primo grado ha ritenuto apodittica la
statuizione contenuta nel provvedimento di autorizzazione
all’avvio dei lavori, in base alla quale “i materiali
inerti da scavo e i materiali provenienti da operazioni di
disalveo sono considerati rifiuti e pertanto devono essere
gestiti ai sensi della vigente normativa sui rifiuti”.
In base all’art. 185 del d.lgs. 156/2006, comma 1, lett. l),
non rientra fra i rifiuti: “Il materiale litoide estratto
da corsi d’acqua, bacini idrici ed alvei, a seguito di
manutenzione disposta dalle autorità competenti”.
L’art. 186, a sua volta recita: “1. Le terre e rocce da
scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione
della pietra destinate all’effettivo utilizzo per reinterri,
riempimenti, rilevati e macinati non costituiscono rifiuti e
sono, perciò, esclusi dall’ambito di applicazione della
parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui,
anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da
sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione,
perforazione e costruzione siano utilizzati, senza
trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel
progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale …
sempreché la composizione media dell’intera massa non
presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai
limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di
cui al comma 3”.
Le disposizioni, sopra riportate, fanno degli opportuni
distinguo fra materiale inquinato e non, ai fini della loro
qualificazione quali “rifiuti” e del loro conseguente
utilizzo.
Secondo il giudice di primo grado, non può essere condiviso
l’assunto della difesa statale, laddove ritiene che la
statuizione contestata sarebbe in linea con l’orientamento
espresso dall’Unione Europea, dalla Corte di Giustizia e con
quanto stabilito nell’art. 185 e 186 del d.lgs. n. 152 del
2006 recante norme in materia ambientale, come modificato
con il d.lgs. 16.01.2008, n. 4, dove i materiali inerti da
scavo e i fanghi di dragaggio sarebbero ex se da
qualificarsi “rifiuti”.
In effetti è proprio la lettura anche di tali nuove
disposizioni (l’art. 185 elenca le tipologie di materiali
non ritenuti “rifiuti” ed il 186 indica i limiti di
utilizzabilità delle “terre e rocce da scavo”) che
induce a contrastare la tesi dell’amministrazione.
5. Il Ministero dell’ambiente ha proposto ricorso in appello
evidenziando come gli articoli 185 e 186 del d.lgs. n. 152
del 2006, nel testo vigente prima delle modifiche introdotte
dall’art. 4 del d.lgs. n. 4 del 2008, prevedono che solo a
determinate condizioni i materiali litoidi e le terre e
rocce da scavo possano essere reimpiegate nel ciclo
produttivo e quindi sottrarsi alla classificazione come
rifiuti; il che dunque sottende, piuttosto che escludere, la
loro tendenziale equiparazione ai rifiuti sotto il profilo
della disciplina applicabile. L’art. 186 infatti esclude
dalla categorie dei rifiuti le terre e le rocce da scavo
sempre che la composizione media dell’intera massa non
presenti una concentrazione superiore ai limiti previsti
dalle legge vigenti e dal decreto Ministro dell’ambiente
25.10.1999, n. 471.
6. Il Ministero appellante sottolinea che era onere della
Regione fornire la prova che i materiali non fossero
ascrivibili alla categoria dei rifiuti.
Dal verbale della conferenza di servizi istruttoria del
13.07.2006, emerge che il rappresentante del Ministero
dell’ambiente osservava che i materiali inerti da scavo e i
materiali provenienti da operazioni di disalveo sono
considerati rifiuti e pertanto devono essere gestiti ai
sensi della vigente normativa sui rifiuti ed “esprime(va)
la non condivisione … in merito all’utilizzo dei fanghi di
drenaggio e disalveo come riempimento del cratere dell’ex
cava. Detti materiali non rispettano né i limiti del d.m.
471/1999 né i limiti del d.m. 05.02.1998". Inoltre i
predetti materiali così come certificato dall’ARPA della
Valle d’Aosta <<non sono stai sufficientemente
caratterizzati>>”.
7. La sentenza di accoglimento, qui impugnata, ha ritenuto
illegittimo l’art. 1, primo comma, lettera b), del decreto
del 03.07.2007, secondo il quale “i materiali inerti da
scavo e i materiali provenienti da operazioni di disalveo
sono considerati rifiuti e pertanto devono essere gestiti ai
sensi della vigente normativa sui rifiuti”.
La conseguenza di tale accoglimento era la possibilità, per
la Regione, di utilizzare i materiali inerti da scavo e i
materiali provenienti da operazioni di disalveo, senza alcun
controllo delle loro caratteristiche.
8. La Sesta Sezione, con ordinanza 28.10.2008, ha accolto
l’istanza cautelare, sospendendo l’efficacia della sentenza
impugnata, “atteso che la formulazione testuale delle
norme accredita l’idea –specie per quanto riguarda il
materiale inerte da scavo– che la qualificazione come
rifiuti sia la regola, salvo contrarie risultanze”.
9. Così riassunte le vicende che hanno condotto alla
presente fase del giudizio, ritiene la Sezione che il
ricorso in appello è fondato per l’assorbente profilo del
mancato assolvimento dell’onere della prova in ordine alle
caratteristiche dei materiali che la Regione avrebbe dovuto
utilizzare per il riempimento della cava.
La Regione, nella “dichiarazione a verbale” allegata
alla conferenza di servizi di cui sopra, ha preso atto che “la
messa in sicurezza del cratere dovrà avvenire mediante l’uso
di materiale da scavo caratterizzato ed avente le
caratteristiche richieste dell’art. 186, del d.lgs.
03.04.2006 n. 152 e/o da materiale naturale”.
Tale affermazione costituiva il riconoscimento della
attendibilità delle osservazioni svolte dal rappresentante
del Ministero dell’ambiente durante lo svolgimento della
conferenza.
Il dispositivo contenuto nel decreto impugnato, e ritenuto
illegittimo dalla sentenza, era conforme a quanto accettato
dalla Regione con la dichiarazione “a verbale”.
Tale circostanza avrebbe dovuto indurre il giudice di primo
grado a rilevare l’infondatezza dello stesso ricorso,
piuttosto che ad annullare la disposizione, la cui assenza
avrebbe consentito l’utilizzazione di materiali che non
corrispondono a quanto previsto dagli articoli 185 e 186 del
d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
Del resto, risulta dalla documentazione acquisita che la
Regione non ha a suo tempo provato la non contaminazione dei
materiali (peraltro risultati provenienti dal bacino
idoelettrico di Brusson, con metalli vari al di sopra limiti
imposti).
10. Il ricorso in appello va quindi accolto con conseguente
rigetto del ricorso di primo grado (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2542 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di una bussola-veranda in metallo
e pannelli in plexiglas presso l'ingresso dell’abitazione.
L’intervento non rientra nel concetto di
risanamento conservativo neppure volendo considerare
l’esigenza di proteggere l’ingresso dell’edificio dalle
intemperie: gli interventi di restauro e risanamento,
infatti, debbono compendiarsi in un insieme sistematico di
opere tese a mantenere la funzionalità e la fisionomia
dell’organismo edilizio preesistente, potendo tradursi anche
nella eliminazione degli elementi ad esso estranei:
eventuali manufatti con funzione protettiva possono quindi
rientrare nel concetto di risanamento solo se inseriti
nell’ambito di un più vasto progetto di risanamento
dell’immobile ed a patto che abbiano una funzione di mero
completamento e non inducano nell’organismo edilizio
elementi estranei allo stesso.
Inoltre la realizzazione di una bussola/veranda neppure è
qualificabile come pertinenza, giacché di fatto attua un
ampliamento della superficie e della volumetria utile del
fabbricato senza possedere quelle dimensioni estremamente
modeste che debbono caratterizzare la c.d. pertinenza
urbanistica.
Per quanto riguarda la qualificazione dell’intervento il
Collegio é dell’opinione che la veranda, o bussola,
realizzata abusivamente dalla ricorrente non rientri tra gli
interventi di restauro o risanamento conservativo, né tra
gli interventi di ristrutturazione e neppure nel concetto di
pertinenza urbanistica.
Sia gli interventi di restauro e risanamento conservativo
che quelli di ristrutturazione sono invero caratterizzati
dal fatto che coinvolgono in via diretta elementi già
esistenti di un fabbricato, che tendono a rinnovare in
misura più ampia evidente. Di conseguenza laddove, come nel
caso di specie, l’intervento edilizio si compendi nella mera
aggiunta, all’organismo edilizio preesistente, di una nuova
costruzione che non risulti in alcun modo correlata e
consequenziale ad altre modifiche apportate al fabbricato
(si tratta ad esempio della realizzazione di un nuovo locale
tecnico per l’allocazione di caldaie o contatori), si esula
per principio dal concetto di ristrutturazione o di
risanamento.
In particolare va rilevato che l’intervento di che trattasi
non pare sussumibile nel concetto di risanamento
conservativo neppure volendo considerare l’esigenza,
affermata dalla ricorrente, di proteggere l’ingresso
dell’edificio dalle intemperie: gli interventi di restauro e
risanamento, infatti, debbono compendiarsi in un insieme
sistematico di opere tese a mantenere la funzionalità e la
fisionomia dell’organismo edilizio preesistente, potendo
tradursi anche nella eliminazione degli elementi ad esso
estranei: eventuali manufatti con funzione protettiva
possono quindi rientrare nel concetto di risanamento solo se
inseriti nell’ambito di un più vasto progetto di risanamento
dell’immobile ed a patto che abbiano una funzione di mero
completamento e non inducano nell’organismo edilizio
elementi estranei allo stesso. La bussola/veranda realizzata
dalla ricorrente non può quindi ricondursi al concetto di
risanamento trattandosi di intervento isolato, slegato
financo da interventi di manutenzione straordinaria, e per
di più manifestamente eccessivo rispetto alla finalità
protettiva dell’ingresso, che avrebbe potuto essere
perseguita anche mediante una bussola di ben più modeste
dimensioni.
Infine l’abuso in esame neppure é qualificabile come
pertinenza, giacché di fatto attua un ampliamento della
superficie e della volumetria utile del fabbricato senza
possedere quelle dimensioni estremamente modeste che debbono
caratterizzare la c.d. pertinenza urbanistica.
Al proposito appare dirimente la considerazione che la
struttura portante risulta stabilmente ancorata al muro
perimetrale dell’edificio; che essa racchiude una superficie
di oltre 5 mq. per una altezza di oltre mt. 2.20; e che
quantunque essa presentasse un varco d’apertura al momento
in cui il tecnico comunale effettuava il sopralluogo, tale
varco può agevolmente essere chiuso in qualsiasi momento con
la semplice aggiunta di un ulteriore pannello di plexiglas
su supporto mobile, che ne consenta l’apertura e la
chiusura. Si tratta quindi di una vera e propria veranda che
in periodo primaverile ed estivo ben può garantire un
ambiente supplementare di vita, e comunque anche nel periodo
invernale é idonea a fungere da “tampone”, ad evitare
cioè la dispersione di calore dall’interno dell’immobile, ed
inoltre a collocarvi alcuni arredi da ingresso.
Non é quindi condivisibile l’assunto della ricorrente
secondo il quale la costruzione di che trattasi sarebbe
assentibile a mezzo di semplice autorizzazione e non sarebbe
pertanto sanzionabile con la demolizione. Da qui
l’infondatezza del terzo e quarto dei motivi di ricorso
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.05.2013 n. 612 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 13, comma 2, della L. 47/1985 afferma che
“Sulla richiesta di concessione o di autorizzazione in
sanatoria il sindaco si pronuncia entro sessanta giorni,
trascorsi i quali l’istanza si intende respinta”, ed é
quindi estremamente chiaro nell’annettere al mero decorso
del termine ivi indicato, senza che nel frattempo sia
intervenuto alcun provvedimento esplicito, la valenza di
provvedimento di diniego, ossia di silenzio-rigetto: in tal
senso, del resto, si é orientata la giurisprudenza con
orientamento ormai consolidato da tempo, che ne ha tratto
l’ulteriore corollario che il decorso del termine di
sessanta giorni assegnato alla Amministrazione per
provvedere fa anche venir meno l’obbligo del comune di
provvedere, già sussistendo un provvedimento negativo
soggetto ad impugnazione.
La giurisprudenza ha tuttavia ulteriormente precisato che
l’Amministrazione non perde il potere di provvedere dopo il
formarsi del silenzio-rigetto previsto dall’art. 13 L.
47/1985; correlativamente l’atto con il quale essa confermi
in maniera espressa il diniego già formatosi, sulla base di
una determinata motivazione esplicitata, non può
considerarsi meramente confermativo del diniego tacito
precedente, con il risultato che nei confronti di esso si
riaprono i termini per la proposizione del ricorso
giurisdizionale, che non può considerarsi inammissibile in
ragione della mancata impugnazione del silenzio-rigetto.
L’art. 13, comma 2,
della L. 47/1985 afferma che “Sulla richiesta di
concessione o di autorizzazione in sanatoria il sindaco si
pronuncia entro sessanta giorni, trascorsi i quali l’istanza
si intende respinta”, ed é quindi estremamente chiaro
nell’annettere al mero decorso del termine ivi indicato,
senza che nel frattempo sia intervenuto alcun provvedimento
esplicito, la valenza di provvedimento di diniego, ossia di
silenzio-rigetto: in tal senso, del resto, si é orientata la
giurisprudenza con orientamento ormai consolidato da tempo (ex
multis, si veda C.d.S. sez. IV n. 1757 del 26.03.2012),
che ne ha tratto l’ulteriore corollario che il decorso del
termine di sessanta giorni assegnato alla Amministrazione
per provvedere fa anche venir meno l’obbligo del comune di
provvedere, già sussistendo un provvedimento negativo
soggetto ad impugnazione (TAR Piemonte Sez. II n. 494 del
20.05.2011).
La giurisprudenza ha tuttavia ulteriormente precisato che
l’Amministrazione non perde il potere di provvedere dopo il
formarsi del silenzio-rigetto previsto dall’art. 13 L.
47/1985; correlativamente l’atto con il quale essa confermi
in maniera espressa il diniego già formatosi, sulla base di
una determinata motivazione esplicitata, non può
considerarsi meramente confermativo del diniego tacito
precedente, con il risultato che nei confronti di esso si
riaprono i termini per la proposizione del ricorso
giurisdizionale, che non può considerarsi inammissibile in
ragione della mancata impugnazione del silenzio-rigetto (TAR
Lazio-Latina n. 532 del 03.07.2012; TAR Campania-Napoli sez.
IV n. 1542 del 03.04.2012; C.d.S. sez. I n. 386 del
02.09.2011)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.05.2013 n. 612 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Illegittimità autorizzazione “temporanea”
per un impianto sportivo per la pratica del motocross in
area vincolata.
L’autorizzazione “temporanea” per un
impianto sportivo per la pratica del motocross, di fatto
potenzialmente illimitata, appare piuttosto come un
espediente utilizzato per aggirare i vincoli di legge
attualmente ostativi, alla permanenza in loco dell’attività
motoristica.
Infatti, è stata autorizzata un’attività potenzialmente
dannosa per il contesto ambientale sottoposto a specifica
tutela vincolistica per un periodo di tempo allo stato
indefinito e indefinibile, in assenza del necessario e
preventivo espletamento delle procedure di legge volte a
verificare l’impatto e la compatibilità ambientale
dell’insediamento.
2. Nel merito, si osserva quanto segue.
2.1. Come si è esposto in premessa, l’impianto di motocross
di Valmanera è insediato di fatto fin dai primi anni ’70 in
una zona del territorio del comune di Asti incompatibile dal
punto di vista urbanistico, in quanto a vocazione “agricola”
e soggetta a vincolo paesistico, oltre che sito di interesse
comunitario.
2.2. Il tentativo del Comune di Asti di regolarizzare
l’insediamento verso alla fine degli anni ’90 attraverso una
variante parziale del PRGC contemplante la modifica della
destinazione urbanistica del sito da “agricola” a “servizi
per lo sport”, non ha superato il vaglio della Regione e
non ha avuto più seguito.
2.3. Nel maggio 2010 la Provincia di Asti ha addirittura
vietato l’esercizio dell’attività motoristica, sia
competitiva che non competitiva, nell’impianto di Valmanera,
in carenza dell’espletamento dei procedimenti di Valutazione
d’Incidenza e di verifica della procedura di VIA; e solo
dopo che il gestore ha provveduto a presentare l’istanza per
l’avvio della fase di verifica del procedura di VIA, la
Provincia ha rilasciato l’autorizzazione in deroga a
svolgere l’attività motoristica, peraltro limitandola a
quella competitiva e secondo un preciso calendario di gare,
che in sostanza ha limitato la deroga a soli dieci giorni
l’anno.
2.4. Questa situazione è rimasta sostanzialmente invariata
fino alla data di adozione dell’atto impugnato nel presente
giudizio, con cui il Comune di Asti, facendo seguito agli
accordi programmatici assunti con la Provincia di Asti e con
l’associazione sportiva cross club Asti con convenzione del
12.07.2011, ha autorizzato il gestore dell’impianto, non
solo a continuare l’esercizio dell’attività competitiva di
motocross nei pochi giorni già autorizzati in deroga dalla
Provincia nel 2010, ma a tenere aperto tutti i giorni
dell’anno, feriali e festivi, nella fascia oraria 10-13,
14.30-18, per l’svolgimento dell’attività non competitiva.
2.5. Il tutto in deroga, non solo alla destinazione
urbanistica dell’area, ma anche ai limiti acustici di cui al
Piano di Classificazione Comunale.
2.6. E tali determinazioni sono state assunte senza che nel
frattempo siano state portate a compimento le verifiche di
compatibilità ambientali dell’impianto, ma sul semplice
accordo che le stesse sarebbero state avviate ad iniziativa
del gestore e quindi ultimate in un arco temporale di circa
2 anni (740 giorni).
2.7. Si tratta, secondo il collegio, di una decisione
irragionevole e contraddittoria rispetto alle determinazioni
assunte, anche in epoca di poco precedente, dalle stesse
amministrazioni: basti considerare che ancora nell’agosto
2010 (quindi meno di un anno prima dell’accordo
procedimentale del 12.07.2011), la stessa Provincia di Asti
aveva ritenuto necessario sottoporre il progetto
dell’impianto alla Valutazione di Impatto Ambientale alla
luce delle numerose criticità rilevate nella precedente fase
di verifica ai fini della sottoposizione a VIA.
2.8. Analoghe valutazioni erano state svolte dai
rappresentanti di Provincia, Regione, ARPA e ASL nei primi
mesi del 2011 sede di Conferenza di Pianificazione, dove
erano state espresse forti perplessità sull’attuale
localizzazione dell’impianto, segnalando l’opportunità di
una rilocalizzazione dello stesso in un sito maggiormente
compatibile dal punto di vista ambientale.
2.9 Ebbene, è in tale contesto di palese criticità per la
permanenza dell’impianto nel sito di Valmanera, che è
intervenuto l’accordo procedimentale del luglio 2011; accoro
col quale la Provincia, il Comune e il gestore dell’impianto
si sono accordati nel senso di avviare le procedura di VAS e
di Valutazione d’Incidenza prodromici all’approvazione di
una futura variante del Piano Regolatore (che dovrebbe
regolarizzare l’impianto nell’attuale localizzazione),
fissando al riguardo un “cronoprogramma” di circa 2
anni e autorizzando nelle more il gestore a “continuare”
l’attività motoristica, non più però nei limiti dei 7-10
giorni già autorizzati “in deroga”, ma per tutti i giorni
dell’anno per più di sei ore al giorno, in deroga pure ai
limiti acustici.
2.10. Allo stato, come risulta dalla documentazione
acquisita dal collegio in sede istruttoria, la fase di VAS
non è affatto conclusa (come frettolosamente riferito in
udienza dal patrono del controintessato): il Comune di Asti
riferisce che il procedimento di VAS verrà avviato “non
prima di 250/300 giorni a decorrere dal 18.02.2013”,
data in cui il gestore dell’impianto ha restituito agli
uffici le copie degli elaborati relativi al procedimento di
VAS sottoscritti per accettazione delle condizioni in esse
riportate.
2.11. Quanto ai procedimenti di VIA e di Valutazione di
Incidenza, gli stessi - riferisce sempre il Comune – “potranno
essere avviati solo a seguito della conclusione positiva dei
procedimenti di VAS e di variante al PRGC”.
2.12. In sostanza, allo stato, non è certo cosa attesterà la
VAS; non è certo se la VAS condurrà all’approvazione di una
variante al PRGC in senso compatibile alla permanenza
dell’impianto (se anche il Comune l’adottasse, non si può
prevedere cosà deciderà la Regione in sede di approvazione,
viste le criticità già rilevate in passato, sia dalla
Regione che dalla Provincia); non è certo, infine, quale
sarà il risultato delle fasi di VIA e di Valutazione di
Incidenza che dovrebbero essere avviate dopo l’ipotetica
approvazione della variante urbanistica.
2.13. I tempi per l’espletamento di tali incombenti sono
lunghi e incerti: i due anni approssimativi stabiliti nel
cronoprogramma attengono solo alla fase di VAS, ma non
considerano gli ulteriori tempi necessari per l’approvazione
(del tutto ipotetica, peraltro) della variante urbanistica e
per l’espletamento della VIA e della Valutazione
d’incidenza.
2.14. In tale contesto, l’autorizzazione impugnata nel
presente giudizio, benché qualificata “temporanea”, è
potenzialmente illimitata, apparendo piuttosto come
l’espediente utilizzato dalle parti per aggirare i vincoli
di legge attualmente ostativi alla permanenza in loco
dell’attività motoristica.
3. Alla luce di tali considerazioni, sussistono in
definitiva le violazioni di legge denunciate dalla
ricorrente, dal momento che con l’atto impugnato è stata
autorizzata un’attività potenzialmente dannosa per il
contesto ambientale sottoposto a specifica tutela
vincolistica per un periodo di tempo allo stato indefinito e
indefinibile, in assenza del necessario e preventivo
espletamento delle procedure di legge volte a verificare
l’impatto e la compatibilità ambientale dell’insediamento di
cui si discute (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.05.2013 n. 600 -
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EDILIZIA PRIVATA: Calcolo fascia di rispetto corsi d’acqua dai
confini incerti.
La disposizione dettata dall’art. 1, lett. c), L. 431/1985
sottopone a vincolo paesaggistico i fiumi, i torrenti e i
corsi d’acqua e le relative sponde o piede degli argini per
una fascia di 150 mt. ciascuna.
La misurazione della fascia
di rispetto deve partire dagli elementi predetti (sponde o
piede degli argini) e, solo ove gli stessi siano incerti,
dal punto nel quale si colloca il livello di piena
ordinaria, che include le sponde, le rive interne e l’area
del corso fluviale soggetta ad essere sommersa dalla piena.
Nel merito, il ricorso è solo parzialmente fondato.
Va innanzitutto respinto il primo motivo di censura.
Nella sua argomentazione, la parte ricorrente prende le
mosse dalla disposizione dettata dall’art. 1, lett. c), L.
431/1985 che sottopone a vincolo paesaggistico i fiumi, i
torrenti e i corsi d’acqua e le relative sponde o piede
degli argini per una fascia di 150 mt. ciascuna. Sottolinea,
quindi, come la misurazione della fascia di rispetto debba
dipartire dagli elementi predetti (sponde o piede degli
argini) e, solo ove gli stessi siano incerti, dal punto nel
quale si colloca il livello di piena ordinaria. Conclude,
infine, che il provvedimento impugnato avrebbe violato il
menzionato criterio, in quanto avrebbe fatto riferimento al
limite demaniale riportato sulla cartografia catastale,
determinato, in mancanza di una sua evidenza in sito,
attraverso il riferimento “a capisaldi inamovibili e a
punti fiduciari catastali” (cfr. relaz. arch. Gandino
del 14.10.1998).
Va tuttavia rilevato che, in corso di giudizio, il Comune di
Rocca Grimalda ha depositato (in allegato alla memoria
13.03.2013) una relazione tecnica a firma del responsabile
del servizio tecnico comunale, nella quale si dà atto della
ragionevolezza del limite demaniale come termine di
misurazione della fascia di 150 mt.: nella relazione si
evidenzia come plurimi elementi di indagine planimetrica e
geomorfologica confermino la corretta individuazione,
attraverso il criterio del limite demaniale, del terrazzo
alluvionale intermedio (indicato con la sigla TA2) come sede
del flusso idrico durante gli eventi di piena ordinaria. Il
documento tecnico in esame appare risolutivo, pertanto, in
quanto i rilievi ivi contenuti -in alcun modo confutati
dalla società ricorrente- dimostrano che la misurazione
effettuata dal Comune, pur riferendosi al limite demaniale,
ha individuato il livello della piena ordinaria, che include
le sponde, le rive interne e l’area del corso fluviale
soggetta ad essere sommersa dalla piena (cfr. Cass. civile
sez. un., 13.11.2012, n. 19703), e dal quale, per
giurisprudenza pacifica, va misurata la fascia di protezione
di m. 150 sottoposta a vincolo paesaggistico ex art. 1,
lett. c), l. 08.08.1985 n. 431 (cfr. Pretura Reggio Emilia,
15.05.1992).
In altri termini, la prima misurazione posta a base dei
provvedimenti comunali, pur assunta sulla base di rilievi
topografici, è risultata corretta anche alla stregua delle
indagini condotte in loco, in quanto coincidente con
l’effettiva linea del livello di piena ordinaria, da
assumere quale termine del computo della fascia di rispetto
di 150 mt..
La società ricorrente invoca un diverso criterio di
misurazione, che assume a riferimento non già il limite
della piena ordinaria ma l’argine artificiale ubicato sulla
sponda olografica destra. Si tratta tuttavia di riferimento
improprio, poiché il calcolo dal piede esterno dell'argine è
legittimo solo se quest'ultimo esplica una funzione analoga
alla sponda nel contenimento delle piene ordinarie (Pretura
Cremona, 24.09.1990).
In conclusione, essendosi la misurazione comunale basata sul
limite della piena ordinaria, risulta infondata la
contestazione della correttezza del criterio di misurazione
applicato. D’altra parte, la società ricorrente non ha in
alcun modo contrastato le risultanze dell’indagine
geomorfologica che hanno condotto a fornire conferma della
correttezza del criterio applicato (in particolare per
quanto attiene alla individuazione della linea di piena
ordinaria, dalla quale si diparte la fascia di protezione
dei 150 mt.) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 08.05.2013 n. 578 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Opere abusive su immobile soggetto a vincolo
paesaggistico ai sensi dei DD.MM. 01/08/1985 (c.d. "Galassini").
Nel caso di opere abusive realizzate su immobile soggetto a
vincolo paesaggistico ai sensi dei DD.MM. 01/08/1985 (c.d. "Galassini"),
secondo costante giurisprudenza, la norma di cui all'art. 1-quinquies della legge n. 431 del 1985 ha implicato una
novazione retroattiva del d.m. 28.03.1985, fonte normativa
dei decreti di divieto di modificazione dell'assetto
territoriale, comportando la permanenza dei vincoli nelle
zone da questo indicate, a fronte di opere edilizie iniziate
ed in corso di esecuzione, qualora esse non abbiano ancora
raggiunto uno stadio di realizzazione tale da compromettere
ogni possibilità di recupero del territorio, da difendere
nel suo valore paesaggistico e ambientale.
Rileva il Collegio che l'immobile oggetto di sanatoria
ricade in ambito di tutela paesaggistica determinato dai
DD.MM. 01/08/1985 denominati "Galassini", pubblicati
sulla Gazzetta Ufficiale del 19.12.1985 n. 298 e le opere
oggetto di condono edilizio in tipologia 1, relative
all'ampliamento di edificio residenziale con chiusura
terrazzo, non sono conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di
entrata in vigore del D.L. n. 269/2003 del 01/10/2003, così
come ulteriormente precisato nella Circolare n. 2699 del
07/12/2005 del Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti, in quanto trattasi di ampliamento residenziale
con chiusura terrazzo di edificio trifamiliare (tre unità
immobiliari), e, pertanto, in contrasto con l'art. 14.10 e
14.13 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G.C. in
variante — Parziale 2 — approvato con deliberazione C.C. n.
20 del 15/05/2000, e l'art. 53 delle Norme Tecniche di
Attuazione del P.R.G.C. approvato con Deliberazione di C.C.
n. 12 del 28/02/2002, in regime di salvaguardia ai sensi
dell'art. 58 della l.r. n. 56 del 1977 s.m.i..
Ciò premesso va rilevato che non è ammissibile a condono
l'ampliamento di edificio residenziale con chiusura di
terrazzo, trattandosi di opere in tipologia 1 ai sensi L.
326 del 2003 realizzate in assenza del titolo abilitativo
edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici.
La sopra citata lettera d) del comma 27 dell'art. 32 della
Legge n. 326 del 2003 introduce, infatti, una doppia
condizione al fine di escludere la sanabilità, ossia che
l'opera abusiva sia stata realizzata su immobili soggetti a
determinati vincoli istituiti prima dell'esecuzione delle
stesse e che non sussista la conformità urbanistica.
L'istanza di sanatoria non è, pertanto, accoglibile, in
quanto, ai sensi della lettera d) del comma 27 dell'art. 32
della Legge n. 326 del 20/2003, si tratta di opere abusive
realizzate su immobile soggetto a vincolo paesaggistico ai
sensi dei DD.MM. 01/08/1985 (c.d. "Galassini")
istituito prima della realizzazione delle suddette opere
(31/12/1998) in assenza del Titolo abilitativo edilizio e
non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici (tipologia 1).
Con riguardo alla sussistenza del vincolo va richiamata la
costante giurisprudenza (Cons. Stato Sez. VI, 25.01.1995, n.
78) secondo la quale la norma di cui all'art. 1-quinquies
della legge n. 431 del 1985 ha implicato una novazione
retroattiva del d.m. 28.03.1985, fonte normativa dei decreti
(c.d. Galassini) di divieto di modificazione dell'assetto
territoriale, comportando la permanenza dei vincoli nelle
zone da questo indicate, a fronte di opere edilizie iniziate
ed in corso di esecuzione, qualora esse non abbiano ancora
raggiunto uno stadio di realizzazione tale da compromettere
ogni possibilità di recupero del territorio, da difendere
nel suo valore paesaggistico e ambientale.
Il D.L. 27.06.1985 n. 312 (“disposizioni urgenti per la
tutela delle zone di particolare interesse ambientale”)
all’art. 1-quinquies prevede (articolo aggiunto dall'art. 1
della legge di conversione 08.08.1985, n. 431), che “le
aree e i beni individuati ai sensi dell'articolo 2 del
decreto ministeriale 21.09.1984, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 265 del 26.09.1984, sono inclusi tra quelli in
cui è vietata, fino all'adozione da parte delle regioni dei
piani di cui all'articolo 1-bis, ogni modificazione
dell'assetto del territorio nonché ogni opera edilizia, con
esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria, di consolidamento statico e di restauro
conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e
l'aspetto esteriore degli edifici”.
Giova ricordare che la Corte costituzionale con sentenza
21-28.07.1995, n. 417 ha dichiarato non fondata la questione
di legittimità costituzionale dell'art. 1-quinquies,
sollevata, in riferimento agli artt. 3, 42, secondo e terzo
comma, e 97 della Costituzione.
Pertanto, annullato il D.M. 21.09.1984, da cui derivava
all'Amministrazione il potere di imporre misure di
salvaguardia in previsione dell'adottando piano paesistico,
il recupero, operato dall'art. 1-quinquies della legge
08.08.1985 n. 431, dei provvedimenti emessi sulla base del
decreto annullato non è stato limitato soltanto a quelli
relativi ai beni afferenti alle categorie astrattamente
indicate dall'art. 1, comma primo, della stessa legge, ma ha
riguardato "tutte le aree e i beni (nessuno escluso)
individuati ai sensi dell'art. 2 del D.M. 21.09.1984";
pertanto, la convalidazione ha riguardato anche le misure di
salvaguardia imposte su beni non compresi nell'astratta
elencazione di cui al primo comma della legge stessa e che,
per essere inseriti in un programma pluriennale di
attuazione, erano esclusi per il futuro dalla salvaguardia
stessa ai sensi del secondo comma, della medesima legge n.
431 del 1985 (Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 180 del
01.02.1990).
Con l'art. 1-quinquies introdotto dalla legge 08.08.1985 n.
431 di conversione del D.L. 27.06.1985 n 312 è stato
operato, infatti, un recupero legislativo degli effetti già
prodotti dagli atti amministrativi emanati su attuazione
dell'art. 2 del D.M. 21.09.1984 e pubblicati sulla Gazzetta
Ufficiale anteriormente all'entrata in vigore della legge
medesima.
Conseguentemente, ai sensi dell'art. 1-quinquies del D.L. n.
312/1985, convertito, con modificazioni, dalla L. n.
431/1985, le aree e i beni individuati ai sensi dell'art. 2
del D.M. 21.09.1984 sono inclusi tra quelli in cui è
vietata, fino all'adozione da parte delle Regioni dei piani
di cui all'art. 1-bis, ogni modificazione dell'assetto del
territorio nonché ogni opera edilizia, con esclusione degli
interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo che non
alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli
edifici (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 4778 del
08.08.2006) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 07.05.2013 n. 552 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Potere regolamentare del Comune di intervenire
sulla struttura minima degli alloggi.
In una località balneare la creazione di
alveari composti per la loro totalità da unità abitative di
minimo taglio assolutamente inidonee al normale vivere
civile, finisce comunque per creare dei quartieri fantasma
di seconde case che restano praticamente deserte per nove
mesi all’anno, mentre i relativi oneri di illuminazione,
acqua, rifiuti, pulizia, ecc. restano comunque a carico
della collettività dei residenti per 12 mesi.
Inoltre, la crisi di un turismo esclusivamente basato
sull’eccessivo sviluppo di seconde case di piccolissimo
taglio, l’eccessivo affollamento (con l’inevitabile
traffico, baccano notturno e diurno, lievitazione
irragionevole dei prezzi, ecc.), conseguente all’inevitabile
saturazione di presenze dei mesi estivi ha finito con il
pregiudicare definitivamente proprio quelle entrate di
provenienza turistica garantite dagli originari valori
ambientali e “di vivibilità” delle località marine. Del
tutto ragionevolmente il Comune ha, dunque, inteso limitare
lo scempio del territorio e il mantenimento di una qualità
della vita.
Del tutto insussistente è poi l’affermata indebita
compressione della “libertà di iniziativa economica,
costituzionalmente garantita” all’imprenditore, in quanto,
come è noto, l’art. 41 della Cost. prevede che “L'iniziativa
economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, e comunque
deve “.. essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
L’assunto è fondato.
Deve, infatti, rilevarsi che, come esattamente segnalato nel
primo motivo di appello, fin dall’art. 33 della legge
17.08.1942, n. 1150 e s.m.i., ed oggi con l’art. 4 del
D.P.R. 08.06.2001 n. 327 T.U. Edilizia, “Il regolamento
che i comuni adottano ai sensi dell'articolo 2, comma 4,
deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con
particolare riguardo al rispetto delle normative
tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e
vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi.”
L’amplissima latitudine della disposizione da sola
giustifica il potere regolamentare del Comune di intervenire
sulla struttura minima degli alloggi.
Inoltre la norma deve essere collocata nell’alveo del D.M.
05.07.1975 “Modificazioni alle istruzioni ministeriali
20.06.1896”, relativamente all'altezza minima ed ai
requisiti igienico-sanitari principali dei locali
d'abitazione (ulteriormente modificato con D.M. 09.06.1999),
“concernente la compilazione dei regolamenti locali
sull'igiene del suolo e dell'abitato”, nonché nella scia
delle norme di cui agli artt. 220-222 del R.D. 1265/1934 -
T.U.L.S.; queste stabiliscono la superficie minima abitabile
per persona, quelle minime per le stanze da letto, quelle di
soggiorno ed i monolocali; prevedono l’obbligo del
riscaldamento, della presenza di finestre almeno per i vani
abitativi principali; fissano in 1/8 il rapporto tra
superficie finestrata apribile e quella del pavimento,
prevedono i casi in cui è ammessa la ventilazione forzata,
ecc…
Nel regolamento edilizio, oltre alle modalità concernenti
gli oneri procedimentali e documentali, possono, dunque,
essere collocate le disposizioni concernenti: i requisiti
igienici; il rispetto delle regole estetiche e d’ornato;
nonché le specifiche regole tecniche sull'attività
costruttiva, quali, per l’appunto, fissazione quelle sui
limiti generali di dimensionamento degli alloggi in esame.
Nel caso, poi, anche il riferimento fatto dal Comune
appellante all’art. 16 della L.R. Abruzzo 12.04.1983, n. 18
primo comma è corretto, in quanto la predetta legge
regionale demanda al regolamento “l'indirizzo e il
controllo della qualità edilizia attraverso la definizione
dei livelli minimi di prestazione delle opere edilizie …”.
Appare utile, per contrasto, anche il richiamo al comma 4°
dell’art. 16 della cit. L.R. n. 18, che esclude dal
regolamento –e quindi rimanda alle Norme Tecniche di
attuazione– le indicazioni di carattere tipicamente
programmatorio, quali “…le densità edilizie, le altezze,
le distanze, le destinazioni d'uso nonché l'indicazione e
definizione degli interventi edilizi ammessi”.
In sostanza, pur dovendosi riconoscere che si tratta di
valutazioni sostanzialmente rimesse all’autonomia normativa
del Comune, si deve comunque rilevare in linea generale che
sia il regolamento edilizio che le norme tecniche di
attuazione contengono prescrizioni a contenuto generale.
In conseguenza al Regolamento edilizio fanno propriamente
capo le disposizioni di natura normativa-regolamentare,
mentre nella NTA devono essere contenute le prescrizioni di
natura più propriamente programmatica-pianificatoria,
destinate, cioè, a regolare la futura attività edilizia.
Nel caso non vi sono dubbi che la disposizione concernente
le superfici minime ammissibili delle singole unità,
riguardando l’intero territorio comunale, aveva carattere
generale, per cui esattamente il Comune ha ritenuto di
provvedere alla sua introduzione attraverso la modifica del
R.E..
L’ampiezza del riferimento alle “modalità costruttive”
comporta in sostanza che il regolamento edilizio ben possa
riguardare tutti gli aspetti –nessuno escluso- destinati a
regolare le singole edificazioni.
Si tratta di un fascio di profili inerenti al diritto
fondamentale alla casa dei cittadini, che è sostanzialmente
unitario sotto il profilo teleologico, in quanto tali
profili sono diretti ad assicurare, in concreto, la
salubrità e la vivibilità delle residenze.
L’art. 4 del T.U. Edilizia implica che al Regolamento
edilizio dei Comuni debba essere demandata la specificazione
delle regole fondamentali dell’edificazione sotto i profili
tecnici, estetici (secondo le antiche regole d’ornato),
funzionali, igienico-sanitari e soprattutto per quello
che qui interessa- “di vivibilità” in senso ampio
degli abitati.
Quest’ultima considerazione mostra l’erroneità della
premessa logico-giuridica, su cui il Primo Giudice ha
fondato la sua decisione, alla cui stregua non vi sarebbe
stato supporto normativo al provvedimento del Comune..
Sotto altra angolazione, ancora, il provvedimento impugnato
in prime cure appare del tutto esente da manifeste
illogicità o irragionevolezze o comunque da mende
motivazionali.
Contrariamente a quanto vorrebbe la società appellata,
infatti, un’offerta di abitazioni di 45 m² (e quindi
addirittura inferiore ai 54 m² totali previsti per l’ERP in
Abruzzo) configura una tipologia tipicamente destinata a
villeggianti più che a residenti.
Come esattamente rilevato dall’appellante nel secondo
motivo, la minima tipologia costruttiva finisce di fatto per
rendere del tutto impossibile ai residenti -e soprattutto
alle famiglie con figli- la naturale reperibilità di
abitazioni di un taglio ragionevole; per cui del tutto fuori
luogo appare la petizione di principio del “libero
mercato”, come fattore miracolistico di autoregolazione
perfetta dell’offerta.
Al contrario, come la Sezione ha avuto già modo di rilevare,
in una località balneare, la creazione di alveari composti
per la loro totalità da unità abitative di minimo taglio
assolutamente inidonee al normale vivere civile, finisce
comunque per creare dei quartieri fantasma di seconde case
che restano praticamente deserte per nove mesi all’anno,
mentre i relativi oneri di illuminazione, acqua, rifiuti,
pulizia, ecc. restano comunque a carico della collettività
dei residenti per 12 mesi (cfr. Consiglio Stato, Sez. IV
22.01.2013 n.361).
Come dimostra -specialmente nelle regioni del mezzogiorno-
la crisi di un turismo esclusivamente basato sull’eccessivo
sviluppo di seconde case di piccolissimo taglio, l’eccessivo
affollamento (con l’inevitabile traffico, baccano notturno e
diurno, lievitazione irragionevole dei prezzi, ecc.),
conseguente all’inevitabile saturazione di presenze dei mesi
estivi ha finito con il pregiudicare definitivamente proprio
quelle entrate di provenienza turistica garantite dagli
originari valori ambientali e “di vivibilità” delle
località marine.
Del tutto ragionevolmente il Comune appellante ha, dunque,
inteso limitare lo scempio del territorio e il mantenimento
di una qualità della vita.
In sostanza, contrariamente a quanto affermato dal primo
giudice, sussistevano puntuali ragioni di interesse pubblico
e “prevalenti …e pregnanti ragioni di carattere sociale”,
che, sul piano funzionale, supportavano la legittimità e la
ragionevolezza della decisione del Comune.
Del tutto insussistente è poi l’affermata indebita
compressione della “libertà di iniziativa economica,
costituzionalmente garantita” all’imprenditore, in
quanto, come è noto, l’art. 41 della Cost. prevede che “L'iniziativa
economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (primo co.), e
comunque deve “... essere indirizzata e coordinata a fini
sociali“ (secondo co.).
In tale direzione è rilevante il fatto che, con la modifica
regolamentare “de qua”, l'amministrazione comunale
non ha affatto negato in radice lo "ius edificandi"
della società, ma ne ha preteso un uso più conforme
all’interesse pubblico.
In conseguenza, del tutto inconferenti si rivelano i
riferimenti all’asserita igienicità degli alloggi di 45 m² ,
in relazione alla Legge in materia di ERP.
Qui, infatti, non è tanto in discussione l’ammissibilità, o
meno, di tale tipologia nel caso singolo, ma
l’indiscriminata generalizzazione di tale taglio a tutto il
territorio comunale.
Sulla base delle precedenti considerazioni deve dunque
concludersi che:
- sul piano giuridico, è esatto che la superficie minima
abitativa per alloggio costituisce un elemento significativo
delle “modalità costruttive” medesime, per cui la
potestà di regolare le dimensioni dei nuovi alloggi deve
essere ricondotta all’art. 4 del D.P.R. 08.06.2001 n. 327
T.U. Edilizia ed alle altre norme ricordate, che consentono
al Comune di porre dei limiti regolamentari al fine di
assicurare la vivibilità delle costruzioni;
- anche sotto il profilo della ragionevolezza, inoltre,
l’aver consentito la creazione di alloggi di 45 m² per ben
il 25 % dell’intero fabbricato (il che non è poco) e di soli
60 m² per la restante parte appare comunque un ragionevole
contemperamento tra esigenze naturalmente conflittuali, del
costruttore al perseguimento del massimo lucro e della
collettività dei residenti a pervenire ad un’idonea
sistemazione abitativa (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.05.2013 n. 2433 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Differenza tra nulla-osta del Parco e
autorizzazione paesaggistica.
Le distinte autorità (ente Parco e
Soprintendenza diverse per oggettività giuridica pubblica e
perciò non sovrapponibili) sono chiamate a compiere autonome
valutazioni: mentre l’ente parco deve valutare la
compatibilità dell’intervento limitatamente alle esigenze di
salvaguardia, fruizione e valorizzazione del Parco e con le
sue specifiche destinazioni di zona, l’autorità
paesaggistica è chiamata a svolgere una diversa disamina
della compatibilità dell’intervento proposto, che ha come
parametro i valori paesaggistici riconosciuti dei luoghi, in
funzione della tutela del bene paesaggistico.
Quanto
all’autorizzazione rilasciata dall’ente Parco Nazionale del
Cilento e Vallo di Diano e al suo asserito carattere
assorbente rispetto alle valutazioni della competente
autorità paesaggistica, il Collegio non condivide quanto
osservato sul punto dalla parte appellante.
In disparte la laconicità di questo parere, appare comunque
dirimente che le distinte autorità (ente Parco e
Soprintendenza diverse per oggettività giuridica pubblica e
perciò non sovrapponibili) sono chiamate a compiere autonome
valutazioni: mentre l’ente parco deve valutare la
compatibilità dell’intervento limitatamente alle esigenze di
salvaguardia, fruizione e valorizzazione del Parco e con le
sue specifiche destinazioni di zona, l’autorità
paesaggistica è chiamata a svolgere una diversa disamina
della compatibilità dell’intervento proposto, che ha come
parametro i valori paesaggistici riconosciuti dei luoghi, in
funzione della tutela del bene paesaggistico (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2013 n. 2410 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine fissato alla soprintendenza
competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione
paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente
subdelegato), nel regime transitorio di cui al citato art.
159, comma 3, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (che riproduce la
norma già contenuta dapprima nell’art. 82 d.PR 24.07.1977,
n. 616 –come modificato dall’art. 1 l. 08.08.1985, n. 431,
di conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 27.06.1985, n. 312- e poi nell’art. 151 del
d.lgs. 29.10.1999, n. 490), per quanto di natura perentoria,
è previsto dalla legge soltanto ai fini dell’adozione
dell’eventuale provvedimento di annullamento e non anche per
la sua comunicazione ai soggetti interessati. In altri
termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è
sufficiente che l’atto sia adottato nel termine per
provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del
termine stesso l’attività successiva di partecipazione di
conoscenza dell’atto ai suoi destinatari.
A tali conclusioni la giurisprudenza è pervenuta in
considerazione della natura non recettizia di questo tutorio
annullamento, che è espressione di cogestione attiva del
vincolo paesaggistico, e della conseguente ininfluenza, ai
fini della sua validità, della comunicazione ai diretti
interessati nell’arco temporale fissato dalla legge per
l’adozione del provvedimento.
--------------
La giurisprudenza ha unanimemente riconosciuto che il potere
ministeriale di annullamento delle autorizzazioni
paesaggistiche, pur non essendo espressione di un potere di
riesame nel merito del provvedimento di base, investe
tuttavia ogni aspetto della legittimità dell’atto sottoposto
al suo scrutinio, ivi compreso l’eccesso di potere per vizio
di motivazione.
In quest’ambito, pertanto, l’autorità ministeriale non è
impedita di –e anzi deve, ad estrema difesa del vincolo-
vagliare, in relazione alla fattispecie concreta, la
congruenza del giudizio di compatibilità paesaggistica
dell’intervento.
Va anzitutto
disattesa la censura –già affrontata in primo grado e qui
riproposta- relativa alla tardività dell’atto di
annullamento adottato dal soprintendente di Salerno, dedotta
sotto il profilo che il provvedimento della soprintendenza
sarebbe stato comunicato agli interessati dopo il decorso
del termine di sessanta giorni previsto dall’art. 159 del
d.lgs. n. 42 del 22.01.2004 (applicabile ratione
temporis alla fattispecie in oggetto).
La censura non è meritevole di condivisione.
Secondo il consolidato orientamento della sezione (tra le
tante, Cons. Stato, VI sez., 08.03.2006 n. 1261; VI, 29.12.2008, n. 6586), dal quale non si ravvisano ragioni
per discostarsi, il termine fissato alla soprintendenza
competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione
paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente
subdelegato), nel regime transitorio di cui al citato art.
159, comma 3, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (che riproduce
la norma già contenuta dapprima nell’art. 82 d.PR 24.07.1977, n. 616 –come modificato dall’art. 1 l.
08.08.1985,
n. 431, di conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 27.06.1985, n. 312- e poi nell’art. 151
del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), per quanto di natura
perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini
dell’adozione dell’eventuale provvedimento di annullamento e
non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati.
In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto
termine è sufficiente che l’atto sia adottato nel termine
per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del
termine stesso l’attività successiva di partecipazione di
conoscenza dell’atto ai suoi destinatari.
A tali conclusioni la giurisprudenza è pervenuta in
considerazione della natura non recettizia di questo tutorio
annullamento, che è espressione di cogestione attiva del
vincolo paesaggistico (Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), e della conseguente ininfluenza, ai fini della
sua validità, della comunicazione ai diretti interessati
nell’arco temporale fissato dalla legge per l’adozione del
provvedimento.
Correttamente la sentenza impugnata ha escluso il carattere
invalidante della mancata tempestiva comunicazione
dell’annullamento, una volta accertato che la sua adozione è
avvenuta nel rispetto del termine per provvedere.
Per quanto attiene alla questione della lamentata
illegittimità dell’annullamento ministeriale per omessa
istruttoria e motivazione, e comunque per aver la
Soprintendenza esorbitato dai limiti propri del suo potere,
con intromissione nel merito di valutazioni paesaggistiche
riservate all’autorità locale, va ricordato, in ordine agli
aspetti sostanziali della potestà in esame, che la
giurisprudenza ha unanimemente riconosciuto che il potere
ministeriale di annullamento delle autorizzazioni
paesaggistiche, pur non essendo espressione di un potere di
riesame nel merito del provvedimento di base, investe
tuttavia ogni aspetto della legittimità dell’atto sottoposto
al suo scrutinio, ivi compreso l’eccesso di potere per vizio
di motivazione (tra le altre, Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; Cons. Stato, VI,
09.04.2001 n.
2152).
In quest’ambito, pertanto, l’autorità ministeriale non è
impedita di –e anzi deve, ad estrema difesa del vincolo
(cfr. Corte cost., 27.061986, n. 151; 18.10.1996,
n. 341; 25.10.2000, n. 437)- vagliare, in relazione
alla fattispecie concreta, la congruenza del giudizio di
compatibilità paesaggistica dell’intervento.
Non appare che, nel caso oggetto dell’odierna controversia,
la Soprintendenza abbia esorbitato dai detti suoi poteri,
avendo al contrario soltanto evidenziato la carenza
motivazionale che inficia, sotto distinti profili,
l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di
Pisciotta, tenuto conto in particolare:
a) della carenza di
un’autorizzazione paesaggistica sull’atto presupposto
approvativo della lottizzazione;
b) del carattere massivo e
di rilevante impatto paesaggistico dell’intervento
edificatorio, che prevede la realizzazione di 19 fabbricati
e 51 unità abitative su una superficie complessiva di mq
12.655;
c) della natura seriale, stereotipata e
contraddittoria degli atti con cui la Commissione per il
paesaggio, nella seduta del 07.07.2009, ha ritenuto, in
relazione ai “seriali fabbricati previsti”, il rispetto
“delle tipologie figurative dei paesaggi “Cilentano” e, nel
contempo, delle “forme dell’architettura contemporanea”;
d)
della carenza della documentazione richiesta dal d.P.C.M.
12.12.2005 ai fini del rilascio della prescritta
autorizzazione paesaggistica, con particolare riferimento
alla sezione longitudinale degli elaborati di progetto, alla
carenza delle quote nella planimetria generale, alla carenza
di uno studio e di un’adeguata rappresentazione del progetto
delle aree da destinare a verde;
e) della intervisibilità del sito con altre aree oggetto di
tutela e, in ogni caso, del fatto che le opere assentite “sono
tali da stravolgere la stessa identità dei luoghi,
introducendo nell’ambito paesaggistico tutelato elementi di
forte impatto, peraltro apprezzabili da numerosi punti di
vista accessibili al pubblico (quali, ad esempio, la
viabilità comunale e le alture circostanti)”
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2013 n. 2410 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggio multipiano e D.M. 1444/1968.
In merito alla computabilità ai fini volumetrici dei
parcheggi non pertinenziali, la giurisprudenza si è espressa
in senso positivo, giacché le autorimesse edificate fuori
terra vanno qualificate come nuove costruzioni.
Non rileva
che il parcheggio multipiano sia utile per la collettività
in funzione dell’auspicato decongestionamento del traffico
automobilistico della zona, perché una simile finalità è a
ben vedere propria di qualunque tipo di struttura privata
adibita a parcheggio di autovetture, indipendentemente dalle
sue caratteristiche, anche quando utilizzabile in via
temporanea da terzi, previo pagamento, nell’àmbito di un
insediamento commerciale di interesse collettivo.
Il
legislatore ha riservato un regime differenziato ai soli
parcheggi c.d. “pertinenziali”, facendo soggiacere tutti gli
altri alle comuni regole edilizio-urbanistiche delle nuove
costruzioni, ivi compreso il rispetto della cubatura
consentita per la zona territoriale di effettiva
localizzazione dell’autorimessa (nella fattispecie zona B).
Non può neppure essere messa in dubbio l’immediata
operatività del d.m. n. 1444 del 1968, trattandosi di
normativa che costituisce fonte sovraordinata rispetto agli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che le relative
prescrizioni non sono derogabili dalle normative
urbanistiche locali, per essere le prime in realtà norme
imperative e di ordine pubblico, per cui in sede di
redazione e revisione degli strumenti urbanistici i comuni
sono obbligati a non discostarsi dalle regole ivi fissate,
le quali prevalgono sulla disciplina locale eventualmente
difforme e sono applicabili dal giudice in via sostitutiva.
Nel merito, il Collegio ritiene degna di favorevole
considerazione, e assorbente di ogni altra doglianza, la
censura incentrata sulla violazione dei limiti volumetrici
di cui all’art. 7 del d.m. n. 1444 del 1968 (“…Zone B): …
Qualora le previsioni di piano consentano trasformazioni per
singoli edifici mediante demolizione e ricostruzione, non
sono ammesse densità fondiarie superiori ai seguenti limiti:
… 6 mc/mq per comuni tra 200 mila e 50 mila abitanti; … Sono
ammesse densità superiori ai predetti limiti quando esse non
eccedano il 70% delle densità preesistenti …”).
In questo senso la Sezione si era già espressa allorquando
aveva annullato nel 1990 la concessione edilizia
successivamente oggetto di rinnovo (“…il D.M. 02.04.1968
… stabilisce –in tema di limiti di densità edilizia per le
diverse zone territoriali omogenee– che nelle zone B non
sono ammesse densità fondiarie superiori al limite di 6 mc/mq.
per comuni tra 200.000 e 50.000 abitanti (art. 7). Va
osservato che sia il comune di Modena, sia la società
controinteressata non contestano espressamente che, nel caso
in esame, si abbia in concreto un superamento dei limiti
volumetrici predetti … Va, d’altra parte, considerato che le
autorimesse come quella in esame possono fors’anche
configurarsi genericamente come infrastrutture, ma
costituiscono essenzialmente e principalmente degli esercizi
pubblici, per il loro carattere e natura ben diversi da
quelli di normali parcheggi sulla pubblica via. La loro
esclusione dai limiti volumetrici di densità fondiaria
appare, dunque, difficilmente configurabile, non solo nella
fattispecie in esame, ma anche in sede teorica …”).
La circostanza, poi, che quella pronuncia avesse ritenuto
nella fattispecie superati i limiti di volumetria ammessi
dalla legge rendeva sufficiente per i ricorrenti la mera
riformulazione della censura, sicché non convince
l’obiezione dell’Amministrazione secondo cui sarebbe mancata
la puntuale e documentata indicazione dell’entità della
cubatura eccedente la soglia consentita, spettando semmai
all’ente locale, che detiene la relativa documentazione,
fornire a questo punto la prova dell’erroneità dell’assunto;
prova che, però, non è stata data, così venendo
indirettamente confermata la correttezza, in punto di fatto,
della doglianza, tanto più che nella memoria difensiva
depositata il 28.03.2013 gli interessati hanno
quantificato in 32.000 mc. la volumetria del fabbricato e in
23.000 mc. il limite desumibile dalla legge.
Quanto, ancora, alla computabilità ai fini volumetrici dei
parcheggi non pertinenziali, la giurisprudenza si è espressa
in senso positivo (v. TAR Friuli Venezia Giulia 12.06.2006
n. 426), giacché le autorimesse edificate fuori terra vanno
qualificate come nuove costruzioni (v. Cons. Stato, Sez. IV,
17.05.2012 n. 2847 e 26.09. 2008 n. 4645).
D’altra parte, non rileva che il parcheggio multipiano
oggetto della presente controversia sia utile per la
collettività in funzione dell’auspicato decongestionamento
del traffico automobilistico della zona, perché una simile
finalità è a ben vedere propria di qualunque tipo di
struttura privata adibita a parcheggio di autovetture,
indipendentemente dalle sue caratteristiche –anche quando
utilizzabile in via temporanea da terzi, previo pagamento,
nell’àmbito di un insediamento commerciale di interesse
collettivo–, e tuttavia il legislatore ha riservato un
regime differenziato ai soli parcheggi c.d. “pertinenziali”,
facendo soggiacere tutti gli altri alle comuni regole
edilizio-urbanistiche delle nuove costruzioni, ivi compreso
il rispetto della cubatura consentita per la zona
territoriale di effettiva localizzazione dell’autorimessa
(nella fattispecie zona B).
Non può neppure essere messa in dubbio l’immediata
operatività del d.m. n. 1444 del 1968, trattandosi di
normativa che costituisce fonte sovraordinata rispetto agli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che le relative
prescrizioni non sono derogabili dalle normative
urbanistiche locali –per essere le prime in realtà norme
imperative e di ordine pubblico–, per cui in sede di
redazione e revisione degli strumenti urbanistici i comuni
sono obbligati a non discostarsi dalle regole ivi fissate,
le quali prevalgono sulla disciplina locale eventualmente
difforme e sono applicabili dal giudice in via sostitutiva
(v., ex multis, TAR Piemonte, Sez. I, 10.10.2008 n.
2565); il che, pertanto, consente di prescindere nel caso di
specie dal nuovo strumento urbanistico del 1991, onde non
osta all’accoglimento della domanda giudiziale il disposto
dell’art. 81.6 delle n.t.a. (laddove, nell’àmbito delle «aree
destinate a parcheggi», prevedendo che le “…superfici
destinate al rimessaggio non concorrono al computo della
superficie utile …”, possa intendersi, direttamente o
indirettamente, derogatorio della disciplina di cui al d.m.
n. 1444/1968), né una preclusione si rinviene nell’art.
101.112 delle n.t.a. (che, nell’àmbito della «zona
elementare n. 443», autorizza sì la “…realizzazione
per iniziativa privata di un parcheggio multipiano a
servizio del centro storico e delle adiacenze …” ma
senza indicazione della volumetria ammessa) (massima tratta
da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 02.05.2013 n. 342 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo distacchi ex art. 9 DM 1444/1968.
Ai fini del calcolo della distanza ex
art. 9 DM 1444/1968, non devono prendersi in considerazione
elementi meramente decorativi e privi di rilievo volumetrico
dell’edificio, quali gli sporti, cioè le sporgenze da non
computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle
caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare, le mensole, le lesene, i
risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli
elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni
di gronda e i loro sostegni.
Il gravame merita accoglimento, per le ragioni che seguono.
L’ordinanza (cfr. doc. 1 dei ricorrenti), richiama la
documentazione prodotta dalle parti interessate e le
risultanze del sopralluogo del 15.03.2012, per giustificare
la circostanza dell’avvenuta edificazione a distanza
inferiore a quella di cui all’art. 9 del DM 1444/1968.
In realtà, come agevolmente si desume dalla documentazione
in atti (cfr. il doc. 10 dei ricorrenti), il tecnico degli
esponenti, geom. L., ha effettuato due distinti rilievi ai
fini del calcolo della distanza, entrambi peraltro con la
medesima strumentazione topografica e tali rilevi hanno
portato a due diverse misurazioni: 10,316 metri il primo
rilievo del 12.10.2011 e 9,82 metri il secondo rilievo del
09.03.2012 (cfr. sul punto, anche i documenti n. 7 e n. 9
dei ricorrenti).
Il tecnico del sig. S., geom. U., dal canto suo, ha indicato
al Comune una terza e differente misura (cfr. il doc. 7 del
resistente).
Tale discrasia di misurazione, come ben spiegato dal tecnico
degli esponenti nel già citato doc. 10 dei medesimi, si
giustifica per il fatto che gli edifici di cui è causa non
si fronteggiano direttamente, sicché il calcolo non riguarda
la distanza fra due facciate parallele, bensì quella fra un
punto/angolo della facciata dello stabile degli esponenti,
proiettato su un piano inclinato, rappresentato dalla
facciata dell’edificio del sig. S. (cfr. il già menzionato
doc. 10, pag. 2).
Ciò premesso, è sufficiente un’inclinazione –anche se
impercettibile– della facciata del fabbricato degli
esponenti rispetto a quella del confinante, per determinare
diversi valori di misurazione (sul punto, cfr. anche i
documenti versati in giudizio dalla parte resistente ai
numeri 4 e 5, che confermano come non si tratti della misura
della distanza fra edifici paralleli).
Si aggiunga ancora, come del resto evidenziato al Comune dal
legale dei ricorrenti nel corso del procedimento
amministrativo, che ai fini del calcolo della distanza non
devono prendersi in considerazione elementi meramente
decorativi e privi di rilievo volumetrico dell’edificio,
quali lesene od altro (cfr. i docc. 6 e 6a del Comune ed, in
giurisprudenza, le sentenze del Consiglio di Stato, sez. IV,
17.05.2012, n. 2847 e sez. V, 02.11.2010, n. 7731, per la
quale: <<Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare
ai fini delle distanze perché non attinenti alle
caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le
mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con
funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte
dimensioni, le canalizzazioni di gronda e i loro sostegni>>;
oltre a TAR Lombardia, sez. IV, 04.05.2011, n. 1174) e non
risulta, da parte del Comune di Lambrugo, alcuna
considerazione di tali elementi nel corso dell’attività
istruttoria.
Di conseguenza, attesa l’oggettiva e non contestata
difficoltà di un’esatta misurazione della distanza –viste le
particolari caratteristiche dei luoghi– appare opportuno e
non illogico che l’Amministrazione intimata possa attenersi
ad una misura media, alla luce anche dell’esiguità della
asserita violazione della distanza minima di dieci metri
(9,82 metri anziché 10, con uno scaro di 18 centimetri) e
tenuto conto dell’eventuale presenza di lesene o analoghi
elementi architettonici.
Si badi che in questa sede non è certo in discussione
l’orientamento costante della giurisprudenza amministrativa,
al quale aderisce anche la scrivente Sezione, sulla assoluta
inderogabilità della citata distanza di dieci metri di cui
all’art. 9 del DM 1444/1968; ciò che invece rileva è il
palese difetto di istruttoria ed il travisamento dei fatti
in cui è incorso il Comune di Lambrugo all’atto della
misurazione della distanza stessa.
Si conferma –pertanto– l’accoglimento del ricorso, con
conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata n. 12/2012 (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.04.2013 n. 1124 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dopo iniziali incertezze, è ormai opinione
pacifica in giurisprudenza quella secondo la quale la
denuncia di inizio attività, in quanto mero atto del
privato, non costituisce titolo amministrativo: l’attività
edilizia, realizzabile a seguito di denuncia, è attività
completamente liberalizzata cui si correla un potere di
controllo dell’Amministrazione, la quale può intervenire per
inibirla o rimuoverne gli effetti qualora accerti il suo
contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente.
Si distingue, in particolare, fra potere inibitorio,
esercitabile nel breve termine previsto dalla legge,
decorrente dal momento di presentazione della denunzia (il
quale presuppone unicamente il mero accertamento della non
compatibilità urbanistico–edilizia dell’intervento), e
potere di “autotutela” che può essere invece esercitato
senza limiti temporali prestabiliti (e che, come vedremo,
presuppone accertamenti più complessi).
Si tratta in realtà di un potere di “autotutela” sui generis
in quanto, come detto, non incidente su un precedente
provvedimento amministrativo. Tale potere tuttavia condivide
con il classico potere di autotutela le regole di disciplina
sostanziali e procedurali; sicché il suo esercizio
presuppone:
a) l’avvio di un nuovo procedimento e, di conseguenza, la
comunicazione agli interessati dell’avviso di cui all’art. 7
della legge n. 241/1990;
b) lo svolgimento di un’attività di comparazione fra
interesse pubblico, volto alla ripristino dello status quo
ante, e interesse del privato, teso invece a conservare
l’intervento, al fine di stabilire se effettivamente il
primo prevalga sul secondo (il potere non è dunque
attivabile al mero fine di ripristinare la legalità
violata).
Ciò premesso, si
osserva che, dopo iniziali incertezze, è ormai opinione
pacifica in giurisprudenza quella secondo la quale la
denuncia di inizio attività, in quanto mero atto del
privato, non costituisce titolo amministrativo: l’attività
edilizia, realizzabile a seguito di denuncia, è attività
completamente liberalizzata cui si correla un potere di
controllo dell’Amministrazione, la quale può intervenire per
inibirla o rimuoverne gli effetti qualora accerti il suo
contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente
(cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. 29.07.2011 n. 15).
Si distingue, in particolare, fra potere inibitorio,
esercitabile nel breve termine previsto dalla legge,
decorrente dal momento di presentazione della denunzia (il
quale presuppone unicamente il mero accertamento della non
compatibilità urbanistico–edilizia dell’intervento), e
potere di “autotutela” che può essere invece
esercitato senza limiti temporali prestabiliti (e che, come
vedremo, presuppone accertamenti più complessi).
Si tratta in realtà di un potere di “autotutela” sui
generis in quanto, come detto, non incidente su un
precedente provvedimento amministrativo. Tale potere
tuttavia condivide con il classico potere di autotutela le
regole di disciplina sostanziali e procedurali; sicché il
suo esercizio presuppone: a) l’avvio di un nuovo
procedimento e, di conseguenza, la comunicazione agli
interessati dell’avviso di cui all’art. 7 della legge n.
241/1990; b) lo svolgimento di un’attività di comparazione
fra interesse pubblico, volto alla ripristino dello
status quo ante, e interesse del privato, teso invece a
conservare l’intervento, al fine di stabilire se
effettivamente il primo prevalga sul secondo (il potere non
è dunque attivabile al mero fine di ripristinare la legalità
violata).
Nel caso concreto, l’Autorità amministrativa, con il
provvedimento del 29.03.2002 (recante “diniego della DIA”),
ha nella sostanza esercitato il suddetto potere di
autotutela: invero, il termine previsto per l’esercizio del
potere inibitorio (all’epoca, in base all’art. 4, comma 11,
del d.l. 05.10.1993 n. 398, convertito in legge 04.12.1993,
n. 493, pari venti giorni) era ormai abbondantemente
decorso.
Tale intervento, contrariamente a quanto sostenuto dalla
parte, non era precluso all’Autorità: la scadenza del
termine entro il quale esercitare il potere inibitorio, come
detto, non determina la completa consumazione del potere,
residuando la possibilità di agire in autotutela; tuttavia,
per le ragioni illustrate, il provvedimento avrebbe dovuto
essere preceduto dall’avviso di cui all’art. 7 della legge
n. 241/1990, nonché dall’effettuazione dell’attività di
comparazione fra interesse pubblico ed interesse privato di
cui sopra si è fatto cenno (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.04.2013 n. 892 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Decadenza ex art. 15, comma 2, del d.P.R.
380/2001.
Per impedire la decadenza di cui all’art. 15, comma 2, del
d.P.R. n. 380/2001 è necessario che gli interventi
intrapresi denotino l’effettiva volontà di realizzare
l’opera assentita.
In particolare sono ritenuti idonei ad
impedire la decadenza quegli interventi che presuppongono
una effettiva installazione di un cantiere, è cioè una
significativa concentrazione di uomini e mezzi sul luogo
delle lavorazioni.
Non possono invece considerarsi rilevanti i lavori
consistenti in meri sbancamenti, sondaggi, recinzioni
dell’area di cantiere ecc..
75. Per completezza
il Collegio deve dare atto che lavorazioni compiute sono
idonee ad impedire la decadenza di cui all’art. 15, comma 2,
del d.P.R. n. 380/2001.
76. Al riguardo va rilevato, infatti, che secondo la
giurisprudenza, per evitare facili elusioni, è necessario
che gli interventi intrapresi denotino l’effettiva volontà
di realizzare l’opera assentita. In particolare sono
ritenuti idonei ad impedire la decadenza quegli interventi
che presuppongono una effettiva installazione di un
cantiere, è cioè una significativa concentrazione di uomini
e mezzi sul luogo delle lavorazioni (cfr. ex multis,
Consiglio di Stato, sez. IV, 18.06.2008 n. 3030). Non
possono invece considerarsi rilevanti i lavori consistenti
in meri sbancamenti, sondaggi, recinzioni dell’area di
cantiere ecc. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II,
08.03.2007 n. 372).
77. Nel caso concreto, come detto, le opere realizzate in
data 05.10.2010 consistono nella demolizione delle pareti
interne dell’immobile oggetto dell’intervento assentito.
78. Ritiene, pertanto, il Collegio che tali opere siano
idonee a dimostrare l’effettiva volontà della
controinteressata a dare inizio ai lavori assentiti,
considerato che, nonostante l’esiguo lasso di tempo a
disposizione (in data 07.10.2010 è infatti intervenuto il
decreto presidenziale che ha sospeso gli effetti del
permesso di costruire), esse hanno comunque entità
significativa; e che le stesse presuppongono una effettiva
installazione di un cantiere con concentrazione di uomini e
mezzi rapportati alle opere stesse
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.04.2013 n. 847 -
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EDILIZIA PRIVATA:
In base all’art. 10, comma primo, lett. c), del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, sono considerati interventi di
ristrutturazione edilizia anche quegli interventi che
determinano modifiche del volume o della sagoma
dell’edificio sul quale sono realizzati (cd.
“ristrutturazione pesante”).
Gli artt. 3, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 380/2001 e 27,
comma primo, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12 (nella
formulazione risultante in esito alla sentenza della Corte
Costituzionale n. 309/2011) stabiliscono invece che, nel
caso in cui si proceda alla completa demolizione e
ricostruzione del preesistente fabbricato, è necessario
mantenere inalterata sagoma e volume.
Queste ultime disposizioni, tuttavia, in base al loro chiaro
tenore letterale, si applicano solo quando si procede alla
radicale demolizione del fabbricato preesistente ed alla
conseguente ricostruzione del medesimo; se al contrario non
vi è completa demolizione, trova applicazione la regola
generale, contenuta nel citato art. 10 il quale, come visto,
ammette la possibilità di modifiche di sagoma.
24. In base all’art.
10, comma primo, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380,
sono considerati interventi di ristrutturazione edilizia
anche quegli interventi che determinano modifiche del volume
o della sagoma dell’edificio sul quale sono realizzati (cd.
“ristrutturazione pesante”).
25. Gli artt. 3, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 380/2001 e
27, comma primo, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12 (nella
formulazione risultante in esito alla sentenza della Corte
Costituzionale n. 309/2011) stabiliscono invece che, nel
caso in cui si proceda alla completa demolizione e
ricostruzione del preesistente fabbricato, è necessario
mantenere inalterata sagoma e volume.
26. Queste ultime disposizioni, tuttavia, in base al loro
chiaro tenore letterale, si applicano solo quando si procede
alla radicale demolizione del fabbricato preesistente ed
alla conseguente ricostruzione del medesimo (cfr. TAR
Lombardia Milano, sez. II, 09.06.2009 n. 3939); se al
contrario non vi è completa demolizione, trova applicazione
la regola generale, contenuta nel citato art. 10 il quale,
come visto, ammette la possibilità di modifiche di sagoma.
27. Nel caso concreto è del tutto pacifico che l’intervento
assentito con il titolo impugnato non comporta la radicale
demolizione del fabbricato che ne costituisce oggetto
(l’opera consiste nella realizzazione di un sopralzo
sull’edificio preesistente di m. 2,60); ne consegue che il
limite di identità di sagoma non è nella fattispecie
operante
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.04.2013 n. 847 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Il giudizio tecnico-discrezionale circa la
compatibilità paesaggistico-ambientale di un intervento
edilizio costituisce espressione di una scelta di merito
formulata dall’autorità amministrativa; scelta che il
giudice amministrativo non può sindacare se non nei limiti
del vizio dell’eccesso di potere, riscontrabile quando vi
sia un errato apprezzamento della situazione fattuale ovvero
quando le valutazioni effettuate siano macroscopicamente
illogiche o contraddittorie.
41. Con il terzo
motivo, si deduce l’illogicità dei pareri rilasciati dalla
Commissione edilizia comunale integrata dall’esperto in
materia paesaggistica, evidenziandosi che il fabbricato
oggetto dell’intervento assentito è sottoposto a vincolo
paesistico e che lo stesso intervento presenta
caratteristiche che lo renderebbero incompatibile con il
suddetto vincolo.
42. In proposito si osserva che il giudizio
tecnico-discrezionale circa la compatibilità
paesaggistico-ambientale di un intervento edilizio
costituisce espressione di una scelta di merito formulata
dall’autorità amministrativa; scelta che il giudice
amministrativo non può sindacare se non nei limiti del vizio
dell’eccesso di potere, riscontrabile quando vi sia un
errato apprezzamento della situazione fattuale ovvero quando
le valutazioni effettuate siano macroscopicamente illogiche
o contraddittorie (cfr. TAR Cagliari Sardegna sez. II,
13.07.2010 n. 1863).
43. Nel caso concreto, non sono rilevabili palesi
irrazionalità di ragionamento; né risulta che l’Autorità
preposta al rilascio del parere paesistico-ambientale sia
incorsa in errori evidenti nell’apprezzamento della
situazione di fatto.
44. I ricorrenti sostengono, invero, come anticipato, che
l’intervento assentito sarebbe in contrasto con il contesto
paesistico della zona (in particolare lamentano il forte
impatto delle vetrate che si intendono realizzare); ma in
tal modo, lungi dal mettere in risalto contraddizioni o
illogicità di ragionamento, pretendono, in maniera del tutto
inammissibile, di sostituire le proprie valutazioni a quelle
formulate dall’Autorità preposta che ha diversamente
apprezzato l’impatto dell’intervento.
45. Anche la doglianza in esame non può quindi trovare
accoglimento
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.04.2013 n. 847 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Gli aspetti riguardanti la sostenibilità statica
dell’intervento e le cautele da adottare all’atto di
manomissioni di manufatti in amianto, non costituiscono
profili valutabili in sede di rilascio del titolo edilizio,
il quale presuppone esclusivamente, ai sensi dell’art. 12,
comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, la conformità
dell’intervento alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e, più in generale, della disciplina
urbanistico–edilizia vigente.
Invero:
- le disposizioni contenute nel d.m. 14.01.2008, non
impongono l’allegazione di uno studio di fattibilità, che
certifichi la sostenibilità statica dell’intervento,
all’istanza di rilascio del permesso di costruire.
I controlli di idoneità statica vanno invero compiuti in una
fase successiva a quella di rilascio del permesso di
costruire e, precisamente, in fase di rilascio del
certificato di agibilità che, ai sensi dell’art. 25, comma
primo, del d.P.R. n. 380/2001, deve attestare, fra l’altro,
la sussistenza delle condizioni di sicurezza dell’edificio,
valutate secondo quanto disposto dalla vigente normativa.
Per ciò che concerne poi in particolare le opere composte da
strutture in cemento armato, come quelle di cui è causa, è
previsto, dall’art. 25, comma 3, lett. b), dello stesso
d.P.R. n. 380/2001, che il certificato di agibilità venga
rilasciato solo previo esperimento di collaudo statico,
effettuato ai sensi dell’art. 67 del d.P.R. n. 380/2001; e
che, comunque (cfr. art. 65 del d.P.R. n. 380/2001), prima
dell’inizio lavori, venga depositata presso lo sportello
unico comunale una denuncia cui va allegata una relazione,
firmata dal progettista incaricato, nella quale vengano
riportati i calcoli che attestino l’idoneità statica
dell’intervento;
- nessuna disposizione impone di allegare all’istanza di
rilascio del titolo edilizio un piano di smaltimento dei
materiali in fibrocemento; fermo restando ovviamente il
potere delle competenti autorità di verificare il rispetto,
in fase esecutiva, delle vigenti disposizioni in materia.
46. Con il quarto motivo, che sarà esaminato
congiuntamente al quinto, viene dedotta la violazione
dell’art. 8 del d.m. 14.01.2008, in quanto il progetto
assentito non sarebbe corredato da adeguato studio di
fattibilità che certifichi la sostenibilità statica
dell’intervento.
47. Con il quinto motivo viene dedotto eccesso di
potere per violazione del Piano Regionale Amianto Lombardia
(PRAL), approvato con DGR 22.12.2005 n. VIII/1526, in quanto
l’intervento assentito comporterebbe la manomissione di
canne fumarie realizzate in fibrocemento (eternit), senza
che siano state previste le misure di bonifica necessarie
per scongiurare pericoli per la salute umana.
48. In proposito va osservato che, come messo in luce in
sede cautelare, gli aspetti riguardanti la sostenibilità
statica dell’intervento e le cautele da adottare all’atto di
manomissioni di manufatti in amianto, non costituiscono
profili valutabili in sede di rilascio del titolo edilizio,
il quale presuppone esclusivamente, ai sensi dell’art. 12,
comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, la conformità
dell’intervento alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e, più in generale, della disciplina
urbanistico–edilizia vigente (cfr. TAR Sardegna, 30.12.1999
n. 1685)
49. In particolare, contrariamente a quanto sostenuto dai
ricorrenti, le disposizioni contenute nel d.m. 14.01.2008,
non impongono l’allegazione di uno studio di fattibilità,
che certifichi la sostenibilità statica dell’intervento,
all’istanza di rilascio del permesso di costruire.
50. I controlli di idoneità statica vanno invero compiuti in
una fase successiva a quella di rilascio del permesso di
costruire e, precisamente, in fase di rilascio del
certificato di agibilità che, ai sensi dell’art. 25, comma
primo, del d.P.R. n. 380/2001, deve attestare, fra l’altro,
la sussistenza delle condizioni di sicurezza dell’edificio,
valutate secondo quanto disposto dalla vigente normativa.
Per ciò che concerne poi in particolare le opere composte da
strutture in cemento armato, come quelle di cui è causa, è
previsto, dall’art. 25, comma 3, lett. b), dello stesso
d.P.R. n. 380/2001, che il certificato di agibilità venga
rilasciato solo previo esperimento di collaudo statico,
effettuato ai sensi dell’art. 67 del d.P.R. n. 380/2001; e
che, comunque (cfr. art. 65 del d.P.R. n. 380/2001), prima
dell’inizio lavori, venga depositata presso lo sportello
unico comunale una denuncia cui va allegata una relazione,
firmata dal progettista incaricato, nella quale vengano
riportati i calcoli che attestino l’idoneità statica
dell’intervento (Nel caso concreto queste prescrizioni sono
state peraltro rispettate, avendo la controinteressata
depositato presso gli uffici comunali, in data 4 ottobre
2010, e quindi prima dell’inizio lavori, la suddetta
denuncia, nella quale viene attestata, dal progettista
incaricato, l’idoneità statica del realizzando intervento,
anche con riferimento ai riflessi sulla struttura
sottostante).
51. Allo stesso modo, nessuna disposizione impone di
allegare all’istanza di rilascio del titolo edilizio un
piano di smaltimento dei materiali in fibrocemento; fermo
restando ovviamente il potere delle competenti autorità di
verificare il rispetto, in fase esecutiva, delle vigenti
disposizioni in materia.
52. Anche il quarto ed il quinto motivo sono quindi
infondati
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.04.2013 n. 847 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Accertamento conformità ex art. 36 del d.P.R.
380/2001 relativo soltanto ad una parte degli interventi.
Non è possibile ottenere un accertamento di conformità, ai
sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, relativo
soltanto ad una parte degli interventi, essendo al contrario
necessaria una valutazione complessiva dell’opera
abusivamente realizzata che, per essere sanata, deve essere
integralmente compatibile con la disciplina urbanistica.
Il motivo è infondato.
Va invero rilevato che l’istanza di sanatoria presentata
dalla ricorrente è stata rigettata in quanto il Comune ha
ritenuto che la stessa non si fosse limitata a realizzare un
muro (di altezza superiore a quello che in precedenza
divideva le due proprietà); ma abbia altresì provveduto a
mutare la quota del terreno di sua proprietà innalzandola
rispetto a quella precedente.
L’abuso edilizio, dunque, non si limita, secondo la
prospettazione di parte resistente, alla realizzazione del
muro, ma si sostanzia anche nella predetta opera di
riempimento che ha determinato un innalzamento della quota
del terreno contenuto dal muro stesso.
Ciò precisato va evidenziato che, per la prevalente
giurisprudenza, non è possibile ottenere un accertamento di
conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. 06.06.2001 n.
380, relativo soltanto ad una parte degli interventi;
essendo al contrario necessaria una valutazione complessiva
dell’opera abusivamente realizzata che, per essere sanata,
deve essere integralmente compatibile con la disciplina
urbanistica (cfr. ex multis Cass. pen. sez. III,
18.02.2009 n. 6910).
Da quanto sopra discende che, una volta che il Comune ha
constato un abuso consistente in un’opera complessa
(innalzamento del terreno e realizzazione di un muro di
contenimento), correttamente ha negato la sanatoria
rilevando che la relativa istanza aveva ad oggetto solo una
parte dell’intervento (l’innalzamento del muro) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.04.2013 n. 840 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 20.08.2014 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Sulla
mancata rivalutazione annuale, in base ai coefficienti
Istat, delle tariffe stabilite per la cd. “monetizzazione”
delle aree destinate a standard urbanistici.
Quanto all'elemento soggettivo della “gravità”
della colpa, esso è senz'altro ravvisabile in capo all'arch.
N., nella sua qualità di Responsabile del Servizio
Programmazione Territoriale Urbanistica – Ambiente, la quale
ha seguito i procedimenti in questione, in ogni loro fase.
Si tratta, infatti, comunque si voglia ricostruire la
vicenda in punto di diritto, della commissione di un errore
grossolano, non scusabile, essendo stati in definitiva
monetizzati degli standard urbanistici, senza alcuna
spiegazione valida, sulla base di valori nominali di mercato
risalenti al 1992, di cui era peraltro espressamente
prevista la rivalutazione annuale.
Delle due l'una: o la delibera n. 45 del
1992 era applicabile, per cui la rivalutazione non poteva
essere omessa neppure da un impiegato di minima diligenza o
la delibera n. 45 del 1992 non era applicabile, per cui
l'individuazione del valore di mercato per le aree da
monetizzare avrebbe dovuto avvenire con motivati e
trasparenti criteri oggettivi di stima, secondo
ragionevolezza, non potendosi certamente far riferimento
arbitrario a valori storici del 1992.
---------------
Le stesse considerazioni valgono per l'Assessore T.
il quale, pur sostenendo (o avendo il dubbio, o dovendo
avere il dubbio, per tutti i motivi da lui stesso esposti
nelle proprie difese) che la delibera n. 45 del 1992 non
fosse applicabile ai PEC in giudizio, non si domandò mai il
perché essa fosse espressamente richiamata in pressoché
tutte le bozze di convenzioni sottoposte all'approvazione
del Consiglio comunale, né si pose mai il problema di quale
criterio si dovesse utilizzare per monetizzare aree diverse
da quelle prese in considerazione dalla delibera in parola
(cioè diverse dalla A1, A2 e B1).
Si noti che, per quanto l'operazione di
rivalutazione degli importi fissati nel 1992 fosse
relativamente semplice (di qui la gravità della colpa per
averla del tutto trascurata), la problematica generale della
“monetizzazione” delle aree destinate a standard
urbanistico non poteva certo rappresentare un aspetto
marginale della materia urbanistica per il Comune.
La deroga
agli standard urbanistici dovrebbe costituire, invero,
ipotesi a carattere eccezionale e residuale, da affrontare
con la dovuta cautela ed attenzione; la relativa
monetizzazione, comportando al contempo un interesse non
solo urbanistico, ma anche finanziario per l'ente,
costituisce un aspetto assai delicato del quale un assessore
all'urbanistica, almeno negli aspetti generali, non può
disinteressarsi, schermandosi dietro la responsabilità
esclusiva del livello tecnico-dirigenziale.
Non è infatti pensabile né accettabile che
in un Comune come Arquata Scrivia l'Assessore competente,
pur constandogli conclamate lacune normative (con i connessi
profili di incertezza) su un argomento di portata generale e
di particolare interesse pubblico, qual è quello della
monetizzazione, trascuri di affrontare il problema e di
assumere ogni iniziativa a garanzia del buon andamento
dell'ente amministrato.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri la contestuale
qualità di presidente o membro della Commissione Edilizia
comunale rivestita dall'Assessore medesimo.
Non giova all'assessore, nel caso di
specie, l’esimente “politica” di cui all’art. 1, co.
1-ter, della legge 14.01.1994, n. 20 (ai sensi del quale “nel
caso di atti che rientrano nella competenza propria degli
uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si
estende ai titolari degli organi politici che in buona fede
li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o
consentito l'esecuzione”), non tanto perché, essendo qui
in contestazione l'omesso adeguamento delle tariffe di
monetizzazione alla svalutazione monetaria (o l'omessa
predisposizione di tariffe), non v'è a monte un “atto”
cui l'organo politico si sia adeguato, quanto perché il
compito di dare compiuta disciplina alla materia non può
considerarsi competenza esclusiva degli uffici tecnici o
amministrativi. Infine, cade opportuno ricordare che la
buona fede dell'interessato per essere esimente deve essere
ovviamente incolpevole, cioè non deve derivare da un difetto
d'esame delle questioni sottopostegli.
---------------
Né è persuasiva la lettura delle norme del t.u.e.l. proposta
dal convenuto, ove si tenga anche a mente che:
- ai sensi dell'art. 48 la giunta collabora nel governo
dell'ente con il sindaco, il quale è responsabile della
relativa amministrazione (art. 50);
- ai sensi dell'art. art 77 gli assessori rientrano nella
nozione di “amministratore locale” e ai sensi
dell'art. 78, comma 3, i componenti la giunta comunale
competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di
lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività
professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel
territorio da essi amministrato (a dimostrazione non solo
della intrinseca delicatezza delle materia in questione, da
sempre oggetto di grande attenzione da parte della
collettività in quanto crocevia di rilevanti interessi
economici e ambientali, privati e pubblici, ma anche del
ruolo centrale che gli assessori rivestono nelle suddette
materie, dalle quali non possono affatto ritenersi
estranei);
- ai sensi dell'art. 107, agli amministratori dell'ente
competono i poteri di indirizzo e controllo politico
amministrativo, mentre ai dirigenti compete la relativa
attuazione, compresa l'adozione dei “i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura
discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla
legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi
comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”
(nella specie, la materia della monetizzazione degli
standard, almeno per le aree diverse dalle A1, A2 e B1 e per
interventi non commerciali, è rimasta priva di atti generali
di indirizzo, malgrado tutte le problematiche normative e
applicative ben descritte in atti dallo stesso assessore
T.);
- ai sensi dell'art. 93 la responsabilità patrimoniale
dinanzi alla Corte dei conti può essere fatta valere tanto
nei confronti degli amministratori, quanto del personale
degli enti locali, secondo la disciplina prevista per gli
impiegati civili dello Stato.
Infine, non giova ai convenuti neppure il
principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali, a fronte di fattispecie manifestamente
irragionevoli e pregiudizievoli per l'ente amministrato (per
quanto fin qui esposto).
---------------
Non è invece
ravvisabile, in radice, l'elemento psicologico della colpa
grave in capo al Sindaco M. dalla quale, nella sua qualità
di organo di vertice dell'amministrazione comunale, non
poteva pretendersi una minuziosa verifica dell'operato di
tutti gli uffici comunali e di tutti i propri assessori,
tanto più in un settore a connotazione tecnica cui erano
preposti un assessore e un Responsabile di un Servizio.
Deve
cioè considerarsi come errore “fisologico”, in linea
di principio, ai fini della responsabilità
amministrativo-contabile, quello commesso da un Sindaco che,
in buona fede, abbia fatto affidamento sulla correttezza
dell'operato degli Uffici comunali e dell'attività di
indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta su di
essi del proprio assessore, competente per materia.
----------------
1.
La Procura Regionale ha citato in giudizio dinanzi a questa
Corte i signori M., T. e N. (nella loro rispettiva qualità
di Sindaco, di Assessore all'Urbanistica, di Responsabile
del Servizio di Programmazione Territoriale Urbanistica ed
Ambiente del Comune di Arquata Scrivia, all'epoca dei fatti
in contestazione) contestandogli l'erronea applicazione
delle tariffe stabilite per la c.d. “monetizzazione”
delle aree destinate a standard urbanistici e chiedendone
quindi la condanna al risarcimento in favore dell'ente
locale della somma di euro 193.360,24, oltre spese ed
accessori.
In particolare, nella citazione si riferisce che:
- con nota del 15.01.2009 l’Assessore all’Urbanistica del
Comune di Omissis (AL) segnalava il danno procurato
alle finanze dell’Ente dalla precedente amministrazione a
causa della mancata rivalutazione annuale, in base ai
coefficienti Istat, delle tariffe stabilite per la cd. “monetizzazione”
delle aree destinate a standard urbanistici;
- il Comune di Omissis aveva, infatti, previsto nel
proprio Piano Regolatore valori di dotazione minima di aree
per standard conformi alla normativa regionale,
disciplinando minuziosamente (artt. 14 e ss. del Titolo IV
delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G.C.) la
possibilità per l’amministrazione di acconsentire alla
monetizzazione;
- con deliberazione consiliare del 21.07.1992, n. 45, il
Comune di Omissis aveva determinato il valore del
corrispettivo in denaro da porre a carico del privato
promotore del Piano Esecutivo Convenzionato (P.E.C.) in caso
di monetizzazione delle aree destinate a parcheggio,
quantificando le tariffe in lire 400.000 fino a 15 mq e in
lire 40.000 per ogni mq eccedente i 15;
- al punto 2, lettera f), di quest'ultima deliberazione era
stabilito l’obbligo di adeguamento annuale delle tariffe “sulla
base della svalutazione risultante dai dati ISTAT”;
- l’amministrazione comunale, invece, non aveva mai
provveduto all’adeguamento, fino alla determinazione del
Responsabile del Servizio Urbanistica n. 04-URB del
31.03.2008;
- pertanto, per tutti i P.E.C. precedentemente approvati
erano state applicate le tariffe fissate dalla citata
deliberazione n. 45/1992 senza operare la rivalutazione;
- in particolare, con riferimento ai P.E.C. denominati “Omissis”,
“Omissis”, “F.I.M.”, “Omissis”,
variante “Omissis”, era stata applicata la tariffa di
€ 20,66 (equivalenti alle 40.000 lire fissate dalla predetta
deliberazione);
- relativamente al P.E.C. approvato con deliberazione del
Consiglio Comunale n. 37 del 30.09.2005, denominato “Centro
intermodale integrato – Omissis” (area a destinazione
produttiva), poi, era stata applicata una tariffa
addirittura inferiore, pari a € 13,00 al mq.;
- peraltro, le tariffe di monetizzazione di cui alla
deliberazione n. 45/1992 erano applicabili anche alle aree
produttive, giusta le precisazioni fornite al CO.RE.CO. in
data 06.08.1992, che costituiscono parte integrante della
deliberazione medesima (… per la determinazione del
corrispettivo relativo alla monetizzazione delle aree a
parcheggio sono stati presi in considerazione i valori di
mercato delle aree residenziali e produttive stabilendo, di
conseguenza, un valore ritenuto congruo per dette aree...);
inoltre, nello schema di convenzione del P.E.C. “Omissis”
il soggetto attuatore si obbligava all’art. 5 “a
monetizzare le aree di standard di cui non è prevista la
cessione al Comune al prezzo stabilito dalle vigenti
delibere in materia nel Comune di Omissis”, cioè con la
citata delibera n. 45/1992;
- analoga questione si era posta inizialmente anche per la
vendita di un terreno alla Società A. (fattispecie per la
quale, peraltro, la Procura attrice non ha poi mosso
contestazioni nell'atto di citazione, in adesione
all'eccezione di prescrizione sollevata dai presunti
responsabili nelle deduzioni difensive in fase
pre-processuale);
- il mancato adeguamento delle tariffe ha causato al Comune
un danno pari a € 193.360,24 (da suddividersi, salvo
migliore valutazione della Sezione, in parti uguali tra i
convenuti), oltre accessori e spese di giustizia;
- agli effetti degli artt. 1219 e 2943 c.c. il P.M. aveva
costituito in mora i presunti responsabili con lettere
raccomandate del 27.10.2010; all'interruzione della
prescrizione aveva provveduto anche il Sindaco di Omissis
con atti ricevuti il 29.10.2010 dalla signora M., il
30.10.2010 dalla signora N. e il 03.11.2010 dal signor T.;
- ai fini della prescrizione, il momento di decorrenza va
individuato nella data di pagamento degli oneri di “monetizzazione”
e non nella data di approvazione delle bozze di convenzione
da parte del Consiglio Comunale;
- costituisce un’omissione gravemente colposa, da parte di
coloro che avevano il dovere di eseguire la citata delibera
C.C. n. 45/92, il mancato adeguamento alla svalutazione
monetaria dei valori per la monetizzazione in discorso;
infatti, nel comportamento omissivo la gravità della colpa
discende dalla consapevolezza dell’omissione di un’attività
doverosa e, nella specie, va tenuto in considerazione che la
citata delibera n. 45/92 non era certo di difficile
interpretazione o applicazione e che la sua esecuzione non
presentava alcuna difficoltà, risolvendosi in un calcolo di
semplicità elementare;
- il Sindaco, signora M., ai sensi dell’art. 50 del t.u.e.l.,
benché titolare degli atti di indirizzo politico e tenuta a
rispettare l’autonomia dirigenziale, aveva comunque l’onere
di un costante e diligente controllo sul buon andamento
degli uffici comunali;
- l’Assessore con delega all’Urbanistica, signor T., il
quale partecipava ratione materiae degli stessi
poteri e delle responsabilità del Sindaco, non ha adottato
gli opportuni provvedimenti per l’attuazione delle
disposizioni riguardanti il suo specifico settore;
- il Responsabile del settore Urbanistica, signora N., che
ha sottoscritto tutte le convenzioni, in quanto organo “tecnico”,
non poteva ignorare l’obbligo dell’adeguamento periodico; a
lei, in primis, competeva il dovere di operare la
rivalutazione, ai sensi degli artt. 107 e ss. del t.u.e.l.,
non certo al Consiglio comunale o alle Commissioni
consiliari (non essendovi nulla da deliberare, ma solo da
applicare la rivalutazione, la quale è operazione automatica
e prettamente tecnica);
- sotto altro profilo, non poteva configurarsi né la “tacita
abrogazione” della delibera n. 45/1992, né una
integrazione o modifica della stessa da parte delle
convenzioni successivamente stipulate con i privati per i
singoli P.E.C.;
- l'interpretazione difensiva che afferma l'applicabilità
delle tariffe di monetizzazione fissate con la delibera n.
45/1992 alle sole aree residenziali a capacità insediativa
esaurita e aree di insediamento storico, con riguardo agli
interventi di tipo commerciale, quindi l'inapplicabilità
alle aree interessate dai P.E.C. in contestazione, ad avviso
del P.M. contrasta con il fatto incontestabile che la
delibera, nelle convenzioni stesse, era stata espressamente
richiamata ed applicata (ma senza rivalutazione);
- ai fini del requisito della “attualità” del danno
in contestazione il Pubblico Ministero non condivide la tesi
difensiva secondo cui l’Amministrazione sarebbe ancora in
grado di adeguare i corrispettivi e di recuperare le somme
dovute per rivalutazione, non essendo ancora maturata la
prescrizione; ciò perché, ad avviso della Procura, il danno
derivante dalla mancata acquisizione di entrate deve
ritenersi attuale anche nelle ipotesi in cui sia possibile o
addirittura in corso un’attività di recupero, per tacere del
fatto che la prospettata possibilità di recupero dei
maggiori oneri di monetizzazione da parte del Comune
parrebbe alquanto dubbia.
...
V.
Venendo al merito, la questione cruciale dell'intero
giudizio si incentra sulla necessità o meno di applicare, ai
fini della determinazione dell'importo con cui monetizzare
gli standard delle aree a parcheggio, in contestazione, la
tariffa stabilita con la citata deliberazione consiliare n.
45 del luglio 1992. Su questa problematica di fondo si
innestano le ulteriori questioni relative alla possibilità
di applicare comunque la tariffa in discorso ma senza
rivalutazione annuale Istat, nonché alle modalità di computo
dell'adeguamento stesso.
Al riguardo, le tesi difensive non appaiono fino in fondo
convincenti.
In disparte le marginali contraddizioni che, comunque,
traspaiono in diversi passaggi delle difese stesse (nella
misura in cui parrebbero affermare che il PRGC all'epoca
vigente non prevedesse, e quindi verosimilmente neppure
consentisse, la monetizzazione degli standard per le aree su
cui insistono i PEC in discussione, in quanto diverse dalle
aree B1, A1 e A2 destinate a interventi di tipo commerciale,
le sole per le quali sarebbe stata per l'appunto prevista la
monetizzazione), resta il fatto che le convenzioni “Omissis”
e “La Omissis”, qui in esame, hanno fatto espresso
richiamo alla citata deliberazione n. 45 del 1992, senza
alcuna riserva o distinguo, dunque nella sua interezza.
Nello specifico, al di là delle giustificazioni fornite ex
post dai convenuti, non può ignorarsi che:
- per il PEC “Omissis”, l'art. 5 della convenzione,
dopo aver previsto che il proponente si impegnava a
monetizzare le aree a standard per mq. 547 stabiliva
testualmente che “si richiama la delibera della Giunta
Comunale n. 45 del 21.07.1992 al fine della quantificazione
matematica degli stessi” e che “di conseguenza la
monetizzazione delle aree a standard urbanistici è così
quantificata (...): mq. 547 x € 20,66 = € 11.301,00”;
- per la variante “La Omissis”, l'art. 4 al par. 4
stabiliva testualmente che “il valore delle aree oggetto di
monetizzazione è determinato in euro 41.200,00 pari a euro
20,66 al mq (come da delibera C.C. n. 45 del 21.07.1992)”.
Un caso a se stante è costituito dal PEC “Omissis”,
il cui art. 5 prevedeva che “il soggetto attuatore, nei
limiti quantitativi previsti dal PEC, si obbliga a
monetizzare le aree di standard di cui non è prevista la
cessione al Comune al prezzo stabilito dalle vigenti
delibere in materia nel Comune di Omissis”: su questo
aspetto si tornerà tra breve.
Il rinvio puro e semplice alla delibera n. 45 del 1992 (che
era comunque l'unica esistente “in materia”), senza
precisare che il richiamo doveva intendersi ad una sola
parte della delibera stessa (cioè alla fissazione originaria
del valore nominale di monetizzazione) e quindi senza
esclusione della previsione applicativa che sanciva la
necessità di rivalutare annualmente il valore originario,
corrobora l'assunto della Procura, secondo cui la
disquisizione sulla applicabilità o meno della delibera n.
45 del 1992 risulta superata, di fatto, dall'avvenuta
applicazione della stessa (sebbene incompleta).
Ad ogni modo, per scrupolo di motivazione,
va osservato che ove si volesse ipotizzare, con le difese
dei convenuti, che la delibera n. 45 del 1992 non fosse
applicabile alle convenzioni in questione (perché
riguardante aree ed interventi diversi da quelli previsti in
convenzione), ancor meno comprensibile sarebbe il
ragionamento per cui, nell'ambito asseritamente rientrante
nelle proprie scelte discrezionali, l'ente locale avrebbe
deciso di monetizzare gli standard in base al valore “storico”
indicato nella suddetta delibera, ritenuta inapplicabile
(valore calcolato prendendo in considerazione “i valori
di mercato delle aree residenziali e produttive stabilendo,
di conseguenza, un valore ritenuto congruo per dette aree
(…) tenuto conto del costo di esecuzione delle opere che
dovrebbero essere realizzate in aree già urbanizzate”;
v. nota 9471 del 1992, in risposta alla richiesta di
chiarimenti del Co.Re.Co.) anziché in base al valore di
mercato corrente tra il 2005 e il 2006 o, comunque, a quello
nominale del 1992 attualizzato alla data dei singoli PEC,
secondo il criterio applicativo espressamente fissato dalla
stessa delibera n. 45 del 1992 (art. 2, lett. f) e ritenuto
corretto dalla Procura.
In particolare, anche ove si volesse
ammettere che le aree in questione fossero effettivamente
monetizzabili e che il relativo corrispettivo potesse essere
liberamente pattuito tra il privato proponente e l'ente
locale, nella propria discrezionalità ma in misura non
inferiore al costo di acquisizione di aree idonee a
soddisfare il rispetto dello standard, nella specie non è
dato rinvenire agli atti di causa alcun elemento oggettivo
(salvo il semplice rinvio alla delibera del 1992) del
procedimento logico di fissazione del corrispettivo stesso;
per contro, appare del tutto irragionevole far riferimento
scientemente a valori di mercato e a costi di realizzazione
delle opere rilevati nel 1992 (non essendo verosimile e non
essendo stato infatti documentato che nel periodo 1992-2005
vi sia stata una flessione dei suddetti valori di mercato e
dei costi di realizzazione delle opere tale da compensare il
tasso di inflazione).
Neppure per il PEC “Omissis” è stato in alcun modo
esplicitato il criterio logico che ha condotto a fissare il
corrispettivo della monetizzazione in euro 13, né le difese
non sono state in grado di spiegare a quali delibere del
Comune vigenti “in materia” di monetizzazione e
fissazione del relativo prezzo avesse voluto far riferimento
la convenzione (posto che esisteva solo la delibera n. 45
del 1992 ma che la stessa, secondo la tesi difensiva, non
poteva applicarsi all'area del “Omissis”; il rinvio
della convenzione, quindi, sarebbe un rinvio “a vuoto”
inserito quale clausola di mero stile, sicché il costo di
monetizzazione di fatto non era fissato nella convenzione,
ma restava rimesso a successivi atti discrezionali).
Ne consegue che, stando agli atti,
l'invocata discrezionalità amministrativa si è rivelata, nel
suo concreto esercizio, in contrasto con i criteri
elementari di ragionevolezza, trasparenza e imparzialità
dell'azione amministrativa (come se il Comune avesse venduto
un proprio terreno sulla base di una stima di valore fatta
tredici anni prima). La supposta mancanza di una
deliberazione applicabile alle operazioni in parola (cioè la
mancanza di una tariffa comunale prestabilita) imponeva,
semmai, un'istruttoria ancor più rigorosa e ben motivata,
volta a determinare il congruo corrispettivo di
monetizzazione sulla base di elementi oggettivi ed uniformi
(quali non possono considerarsi, ragionevolmente, i valori e
i costi di mercato rilevati nel 1992 e successivamente mai
aggiornati).
Questa Corte, dunque, soppesati tutti gli argomenti
contenuti negli atti di causa, è pervenuta al convincimento
che il Responsabile del Servizio competente
e l'Assessore all'Urbanistica
(sul punto, v. infra), ove realmente
avessero rilevato o dubitato che non esisteva nessuna
delibera comunale e nessun criterio prefissato ed oggettivo
di determinazione dei valori di monetizzazione, per le aree
non ricomprese nella precedente delibera n. 45 del 1992,
avrebbero dovuto in ogni caso farsi carico del problema, che
non era certo di poco conto, promuovendo l'adozione di una
nuova delibera che regolasse la materia o comunque
assicurando una istruttoria adeguata per individuare il
prezzo congruo di monetizzazione per i PEC in corso di
approvazione, sulla base di stime aggiornate.
VI.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, ritiene
la Sezione che il danno per il Comune di Arquata
Scrivia sia
stato correttamente commisurato alla (omessa) rivalutazione
del prezzo di “monetizzazione” fissato nel luglio
1992 (non essendovi state contestazioni né sull'indice
applicato, né sul periodo di rivalutazione preso in
considerazione dalla Procura, come esplicitati in
citazione). Si
tratta di una stima prudenziale ed equa, basata sulla
constatazione, in fatto, dell'avvenuto richiamo alla
delibera n. 45 del 1992 (cioè alla sola delibera comunale
esistente “in materia”) operato nelle convenzioni
stesse; quest'ultima delibera costituisce
quindi, in mancanza di altre stime svolte all'epoca dei
fatti, un parametro equo ed attendibile di liquidazione del
differenziale di introito negativo per il Comune.
Il danno non difetta del requisito di certezza ed attualità,
in quanto i minori incassi per il Comune sono stati pattuiti
in convenzioni già perfezionatesi, eseguite e giuridicamente
vincolanti per le parti (salvo future eventuali azioni da
parte del Comune nei confronti delle controparti private,
peraltro con esito che non è possibile prevedere con
certezza in questa sede).
VII.
Quanto all'elemento soggettivo della “gravità”
della colpa, esso è senz'altro ravvisabile in capo all'arch.
N., nella sua qualità di Responsabile del Servizio
Programmazione Territoriale Urbanistica – Ambiente, la quale
ha seguito i procedimenti in questione, in ogni loro fase.
Si tratta, infatti, comunque si voglia ricostruire la
vicenda in punto di diritto, della commissione di un errore
grossolano, non scusabile, essendo stati in definitiva
monetizzati degli standard urbanistici, senza alcuna
spiegazione valida, sulla base di valori nominali di mercato
risalenti al 1992, di cui era peraltro espressamente
prevista la rivalutazione annuale.
Delle due l'una: o la delibera n. 45 del
1992 era applicabile, per cui la rivalutazione non poteva
essere omessa neppure da un impiegato di minima diligenza o
la delibera n. 45 del 1992 non era applicabile, per cui
l'individuazione del valore di mercato per le aree da
monetizzare avrebbe dovuto avvenire con motivati e
trasparenti criteri oggettivi di stima, secondo
ragionevolezza, non potendosi certamente far riferimento
arbitrario a valori storici del 1992
(per i PEC “Omissis” e “Omissis”) o al valore
di 13,00 euro per mq (per il PEC “Omissis”).
VIII.
Le stesse considerazioni valgono per l'Assessore T.
il quale, pur sostenendo (o avendo il dubbio, o dovendo
avere il dubbio, per tutti i motivi da lui stesso esposti
nelle proprie difese) che la delibera n. 45 del 1992 non
fosse applicabile ai PEC in giudizio, non si domandò mai il
perché essa fosse espressamente richiamata in pressoché
tutte le bozze di convenzioni sottoposte all'approvazione
del Consiglio comunale, né si pose mai il problema di quale
criterio si dovesse utilizzare per monetizzare aree diverse
da quelle prese in considerazione dalla delibera in parola
(cioè diverse dalla A1, A2 e B1).
Si noti che, per quanto l'operazione di
rivalutazione degli importi fissati nel 1992 fosse
relativamente semplice (di qui la gravità della colpa per
averla del tutto trascurata), la problematica generale della
“monetizzazione” delle aree destinate a standard
urbanistico non poteva certo rappresentare un aspetto
marginale della materia urbanistica per il Comune. La deroga
agli standard urbanistici dovrebbe costituire, invero,
ipotesi a carattere eccezionale e residuale, da affrontare
con la dovuta cautela ed attenzione; la relativa
monetizzazione, comportando al contempo un interesse non
solo urbanistico, ma anche finanziario per l'ente,
costituisce un aspetto assai delicato del quale un assessore
all'urbanistica, almeno negli aspetti generali, non può
disinteressarsi, schermandosi dietro la responsabilità
esclusiva del livello tecnico-dirigenziale.
Non è infatti pensabile né accettabile che
in un Comune come Arquata Scrivia l'Assessore competente,
pur constandogli conclamate lacune normative (con i connessi
profili di incertezza) su un argomento di portata generale e
di particolare interesse pubblico, qual è quello della
monetizzazione, trascuri di affrontare il problema e di
assumere ogni iniziativa a garanzia del buon andamento
dell'ente amministrato.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri la contestuale
qualità di presidente o membro della Commissione Edilizia
comunale rivestita dall'Assessore medesimo.
Non giova all'assessore, nel caso di
specie, l’esimente “politica” di cui all’art. 1, co.
1-ter, della legge 14.01.1994, n. 20 (ai sensi del quale “nel
caso di atti che rientrano nella competenza propria degli
uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si
estende ai titolari degli organi politici che in buona fede
li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o
consentito l'esecuzione”), non tanto perché, essendo qui
in contestazione l'omesso adeguamento delle tariffe di
monetizzazione alla svalutazione monetaria (o l'omessa
predisposizione di tariffe), non v'è a monte un “atto”
cui l'organo politico si sia adeguato, quanto perché il
compito di dare compiuta disciplina alla materia non può
considerarsi competenza esclusiva degli uffici tecnici o
amministrativi. Infine, cade opportuno ricordare che la
buona fede dell'interessato per essere esimente deve essere
ovviamente incolpevole, cioè non deve derivare da un difetto
d'esame delle questioni sottopostegli.
Né è persuasiva la lettura delle norme del t.u.e.l. proposta
dal convenuto, ove si tenga anche a mente che:
- ai sensi dell'art. 48 la giunta collabora nel governo
dell'ente con il sindaco, il quale è responsabile della
relativa amministrazione (art. 50);
- ai sensi dell'art. art 77 gli assessori rientrano nella
nozione di “amministratore locale” e ai sensi
dell'art. 78, comma 3, i componenti la giunta comunale
competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di
lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività
professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel
territorio da essi amministrato (a dimostrazione non solo
della intrinseca delicatezza delle materia in questione, da
sempre oggetto di grande attenzione da parte della
collettività in quanto crocevia di rilevanti interessi
economici e ambientali, privati e pubblici, ma anche del
ruolo centrale che gli assessori rivestono nelle suddette
materie, dalle quali non possono affatto ritenersi
estranei);
- ai sensi dell'art. 107, agli amministratori dell'ente
competono i poteri di indirizzo e controllo politico
amministrativo, mentre ai dirigenti compete la relativa
attuazione, compresa l'adozione dei “i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura
discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla
legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi
comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”
(nella specie, la materia della monetizzazione degli
standard, almeno per le aree diverse dalle A1, A2 e B1 e per
interventi non commerciali, è rimasta priva di atti generali
di indirizzo, malgrado tutte le problematiche normative e
applicative ben descritte in atti dallo stesso assessore
T.);
- ai sensi dell'art. 93 la responsabilità patrimoniale
dinanzi alla Corte dei conti può essere fatta valere tanto
nei confronti degli amministratori, quanto del personale
degli enti locali, secondo la disciplina prevista per gli
impiegati civili dello Stato.
Infine, non giova ai convenuti neppure il
principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali, a fronte di fattispecie manifestamente
irragionevoli e pregiudizievoli per l'ente amministrato (per
quanto fin qui esposto).
IX.
Ad avviso di questi Giudici non è invece
ravvisabile, in radice, l'elemento psicologico della colpa
grave in capo al Sindaco M. dalla quale, nella sua qualità
di organo di vertice dell'amministrazione comunale, non
poteva pretendersi una minuziosa verifica dell'operato di
tutti gli uffici comunali e di tutti i propri assessori,
tanto più in un settore a connotazione tecnica cui erano
preposti un assessore e un Responsabile di un Servizio. Deve
cioè considerarsi come errore “fisologico”, in linea
di principio, ai fini della responsabilità
amministrativo-contabile, quello commesso da un Sindaco che,
in buona fede, abbia fatto affidamento sulla correttezza
dell'operato degli Uffici comunali e dell'attività di
indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta su di
essi del proprio assessore, competente per materia:
nella specie, va considerato non grave l'errore del Sindaco
per aver confidato nell'applicabilità della delibera n. 45
del 1992 a tutte le “monetizzazioni” di standard
urbanistici e nella correttezza della liquidazione
dell'importo dovuto ad opera del Servizio competente, in
mancanza di elementi di segno opposto segnalati dai soggetti
preposti al settore o comunque venuti a conoscenza del
Sindaco medesimo.
X.
In conclusione, il danno in giudizio (liquidabile in
complessivi euro 145.593,69 essendo prescritte le poste
relative ai Pec “Omissis” e “Omissis”) va
addebitato a titolo di responsabilità amministrativa ai
signori T. e N..
Meritano peraltro accoglimento le domande subordinate di
ampia riduzione equitativa dell'addebito, considerata
l'entità del danno, la natura non dolosa della fattispecie e
l'insieme di tutte le circostanze oggettive e soggettive
descritte in atti le quali, se non valgono ad escludere la
responsabilità, comunque possono essere prese in
considerazione ai fini dell'esercizio del potere in parola.
Si ritiene, perciò, di poter limitare l'addebito all'importo
complessivo di euro 95.000,00 (pari a poco meno del 60% del
danno, debitamente aumentato di rivalutazione Istat).
L'addebito va ripartito tra i signori T. e N., in ragione
del contributo causale riferibile a ciascuno di essi,
secondo le quote rispettive del 40% e del 60%, per un totale
di euro 38.000,00 (trentottomila/00) a carico del signor T.
e di euro 57.000,00 (cinquantasettemila) a carico della
signora N..
Sulla somma di condanna spettano gli interessi legali dalla
data della sentenza al saldo (Corte dei Conti, Sez. giursdiz.
Piemonte,
sentenza 16.04.2012 n. 56). |
Dobbiamo precisare che il caso de quo (basato
sull'applicazione -o meno- di una deliberazione
consiliare "datata" e sulla mancata rivalutazione
ISTAT del valore stabilito nella medesima) non
riguarda, almeno, la Lombardia laddove in materia di
monetizzazione delle aree a standard la norma
regionale è chiara.
Infatti, l'art. 46, comma 1,
lett. a) della l.r. 12/2005 così recita: |
Art. 46. (Convenzione dei
piani attuativi)
1. La convenzione, alla cui stipulazione è
subordinato il rilascio dei permessi di costruire
ovvero la presentazione delle denunce di inizio
attività relativamente agli interventi contemplati
dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai
numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge
06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla
legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), deve
prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
nonché la cessione gratuita delle aree per
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale previste dal piano dei servizi;
qualora l'acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune
in relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi
comunali di intervento, la convenzione può
prevedere, in alternativa totale o parziale della
cessione, che all'atto della stipulazione i soggetti
obbligati corrispondano al comune una somma
commisurata all'utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non
inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree.
I proventi delle monetizzazioni per la mancata
cessione di aree sono utilizzati per la
realizzazione degli interventi previsti nel piano
dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica; |
Quindi, qualora si dovesse procedere con la
monetizzazione -in luogo della cessione-
si deve
sempre e comunque procedere a redigere idonea perizia di stima per il
caso di specie e non utilizzare un importo di
monetizzazione deliberato dal Consiglio Comunale che
vale per l'intero territorio comunale.
Tra l'altro, quest'ultima illegittima prassi era stata
più volte censurata dal CO.RE.CO. (Comitato
Regionale di Controllo) già in illo tempore
prima che il legislatore statale prevedesse la sua
soppressione (Previsti
dalla legge 10.02.1953 n. 62 (cosiddetta Legge
Scelba) in attuazione dell'art. 130 della
Costituzione, i CO.RE.CO. iniziarono ad operare solo
nel 1971, quando fu attuato l'ordinamento regionale.
Sono stati aboliti per effetto della legge
costituzionale 18.10.2001, n. 3, che ha riformato il
Titolo V della Costituzione. La legge
costituzionale, in realtà, non ha soppresso
espressamente i CO.RE.CO. ma si è limitata ad
abrogare l'art. 130 Cost. che ne prevedeva
l'istituzione, il che aveva fatto sorgere dubbi
circa la possibilità per le regioni di mantenerli
comunque in vita; in ogni caso tutte le regioni
hanno scelto di sopprimerli - commento tratto da
http://it.wikipedia.org).
Purtroppo, dobbiamo constatare che qualche U.T.C.
-ancora oggi- opera con la deliberazione di C.C. anziché
procedere a periziare di volta in volta: problemi
loro, "faranno i conti" -presto o tardi che
sia- dinanzi al Procuratore regionale della Corte dei Conti ...
e non foss'altro, quanto meno, per rendere giustizia
a quei pubblici dipendenti che, con immane fatica
quotidiana mettendoci la faccia, si spendono
generosamente nell'operare "secondo legge" e
senza cercare facili e discutibili scorciatoie,
magari, per ingraziarsi gli Amministratori locali
e/o i dirigenti ....
20.08.2014 - LA SEGRETERIA PTPL |
|
IN EVIDENZA |
Per cosa si può spendere il cospicuo
gruzzolo accantonato in banca su un capitolo vincolato,
anno dopo anno, e costituito dalla
monetizzazione delle aree a standard?? |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: La
monetizzazione costituisce un’ obbligazione
alternativa alla cessione da parte dei privati di
aree che potrebbero risultare non utili ai fini
dell’interesse pubblico.
Pertanto
tale entrata non può che essere classificata,
secondo quanto previsto dal DPR 31.01.1996, n. 194,
al titolo IV –Entrate derivanti da
alienazioni, da trasferimenti di capitale e da
riscossione di crediti– e, come tale, essere
destinata al finanziamento di spese di investimento,
ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1,
lett. a), della legge regionale 11.03.2005, n. 12
alla realizzazione degli interventi previsti nel
Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di
altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese
correnti costituirebbe un manifesto depauperamento
del patrimonio comunale, configurando un evidente
pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’Ente
Locale.
---------------
Con nota n. 5416 del 16/12/2005 pervenuta a questa
Sezione regionale di controllo il 20.12.2005 il
sindaco del Comune di Castel Rozzone, dopo aver
premesso che con l’entrata in vigore del TU in
materia di edilizia approvato con DPR 06.06.2001 n.
380 è venuto meno il vincolo di destinazione dei
proventi derivanti da contributi di costruzione,
ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
considerare estensibile tale liberalizzazione anche
ai proventi derivanti dalle monetizzazioni
(compensazioni per la mancata cessione da parte dei
privati di aree da destinare per attrezzature
pubbliche e di interesse generale previste nei piani
dei servizi) e cioè di poter attribuire alla piena
discrezionalità dell’Amministrazione Comunale
l’utilizzo di detti proventi che potranno essere,
quindi, destinati al finanziamento di investimenti
ovvero alla manutenzione del patrimonio comunale.
...
Questa Sezione con la richiamata deliberazione n. 1
del 04.11.2004 ha già avuto modo di pronunciarsi
circa l’avvenuta cessazione del vincolo di
destinazione delle entrate provenienti dai
contributi di costruzione in conseguenza
dell’entrata in vigore del DPR 380/2001.
Va peraltro segnalato che la normativa vigente
all’atto dell’adozione della citata deliberazione è
stata successivamente modificata dall’art. 1, comma
43, della legge 30.12.2004 n. 311 che ha posto un
nuovo limite alla destinazione dei contributi di
costruzione al finanziamento della spesa corrente
fissato al 75% per l’anno 2005 e al 50% per il 2006.
Occorre tuttavia osservare che mentre il contributo
di costruzione risulta un provento connesso al
rilascio del permesso di costruire commisurato,
secondo quanto disposto dall’art. 16 DPR 380/01, a
tariffe determinate dal Consiglio Comunale i
proventi della monetizzazione trovano fondamento
nelle convenzioni che consentono a soggetti privati
obbligati a cedere la proprietà di aree a favore dei
Comuni di corrispondere, in alternativa totale o
parziale, una somma commisurata all’utilità
economica conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non superiore al costo di
acquisto di altre aree avente analoghe
caratteristiche.
La monetizzazione costituisce un’
obbligazione alternativa alla cessione da parte dei
privati di aree che potrebbero risultare non utili
ai fini dell’interesse pubblico.
Pertanto
tale entrata non può che essere classificata,
secondo quanto previsto dal DPR 31.01.1996, n. 194,
al titolo IV –Entrate derivanti da
alienazioni, da trasferimenti di capitale e da
riscossione di crediti– e, come tale, essere
destinata al finanziamento di spese di investimento,
ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1,
lett. a), della legge regionale 11.03.2005, n. 12
alla realizzazione degli interventi previsti nel
Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di
altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese correnti
costituirebbe un manifesto depauperamento del
patrimonio comunale, configurando un evidente
pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’Ente
Locale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 26.06.2006 n. 6). |
Il parere sopra riportato (per aver cercato a destra
e a manca nel web) parrebbe essere l'unico
-ad oggi- rilasciato dalle varie Sezioni di controllo
della Corte dei Conti e, quindi, vale come oro in
termini di corretto espletamento dell'azione
amministrativa se non si vuole rischiare col proprio
portafoglio ...
Ma vediamo di ricostruire il punto saliente della
questione.
In Lombardia, circa l'utilizzo delle somme incassate a
titolo di monetizzazione delle aree a standard la
norma di riferimento è l'art.
46, comma 1, lett. a), della L.R. n. 12/2005 il
quale così dispone: |
Art. 46.
(Convenzione dei piani attuativi)
1. La convenzione, alla cui stipulazione è
subordinato il rilascio dei permessi di costruire
ovvero la presentazione delle denunce di inizio
attività relativamente agli interventi contemplati
dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai
numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 6 agosto
1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), deve
prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
nonché la cessione gratuita delle aree per
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale previste dal piano dei servizi; qualora
l'acquisizione di tali aree non risulti possibile o
non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione
alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi
comunali di intervento, la convenzione può
prevedere, in alternativa totale o parziale della
cessione, che all'atto della stipulazione i soggetti
obbligati corrispondano al comune una somma
commisurata all'utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non
inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree.
I proventi delle monetizzazioni per la mancata
cessione di aree sono utilizzati per la
realizzazione degli interventi previsti nel piano
dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica; |
Quindi,
la
destinazione di tali somme parrebbe essere vincolata
per le spese sopra menzionate e non altro.
Tuttavia, non sempre è possibile spendere in toto le
somme de quibus con tale destinazione e,
pertanto, non è infrequente che sul relativo capitolo
vincolato di bilancio, anno dopo anno, si accumuli
un bel gruzzolo (di fatto infruttifero).
Ebbene, la Corte dei Conti lombarda, con il suddetto
parere, afferma che tali somme possono essere
utilizzate anche per finanziare le spese di
investimento:
ma cosa sono
quest'ultime??
Per trovare una definizione legislativa delle
spese
di investimento
bisogna ricercare la
Legge 24.12.2003 n. 350 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato - legge finanziaria 2004) laddove all'art. 3,
comma 18, così recita: |
18.
Ai fini di cui
all'articolo 119, sesto comma,
della Costituzione, costituiscono investimenti:
a) l'acquisto,
la costruzione, la
ristrutturazione e la manutenzione
straordinaria di beni immobili, costituiti da
fabbricati sia residenziali che non residenziali;
b) la
costruzione, la demolizione, la
ristrutturazione, il recupero e la
manutenzione straordinaria di opere e impianti;
c)
l'acquisto di
impianti, macchinari,
attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi
di trasporto e altri beni
mobili ad utilizzo pluriennale;
d) gli oneri per beni
immateriali ad utilizzo pluriennale;
e) l'acquisizione di aree,
espropri e servitù onerose;
f) le partecipazioni
azionarie e i conferimenti di capitale, nei limiti
della facoltà di partecipazione
concessa ai singoli enti mutuatari dai rispettivi
ordinamenti;
g) i trasferimenti
in conto capitale destinati specificamente
alla realizzazione degli
investimenti a cura di un altro ente od
organismo appartenente al settore delle pubbliche
amministrazioni;
h) i trasferimenti
in conto capitale in favore
di soggetti concessionari di lavori
pubblici o di proprietari o
gestori di impianti, di reti o di dotazioni
funzionali all'erogazione di servizi pubblici
o di soggetti che erogano
servizi pubblici, le cui
concessioni o contratti di servizio prevedono
la retrocessione degli investimenti agli
enti committenti alla loro
scadenza, anche anticipata. In
tale fattispecie rientra l'intervento
finanziario a
favore del concessionario di cui
al comma 2 dell'articolo 19 della legge 11.02.1994,
n. 109;
i) gli interventi
contenuti in programmi generali relativi
a piani urbanistici attuativi,
esecutivi, dichiarati di preminente
interesse regionale aventi
finalità pubblica volti al recupero e alla
valorizzazione del territorio. |
QUINDI?? |
Quindi, in questi tempi di "magra" dove le
casse comunali sono sempre più vuote e la crisi
economico-finanziaria sembra aver mai fine,
attingere dal capitolo vincolato delle somme
incassate quali monetizzazione delle aree a standard
può essere addirittura vitale, laddove un bilancio
annuale di previsione "asfittico" non
consente di realizzare quelle pur minime opere
ordinarie di manutenzione del patrimonio
immobiliare.
Attenzione però:
in primis, come già sopra detto, la
destinazione di tali somme è quella di cui all'art.
46, comma 1, lett. a), della L.R. n. 12/2005
laddove necessariamente ogni anno, in fase di
redazione del programma triennale delle opere
pubbliche, bisognerà stilare l'elenco delle opere
pubbliche da realizzare con relativo fabbisogno
economico.
Solo laddove, paradossalmente, il piano triennale delle
oo.pp. prevedesse poco o nulla allora in questo caso
il cospicuo gruzzolo (infruttifero) depositato in
banca potrà essere utilizzato per finanziare, come
già ricordato, le spese di investimento.
E' scontato ma lo vogliamo comunque ricordare:
ovviamente,
alla base di tutto ci deve essere una "robusta"
motivazione dell'atto amministrativo che spieghi,
nel dettaglio, perché tali somme non vengono
utilizzate per la loro primaria destinazione ma, al
contrario, per
finanziare le spese di investimento.
20.08.2014 - LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Edilizia, controlli senza indennità.
GEOMETRI/ Sentenza Consiglio di stato.
Il geometra dell'ufficio tecnico che svolge controlli
edilizi non può pretendere l'erogazione dell'indennità di
vigilanza che compete solo al personale inserito nell'area
della polizia locale.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 17.07.2014 n. 3799.
Un Comune aveva riconosciuto ai propri dipendenti
dell'ufficio edilizia-urbanistica l'indennità di vigilanza
in relazione ai controlli svolti sul territorio ma il Tar
aveva annullato questa determinazione e il Consiglio di
stato ha confermato il rigetto. L'indennità di vigilanza
prevista dal dpr 268/1987 spetta solo al personale inserito
nell'area polizia urbana, specifica il collegio. In buona
sostanza lo svolgimento di mansioni ispettive in materia
edilizia da parte dei dipendenti dell'ufficio tecnico
comunale non comporta il riconoscimento dell'indennità di
vigilanza, prosegue la sentenza.
Questo emolumento è infatti riservato ai dipendenti degli
enti locali che svolgono funzioni di controllo a tempo pieno
come i vigili urbani, inseriti organicamente nell'area
vigilanza. L'esercizio di una attività di controllo da parte
di un dipendente comunale non determina di per sé un
inserimento automatico del soggetto nell'area in questione,
conclude la sentenza.
In buona sostanza essere investiti sporadicamente di una
qualifica di polizia giudiziaria non è sufficiente per
inquadrare il soggetto nell'area vigilanza e riconoscergli
la relativa indennità (articolo ItaliaOggi del 19.08.2014).
---------------
La rigorosa definizione del campo di
applicazione dell’indennità di vigilanza di cui agli artt.
26 d.P.R. n. 347/1983 e 34 d.P.R. n. 268/1987, che è stata
espressa da questa Sezione con le decisioni n. 1200/1996 e
n. 1579/1997, cui il primo Giudice si è puntualmente
uniformato, ha trovato conferma nelle articolate motivazioni
delle successive pronunce della Sez. IV 08.07.2003, n. 4038,
e 22.09.2003, n. 5368.
E la giurisprudenza dei TT.AA.RR., orientata in senso
conforme a tale prevalente indirizzo, ha coerentemente
escluso la spettanza dell’emolumento ai dipendenti degli
uffici tecnici comunali che pure esplicassero attività di
vigilanza in materia edilizia.
Invero, l’art. 26, comma 4, lett. f), del d.P.R. n. 347/1983
attribuisce l’indennità in questione “al personale di
vigilanza (urbana, ittica, venatoria, sanitaria,
silvo-pastorale, annonaria etc.) nonché ai vigili stradali
delle province, inquadrati nella quinta qualifica
funzionale”.
Come le due decisioni da ultimo citate hanno confermato,
però, questa previsione, attribuendo tale indennità al
personale di vigilanza (sia questa urbana, ittica,
venatoria, sanitaria, silvo-pastorale, annonaria), non ha
certamente inteso così attribuire un elemento accessorio
allo stipendio dei dipendenti degli enti locali connesso in
via generale ed astratta all'esercizio materiale di compiti
di vigilanza, bensì introdurre un trattamento riservato
soltanto a determinati e formali profili professionali di
inquadramento, aventi ad oggetto “puntuale, prevalente ed
univoco” proprio siffatta prestazione di controllo, che di
quei determinati profili deve pertanto costituire elemento
qualificante ed essenziale.
Orbene, siffatta condizione non è ravvisabile per il
personale degli uffici tecnici comunali, che svolge funzioni
complesse ed eterogenee. E, del resto, anche nell’All. A)
del d.P.R. n. 347/1983 l’area tecnico-progettuale è tenuta
distinta da quella di vigilanza.
Ancora più chiaro è poi il dettato dell’art. 34, comma 1,
lett. a), del d.P.R. n. 268/1987, che accorda l’indennità a
“tutto il personale dell'area di vigilanza in possesso dei
requisiti e per l'esercizio delle funzioni di cui agli
articoli 5 e 10 della legge 07.03.1986, n. 65”.
Con questa norma, ed il successivo art. 45 del d.P.R. n.
333/1990, si è passati dalla generica dizione di “personale
di vigilanza” al riferimento ad una c.d. “area di
vigilanza”, concetto che individua, nel contesto della
disciplina posta dagli accordi collettivi di lavoro del
comparto degli enti locali, uno dei settori in cui
specificamente si articola l'ordinamento del personale di
tali enti.
Ciò comporta che l'esercizio, da parte di un dipendente, di
un’attività di controllo non determina, di per sé, un suo
automatico inserimento nell'area di vigilanza.
L’indennità di cui si tratta compete, inoltre, solamente al
personale che nell'area di vigilanza sia ricompreso, oltre a
versare in possesso dei requisiti di cui agli artt. 5 e 10
della legge n. 65 del 1986.
Il precedente giurisprudenziale da ultimo richiamato ha
perciò condivisibilmente escluso che ai fini in discussione
sia determinante l’ascrivibilità –anche qui rivendicata-
della qualifica di agente di polizia giudiziaria.
“Lo schema funzionale-retributivo risultante dal quadro
normativo e contrattuale del personale degli enti locali
individua, infatti, le qualifiche funzionali di appartenenza
di detto personale con riferimento alle aree di attività; sì
che, come s'è detto, una determinata figura professionale è
inserita in una determinata area proprio perché la funzione
tipica e qualificante della figura risulta essere propria di
quell'area (nella fattispecie, quella di vigilanza).
Invece, il meccanismo di attribuzione della qualifica di
agente (o ufficiale) di polizia giudiziaria esula del tutto
dal veduto schema e dalla stessa materia del rapporto di
lavoro dei dipendenti degli enti locali, trattandosi di una
"investitura", che consente soltanto di configurare le
attività in concreto esercitate (anche in via accessoria e
residuale) da un determinato soggetto come attività di
polizia giudiziaria.
… L'esercizio, insomma, di funzioni di polizia giudiziaria
da parte di chi rivesta a tal fine la qualità di agente (od
ufficiale) di polizia giudiziaria non vale di per sé, ai
fini che ne occupano, a far rientrare il personale stesso
nell'"area di vigilanza”.
L’appello è infondato.
1. Forma oggetto di controversia la spettanza
all’appellante, dipendente del Comune di San Vito con la
qualifica di geometra in servizio presso il Settore “servizi
tecnici – patrimonio – edilizia – urbanistica”, e nelle
more del giudizio divenuto responsabile dell’Ufficio
Tecnico, dell’indennità di vigilanza prevista dall'art. 26,
comma quarto, lettera f), del d.P.R. n. 347/1983, ed in
seguito dall'art. 34, lettera a), del d.P.R. n. 268/1987.
La voce retributiva era stata riconosciuta
dall’Amministrazione, ma la relativa deliberazione aveva
formato oggetto di annullamento tutorio.
Il provvedimento di controllo impugnato era sorretto dalla
seguente motivazione. L'Amministrazione comunale aveva
ritenuto erroneamente, ed in violazione del citato art. 34,
lettera a), d.P.R. n. 268/1987, che “le indennità
previste dalla stessa norma a favore del personale di
vigilanza possano estendersi a dipendenti che seppure
svolgono funzioni di polizia siano organicamente inseriti in
diversa area funzionale quale quella tecnica.
Non appare infatti condivisibile la determinazione adottata
dall'Ente atteso che la formulazione letterale della norma
invocata è tale da rendere inequivocabile il fatto che il
beneficio di che trattasi non sia estensibile al personale
svolgente funzioni spesso sporadiche e limitate, connesse al
solo “esercizio” di vigilanza ed appartenente ad aree
diverse da quella di vigilanza”.
2. Il primo Giudice ha ritenuto corretta la censura
dell’organo tutorio, osservando che l’interpretazione delle
norme di riferimento da questo seguita aveva trovato
conferma presso la giurisprudenza amministrativa.
In particolare, il TAR ha ricordato che secondo quest’ultima
“l'indennità di vigilanza prevista dall'art. 26 D.P.R.
25.06.1983 n. 347 spetta esclusivamente ai dipendenti degli
Enti locali appartenenti alla quinta qualifica funzionale
che appartengano all'«area di vigilanza»” (C.d.S., Sez.
V, n. 1200 del 07.10.1996), e, inoltre, che “l'individuazione
dei destinatari dell'indennità di vigilanza prevista
dall'art. 34 lett. a) D.P.R. 13.05.1987 n. 268 è definita
dalla norma citata in modo chiaro ed univoco (appartenenti
all'area della vigilanza e della polizia urbana)” (Sez.
V, n. 1579 del 18.12.1997).
Il Tribunale ha precisato, inoltre, che lo svolgimento di
mansioni ispettive e di controllo in materia edilizia da
parte del personale addetto agli uffici tecnici comunali non
comporta il riconoscimento dell'indennità di vigilanza, la
quale spetta esclusivamente al personale compreso nell'area
di vigilanza in possesso dei requisiti di cui agli artt. 5 e
10 L. 07.03.1986 n. 65.
3. Con il presente appello l’interpretazione testé esposta
viene contestata.
Nel riferirsi alla previsione dell’art. 26 d.P.R. n.
347/1983, l’appellante assume che le forme di vigilanza ivi
considerate avrebbero carattere solo esemplificativo.
Inoltre, si fa notare che nell’All. A) di tale decreto
sarebbero ricomprese, nella parte relativa alle aree di
vigilanza locale, anche le attività di polizia locale solo
genericamente considerate, e cioè tutte le forme di polizia
amministrativa, tra le quali non potrebbe quindi non
rientrare anche quella edilizia. Ciò in quanto gli ispettori
edili svolgono un’attività di vigilanza vera e propria, che
l’appellante, d’altra parte, non avrebbe disimpegnato solo
sporadicamente, come affermato dal Co.Re.Co., bensì in modo
continuativo.
La formale appartenenza degli ispettori edili ad un’area
(quella tecnico-progettuale) diversa da quella della
vigilanza non sarebbe perciò rilevante ai fini di causa.
Quanto alla previsione dell'art. 34, lett. a), d.P.R.
13.05.1987 n. 268, questa avrebbe correlato l’indennità di
cui si tratta all’esercizio della vigilanza da parte di
chiunque vi sia chiamato.
Viene ricordato, inoltre, che ai fini della spettanza
dell’emolumento occorre che accanto alle relative funzioni
istituzionali figuri anche il disimpegno di funzioni di
polizia di sicurezza, stradale o giudiziaria. Si precisa
infine che svariate norme dell’ordinamento demandano ai
tecnici degli enti locali funzioni di agenti di polizia
giudiziaria, facendoli così rientrare nello spettro
dell’art. 5 del d.P.R. n. 65/1986 (richiamato appunto
dall’art. 34 d.P.R. n. 268/1987).
La lettura patrocinata dall’appellante troverebbe conferma
nel precedente di questa Sezione 12.11.2003, n. 7232, con il
quale l’indirizzo seguito dal primo Giudice sarebbe stato
superato.
4. Queste argomentazioni non sono persuasive.
La rigorosa definizione del campo di applicazione
dell’indennità di vigilanza di cui agli artt. 26 d.P.R. n.
347/1983 e 34 d.P.R. n. 268/1987, che è stata espressa da
questa Sezione con le decisioni n. 1200/1996 e n. 1579/1997,
cui il primo Giudice si è puntualmente uniformato, ha
trovato conferma nelle articolate motivazioni delle
successive pronunce della Sez. IV 08.07.2003, n. 4038, e
22.09.2003, n. 5368. E la giurisprudenza dei TT.AA.RR.,
orientata in senso conforme a tale prevalente indirizzo, ha
coerentemente escluso la spettanza dell’emolumento ai
dipendenti degli uffici tecnici comunali che pure
esplicassero attività di vigilanza in materia edilizia (cfr.
ad es. TAR Marche, 13.06.2011, n. 476, e TAR Basilicata,
16.12.2008, n. 953, recanti ulteriori citazioni).
4a. Invero, l’art. 26, comma 4, lett. f), del d.P.R. n.
347/1983 attribuisce l’indennità in questione “al
personale di vigilanza (urbana, ittica, venatoria,
sanitaria, silvo-pastorale, annonaria etc.) nonché ai vigili
stradali delle province, inquadrati nella quinta qualifica
funzionale”.
Come le due decisioni da ultimo citate hanno confermato,
però, questa previsione, attribuendo tale indennità al
personale di vigilanza (sia questa urbana, ittica,
venatoria, sanitaria, silvo-pastorale, annonaria), non ha
certamente inteso così attribuire un elemento accessorio
allo stipendio dei dipendenti degli enti locali connesso in
via generale ed astratta all'esercizio materiale di compiti
di vigilanza, bensì introdurre un trattamento riservato
soltanto a determinati e formali profili professionali di
inquadramento, aventi ad oggetto “puntuale, prevalente ed
univoco” proprio siffatta prestazione di controllo, che
di quei determinati profili deve pertanto costituire
elemento qualificante ed essenziale.
Orbene, siffatta condizione non è ravvisabile per il
personale degli uffici tecnici comunali, che svolge funzioni
complesse ed eterogenee. E, del resto, anche nell’All. A)
del d.P.R. n. 347/1983 l’area tecnico-progettuale è tenuta
distinta da quella di vigilanza.
4b. Ancora più chiaro è poi il dettato dell’art. 34, comma
1, lett. a), del d.P.R. n. 268/1987, che accorda l’indennità
a “tutto il personale dell'area di vigilanza in possesso
dei requisiti e per l'esercizio delle funzioni di cui agli
articoli 5 e 10 della legge 07.03.1986, n. 65”.
Con questa norma, ed il successivo art. 45 del d.P.R. n.
333/1990, si è passati dalla generica dizione di “personale
di vigilanza” al riferimento ad una c.d. “area di
vigilanza”, concetto che individua, nel contesto della
disciplina posta dagli accordi collettivi di lavoro del
comparto degli enti locali, uno dei settori in cui
specificamente si articola l'ordinamento del personale di
tali enti.
Ciò comporta che l'esercizio, da parte di un dipendente, di
un’attività di controllo non determina, di per sé, un suo
automatico inserimento nell'area di vigilanza (Sez. IV, n.
4038/2003).
L’indennità di cui si tratta compete, inoltre, solamente al
personale che nell'area di vigilanza sia ricompreso, oltre a
versare in possesso dei requisiti di cui agli artt. 5 e 10
della legge n. 65 del 1986.
Il precedente giurisprudenziale da ultimo richiamato ha
perciò condivisibilmente escluso che ai fini in discussione
sia determinante l’ascrivibilità –anche qui rivendicata-
della qualifica di agente di polizia giudiziaria.
“Lo schema funzionale-retributivo risultante dal quadro
normativo e contrattuale del personale degli enti locali
individua, infatti, le qualifiche funzionali di appartenenza
di detto personale con riferimento alle aree di attività; sì
che, come s'è detto, una determinata figura professionale è
inserita in una determinata area proprio perché la funzione
tipica e qualificante della figura risulta essere propria di
quell'area (nella fattispecie, quella di vigilanza).
Invece, il meccanismo di attribuzione della qualifica di
agente (o ufficiale) di polizia giudiziaria esula del tutto
dal veduto schema e dalla stessa materia del rapporto di
lavoro dei dipendenti degli enti locali, trattandosi di una
"investitura", che consente soltanto di configurare le
attività in concreto esercitate (anche in via accessoria e
residuale) da un determinato soggetto come attività di
polizia giudiziaria.
… L'esercizio, insomma, di funzioni di polizia giudiziaria
da parte di chi rivesta a tal fine la qualità di agente (od
ufficiale) di polizia giudiziaria non vale di per sé, ai
fini che ne occupano, a far rientrare il personale stesso
nell'"area di vigilanza” (sentenza n. 4038/2003 cit.).
Sicché la pretesa di parte appellante si rivela infondata
anche nel quadro del d.P.R. n. 268/1987. |
EDILIZIA PRIVATA:
Apertura pareti finestrate.
L'apertura di pareti finestrate sul
prospetto di un edificio necessita del preventivo rilascio
del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera
denuncia d'inizio attività poiché si tratta d'intervento
edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto
tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia
"minore".
Quanto al secondo motivo, con cui la difesa censura
l'impugnata sentenza per aver ritenuto penalmente rilevante
la realizzazione delle luci sulla parete, la Corte d'Appello
ha chiarito che ciò aveva determinato una modifica del
prospetto, sicché era necessario il permesso di costruire o,
in alternativa la c.d. SuperDIA, con conseguente rilevanza
penale del fatto (v. Sez. 3, n. 9894 del 20.01.2009 - dep.
05.03.2009, Tarallo, Rv. 243099).
Sul punto, peraltro, deve rilevarsi che, nel caso in esame,
l'intervento riguardava la realizzazione di pareti
finestrate, ciò che comportava, in ogni caso, la modifica
dei prospetti; per "pareti finestrate", infatti, ai
sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono
intendersi non (soltanto) le pareti munite di "vedute"
ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi,
finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle
due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR
Toscana, Firenze, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR
Piemonte, Torino, 10.10.2008, n. 2565; TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Ne discende, conclusivamente, che l'apertura di pareti
finestrate sul prospetto di un edificio necessita del
preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo
sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si
tratta d'intervento edilizio comportante una modifica dei
prospetti, in quanto tale non qualificabile come
ristrutturazione edilizia "minore".
Infatti, il permesso di costruire è richiesto, per il
disposto dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia (pur
a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 30, comma 1,
lett. c), legge n. 98 del 2013) per le ristrutturazioni che
comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, dei prospetti o delle superfici (ovvero si
riconnettano a mutamenti di destinazione d'uso limitatamente
agli immobili comprese nelle zone omogenee A).
Può, pertanto, essere affermato il seguente principio di
diritto:
«L'apertura di pareti
finestrate sul prospetto di un edificio necessita del
preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo
sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si
tratta d'intervento comportante una modifica dei prospetti,
in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione
edilizia "minore"» (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.07.2014 n. 30575 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pur persistendo il potere della Soprintendenza di
pronunciarsi oltre il termine dei 45 giorni, il decorso di
quest’ultimo periodo di tempo impedisce alla Soprintendenza
di emanare un parere vincolante in grado di condizionare la
decisione dell’Amministrazione comunale che, in quanto tale,
dovrà comunque pronunciarsi a prescindere dall’eventuale
portata del potere tardivo.
---------------
Le valutazioni espresse dalla Soprintendenza hanno natura
tecnica e, in quanto tali, sono sindacabili esclusivamente
se, riscontrata l'esistenza di una figura sintomatica
dell'eccesso di potere, si dimostra la violazione del
principio di ragionevolezza tecnica. Non è, pertanto,
sufficiente la mera opinabilità delle scelte effettuate.
---------------
L'eccepita insistenza di precedenti costruzioni non può
servire, di per sé, ad escludere il grave pregiudizio
paesaggistico prodotto nell'area vincolata dalla costruzione
censurata, a fronte di una puntuale motivazione addotta a
sostegno del parere negativo espresso dalla Soprintendenza,
la cui discrezionalità, in materia, non può contestarsi
attraverso generiche invocazioni di compatibilità fondate
sull'asserita vetustà della costruzione, ovvero sulla
presenza di precedenti costruzioni.
2. Ciò premesso è possibile esaminare l’eccezione di nullità
proposta nell’ultima memoria presentata dalla parte
ricorrente.
Con riferimento a detta ultima censura ne va sancita, sin
d’ora, la sua infondatezza e, ciò, sia in quanto proposta
avverso il parere del 23/01/2013 (impugnativa peraltro ora
dichiarata improcedibile) sia, ancora, in quanto riferita al
preavviso di rigetto del 06/09/2013 (provvedimento impugnato
con successivi motivi aggiunti).
Detta eccezione è argomentata ritenendo violato il termine
di 45 giorni, previsto dal comma 8 dell’art. 146 del D.Lgs.
42/2004, entro il quale il Soprintendente deve emanare il
parere di compatibilità paesaggistica, ritenendo che in
entrambe le ipotesi sopra ricordate i provvedimenti
impugnati siano stati stessi emessi in carenza di potere da
parte dell’Amministrazione competente.
2.1 Sul punto risulta dirimente constatare come dal testo
della disposizione in esame è possibile desumere come
decorso il termine sopra citato, l’Amministrazione perde il
potere di emanare un provvedimento vincolante.
2.2 Pur persistendo il potere della Soprintendenza di
pronunciarsi oltre il termine dei 45 giorni, il decorso di
quest’ultimo periodo di tempo impedisce alla Soprintendenza
di emanare un parere vincolante in grado di condizionare la
decisione dell’Amministrazione comunale che, in quanto tale,
dovrà comunque pronunciarsi a prescindere dall’eventuale
portata del potere tardivo (in questo senso si veda TAR
sez. I Lecce, Puglia del 06/02/2014 n. 321).
2.3 L’eccezione di nullità del preavviso di diniego del
06/09/2013 è, pertanto, infondata.
3. Per quanto concerne i motivi di impugnazione, relativi a
detto ultimo provvedimento e contenuti nei successivi motivi
aggiunti, è necessario premettere come sia possibile
condividere quanto affermato dalla parte ricorrente, laddove
evidenzia il carattere di “atto finale” del preavviso di
rigetto del 06/09/2013.
3.1 Pur ricordando come il preavviso di rigetto integri
comunemente la fattispecie di un atto endoprocedimentale, va
attribuito rilievo al contenuto “peculiare” dell’atto
impugnato e, ciò, nella parte in cui (a pagina 4) è diretto
a fare proprio il contenuto del precedente provvedimento di
rigetto del 23/01/2013.
3.2 A dette conclusioni è, presumibile, che sia giunta anche
la stessa Avvocatura dello Stato nella parte in cui ha
ritenuto di non contestare la qualificazione di “atto
finale” dell’atto del 06/09/2013, eccepita dalla ricorrente
negli stessi motivi aggiunti di cui ora si tratta.
4. Ciò premesso l’impugnazione così proposta va respinta
sia, per quanto concerne i vizi derivati sia, ancora, per
quanto riguarda i vizi propri.
Detti vizi sono suscettibili di una trattazione unitaria in
considerazione del fatto che parte ricorrente, anche nel
ricorso per motivi aggiunti, si è limitata, di fatto, a
contestare la valutazione paesaggistica di incompatibilità
e, ciò, sulla base dell’esistenza di un asserito eccesso di
potere per contraddittorietà della motivazione.
4.1 L’esame dei “motivi ostativi” all’accoglimento
dell’istanza non consente di evincere l’esistenza di detto
vizio di contraddittorietà e, ciò, considerando come la
Soprintendenza si sia profusa a motivare le ragioni di
incompatibilità dell’intervento e, ciò, a fronte di censure
della parte ricorrente che, al contrario, sono circoscritte
a contestare le scelte e le valutazioni espresse
dall’Amministrazione.
4.2 Sul punto va ricordato la vigenza di quel costante
orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, VI, 14.08.2013, n. 4174) che ha sancito che ”le valutazioni espresse
dalla Soprintendenza hanno natura tecnica e, in quanto tali,
sono sindacabili esclusivamente se, riscontrata l'esistenza
di una figura sintomatica dell'eccesso di potere, si
dimostra la violazione del principio di ragionevolezza
tecnica. Non è, pertanto, sufficiente la mera opinabilità
delle scelte effettuate”.
4.3 Non può essere condivisa, altresì, l’argomentazione
diretta ad attribuire rilievo alla circostanza in base alla
quale parte ricorrente aveva provveduto a modificare,
ripetutamente, il progetto in precedenza presentato.
A tutto concedere, infatti, i ripetuti provvedimenti di
diniego sono suscettibili di dimostrare solo che la
Soprintendenza aveva ritenuto che l'intervento fosse
contrastante, nella sua interezza, con la tutela del
paesaggio e, ciò, a prescindere dal fatto che in alcuni
pareri risulti accentuata l’incompatibilità di determinati
presupposti rispetto ad altri.
4.4 Nemmeno è possibile condividere i rilievi diretti ad
evidenziare l’esistenza di precedenti pareri favorevoli su
precedenti e/o analoghi progetti, ritenendo sul punto
applicabile quell’orientamento giurisprudenziale (per tutti
Cons. Giust. Amm. Sic., del 26.08.2013, n. 726) in base al
quale “l'eccepita insistenza di precedenti costruzioni non
può servire, di per sé, ad escludere il grave pregiudizio
paesaggistico prodotto nell'area vincolata dalla costruzione
censurata, a fronte di una puntuale motivazione addotta a
sostegno del parere negativo espresso dalla Soprintendenza,
la cui discrezionalità, in materia, non può contestarsi
attraverso generiche invocazioni di compatibilità fondate
sull'asserita vetustà della costruzione, ovvero sulla
presenza di precedenti costruzioni”.
4.5 La Soprintendenza, nel preavviso da ultimo impugnato, ha
ribadito che l’intervento proposto, se realizzato, avrebbe
determinato delle modifiche che non rispettano i valori
paesaggistici esistenti.
4.6 Si è, altresì, evidenziato come la sproporzione del
nuovo intervento costituisca uno dei motivi di contrasto con
la disciplina a fondamento dell’apposizione del vincolo,
nella parte in cui quest’ultima vieta specificatamente
“l’eventuale inserimento di edifici non proporzionati” e,
ciò, conformemente ai precedenti pareri sul punto emessi.
4.7 L’atto del 06/09/2013 esprime, allora, una valutazione
di incompatibilità paesaggistica, sia in funzione del
vincolo che grava sull’area agricola sia, ancora, in
considerazione delle specificità del progetto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 09.05.2014 n. 583 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La circostanza che la
convenzione urbanistica preveda l’obbligo di asservire a
parcheggio pubblico una parte della superficie, e che la
spesa per la realizzazione di queste attrezzature sia stata
posta a carico della ricorrente, non introduce elementi di
irragionevolezza o di contraddittorietà.
L’adeguamento delle aree a standard è una prassi costante
nel caso delle lottizzazioni, ed è espressamente previsto
dall’art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 e dall’art. 46
della LR 12/2005.
L’asservimento all’uso pubblico è un sostituto della
cessione, gli oneri di adeguamento alla finalità pubblica
sono assimilabili a quelli sostenuti per la realizzazione
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
---------------
Il contributo sul costo di costruzione non si presta a
compensazioni con le spese sostenute dal privato per
realizzare infrastrutture di uso pubblico.
Mentre gli oneri
di urbanizzazione trovano una controprestazione nelle opere
eseguite dall’amministrazione per urbanizzare l’area in cui
si inserisce la nuova edificazione (e possono dunque essere
in tutto o in parte sostituiti dall’esecuzione diretta dei
lavori da parte del privato), il contributo sul costo di
costruzione ha invece natura sostanzialmente tributaria. Con il contributo
sul costo di costruzione viene infatti operato un prelievo
sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato dallo
sfruttamento del territorio. Si tratta di un incremento
presunto e parametrato a costi standard.
Non vi è quindi la possibilità di detrarre da un’imposta di
tipo patrimoniale, dotata di una specifica base di calcolo,
le spese effettivamente sostenute in esecuzione della
convenzione urbanistica per realizzare i servizi necessari
all’utilizzazione del nuovo edificio.
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono
svolgere le seguenti considerazioni:
...
(f) dunque il riconoscimento a posteriori della presenza
della destinazione commerciale D8 su una parte del lotto non
è idoneo a ricollegare l’edificio che presenta (in parte) la
suddetta destinazione all’aliquota agevolata (5%) prevista
dalla deliberazione consiliare n. 28/1990 per le zone D1-D3
(industriali e commerciali).
Tale disciplina di favore deve
essere contestualizzata all’interno della pianificazione
dell’epoca, e pertanto deve essere riferita (come
espressamente indicato nelle motivazioni della predetta
deliberazione) non ai singoli edifici ma alle zone
urbanistiche dove l’amministrazione intendeva incentivare
l’espansione mediante la realizzazione di grandi capannoni e
depositi commerciali. Non vi sono ragioni per applicare in
via analogica un simile incentivo a un lotto dove
l’espansione perseguita è invece di natura prevalentemente
residenziale ed è regolata autonomamente dalla disciplina
speciale della convenzione urbanistica;
(g) la circostanza che la convenzione urbanistica preveda
l’obbligo di asservire a parcheggio pubblico una parte della
superficie, e che la spesa per la realizzazione di queste
attrezzature sia stata posta a carico della ricorrente, non
introduce elementi di irragionevolezza o di
contraddittorietà.
L’adeguamento delle aree a standard è una
prassi costante nel caso delle lottizzazioni, ed è
espressamente previsto dall’art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 e dall’art. 46 della LR 12/2005. L’asservimento
all’uso pubblico è un sostituto della cessione, gli oneri di
adeguamento alla finalità pubblica sono assimilabili a
quelli sostenuti per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria;
(h) il contributo sul costo di costruzione non si presta a
compensazioni con le spese sostenute dal privato per
realizzare infrastrutture di uso pubblico.
Mentre gli oneri
di urbanizzazione trovano una controprestazione nelle opere
eseguite dall’amministrazione per urbanizzare l’area in cui
si inserisce la nuova edificazione (e possono dunque essere
in tutto o in parte sostituiti dall’esecuzione diretta dei
lavori da parte del privato), il contributo sul costo di
costruzione ha invece natura sostanzialmente tributaria (v. CS Sez. IV 20.12.2013 n. 6160; CS Sez. V 15.12.2005 n. 7140; TAR Brescia Sez. II 25.03.2011 n. 469; TAR
Brescia Sez. I 03.12.2007 n. 1268). Con il contributo
sul costo di costruzione viene infatti operato un prelievo
sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato dallo
sfruttamento del territorio. Si tratta di un incremento
presunto e parametrato a costi standard (v. TAR Brescia Sez.
I 15.04.2009 n. 859).
Non vi è quindi la possibilità di detrarre da un’imposta di
tipo patrimoniale, dotata di una specifica base di calcolo,
le spese effettivamente sostenute in esecuzione della
convenzione urbanistica per realizzare i servizi necessari
all’utilizzazione del nuovo edificio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 03.05.2014 n. 464 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La rideterminazione del contributo sul costo di
costruzione effettuata dal Comune il 17.10.2013, a oltre
quattro anni dal rilascio del permesso di costruire
(13.07.2009), corrisponde al ristabilimento dell’esatto
contenuto di un’obbligazione di diritto pubblico. L’esigenza
di rimediare a un precedente errore di diritto (applicazione
della normativa regolamentare non più in vigore) giustifica
l’intervento in autotutela.
Le ragioni di interesse pubblico sono implicite nel recupero
di un importo dovuto ex lege, a maggior ragione nel caso del
contributo sul costo di costruzione, che può essere
assimilato a un tributo locale e fuoriesce, come si è visto
sopra, da logiche di compensazione.
Poiché ai contributi concessori si applica l’ordinario
termine di prescrizione decennale, decorrente in mancanza di
altri elementi dalla data di rilascio del titolo edilizio,
la richiesta di conguaglio risulta legittima.
L’affidamento del privato può trovare tutela solo in via
gradata, nella forma della rateizzazione del debito, qualora
l’esborso immediato dell’intero non sia economicamente
sostenibile.
(i) la rideterminazione del contributo sul costo di
costruzione effettuata dal Comune il 17.10.2013, a
oltre quattro anni dal rilascio del permesso di costruire
(13.07.2009), corrisponde al ristabilimento dell’esatto
contenuto di un’obbligazione di diritto pubblico. L’esigenza
di rimediare a un precedente errore di diritto (applicazione
della normativa regolamentare non più in vigore) giustifica
l’intervento in autotutela.
Le ragioni di interesse pubblico
sono implicite nel recupero di un importo dovuto ex lege, a
maggior ragione nel caso del contributo sul costo di
costruzione, che può essere assimilato a un tributo locale e
fuoriesce, come si è visto sopra, da logiche di
compensazione.
Poiché ai contributi concessori si applica
l’ordinario termine di prescrizione decennale, decorrente in
mancanza di altri elementi dalla data di rilascio del titolo
edilizio (v. CS Sez. VI 31.05.2013 n. 2996), la
richiesta di conguaglio risulta legittima. L’affidamento del
privato può trovare tutela solo in via gradata, nella forma
della rateizzazione del debito, qualora l’esborso immediato
dell’intero non sia economicamente sostenibile
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 03.05.2014 n. 464 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: L’Iva
in edilizia - Le operazioni con aliquota agevolata del 10% (articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Modulistica
appalti ll.pp..
PROCEDURA
NEGOZIATA – SCHEMI AGGIORNATI DELLE LETTERE DI INVITO E DEI
CAPITOLATI PREDISPOSTI DAGLI UFFICI DEL COMUNE DI BRESCIA
AGGIORNATI AL GIUGNO 2014 (06.08.2014 - link a
www.ancebrescia.it). |
VARI: FISCO
E CASA: ACQUISTO E VENDITA (Agenzia delle Entrate,
agosto 2014 - link a www.fiscooggi.it).
---------------
Vendere o acquistare la casa: il vademecum per non sbagliare.
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APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE -
LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: G.U.
18.08.2014 n. 190, suppl. ordinario n. 70/L,
"Testo del decreto-legge 24.06.2014, n. 90,
coordinato con la legge di conversione 11.08.2014, n. 114,
recante: «Misure urgenti per la semplificazione e la
trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici
giudiziari»".
---------------
Di particolare
interesse si leggano:
● Art. 1. (Disposizioni per il ricambio generazionale
nelle pubbliche amministrazioni)
● Art. 3. (Semplificazione e flessibilità nel
turn-over)
● Art. 4. (Mobilità obbligatoria e volontaria)
● Art. 5. (Assegnazione di nuove mansioni)
● Art. 6. (Divieto di incarichi dirigenziali a
soggetti in quiescenza)
● Art. 7. (Prerogative sindacali nelle pubbliche
amministrazioni)
● Art. 9. (Riforma degli onorari dell'Avvocatura
generale dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici)
● Art. 10. (Abrogazione dei diritti di rogito del
segretario comunale e provinciale e abrogazione della
ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria)
● Art. 11. (Disposizioni sul personale delle regioni
ed egli enti locali)
● Art. 13. (Abrogazione dei commi 5 e 6
dell’articolo 92 del codice di cui al decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, in materia di incentivi per la
progettazione)
● Art. 13-bis.
(Fondi per la progettazione e l’innovazione)
● Art. 16. (Nomina
dei dipendenti nelle società partecipate)
● Art. 17. (Ricognizione degli enti pubblici e
unificazione delle banche dati delle società partecipate)
● Art. 17-bis. (Divieto
per le pubbliche amministrazioni di richiedere dati già
presenti nell’Anagrafe nazionale della popolazione
residente)
● Art. 18. (Soppressione delle sezioni staccate di
Tribunale amministrativo regionale e del Magistrato delle
acque, Tavolo permanente per l'innovazione e l'Agenda
digitale italiana)
● Art. 19. (Soppressione dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture e definizione delle funzioni dell'Autorità
nazionale anticorruzione)
● Art. 23. (Interventi urgenti in materia di
riforma delle province e delle città metropolitane nonché
norme speciali sul procedimento di istituzione della città
metropolitana di Venezia e disposizioni in materia di
funzioni fondamentali dei comuni)
● Art. 23-bis. (Modifica
all’articolo 33 del codice di cui al decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, in materia di acquisizione di lavori,
beni e servizi da parte dei comuni)
● Art. 23-ter. (Ulteriori disposizioni in
materia di acquisizione di lavori, beni e servizi da parte
degli enti pubblici)
● Art. 24. (Agenda della semplificazione
amministrativa e moduli standard)
● Art. 29. (Nuove norme in materia di iscrizione
nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed
esecutori di lavori non soggetti a tentativo di
infiltrazione mafiosa)
● Art. 31. (Modifiche
all'art. 54-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001)
● Art. 32. (Misure straordinarie di gestione,
sostegno e monitoraggio di imprese nell'ambito della
prevenzione della corruzione)
● Art. 35. (Divieto di transazioni della pubblica
amministrazione con società o enti esteri aventi sede in
Stati che non permettono l'identificazione dei soggetti che
ne detengono la proprietà o il controllo)
● Art. 36. (Monitoraggio finanziario dei lavori
relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti
produttivi)
● Art. 37. (Trasmissione ad ANAC delle varianti in
corso d'opera)
● Art. 39. (Semplificazione degli oneri formali nella
partecipazione a procedure di affidamento di contratti
pubblici)
● Art. 40. (Misure per l'ulteriore accelerazione dei
giudizi in materia di appalti pubblici)
● Art. 41. (Misure per il contrasto all'abuso del
processo)
● Art. 47. (Modifiche in materia di indirizzi di
posta elettronica certificata della pubblica
amministrazione)
---------------
Per una migliore comprensione della ratio sottesa ai vari
articoli si leggano anche:
►
Dossier del Servizio Studi SENATO DELLA REPUBBLICA sull’A.S.
n. 1582 "Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, recante misure urgenti per
la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l'efficienza degli uffici giudiziari" (agosto 2014)
►
Dossier CAMERA DEI DEPUTATI n. 196/3 - Elementi per l'esame
in Assemblea (30.07.2014) |
APPALTI: G.U.
14.08.2014 n. 188 "Problematiche in ordine all’uso della
cauzione provvisoria a definitiva (articoli 75 e 133 del
Codice)" (Autorità Nazionale Anticorruzione,
determina 29.07.2014 n. 1). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
12.08.2014 n. 186 "Individuazione dei rapporti medi
dipendenti popolazione validi per gli enti in condizioni di
dissesto, per il triennio 2014-2016" (Ministero
dell'Interno,
decreto 24.07.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
G.U. 08.08.2014 n. 183 "Individuazione delle disposizioni
che si applicano agli spettacoli musicali, cinematografici e
teatrali e alle manifestazioni fieristiche tenendo conto
delle particolari esigenze connesse allo svolgimento delle
relative attività"
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Ministero
della Salute,
decreto 22.07.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
08.08.2014 n. 183 "Modifica al codice dei beni culturali
e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004,
n. 42, in materia di professionisti dei beni culturali, e
istituzione di elenchi nazionali dei suddetti professionisti" (Legge
22.07.2014 n. 110). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA: P.
Palazzi,
Mezzi pubblicitari e istanze fraudolente
(15.08.2014 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
P. Giampietro e M. Petronzi,
La Cassazione insiste sulla “temporaneità” dell’art. 186,
T.U.A. (“Terre e rocce da scavo”), con irretroattività del
D.M. 161/2012, ai fini penali - (nota a sentenza
14.03.2014 n. 12229, sui residui di lavorazione dei marmi:
rifiuti recuperabili o sottoprodotti?) (31.07.2014 -
link a
www.ambientediritto.it).
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Sommario
1. Applicazione (retroattiva) del D.M. n. 161/2012, ai sensi
dell’art. 2, commi 2 e 4, codice penale e il quadro
normativo preesistente.
1.1. I precedenti conformi della Corte di Cassazione.
2. La vicenda esaminata (di recupero agevolato di
residui-rifiuti di lavorazione dei marmi) e la conferma del
dispositivo, con rettifica della motivazione.
2.1 La supposta continuità normativa.
2.2 Le ragioni di una “parziale rettifica”.
2.3. Delimitazione del periodo di efficacia dell’art. 186,
come norma “temporanea” e presunta compatibilità con l’art.
15, del D.M. 161/2012.
3. Rilievi critici: i fatti contestati precedono il periodo
di (presunta) temporaneità dell’art. 186.
4. Ulteriori inesattezze e forzature della motivazione.
5. L’anomalia delle “norme integratrici temporanee ex post”
nel nostro sistema penale.
5.1. Confutazione dell’assunto e richiami a una dottrina
isolata e non condivisa.
6. Sulla presunta “non sovrapponibilità dell’abrogazione
differita alle norme penali sulla abolitio criminis.
7. Abrogazione differita e inaccettabilità di misure
straordinarie di criminalizzazione temporanea.
8. La disciplina transitoria dell’art. 15, D.M. 161/2012
smentisce le conclusioni del giudice di legittimità.
9. Conclusioni. |
URBANISTICA:
F. Conti Guglia,
Criteri per la configurabilità del reato di lottizzazione
abusiva e cd. reato progressivo nell’evento - Nota a Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2014 n. 25182
(31.07.2014 - tratto da www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L.
Vergine,
Brevi osservazioni sulla competenza amministrativa a
rilasciare il parere di Valutazione di Impatto Ambientale
delle opere di connessione alla rete di trasmissione
nazionale
(31.07.2014 - link a www.ambientediritto.it). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Negli staff dei sindaci non possono esserci volontari, ma
solo assunti.
I componenti degli staff dei sindaci e delle giunte non
possono essere «volontari», operanti nelle strutture
comunali senza retribuzione. Non è, dunque, possibile che
degli uffici previsti dall'articolo 90 del dlgs 267/2000
faccia parte personale il cui rapporto non risulti regolato
da un contratto di lavoro subordinato.
È la Corte dei conti, sezione regionale di controllo della
Campania che con il
parere 05.06.2014 n. 155 accerta
l'impossibilità dell'instaurazione con il personale di
«staff» di rapporti di collaborazione di incerta
qualificazione.
La magistratura contabile esclude che il rapporto
fiduciario, pur esistente, tra gli organi di governo e gli
uffici di staff, possa legittimare un rapporto di
volontariato.
Al di là della circostanza, puntualmente richiamata dal
parere, che il lavoro volontario e gratuito è ammesso
esclusivamente nei casi e alle condizioni stabiliti dalla
legge (per esempio l'articolo 3 della legge 266/1991, in
merito al lavoro svolto a favore delle «organizzazioni di
volontariato»), occorre tenere presente che il personale
operante negli staff degli organi di governo svolge comunque
una funzione amministrativa all'interno dell'ente locale.
Per quanto, come ricorda la magistratura contabile campana,
agli staff sia preclusa la gestione operativa delle
attività, l'articolo 90 del Tuel è molto chiaro
nell'attribuire al personale di staff il compito di
coadiuvare gli organi di governo nello svolgimento delle
proprie attività di indirizzo e controllo. Dunque, gli staff
letteralmente comunque svolgono attività che presuppongono
maneggio di informazioni e mezzi propri dell'ente locale,
sotto la diretta direzione degli organi di governo.
Appare del tutto evidente che nessuno possa maneggiare
strumentazioni, dotazioni e informazioni di una pubblica
amministrazione in assenza di un titolo legittimo. La
fiduciarietà dei rapporti tra organi politici e staff,
insomma, non può far sì che il rapporto amicale ed informale
consenta a un «estraneo» all'ente di svolgere al suo interno
delle attività, al di là del rispetto delle regole basilari
di gestione della cosa pubblica.
La Corte dei conti non può non sottolineare che i dipendenti
degli staff sono inseriti nell'organizzazione pubblica: il
che implica necessariamente la loro «soggezione al potere di
controllo e di indirizzo necessario alla realizzazione delle
finalità istituzionali, con le conseguenze di legge che si
ricollegano alla instaurazione a un «rapporto di servizio».
Ma basti pensare, per esempio, che in particolare proprio i
componenti degli staff risultano a particolare rischio, ai
fini delle cautele anticorruzione: l'instaurazione di un
rapporto di servizio tipico è fondamentale, anche ai fini
della loro soggezione al codice di comportamento contenuto
nel dpr 62/2014. La necessità di attivare col personale in
staff un rapporto di servizio è la ragione, conclude la
Corte dei conti, per la quale l'articolo 90 del Tuel prevede
che «il rapporto contrattuale che può essere instaurato
dall'ente locale con i componenti degli uffici di supporto è
quello tipico del contratto di lavoro subordinato a tempo
determinato, al quale si applicano integralmente le norme
del contratto collettivo nazionale di lavoro del personale
degli enti locali». Il che esclude la possibilità di
costituire col personale in staff rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa o, comunque, di lavoro autonomo (articolo ItaliaOggi del 15.08.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Sono
esclusi dall’ambito di applicazione del divieto di
monetizzazione solo i rapporti di lavoro la cui cessazione
sia caratterizzata dall’imprevedibilità o dalla non
volontarietà del dipendente. In altri termini, il divieto si
riferisce a fattispecie in relazione alle quali la
prevedibilità della cessazione del rapporto di lavoro o la
volontà del lavoro di determinare la cessazione del rapporto
stesso (es. dimissioni) consentirebbero all’amministrazione
una valutazione circa l’adozione delle misure necessarie per
assicurare la fruibilità delle ferie compatibilmente con le
esigenze personali del lavoratore e dell’organizzazione
amministrativa.
Per converso, le ipotesi in cui la il rapporto di lavoro
subisce una cessazione imprevista e non dipendente dalla
volontà del lavoratore (es. decesso) non rientrano
nell’alveo applicativo del d.l. 95/2012.
Altresì, rientrano nell’ambito di applicazione del divieto
di monetizzazione di cui al d.l. 95/2012 anche le
fattispecie in cui le ferie siano state maturate (anche
prima dell’entrata in vigore della riferita disposizione) e
il rapporto di lavoro non sia cessato, consentendo la sua
prosecuzione la perdurante possibilità di fruire delle ferie
stesse.
---------------
Il Comune di Paternò chiede un parere riguardo
all’interpretazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012,
che ha introdotto il divieto di “monetizzazione”
delle ferie non godute.
In particolare, il Comune di Paternò pone i seguenti
quesiti:
1) se, nel caso di ferire maturate e non godute prima
dell’entrata in vigore del d.l. n. 95/2012, qualora il
dipendente non sia ancora cessato dal servizio e le ferie
siano state formalmente richieste e reinviate per motivi di
servizio, sia possibile collocare il dipendente in ferie
d’ufficio e, senza il suo consenso, imputare le ferie così
fruite ad anni precedenti a quello in corso (oltre i
diciotto mesi) o se, viceversa, le ferie non godute nei
tempi contrattualmente stabiliti diano comunque luogo a
diritto di fruire di indennità monetaria;
2) per il dipendente cessato dal servizio con residui di
ferie maturate prima dell’entrata in vigore del d.l. e non
godute, quali requisiti occorre porre a base di una loro
eventuale monetizzazione;
3) se, in ipotesi di monetizzazione per mancata fruizione
delle ferie per ragioni di servizio, si possa configurare
una responsabilità del datore di lavoro.
...
La richiesta di parere, in relazione ai primi due quesiti, è
ammissibile, mentre, in relazione al terzo, è inammissibile.
Il terzo quesito, infatti, implica una valutazione di un
comportamento amministrativo oggetto di eventuali iniziative
proprie della Procura Regionale. Un parere al riguardo da
parte di questa Sezione, pertanto, potrebbe prefigurare
soluzioni non conciliabili con eventuali successive pronunce
della sezione giurisdizionale.
Nel merito, si osserva quanto segue.
L’art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012 prevede che: “le
ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche
di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di
statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della
legge 31.12.2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti
ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la
borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto
previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in
nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici
sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in
caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità,
dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del
limite di età. Eventuali disposizioni normative e
contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a
decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto. La
violazione della presente disposizione, oltre a comportare
il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di
responsabilità disciplinare ed amministrativa per il
dirigente responsabile. Il presente comma non si applica al
personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario
supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al
termine delle lezioni o delle attività didattiche,
limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie
spettanti e quelli in cui è consentito al personale in
questione di fruire delle ferie”.
Preliminarmente va ricordato che, in forza dei principi
generali dell’ordinamento che governano l’interpretazione
della legge, quest’ultima dispone solo per l’avvenire e,
salvo diversa previsione espressa, non ha efficacia
retroattiva (art. 11 disp. prel. cod. civ.).
L’entrata in vigore del decreto legge
06.07.2012, n. 95 è stata fissata al 07.07.2012 e non vi
sono disposizione relative a un eventuale regime
transitorio.
In assenza di un regime transitorio, devono
ritenersi salvaguardate le situazioni di diritto
consolidatesi prima dell’entrata in vigore del citato
decreto legge, al fine di non attribuire effetti retroattivi
alla norma, non previsti dalla norma stessa e non consentiti
dai richiamati principi generali dell’ordinamento.
Di conseguenza, devono ritenersi esclusi
dal campo di applicazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. 95
del 2012 i rapporti di lavoro già cessati alla data di
entrata in vigore del citato decreto, nonché le fattispecie
in cui le giornate di ferie siano state maturate prima
dell’entrata in vigore dello stesso decreto e ne risulti
incompatibile la fruizione a causa della sopravvenuta
cessazione del rapporto di lavoro.
Occorre al riguardo precisare che non ogni
sopravvenuta cessazione del rapporto di lavoro consente la
monetizzazione delle ferie maturate prima dell’entrata in
vigore del d.l. 95/2012.
Dal tenore letterale della disposizione normativa in esame e
dalla sua ratio (il contenimento della spesa
pubblica) si deduce che sono esclusi
dall’ambito di applicazione del divieto di monetizzazione
solo i rapporti di lavoro la cui cessazione sia
caratterizzata dall’imprevedibilità o dalla non volontarietà
del dipendente. In altri termini, il divieto si riferisce a
fattispecie in relazione alle quali la prevedibilità della
cessazione del rapporto di lavoro o la volontà del lavoro di
determinare la cessazione del rapporto stesso (es.
dimissioni) consentirebbero all’amministrazione una
valutazione circa l’adozione delle misure necessarie per
assicurare la fruibilità delle ferie compatibilmente con le
esigenze personali del lavoratore e dell’organizzazione
amministrativa.
Per converso, le ipotesi in cui la il
rapporto di lavoro subisce una cessazione imprevista e non
dipendente dalla volontà del lavoratore (es. decesso) non
rientrano nell’alveo applicativo del d.l. 95/2012.
Tale conclusione consente di attribuire effettività alla
volontà del legislatore, il quale, con il divieto di
monetizzazione, ha inteso anche evitare abusi dovuti
all’eccessivo ricorso al fenomeno della monetizzazione delle
ferie non fruite a causa dell’assenza di programmazione e di
controlli da parte dell’amministrazione in relazione alla
gestione del personale, così intendendo il legislatore
favorire anche una maggiore responsabilizzazione nel
godimento del diritto alle ferie.
In linea di logica continuità con la riferita conclusione,
deriva che rientrano nell’ambito di
applicazione del divieto di monetizzazione di cui al d.l.
95/2012 anche le fattispecie in cui le ferie siano state
maturate (anche prima dell’entrata in vigore della riferita
disposizione) e il rapporto di lavoro non sia cessato,
consentendo la sua prosecuzione la perdurante possibilità di
fruire delle ferie stesse
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 05.06.2014 n. 77). |
QUESITI & PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: OSSERVATORIO VIMINALE/
Animali, decide il comune.
Sindaci responsabili di bovini ed equini vaganti.
Se il proprietario non viene individuato, è l'ente che deve
farsene carico.
Al fine della tutela della pubblica incolumità nel
territorio, a chi spetta la competenza in materia di
funzioni di intervento su bovini ed equini vaganti
apparentemente privi di proprietario?
Secondo il ministero della salute, dipartimento della sanità
pubblica veterinaria, della sicurezza alimentare e degli
organi collegiali per la tutela della salute, per gli
animali liberi e non riconducibili a un proprietario occorre
fare riferimento agli articoli 823 e 826 del codice civile
cui si fa risalire la previsione della tutela di detti
animali in capo all'autorità amministrativa.
L'articolo 3 del dpr del 31.03.1979 attribuisce ai comuni
la funzione di vigilanza sull'osservanza di leggi e
regolamenti generali locali relativi alla protezione degli
animali e alla difesa del patrimonio zootecnico, mentre, la
responsabilità del sindaco scaturisce anche dal ruolo allo
stesso riconosciuto di autorità sanitaria locale.
Il citato dicastero argomenta che «la presenza di equini e
bovini vaganti non identificati involge anche aspetti
relativi alle emergenze sanitarie che interessano queste
specie animali, alcune delle quali a carattere zoonotico,
tali quindi, da poter risultare rischiose anche per la
salute umana». Il sindaco pertanto, risulta il «diretto
responsabile degli adempimenti volti alla tutela degli
animali coinvolti, ricadendo su di esso i compiti di
coordinamento e di garanzia degli interventi da effettuare».
Il sindaco, altresì, deve «assicurarsi che sussistano mezzi
e personale adeguati per le operazioni di cattura, nonché
l'individuazione di luoghi fisici in cui compiere
l'identificazione degli animali e gli eventuali interventi
sanitari sugli stessi. L'Azienda sanitaria locale, presso
cui è presente un servizio veterinario di reperibilità
continuata, deve, d'altra parte, garantire lo svolgimento
dei propri compiti, relativi all'identificazione e
all'accertamento sanitario sugli animali».
Ciò posto, nei casi in cui si individui il proprietario
degli animali vaganti, questi sarà tenuto al pagamento degli
oneri per le attività di cattura, identificazione e ricovero
e per gli accertamenti sanitari effettuati, comprese le
sanzioni previste dalla normativa vigente. Qualora il
proprietario non venga individuato, la proprietà degli
animali deve essere ricondotta in capo al responsabile, cioè
al sindaco, il quale, al fine di definire la destinazione
degli animali, dovrà richiedere un parere alle autorità
territorialmente competenti, sentito il ministero della
salute
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Permessi del presidente.
Di quali permessi può fruire il presidente del consiglio
comunale, agente della polizia di stato?
La materia dei permessi, indennità, oneri previdenziali e
assicurativi è disciplinata al capo IV, artt. 77 e ss. del
dlgs 18.08.2000, n. 267.
In particolare, l'art. 79 del
citato dlgs n. 267/2000 dispone, al comma 1, che i
consiglieri comunali hanno diritto di assentarsi per la
partecipazione alle riunioni consiliari per la effettiva
durata delle stesse, e tale diritto comprende il tempo
necessario per raggiungere il luogo della riunione e
rientrare al posto di lavoro.
Il richiamato comma 4 del
medesimo articolo prevede, inoltre, che il presidente del
consiglio e il presidente dei gruppi consiliari comunali con
popolazioni superiori a 15.000 abitanti, oltre ai permessi
di cui ai precedenti commi, hanno diritto di assentarsi dal
posto di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative mensili,
configurando nello stesso il tempo necessario per
raggiungere il luogo della riunione e il rientro al posto di
lavoro.
Le attestazioni di cui al comma 6 del citato art. 79 Tuel, devono essere prontamente e puntualmente documentate e
rilasciate dal dirigente competente ai sensi dell'art. 107,
comma terzo, lett. h), del dlgs n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 15.08.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Pubblicità
consulenze.
Domanda
Vorrei sapere quali sono le conseguenze e le responsabilità
in caso di mancata pubblicità degli incarichi di consulenza
affidati dalla Pubblica amministrazione
Risposta
L'art. 1, comma 127, della legge n. 662/1996 prevede un
duplice obbligo per le Pubbliche amministrazioni: quello di
pubblicare gli elenchi degli incarichi di consulenza
conferiti e quello di comunicare copia di tali elenchi al
Dipartimento della funzione pubblica.
La legge n. 244/2007 (Finanziaria 2008) ha previsto
espressamente, per il dirigente che ometta tali adempimenti,
il procedimento disciplinare e la responsabilità erariale.
Con l'art. 53 del dlgs 165/2001, modificato con la legge
190/2012, il legislatore ha dettato disposizioni volte ad
impedire alle Pubbliche amministrazioni di conferire nuovi
incarichi fino all'avvenuta pubblicazione e comunicazione di
quelli precedenti.
Il dlgs n. 33/2013 ha precisato che, la pubblicazione sul
sito internet dell'Amministrazione e la comunicazione alla
Funzione pubblica degli incarichi conferiti, costituiscono
«condizioni per l'acquisizione di efficacia dell'atto e per
la liquidazione dei relativi compensi».
Per il dirigente che abbia disposto il pagamento, senza la
preventiva pubblicazione dell'affidamento dell'incarico, è
previsto il pagamento di una sanzione pari alla somma
corrisposta, oltre all'eventuale risarcimento del danno.
Con la sentenza 15.05.2014, n. 424, la Corte dei conti
ha precisato che l'art. 53, comma 15, del dlgs 165/2001, che
vieta l'affidamento di ogni nuovo incarico fino all'avvenuta
comunicazione di quelli precedenti, deve considerarsi norma
di «ordine pubblico» e, in quanto tale, suscettibile di
determinare la nullità tutti i contratti stipulati in
assenza della prescritta condizione di legge (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Requisiti
consulenze.
Domanda
Quali sono i presupposti di legittimità per il conferimento
di consulenze esterne da parte della Pubblica
amministrazione?
Risposta
L'art. 7, comma 6, del dlgs 165/2001 subordina, l'affidamento
di incarichi a personale estraneo alla Pubblica
amministrazione, a una serie di presupposti di legittimità.
Tali prescrizioni hanno lo scopo di circoscrivere gli spazi
di discrezionalità dell'amministrazione pubblica
attribuendo, all'adozione di simili misure organizzative, un
carattere di eccezionalità.
La legittimità della stipula di contratti di lavoro
autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa
con professionisti esterni, è condizionata ai seguenti
presupposti: l'oggetto del contratto deve rientrare nei
compiti istituzionali dell'amministrazione conferente; deve
essere stata preliminarmente verificata l'utilizzabilità
delle risorse interne; la prestazione da affidare deve avere
necessariamente durata limitata nel tempo; devono essere
determinati durata, luogo, oggetto e compenso.
La legge prescrive espressamente, in caso di conferimento di
incarichi esterni, al di fuori di tali condizioni, una causa
di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha
stipulato i relativi contratti.
Si evidenzia, infine, che allo scopo di dare la massima
visibilità alla scelta dell'amministrazione pubblica di
affidare un incarico esterno e, contemporaneamente, di
consentire un controllo da parte della collettività
sull'utilizzo delle risorse pubbliche, il legislatore ha
ritenuto di assoggettare tali contratti a un rigido regime
di pubblicità (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
APPALTI: Partecipazione
negli appalti.
Domanda
Quali sono i limiti dell'Amministrazione pubblica nel
determinare i requisiti di partecipazione a una gara
d'appalto?
Risposta
Il Consiglio di stato, con la sentenza 28.05.2014, n.
2775, ha precisato che, nei limiti della proporzionalità e
della ragionevolezza, c'è un potere discrezionale della
stazione appaltante nel fissare, nel capitolato speciale di
gara, i requisiti soggettivi specifici di partecipazione
alla gara.
I giudici amministrativi evidenziano che, ai sensi degli
artt. 41 e 42 del dlgs 163/2006, c.d. Codice dei contratti
pubblici, le stazioni appaltanti hanno il potere
discrezionale di fissare, nel disciplinare di gara, i
requisiti soggettivi specifici di partecipazione attraverso
l'esercizio di un potere discrezionale che conosce i limiti
della ragionevolezza e della proporzionalità.
Il Consiglio di stato ha affermato che la stazione
appaltante può introdurre nella gara d'appalto disposizioni
che limitano la platea dei concorrenti, al fine di
consentire la partecipazione di soggetti particolarmente
qualificati, specialmente per ciò che attiene al possesso di
requisiti di capacità tecnica e finanziaria, se tale scelta
non sia eccessivamente o irragionevolmente limitativa della
concorrenza.
Una simile scelta può essere sindacata dal giudice
amministrativo in sede di legittimità solo in quanto sia
manifestamente irragionevole, irrazionale, arbitraria,
sproporzionata, illogica o contraddittoria (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
ENTI LOCALI -
VARI:
Trasformazione delle concessioni cimiteriali da perpetue a
temporanee.
Secondo il prevalente orientamento della
giustizia amministrativa, le concessioni perpetue esulano
dall'ambito di applicazione dell'art. 92, comma 2, primo
periodo, del D.P.R. 285/1990 e, non essendo soggette alla
revoca ivi prevista, mantengono il carattere di perpetuità.
Ciò nonostante, un recente filone ritiene, invece,
ammissibile la trasformazione delle concessioni cimiteriali
da perpetue a temporanee, in considerazione della natura
demaniale dei cimiteri, che non consentirebbe di attribuire
diritti a privati senza limiti di tempo.
Il Comune -che ha già formulato alcuni quesiti nella stessa
materia [1]-
trasmette un articolo di dottrina [2],
concernente una sentenza del TAR Puglia [3],
in base alla quale risulterebbe ammissibile procedere alla
trasformazione delle concessioni cimiteriali da perpetue a
temporanee, e chiede un parere al riguardo.
Preliminarmente, si ritiene utile ricordare che la
perpetuità delle concessioni cimiteriali, consentita tanto
dal regio decreto 25.07.1892, n. 448 [4],
quanto dal regio decreto 21.12.1942, n. 1880
[5], non è
più stata contemplata dai successivi regolamenti statali di
polizia mortuaria, adottati con decreti del Presidente della
Repubblica 21.10.1975, n. 803 e 10.09.1990, n. 285, i quali
hanno disposto che le concessioni «sono a tempo
determinato e di durata non superiore a 99 anni, salvo
rinnovo» [6]
ed hanno previsto che «Le concessioni a tempo determinato
di durata eventualmente eccedente i 99 anni», rilasciate
anteriormente alla data di entrata in vigore del D.P.R.
803/1975, «possono essere revocate, quando siano
trascorsi 50 anni dalla tumulazione dell'ultima salma, ove
si verifichi una grave situazione di insufficienza del
cimitero rispetto al fabbisogno del comune e non sia
possibile provvedere tempestivamente all'ampliamento o alla
costruzione di nuovo cimitero.» [7].
Benché la predetta facoltà di revoca faccia espresso
riferimento alle concessioni 'a tempo determinato',
l'estensione dell'istituto alle concessioni perpetue,
operata da alcuni comuni, ha comportato la necessità, per
l'autorità giudiziaria, di valutarne la legittimità.
Si segnala che la giurisprudenza, sul punto, non appare
univoca.
Secondo un primo filone, le concessioni perpetue esulano
dall'ambito di applicazione dell'art. 92, comma 2, primo
periodo, del D.P.R. 285/1990 e, non essendo soggette alla
revoca ivi prevista, mantengono il carattere di perpetuità
[8].
Nell'ambito di tale filone, viene affermato che l'art. 92
del D.P.R. 285/1990 «non regola affatto le esistenti
concessioni cimiteriali perpetue [...]. La norma in
questione si limita infatti a stabilire che le future
concessioni cimiteriali debbano essere ricondotte a due
tipologie a tempo determinato e che non possano quindi
essere più rilasciate concessioni per l'uso perpetuo di aree
cimiteriali. Nessuna norma invece prevede che le concessioni
perpetue esistenti debbano trasformarsi in una delle
tipologie previste dal D.P.R. citato e quindi esse rimangono
assoggettate al regime giuridico secondo il quale sono sorte
potendo quindi essere modificate solo da espressa
disposizione di legge, da novazioni consensuali o dal
concretarsi dei casi di estinzione (soppressione del
cimitero, ecc.)» [9].
Un secondo orientamento radica, invece, la propria tesi sul
disposto dell'art. 824 [10],
secondo comma, del codice civile, ai sensi del quale i
cimiteri sono soggetti al regime del demanio comunale -«i
cui atti dispositivi non sono legittimamente configurabili
senza limiti di tempo» [11]-
rilevando, innanzitutto, che la concessione cimiteriale, di
natura traslativa, crea, nel privato concessionario, un
diritto soggettivo perfetto di natura reale, opponibile agli
altri privati e precisando che, nei confronti
dell'ammini-strazione pubblica, tale diritto si
affievolisce, degradando ad interesse legittimo, qualora lo
richiedano esigenze di pubblico interesse per la tutela
dell'ordine e del buon governo del cimitero
[12],
indipendentemente dall'eventuale irrevocabilità o perpetuità
del diritto di sepolcro [13].
Sulla scorta di tali premesse, parte della giurisprudenza
ritiene legittime:
- la revoca di concessioni rilasciate sine die
[14],
sempreché sussistano i presupposti previsti dalla normativa
di settore [15];
- la previsione regolamentare comunale che dispone la
trasformazione delle concessioni perpetue in concessioni
temporanee [16].
In relazione alla predetta trasformazione, si ritiene utile
riportare l'avviso espresso dal TAR Sicilia
[17], il
quale -ricordando che la giurisprudenza amministrativa si è
in passato pronunciata in termini non univoci- ritiene che «la
natura demaniale dei cimiteri sia di ostacolo alla
configurazione della perpetuità delle concessioni
cimiteriali che, nella sostanza, in tal modo, finirebbero
per occultare un vero e proprio diritto di proprietà su un
bene demaniale».
Infatti -chiarisce quel giudice- un bene demaniale è, per
sua natura, pubblico, cioè destinato a vantaggio dell'intera
collettività. Tale carattere non esclude che il bene possa
anche venire riservato (attraverso una concessione) ad un
uso limitato in favore di alcuni soggetti, «ma tale uso
privato deve necessariamente essere temporalmente limitato e
non perpetuo», atteso che, diversamente, il bene verrebbe
definitivamente sottratto alla sua ontologica finalità
pubblica». [18]
La medesima motivazione è stata ripresa dal TAR Puglia
[19],
nella pronuncia alla quale il Comune fa riferimento, ove,
ricordato che lo ius sepulchri, nei confronti della
pubblica amministrazione concedente, costituisce un 'diritto
affievolito' in senso stretto, soggiacendo ai poteri
regolativi e conformativi di stampo pubblicistico, afferma
che, a fronte di una concessione cimiteriale perpetua,
l'amministrazione ha il potere di disporne unilateralmente
la modifica, mediante la previsione di un termine di durata,
oltre il quale la concessione deve essere rinnovata.
In conclusione, si suggerisce al Comune di valutare
attentamente le determinazioni da assumere, anche
considerato che la possibilità di operare la trasformazione
delle concessioni cimiteriali perpetue in concessioni
temporanee, in relazione alla quale sono intervenute
pronunce giudiziali non univoche, risulta, ad oggi,
affermata solo da giurisprudenza amministrativa di primo
grado.
---------------
[1] Ai quali questo Ufficio ha fornito riscontro con
pareri 22.10.2010, prot. n. 23893; 10.08.2012, prot. n.
26709 e 24.10.2012, prot. n. 33954.
[2] G. Pelizzaro, TAR Puglia: è possibile trasformare le
concessioni cimiteriali da perpetue a temporanee, in
Notiziario ANUSCA, aprile 2014.
[3] Lecce - Sez. II, 31.01.2014, n. 289.
[4] Il cui art. 100 prevedeva che «Il posto per sepolture
private potrà essere concesso per tempo determinato o a
perpetuità.».
L'art. 104 stabiliva, poi, che nel caso di soppressione del
cimitero, i soggetti legati al comune da regolare contratto
avessero diritto di ottenere, nel nuovo cimitero, «per il
tempo che loro ancora spetta o a perpetuità», un posto
corrispondente in superficie a quello già concesso, oltre al
trasporto delle spoglie mortali.
[5] Il cui art. 70 disponeva che le concessioni cimiteriali
«si distinguono in temporanee, ossia per un tempo
determinato, e perpetue. Queste ultime si estinguono con la
soppressione del cimitero, salvo quanto è disposto nel
seguente articolo 76».
L'art. 76, primo comma, del R.D. 1880/1942 confermava
-precisandone la gratuità- gli stessi diritti contemplati
dall'art. 104 del R.D. 448/1892, per l'ipotesi della
soppressione del cimitero.
[6] Così tanto l'art. 93, primo comma, del D.P.R. 803/1975,
quanto l'art. 92, comma 1, del D.P.R. 285/1990.
[7] Così tanto l'art. 93, secondo comma, primo periodo, del
D.P.R. 803/1975, quanto l'art. 92, comma 2, primo periodo,
del D.P.R. 285/1990.
Ai sensi del secondo periodo delle predette disposizioni
«Tutte le concessioni si estinguono con la soppressione del
cimitero», salvo quanto previsto, rispettivamente, dall'art.
99 del D.P.R. 803/1975 e dall'art. 98 del D.P.R. 285/1990,
secondo i quali, in tale evenienza, i soggetti legati al
comune da regolare atto di concessione hanno diritto di
ottenere gratuitamente, nel nuovo cimitero, «per il tempo
residuo spettante secondo l'originaria concessione, o per la
durata di 99 anni nel caso di maggiore durata o di
perpetuità della concessione estinta», un posto
corrispondente in superficie a quello già concesso ed il
trasporto delle spoglie mortali.
[8] V. Consiglio di Stato - Sez. V, 12.05.1987, n. 279; TAR
Trentino Alto Adige-Trento 09.09.1999, n. 318; Consiglio di
Stato - Sez. V, 08.10.2002, n. 5316; TAR Sardegna-Cagliari,
Sez. II, 30.01.2006, n. 95; TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
05.08.2010, n. 9197; Consiglio di Stato - Sez. V,
08.02.2011, n. 842 (che conferma il predetto TAR Trentino
Alto Adige-Trento, n. 318/1999).
In dottrina, v. S. Scolaro, La polizia mortuaria. Guida
pratica alla gestione funeraria e cimiteriale, Maggioli,
2007, pag. 291 e segg., secondo il quale la differenza tra
le concessioni a tempo determinato e quelle a perpetuità è
sostanziale ed implica che «i sepolcri privati sorti nel
passato e regolati, per quanto riguarda la durata, in modo
difforme da quelli che sono i limiti attuali (tempo
determinato e termine temporale massimo), continuano ad
essere assoggettati al regime temporale originario».
[9] V. TAR Trentino Alto Adige-Trento, n. 318/1999, cit.,
TAR Sardegna-Cagliari, Sez. II, n. 95/2006, cit. e Consiglio
di Stato - Sez. V, n. 842/2011, cit..
[10] «I beni della specie di quelli indicati dal secondo
comma dell'articolo 822, se appartengono alle province o ai
comuni, sono soggetti al regime del demanio pubblico.
Allo stesso regime sono soggetti i cimiteri e i mercati
comunali.».
[11] V. Consiglio di Stato - Sez. V, 28.05.2001, n. 2884.
[12] V. Cassazione civile - Sezz. Unite, 07.10.1994, n. 8197
e Sez. II, 30.05.2003, n. 8804; Consiglio di Stato - Sez. V,
07.10.2002, n. 5294 e 26.06.2012, n. 3739; TAR
Campania-Napoli, Sez. VII, 23.07.2013, n. 3792, 29.07.2013,
n. 3981, 14.10.2013, n. 4589, 05.11.2013, n. 4901,
09.12.2013, n. 5635 e 10.02.2014, n. 920.
[13] V. Cassazione civile - Sezz. Unite, 27.07.1988, n. 4760
e 16.01.1991, n. 375.
[14] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 2884/2001, cit.; TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II, 13.03.2007, n. 794 e 18.01.2012,
n. 70.
[15] V. l'art. 92, comma 2, primo periodo, del D.P.R.
285/1990, richiamato nel testo. Sulla necessità della
contestuale ricorrenza delle tre condizioni previste dalla
legge per poter procedere alla revoca della concessione v.
TAR Trentino Alto Adige-Trento, n. 318/1999, cit.; TAR
Sardegna-Cagliari, Sez. II, n. 95/2006, cit.; TAR
Sicilia-Catania, 08.04.2010, n. 1056; TAR Sicilia-Palermo,
Sez. III, n. 9197/2010, cit.; Consiglio di Stato - Sez. V,
n. 842/2011, cit..
[16] V. TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, 02.12.2013, n. 2341;
TAR Puglia-Lecce, Sez. II, n. 289/2014.
[17] Palermo, Sez. III, n. 2341/2013, cit..
[18] Conclusivamente, il TAR afferma che risulta corretto il
regolamento comunale, nella parte in cui ha disposto la
trasformazione delle concessioni perpetue in concessioni
temporanee di lunga durata, «in quanto così facendo ha in
realtà corretto una disposizione dell'originaria concessione
che deve ritenersi nulla, per contrasto con i principi
imperativi dell'ordinamento».
[19] Lecce - Sez. II, n. 289/2014, cit. (06.08.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Contributi, l'aut aut dei comuni.
I politici-lavoratori autonomi devono astenersi dal lavoro.
Il Viminale conferma la tesi della Corte conti sul
versamento degli oneri previdenziali.
L'obbligo per gli enti locali di versare i contributi per
gli amministratori che siano lavoratori autonomi è
subordinato alla espressa rinuncia da parte di questi ultimi
all'espletamento dell'attività lavorativa durante lo
svolgimento del mandato.
Lo ha ribadito il
parere
04.08.2014 reso dal Ministero dell'interno (class. n. 15900/TU/00/86) in risposta al
quesito posto da un comune, confermando la tesi restrittiva
sostenuta da alcuni pareri della Corte dei conti e già fatta
propria dal Viminale in un altro
parere
09.04.2014.
Il problema riguarda l'interpretazione dell'art. 86 del Tuel.
Il comma 1 di tale disposizione prevede che
l'amministrazione locale provveda a proprio carico al
versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e
assicurativi per le tipologie di amministratori ivi
individuati (sindaci, presidenti di province, comunità
montane, unioni di comuni e consorzi, assessori provinciali
e di comuni con più di 10.000 abitanti, presidenti dei
consigli provinciali e dei consigli dei comuni con più di
50.000 abitanti) che siano collocati in aspettativa non
retribuita. Il successivo comma 2 dispone che agli
amministratori locali che non siano lavoratori dipendenti e
che rivestano le predette cariche l'amministrazione locale
provveda, «allo stesso titolo previsto dal comma 1», al
pagamento di una cifra forfettaria annuale, versata per
quote mensili.
In proposito, alcune sezioni regionali della Corte dei conti
(per prima quella della Basilicata, seguita, poi, da
Lombardia, Liguria e Piemonte), hanno sostenuto che l'inciso
«allo stesso titolo previsto dal comma 1» deve intendersi
come riferito non già solo all'oggetto del pagamento (i
contributi), ma anche alla ragione che causalmente lo
giustifica, da rinvenirsi nel sostegno che l'ordinamento
assicura a favore di chi opta per l'esclusività
dell'incarico di amministratore. Tale opzione o scelta non
può essere differentemente misurata per il lavoratore
dipendente rispetto al lavoratore non dipendente, né rileva
il fatto che, per questi ultimi, non sia previsto l'istituto
dell'aspettativa senza assegni e quindi sia diffide, nella
pratica, verificare il mancato esercizio contemporaneo della
professione.
In passato, invece, il ministero era rimasto fermo sulla
tesi contraria, espressa con chiarezza in un parere emesso
in data 17.02.2004. Esso, partendo dalla
considerazione secondo cui, a differenza dei lavoratori
dipendenti, i lavoratori autonomi non hanno la possibilità
di porsi in aspettativa e difficilmente possono sospendere
l'attività professionale, concludeva affermando che il
versamento dei contributi costituisce un beneficio che va
accordato a prescindere dall'incidenza dell'espletamento
della carica elettiva sull'effettivo esercizio dell'attività
professionale.
Ora, come detto, il Viminale ha cambiato idea, ritenendo
maggiormente condivisibili le argomentazioni della
giurisprudenza contabile. Diversamente opinando, infatti,
l'assunzione da parte dell'ente locale degli oneri
contributivi si tradurrebbe nell'equivalente di un loro
sgravio netto a favore del lavoratore non dipendente che
accede alla carica di amministratore locale e di una loro
contestuale fiscalizzazione con aggravio del bilancio
comunale, senza alcuna corrispettiva dedizione del tempo
lavorativo ai soli compiti di amministratore locale. Se si
ammettesse, inoltre, che il lavoratore non dipendente possa,
in pendenza di mandato, svolgere ugualmente la sua
professione facendo gravare sul bilancio dell'ente il
pagamento dei contributi (da lui altrimenti dovuti) nella
misura minima prevista, si finirebbe per consentire
l'alterazione delle condizioni di mercato, dal momento che
l'amministratore locale esercente la professione, l'arte o
il mestiere, non gravato degli oneri contributivi, avrebbe
margini di ricavo più ampi rispetto alla concorrenza.
A questo punto, gli enti locali non possono che uniformarsi
e dovranno individuare, nell'ambito della propria autonomia
organizzativa e gestionale, le opportune modalità di
accertamento e verifica circa la sussistenza dei presupposti
che consentono di procedere all'erogazione. Come chiarisce
il parere in commento, infatti, rimane nella competenza di
dirigenti e amministratori locali, ciascuno per la parte di
rispettiva competenza, l'applicazione di dettaglio ai casi
concreti, con l'eventuale ausilio del segretario comunale (articolo ItaliaOggi del 12.08.2014).
----------------
OGGETTO: Art. 86 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267.
Si fa riferimento all’unita nota con la quale il comune di
XXX chiede un parere circa le modalità di applicazione
dell’obbligo di versamento dei contributi assistenziali e
previdenziali per gli amministratori lavoratori autonomi,
alla luce dell’orientamento -condiviso anche da questo
Ministero- indicato dalle sezioni regionali della Corte dei
Conti della Basilicata e della Lombardia con delibere,
rispettivamente, del 15.01.2014 e del 05.03.2014.
Al riguardo, si ritiene opportuno ricordare i contenuti
dell’art. 86 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 ove,
al comma 1, è previsto che l'amministrazione locale provvede
a proprio carico, al versamento degli oneri assistenziali,
previdenziali e assicurativi, per le tipologie di
amministratori ivi individuati, che siano collocati in
aspettativa non retribuita.
Il successivo comma 2 dispone che agli amministratori locali
che non siano lavoratori dipendenti e che rivestano le
cariche di cui al citato comma 1, l'amministrazione locale
provvede, allo stesso titolo previsto dal comma 1, al
pagamento di una cifra forfetaria annuale, versata per quote
mensili.
Le sezioni regionali della Corte dei Conti, sono state
chiamate ad esprimere il proprio parere sulla questione
ovvero se anche per i lavoratori non dipendenti –per i quali
l’istituto del collocamento in aspettativa non esiste– debba
subordinarsi la concessione del beneficio alla espressa e
concreta rinuncia all’espletamento dell’attività lavorativa
svolta, così da garantire che l’incarico istituzionale sia
effettuato nelle medesime condizioni di esclusività previste
per i lavoratori dipendenti.
Il citato comma 2 dell’art. 86 del T.U.O.E.L. nulla dispone
al riguardo.
Le sezioni regionali dell’organo di controllo hanno
precisato che la disposizione in argomento, nella parte in
cui prevede, in favore dell’amministratore che non sia
lavoratore dipendente, il pagamento di una cifra forfetaria
da effettuarsi “allo stesso titolo previsto dal comma 1”
deve intendersi come riferita non già solo all’oggetto del
pagamento (gli oneri previdenziali, assistenziali e
assicurativi) ma anche alla ragione che causalmente lo
giustifica, da rinvenirsi nel sostegno che l’ordinamento
assicura a favore di chi opta per l’esclusività
dell’incarico di amministratore. Tale opzione o scelta non
può essere differentemente misurata per il lavoratore
dipendente rispetto al lavoratore non dipendente.
Osserva al riguardo la Corte dei Conti che la mancanza, per
i lavoratori che non siano dipendenti, dell’istituto
dell’aspettativa senza assegni, previsto per i soli
lavoratori dipendenti, e la pratica difficoltà di verificare
il mancato esercizio contemporaneo della professione da
parte dell’amministratore locale, non può essere argomento
per sostenere che l’art. 86, commi 1 e 2, del TUOEL, abbia
ad oggetto fattispecie diversamente costruite a seconda che
si abbia riguardo ai lavoratori dipendenti (comma 1) o ai
lavoratori non dipendenti (comma 2). Le due disposizioni, ad
avviso dell’Organo di controllo, hanno la medesima ratio,
e unificano il trattamento dedicato a differenti categorie
di lavoratori-amministratori locali, costruendo una
fattispecie che ha, per entrambi, i medesimi presupposti.
La circostanza che il decreto interministeriale del
25.05.2001 garantisca ai lavoratori non dipendenti la
contribuzione minima non starebbe a significare, ad avviso
delle sezioni regionali di controllo, che il lavoratore
interessato possa accedervi solo perché rivesta una delle
prescritte cariche di amministratore locale. Così opinando,
infatti, l’assunzione da parte dell’Ente locale degli oneri
contributivi si tradurrebbe nell’equivalente di un loro
sgravio netto a favore del lavoratore non dipendente che
accede alla carica di amministratore locale e di una loro
contestuale fiscalizzazione con aggravio del bilancio
comunale, senza alcuna corrispettiva dedizione del tempo
lavorativo ai soli compiti di amministratore locale.
Se si ammettesse, inoltre, che il lavoratore non dipendente
possa, in pendenza di mandato, svolgere ugualmente la sua
professione facendo gravare sul bilancio dell’Ente il
pagamento dei contributi (da lui altrimenti dovuti) nella
misura minima prevista, si finirebbe per consentire
l’alterazione delle condizioni di mercato, dal momento che
l’amministratore locale esercente la professione, l’arte o
il mestiere, non gravato degli oneri contributivi, avrebbe
margini di ricavo più ampi rispetto alla concorrenza.
Né si ritiene possa essere validamente eccepito che, dalla
circostanza che il più volte citato comma 2 dell'art. 86 del
T.U.O.E.L. nulla dispone circa l'obbligo di astenersi
dall'attività professionale da parte del lavoratore non
dipendente durante lo svolgimento del mandato elettorale, ne
può derivare un’assenza di tale obbligo espressamente voluta
dal legislatore.
Ciò posto, tenuto anche conto dei generali principi di buon
andamento e di contenimento della spesa pubblica, si
ritengono condivisibili le argomentazioni formulate dalle
citate sezioni regionali di controllo in merito all'ambito
applicativo dell'art. 86, comma 2, del T.U.O.E.L..
In merito alle modalità applicative delle disposizioni di
cui al succitato comma 2 richieste dall’ente, occorre
precisare che questo Ufficio fornisce consulenza in ordine
alla enucleazione di principi giuridici con riferimento ad
ampie problematiche conseguenti ad innovazioni legislative o
orientamenti giurisprudenziali. Rimane nella competenza dei
dirigenti ed amministratori locali, ciascuno per la parte di
rispettiva competenza, l’applicazione di dettaglio ai casi
concreti, con l’eventuale ausilio del segretario comunale (parere
04.08.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
ENTI LOCALI:
Membro esterno di commissione comunale. Lite pendente e
causa d'incompatibilità.
L'art. 63 TUEL prevede che sia colpito
da incompatibilità 'colui che ha lite pendente, in quanto
parte di un procedimento civile od amministrativo...con il
comune': la norma però ha come destinatari espressi gli
amministratori locali. Non esiste invece una norma del TUEL
che estenda ai componenti esterni delle commissioni comunali
l'applicazione di detto art. 63.
Peraltro, nell'ambito dell'autonomia normativa ed
organizzativa dell'ente locale, rientra anche il potere di
estendere, con disposizione regolamentare, dette cause
d'incompatibilità ai componenti esterni delle commissioni
comunali.
Il Comune, con riferimento alla ricostituzione di una
commissione comunale consultiva, riferisce che tra i
componenti esterni è stato designato, da una categoria
interessata, un soggetto che ha lite pendente con
l'Amministrazione comunale, avendo lo stesso presentato un
ricorso contro un'ordinanza ingiunzione per violazione di
disposizioni relative proprio alla materia trattata in detta
commissione.
Ciò premesso, l'Ente chiede se sia 'possibile procedere
con la nomina in commissione di una persona per la quale
potrebbero profilarsi possibili conflitti d'interesse o
imparzialità'.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti
osservazioni.
L'art. 63 TUEL prevede che sia colpito da incompatibilità 'colui
che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento
civile od amministrativo...con il comune': la norma però
ha come destinatario espresso il 'sindaco ed il
consigliere comunale' [1].
Non esiste invece una norma del TUEL che estenda ai
componenti esterni delle commissioni comunali l'applicazione
di detto art. 63.
Peraltro, nell'ambito dell'autonomia normativa ed
organizzativa dell'ente locale rientra anche il potere di
estendere, con disposizione regolamentare, dette cause
d'incompatibilità ai componenti esterni delle commissioni
comunali.
In assenza di disposizioni legislative o regolamentari che
stabiliscano l'incompatibilità in argomento, si reputa che
la situazione di lite pendente non sia ostativa alla nomina.
Si ritiene peraltro che, per il superiore principio
costituzionale (art. 97 Cost.) di buon andamento ed
imparzialità dell'amministrazione, il componente esterno che
risulti concretamente, di volta in volta, in situazione di
conflitto d'interessi sia tenuto ad astenersi dalla
discussione e dalla votazione dei pareri che la commissione
è deputata ad esprimere.
---------------
[1] Nonché gli assessori esterni, ai sensi dell'art. 47
TUEL (04.08.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Casa, ecobonus del 65% anche nel 2015.
Deduzione fiscale del 20% sulle spese per l'acquisto di
nuovi immobili destinati all'affitto.
Conferma anche
nel 2015 dello sgravio Irpef del 65% per i lavori di
risparmio energetico. Una detrazione "potenziata" e
generalizzata per i lavori di prevenzione sismica,
oscillante fra il 50 e il 65% della spesa, in proporzione
alla riduzione di rischio indotta dall'intervento. E un
incentivo nuovo di zecca per chi compra una casa appena
costruita o pesantemente ristrutturata, che abbia
prestazioni energetiche di classe A o B, con l'impegno di
affittarla per almeno otto anni a canone concordato.
C'è anche un robusto "pacchetto casa" nelle prime norme
messe a punto sotto il coordinamento di Palazzo Chigi per il
decreto sblocca-Italia che vedrà la luce il 29 agosto. I
fedelissimi di Renzi ci stanno lavorando con i ministeri
delle Infrastrutture e dell'Economia. E, in attesa di capire
se anche il bonus del 50% per le ristrutturazioni semplici
andrà verso la riconferma nel 2015 (misura che per ora il
governo non ha considerato), la novità più interessante è
proprio quella che si ispira alla legge Scellier, entrata in
vigore in Francia nel 2009 con notevole successo: una
deduzione fiscale del 20% delle spese di acquisto o di
costruzione, riservato alle persone fisiche, a valere
sull'Irpef su un arco di otto anni, fino a un limite di
300mila euro, per costruire direttamente o comprare da un
costruttore un alloggio da destinare al mercato
dell'affitto.
La norma –afferma la relazione allegata– «utilizza lo
strumento fiscale per dare una risposta immediata alla
stagnazione sia del mercato della compravendita, sia a
quello delle locazioni a canone concordato», che vale la
pena ricordare, possono usufruire anche della tassazione in
forma di cedolare secca al 10% per il quadriennio 2014-2017.
Per lo stesso periodo varrebbe anche il nuovo incentivo
fiscale che, fra i diversi obiettivi, si pone evidentemente
anche quello di alleviare il problema dell'invenduto rimasto
in carico ai costruttori, purché offra prestazioni
energetiche di livello eccellente o ottimo (che è un'altra
finalità implicita della norma).
Sulla riconferma del più generale incentivo energetico del
65% sembra prevalere, per ora, la linea di Palazzo Chigi,
ispirata dal presidente della commissione Ambiente della
Camera, Ermete Realacci, renziano della prima ora:
confermare solo questo incentivo e non anche il 50% sulle
ristrutturazioni semplici.
Una linea di politica selettiva, che comprenderebbe –altro
"pallino" di Realacci– le agevolazioni a robusti
investimenti di prevenzione sismica, ma escluderebbe i
generici lavori in casa. In questo modo, risulterebbe
massima la convenienza a spostare risorse, anche nella
ristrutturazione della propria abitazione, esclusivamente
verso interventi che abbiano come primo obiettivo il
risparmio energetico.
Di diversa idea il ministro delle Infrastrutture, Maurizio
Lupi, che ha già proposto a Palazzo Chigi anche la
riconferma agli attuali livelli dello sgravio del 50% che,
viceversa, sarebbe destinato a scendere al 40%, come da
legge di stabilità 2014.
Un argomento che non sarà indifferente nelle scelte del
governo –e in particolare in quelle del ministero
dell'Economia– è il costo dei due strumenti per le casse
dello Stato: secondo le stime del Rapporto Camera dei deputati-Cresme, l'investimento agevolato delle famiglie nel
2014 ammonterebbe a 28,2 miliardi per le ristrutturazioni
semplici, con uno sgravio spalmato nei dieci anni di 14,1
miliardi (1,4 miliardi l'anno), mentre l'investimento per il
risparmio energetico ammonterebbe a 4,8 miliardi, con una
detrazione di 3,1 miliardi spalmati in dieci anni (310
milioni l'anno).
Un discorso a sé merita anche la politica di prevenzione
antisismica, per cui si sta cercando uno strumento più
articolato e duraturo di incentivazione fiscale, tale da
garantire investimenti di lungo periodo, come sono quelli
"pesanti" di intervento sul "cappotto" o sui pilastri degli
edifici. Non solo: il ministero delle Infrastrutture ha
l'ambizione di inserire gli interventi antisimici nelle più
generali politiche di trasformazione territoriale e di
riqualificazione urbana. Per questo sta lavorando da alcuni
mesi al ministero un gruppo di lavoro che dovrebbe creare
una metodologia e uno standard per la misurazione e la
classificazione del rischio sismico. Questo consentirebbe di
definire obiettivi di prevenzione e di legare a questi le
agevolazioni.
Oggi sono 7 milioni le costruzioni realizzate
prima del 1971 e quindi precedenti a qualunque normativa
antisismica: equivalgono al 60% del patrimonio immobiliare
nazionale. A queste devono aggiungersi anche 2 milioni di
strutture realizzate fra il 1972 e il 1981, 1,3 milioni
realizzate fra il 1982 e il 1991 e 800mila edifici nati fra
il 1992 e il 2001 che sono stati realizzati prima
dell'entrata in vigore delle attuali norme tecniche sulle
costruzioni e dell'attuale zonizzazione antisismica. Gli
incentivi allo studio si estenderebbero anche agli edifici
produttivi. Il ministero stima che due quinti dei 326mila
fabbricati produttivi esistenti siano stati costruiti fra il
1971 e il 1990 e che 95mila capannoni siano localizzati in
zone ad alto rischio sismico (articolo Il Sole 24 Ore del 19.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Semplificazione per le imprese con la super-Scia.
Burocrazia. Meno oneri su avvio e attività.
C'è anche il
recupero della super-Scia stralciata dal decreto
competitività nello sblocca-Italia con cui il governo Renzi
rilancerà il 29 agosto, in Consiglio dei ministri, le
politiche per la crescita.
Al termine di una estate segnata
dall'allarmante dato Istat del Pil nel 2° trimestre (-0,2%)
e dal richiamo del Governatore Bce, Mario Draghi, a fare
rapidamente e bene le riforme per rilanciare gli
investimenti (soprattutto privati), lo sblocca-Italia è
nell'idea del premier Matteo Renzi il modo per ripartire
bene dando risposte a tutti questi temi. Fin dal suo primo
concepimento, a fine maggio, del resto, lo sblocca-Italia
era nato proprio per dare una drastica sforbiciata alla
burocrazia e favorire il rilancio degli investimenti, a
partire dall'edilizia che negli ultimi cinque anni è stato
il settore che più ha pagato questo crollo (con una
riduzione pari all'80% del totale).
Con questa idea centrale
il pacchetto sblocca-Italia, che nel frattempo è diventato
molto altro, ha svolto il primo passaggio in Consiglio dei
ministri il 1° agosto e sempre più con questo pilastro
centrale anti-burocrazia sta crescendo, con i testi che
vengono scambiati dagli uffici di Palazzo Chigi con gli
uffici legislativi dei ministeri competenti. Tutto questo in
vista di una seconda riunione di coordinamento lunedì
prossimo (la prima è stata l'8 agosto) e del Cdm che darà il
via libera definitivo il 29.
Nella lotta alla burocrazia, centrale e locale, il pacchetto
di misure che sta prendendo forma è molto ambizioso. Non
solo il colpo durissimo all'inerzia delle Sovrintendenze
nelle autorizzazioni paesaggistiche e il rafforzamento del
potere decisionale delle conferenze di servizi contro
assenze e meline "tecniche" delle amministrazioni
partecipanti (si veda il Sole 24 Ore del 15 agosto), ma
anche norme rivoluzionarie come il regolamento edilizio
unico standard per gli 8mila comuni italiani (salva la
possibilità di apportare correzioni e modifiche),
l'inserimento di un termine di sei mesi per l'esercizio del
potere di autotutela delle amministrazioni in caso di
silenzio-assenso per il rilascio dei permessi di costruire o
in caso di presentazione delle Dia e Scia per i lavori in
casa, il potenziamento dello sportello edilizio unico anche
con poteri di accertamento dei termini trascorsi per il
silenzio-assenso.
Tutte norme in fase di scrittura che
daranno un duro colpo ai poteri di veto e alle meline della
burocrazia se effettivamente verranno portate al traguardo
dell'approvazione. E la notizia più recente di voler
recuperare la Super-Scia sarebbe il fiore all'occhiello di
questo capitolo dello sblocca-Italia: comparsa fugacemente
con un emendamento relatori-governo nel decreto
competitività, fu stralciata per ridurre l'eterogeneità di
quel provvedimento diventato omnibus.
Ma la misura sarebbe
recuperata nella sua interezza. Lo scopo è quello di dare
attuazione a una norma del decreto Berlusconi-Tremonti che
risale addirittura alle vicende drammatiche dell'agosto 2011
e che prevede che tutte le attività di impresa siano libere
e consentite salvo quelle che risultino vietate
espressamente da vincoli comunitari, disposizioni
indispensabili sulla sicurezza o sulla protezione
dell'ambiente, della salute e del patrimonio culturale. Una
norma –è bene precisarlo– che non si riferisce solo
all'inizio attività (per esempio la nascita di impresa) ma
allo svolgimento di qualunque attività imprenditoriale,
ricomprendendo anche e soprattutto le attività di
investimento.
Ebbene, la norma, che ora viene riproposta dopo la stralcio
dal Dl competitività, dispone una liberalizzazione a 360
gradi: se gli attesi regolamenti attuativi, che hanno tenuto
congelata la iniziale disposizione legislativa, non
arriveranno entro il 31 dicembre 2014, qualunque attività
imprenditoriale, commerciale o artigianale si potrà
svolgere, a scelta dell'imprenditore, con Scia o con
autocertificazione e i controlli dovranno avvenire soltanto
ex post
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.08.2014). |
APPALTI: Appalti, stop al contenzioso.
Frenato l'uso strumentale della giustizia amministrativa: 45
giorni per arrivare a sentenza, liti temerarie sanzionate,
sospensive con cauzioni e atti difensivi tagliati.
Il governo sceglie la linea dura contro l'uso strumentale
della giustizia amministrativa che ha finito per trasformare
ogni appalto in un percorso di guerra dai tempi e dagli
esiti imprevedibili. Da anni, infatti, non esiste una
procedura di appalto che non finisca per generare uno o più
ricorsi: in alcune materie (es. mense scolastiche) il
contenzioso giudiziario è una vera e propria strategia
d'impresa.
Non c'è dubbio che la degenerazione di questi meccanismi ha
avuto come conseguenza il lievitare continuo dei costi e dei
tempi, con imprese e pubbliche amministrazioni più impegnate
nelle aule dei tribunali amministrativi che nei cantieri.
Con il decreto legge n. 90 di riforma della Pubblica
amministrazione (la legge di conversione è pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale di oggi) si è deciso di darci un taglio.
Da un lato intervenendo sui tempi del processo che vengono
drasticamente ridotti con l'obiettivo preciso di chiudere le
controversie in 45 giorni, in assenza di problemi
particolari (quando ciò le parti sono presenti e non c'è
bisogno di attività istruttoria). Questo significa
naturalmente incidere anche sul lavoro dei giudici: anche se
non si tratta di termini perentori, il rispetto dei termini
previsti è infatti un elemento importante nella valutazione
del lavoro degli stessi magistrati.
Dall'altro lato si cerca di disincentivare l'accesso alla
giustizia amministrativa con l'introduzione di multe per
lite temeraria (e questa è una novità assoluta) che vengono
calcolate in proporzione al valore del contratto. Non
mancano altre forme di sanzioni piuttosto incisive, con
l'obiettivo di disincentivare i ricorsi meramente dilatori o
di disturbo, come l'inserimento, a discrezione del giudice,
di una cauzione (che può raggiungere cifre molto alte
essendo calcolata in base allo 0,5% del valore dell'opera)
che potrà essere imposta alla parte ricorrente quando questa
ottiene dal Tar la sospensiva, con tutti i costi, anche
finanziari, che questo comporta. In pratica se il ricorrente
alla fine del processo non vede riconosciute le ragioni in
base alle quali ha ottenuto la sospensiva rischia di perdere
la cauzione, che potrebbe essere assorbita dall'eventuale
condanna al risarcimento del danno causato dalla perdita di
tempo.
Altra novità del rito degli appalti, forse più di colore che
di sostanza, è il numero massimo di pagine concesse agli
avvocati per far valere le loro ragioni. Attualmente il
codice del processo amministrativo prevede già il principio
generale di sinteticità degli atti. Altra cosa però è
fissare un numero di pagine massimo oltre quale ciò che
viene scritto si ha come non presentato (ci sarebbe quasi da
consigliare agli avvocati tendenti alla grafomania di
utilizzare caratteri molto compatti, come l'helvetica narrow,
se non fosse che ormai gli atti vengono letti quasi tutti a
video e questo trucchetto potrebbe in qualche caso
addirittura comprometterne la comprensione).
Insomma, il governo Renzi ha deciso di proseguire in modo
sempre più convinto un percorso già iniziato dagli esecutivi
precedenti con l'aumento del contributo giudiziario, la
riduzione del numero dei Tar, e gli altri strumenti per
frenare l'abuso della giustizia amministrativa. In realtà
questo è solo uno degli aspetti dell'inefficienza del
sistema degli appalti che, oltre all'esplosione del
contenzioso, sconta anche grossi problemi di corruzione,
infiltrazioni mafiose, scarsa qualità della progettazione,
mancanza di risorse adeguate. Ma questa è un'altra partita (articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014). |
APPALTI: Appalti, il processo si velocizza Atti contenuti e sentenze
sprint. Le novità nella legge 114/14 che ha convertito il decreto
90/14 di riforma della p.a..
Sforbiciati gli atti difensivi nei processi degli appalti:
ricorsi da promuovere solo quando si ha chance di vittoria
(a pena di salatissime multe per le liti temerarie) e da
chiudere il più in fretta possibile (sentenze in non più di
tre mesi). Il dl 90/2014, convertito in legge 114/14 (G.U.
del 18/08/2014), velocizza lo speciale giudizio che si celebra
presso i tribunali amministrativi e il consiglio di stato. E
stabilisce un tetto al numero di pagine che gli avvocati
hanno a disposizione per illustrare le proprie difese.
La
legge affida a un decreto del presidente di palazzo Spada
l'individuazione del numero massimo, che potrà essere
stabilito secondo una scaletta che tenga conto della
complessità della materia. Sta di fatto che un orientamento,
già presente in linea generale nel codice del processo
amministrativo (dlgs 104/10) e che ha già avuto attuazione
con l'indicazione delle 20 pagine per atto; ora si precisa,
a livello normativo, proprio come numero limite di pagine.
Certo si potrà tener conto del valore effettivo della
controversia, della sua natura tecnica e del valore dei
diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti; ed
inoltre dai limiti dimensionali saranno escluse le
intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto; e,
infine, saranno stabilite eccezioni alla regola.
La nuova normativa consente al giudice di esaminare solo le
questioni trattate nelle pagine rientranti nei limiti; e
solo il mancato esame di queste questioni costituisce motivo
di appello avverso la sentenza di primo grado e di
revocazione della sentenza di appello. In sostanza il
giudice potrà trascurare quanto scritto nelle pagine
successive all'ultima ammessa.
Lo snellimento della procedura non riguarda solo il rito
degli appalti, la cui conclusione, compreso il deposito
della sentenza, è prevista in poco più di tre mesi.
Nell'ambito del giudizio amministrativo si cerca di colpire
l'abuso del processo con sanzioni pecuniarie, molto salate
soprattutto per gli appalti, nel caso di ricorsi
manifestamente infondati (la disposizione è stata migliorata
rispetto alla versione del decreto legge, che lasciava
eccessiva discrezionalità al giudice nel valutare i
presupposti di applicazione della sanzione).
Inoltre sia nell'ambito del processo amministrativo che di
quello civile, l'aspettativa dello snellimento deriva
dall'entrata a regime del processo telematico. Quello civile
viene perfezionato in alcuni aspetti (niente firma dei
testimoni sul verbale, depositi telematici ammessi fino alle
ore 24 del giorno di scadenza, allegati pesanti trasmessi
con più invii, esecuzioni mobiliari con vendite online,
promozione delle notifiche in proprio degli avvocati a mezzo
Pec, preventivata estensione del telematico anche alle corti
di appello); il processo telematico amministrativo viene
programmato a tappe forzate, con l'applicazione delle norme
regolamentari sui depositi telematici. Si incide, poi, a
livello organizzativo con l'istituzione dell'ufficio del
processo, in cui inserire personale che dovrebbe essere
liberato da compiti delle cancellerie (il cui orario di
aperture viene ridotto a 4 ore nei giorni feriali).
Ma, infine, la deflazione processuale si realizza anche con
una manovra sui costi della giustizia e, in particolare, con
un nuovo aumento generalizzato del contributo unificato, che
avrà senz'altro un effetto disincentivante l'avvio di una
causa, soprattutto se di basso valore (articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarti vegetali, conta l'obiettivo.
Combustione libera se si punta al reimpiego dei residui.
Il dl Competitività riscrive le regole per i rifiuti
provenienti da attività agricola o forestale.
La combustione di materiale proveniente da attività agricola
o forestale nel luogo di produzione può essere condotta
liberamente solo se finalizzata al reimpiego dei residui
verdi come concimante o ammendante.
A ridisegnare per
l'ennesima volta, restringendoli, i confini legali della
nota pratica è la legge di conversione del dl 91/2014 (c.d.
«dl Competitività») approvata in via definitiva il 07.08.2014.
Il provvedimento (il terzo che interviene in materia, dopo
il dl 136/2013, la legge 6/2014 e la formulazione originaria
dell'ultimo citato decreto legge) affianca alle altre già
previste due condizioni che legittimano l'operazione (ossia
il rispetto di limiti quantitativi giornalieri e di
eventuali divieti temporanei posti dagli Enti locali) il
terzo parametro del necessario «riutilizzo».
La rinnovata disciplina. Mediante la diretta modifica del dlgs 152/2006, la legge in
parola stabilisce infatti che è considerata «normale pratica
agricola», e non gestione di rifiuti, l'attività di
raggruppamento e abbruciamento del materiale vegetale ex
articolo 185, comma 1, lettera f), dello stesso Codice
ambientale (coincidente con il materiale agricolo o
forestale esclusivamente naturale e non pericoloso),
effettuati nel rispetto delle seguenti condizioni:
- combustione effettuata nel luogo di produzione dei residui
(come già previsto dalla pregressa disciplina);
- in cumuli non superiori a 3 metri steri per ettaro
(pedissequamente alle precedenti norme);
- al fine del reimpiego dei materiali come sostanze
concimanti o ammendanti (vera novità sostanziale);
- fuori dai periodi vietati dagli enti locali (tra i quali,
ulteriore novità, a fianco di Regione e Comune fanno ora il
loro esordio «le altre amministrazioni competenti in materia
ambientale»).
Nel rispetto di suddette condizioni e finalità l'abbruciamento
del materiale in questione (anche, secondo la nuova
disposizione dettata dal provvedimento in esame, se
«derivato da verde pubblico o privato») sarà dunque
conducibile senza necessità di autorizzazione ambientale.
Diversamente la stessa pratica potrà integrerà, in base alla
concreta condotta posta in essere, «attività di gestione di
rifiuti non autorizzata» (ex articolo 256, Codice
ambientale) o uno dei reati di «combustione illecita di
rifiuti» previsti e puniti dall'articolo 256-bis, dlgs
152/2006. E l'attenzione degli operatori dovrà essere in
particolare posta, vista la proliferazione di cui si è
accennato, sui diversi enti ora legittimati a inibire
(rendendola penalmente rilevante) la pratica in parola.
Le Regioni potranno infatti vietare la combustione nei
periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi.
I Comuni e le «altre amministrazioni competenti» (tra cui
sicuramente rientrano le Agenzie regionali meglio note come
«Arpa») potranno invece sospendere, differire o vietare l'abbruciamento
se sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o
ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale
attività possano derivare rischi per la pubblica e privata
incolumità e per la salute umana, con particolare
riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri
sottili (Pm10).
Il contesto normativo. L'innovazione della disciplina in
parola è dal Legislatore introdotta nell'ordinamento
giuridico mediante l'intervento su due precisi articoli del
«Codice ambientale»: il 182 (in materia di «smaltimento dei
rifiuti») e il citato 256-bis (sulla «combustione illecita
di rifiuti»), sui quali è bene soffermarsi per meglio
comprendere gli effetti operativi della riforma.
In primo luogo, è infatti proprio nell'articolo 182 del dlgs
152/2006 che viene inserito (mediante il nuovo comma
«6-bis») il «reimpiego» dei residui agricoli verdi quale
condizione indefettibile per poter procedere alla loro
combustione fuori dal regime dei rifiuti, in tal modo
stabilendo (coerentemente con la logica del «Codice
ambientale») come non vi sia spazio per analoga eccezione
qualora l'abbruciamento sia invece finalizzato al «disfarsi»
degli stessi materiali.
Così riformulata, la disciplina della «combustione in
deroga» ben si affianca all'altra eccezione al regime dei
rifiuti già prevista dall'articolo 185, comma 1, lettera f)
per gli stessi residui, articolo a mente del quale non sono
oggetto della disciplina dei rifiuti «paglia, sfalci e
potature, nonché altro materiale agricolo o forestale
naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella
selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa
mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né
mettono in pericolo la salute umana.».
In secondo luogo, sempre dal punto di vista sistematico, è
nel comma 6 dell'articolo 256-bis, dlgs 152/2006 che il
Legislatore inserisce (con un nuovo periodo) la disposizione
per la quale l'abbruciamento di materiale agricolo o
forestale naturale condotto nei dettami del citato e nuovo
comma 6-bis, articolo 182 (quello che impone, tra altre
condizioni, il «reimpiego»), non integra la fattispecie di
«combustione illecita»; e questo mantenendo parallelamente
in vita la disposizione recata dal primo periodo dello
stesso comma 6 (articolo 256-bis) che continua invece a
punire la combustione «dei rifiuti vegetali provenienti da
aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali»,
rifiuti classificati dall'articolo 184, comma 2, lett. e),
come «urbani» e costituenti (come già ricordato dal
Ministero dell'ambiente con nota 18.03.2011 n. 8890) una
categoria diversa dai «rifiuti da attività agricole e
agro-industriali» inquadrati dallo stesso articolo 184,
comma 3 come «speciali».
Dunque, oggi come ieri il regime di
favore del Legislatore pare continui a valere esclusivamente
per la combustione di residui vegetali da parte d'imprese
agricole o agroforestali, con la novità di ricomprende tra
questi ultimi anche quelli «derivati» (sempre ad opera di
tali soggetti) da verde pubblico o privato, nessuna deroga
(sempre al regime dei rifiuti) essendo prevista per l'abbruciamento
da parte di altre utenze dei propri scarti verdi.
Così, per i residui vegetali prodotti da privati (o aziende
diverse dalle agricole) nell'ambito della cura del proprio
verde le uniche strade percorribili continueranno ad essere
quelle già espressamente previste dal dlgs 152/2006, ossia:
- in caso di intenzione di «disfarsene», il conferimento
degli scarti a terzi autorizzati alla gestione rifiuti;
- in caso di volontà di reimpiego, l'autocompostaggio dei
residui organici ai fini dell'utilizzo in sito del materiale
prodotto (articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014). |
VARI:
Prima casa, imposte a due vie.
Fisco diverso se il venditore è un privato o un'impresa.
L'Agenzia delle entrate ha pubblicato un dossier sulle
compravendite immobiliari.
Imposte sulla prima casa a due vie a seconda se l'acquisto è
effettuato da un privato o da un'impresa si dovrà versare un
imposta di registro al 2 o al 4% e non effettuare il
pagamento Iva. Al momento del rogito occhio a indicare le
modalità di pagamento del corrispettivo e le spese sostenute
per l'attività di mediazione, indicando, anche in
quest'ultimo caso come è stato pagato il mediatore.
Sono queste alcune delle indicazioni che arrivano dalla
bussola per orientarsi nell'acquisto della casa, preparata
dall'Agenzia delle entrate e pubblicata ieri.
In particolare, con riferimento all'acquisto della prima
casa il dossier ricorda che le imposte da versare sono più
basse rispetto a un acquisto di immobile non prima casa.
Nel caso di acquisto da privato (o da impresa, ma con
vendita esente da Iva) imposta di registro del 2%; imposta
ipotecaria fissa di 50 euro; imposta catastale fissa di 50
euro.
Nel caso di acquisto da impresa, con vendita soggetta a Iva:
Iva al 4%, imposta ipotecaria fissa di 200 euro, imposta
catastale fissa di 200 euro, imposta di registro fissa di
200 euro.
Per completare il quadro, bisogna aggiungere che l'imposta
di registro proporzionale non può comunque essere di importo
inferiore a 1.000 euro e che i trasferimenti assoggettati a
tale imposta sono esenti dall'imposta di bollo, dai tributi
speciali catastali e dalle tasse ipotecarie.
Nelle informazioni da indicare nell'atto di compravendita
l'Agenzia delle entrate ricorda che occorre inserire nel
rogito una «dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà»
in cui segnalare: le modalità di pagamento del corrispettivo
(assegno, bonifico ecc.); se per l'operazione si è fatto
ricorso ad attività di mediazione e, in caso affermativo,
tutti i dati identificativi del titolare, se persona fisica,
o la denominazione, la ragione sociale e i dati
identificativi del legale rappresentante, se soggetto
diverso da persona fisica, ovvero del mediatore non legale
rappresentante che ha operato per la stessa società, la
partita Iva, il codice fiscale, il numero di iscrizione al
ruolo degli agenti di affari in mediazione e della Camera di
commercio; le spese sostenute per l'attività di mediazione,
con le analitiche modalità di pagamento.
Dopo aver acquistato casa una serie di adempimenti da
effettuare attendono il neoproprietario. Ogni atto
immobiliare, infatti, va registrato, trascritto nei registri
immobiliari e volturato nella banca dati catastale.
Adempimenti che spetta al notaio eseguire con l'invio online
di un unico modello.
A ogni modo, è bene tenere a mente che i compensi pagati al
mediatore, cioè all'agenzia immobiliare, per l'acquisto
dell'immobile da adibire ad abitazione principale si possono
detrarre nella misura del 19%, con un tetto massimo di 1.000
euro. Se i compratori sono più d'uno allora la detrazione va
ripartita. Inoltre, in caso il compratore abbia stipulato un
mutuo ipotecario per acquistare l'abitazione principale è
possibile detrarre dall'Irpef il 19% degli interessi
passivi, degli oneri accessori e delle quote di
rivalutazione pagati all'istituto di credito. In questo
caso, il tetto massimo è di 4.000 euro l'anno.
Comunque, l'immobile acquistato produce anche un reddito che
è dato dalla rendita catastale rivalutata o dal canone
d'affitto e che va dichiarato dal nuovo proprietario, nel
modello 730 o nell'Unico.
In caso si decidesse di vendere l'abitazione si deve tener
conto che ne può derivare una plusvalenza, cioè una
differenza positiva tra quanto incassato dalla vendita e il
prezzo d'acquisto, aumentato dei costi inerenti l'immobile
stesso. Questo valore rientra nella categoria dei «redditi
diversì» e come tale va tassato con le normali aliquote
Irpef o, in alternativa, il venditore può optare per
l'applicazione di un'imposta sostitutiva di quella del
reddito pari al 20%. Comunque, vi sono delle eccezioni,
come, per esempio, quando viene venduta l'abitazione
principale, oppure, l'immobile ceduto è pervenuto per
successione o per usucapione. In questi casi, infatti, e in
altri, la plusvalenza non è tassabile (articolo ItaliaOggi del 15.08.2014). |
ENTI LOCALI: Province, scoppia il caos giunte.
I consiglieri delegati non saranno assessori mascherati.
La legge Delrio ha eliminato l'organo esecutivo affidando la
funzione di governo al presidente.
Nelle province scoppia il caos giunte. La legge Delrio
(legge n. 56/2014) ha eliminato nelle province l'organo
giunta, senza prevedere al suo posto un diverso organo
collegiale. L'assemblea dei sindaci, nuovo organo
specificamente operante nelle amministrazioni provinciali,
dispone di precise e limitate competenze, finalizzate
all'approvazione di statuti, regolamenti ed atti di
pianificazione. E il consiglio provinciale non ha
guadagnato, in conseguenza del diverso assetto istituzionale
nelle province, le funzioni della giunta.
In assenza di previsioni esplicite diverse, si deve ritenere
che la funzione di governo operativa nelle province, prima
spettante alle giunte, una volta effettuate le elezioni del
prossimo autunno sia riservata elusivamente al presidente
della provincia.
Le previsioni della legge Delrio, però, sono tutt'altro che
chiare e certamente apriranno fronti di controversie e
dibattiti. Infatti, l'articolo 1, comma 66, della legge
56/2014 a questo proposito dispone: «Il presidente della
provincia può altresì assegnare deleghe a consiglieri
provinciali, nel rispetto del principio di collegialità,
secondo le modalità e nei limiti stabiliti dallo statuto»
(analoga norma si ritrova per le città metropolitane).
Non mancherà chi veda nella previsione la possibilità di
ricostituire giunta e assessori, facendo coincidere questi
con i «consiglieri delegati».
Tale ricostruzione, tuttavia, non appare persuasiva e
corretta, per almeno due ordini di ragioni. La prima è
pratica e di opportunità. I componenti dei consigli
provinciali saranno sindaci o consiglieri comunali. È
abbastanza chiaro che il ruolo di «assessore» o, comunque,
di «consigliere operativo» molto difficilmente può essere
assegnato contestualmente a un altro. Non è casuale,
infatti, che nei comuni il ruolo di assessore è esclusivo,
tanto che negli enti con popolazione oltre i 15 mila
abitanti è prevista proprio l'incompatibilità con quello di
consigliere.
Conciliare il ruolo di consigliere o, ancor peggio, di
sindaco, di enti diversi con quello di «assessore» o
«consigliere operativo» risulterebbe ancora più complicato e
difficilmente sostenibile sul piano organizzativo ed
istituzionale.
Sul piano strettamente giuridico, se il consiglio svolge
funzioni di indirizzo e controllo, è evidentemente
improponibile che suoi componenti possano ricevere deleghe
operative, sulle quali l'organo di appartenenza dovrebbe,
poi, esercitare il controllo stesso: sarebbe un evidente
caso di conflitto di interessi e coincidenza
controllore-controllato.
Ancora, ai sensi dell'articolo 117, comma 2, lettera p),
della Costituzione è riservato alla legge dello Stato
occuparsi degli organi degli enti locali. Se la legge
elimina le giunte, allora, esse non possono essere
ripristinate sotto mentite spoglie mediante gli statuti.
Si deve, dunque, ritenere che il presidente delle province
non possa delegare ai consiglieri funzioni tali da
ripristinare l'organo giunta, facendo di fatto dei
consiglieri delegati una sorta di assessori, con nome
diverso.
Le deleghe dovranno essere limitate a poche competenze del
presidente, sul presupposto che la nuova configurazione
degli organi politici delle province (e delle città
metropolitane) essendo di «secondo grado» dovranno svolgere
contemporaneamente più funzioni, nei comuni di provenienza e
nelle province, sì da non poter garantire un presidio totale
costante e continuo.
Non si comprende appieno, per altro, cosa intenda il
legislatore quando, nell'ammettere la possibilità per il
presidente di delegare i consiglieri, prevede di rispettare
il «principio di collegialità», principio che con l'istituto
della delega non ha nulla a che vedere.
Si potrebbe intendere che le deleghe ai consiglieri non
debbono ledere il principio di collegialità che regge il
funzionamento del consiglio provinciale: in altre parole, i
consiglieri non assumerebbero ruolo di organo autonomo, ma
rimarrebbero pur sempre membri del collegio cui
appartengono, senza che la delega ne modifichi status e
poteri. Ma, in realtà, la delega ovviamente incrementa i
poteri dei consiglieri delegati (articolo ItaliaOggi del 15.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Termini perentori di 45 giorni per esprimere il parere nelle
autorizzazioni paesaggistiche. Altolà all'inerzia dei Sovrintendenti.
Un colpo ai
poteri di veto e alle inerzie delle Sovrintendenze, un
rafforzamento della capacità decisionale delle conferenze di
servizi, un rinvio al 01.01.2015 dell'obbligo per le
stazioni appaltanti di acquisire i documenti relativi a gare
e contratti dall'Avcpass (la banca dati dell'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici ora assorbita nell'Autorità
nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone), una norma che
vieta livelli di sicurezza nelle infrastrutture superiori
alle prescrizioni minime Ue per contenere costi e tempi di
esecuzione.
Nelle prime norme del decreto sblocca-Italia che
andrà al Consiglio dei ministri il 29 agosto non ci sono
solo le privatizzazioni (parziali) delle società partecipate
e il rilancio di progetti di sviluppo su aree demaniali (si
veda Il Sole 24 Ore di ieri). Molte le disposizioni
finalizzate a semplificare interventi pubblici e privati e a
eliminare ostacoli, veti, paralisi amministrativa, inerzie
che spesso rallentano il percorso di autorizzazione,
progettazione e realizzazione delle opere.
Di grande valore politico le quattro norme che riguardano il
ministero dei Beni culturali, le Sovrintendenze, le
autorizzazioni paesaggistiche. C'è già stato uno scontro
politico con l'annuncio del premier, Matteo Renzi, di voler
intervenire a ridimensionare i poteri ostativi delle
Sovrintendenze. Scontro poi rinviato in occasione del
decreto sui beni culturali, probabile che il decreto
sblocca-Italia sia il terreno giusto per queste decisioni.
Il primo intervento è quello che attribuisce il carattere di
perentorietà al termine di 45 giorni che le Sovrintendenze
hanno per il rilascio del parere in materia di
autorizzazione paesaggistica. Decorso il termine perentorio,
la decisione spetta all'amministrazione proponente che potrà
comunque agire in autotutela qualora l'interesse
paesaggistico sia meritevole di tutela. La proposta, oltre a
essere in linea con la recente giurisprudenza amministrativa
(Tar Puglia, Lecce, sez. I, 06.02.2014, n. 321), è
volta -afferma la relazione- «a rendere il procedimento
per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica più certo
e celere, senza incidere sul livello di tutela degli
interessi pubblici né sulla competenza delle autorità
coinvolte in tale procedimento».
Un secondo emendamento punta a semplificare eliminando
ridondanze nella sfera di intervento delle Sovrintendenze.
In particolare, «il parere del Sovrintendente non è
richiesto qualora il ministero abbia valutato positivamente,
su richiesta della regione interessata, l'avvenuto
adeguamento degli strumenti urbanistici alle prescrizioni
d'uso dei beni paesaggistici tutelati».
C'è poi il caso di reperimento di «cose immobili di
interesse archeologico» nel corso di lavori di un'opera
pubblica. Qui l'obiettivo è evitare l'approccio meramente
conservativo largamente dominante oggi rispetto a quello
della valorizzazione del bene. Entro 90 giorni dalla
scoperta «il Sovrintendente determina le misure idonee a
tutela del bene ritrovato, prendendo in esame le proposte
progettuali del soggetto realizzatore dell'opera, volte a
rendere compatibile la realizzazione della stessa con la
valorizzazione e/o conservazione delle cose ritrovate». Il
soggetto realizzatore dell'opera può fare ricorso contro le
decisioni del Sovrintendente al ministero per i beni e le
attività culturali che deciderà entro 90 giorni, previo
parere di una commissione per la tutela archeologica.
Sulla conferenza di servizi, lo sblocca-Italia dovrebbe
intervenire con almeno due norme: la prima mira ad allineare
i termini di validità ed efficacia di tutti i pareri,
autorizzazioni, concessioni, nulla osta o atti di dissenso
comunque denominati espressi nell'ambito del procedimento
amministrativo. Questo per evitare che molti pareri o atti,
espressi anche molto tempo prima del provvedimento
autorizzativo finale, vedano già notevolmente ridotti i
tempi di validità nel momento in cui i lavori vengono
avviati.
L'altra norma punta invece a escludere che impediscano
l'assunzione della delibera conclusiva l'assenza di una
delle amministrazioni invitate o la mancanza dei poteri
rappresentativi in capo al soggetto presente a
rappresentarla o anche il dissenso privo delle specifiche
indicazioni progettuali necessarie per esprimere parere
negativo. In caso di motivato dissenso, invece, da parte di
un'amministrazione centrale o locale, sarà comunque
possibile esprimere una delibera finale positiva qualora
entro sette giorni esprimano assenso gli organi politici
dell'amministrazione dissenziente, ministro o assessore
competente.
Infine, sempre entro il termine di sette giorni,
devono essere resi tutti i pareri e gli atti di assenso:
qualora questo non avvenga, si intenderanno positivamente
acquisiti (articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2014). |
APPALTI: Appalti pubblici, più forte l'Autorità anticorruzione.
Incorporate le funzioni dell'Autorità contratti.
L'autorità
anticorruzione acquisisce un ruolo più forte nelle attività
di vigilanza sugli appalti pubblici, mentre le stazioni
appaltanti devono sanzionare i concorrenti che partecipano
alle gare omettendo dichiarazioni indispensabili.
Con la conversione del decreto legge 90/2014 l'autorità
nazionale anticorruzione incorpora l'autorità di vigilanza
sui contratti pubblici, assumendone le funzioni.
L'Anac ha peraltro la possibilità di combinare le proprie
attività in materia di anticorruzione con quelle di
vigilanza sugli appalti, potendo peraltro acquisire elementi
specifici anche da segnalazioni di illeciti.
In questa prospettiva risulta particolarmente importante
l'obbligo, per le stazioni appaltanti, di trasmettere
all'autorità le varianti superiori al 10% dell'importo
originario del contratto per gli appalti soprasoglia e
all'osservatorio regionale per quelli sottosoglia.
L'autorità ha anche compiti specifici in ordine agli appalti
di Expo 2015, ma che ne configurano l'intervento
straordinario anche in relazione ad altri macroprocessi:
l'articolo 32 consente, infatti, l'intervento su imprese
appaltatrici o concessionarie di lavori che siano coinvolte
in fatti corruttivi.
Il decreto di riforma della Pubblica amministrazione
introduce elementi di notevole impatto anche nelle regole
procedurali delle gare di appalto. L'articolo 39 stabilisce,
infatti, che quando un concorrente non renda una o più delle
dichiarazioni sostitutive relative ai requisiti di ordine
generale oppure le renda in modo incompleto o con
irregolarità essenziali, la stazione appaltante lo deve
sanzionare e deve richiedergli di produrre la dichiarazione
mancante, di completarla o di sanare gli elementi
irregolari.
La sanzione deve essere esplicitamente indicata
dall'amministrazione nel bando, con determinazione del
valore compresa tra l'uno per mille e l'uno per cento della
base d'asta, dovendo peraltro considerare che è previsto
comunque un tetto massimo di 50mila euro.
Per rimediare alle dichiarazioni mancanti, incomplete o con
irregolarità essenziali la stazione appaltante concede
all'operatore economico un termine non superiore a dieci
giorni: qualora gli elementi dovuti non siano resi entro
tale scadenza, l'amministrazione esclude il concorrente.
La disposizione è peraltro applicabile a tutte le tipologie
di dichiarazioni sostitutive che devono essere rese in gara
in base alla legge o al disciplinare, quindi risulta
applicabile alle modalità dichiarative di tutti i requisiti
(compresi quelli di partecipazione).
Le stazioni appaltanti, in tal senso, dovranno distinguere
chiaramente le dichiarazioni sostitutive da quelle di
impegno o di conoscenza (spesso mescolate impropriamente nei
bandi di gara), facendo rientrare solo le prime nel sistema
sanzionatorio introdotto nel codice dei contratti. Inoltre,
le amministrazioni devono chiarire nei bandi anche quali
siano gli elementi essenziali che comportano l'applicazione
del particolare sistema sanzionatorio.
L'articolo 23-ter sposta al 01.01.2015 per i beni e
servizi, nonché al 01.07.2015 per i lavori, l'obbligo,
per i Comuni non capoluogo, di gestire gli appalti mediante
ricorso a centrali di committenza, stazioni uniche
appaltanti presso le Province, unioni di Comuni o accordi
con altri Comuni.
La disposizione salvaguarda le procedure avviate alla data
di entrata in vigore del Dl 90/2014 e stabilisce anche
un'importante eccezione applicativa per i Comuni colpiti dal
sisma d'Abruzzo e da quello dell'Emilia-Romagna.
Per tutti i Comuni non capoluogo con popolazione superiore
ai 10mila abitanti, una volta entrata a regime la
disposizione comportante gli obblighi aggregativi, sarà
comunque possibile procedere autonomamente ad acquisizioni
di beni, servizi e lavori entro i 40mila euro, mentre i
Comuni di minori dimensioni dovranno in ogni caso procedere
con le forme aggregate (articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2014). |
APPALTI - ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: STATALI IN PENSIONE CON «USCITE» RIGIDE.
Il Dl Pa taglia il lavoro «lungo» e conferma la risoluzione
unilaterale.
Abolizione del
trattenimento in servizio, risoluzione unilaterale del
rapporto di lavoro al raggiungimento dei requisiti per la
pensione anticipata e divieto di conferire incarichi
dirigenziali a soggetti collocati in quiescenza.
Sono alcune delle novità contenute nel Dl 90/2014 –convertito
in legge la scorsa settimana– per migliorare l'efficienza
nella Pa e negli uffici giudiziari, innestandosi peraltro su
altre novità degli ultimi anni (si veda a pagina 32). Nel
pubblico impiego il lavoratore deve lasciare il posto a 65
anni se a tale età ha maturato un qualsiasi diritto a
pensione (si veda il Sole 24 Ore dell'8 agosto). In caso
contrario il rapporto proseguirà fino ai nuovi limiti
previsti per il conseguimento della pensione di vecchiaia
(66 anni 3 mesi). In funzione di quale requisito risulterà
prima perfezionato il rapporto di lavoro si intenderà
risolto senza che l'interessato possa chiedere di proseguire
il rapporto di lavoro per un altro biennio.
L'articolo 16 della riforma Amato (Dlgs 503/1992) aveva
introdotto tale facoltà per posticipare il pensionamento e
rinviare la relativa spesa. Nel corso degli anni diversi
interventi normativi sono stati, però, attuati sull'articolo
16. In principio, se il dipendente ne chiedeva
l'applicazione, la concessione da parte dell'ente era
obbligatoria, mentre successivamente (dal 31.05.2010) fu
previsto che se l'ente concedeva il trattenimento, esso
costituiva nuova assunzione.
I trattenimenti già in essere cesseranno la loro efficacia
dal 31.10.2014 o fino alla loro scadenza se prevista in
data anteriore. Per il comparto scuola, stante la
specificità del settore e per salvaguardare la continuità
didattica, i trattenimenti cesseranno, tuttavia, il prossimo
31 agosto. La norma generale trova poi una limitazione per i
magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari al
fine di assicurare la funzionalità degli uffici giudiziari.
Per costoro, se hanno i requisiti, il trattenimento potrà
arrivare fino al 31.12.2015 o fino alla loro scadenza
naturale, se prevista in data anteriore.
Il nuovo decreto ha eliminato il riferimento temporale per
quanto riguarda le risoluzioni unilaterali del rapporto di
lavoro da parte delle Pubbliche amministrazioni nei
confronti del proprio personale in possesso dei requisiti
per l'accesso alla pensione anticipata. Prima della riforma
gli enti avrebbero potuto esercitare la risoluzione fino al
31.12.2014. Le Pa, con decisione motivata e con
riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di
scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale
erogazione dei servizi, possono –a decorrere dalla
maturazione del requisito di anzianità contributiva per
l'accesso al pensionamento anticipato come disciplinato dal
decreto Salva Italia (Dl 201/2011)– risolvere il rapporto di
lavoro e il contratto individuale anche del personale
dirigenziale con un preavviso di sei mesi. Nel caso in cui
dovessero operare le penalità (1%-2% sulle quote
retributive) per pensionamenti con età inferiori a 62 anni,
gli enti dovranno attendere il raggiungimento di tale età o
comunque un periodo sufficiente a far sì che le decurtazioni
non trovino più applicazione. Salvi dalla risoluzione in
parola sono il personale di magistratura, i professori
universitari e i responsabili di struttura complessa del
Servizio sanitario nazionale, mentre troverà applicazione ai
dirigenti medici e del ruolo sanitario non prima del 65º
anno di età.
Stretta anche al conferimento degli incarichi a pensionati.
Le pubbliche amministrazioni, nonché gli enti inseriti nel
conto economico consolidato della Pa così come individuati
dall'Istat, le autorità indipendenti e la Consob non
potranno attribuire incarichi di studio e di consulenza a
soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza. Agli stessi soggetti non potranno essere
conferiti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in
organi di governo delle amministrazioni in parola e degli
enti e società da esse controllati.
Salvi i componenti delle
giunte degli enti territoriali e i componenti o titolari
degli organi elettivi di ordini e collegi professionali,
nonché di enti aventi natura associativa. Gli incarichi e le
collaborazioni sono tuttavia consentiti a titolo gratuito e
per la durata massima di un anno. Non sono previste né
proroghe, né rinnovi e i rimborsi spese eventualmente
corrisposti dovranno essere rendicontati. Tali disposizioni
troveranno comunque applicazione agli incarichi conferiti
dopo la data di entrata in vigore del decreto (25.06.2014).
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1 | MOBILITÀ DEI DIPENDENTI
Spostamento obbligato entro un'area di 50 km
Il Governo,
viste le ristrettezze di bilancio, risponde alle richieste
di nuove assunzioni potenziando la mobilità dei dipendenti,
di cui individua tre tipi. La prima è la mobilità
volontaria, in cui assume rilievo la richiesta del
dipendente di essere trasferito. Preliminarmente
l'amministrazione deve fissare i requisiti e le competenze
richieste. Il testo originario del decreto legge, al
contrario, imponeva l'individuazione dei criteri di scelta.
Bisognerà, quindi, procedere a una immediata revisione della
regolamentazione sulla mobilità per recepire le novità
introdotte dalla legge di conversione.
In tale
regolamentazione si deve prevedere, altresì, l'obbligo di
pubblicazione sul sito internet dell'ente di un apposito
avviso per almeno 30 giorni. Il termine può essere anche
superiore e possono essere individuati ulteriori mezzi di
informazione per la pubblicità del bando. L'ente definisce
anche soggetti, modalità e tempi per l'individuazione del
dipendente pubblico idoneo a ricoprire il posto vacante;
dipendente che deve già possedere una qualifica
corrispondente a tale posto ed essere munito dell'assenso
dell'amministrazione di appartenenza.
Il secondo e il terzo tipo di mobilità si possono definire
obbligatori, in quanto si prescinde dall'assenso del
dipendente. Può avvenire all'interno della stessa
amministrazione o fra due enti diversi, previo accordo fra
gli stessi. In questi casi, però, il trasferimento deve
avvenire nello stesso comune oppure a una distanza dalla
sede di servizio non superiore a 50 chilometri. Anche in
queste fattispecie è necessario che l'ente, per garantire la
massima trasparenza e oggettività, fissi preliminarmente i
criteri con cui vengono individuati i dipendenti da
trasferire e le modalità con le quali si procede alla
individuazione dell'amministrazione con cui stipulare
l'accordo. Un'ultima tipologia di mobilità dei lavoratori
prescinde anche dalla volontà degli enti interessati ed è
decisa con decreto del ministro per la Semplificazione e la
pubblica amministrazione, consultate le organizzazioni
sindacali e previa intesa in sede di conferenza unificata.
Le mobilità per le quali non è previsto il consenso del
lavoratore non operano nel caso di dipendente con figli
minori di tre anni, con diritto al congedo parentale o
quando il lavoratore ha diritto ai tre giorni di permesso di
cui all'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992.
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2 | POLITICHE OCCUPAZIONALI
Si ampliano gli spazi per nuove assunzioni
Per aumentare
la possibilità delle Pa e, in particolare dei Comuni e delle
Regioni, di effettuare assunzioni di personale a tempo
indeterminato e determinato il Dl 90/14 contiene numerosi
interventi.
Si abroga, anzitutto, il divieto di dare corso ad assunzioni
per gli enti con un rapporto tra spesa del personale e
corrente superiore al 50 per cento. Il che determinerà in
Sicilia la stabilizzazione di buona parte degli oltre 20mila
precari. Importante è la scelta di assumere, dal 2014, come
tetto alla spesa del personale negli enti soggetti al patto
di stabilità, quello medio del triennio 2011-2013 e non più
quello dell'anno precedente.
Il che determina il superamento
del vincolo alla progressiva riduzione della spesa del
personale in favore –come già avveniva per gli enti non
soggetti al patto con il riferimento al 2008–
dell'ancoraggio a una base certa. Così viene tolto un
pesante vincolo alle assunzioni: spesso con gli oneri da
esse determinate si finiva con il superare il tetto della
spesa del personale dell'anno precedente, per cui esse
venivano subordinate alla realizzazione di risparmi
ulteriori, quali quelli determinati da nuove cessazioni.
La possibilità di effettuare assunzioni viene, inoltre,
accresciuta. Per quelle a tempo indeterminato il tetto è
fissato non più nel 40% della spesa del personale cessato,
ma nel 60% per il biennio 2014-2015, nell'80% per il biennio
2016-2017 e nel 100% dal 2018. Per gli enti in cui il rapporto
tra spesa del personale e spesa corrente è inferiore al 25%
il tetto alle assunzioni a tempo indeterminato sale allo 80%
per il 2014 e al 100% dal 2015. In controtendenza rispetto a
queste scelte si colloca, invece, il superamento delle
deroghe in tema d'incidenza sulla spesa per le nuove
assunzioni dei vigili e del personale da utilizzare nelle
funzioni servizi sociali e pubblica istruzione.
Aumentano, infine, le possibilità di ricorrere anche alle
assunzioni flessibili. Non sono incluse nel relativo tetto
alla spesa gli oneri per Lsu, Lpu e cantieri di lavoro
finanziati da altri soggetti. E, soprattutto, si può
superare il tetto del 50% della spesa sostenuta a tale
titolo nel 2009 in tutti gli enti in cui viene rispettato il
vincolo alla spesa del personale. Vi sono, inoltre, deroghe
al tetto di spesa complessivo per quelle dei vigili nei
piccoli Comuni turistici
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3 | SEGRETARI COMUNALI
Ridotti i compensi per i diritti di rogito
I compensi dei
segretari comunali e provinciali sono ridotti dalle
limitazioni introdotte alla fruizione del diritto di rogito.
Il testo della legge di conversione è meno duro rispetto
alla previsione iniziale, la quale disponeva l'abrogazione
di questo compenso che i segretari hanno fin qui percepito
in misura molto differenziata e i cui costi sono a carico
dei privati. La disposizione pone dei dubbi di legittimità
sia per la possibile lesione del principio di eguaglianza,
sia perché essa incide su un ambito attualmente disciplinato
dal contratto nazionale. Con questa disposizione affluiranno
ai Comuni più risorse, obiettivo che, unitamente alla «calmierazione»
dei compensi che hanno «un adeguato rilievo» dei segretari,
il Governo –come si legge nella relazione illustrativa– ha
voluto perseguire. Restando tutti i proventi ai Comuni,
vengono però anche chiusi i canali di finanziamento della ex
Agenzia dei segretari e della formazione. Questi
finanziamenti possono essere recuperati con tagli ai
trasferimenti ai Comuni, ma si perde la destinazione
specifica alla formazione dei segretari, attività assai
importante che rischia di essere penalizzata.
I punti centrali della nuova disciplina sono due. In primo
luogo sono esclusi dalla fruizione del compenso i segretari
che svolgono la loro attività negli enti con i dirigenti e
quelli che hanno una qualifica dirigenziale. Dal testo della
disposizione si trae la conclusione che nei Comuni privi di
dirigenti il compenso sia dovuto a tutti i segretari e che
nei Comuni con i dirigenti sia dovuto solo ai segretari
senza qualifica dirigenziale. La disposizione solleva un
dubbio applicativo rilevante: chi sono i segretari che hanno
la qualifica dirigenziale? Non vi sono infatti disposizioni
né contrattuali, né legislative che lo stabiliscono.
La seconda limitazione si concretizza con la fissazione di
un tetto abbassato da 1/3 del trattamento economico in
godimento a 1/5. Tale limitazione è, in parte, bilanciata
dal fatto che il tetto non sembra doversi più calcolare sul
75% degli incassi ma su tutto quanto i privati hanno versato
al Comune per queste attività.
I compensi maturati per le attività svolte fino al 24
giugno, cioè al giorno precedente l'entrata in vigore del
decreto, devono essere corrisposti. Le nuove regole si
completano con la previsione che l'attività di rogito, che
in precedenza era una possibilità, deve essere
necessariamente svolta su richiesta dell'ente.
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4 | INCENTIVI DI PROGETTAZIONE
Tetto alla quota del 2% sull'importo base di gara
Riscritta la
disciplina sugli incentivi per la progettazione, per i quali
le Pa devono costituire un apposito fondo, con conseguente
necessità di riportare la materia in sede di contrattazione
decentrata integrativa per una revisione dei criteri e delle
modalità di riparto. Poi si dovrà rimettere mano al
regolamento interno degli incentivi, il quale dovrà fissare
la percentuale effettiva dell'incentivo nell'ambito del
tetto da destinare al fondo stabilito dalla norma, pari al
2% dell'importo posto a base di gara comprensivo degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione.
Due criteri da tener presenti nella individuazione della
percentuale sono suggeriti dalla stessa disposizione, ossia
l'entità e la complessità dell'opera da realizzare, ma viene
esplicitato che vanno escluse le manutenzioni. I beneficiari
sono gli stessi del passato: il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché i loro collaboratori. Ma a questi
dipendenti va l'80% dell'incentivo stabilito, mentre il 20%
va destinato all'acquisto di beni e tecnologie per la
progettazione interna.
Il regolamento deve prevedere come
suddividere l'importo fra gli aventi diritto all'incentivo,
con riduzione delle somme a disposizione se alcune fasi
della progettazione sono affidate all'esterno. Vengono,
altresì, introdotti tre parametri per il riparto: la
responsabilità che il dipendente si assume, i tempi e i
costi di realizzazione dell'opera previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo. Il mancato rispetto di
tempi e costi deve comportare una riduzione del compenso
nella misura stabilita dal regolamento.
Ridotto il tetto complessivo del compenso a livello di
singolo dipendente: si passa da un importo pari al
trattamento economico complessivo lordo annuo al suo 50%,
considerando anche le somme riconosciute per il medesimo
titolo da altre amministrazioni. Tra i beneficiari vanno
esclusi i dirigenti per il principio di onnicomprensività
della loro retribuzione. Il regolamento dovrà tener conto di
questa previsione quando disciplina il riparto delle somme a
disposizione, destinando a economie di bilancio gli importi
previsti per i beneficiari con qualifica dirigenziale.
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5 | GARE E INCARICHI
Fascicoli più scarni per abbreviare le liti
La legge di
conversione del Dl 90/2014 incentiva l'informatica nel
processo amministrativo, prevedendo inoltre un'abbreviazione
dei termini per concludere le liti in circa due mesi.
Quest'ultima novità riguarda il settore degli appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture, in cui più si
percepiva l'esigenza di rapidità.
Alle disposizioni sulla posta certificata e sulla
informatizzazione si aggiunge l'innovazione su forme e
quantità degli atti giudiziari. Si tratta di limiti nelle
liti in materia di gare e incarichi professionali di
progettazione, in cui già ci sono tempi accelerati con
cadenze di poche decine di giorni. L'articolo 40 prevede ora
che il processo non debba eccedere una consistenza standard,
individuata in poche decine di pagine. Si tratta quindi del
primo tentativo nella giustizia nazionale di condizionare le
modalità di difesa. Finora gli eccessi potevano essere
sanzionati unicamente in udienza dal giudice, o in sentenza
con generiche misure pecuniarie senza tuttavia che eventuali
eccessi, divagazioni, ridondanze potessero influire
negativamente sulle sorti della lite.
L'articolo 40 del
decreto è innovativo perché impedisce di valutare tutto ciò
che è scritto in eccedenza rispetto le pagine consentite,
indipendentemente dalla fondatezza delle affermazioni, con
l'aggravante che nemmeno il giudice d'appello può
interessarsi di ciò che risulta graficamente collocato nelle
pagine eccedenti. Sistemi analoghi sono già collaudati nelle
offerte di gara, limitate quantitativamente per evitare
descrizioni eccessivamente dettagliate, ma se le preclusioni
trasmigrano negli atti giudiziari rischiano di limitare le
possibilità di difesa, cioè diritti di specifica e
incomprimibile consistenza.
Nel settore delle gare pubbliche l'articolo 39 introduce un
meccanismo per limitare le liti dovute a escursioni per
irregolarità formali: si prevede, infatti, che il
concorrente escluso per mancanza, incompletezza o
irregolarità di dichiarazioni e di elementi richiesti dal
bando, possa essere ammesso alla gara previo pagamento di
una sanzione pecuniaria.
Altre innovazioni nella legge riguardano la cauzione che
accompagna i provvedimenti cautelari in materia di appalti:
questo contrappeso processuale, di matrice economica,
diventa facoltativo e non più obbligatorio.
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6 | CAMERE DI COMMERCIO
Scattano i tagli sui diritti annuali
La legge di conversione del Dl 90/2014, con una prima
riduzione del diritto annuale versato dalle imprese, avvia
l'attuazione di uno degli obiettivi prioritari posti dal
Governo nell'ambito della riforma delle Camere di commercio.
L'articolo 28 del decreto ha optato per una riduzione
progressiva del diritto annuale, che nel 2015 sarà del 35%,
nel 2016 del 40% e nel 2017 del 50 per cento. Di fatto si è
accolta la proposta indicata nel documento di revisione
della spesa varato dal commissario Cottarelli il 13.03.2014.
Considerato che dal conto economico 2012 di tutte le 105
Camere pubblicato dall'Istat l'entrata per il diritto
annuale è stata di quasi 1,2 miliardi, il risparmio nel 2015
per il sistema delle imprese sarà di circa 420 milioni. Nel
decreto si precisa che la riduzione progressiva si
interromperà nel momento della «eliminazione» del
diritto, che dovrebbe avvenire con l'entrata a regime della
normativa di riordino delle Camere delineato, in sintesi,
nell'articolo 9 del Ddl 1577 presentato al Senato dal
Governo.
Il solo interrogativo riguarda la modalità di applicazione
del taglio del 35%, ossia se il Governo la applicherà a
tutti gli importi previsti nel 2014 per le diverse tipologie
di imprese oppure, com'è sua facoltà in base alla legge
580/1993, coglierà l'occasione per modulare la riduzione
degli importi. L'articolo 28 impone inoltre una revisione
degli attuali livelli dei diritti di segreteria versati
soprattutto per le pratiche, i certificati, le visure e
delle tariffe per i servizi richieste dalle Camere (ad
esempio per i controlli metrologici).
L'entrata più consistente è fornita dai diritti, che nel
2012 sono ammontati a 263 milioni. Diritti e tariffe saranno
fissati sulla base dei costi standard sui quali dovranno
incidere, ovviamente con beneficio per gli utenti, le
operazioni di accorpamento delle Camere e delle loro aziende
speciali e lo svolgimento di servizi in forma associata.
La riduzione del 35% non inciderà sui servizi obbligatori
forniti dalle Camere a tutte le imprese, ai professionisti,
ai cittadini e alle altre pubbliche amministrazioni. Si
imporrà, invece, un ridimensionamento e una
razionalizzazione di diversi tipi di iniziative facoltative
di promozione del territorio che ciascuna Camera organizza
in autonomia direttamente o tramite sovvenzioni a soggetti
privati
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Certificati camerali e Durc per allestimenti temporanei.
Sicurezza. A conferma dell'idoneità tecnico-professionale.
Per
l'allestimento dei palchi per spettacoli e per le
manifestazioni fieristiche sono operative le norme in
materia di sicurezza sui luoghi di lavoro contenute nel
decreto 22.07.2014 interministeriale Lavoro–Salute e
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell'8 agosto.
Il decreto attua l'articolo 32, comma, 1, lettera g-bis, del
decreto legge 69/2013 che aveva esteso le disposizioni
previste dal titolo IV del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla
salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) anche agli
spettacoli musicali, cinematografici e teatrali nonché alle
manifestazioni fieristiche e individua le particolari
esigenze connesse allo svolgimento di tali attività.
Il decreto si articola in due capi riguardanti,
rispettivamente, gli spettacoli musicali, cinematografici e
teatrali, nonché le manifestazioni fieristiche. Le
disposizioni del Capo I, nell'individuare il campo di
applicazione, si rivolgono alle attività di montaggio e
smontaggio di opere temporanee, compreso il loro
allestimento e disallestimento con impianti audio, luci e
scenotecnici, realizzate per spettacoli musicali,
cinematografici teatrali e di intrattenimento, con
esclusione, tra l'altro, del montaggio/smontaggio di pedane
di altezza fino a 2 metri rispetto al piano stabile, non
connesse ad altre strutture o supportanti altre strutture.
Il decreto tiene in particolare conto le attività che si
svolgono con la compresenza di più imprese esecutrici, di un
elevato numero di lavoratori, subordinati o autonomi, anche
di diverse nazionalità, con la necessità di realizzare i
lavori in tempi brevi e in spazi ristretti, soggetti a
vincoli architettonici e ambientali.
Per queste attività, come per quelle fieristiche, ai fini
della individuazione dell'idoneità tecnico-professionale
delle imprese esecutrici è prevista l'acquisizione del
certificato di iscrizione alla Camera di commercio e la
presentazione del documento unico di regolarità contributiva
(Durc), nonché una particolare informazione, formazione ed
addestramento del personale addetto.
Per quanto concerne le manifestazioni fieristiche, il
decreto, tra l'altro, definisce quale gestore il soggetto
giuridico che gestisce il quartiere fieristico;
organizzatore quello che organizza la manifestazione
fieristica; quartiere fieristico la struttura fissa o altro
spazio destinato a ospitare la manifestazione, dotata di una
propria organizzazione logistica e relativa agibilità,
destinata allo svolgimento di manifestazioni fieristiche;
allestitore il soggetto che è titolare del contratto di
appalto per montaggio e smontaggio dello stand ed eventuale
realizzazione di strutture espositive.
Il committente, ai fini del Testo unico, è individuato nel
soggetto gestore, organizzatore o espositore che ha
titolarità e che esercita i poteri decisionali e di spesa.
Nel definire il campo di applicazione, il decreto fa
riferimento alle attività di approntamento e smantellamento
di strutture allestitive o tendostrutture per manifestazioni
fieristiche con esclusione di quelle di altezza inferiore a
6 metri rispetto al piano stabile e di quelle biplanari con
superficie fino a 50 metri quadrati.
Nelle attività previste dal decreto interministeriale, le
copie del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e del
piano operativo di sicurezza (Pos) devono essere messi a
disposizione dei rappresentanti dei lavoratori per la
sicurezza prima dell'inizio dei lavori.
Gli allegati al decreto riguardano le informazioni minime
sul sito di installazione dell'opera temporanea, il modello
di dichiarazione di idoneità tecnico professionale delle
imprese straniere, i contenuti minimi del Psc e del Pos, le
informazioni minime sul quartiere fieristico, i contenuti
minimi del Duvri in base all'articolo 26 del Testo unico (articolo Il Sole 24 Ore del 14.08.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Disabili, assistenza allargata.
Coniuge o genitori non possono? Permesso ai parenti.
Dal ministero alcuni chiarimenti sul diritto per i familiari
di assentarsi dal lavoro.
Permessi mensili a maglie più larghe per i familiari di
disabili. Per fruire dei tre giorni di congedo per
assistenza, infatti, è sufficiente che a ciò non possa
provvedere o il coniuge o nessuno dei genitori del disabile;
non è necessario, invece, che «tutti» (coniuge e genitori)
non possano provvedervi.
In questi casi, il diritto ai tre giorni di permesso mensili
declina a favore di un parente o di un affine entro il terzo
grado del soggetto disabile, senza nessun ordine di
priorità: chiunque può fruirne.
A precisarlo è stato il
ministero del lavoro nell'interpello
26.06.2014 n. 19/2014.
Permessi mensili. I chiarimenti sono stati chiesti
dall'Associazione nazionale quadri amministrazioni pubbliche
(Anquad) e dal Cida (manager e altre professionalità
Italia). Le associazioni hanno chiesto di conoscere il
parere del ministero del lavoro in ordine alla corretta
interpretazione dell'art. 33, comma 3, della legge n.
104/1992, come modificato dall'art. 24, della legge n.
183/2010, che disciplina il diritto del lavoratore
dipendente di fruire di tre giorni di permesso mensile
retribuito per l'assistenza al familiare con handicap in
situazione di gravità.
In particolare, è stato chiesto di
precisare se l'estensione del diritto a tre giorni di
permesso al parente o affine entro il terzo grado possa
prescindere dall'eventuale presenza nella famiglia
dell'assistito di parenti o affini di primo e secondo grado
che siano nelle condizioni di assisterlo. In caso di
risposta negativa, pertanto, per il diritto ai permessi
basterebbe comprovare esclusivamente una delle particolari
condizioni del coniuge e/o dei genitori della persona in
situazione di gravità.
I tre giorni di permesso mensili. I lavoratori dipendenti,
coniuge, parenti o affini della persona in situazione della
disabilità grave, entro il secondo grado possono usufruire
di tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in
ore. A titolo esemplificativo sono parenti di primo grado:
genitori, figli; sono parenti di secondo grado: nonni,
fratelli, sorelle, nipoti in quanto figli dei figli; sono
affini di primo grado: suocero/a, nuora, genero; sono affini
di secondo grado: i cognati. I tre giorni di permesso
mensili possono essere fruiti anche dai parenti e dagli
affini del minore di tre anni in situazione di disabilità
grave. Inoltre il diritto ai permessi può essere esteso ai
parenti e agli affini di terzo grado della persona con
disabilità in situazione di gravità, qualora i genitori o il
coniuge della persona in situazione di disabilità grave
abbia compiuto i 65 anni d'età oppure sia affetto da
patologie invalidanti o sia deceduto o mancante.
Secondo l'Inps l'espressione «mancante» (che consente il
passaggio del diritto ai permessi dai parenti di secondo a
quelli di terzo grado) va intesa non solo come situazione di
un'assenza naturale e giuridica (celibato oppure stato di
figlio naturale non riconosciuto), ma deve ricomprendere
anche ogni altra condizione a essa giuridicamente
assimilabile, continuativa e debitamente certificata
dall'autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità,
quale divorzio, separazione legale o abbandono.
Per quanto concerne le patologie invalidanti, secondo l'Inps
ai fini della loro individuazione vanno prese a riferimento
soltanto quelle, a carattere permanente, indicate dall'art.
2, comma 1, lettera d), numeri 1, 2 e 3 del dm n. 278/2000
(regolamento recante disposizioni di attuazione dell'art. 4
della legge n. 53/2000) concernente congedi per eventi e
cause particolari, che individua le ipotesi in cui è
possibile accordare il congedo per gravi motivi (di cui
all'art. 4, comma 2, della legge n. 53/2000), vale a dire:
1) patologie acute o croniche che determinano temporanea o
permanente riduzione o perdita dell'autonomia personale, ivi
incluse le affezioni croniche di natura congenita,
reumatica, neoplastica, infettiva, dismetabolica,
post-traumatica, neurologica, neuromuscolare, psichiatrica,
derivanti da dipendenze, a carattere evolutivo o soggette a
riacutizzazioni periodiche;
2) patologie acute o croniche che richiedono assistenza
continuativa o frequenti monitoraggi clinici, ematochimici e
strumentali;
3) patologie acute o croniche che richiedono la
partecipazione attiva del familiare nel trattamento
sanitario.
Pertanto, nell'ipotesi in cui il coniuge o i genitori del
soggetto in situazione di disabilità grave siano affetti
dalle patologie sopra elencate, l'assistenza potrà essere
esercitata anche da parenti o affini entro il terzo grado
(il «come» e il «quando» sono l'oggetto delle precisazioni
da parte del ministero). In tal caso alla domanda deve
essere allegata, in busta chiusa indirizzata al Centro
medico legale territorialmente competente dell'Inps, idonea
documentazione del medico specialista del servizio sanitario
nazionale o con esso convenzionato o del medico di medicina
generale o della struttura sanitaria nel caso di ricovero o
intervento chirurgico, da cui risulti una delle patologie
sopra indicate.
Diritto a maglie larghe. La risposta del ministero
all'interpello è stata affermativa. La fruizione dei
permessi da parte di parenti o di affini entro il terzo
grado è subordinata esclusivamente alla circostanza che il
coniuge e/o i genitori della persona con handicap grave si
trovino in una delle specifiche condizioni stabilite dalla
norma (vale a dire aver compiuto i 65 anni di età oppure
essere anche loro affetti da patologie invalidanti o essere
deceduti o mancanti).
In altre parole, non deve anch'essere riscontrata la
impossibilità a prestare l'assistenza da parte di parenti
oppure affini di primo e di secondo grado, eventualmente
presenti nell'ambito familiare. Peraltro, evidenzia infine
il ministero del lavoro, è sufficiente che le predette
condizioni (65 anni di età oppure lo stato invalidante o la
morte o la mancanza) si riferiscano a uno solo dei soggetti
menzionati dalla norma, ossia o al coniuge oppure ai
genitori. Una diversa interpretazione, quella cioè di
consentire l'estensione al terzo grado solo quando tutti i
soggetti prioritariamente interessati (coniuge, parente o
affine entro il secondo grado) si trovino nell'impossibilità
di assistere il disabile, finirebbe per restringere
fortemente la platea dei soggetti interessati.
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Diritto solo ai lavoratori dipendenti.
Per fruire dei permessi per assistenza a disabili occorre:
• essere lavoratori dipendenti, anche se con rapporto di
lavoro part-time, ed essere assicurati per le prestazioni
economiche di maternità presso l'Inps;
• che la persona che chiede o per la quale si chiedono i
permessi sia in situazione di handicap «grave» (ex art. 3
della legge n. 104/1992, si veda tabella in pagina)
riconosciuta dall'apposita commissione della Asl;
• la persona in situazione di disabilità grave non è
ricoverata a tempo pieno; per ricovero a tempo pieno
s'intende quello, per le intere ventiquattro ore, presso
strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che
assicurano assistenza sanitaria continuativa.
Fanno eccezione all'ultimo presupposto (ricovero a tempo
pieno):
• l'interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità
del disabile in situazione di gravità di recarsi al di fuori
della struttura che lo ospita per effettuare visite e
terapie appositamente certificate;
• il ricovero a tempo pieno di un disabile in situazione di
gravità in stato vegetativo persistente e/o con prognosi
infausta a breve termine;
• il ricovero a tempo pieno di un minore con disabilità in
situazione di gravità per il quale risulti documentato dai
sanitari della struttura ospedaliera il bisogno di
assistenza da parte di un genitore o di un familiare,
ipotesi già prevista per i bambini fino a tre anni di età (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, gestione semplificata.
Spinta sul Sistri e regole snelle per il recupero dei
residui. La legge di conversione del dl 91/2014 per la competitività
riscrive il codice ambientale.
Rilancio del Sistri, istruzioni ad hoc per la
classificazione dei rifiuti, regole light per recupero
residui ed oli usati.
Numerose le novità in materia di beni
a fine vita previste dalla legge di conversione del dl
91/2014 (decreto Competitività) approvata in via definitiva
dal senato il 07.08.2014.
Il provvedimento di
consolidamento rimodula anche, limitandone la portata, le
disposizioni dell'originario dl 91/2014 su procedure
semplificate di bonifica, combustione di materiali vegetali
e potere di ordinanza degli enti locali. E ne rivede,
snellendole, le regole sull'adeguamento dell'ordinamento
interno alle norme Ue sull'end of waste dei residui.
Sistri. Oltre a confermare l'obbligo previsto
dall'originario dl 91/2014 a carico del Minambiente di
garantire interoperatività e funzionalità del Sistri, la
legge di conversione rilancia il nuovo sistema di
tracciamento telematico dei rifiuti allargandone l'accesso
al Corpo forestale dello Stato e disponendo le regole di
dettaglio sulle modalità alternative di tenuta dei registri
di carico/scarico da parte di quelle imprese agricole che,
non essendo obbligate al Sistri ex dm 24.04.2014, non
aderiscono volontariamente al sistema, le quali potranno
farlo tramite la conservazione delle «schede Sistri» loro
inoltrate dal destinatario dei rifiuti in «formato
fotografico digitale».
La stessa legge abbassa altresì da sei a tre mesi il termine
entro cui i soggetti legittimati ad agire fuori Sistri e
ammessi ad effettuare raccolta e trasporto dei propri
rifiuti in deroga alle regole abilitative ordinarie devono
denunciare alle autorità (ora la provincia) la mancata
ricezione della copia del formulario di trasporto da
impianti oltreconfine per essere esentati dall'eventuale
illecita gestione altrui.
Classificazione dei rifiuti. Fanno il loro esordio nel dlgs
152/2006 nuove regole per procedere all'identificazione dei
rifiuti in base ai codici Cer: in caso di rifiuti con
«codici specchio» (ossia da classificare come pericolosi in
presenza di determinate caratteristiche) sarà obbligo
dell'operatore, in virtù del principio di precauzione,
prendere come riferimento sempre i composti chimicamente
peggiori e, in caso di dubbio, considerare i residui
senz'altro come pericolosi.
Rifiuti «spiaggiati». A condizione che siano condotte in
loco e nel tempo tecnico strettamente necessario non
necessiteranno di autorizzazione (in quanto considerata
fuori dall'attività di gestione di rifiuti) tutte le
operazioni che precedono la raccolta (identificate come
prelievo, raggruppamento, cernita, deposito preliminare alla
raccolta) dei materiali naturali (anche frammisti ad
elementi antropici) depositatisi a seguito di eventi
atmosferici o meteorici (come mareggiate e piene).
Miscelazione rifiuti. Alleggerito il divieto di miscelazione
dei rifiuti previsto dal dlgs 152/2006. Le legge scavalca le
restrizioni in materia introdotte nel Codice ambientale dal
dlgs 205/2010 permettendo agli impianti autorizzati prima
della citata revisione del 2010 di continuare a operare in
base alle precedenti regole. Con specifico riferimento agli
oli usati, la legge prevede invece la secca possibilità di
poter procedere alla loro miscelazione, imponendo solo di
tenere costantemente separati, per quanto possibile, quelli
destinati a trattamenti diversi.
Riciclo semplificato. I rifiuti a minor impatto ambientale
(come rottami di metallo, plastiche e legno) contemplati
dalla «lista verde» ex regolamento Ce n. 1013/2006 sui
trasporti transfrontalieri (e in conseguenza di ciò oggetto
di meno restrizioni) potranno essere riciclati negli
impianti industriali in possesso di autorizzazione integrata
ambientale dietro semplice rispetto delle norme su trasporto
di rifiuti e formulario di identificazione, ma a condizione
che: siano rispettate le migliori tecniche disponibili
(requisito base per il rilascio dell'Aia); sia stata
effettuata relativa comunicazione all'Autorità pubblica
competente entro i 45 giorni precedenti le attività.
Bonifiche semplificate. La legge di conversione ritocca la
procedura semplificata per le operazioni di bonifica
inserita nel dlgs 152/2006 (nuovo articolo 242-bis) dal
testo originario del dl 91/2014. Rispetto alla disposizione
iniziale, la certificazione dell'avvenuta bonifica si avrà
non più con la semplice validazione dei «risultati di
caratterizzazione» da parte dell'Arpa, ma sarà necessaria
l'approvazione del «piano di campionamento di collaudo
finale» da parte dello stesso Ente.
Resta però ferma la possibilità per gli operatori
interessati di riutilizzare i siti contaminati dopo aver
ridotto nei limiti di legge i soli valori inquinanti
relativi al suolo, essendo loro consentito mettere a norma
quelli relativi alle acque di falda in successivo momento.
Ordinanze locali sui rifiuti. Circoscritti e ridimensionati
i «super poteri» di ordinanza in materia di gestione rifiuti
attribuito dall'originario dl 91/2014 a tutti gli enti
locali, che la legge di conversione riserva ora alle sole
Autorità locali della Regione Lazio (le quali potranno
procedere alla requisizione degli impianti di trattamento e
di utilizzarne il relativo personale).
End of waste e «Mps». Confermata e allargata l'applicabilità
del regime autorizzatorio semplificato alle operazioni di
recupero dei beni a fine vita svolte secondo le norme
comunitarie sull'end of waste dei residui. Le attività di
trattamento potranno infatti essere avviate decorsi 90
giorni dalla semplice comunicazione all'Ente provinciale (in
luogo del previo rilascio dell'autorizzazione regionale) a
condizione che vengano rispettati i requisiti tecnici
sanciti dai regolamenti comunitari sulle singole categorie
di rifiuti, non essendo più necessario (anche) l'ossequio
dei limiti nazionali stabiliti dai decreti ministeriali
sulle materie prime secondarie (dm Ambiente 05.02.1998,
dm 161/2002, dm 269/2005).
Gli enti e le imprese che effettuano le attività di gestione
ai sensi dei predetti decreti ministeriali dovranno però
adeguarsi alle regole Ue entro 6 mesi. In attesa di regole «Eow»
ad hoc, sarà altresì consentito fin da subito il riutilizzo
delle materie prime secondarie ottenute da rifiuti inerti
(acquisite da impianti di recupero autorizzati in via
semplificata) per opere di recupero ambientale, rilevati,
sottofondi stradali, ferroviari e aeroportuali, piazzali.
I
materiali dragati potranno essere gestiti come normali beni
a condizione che, dopo le necessarie operazioni di recupero
in casse di colmata: presenteranno valori inquinanti sotto
le «concentrazioni soglia di contaminazione» ex dlgs 152/2006;
saranno destinati a riutilizzo diretto in sito certo e senza
rischi per ambiente; rispetteranno i requisiti tecnici
standard per prodotti o materie prime; saranno accompagnati
nei vari passaggi da una «dichiarazione di conformità» del
produttore o detentore (comunicata alle Autorità pubbliche
di competenza) e dai documenti di trasporto previsti dalla
normativa di settore (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Professionisti dei beni culturali.
Estese ai senza albo la protezione e la valorizzazione.
In G.U. la legge che prevede l'istituzione entro sei mesi
degli elenchi nazionali al ministero.
Tutela e valorizzazione dei beni culturali ad ampio raggio.
Oltre ad architetti e ingegneri, dal 23.08.2014 saranno
chiamati in causa anche altri professionisti: dagli
archeologi agli antropologi fisici.
Per effetto della
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 183 dell'08.08.2014 della legge 22.07.2014, n. 110, entra in
vigore la modifica al codice dei beni culturali e del
paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n.
42, in materia di professionisti dei beni culturali.
Dunque, fatte salve le competenze degli operatori delle
professioni già regolamentate, gli interventi operativi di
tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonché
quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei
beni stessi, saranno affidati alla responsabilità e
all'attuazione, secondo le rispettive competenze, di
archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi,
antropologi fisici, restauratori di beni culturali e
collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di
diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni
culturali e storici dell'arte, in possesso di adeguata
formazione ed esperienza professionale.
Per queste «nuove»
professioni saranno istituiti presso il Ministero dei beni e
delle attività culturali e del turismo i rispetti elenchi
nazionali.
Il ministero competente, sentito il Miur e coinvolgendo le
regioni e le organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative, entro sei mesi con apposito decreto
stabilirà le modalità e i requisiti per l'iscrizione dei
professionisti nei citati elenchi nonché le modalità per la
tenuta degli stessi (che saranno pubblicati sul sito del
ministero) in collaborazione con le associazioni
professionali. I nuovi elenchi, chiarisce la legge in
commento, «non costituiscono sotto alcuna forma albo
professionale» (articolo ItaliaOggi del 09.08.2014). |
GIURISPRUDENZA |
CONDOMINIO:
La ristrutturazione «cancella» il danno.
Locazioni. L'inquilino non risarcisce.
L'inquilino
non paga i danni che ha fatto all'immobile se il
proprietario, appena rientra in possesso della casa, la
ristruttura radicalmente. Il nuovo "volto" dato
all'appartamento cancella i mancati interventi di
manutenzione e fa venire meno il pregiudizio economico che
giustificherebbe la richiesta del locatore.
Con la
sentenza 14.08.2014 n. 17964, la Corte di Cassazione,
Sez. III civile, fornisce un
assist agli
inquilini che non brillano per accuratezza nel mantenere in
buono stato la casa. Nel caso esaminato a salvare gli eredi
dell'affittuario dal pagamento dei danni, nei quali era
compresa anche la spesa della perizia per verificarli, è la
voglia di rinnovamento del proprietario che, subito dopo la
consegna delle chiavi, aveva stravolto la fisionomia
dell'appartamento al punto da dividerlo in tre unità
abitative.
A fronte dell'abbattimento dei muri, del
rifacimento dei bagni come dei pavimenti, che rilevanza
poteva avere -si chiedono i giudici- il fatto che il
conduttore avesse restituito l'immobile con il tubo del gas
non incassato, le prese dell'impianto elettrico mancanti e
una tinteggiatura dei muri «non omogenea»?
Il risultato dell'incuria non può costituire un danno reale,
che scatta solo in caso di un pregiudizio effettivamente
subito. Nel caso esaminato la ristrutturazione costituiva la
«sopravvenienza di un fatto autonomo, non collegato
causalmente con la condotta del responsabile» che per i
giudici è idoneo a eliminare il danno.
La Suprema corte avalla la decisione della Corte d'Appello
di Firenze favorevole al ricorrente, a differenza di quella
dei giudici di primo grado secondo i quali per i danni
provocati gli eredi dovevano invece pagare.
Per la Cassazione la lettura corretta è quella dei giudici
di seconda istanza, in linea con le previsioni del codice
civile.
Nell'ambito delle relazioni tra soggetti di diritto privato,
infatti, l'obbligo di risarcire non ha, di regola, lo scopo
di sanzionare, ma la funzione primaria di compensare il
pregiudizio «restaurando almeno per equivalente la
situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima
dell'illecito».
È evidente, quindi, che per il diritto al risarcimento sia
indispensabile che si sia verificato un danno effettivo e
concretamente sofferto, mentre non basta la semplice
«potenzialità configurabile in astratto».
I giudici della terza sezione sottolineano che
l'inadempimento totale o inesatto dell'obbligo contrattuale
non fa scattare di per sé il danno patrimoniale, che si
configura solo quando l'illecito ha una conseguenza sul
patrimonio del creditore, il che può anche non verificarsi.
Un principio che si applica anche alla riconsegna in buono
stato dell'immobile (articolo 1590).
Accertato che la riconsegna era strumentale alla
realizzazione di un nuovo progetto di casa, sul quale il
deterioramento non aveva influito in alcun modo -non era
aumentato il costo dei lavori né diminuito il valore del
bene- l'incuria non si era tradotta in un danno
patrimoniale risarcibile (articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2014). |
CONDOMINIO: Il negozio paga l'impianto.
Condominio. Per la Cassazione non rileva che il contatore
sia autonomo.
I proprietari dei negozi devono partecipare alle spese
relative agli impianti elettrici del condominio, anche se
hanno un ingresso su strada.
La Corte di
Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 12.08.2014 n. 17880, ribalta il verdetto
della Corte d'Appello che aveva dato ragione al
commerciante.
I giudici di seconda istanza avevano accolto
le ragioni del negoziante che negava di dover pagare i
lavori per mettere in sicurezza l'impianto elettrico, come
previsto dalla legge 46 del 1990, perché, oltre ad avere
l'entrata del suo esercizio commerciale sulla via, aveva
all'interno del locale sia i contatori Enel sia i quadri
elettrici, come era risultato anche dal sopralluogo del
consulente tecnico, che aveva verificato anche l'assenza di
contatori all'interno dello stabile riferibili alla
rivendita.
Su queste basi la Corte d'Appello aveva affermato
l'applicazione dell'articolo 1123 del codice civile che
detta due criteri di ripartizione delle spese: uno in
funzione del valore della proprietà e l'altro in proporzione
all'uso che il singolo può fare della parte condominiale.
Per questo il soggetto che non ha alcuna titolarità sulla
porzione che è stata motivo di spesa, non sarebbe tenuto
neppure al pagamento pro quota.
Diverso il parere della Cassazione che applica invece
l'articolo 1117, n. 3 del codice civile, il quale considera,
in mancanza di titolo contrario, l'impianto elettrico comune
a tutti i condomini. Sbagliato quindi citare l'articolo 1132
che si applica alle spese effettuate su parti e servizi
comuni «destinati a fornire utilità diverse ai singoli
condomini», mentre l'impianto elettrico è di tutti
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.08.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'identificazione
catastale è richiesta al fine di consentire la trascrizione
che non ha alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla
limitata funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in
caso di conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile.
---------------
Nel giudizio di impugnazione dell'ordinanza repressiva di un
abuso edilizio è onere del privato fornire la prova dello
"status quo ante", in quanto la p.a. non può di solito
materialmente accertare quale fosse la situazione
dell'intero suo territorio.
Chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili
esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende
evitare le misure repressive di legge, lo stato della
preesistenza, proprio in applicazione del principio generale
di cui all'art. 2697 c.c..
In tali casi, il privato dispone, ed è normalmente in grado
di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire
utili elementi di valutazione quali fotografie con data
certa dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il
progetto originario e i suoi allegati, ecc..
---------------
La giurisprudenza civile in numerose pronunce, sia di
merito (App. Roma Sez. I Sent., 23.11.2009: “non può
pronunciarsi una sentenza sostitutiva dell’obbligo di
concludere il contratto definitivo di compravendita di
immobile ex art. 2932 c.c. qualora sia giudizialmente
accertata la differenza tra le risultanze catastali e
l’effettiva consistenza dei beni immobili al momento del
trasferimento, in mancanza di concessione edilizia o di
successiva regolarizzazione di esse, e qualora il
promettente venditore non abbia provveduto alla
regolarizzazione con dichiarazione sostitutiva di
notorietà”) che di legittimità (ex aliis Cass. civ.
Sez. II, 19.11.2004, n. 21885 “nei contratti in materia di
compravendita immobiliare ai fini dell'individuazione
dell'immobile oggetto del trasferimento della proprietà
l'indicazione dei confini -che concerne punti oggettivi di
riferimento esterni consentendo perciò la massima
precisione- assume valore decisivo e prevalente rispetto
alle altre risultanze probatorie e, in particolare, ai dati
catastali, allorché si risolva nella descrizione dell'intero
perimetro e, a maggior ragione, quando trovi conferma in
altri dati obiettivi incontrovertibilmente conducenti al
fine, come la specificazione della superficie e la
dettagliata descrizione della composizione e della
collocazione dell'unità immobiliare nell'ambito di un più
vasto complesso così eliminando ogni margine di dubbio circa
la materiale consistenza dell'unità stessa. A tali fini,
pertanto, il ricorso ai dati catastali -che non solo hanno
natura tecnica e sono preordinati essenzialmente
all'assolvimento di funzioni tributarie ma anche spesso
sfuggono alla diretta percezione da parte dei contraenti- ha
solo carattere sussidiario, essendo ammesso unicamente
nell'ipotesi di indicazioni inadeguate o imprecise in ordine
ai confini”) ha rimarcato la impossibilità di far discendere
la prova della pregressa consistenza dell’immobile dalle
dette risultanze catastali.
La giurisprudenza amministrativa, dal canto proprio
interrogandosi sui concetti di “ripristino” e
“ristrutturazione”, ha avuto modo di enunciare taluni
importanti principi.
In particolare, nella condivisibile decisione prima indicata
si è avuto modo di chiarire che con il termine "ripristino"
s'intende, in campo edilizio, l'operazione volta ad ottenere
la ricostruzione di una cosa persa, non più esistente, di
cui lo strumento di pianificazione, come nel caso di specie
pure ne ha ritenuto corretta la riproposizione.
In altri termini, quanto al suo contenuto, il ripristino
deve tendere a ricostituire lo status edilizio quo ante, per
cui il risultato finale di un siffatto intervento su un
immobile non più presente perché demolito o comunque venuto
meno per ragioni svariate è appunto la ricostruzione
dell'edificio dov'era e com'era (nelle forme e consistenza
originariamente possedute dall'edificio).
Si è detto in particolare che anche laddove la disciplina
urbanistica comunale ritenga compatibile con la categoria
del restauro e quella del risanamento l'intervento di
ripristino, è necessario però che le parti originarie da
ricostruirsi siano documentate in modo "incontrovertibile",
nel senso che attraverso elementi oggettivi -caratterizzati
dalla assoluta certezza- deve essere comprovata la
preesistenza di quanto si vuole riedificare.
Se così è, è fuori discussione l'ammissibilità in linea
generale di un intervento di riedificazione di ciò che in
passato è stato (dal punto di vista edilizio) a mezzo,
appunto, della modalità del ripristino diventa dirimente
l'accertamento dell'esistenza incontrovertibile del
precedente manufatto e della sua effettiva consistenza.
Analoghi principi, peraltro, sono predicabili peraltro
allorché ci si voglia rifare alla categoria edilizia della
ristrutturazione, la cui nozione impone di assicurare la
piena conformità di volume, sagoma, e superficie tra vecchio
e nuovo fabbricato.
In sintesi ed in via generale: per ri-edificare si deve
provare che “pregresso” v’era, ed esatta consistenza del
pregresso: in carenza di tale prova non v’è spazio per il
rilascio di provvedimenti ampliativi.
Il Collegio ritiene di dovere premettere,
rispetto al partito esame delle censure dedotte, il proprio
convincimento circa la piena condivisibilità ed attualità
del principio (ex multis, Cass. civ. Sez. II, 11.08.2005, n.
16853) secondo il quale l'identificazione catastale è
richiesta al fine di consentire la trascrizione che non ha
alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla limitata
funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in caso di
conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile.
Il principio, nel caso di specie, può essere nella sostanza
accostato a quello, -pure a più riprese predicato dalla
giurisprudenza amministrativa- secondo il quale (Cons.
Stato Sez. IV, 14.02.2012, n. 703) “nel giudizio di
impugnazione dell'ordinanza repressiva di un abuso edilizio
è onere del privato fornire la prova dello "status quo
ante", in quanto la p.a. non può di solito materialmente
accertare quale fosse la situazione dell'intero suo
territorio. Chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su
immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se
intende evitare le misure repressive di legge, lo stato
della preesistenza, proprio in applicazione del principio
generale di cui all'art. 2697 c.c.. In tali casi, il privato
dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la
documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di
valutazione quali fotografie con data certa dell'immobile,
estratti delle planimetri catastali, il progetto originario
e i suoi allegati, ecc.”.
---------------
La premessa dalla quale è
necessario trarre le mosse (e che in parte è stata
anticipata nell’incipit della presente motivazione) riposa
nella considerazione che certamente le risultanze catastali, ex se considerate, non possono rivestire una
simile valenza.
La giurisprudenza civile di ciò è ben consapevole, ed in
numerose pronunce, sia di merito (App. Roma Sez. I Sent.,
23.11.2009: “non può pronunciarsi una sentenza sostitutiva
dell’obbligo di concludere il contratto definitivo di
compravendita di immobile ex art. 2932 c.c. qualora sia
giudizialmente accertata la differenza tra le risultanze
catastali e l’effettiva consistenza dei beni immobili al
momento del trasferimento, in mancanza di concessione
edilizia o di successiva regolarizzazione di esse, e qualora
il promettente venditore non abbia provveduto alla
regolarizzazione con dichiarazione sostitutiva di
notorietà”) che di legittimità (ex aliis Cass. civ. Sez. II, 19.11.2004, n. 21885 “nei contratti in materia di
compravendita immobiliare ai fini dell'individuazione
dell'immobile oggetto del trasferimento della proprietà
l'indicazione dei confini -che concerne punti oggettivi di
riferimento esterni consentendo perciò la massima precisione- assume valore decisivo e prevalente rispetto alle altre
risultanze probatorie e, in particolare, ai dati catastali,
allorché si risolva nella descrizione dell'intero perimetro
e, a maggior ragione, quando trovi conferma in altri dati
obiettivi incontrovertibilmente conducenti al fine, come la
specificazione della superficie e la dettagliata descrizione
della composizione e della collocazione dell'unità
immobiliare nell'ambito di un più vasto complesso così
eliminando ogni margine di dubbio circa la materiale
consistenza dell'unità stessa. A tali fini, pertanto, il
ricorso ai dati catastali -che non solo hanno natura
tecnica e sono preordinati essenzialmente all'assolvimento
di funzioni tributarie ma anche spesso sfuggono alla diretta
percezione da parte dei contraenti- ha solo carattere
sussidiario, essendo ammesso unicamente nell'ipotesi di
indicazioni inadeguate o imprecise in ordine ai confini”) ha
rimarcato la impossibilità di far discendere la prova della
pregressa consistenza dell’immobile dalle dette risultanze
catastali.
La giurisprudenza amministrativa, dal canto proprio (ex aliis si veda la completa ricostruzione contenuta nella
sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato
18.10.2010, n. 7540) interrogandosi sui concetti di
“ripristino” e “ristrutturazione”, ha avuto modo di
enunciare taluni importanti principi.
In particolare, nella condivisibile decisione prima indicata
si è avuto modo di chiarire che con il termine "ripristino"
s'intende, in campo edilizio, l'operazione volta ad ottenere
la ricostruzione di una cosa persa, non più esistente, di
cui lo strumento di pianificazione, come nel caso di specie
pure ne ha ritenuto corretta la riproposizione.
In altri termini, quanto al suo contenuto, il ripristino
deve tendere a ricostituire lo status edilizio quo ante, per
cui il risultato finale di un siffatto intervento su un
immobile non più presente perché demolito o comunque venuto
meno per ragioni svariate è appunto la ricostruzione
dell'edificio dov'era e com'era (nelle forme e consistenza
originariamente possedute dall'edificio).
Si è detto in particolare che anche laddove la disciplina
urbanistica comunale ritenga compatibile con la categoria
del restauro e quella del risanamento l'intervento di
ripristino, è necessario però che le parti originarie da
ricostruirsi siano documentate in modo "incontrovertibile",
nel senso che attraverso elementi oggettivi -caratterizzati
dalla assoluta certezza- deve essere comprovata la
preesistenza di quanto si vuole riedificare.
Se così è, è fuori discussione l'ammissibilità in linea
generale di un intervento di riedificazione di ciò che in
passato è stato (dal punto di vista edilizio) a mezzo,
appunto, della modalità del ripristino diventa dirimente
l'accertamento dell'esistenza incontrovertibile del
precedente manufatto e della sua effettiva consistenza.
Analoghi principi, peraltro, sono predicabili peraltro
allorché ci si voglia rifare alla categoria edilizia della
ristrutturazione, la cui nozione (pur comprendendo la
demolizione e la fedele e integrale ricostruzione: cfr Cons.
Stato, Sez. IV, 28.07.2005, n. 4011; Sez. V, 30.08.2006, n. 5061) impone di assicurare la piena conformità di
volume, sagoma, e superficie tra vecchio e nuovo fabbricato
(in tal senso Cons. Stato Sez. V 07.09.2004 n. 5791).
In sintesi ed in via generale: per ri-edificare si deve
provare che “pregresso” v’era, ed esatta consistenza
del pregresso: in carenza di tale prova non v’è spazio per
il rilascio di provvedimenti ampliativi
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2014 n. 4208 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Più
volte, sin dagli anni Novanta, questo Consiglio ha affermato
che –quando uno strumento urbanistico subordina il rilascio
di un titolo edilizio alla previa approvazione di uno
strumento attuativo– né in sede amministrativa né in sede
giurisdizionale possono essere effettuate indagini sulla
situazione dei luoghi per verificare se l’area sia
urbanizzata.
Una tale regola –già desumibile dalla legge n. 1150 del
1942– è stata espressamente prevista dall’art. 9 del testo
unico sull’edilizia.
E’ dunque in palese contrasto con la legge ogni tesi che
voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del
giudice amministrativo la verifica della situazione dei
luoghi, al fine di escludere la necessità del piano
attuativo, previsto dallo strumento urbanistico e che l’art.
9 del testo unico sull’edilizia ha espressamente qualificato
come presupposto legale per l’edificazione.
---------------
Per definizione la previsione della necessità di un piano di
recupero mira proprio a far sì che tutte le modifiche della
zona in questione si ispirino a criteri omogenei e a una
ordinata modifica dei luoghi, per migliorare la vivibilità
degli abitanti e per evitare che ognuno faccia ciò che
voglia, senza attenersi alle regole volte al miglioramento
dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una
‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione
urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla
emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano
vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine
all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di
completamento della zona.
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che
ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito
derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento
attuativo soltanto nell'ipotesi –per lo più di scuola– in
cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si
tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel
tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni
limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione,
previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può
avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie,
esposto al rischio della compromissione di valori
urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può
ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il
disordine edificativo in atto.
---------------
Fino alla approvazione del piano di recupero è radicalmente
vietato ogni ulteriore consumo di suolo.
Più volte, sin dagli anni Novanta, questo
Consiglio ha affermato che –quando uno strumento
urbanistico subordina il rilascio di un titolo edilizio alla
previa approvazione di uno strumento attuativo– né in sede
amministrativa né in sede giurisdizionale possono essere
effettuate indagini sulla situazione dei luoghi per
verificare se l’area sia urbanizzata.
Una tale regola –già desumibile dalla legge n. 1150 del
1942– è stata espressamente prevista dall’art. 9 del testo
unico sull’edilizia.
E’ dunque in palese contrasto con la legge ogni tesi che
voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del
giudice amministrativo la verifica della situazione dei
luoghi, al fine di escludere la necessità del piano
attuativo, previsto dallo strumento urbanistico e che l’art.
9 del testo unico sull’edilizia ha espressamente qualificato
come presupposto legale per l’edificazione.
Neppure risulta fondata la tesi dell’appellante,
secondo cui rileverebbe nella specie una ‘pressoché completa
edificazione della zona’ addirittura incompatibile con un
piano attuativo.
In primo luogo, per definizione la previsione della
necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che
tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a
criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per
migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che
ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole
volte al miglioramento dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una
‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione
urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla
emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano
vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine
all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di
completamento della zona (cfr., da ultimo, Consiglio di
Stato, sez. IV, 27.04.2012, n. 2470).
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che
ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito
derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento
attuativo soltanto nell'ipotesi –per lo più di scuola– in
cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si
tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel
tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni
limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione,
previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può
avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie,
esposto al rischio della compromissione di valori
urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può
ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il
disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 15.05.2002, n. 2592).
Nella specie, come rilevato, ci si trova in un’area
degradata da organizzare urbanisticamente e qualificare
sotto il profilo ambientale e paesistico, recuperando le
superfici minime previste dal D.M. n. 1144 del 1968, e che
va assoggettata ad un piano di recupero, con obbligo di
riqualificare l’intera superficie nei termini anzidetti,
obbligo che non può che essere attuato con uno specifico
piano di recupero, attuativo del P.R.G.
In tali aree, il piano di recupero si pone a presidio dello
sviluppo programmato di aree ancora edificabili nell’ambito
di zone degradate e non assolve la sola funzione di recupero
edilizio di compendi immobiliari fatiscenti.
In altri termini, fino alla approvazione del piano di
recupero è radicalmente vietato ogni ulteriore consumo di
suolo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.08.2014 n. 4133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazioni, meno rischi.
Ridurre la volumetria non fa scattare l'illecito edilizio.
Tar Napoli: i parametri preesistenti costituiscono lo
standard massimo di edificabilità.
Non siamo in presenza di un abuso edilizio quando in caso di
ristrutturazione edilizia di un immobile si riducono i
volumi preesistenti. La volumetria preesistente costituisce
lo standard massimo di edificabilità in sede di
ricostruzione, nel senso che sussiste la possibilità di
utilizzare la preesistente volumetria soltanto in parte in
sede di ricostruzione, essendone precluso soltanto un
aumento. Cosa questa desumibile dalle modifiche della
normativa di riferimento (l'art. 3 dpr 380/2001) intervenute
nel tempo, posto che si è passati dalla necessità di una
«fedele ricostruzione» a una ricostruzione «con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente», e oggi alla
«demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica». Con evidente
intento del legislatore di impedire soltanto aumenti della
complessiva cubatura degli edifici esistenti, ma non
diminuzioni della stessa.
Il principio è stato espresso dal
TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la
sentenza 25.07.2014 n. 4265.
Per effetto di tale pronuncia, d'ora in poi ristrutturare un
edificio con volumi inferiori rispetto a quelli preesistenti
non fa incorre nell'abuso edilizio.
Ai fini della conformità urbanistica della ristrutturazione
edilizia, laddove realizzata mediante ricostruzione
dell'edificio demolito e il mantenimento di tutti i
parametri urbanistico edilizi preesistenti quali la
volumetria, la sagoma, l'area di sedime e il numero delle
unità immobiliari, il parametro di riferimento è
rappresentato dalla disciplina vigente all'epoca della
realizzazione del manufatto come attestata dal titolo
edilizio e non da quella sopravvenuta al momento della
esecuzione dei lavori di ristrutturazione dovendosi fare
salvo, in capo all'interessato, il diritto acquisito al
mantenimento, conservazione e ristrutturazione dell'immobile
esistente giacché la legittimazione urbanistica del
manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito.
Evoluzione della definizione. La recente legislazione
statale ha modificato in più occasioni la definizione di
«ristrutturazione edilizia». In particolare la modalità
della demolizione e ricostruzione (che costituisce una
specie di ristrutturazione edilizia) è stata
progressivamente ampliata.
Infatti, dapprima la ricostruzione era rigidamente ammessa
(in quanto vincolata alla fedele riproposizione
dell'edificio preesistente identico nella sagoma, nel
volume, nell'area di sedime e nelle caratteristiche dei
materiali) e ora, dopo il dl 69/2013, si è giunti a
qualificare nella ristrutturazione edilizia anche la
ricostruzione del fabbricato con la stessa volumetria di
quello demolito. Sono stati quindi progressivamente superati
i limiti che circoscrivevano l'ambito di applicazione della
modalità di intervento in oggetto, ad eccezione del volume
che è l'unico requisito da osservare nell'intervento
ricostruttivo.
La rivisitazione. Con la legge
09.08.2013, n. 98, di
conversione del dl 21.06.2013, n. 69 («decreto del
Fare»), in vigore dal 21.08.2013, è stata rivisitata la
definizione di «ristrutturazione edilizia» contenuta nel
Testo unico edilizia eliminando all'art. 3, comma 1, lett.
d), del dpr 380/2001 il riferimento alla «sagoma».
Dal 21.08.2013, quindi, sono compresi tra gli interventi
di ristrutturazione edilizia anche quelli che consistono
nella demolizione e ricostruzione di un immobile con la
stessa volumetria di quello precedente, senza che sia
necessario rispettarne la sagoma. Sono compresi nella
ristrutturazione anche gli interventi «volti al ripristino
degli edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o
demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia
possibile accertarne la preesistente consistenza».
Ciò premesso, dal 21.08.2013, qualora l'intervento abbia
le caratteristiche per configurarsi come ristrutturazione
edilizia (ossia l'immobile non sia soggetto a vincolo ai
sensi del dlgs 42/2004 e facendo attenzione, nelle zone
omogenee A di cui al decreto del Ministro del lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e in quelle equipollenti,
secondo l'eventuale diversa denominazione adottata dalle
leggi regionali, alla perimetrazione prevista dal comma 4
dell'art. 23-bis del Testo unico), si ritengono agevolabili
ai sensi delle detrazioni gli interventi che consistono
nella demolizione di un immobile e nella sua ricostruzione
mantenendone la volumetria originaria.
La riduzione dei volumi preesistenti. La normativa sulla
ricostruzione degli edifici è volta a incentivare il
miglioramento e la riqualificazione del patrimonio edilizio
esistente.
Il termine «stessa volumetria» rappresenta il limite non
superabile nell'intervento ricostruttivo, e che pertanto
l'identità del volume non è la caratteristica necessaria
dell'intervento ricostruttivo affinché lo stesso rientri
nella ristrutturazione edilizia.
L' interpretazione secondo cui la ricostruzione di un
edificio con una cubatura ridotta rispetto a quella
preesistente può essere ricondotta nella ristrutturazione
edilizia deriva dalle seguenti considerazioni: l'intervento
di ricostruzione con volume ridotto riguarda edifici
esistenti e dunque non interviene su aree inedificate, ma su
aree dove la trasformazione era già avvenuta con
l'edificazione demolita e la possibilità di realizzare una
cubatura inferiore a quella demolita non muta le
caratteristiche fondamentali dell'intervento di
ristrutturazione, i cui lavori sistematici possono portare a
un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza anche di questo Tribunale è consolidata
nel porre a
carico del ricorrente (in materia di abusivismo edilizio) l’onere della prova circa il periodo
di realizzazione del manufatto, in modo ragionevolmente
certo, non potendo l’autorità comunale verificare la data di
realizzazione, sul proprio territorio, di tutti gli immobili
ivi realizzati.
Tale onere deve essere assolto mediante riscontri
documentali, eventualmente anche indiziari (quali fatture,
utenze, ecc.) purché idonei a comprovare la ragionevole
certezza circa l’epoca di realizzazione dell’opera, non
essendo sufficiente la semplice produzione in giudizio di
una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, anche se
proveniente da un terzo, la quale non può in alcun modo
assurgere al rango di prova neppur presuntiva, sull'epoca di
realizzazione dell'abuso.
Nel caso di specie il ricorrente, indicando quale principale
rectius unico elemento di prova la dichiarazione sostitutiva
di atto di notorietà del 25.12.2011 effettuata dal sig.
R.A., suo dante causa -per altro avente sicuro interesse
alla decisione del giudizio- non fornisce elementi utili al
riguardo; del tutto generica se non assertiva è poi la
indicazione della tipologia e delle modalità realizzative,
dei materiali impiegati e dello stato di conservazione,
tutti elementi -per altro non supportati da documentazione
fotografica- parimenti privi di valore probatorio.
In definitiva, il periodo di realizzazione delle opere
asseritamente abusive è dunque elemento fattuale rientrante
nella disponibilità della parte che invoca la non necessità
della preventiva autorizzazione edilizia, non essendo
l’Amministrazione comunale in grado di verificare la data di
realizzazione, sul proprio territorio, di tutti gli immobili
ivi realizzati.
Non può pertanto dirsi provata la circostanza, meramente
assertiva, in merito alla presunta realizzazione del
manufatto da parte del precedente proprietario
dell’appartamento nell’anno 1956 o in periodo antecedente
l’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765, con
conseguente infondatezza di tutte le doglianze mosse al I
motivo di gravame, poiché presupposto per il consolidamento
di una posizione di affidamento qualificato e tutelabile è
proprio la prova del periodo di realizzazione dell’abuso
stesso.
E’ materia del contendere la legittimità del
provvedimento emesso il 13.06.2012 con il quale il
Comune di Terni ha ordinato al ricorrente la rimozione di
opere abusive consistenti in ampliamento di un garage per
circa mq 7,20, su area di pertinenza condominiale,
pacificamente realizzate dal precedente proprietario e dante
causa del Makaj.
Deve premettersi che le opere oggetto dell’impugnata
ordinanza di demolizione, per caratteristiche e dimensioni,
debbano ritenersi oggi sottoposte al permesso a costruire ai
sensi degli artt. 3, c. 1, lett. e), e 10 d.P.R. 06.06.2001
n. 380 (e a concessione edilizia quanto al regime prendente)
in quanto suscettibili di arrecare una sensibile
trasformazione del territorio, trattandosi di ampliamento di
circa mq. 7,20 per una maggiore volumetria di 21,50 mc..
Dalla documentazione depositata in giudizio e dalla prospettazione delle parti emerge la sostanziale estraneità
del ricorrente alla realizzazione del descritto ampliamento
abusivo, posto in essere comunque sicuramente prima
dell’acquisto dell’appartamento e dell’annessa autorimessa,
avvenuto nel 2009, anche se risulta del tutto incerto il
periodo di realizzazione.
La giurisprudenza anche di questo Tribunale è consolidata
(TAR Umbria 18.08.2009, n. 492; id. 18.03.2008,
n. 102; id. 13.05.2013, n. 293; id. 01.07.2013 n. 346;
30.08.2013, n. 461) nel porre in subiecta materia a
carico del ricorrente l’onere della prova circa il periodo
di realizzazione del manufatto, in modo ragionevolmente
certo, non potendo l’autorità comunale verificare la data di
realizzazione, sul proprio territorio, di tutti gli immobili
ivi realizzati.
Nel caso di specie, risulta carente di riscontri l’asserita
realizzazione dell’opera nel 1956 o comunque nel periodo
antecedente l’entrata in vigore della legge n. 765/1967, non
allegando il ricorrente al riguardo alcun riferimento
documentale diretto od indiretto, e/o considerazioni
oggettive in merito alle tipologie e modalità realizzative,
ai materiali impiegati, allo stato di conservazione ecc..
Tale onere deve essere assolto mediante riscontri
documentali, eventualmente anche indiziari (quali fatture,
utenze, ecc.) purché idonei a comprovare la ragionevole
certezza circa l’epoca di realizzazione dell’opera, non
essendo sufficiente la semplice produzione in giudizio di
una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, anche se
proveniente da un terzo, la quale non può in alcun modo
assurgere al rango di prova neppur presuntiva, sull'epoca di
realizzazione dell'abuso (ex multis TAR Liguria sez. I,
04.12.2012, n. 1565; TAR Toscana sez. III, 16.05.2012, n. 940; TAR Umbria 13.03.2014, n.153).
Nel caso
di specie il ricorrente, indicando quale principale rectius
unico elemento di prova la dichiarazione sostitutiva di atto
di notorietà del 25.12.2011 effettuata dal sig. Ricci
Adolfo, suo dante causa -per altro avente sicuro interesse
alla decisione del giudizio- non fornisce elementi utili al
riguardo; del tutto generica se non assertiva è poi la
indicazione della tipologia e delle modalità realizzative,
dei materiali impiegati e dello stato di conservazione,
tutti elementi -per altro non supportati da documentazione
fotografica- parimenti privi di valore probatorio.
In definitiva, il periodo di realizzazione delle opere
asseritamente abusive è dunque elemento fattuale rientrante
nella disponibilità della parte che invoca la non necessità
della preventiva autorizzazione edilizia, non essendo
l’Amministrazione comunale in grado di verificare la data di
realizzazione, sul proprio territorio, di tutti gli immobili
ivi realizzati.
Non può pertanto dirsi provata la circostanza,
meramente assertiva, in merito alla presunta realizzazione
del manufatto da parte del precedente proprietario
dell’appartamento nell’anno 1956 o in periodo antecedente
l’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765, con
conseguente infondatezza di tutte le doglianze mosse al I
motivo di gravame, poiché presupposto per il consolidamento
di una posizione di affidamento qualificato e tutelabile è
proprio la prova del periodo di realizzazione dell’abuso
stesso (ex multis TAR Umbria 13.05.2013, n. 293)
(TAR Umbria,
sentenza 25.07.2014 n. 419 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 31, c. 2, del vigente testo unico edilizia
include anche il proprietario tra i destinatari dell’ordine
di ripristino, oltre naturalmente al responsabile
dell’abuso, fornendo un robusto appiglio letterale a
supporto della tesi, peraltro decisamente tutt’ora
prevalente, dell’irrilevanza dell’elemento soggettivo.
---------------
Deve confermarsi come a differenza della sanzione
amministrativa che per finalità di prevenzione generale
e speciale è indirizzata a punire il responsabile della
violazione di un precetto, a prescindere dalla sussistenza
di un danno, la misura ripristinatoria edilizia ha
invece ad oggetto la “res” allo scopo di ripristinare
l’equilibrio di carattere urbanistico alterato dalla
violazione. Ciò comporta, tra l’altro, anche
l’inapplicabilità dei principi di cui alla legge generale
sul potere sanzionatorio amministrativo (L. n. 689/1981) ivi
compreso il principio di personalità.
Giova evidenziare al riguardo come la stessa Consulta nel
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, c. 3,
della legge 47/1985, abbia riconosciuto come insita nel
sistema la funzione ripristinatoria dell’ordine di
demolizione dell’opera abusiva, pur escludendo nei confronti
del terzo incolpevole la sola ulteriore conseguenza, di per
sé invece sanzionatoria, dell’acquisizione gratuita
dell’area di sedime. Non a caso, il comma terzo dell’art. 31
del T.U. edilizia, diversamente dal comma secondo, considera
esclusivamente il responsabile dell’abuso ai soli fini
dell’eventuale acquisizione dell’area di sedime in ipotesi
di inosservanza dell’ordine di demolizione, senza introdurre
come vorrebbe il ricorrente alcun principio di
responsabilità personale.
Va pertanto ribadito il criterio dell’indifferenza ai fini
dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia
dell’elemento soggettivo della colpa, potendo
l’Amministrazione procedere all’adozione della misura
demolitoria (priva di contenuto sanzionatorio) anche nei
confronti del proprietario attuale non autore dell’abuso e
ad esso completamente estraneo, fermo naturalmente restando
nei rapporti civilistici l’esperimento di azione
risarcitoria nei confronti del dante causa.
Non merita
condivisione neppure la doglianza di cui al II motivo,
secondo cui ai sensi dell’art. 5, c. 1, della L.R. 21/2001 e
31, c. 3, del d.P.R. 380/2001, sarebbe illegittima
l’emanazione dell’ordinanza di demolizione nei confronti del
ricorrente, non responsabile dell’abuso, per l’invocata
necessità, in buona sostanza, di un principio di personalità
della sanzione edilizia.
In relazione alla individuazione dei soggetti
responsabili delle sanzioni in materia edilizia con
particolare riferimento alla persona del proprietario
attuale non coincidente con l’autore dell’abuso, deve
rilevarsi l’esistenza di obiettivo contrasto
giurisprudenziale, dal momento che secondo la tesi
prevalente (richiamata dalla difesa comunale) l’elemento
della colpa sarebbe irrilevante stante il carattere ripristinatorio e non già sanzionatorio (ex multis TAR
Campania-Napoli, sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; Consiglio
di Stato sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Puglia-Bari sez. II, 28.02.2012, n. 450; TAR Lazio-Roma
sez. I-quater, 26.03.2012, n. 2830); secondo altra tesi vi
sarebbe invece una presunzione di responsabilità (TAR
Veneto sez. II, 13.03.2008, n. 605; TAR Sicilia-Palermo
sez. III, 21.02.2006, n. 426) mentre secondo ulteriore
opzione ermeneutica, la responsabilità del proprietario non
potrebbe mai prescindere dall’accertamento in concreto del
relativo contributo colposo alla realizzazione dell’abuso
(TAR Emilia Romagna-Bologna 12.07.2007, n. 685; TAR Liguria sez. I,
05.07.2011, n. 1051).
La difesa della ricorrente, a supporto della succitata
ultima tesi, invoca tra l’altro recente pronuncia del
Consiglio di Stato (sez. V, 15.07.2013, n. 3847) la
quale pur ribadendo l’insussistenza di affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva che il mero trascorrere del tempo non può
legittimare, ritiene -in sintesi- che in ipotesi di
attivazione del potere repressivo a distanza di molto tempo
nei confronti degli acquirenti ignari del carattere abusivo,
debba imporsi a carico dell’Amministrazione uno specifico
onere motivazionale quale contrappeso alla
imprescrittibilità dell’esercizio del potere repressivo.
Non ritiene il Collegio di poter condividere le pur
argomentate e pregevoli considerazioni della difesa del
ricorrente, sotto più profili.
Va evidenziato anzitutto come l’art. 31, c. 2, del
vigente testo unico edilizia includa anche il proprietario
tra i destinatari dell’ordine di ripristino, oltre
naturalmente al responsabile dell’abuso, fornendo un robusto
appiglio letterale a supporto della tesi, peraltro
decisamente tutt’ora prevalente, dell’irrilevanza
dell’elemento soggettivo (TAR Puglia-Lecce, sez. III, 03.09.2008, n. 2247).
In secondo luogo, difetta nel caso di specie proprio
l’elemento temporale del lungo lasso di tempo trascorso,
essendo -come detto- incerto il periodo di realizzazione
dell’opera abusiva.
Da ultimo, deve confermarsi come a differenza della
sanzione amministrativa che per finalità di prevenzione
generale e speciale è indirizzata a punire il responsabile
della violazione di un precetto, a prescindere dalla
sussistenza di un danno, la misura ripristinatoria edilizia
ha invece ad oggetto la “res” allo scopo di ripristinare
l’equilibrio di carattere urbanistico alterato dalla
violazione. Ciò comporta, tra l’altro, anche
l’inapplicabilità dei principi di cui alla legge generale
sul potere sanzionatorio amministrativo (L. n. 689/1981) ivi
compreso il principio di personalità.
Giova evidenziare al
riguardo come la stessa Consulta (sent. 15.07.1991,
n. 345) nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
7, c. 3, della legge 47/1985, abbia riconosciuto come insita
nel sistema la funzione ripristinatoria dell’ordine di
demolizione dell’opera abusiva, pur escludendo nei confronti
del terzo incolpevole la sola ulteriore conseguenza, di per
sé invece sanzionatoria, dell’acquisizione gratuita
dell’area di sedime. Non a caso, il comma terzo dell’art. 31
del T.U. edilizia, diversamente dal comma secondo, considera
esclusivamente il responsabile dell’abuso ai soli fini
dell’eventuale acquisizione dell’area di sedime in ipotesi
di inosservanza dell’ordine di demolizione, senza introdurre
come vorrebbe il ricorrente alcun principio di
responsabilità personale.
Va pertanto ribadito il criterio dell’indifferenza ai
fini dell’esercizio del potere repressivo in materia
edilizia dell’elemento soggettivo della colpa, potendo
l’Amministrazione procedere all’adozione della misura demolitoria (priva di contenuto sanzionatorio) anche nei
confronti del proprietario attuale non autore dell’abuso e
ad esso completamente estraneo, fermo naturalmente restando
nei rapporti civilistici l’esperimento di azione
risarcitoria nei confronti del dante causa (TAR Campania-Salerno, sez. II,
08.11.2004, n. 1985) (TAR Umbria,
sentenza 25.07.2014 n. 419 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il novero dei soggetti legittimati al rilascio
del titolo in sanatoria risulta più ampio rispetto a quanto
concerne il rilascio dell’ordinario titolo abilitativo
edilizio, laddove secondo il prevalente orientamento della
giurisprudenza, occorre la titolarità del diritto di
proprietà, ovvero di altro diritto reale o anche
obbligatorio a condizione del riconoscimento della
disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della
relativa potestà edificatoria.
Il regime, infatti, della concessione edilizia è del tutto
diversificato, quanto a presupposti ed elementi propri, da
quello della sanatoria. L’affermazione è consapevolmente
recepita da parte della giurisprudenza in riferimento alla
sanatoria c.d. impropria di cui all’art. art. 13 della legge
n. 47/1985 secondo cui la dichiarazione di conformità
disciplinata dalla norma prevede che la sanatoria ivi
disciplinata sia accordata al "responsabile dell'abuso"; la
norma, quindi, a differenza di quanto previsto dall'art. 4
della legge n. 10 del 1977 non trova applicazione solo in
presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro
titolare di diritto reale in quanto l'abuso sia al medesimo
ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata da
colui che, dell'abuso, è comunque responsabile in quanto,
sanato l'abuso, non potrebbe essere più chiamato a
rispondere sul piano sanzionatorio penale e/o
amministrativo.
Va pertanto affermato che legittimati all’istanza di
accertamento di conformità (così come di condono edilizio ex
L. n. 724/1994) sono oltre coloro che hanno titolo a
richiedere la concessione edilizia/permesso di costruire,
anche il promissario acquirente o il conduttore e, più in
generale, tutti coloro che vi abbiano interesse, senza il
necessario consenso ed anche, al limite, contro la volontà
del proprietario del bene.
Nel caso di specie il ricorrente, quale comproprietario
dell’area condominiale, a prescindere dal consenso degli
altri condomini, vanta indubbio interesse ad ottenere
l’accertamento di conformità, al fine di paralizzare
l’esercizio del potere repressivo, trattandosi di opera,
secondo quanto emerso in giudizio, del tutto sanabile.
Per i suesposti motivi il
ricorso è infondato e va respinto, fermo restando la facoltà
del ricorrente anche ai fini di conformare la successiva
attività comunale, di presentare la preannunciata istanza di
accertamento di conformità, pur insistendo le opere abusive
su sedime di proprietà condominiale.
Infatti, osserva incidentalmente il Collegio che il
novero dei soggetti legittimati al rilascio del titolo in
sanatoria risulta più ampio rispetto a quanto concerne il
rilascio dell’ordinario titolo abilitativo edilizio, laddove
secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza,
occorre la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di
altro diritto reale o anche obbligatorio a condizione del
riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del
bene nonché della relativa potestà edificatoria (Consiglio
di Stato sez. V, 28.05.2001 n. 2881; TAR Emilia Romagna-Bologna 21.02.2007, n. 53, TAR Lombardia Milano,
sez II, 31.03.2010, n. 842).
Il regime, infatti, della concessione edilizia è del tutto
diversificato, quanto a presupposti ed elementi propri, da
quello della sanatoria. L’affermazione è consapevolmente
recepita da parte della giurisprudenza (TAR Campania
Napoli sez VIII, 14.01.2011, n. 196) in riferimento alla
sanatoria c.d. impropria di cui all’art. 13 della legge
n. 47/1985 secondo cui la dichiarazione di conformità
disciplinata dalla norma prevede che la sanatoria ivi
disciplinata sia accordata al "responsabile dell'abuso"; la
norma, quindi, a differenza di quanto previsto dall'art. 4
della legge n. 10 del 1977 non trova applicazione solo in
presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro
titolare di diritto reale in quanto l'abuso sia al medesimo
ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata da
colui che, dell'abuso, è comunque responsabile in quanto,
sanato l'abuso, non potrebbe essere più chiamato a
rispondere sul piano sanzionatorio penale e/o
amministrativo.
Va pertanto affermato che legittimati all’istanza di
accertamento di conformità (così come di condono edilizio ex
L. n. 724/1994) sono oltre coloro che hanno titolo a
richiedere la concessione edilizia/permesso di costruire,
anche il promissario acquirente o il conduttore (Corte di
Appello Firenze sez II, 04.05.2010 n. 594; TAR Puglia-Bari
09.07.2011, n. 1057) e più in generale tutti coloro che vi
abbiano interesse, senza il necessario consenso ed anche, al
limite, contro la volontà del proprietario del bene.
Nel
caso di specie il ricorrente, quale comproprietario
dell’area condominiale, a prescindere dal consenso degli
altri condomini, vanta indubbio interesse ad ottenere
l’accertamento di conformità, al fine di paralizzare
l’esercizio del potere repressivo, trattandosi di opera,
secondo quanto emerso in giudizio, del tutto sanabile
(TAR Umbria,
sentenza 25.07.2014 n. 419 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
valutazione in ordine alla necessità della concessione
edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va
effettuata sulla scorta dei seguenti due
parametri: natura e dimensioni delle opere e loro
destinazione e funzione.
Pertanto se per la posa in opera di una semplice recinzione
con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, o
per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie
non è necessaria alcuna richiesta di provvedimento
concessorio, per la realizzazione di una recinzione in
muratura (come quella in questione che è peraltro
sovrapposto da barriere metalliche e munita di cancello
d'accesso) è necessario il permesso di costruire, incidendo
l’opera in modo permanente e non precario sull'assetto
edilizio del territorio.
Infine, quanto al muretto di cinta frontale
sovrapposto da barriere metalliche, al cancello d'accesso, e
al muro divisorio centrale, sempre stante quanto indicato,
il Collegio aderisce a quell’orientamento giurisprudenziale
secondo cui opere simili necessitano del permesso di
costruire.
In particolare, la giurisprudenza cui ci si richiama afferma
che la valutazione in ordine alla necessità della
concessione edilizia per la realizzazione di opere di
recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due
parametri: natura e dimensioni delle opere e loro
destinazione e funzione (TAR Lazio Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968).
Pertanto se per la posa in opera di una semplice recinzione
con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, o
per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie
non è necessaria alcuna richiesta di provvedimento
concessorio (TAR Campania Napoli, sez. IV, 08.05.2007, n. 4821; TAR Lazio Roma, sez. II,
05.11.2004, n.
12554; TAR Puglia Lecce, sez. I, 23.09.2003, n.
6196), per la realizzazione di una recinzione in muratura
(come quella in questione che è peraltro sovrapposto da
barriere metalliche e munita di cancello d'accesso) è
necessario il permesso di costruire, incidendo l’opera in
modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del
territorio (TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n.
897; TAR Liguria Genova, Sez. I, 11.09.2002, n. 961)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4205 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esistenza di un sequestro penale sul manufatto
abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di
ripristino dello stato dei luoghi non determina la
sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso
comporta, in caso di inottemperanza, l'acquisizione gratuita
di diritto al patrimonio del comune (ex art. 31 d.P.R.
06.06.2001, n. 380 - T.U. Edilizia), non rientrando il
sequestro tra gli impedimenti assoluti che non consentano di
dare esecuzione all'ingiunzione.
Ciò dal momento che è possibile motivatamente domandare
all’autorità giudiziaria il dissequestro dell’immobile
proprio al fine di ottemperare all’ingiunzione a demolire e
costituisce onere del responsabile dell’abuso motivatamente
domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro
dell'immobile.
Nel caso in cui, pertanto, come nel caso di specie, il
soggetto obbligato neppure dimostri di aver richiesto il
dissequestro del bene allo scopo di demolirlo, non può
successivamente far valere la circostanza del sequestro
quale causa di forza maggiore impeditiva della demolizione.
---------------
il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di
opere abusivamente realizzate ha come unico presupposto
l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione, con
la conseguenza che, trattandosi atto dovuto, non è
subordinato ad alcuna valutazione sulla compatibilità delle
opere con gli interessi urbanistici e ambientali e
sull'utilizzabilità delle stesse a fini pubblici e risulta
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata
inottemperanza all'ordine di demolizione.
In materia di abusivismo edilizio l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'immobile abusivo non rappresenta un
atto provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura
di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente
all'inottemperanza dell'ordine di demolizione. In senso
ostativo all'acquisizione non può assumere quindi rilevanza
né il tempo trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né
l'affidamento eventualmente riposto dall'interessato sulla
legittimità delle opere realizzare, né l'assenza di
motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico
perseguite attraverso l'acquisizione.
---------------
Ad avviso del Collegio l’esatta individuazione delle opere
abusive e delle aree di sedime non appare soddisfatta con
questo tipo di descrizione. L’individuazione non può essere
limitata alla descrizione ma deve essere accompagnata
dall’attribuzione di precisi riferimenti catastali previo,
se del caso, specifici frazionamenti.
Non si deve dimenticare che l’atto di acquisizione gravato è
in sostanza l’atto di formale accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (che non deve
essere confuso con il mero verbale di constatazione di
inadempienza, avente carattere endoprocedimentale e
dichiarativo delle operazioni effettuate durante l’accesso
ai luoghi), che facendo riferimento all'esito del verbale di
constatazione costituisce il titolo ricognitivo idoneo
all'acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio
comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate.
L’atto gravato costituisce quindi titolo per l'immissione in
possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri
immobiliari.
Ora se la mera descrizione delle opere senza l’esatta
individuazione sul terreno a mezzo di precisi e specifici
riferimenti catastali può essere sufficiente per
l’immissione nel possesso, sicuramente non lo è ai fini
della trascrizione alla Conservatoria dei registri
immobiliari che necessita di specifici riferimenti, in
assenza dei quali la trascrizione verrà fatta, come nel caso
specifico è stata fatta, sull’intera particella su cui
insistono le aree di sedime da acquisire.
Entro questi limiti quindi il provvedimento gravato si
presenta quale illegittimo nel senso che non specifica i
precisi riferimenti catastali delle aree da acquisire,
facendo riferimento alle intere particella su cui insistono
dette aree.
---------------
Il provvedimento che dispone l'acquisizione gratuita al
patrimonio del Comune del manufatto abusivo non deve essere
preceduto dall'avviso dell'inizio del procedimento, sia
perché quest'ultimo consegue, come atto dovuto,
all'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a
demolire, sia perché nel sistema sanzionatorio in materia di
abusivismo edilizio la contestazione assolve pienamente alle
esigenze cui è preordinata la comunicazione di avvio del
procedimento, presentandosi l’acquisizione come atto
meramente consequenziale all’inottemperanza dell’ordine di
demolizione.
In ogni caso, poi, il Collegio riterrebbe comunque
applicabile il disposto dell’art. 21-octies della legge n.
241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito
provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto
dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Del pari destituita di
fondamento giuridico è la censura dedotta con il secondo
motivo di ricorso per motivi aggiunti, relativa alla
circostanza che l’immobile era sotto sequestro penale e,
pertanto, le parti ricorrenti erano impossibilitati ad
adempiere alla diffida di riduzione in pristino.
Al riguardo è sufficiente evidenziare che l'esistenza di un
sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di
ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello
stato dei luoghi non determina la sospensione del termine di
novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di
inottemperanza, l'acquisizione gratuita di diritto al
patrimonio del comune (ex art. 31 d.P.R. 06.06.2001, n.
380 - T.U. Edilizia), non rientrando il sequestro tra gli
impedimenti assoluti che non consentano di dare esecuzione
all'ingiunzione (Cons. Stato Sez. VI, 09.07.2013, n. 3626;
TAR Emilia-Romagna, sez. I, n. 284/2012).
Ciò dal momento che è possibile motivatamente domandare
all’autorità giudiziaria il dissequestro dell’immobile
proprio al fine di ottemperare all’ingiunzione a demolire e
costituisce onere del responsabile dell’abuso motivatamente
domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro
dell'immobile.
Nel caso in cui, pertanto, come nel caso di specie, il
soggetto obbligato neppure dimostri di aver richiesto il
dissequestro del bene allo scopo di demolirlo, non può
successivamente far valere la circostanza del sequestro
quale causa di forza maggiore impeditiva della demolizione
(TAR Campania sez. III, sent. 6792/2007).
---------------
Infondato è anche il
quarto motivo del ricorso per motivi aggiunti incentrato
sulla carenza di istruttoria e di motivazione, in quanto
risulterebbe essere stata omessa la valutazione della
suscettibilità delle opere e dell’area ad essere utilizzate
a fini pubblici. Inoltre, sempre secondo le parti
ricorrenti, il provvedimento di acquisizione non avrebbe
valutato la portata pregiudizievole per gli interessi
urbanisti ed edilizi.
Al riguardo il Collegio ritiene sia sufficiente rilevare che
il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di
opere abusivamente realizzate ha come unico presupposto
l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione, con
la conseguenza che, trattandosi atto dovuto, non è
subordinato ad alcuna valutazione sulla compatibilità delle
opere con gli interessi urbanistici e ambientali e
sull'utilizzabilità delle stesse a fini pubblici e risulta
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata
inottemperanza all'ordine di demolizione (TAR Campania
Napoli Sez. IV, 12.05.2006, n. 4179; TAR Campania, Sez. IV, Napoli, 17.06.2002, n. 3620).
In materia di abusivismo edilizio l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'immobile abusivo non rappresenta un
atto provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura
di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente
all'inottemperanza dell'ordine di demolizione. In senso
ostativo all'acquisizione non può assumere quindi rilevanza
né il tempo trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né
l'affidamento eventualmente riposto dall'interessato sulla
legittimità delle opere realizzare, né l'assenza di
motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico
perseguite attraverso l'acquisizione (Cons. Stato Sez. VI,
08.02.2013, n. 718; TAR Campania-Napoli, sez. II, n.
588/2012).
---------------
Nel quinto motivo del
ricorso per motivi aggiunti le parti ricorrenti hanno
dedotto che sarebbe assente nel provvedimento l’esatta perimetrazione dell’area in contestazione, “così
precludendosi la compiuta identificazione della res colpita
dall’atto espropriativo”.
In sostanza non risulterebbero ben identificati i beni e le
aree acquisite, anche ai fini dell’immissione in possesso e
della trascrizione del bene acquisito.
I motivo di ricorso è fondato nei termini e limiti che
seguono.
I comma 3 e 4 del D.P.R. n. 380/2001 dispongono: “3. Se il
responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque
essere superiore a dieci volte la complessiva superficie
utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al precedente comma 3, previa
notifica all'interessato, costituisce titolo per
l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.
Nel caso in esame l’acquisizione è intervenuta solo per le
opere abusive e per le relative aree di sedime, e non ha
riguardato l'ulteriore area necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive.
L’acquisizione dell'area di sedime discende in via
automatica e “ope legis” dall‘inottemperanza all'ordine di
demolizione, tanto è che, a differenza rispetto
all'acquisizione dell'ulteriore area, non è necessaria una
motivazione sull’identificazione delle aree acquisite,
essendo solo necessario che siano esattamente individuate ed
elencate le opere (Cons. Stato, Sez. V, 17.06.2014 n.
3097).
Nel caso di specie le opere abusive e, conseguentemente,
l’area di sedime sono state descritte sia nel provvedimento
di demolizione che nell’atto di acquisizione.
Viene altresì indicato che le stesse ricadono nelle
particelle -OMISSIS- non esaurendone però l’intera
estensione.
L’acquisizione non può quindi essere relativa all’intera
particella ma solo alle aree di sedime delle opere abusive.
Conformemente a ciò l’atto gravato indica testualmente nella
parte dispositiva “l’acquisizione gratuita al patrimonio
dell’opera abusiva e della sua" -OMISSIS-
Non le intere particelle vengono acquisite ma solo le opere
ed aree di sedime ricadenti in tali particelle, che però non
vengono specificamente identificate con precisi dati
catastali.
Ora ad avviso del Collegio l’esatta individuazione delle
opere abusive e delle aree di sedime non appare soddisfatta
con questo tipo di descrizione. L’individuazione non può
essere limitata alla descrizione ma deve essere accompagnata
dall’attribuzione di precisi riferimenti catastali previo,
se del caso, specifici frazionamenti.
Non si deve dimenticare che l’atto di acquisizione gravato è
in sostanza l’atto di formale accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (che non deve
essere confuso con il mero verbale di constatazione di
inadempienza, avente carattere endoprocedimentale e
dichiarativo delle operazioni effettuate durante l’accesso
ai luoghi), che facendo riferimento all'esito del verbale di
constatazione costituisce il titolo ricognitivo idoneo
all'acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio
comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate (Cons.
Stato, Sez. V, 17.06.2014 n. 3097).
L’atto gravato costituisce quindi titolo per l'immissione in
possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri
immobiliari (Cons. Stato, sez. V, 06.09.1999, n.
1015).
Ora se la mera descrizione delle opere senza l’esatta
individuazione sul terreno a mezzo di precisi e specifici
riferimenti catastali può essere sufficiente per
l’immissione nel possesso, sicuramente non lo è ai fini
della trascrizione alla Conservatoria dei registri
immobiliari che necessita di specifici riferimenti, in
assenza dei quali la trascrizione verrà fatta, come nel caso
specifico è stata fatta, sull’intera particella su cui
insistono le aree di sedime da acquisire.
Entro questi limiti quindi il provvedimento gravato si
presenta quale illegittimo nel senso che non specifica i
precisi riferimenti catastali delle aree da acquisire,
facendo riferimento alle intere particella su cui insistono
dette aree.
---------------
Con il settimo motivo di
ricorso per motivi aggiunti le parti ricorrenti hanno
lamentato la violazione art. 7 legge n. 241/1990, per l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento di acquisizione.
Il motivo è infondato in quanto la comunicazione di avvio
del procedimento non era necessaria.
Il provvedimento che dispone l'acquisizione gratuita al
patrimonio del Comune del manufatto abusivo, difatti, non
deve essere preceduto dall'avviso dell'inizio del
procedimento, sia perché quest'ultimo consegue, come atto
dovuto, all'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione
a demolire, sia perché nel sistema sanzionatorio in materia
di abusivismo edilizio la contestazione assolve pienamente
alle esigenze cui è preordinata la comunicazione di avvio
del procedimento,
presentandosi l’acquisizione come atto meramente
consequenziale all’inottemperanza dell’ordine di demolizione
(TAR Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, 13.12.2006, n.
807).
In ogni caso poi, in considerazione delle espresse ragioni
di rigetto degli altri motivi di ricorso, il Collegio
riterrebbe comunque applicabile il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in
ambito provvedimentale vincolato e risultando che il
contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4205 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è pacificamente orientata nel ritenere che
per l'ordinanza di demolizione non sussiste alcun obbligo
della P.A. di comunicare l'avvio del procedimento, essendo
questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per il
quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del
privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, stante
la natura dell’atto.
---------------
L'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può
legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile dell'abuso, in
considerazione del fatto che l'abuso edilizio costituisce un
illecito permanente e che l'adozione dell'ordinanza, di
carattere ripristinatorio, non richiede l'accertamento del
dolo o della colpa del soggetto interessato.
Pertanto, non si prevede l'accertamento del dolo o della
colpa del soggetto cui s'imputa la trasgressione e
l'Amministrazione non è tenuta a svolgere alcun tipo di
indagine circa la responsabilità delle opere, in quanto
quest'ultima rappresenta un elemento del tutto irrilevante
ai fini della legittimità del provvedimento impugnato.
Contrariamente a quanto sostenuto
nel ricorso, la giurisprudenza è pacificamente orientata nel
ritenere che per l'ordinanza di demolizione non sussiste
alcun obbligo della P.A. di comunicare l'avvio del
procedimento, essendo questa un atto repressivo tipizzato e
vincolato, per il quale, dunque, non è richiesta alcuna
partecipazione del privato destinatario, che non avrebbe
alcuna utilità, stante la natura dell’atto (ex plurimis,
solo per citare alcune tra le più recenti, Cons. St., sez.
VI 31.05.2013 n. 3010; id., 24.05.2013 n. 2873; sez.
V, 06.06.2012, n. 3337; TAR Napoli, sez. VIII, 26.03.2014 n. 1780; id., sez. III, 20.03.2014, n. 1596;
sez. VII, 05.03.2014, n. 1332; id., 01.10.2012, n.
4005; sez. II, 14.12.2012, n. 5214; sez. IV, 17.01.2014, n. 314; id., 08.04.2013, n. 1830).
---------------
Per giurisprudenza, anche
in questo caso, pacifica, l'ordinanza di demolizione di una
costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto che
l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e che
l'adozione dell'ordinanza, di carattere ripristinatorio, non
richiede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto
interessato (ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 04.10.2013 n. 4913; TAR Napoli, sez. II,
05.12.2013, n.
5567; sez. VI, 23.10.2013, n. 4679; TAR Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619).
Pertanto, non si prevede l'accertamento del dolo o della
colpa del soggetto cui s'imputa la trasgressione e
l'Amministrazione non è tenuta a svolgere alcun tipo di
indagine circa la responsabilità delle opere, in quanto
quest'ultima rappresenta un elemento del tutto irrilevante
ai fini della legittimità del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
ricorrente sostiene l'illegittimità del provvedimento
impugnato per carenza di motivazione e difetto di
istruttoria, in quanto il lungo lasso di tempo intercorso
tra la commissione dell'abuso e l'adozione delle misure
repressive avrebbe ingenerato un legittimo affidamento a
causa dell'inerzia dell'Amministrazione, con la conseguenza
che ai fini della legittimità dell'ordinanza di demolizione,
l'Amministrazione dovrebbe dare conto, motivando, della
valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati
confliggenti, non essendo sufficiente soltanto il carattere
di atto dovuto del provvedimento sanzionatorio e l'interesse
pubblico al ripristino della legalità.
Al di là del fatto che la giurisprudenza amministrativa ha
ribadito, anche di recente, che in questi casi non è
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto, va anche
aggiunto che le opere abusive sono state realizzate in zona
sottoposta a vincolo ambientale.
Pertanto, nessun legittimo affidamento al possibile
permanere di dette opere può essersi ingenerato nel privato
e nessun obbligo di motivazione gravava in capo al Comune.
Con il terzo motivo il
ricorrente sostiene l'illegittimità del provvedimento
impugnato per carenza di motivazione e difetto di
istruttoria, in quanto il lungo lasso di tempo intercorso
tra la commissione dell'abuso e l'adozione delle misure
repressive avrebbe ingenerato un legittimo affidamento a
causa dell'inerzia dell'Amministrazione, con la conseguenza
che ai fini della legittimità dell'ordinanza di demolizione,
l'Amministrazione dovrebbe dare conto, motivando, della
valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati confliggenti, non essendo sufficiente soltanto il carattere
di atto dovuto del provvedimento sanzionatorio e l'interesse
pubblico al ripristino della legalità.
Al di là del fatto che la giurisprudenza amministrativa
ha ribadito, anche di recente (ex plurimis Cons. St., sez.
IV, 29.04.2014 n. 2228) che in questi casi non è
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto, va anche
aggiunto che –come prospettato dalla difesa del Comune- le
opere abusive sono state realizzate in zona sottoposta a
vincolo con D.M. del 11.01.1955 (ben noto al ricorrente, vedi IV motivo), emesso ai sensi del D.Lgs. del 22/01/2004 n. 42,
parte III (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), come
emerge chiaramente dal contenuto dell'ordinanza di
demolizione e dalla istruttoria tecnica completata il
19/10/2005, entrambe in atti.
Pertanto, nessun legittimo affidamento al possibile
permanere di dette opere può essersi ingenerato nel privato
e nessun obbligo di motivazione gravava in capo al Comune (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
irrilevante se l'opera sia o meno ultimata, in quanto l’art.
27 del d.P.R. 380/2001, a seguito delle modifiche apportare
con il d.l. n. 269 del 2003, è applicabile tanto se venga
accertato l'inizio quanto l'avvenuta esecuzione di opere
abusive su aree vincolate, per cui non può trovare
accoglimento la prospettazione dell'inapplicabilità della
norma a causa dell'avvenuto completamento dei lavori.
In merito al IV motivo di
impugnazione (violazione art. 27 d.P.R. 380/2001; violazione
D.M. 11.01.1955; eccesso di potere; inesistenza dei
presupposti di fatto e di diritto; illogicità; difetto di
istruttoria), col quale si lamenta la irragionevolezza della
sanzione della demolizione, in quanto detta norma sarebbe
applicabile solo a lavori non ultimati e solo per ragioni
cautelari, il collegio rileva che è pacifico che è
irrilevante se l'opera sia o meno ultimata, in quanto l’art.
27 del d.P.R. 380/2001, a seguito delle modifiche apportare
con il d.l. n. 269 del 2003, è applicabile tanto se venga
accertato l'inizio quanto l'avvenuta esecuzione di opere
abusive su aree vincolate, per cui non può trovare
accoglimento la prospettazione dell'inapplicabilità della
norma a causa dell'avvenuto completamento dei lavori (TAR Napoli,
sez. VI 06.02.2014 n. 791) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa l'ordine di demolizione (di opera abusiva)
è sufficiente che lo stesso sia
notificato anche a uno solo dei comproprietari e anche nel
caso egli non sia il responsabile dell’abuso.
Infatti, l'ordinanza di demolizione notificata ad uno solo
dei comproprietari è valida ed efficace, poiché la
notificazione costituisce una condizione legale di efficacia
dell'ordinanza di demolizione (trattandosi di atto
recettizio impositivo di obblighi ai sensi dell'art. 21-bis,
l. n. 241 del 1990), vale a dire un presupposto di
operatività dell'atto nei confronti dei suoi diretti
destinatari, con la conseguenza che la relativa omissione è
censurabile esclusivamente dal soggetto nel cui interesse la
comunicazione stessa è posta, in ragione della funzione
assolta dall'istituto, consistente nell'esigenza di portare
a conoscenza dell'atto il suo destinatario onde ottenere la
sua personale e soggettiva collaborazione necessaria per il
conseguimento del fine. Ne consegue che alcun pregiudizio
può discendere in capo a chi ha ricevuto ritualmente la
notificazione dell'atto per effetto della mancata notifica
del provvedimento agli altri comproprietari del bene.
Con il sesto motivo si
prospetta l’assenza di notifica del provvedimento
sanzionatorio a tutti i comproprietari del bene, in
considerazione della carenza di istruttoria che lo
caratterizza. Inoltre, esso è stato notificato ad un
soggetto non responsabile dell’abuso (le opere abusive
sarebbero state realizzate dal padre del Pastore, e suo
avente causa).
Il motivo è infondato, essendo sufficiente la notifica
anche a uno solo dei comproprietari e anche nel caso egli
non sia il responsabile dell’abuso.
Infatti, l'ordinanza di demolizione notificata ad uno solo
dei comproprietari è valida ed efficace, poiché la
notificazione costituisce una condizione legale di efficacia
dell'ordinanza di demolizione (trattandosi di atto
recettizio impositivo di obblighi ai sensi dell'art. 21-bis,
l. n. 241 del 1990), vale a dire un presupposto di
operatività dell'atto nei confronti dei suoi diretti
destinatari, con la conseguenza che la relativa omissione è
censurabile esclusivamente dal soggetto nel cui interesse la
comunicazione stessa è posta, in ragione della funzione
assolta dall'istituto, consistente nell'esigenza di portare
a conoscenza dell'atto il suo destinatario onde ottenere la
sua personale e soggettiva collaborazione necessaria per il
conseguimento del fine. Ne consegue che alcun pregiudizio
può discendere in capo a chi ha ricevuto ritualmente la
notificazione dell'atto per effetto della mancata notifica
del provvedimento agli altri comproprietari del bene (ex plutimis TAR Napoli, sez. VIII, 07.11.2013
n. 4960) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sia il capannone che le
restanti opere sono state realizzate (abusivamente) in area
sottoposta a vincolo paesaggistico e, pertanto, è del tutto
irrilevante la natura pertinenziale di tali opere, posto che
la demolizione s’impone sempre in mancanza di titolo emesso
da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
---------------
Con riguardo all'applicazione della sanzione non vigente
all'epoca dell'abuso, va rilevato che l'illecito edilizio ha
natura permanente, violando con la sua realizzazione
l'ordinato e programmato assetto urbanistico del territorio:
colui che ha realizzato l'abuso mantiene, pertanto,
inalterato nel tempo l'obbligo di eliminare l'opera abusiva;
stante, quindi, il carattere permanente dell'infrazione
della norma edilizia, anche il potere di repressione può
essere esercitato retroattivamente, cioè anche per fatti
verificatisi prima dell'entrata in vigore della norma che
disciplina tale potere; conferma di tale orientamento è data
dal dettato normativo della stessa l. n. 47 del 1985, la
quale espressamente ha inteso estendere il nuovo regime
sanzionatorio anche alle opere ultimate prima della data del
01.10.1983 e non condonate.
Infondato è anche il VII
motivo di gravame (violazione art. 27 e 30 d.P.R. 380/2001;
violazione d.m. 11.01.1955; difetto di motivazione;
inesistenza dei presupposti), basato sul carattere pertinenziale delle opere in questione (sia la tettoia che
il capannone sono strumentali alla attività agricola; la
tettoia è del 1950) e sull’impossibilità di demolirli
proficuamete.
Il collegio sottolinea che sia il capannone che le
restanti opere sono state realizzate in area sottoposta a
vincolo paesaggistico con D.M. 11/01/1955 e, pertanto, è del
tutto irrilevante la natura pertinenziale di tali opere,
posto che la demolizione s’impone sempre in mancanza di
titolo emesso da parte dell’autorità preposta alla tutela
del vincolo (TAR Lazio, sez. I, 10.04.2012 n. 3265).
In ogni caso, entrambe avrebbero dovuto essere munite di
titolo legittimamente la loro costruzione, in quanto
incidono significativamente sull’assetto edilizio
preesistente creando volumetria o, come nel caso della
tettoia, modifica della sagoma o del prospetto del
fabbricato cui inerisce (cfr. Tar Salerno, 12.04.2012,
n. 728).
Inoltre, "con riguardo all'applicazione della sanzione non
vigente all'epoca dell'abuso, va rilevato che l'illecito
edilizio ha natura permanente, violando con la sua
realizzazione l'ordinato e programmato assetto urbanistico
del territorio: colui che ha realizzato l'abuso mantiene,
pertanto, inalterato nel tempo l'obbligo di eliminare
l'opera abusiva; stante, quindi, il carattere permanente
dell'infrazione della norma edilizia, anche il potere di
repressione può essere esercitato retroattivamente, cioè
anche per fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore
della norma che disciplina tale potere; conferma di tale
orientamento è data dal dettato normativo della stessa l. n.
47 del 1985, la quale espressamente ha inteso estendere il
nuovo regime sanzionatorio anche alle opere ultimate prima
della data del 01.10.1983 e non condonate" (TAR
Veneto, sez. II, 11.12.2013, n. 1397) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4196 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A
seguito della decadenza per mancato completamento dei lavori
il titolare del permesso deve chiedere un nuovo permesso di
costruire per poter realizzare la parte di lavori non
eseguita salvo che essi rientrino tra quelli soggetti a
denuncia di inizio di attività e salvo eventuale ricalcolo
del contributo di costruzione.
---------------
La proroga presuppone che il permesso di costruire non sia
ancora decaduto (in altri termini la proroga –che oltretutto
presuppone fatti sopravvenuti non dipendenti dalla volontà
del titolare del permesso– va chiesta prima della scadenza
del termine di ultimazione dei lavori).
Quale che sia la soluzione, è però innegabile che al più tardi alla data
del 26.04.2008 il permesso di costruire n. 54 del 2004
aveva perduto ogni attitudine a produrre effetti giuridici.
Di conseguenza esso non avrebbe potuto essere oggetto di
proroga, dato che a seguito della decadenza per mancato
completamento dei lavori il titolare del permesso deve
chiedere un nuovo permesso di costruire per poter realizzare
la parte di lavori non eseguita salvo che essi rientrino tra
quelli soggetti a denuncia di inizio di attività e salvo
eventuale ricalcolo del contributo di costruzione (cfr.
articolo 15, comma 3, D.P.R. 06.06.2001, n. 380).
E’ quindi in base a questo principio che va operata la
qualificazione dell’atto di proroga del 14.07.2009 del
comune, tenendo presente che gli atti amministrativi devono
essere qualificati in base alle loro oggettive
caratteristiche a prescindere dal nomen usato.
Ciò premesso
è evidente la volontà del redattore dell’atto di limitarsi a
una proroga del precedente permesso (sintomatico è che
quest’ultimo sia richiamato e che l’efficacia della proroga
sia limitata a un anno, mentre se si fosse trattato del
rilascio del permesso di costruire per la parte di lavori
non eseguiti sarebbero stati richiesti e acquisiti elaborati
grafici e sarebbero stati fissati nuovi termini per inizio e
completamento dei lavori); nella fattispecie quindi si
tratta di proroga; tuttavia l’atto è chiaramente illegittimo
dato che la proroga presuppone che il permesso di costruire
non sia ancora decaduto (in altri termini la proroga –che
oltretutto presuppone fatti sopravvenuti non dipendenti
dalla volontà del titolare del permesso– va chiesta prima
della scadenza del termine di ultimazione dei lavori)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 24.07.2014 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto concerne il rispetto del procedimento
dell’articolo 35, va rilevato che esso prescrive che al
responsabile dell’abuso vada data una “diffida non
rinnovabile” al ripristino e che, ove essa resti
inadempiuta, il comune debba disporre la demolizione
d’ufficio a sua cura e a spese del responsabile.
Questo è quanto avvenuto nella fattispecie; la tesi dei
ricorrenti implicherebbe che alla diffida non rinnovabile e
prima dell’ordine di demolizione d’ufficio debba farsi luogo
a un nuovo ordine di demolizione; ma non solo di ciò non vi
è traccia nell’articolo ma un simile modus procedenti si
porrebbe in contrasto con la previsione della “non
rinnovabilità” della diffida.
La comunicazione all’ente titolare dell’area oggetto di
abuso è adempimento che tutela chiaramente interessi di
quest’ultimo, per cui della sua omissione non può giovarsi
il responsabile dell’abuso.
Quanto infine all’articolo 41, va rilevato che la
valutazione da parte della giunta riguarda non l’emissione
del provvedimento che ordina la demolizione d’ufficio –che
costituisce un atto dovuto– ma la sua esecuzione.
Può ora passarsi all’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione.
A parte il vizio di illegittimità derivata, i ricorrenti
sostengono che il comune non ha rispettato le prescrizioni
dettate dall’articolo 35 per l’ipotesi in cui le opere
abusive siano realizzate su suolo di enti pubblici.
L’articolo 35 citato dispone che “qualora sia accertata la
realizzazione … di interventi in assenza di permesso di
costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal
medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato
o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile
dell'ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina al
responsabile dell'abuso la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all'ente
proprietario del suolo”.
Nella fattispecie risulta che la diffida alla rimozione
dell’opera è stata data con il provvedimento del 09.08.2013 che ha confermato l’annullamento del permesso di
costruire del 2004; non avendo i ricorrenti provveduto con
il successivo provvedimento del 23.09.2013 il comune
ha disposto la demolizione d’ufficio.
Ad avviso dei ricorrenti vi sarebbero due deviazioni dallo
schema procedimentale delineato dall’articolo 35; il comune
avrebbe infatti disposto di provvedere alla demolizione
d’ufficio senza prima ordinare la demolizione al
responsabile dell’abuso; non risulta che il provvedimento di
demolizione sia stato accompagnato dalla prevista
comunicazione all’ente proprietario del suolo. A ciò si
aggiunge la violazione dell’articolo 41 D.P.R. n. 380
secondo cui “in tutti i casi in cui la demolizione deve
avvenire a cura del comune, essa è disposta dal dirigente o
dal responsabile del competente ufficio comunale su
valutazione tecnico-economica approvata dalla giunta
comunale”.
Le censure sono infondate.
Per quanto concerne il rispetto del procedimento
dell’articolo 35, va rilevato che esso prescrive che al
responsabile dell’abuso vada data una “diffida non
rinnovabile” al ripristino e che, ove essa resti
inadempiuta, il comune debba disporre la demolizione
d’ufficio a sua cura e a spese del responsabile; questo è
quanto avvenuto nella fattispecie; la tesi dei ricorrenti
implicherebbe che alla diffida non rinnovabile e prima
dell’ordine di demolizione d’ufficio debba farsi luogo a un
nuovo ordine di demolizione; ma non solo di ciò non vi è
traccia nell’articolo ma un simile modus procedenti si
porrebbe in contrasto con la previsione della “non rinnovabilità” della diffida; la comunicazione all’ente
titolare dell’area oggetto di abuso è adempimento che tutela
chiaramente interessi di quest’ultimo, per cui della sua
omissione non può giovarsi il responsabile dell’abuso.
Quanto infine all’articolo 41, va rilevato che la
valutazione da parte della giunta riguarda non l’emissione
del provvedimento che ordina la demolizione d’ufficio –che
costituisce un atto dovuto– ma la sua esecuzione (TAR
Campania, Napoli, sez. III, 10.02.2009, n. 661)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 24.07.2014 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
problematica introdotta può sostanziarsi nel seguente
quesito: se un’attività solo parzialmente ricettiva, com’è
incontestatamente quella di “bed and breakfast” integri il
requisito di “impianti produttivi di beni e servizi”
previsto dall’art. 1, DPR n. 447/1998 per l’affidamento
all’unica unica struttura del comune (SUAP) dell'intero
procedimento concernente la realizzazione, ampliamento,
cessazione, riattivazione, localizzazione e rilocalizzazione
di impianti produttivi, ivi incluso il rilascio delle
concessioni o autorizzazioni edilizie (art. 23, D.Lgs. n.
112/1998).
La giurisprudenza di primo grado è orientata in senso
restrittivo: l’effettiva inerenza ad una attività
produttiva, che, per la procedura di SUAP in variante al
piano urbanistico generale, deve emergere con chiarezza
dagli atti, è richiesta da TAR Lombardia (Brescia sez. I,
04.02.2013, n. 126) mentre la necessaria dimostrazione della
diretta strumentalità tra il manufatto da realizzare e le
esigenze di produzione è affermata da TAR Sardegna (Cagliari
sez. II, 05.03.2010, n. 246).
Il Collegio è indotto a preferire l’opzione più restrittiva
sia perché più confacente alla vocazione “produttiva” del
DPR n. 447/1998, sia perché più consona all’esclusione di
qualsiasi utilizzo del territorio in forma residenziale (ivi
compreso quello indiretto o misto che si realizza con il bed
and breakfast) impressa dallo strumento urbanistico locale.
Al di là della frammentazione, la
problematica introdotta può sostanziarsi nel seguente
quesito: se un’attività solo parzialmente ricettiva, com’è incontestatamente quella di “bed and breakfast” integri il
requisito di “impianti produttivi di beni e servizi”
previsto dall’art. 1, DPR n. 447/1998 per l’affidamento
all’unica unica struttura del comune (SUAP) dell'intero
procedimento concernente la realizzazione, ampliamento,
cessazione, riattivazione, localizzazione e rilocalizzazione
di impianti produttivi, ivi incluso il rilascio delle
concessioni o autorizzazioni edilizie (art. 23, D.Lgs. n.
112/1998).
La giurisprudenza di primo grado è orientata in senso
restrittivo: l’effettiva inerenza ad una attività
produttiva, che, per la procedura di SUAP in variante al
piano urbanistico generale, deve emergere con chiarezza
dagli atti, è richiesta da TAR Lombardia (Brescia sez. I,
04.02.2013, n. 126) mentre la necessaria dimostrazione
della diretta strumentalità tra il manufatto da realizzare e
le esigenze di produzione è affermata da TAR Sardegna
(Cagliari sez. II, 05.03.2010, n. 246).
La ragione va, evidentemente, individuata nel rischio
di uno stravolgimento del sistema insito nella deroga alle
procedure ordinarie di pianificazione territoriale, per
l’estensione della competenza dello sportello unico per le
attività produttive anche alle opere edilizie, il cui
ampliamento oltre misura è suscettibile di porre fine alla
fase propriamente produttiva dell’area: dalla “ratio” della
speciale disciplina dello sportello unico di semplificare le
procedure amministrative connesse all’esercizio
dell’attività imprenditoriale discende l’esigenza della
stretta connessione fra quest’ultima e la trasformazione del
territorio.
L’incertezza sui limiti della procedura dello sportello
unico discende probabilmente dall’indeterminatezza delle
semplificazioni iniziate con la L. n. 59/1997, delle quali
l’art. 23, segg. D.Lgs. n. 112/1998 costituisce attuazione
sotto l’aspetto del conferimento (alle regioni e) agli enti
locali di funzioni e compiti amministrativi onde
valorizzarne il ruolo nella gestione territoriale dello
sviluppo economico e delle attività produttive e, al
contempo, nell’offerta alle imprese di strumenti più agili
per avviare e sviluppare le attività produttive evitando
iter amministrativi complessi e con molteplici
interlocutori.
Nell’ambito delle funzioni soggette a trasferimento
l’art. 25, D.Lgs. n. 112/1998 precisa, a proposito
dell'insediamento delle attività produttive, che il
procedimento dev'essere unico e ne demanda la definizione ad
uno o più regolamenti di delegificazione da emanare ex art.
17, co. 2, L. n. 400/1988 e con i criteri dell'art. 20, co.
5, L. n. 59/1997, tra i quali l’uniformità dei procedimenti
del medesimo tipo e l’individuazione delle procedure e delle
responsabilità inerenti alle attività di verifica e
controllo.
In questo quadro normativo, il DPR n. 447/1998 prevede
la procedura “semplificata” per attività relative ad
impianti industriali in senso stretto e per quelle
riguardanti gli esercizi commerciali, artigianali e le
società di servizi, preliminare rispetto alla quale è
l'individuazione delle aree da destinare agli insediamenti
produttivi.
A tal fine, il regolamento prevede che siano
salvaguardate “le eventuali prescrizioni dei piani
territoriali sovracomunali” nell’individuazione da parte dei
comuni “delle aree da destinare all'insediamento di impianti
produttivi” in conformità alle tipologie generali e ai
criteri determinati dalle regioni e che la variante sia
approvata, in caso di contrasto gli strumenti urbanistici
comunali vigenti, tramite procedure individuate dalla legge
regionale, con criteri finalizzati all'adeguamento degli standards urbanistici e diretti ad accelerare l'esame delle
domande di concessione e di autorizzazione edilizia.
Il suesposto quadro normativo induce il Collegio a
preferire l’opzione più restrittiva sia perché più
confacente alla vocazione “produttiva” del DPR n. 447/1998,
sia perché più consona all’esclusione di qualsiasi utilizzo
del territorio in forma residenziale (ivi compreso quello
indiretto o misto che si realizza con il bed and breakfast)
impressa dallo strumento urbanistico locale.
Il motivo in esame va perciò respinto in tutte le sue
possibili implicazioni: l’esigenza che l’attività sia
diretta alla produzione di beni o servizi, ne rende
irrilevante la modalità di esercizio (imprenditoriale o
non): il carattere non esclusivamente produttivo (ma anche
residenziale) del “bed and breakfast” non necessita di
specifica motivazione del divieto ai relativi insediamenti e/o di approfondita relazione tecnica alle clausole impeditive del corrispondente utilizzo (entrambe sub specie
esaustive); l’insufficiente approfondimento
giurisprudenziale della problematica in esame non crea alcun
vincolo nella decisione del presente giudizio
(TAR Umbria,
sentenza 23.07.2014 n. 406 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
jus receptum il principio a mente del quale va reputato
illegittimo il provvedimento recante sostanziale diniego di
titolo edilizio laddove lo stesso sia solo giustificato
sulla base di un generico contrasto con la disciplina
vigente ovvero sulla base di una valutazione meramente
estetica non suffragata dal richiamo alle sottostanti
puntuali norme di piano o regolamentari vigenti, in quanto
tale tipologia di statuizioni autoritative deve motivare
l'effettivo contrasto tra l'opera realizzata e gli strumenti
urbanistici, e tale contrasto deve essere evidenziato in
maniera intellegibile, così da consentire al soggetto
interessato di contestare la decisione e prospettare la
rispettiva interpretazione delle norme urbanistiche.
In generale, costituisce jus
receptum ribadito ancora di recente dalla sezione il
principio a mente del quale va reputato illegittimo il
provvedimento recante sostanziale diniego di titolo edilizio
laddove lo stesso sia solo giustificato sulla base di un
generico contrasto con la disciplina vigente ovvero sulla
base di una valutazione meramente estetica non suffragata
dal richiamo alle sottostanti puntuali norme di piano o
regolamentari vigenti, in quanto tale tipologia di
statuizioni autoritative deve motivare l'effettivo contrasto
tra l'opera realizzata e gli strumenti urbanistici, e tale
contrasto deve essere evidenziato in maniera intellegibile,
così da consentire al soggetto interessato di contestare la
decisione e prospettare la rispettiva interpretazione delle
norme urbanistiche
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Circa la necessità che la non
ammissibilità di manufatti pertinenziali quali le piscine
debba essere prevista espressamente (oltre che
ragionevolmente) dal piano, la giurisprudenza ha statuito
alcuni principi quali:
-
in primo luogo
è stato evidenziato come in linea generale l'installazione
di una piscina di non rilevanti dimensioni oggettive (fatta
salva la rilevanza paesaggistica per l’evidente
trasformazione visiva) non integri di per sé, dal punto di
vista edilizio, la violazione degli indici di copertura che
riguardano interventi edilizi né degli standard, atteso che
non si determina un aumento del carico urbanistico della
zona, rilevando solo in termini di sistemazione esterna del
terreno, e che i vani per impianti tecnologici sono per tale
natura consentiti;
- in secondo luogo, la sezione ha già ribadito che
la realizzazione di una piscina in generale costituisce
opera pertinenziale che non implica consumo dei suoli per le
sue caratteristiche;
- in terzo luogo, è già stato evidenziato (e con riferimento a contesti
di particolare pregio, paesaggisticamente vincolati) che
l'introduzione dell'elemento piscina di per sé non comporta
l'eliminazione di essenze arboree e migliora
significativamente l'impatto ambientale.
---------------
In definitiva, rispetto alla genericità del diniego ed
all’assenza di specifici divieti, vale il principio generale
a mente del quale una piscina prefabbricata, di dimensioni
normali, annessa ad un fabbricato ad uso residenziale sito
in zona agricola, ha natura obiettiva di pertinenza e
costituisce un manufatto adeguato all'uso effettivo e
quotidiano del proprietario dell'immobile principale.
---------------
Analogamente va concluso, con la prevalente giurisprudenza,
che nella pianificazione urbanistica il vincolo a verde
agricolo assolve essenzialmente la funzione di preservare
una determinata area da un'eccessiva espansione edilizia che
ne comprometta i valori ambientali, ma non preclude la
realizzazione di specifici manufatti aventi una destinazione
non agricola, ove gli stessi non rechino turbativa
all'assetto territoriale, risultando ininfluente che l'opera
realizzata (nella specie, una piscina scoperta) non sia
destinata al servizio di una residenza rurale in senso
stretto.
In linea generale, circa
la necessità che la non ammissibilità di manufatti pertinenziali quali le piscine debba essere prevista
espressamente (oltre che ragionevolmente) dal piano, vanno
richiamati alcuni principi già espressi dalla giurisprudenza
prevalente e dalla sezione.
In primo luogo è stato evidenziato come in linea generale
l'installazione di una piscina di non rilevanti dimensioni
oggettive (fatta salva la rilevanza paesaggistica per
l’evidente trasformazione visiva) non integri di per sé, dal
punto di vista edilizio, la violazione degli indici di
copertura che riguardano interventi edilizi né degli
standard, atteso che non si determina un aumento del carico
urbanistico della zona, rilevando solo in termini di
sistemazione esterna del terreno, e che i vani per impianti
tecnologici sono per tale natura consentiti (cfr. ad es. CdS
1951/2014). In secondo luogo, la sezione ha già ribadito che
la realizzazione di una piscina in generale costituisce
opera pertinenziale che non implica consumo dei suoli per le
sue caratteristiche (cfr. ad es. sent n. 299/2008). In terzo
luogo, è già stato evidenziato (e con riferimento a contesti
di particolare pregio, paesaggisticamente vincolati) che
l'introduzione dell'elemento piscina di per sé non comporta
l'eliminazione di essenze arboree e migliora
significativamente l'impatto ambientale (cfr. ad es. Tar
Campania 11565/2007).
Quanto da ultimo indicato conferma anche sotto un diverso
angolo prospettico l’insufficienza, genericità ed
inadeguatezza delle argomentazione svolte a fondamento del
diniego circa la presunta necessità di mantenimento della
ruralità e delle caratteristiche del contesto.
In proposito
va evidenziato come nel caso di specie non sussista alcun
vincolo paesaggistico, in relazione al quale la
giurisprudenza, condivisa dal Collegio ha evidenziato che
l’Amministrazione, nell'adottare un provvedimento di diniego
del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta
a vincolo paesaggistico, non può limitare la sua valutazione
al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale,
utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma
tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione
delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che
un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente,
attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto;
pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del
disvalore delle valenze paesaggistiche (cfr. ad es. Tar
Lazio 8829/2008 proprio in tema di piscine in zona
vincolata). A maggior ragione tale principio vale nei casi
quale quello in esame di (invero rara, nelle zone di pregio
della nostra Regione) area non vincolata.
Peraltro, tornando alla verifica della concreta fattispecie
in esame, un attento studio della disciplina di piano sembra
all’opposto, nei termini dedotti da parte ricorrente,
ammettere espressamente la realizzabilità di piccole
piscine, quale quella progettata dall’odierna parte
ricorrente.
Infatti, la stessa norma invocata, cioè l’art.
18 nta, rinvia al successivo art. 23c –in tema di aree
agricole– con esclusione di nuovi volumi di cui al comma 6;
orbene, fra le disposizioni richiamate, contenute nella
parte di art. 23c ammessa, si rinvia all’art. 23 che, a
propria volta, fra le infrastrutture agrarie e i manufatti
integrativi prevede in maniera indiretta ma evidente la
possibilità di realizzazione di piscine, laddove si limita a
non ammettere l’allaccio alla rete idrica comunale per la
fornitura d’acqua a piscine di ogni genere.
In definitiva,
l’unico richiamo espresso ai manufatti in questione nelle
zone agricole, lungi dal manifestare quanto genericamente ed apoditticamente posto a fondamento del diniego, ne ammette
pacificamente l’esistenza escludendone solo il possibile
allaccio alla rete idrica comunale, con la conseguenza che
le stesse dovranno essere riempite altrimenti.
In definitiva, rispetto alla genericità del diniego ed
all’assenza di specifici divieti, vale il principio generale
a mente del quale una piscina prefabbricata, di dimensioni
normali, annessa ad un fabbricato ad uso residenziale sito
in zona agricola, ha natura obiettiva di pertinenza e
costituisce un manufatto adeguato all'uso effettivo e
quotidiano del proprietario dell'immobile principale (cfr.
ad es. Cons. Stato, Sez. V, 13.10.1993, n. 1041/1993 e
1951/2014 cit).
Analogamente va concluso, con la prevalente giurisprudenza,
che nella pianificazione urbanistica il vincolo a verde
agricolo assolve essenzialmente la funzione di preservare
una determinata area da un'eccessiva espansione edilizia che
ne comprometta i valori ambientali, ma non preclude la
realizzazione di specifici manufatti aventi una destinazione
non agricola, ove gli stessi non rechino turbativa
all'assetto territoriale, risultando ininfluente che l'opera
realizzata (nella specie, una piscina scoperta) non sia
destinata al servizio di una residenza rurale in senso
stretto (cfr. ad es. Tar Piemonte 2552/2009)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
normativa sulla ristrutturazione dei sottotetti, se prevede
la possibilità di deroghe allo strumento urbanistico, non
consente, invece, deroga alla normativa sulle distanze, in
quanto la norma sulla distanza minima di dieci metri di cui
all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 infatti è norma che limita
la potestà legislativa regionale e sostituisce ope legis
limiti inferiori contenuti negli strumenti urbanistici.
---------------
Se per un verso
si è chiarito che il recupero dei sottotetti ex l.r. 24 del
2001 -formula di sintesi che designa genericamente
l’utilizzazione a fini abitativi di spazi tecnici accessori
in preesistenti fabbricati- è suscettibile di essere
realizzato mediante diverse modalità progettuali ed
esecutive, tutte riconducibili –entro gli estremi del
risanamento conservativo fino alla costruzione di una (vera
e propria) nuova costruzione– ai tipi d’intervento edilizi
definiti (cfr. art. 10) nel testo unico dell’edilizia, per
un altro e connesso verso si è altresì ribadito che, qualora
il progettato intervento di recupero del sottotetto dia
luogo ad un nuovo volume sarà applicabile la disciplina
edilizia prevista per le nuove costruzioni, sì da osservare
(per esempio, come più volte affermato in giurisprudenza) la
norma sulla distanza minima di cui all’art. 9 d.m. 1444 del
1968 fra edifici fronteggianti.
- atteso che la presente controversia ha
ad oggetto il provvedimento di cui in epigrafe, recante
diniego di permesso di costruire per un recupero di
sottotetto a fini abitativi, basato sulla qualificazione
dell’intervento quale nuova costruzione che non rispetta i
limiti di distanza minima da pareti finestrate;
- considerato che le censure, dedotte in termini di
violazione della normativa in materia, del difetto di
motivazione anche rispetto alle osservazioni procedimentali,
non colgono nel segno, in termini di manifesta infondatezza
tali da imporre l’applicazione dell’art. 74 cod. proc. amm.;
- atteso che in primo luogo assume rilievo il contenuto
degli atti procedimentali nonché in specie la congrua e
completa motivazione posta a fondamento del diniego;
- considerato che, inoltre, tale ordito motivazionale si
pone in totale adesione alla prevalente –e condivisa dal
Collegio– opinione giurisprudenziale a mente della quale la
normativa sulla ristrutturazione dei sottotetti, se prevede
la possibilità di deroghe allo strumento urbanistico, non
consente, invece, deroga alla normativa sulle distanze, in
quanto la norma sulla distanza minima di dieci metri di cui
all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 infatti è norma che limita
la potestà legislativa regionale e sostituisce ope legis
limiti inferiori contenuti negli strumenti urbanistici (cfr.
ex multis Tar Liguria n. 256/2013);
- atteso che, in contrario avviso, non possono assumere
rilievo né, anche a fronte dell’epoca di adozione degli atti
nonché la mancanza di normativa attuativa, l’invocata
modifica normativa di cui al d.l. 69/2013, né l’invocato
recente orientamento della sezione (sentenze 1005/2014 e
1406/2013);
- considerato che, a quest’ultimo proposito, se per un verso
si è chiarito che il recupero dei sottotetti ex l.r. 24 del
2001 -formula di sintesi che designa genericamente
l’utilizzazione a fini abitativi di spazi tecnici accessori
in preesistenti fabbricati- è suscettibile di essere
realizzato mediante diverse modalità progettuali ed
esecutive, tutte riconducibili –entro gli estremi del
risanamento conservativo fino alla costruzione di una (vera
e propria) nuova costruzione– ai tipi d’intervento edilizi
definiti (cfr. art. 10) nel testo unico dell’edilizia, per
un altro e connesso verso si è altresì ribadito che, qualora
il progettato intervento di recupero del sottotetto dia
luogo ad un nuovo volume sarà applicabile la disciplina
edilizia prevista per le nuove costruzioni, sì da osservare
(per esempio, come più volte affermato in giurisprudenza) la
norma sulla distanza minima di cui all’art. 9 d.m. 1444 del
1968 fra edifici fronteggianti (cfr., Tar Liguria, sez. I,
1406/2013 e 1005/2014; ancor prima, ID, n. 1621 del 2009);
- rilevato che, pertanto, contrariamente alla prospettazione
da ultimo proposta, resta pienamente efficace il necessario
rispetto della normativa sulle distanze, correttamente
applicata dal Comune all’epoca del procedimento in esame;
- atteso che nel caso de quo la consistenza dell’opera, come
emerge dall’analisi degli atti di causa, non può che seguire
la qualificazione del nuovo volume e della nuova
costruzione, in specie nella parte che prevede un
innalzamento della quota di gronda di metri 1.30 e del colmo
del tetto pari a metri 1.70
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In
linea generale, va ribadito che nella materia dei pubblici
concorsi (in assenza di una disposizione limitatrice quale
quella posta nella diversa materia delle pubbliche gare di
appalto dal comma 4 dell'articolo 83 del d.lgs. 12.04.2006,
n. 163) non risulta illegittima la scelta
dell'amministrazione di articolare i criteri e le macro-voci
di valutazione in ulteriori sub-criteri, purché tale
articolazione si traduca in una mera specificazione dei
richiamati criteri e macro-voci e non si traduca
nell'introduzione di nuovi e diversi parametri valutativi.
Parimenti in linea generale, la commissione esaminatrice di
un concorso pubblico è titolare di un'ampia discrezionalità
in ordine sia all'individuazione dei criteri per
l'attribuzione ai candidati dei punteggi spettanti per i
titoli da essi vantati nell'ambito del punteggio massimo
stabilito dal bando, per rendere concreti e attuali gli
stessi criteri del bando, sia alla valutazione dei singoli
tipi di titoli; di conseguenza l'esercizio di tale
discrezionalità sfugge al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, riguardando il merito dell'azione
amministrativa, salvo che il suo uso non sia caratterizzato
da macroscopici vizi di eccesso di potere per
irragionevolezza e arbitrarietà.
---------------
L'insindacabilità del giudizio della commissione
esaminatrice da parte del giudice amministrativo viene meno
nei casi in cui tale giudizio risulti viziato da profili di
palese illogicità, irragionevolezza, arbitrarietà,
superficialità, incompletezza, incongruenza e manifesta
disparità, emergenti dalla stessa documentazione, tali da
configurare un palese eccesso di potere, ed in presenza di
tali profili, proprio per via della loro evidenza, il
giudice amministrativo non entra comunque nel merito della
valutazione; sicché, in merito valutazione dei titoli il
sindacato è ammissibile solo in presenza di una
articolazione dei motivi e un riscontro probatorio
sufficientemente dettagliati.
---------------
L'espressione di un voto numerico sintetizza ed esprime il
giudizio tecnico-discrezionale operato dalla commissione
esaminatrice e, in correlazione ai criteri di valutazione
formulati dalla lex specialis, dalla stessa commissione o
comunque dall'organo competente.
In materia, la valutazione comparativa che la commissione
esaminatrice di un concorso è chiamata a svolgere consiste
in un raffronto globale delle capacità e dei titoli dei vari
candidati. Ciò implica che dei candidati deve essere
costruito il profilo complessivo risultante dalla confluenza
degli elementi che lo compongono, i quali sono apprezzati in
tale quadro non isolatamente ma in quanto correlati
nell'insieme secondo il peso che assumono in una interazione
di sintesi oggetto di un motivato giudizio unitario.
Ne consegue ancora che la suddetta valutazione specifica dei
titoli deve essere svolta, ma non con dettaglio tale da
instaurare una valutazione comparativa puntuale di ciascun
candidato rispetto agli altri per ciascuno dei titoli,
poiché si perderebbe, altrimenti, la contestualità sintetica
della valutazione globale, risultando perciò necessario e
sufficiente che i detti titoli siano stati acquisiti al
procedimento e vi risultino considerati nel quadro della
detta valutazione.
Dall’analisi della documentazione versata in
atti emerge come la commissione abbia ragionevolmente
provveduto a chiarire alcuni aspetti dei criteri esistenti
tali da costituire possibile fonte di equivoco, ciò anche in
presumibile adeguamento alle chiare indicazioni contenute
nella precedente sentenza resa dalla sezione sul concorso
stesso.
In linea generale, va ribadito che nella materia dei
pubblici concorsi (in assenza di una disposizione
limitatrice quale quella posta nella diversa materia delle
pubbliche gare di appalto dal comma 4 dell'articolo 83 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163) non risulta illegittima la
scelta dell'amministrazione di articolare i criteri e le
macro-voci di valutazione in ulteriori sub-criteri, purché
tale articolazione si traduca in una mera specificazione dei
richiamati criteri e macro-voci e non si traduca
nell'introduzione di nuovi e diversi parametri valutativi
(cfr. ad es. C.d.S. n. 5288/2013).
Parimenti in linea generale, secondo un principio che
troverà piena applicazione anche in ordine alle restanti
censure, la commissione esaminatrice di un concorso pubblico
è titolare di un'ampia discrezionalità in ordine sia
all'individuazione dei criteri per l'attribuzione ai
candidati dei punteggi spettanti per i titoli da essi
vantati nell'ambito del punteggio massimo stabilito dal
bando, per rendere concreti e attuali gli stessi criteri del
bando, sia alla valutazione dei singoli tipi di titoli; di
conseguenza l'esercizio di tale discrezionalità sfugge al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo,
riguardando il merito dell'azione amministrativa, salvo che
il suo uso non sia caratterizzato da macroscopici vizi di
eccesso di potere per irragionevolezza e arbitrarietà (cfr.
ad es. C.d.S. n. 4229/2011).
---------------
Ad analoghe conclusioni
negative deve giungersi rispetto al secondo ordine di
rilievi, con cui parte ricorrente contesta, in termini
invero di estrema genericità, la mancanza della necessaria
valutazione dei titoli e, inoltre, la legittimità
dell’attribuzione di voti frazionati e non a punteggio
intero.
Nella prima direzione, in assenza della specifica
indicazione di concrete carenze valutative, assume rilievo
dirimente il principio predetto, ancora riassumibile nei
seguenti termini: l'insindacabilità del giudizio della
commissione esaminatrice da parte del giudice amministrativo
viene meno nei casi in cui tale giudizio risulti viziato da
profili di palese illogicità, irragionevolezza,
arbitrarietà, superficialità, incompletezza, incongruenza e
manifesta disparità, emergenti dalla stessa documentazione,
tali da configurare un palese eccesso di potere, ed in
presenza di tali profili, proprio per via della loro
evidenza, il giudice amministrativo non entra comunque nel
merito della valutazione; sicché, in merito valutazione dei
titoli il sindacato è ammissibile solo in presenza di una
articolazione dei motivi e un riscontro probatorio
sufficientemente dettagliati (cfr. ad es. Tar Salerno
237/2014).
---------------
Le considerazioni appena
svolte trovano ulteriore conferma in ordine al terzo ed
ultimo ordine di rilievi, con cui si contestano singole
valutazioni.
Infatti, l’attenta disamina degli atti conferma una completa
e non illogica valutazione priva di errori di calcolo ovvero
di carenze qualificabili come travisamento dei fatti o
manifesta illogicità. Neppure è ricavabile alcuna disparità
di trattamento, atteso che le eventuali labili carenze
valutative hanno interessato entrambe le candidate.
In assenza della dimostrazione e comunque dell’emersione di
qualsivoglia carenza, nei limitati termini di sindacato
ammessi secondo i principi più volte richiamati, occorre
ancora una volta rifarsi alla giurisprudenza prevalente:
infatti, secondo il consolidato orientamento del Consiglio
di Stato —manifestato sia in termini generali, con riguardo
ai concorsi pubblici, sia specificamente in tema di esami
per l'abilitazione all'esercizio della professione di
avvocato— l'espressione di un voto numerico sintetizza ed
esprime il giudizio tecnico-discrezionale operato dalla
commissione esaminatrice e, in correlazione ai criteri di
valutazione formulati dalla lex specialis, dalla stessa
commissione o comunque dall'organo competente (nella specie:
la commissione centrale presso il Ministero della
giustizia), consente il sindacato giurisdizionale sul potere
amministrativo (C.d.S. n. 401/2014 e 5079/2013)
In materia, la valutazione comparativa che la commissione
esaminatrice di un concorso è chiamata a svolgere consiste
in un raffronto globale delle capacità e dei titoli dei vari
candidati. Ciò implica che dei candidati deve essere
costruito il profilo complessivo risultante dalla confluenza
degli elementi che lo compongono, i quali sono apprezzati in
tale quadro non isolatamente ma in quanto correlati
nell'insieme secondo il peso che assumono in una interazione
di sintesi oggetto di un motivato giudizio unitario.
Ne consegue ancora che la suddetta valutazione specifica dei
titoli deve essere svolta, ma non con dettaglio tale da
instaurare una valutazione comparativa puntuale di ciascun
candidato rispetto agli altri per ciascuno dei titoli,
poiché si perderebbe, altrimenti, la contestualità sintetica
della valutazione globale, risultando perciò necessario e
sufficiente che i detti titoli siano stati acquisiti al
procedimento e vi risultino considerati nel quadro della
detta valutazione (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1163 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione di terreno al giudice ordinario.
Una sentenza sulla liquidazione dell'indennità spettante.
Spetta al giudice ordinario decidere sulla domanda volta
alla liquidazione dell'indennità spettante per il periodo di
occupazione legittima del terreno, trovando applicazione
l'art. 53, comma 2, del dlgs n. 325 del 2001, come
modificato dal dlgs n. 104 del 2010.
Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con
sentenza
17.07.2014 n. 1190.
I giudici amministrativi calabresi, in ossequio anche con
una consolidata giurisprudenza, hanno osservato che: «ricade
pressoché interamente nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ex art. 133, lett. f), c.p.a., che
devolve a quest'ultimo le controversie, anche risarcitorie,
[le questioni] che abbiano a oggetto un'occupazione
originariamente legittima, che sia poi divenuta sine titulo
a causa del decorso dei termini di efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di
un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri
comportamenti materiali, ma di condotte costituenti
espressione di un'azione originariamente riconducibile
all'esercizio del potere autoritativo della p.a. e che solo
per accidenti successivi hanno perso la propria connotazione
eminentemente pubblicistica».
Esclude la possibilità di una condanna puramente
risarcitoria a carico dell'amministrazione -hanno, poi,
sostenuto i giudici del Tar- l'ordinamento sovranazionale
recepito dalla Repubblica italiana, anche a fronte della
sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per
effetto della realizzazione di un'opera pubblica
astrattamente riconducibile al compendio demaniale
necessario.
Né la realizzazione dell'opera pubblica rappresenta un
impedimento alla possibilità di restituire l'area
illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle
modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di
acquisizione del terreno (si veda C. cost. 04.10.2010 n.
293; Cons. stato, Sez.
V, 02.11.2011 n. 5844).
Pertanto è sempre necessario «un passaggio intermedio,
finalizzato all'acquisto della proprietà del bene da parte
dell'ente espropriante (cfr. Cons. stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; Tar Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43)» (articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sull'affidamento
dell'incarico di "Responsabile del
Servizio di Prevenzione e Protezione" onnicomprensivo di
euro 1.500,00, manifestamente e palesemente incongruo e
inadeguato.
L’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 dispone che
“L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici,
servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve
garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì
rispettare i principi di libera concorrenza, parità di
trattamento, non discriminazione, trasparenza,
proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità
indicate nel presente codice”. I suddetti principi sono
ribaditi anche dal successivo art. 27, il quale stabilisce
che anche i c.d. “contratti esclusi” sono affidati “nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità”.
A tutela della qualità delle prestazioni, poi, il
legislatore nazionale ha posto specifiche norme volte a
garantire che il corrispettivo offerto dall’appaltatore
nelle gare pubbliche sia proporzionato e sufficiente
rispetto all’oggetto dell’appalto. Ci si riferisce agli
articoli 86 e seguenti del d.lgs. n. 163/2006 in materia di
verifica dell’anomalia delle offerte, la cui finalità “è
quella di evitare che offerte troppo basse espongano
l'Amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione
in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella
richiesta, o con modalità esecutive in violazione di norme,
con la conseguenza di far sorgere contestazioni e ricorsi.
L'appalto deve quindi essere aggiudicato a soggetti che
abbiano prestato offerte che, avuto riguardo alle
caratteristiche specifiche della prestazione richiesta,
risultino complessivamente proporzionate sotto il profilo
economico all'insieme dei costi, rischi ed oneri che
l'esecuzione della prestazione comporta a carico
dell'appaltatore…”.
Ancora, “Il meccanismo previsto per l’eliminazione delle
offerte ingiustificatamente anomale dal novero di quelle
ammesse ad una gara è teso ad evitare che possa risultare
aggiudicataria di una gara una ditta che, per l’esiguità del
prezzo offerto, non sia poi in grado di assicurare una
prestazione adeguata alle esigenze che l’amministrazione
vuole soddisfare con l’appalto indetto”.
La ratio del sub procedimento di verifica dell’anomalia è,
pertanto, quella di accertare la serietà, la sostenibilità e
la sostanziale affidabilità della proposta contrattuale, in
maniera da evitare che l’appalto sia aggiudicato a prezzi
eccessivamente bassi, tali da non garantire la qualità e la
regolarità dell’esecuzione del contratto oggetto di
affidamento.
Se tanto è vero “a valle” delle procedure di aggiudicazione,
a maggior ragione, parallelamente, lo stesso principio deve
fondare l’attività della Pubblica Amministrazione “a monte”
della procedura stessa, e cioè nella fase
dell’individuazione dell’importo determinato proprio dalla
stazione appaltante quale corrispettivo del servizio da
acquisire.
---------------
Nel caso specifico, a fronte della prestazione professionale
complessa e specializzata richiesta, l’Istituto scolastico
ha previsto un compenso omnicomprensivo di euro 1.500,00,
manifestamente e palesemente incongruo e inadeguato.
Tanto è ancora più evidente se si considera che il predetto
importo include anche le spese vive da sostenere per
l’espletamento dell’incarico (spese di viaggio,
assicurazione, materiale di consumo, disponibilità di
specifici programmi) e, inoltre, che lo stesso incarico deve
essere espletato su due plessi scolastici situati in Comuni
diversi (Galatina e Galatone), distanti quasi 20 chilometri
uno dall’altro.
Sicché l’importo palesemente esiguo offerto potrebbe indurre
il professionista ad una non corretta esecuzione
dell’incarico ed essere foriera di probabili futuri
contenziosi. Ciò è tanto più grave in relazione alla
delicatezza dell’oggetto dell’incarico, che coinvolge la
vita e la sicurezza degli operatori scolastici e degli
alunni.
Il Collegio osserva, inoltre, che la stazione appaltante non
ha motivato in ordine alle modalità seguite nella
determinazione del compenso. Al riguardo, non è
condivisibile il rilievo opposto dall’Istituto resistente
relativo alla mancanza di parametri tabellari professionali
minimi inderogabili.
Il Collegio non ignora che l’articolo 9 del decreto legge
24.01.2012, n. 1, convertito con legge 24.03.2012, n. 27, ha
disposto, al comma 1, l’abrogazione delle tariffe delle
professioni regolamentate nel sistema ordinistico. E’
evidente, pertanto, che le stesse non possono essere più
indicate nemmeno quale possibile riferimento per
l’individuazione del valore della prestazione.
Tuttavia, lo stesso art. 9, al comma 4, pur con specifico
riferimento al mercato privato, fornisce indicazioni utili
anche per la determinazione dell’importo relativo ai
compensi per l’espletamento di incarichi affidati dalle
Pubbliche Amministrazioni, stabilendo che, in ogni caso, la
misura del compenso “deve essere adeguata all'importanza
dell'opera e va pattuita indicando per le singole
prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese,
oneri e contributi”.
Da tale disposizione si ricava che la determinazione
dell’importo dell’affidamento non può essere connotata da
arbitrarietà: le stazioni appaltanti non possono, quindi,
porre a base di gara un importo senza un minimo di analisi
che consenta di comprendere le modalità esatte di
determinazione dell’importo e senza motivare il percorso
tecnico-logico seguito nella determinazione del valore
stesso.
L’interpretazione di cui innanzi risulta, altresì, coerente
con quanto prescritto dalla lettera d) del comma 1)
dell’articolo 264 del d.P.R. n. 207 del 2010, nella parte in
cui dispone che nel bando di gara devono essere indicate le
modalità di calcolo del corrispettivo. Difatti, se il
riferimento alla possibilità di utilizzo delle tariffe
professionali è da ritenersi abrogato, è tuttavia da
considerare ancora del tutto vigente l’obbligo di illustrare
le predette modalità.
A questi fini le stazioni appaltanti non possono limitarsi
ad una generica e sintetica indicazione del compenso, ma
devono specificare con accuratezza ed analiticità i singoli
elementi che compongono la prestazione, nonché dare conto
del percorso motivazionale seguito per la determinazione del
suo valore.
Tali principi sono stati espressi anche dall’Autorità di
Vigilanza sui Contratti Pubblici con la deliberazione n. 49
del 03.05.2012.
Nel caso di specie, al contrario, nel bando di gara non vi è
traccia alcuna dei criteri di calcolo specificamente
utilizzati dall’Istituto per la quantificazione del
corrispettivo.
Fermo restando quanto innanzi esposto, la Sezione osserva,
infine, che, in extrema ratio, l’Amministrazione avrebbe
potuto motivare l’esiguità del corrispettivo fissato anche
ricorrendo a giustificazioni di natura diversa, inerenti, ad
esempio, la necessità di conciliare l’esiguità delle risorse
di bilancio disponibili con l’adempimento di obblighi di
legge (quale, appunto, quello relativo alla prevenzione e
protezione), o, ancora, la richiesta di collaborazione e
disponibilità ai professionisti eventualmente interessati.
Tanto avrebbe, altresì, consentito di evitare quella lesione
della “dignità professionale”, in considerazione della quale
l’ordine ricorrente si è determinato a respingere la
richiesta della Stazione appaltante di pubblicazione sul
proprio albo dell’avviso in questione.
Al riguardo, si richiama il condivisibile ed autorevole
orientamento giurisprudenziale, secondo il quale è stata
riconosciuta la possibilità della prestazione gratuita per
l’attività professionale: in tal senso è la sentenza della
Cassazione Civile, 17.08.2005, n. 16966, per la quale “Come
più volte affermato da questa Corte, poiché l'onerosità
costituisce un elemento normale del contratto d'opera
intellettuale, ma non essenziale ai fini della sua validità,
è consentita al professionista la prestazione gratuita della
sua attività professionale per i motivi più vari che possono
consistere nell'affectio o nella benevolentia, o in
considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con
riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio”.
... per l'annullamento del bando di gara prot. n. 7367/C12,
relativo al conferimento di incarico di "Responsabile del
Servizio di Prevenzione e Protezione", indetto dal Dirigente
Scolastico dell'Istituto Professionale I.I.S.S. "Falcone e
Borsellino" di Galatina pubblicato sull'Albo Pretorio
on-line dell'Istituto il 24.12.2013, nella parte in cui
prevede quale compenso per il professionista aggiudicatario
l'importo di euro 1.500,00 omnicomprensivo;
...
E’, invece, fondato ed assorbente il rilievo
relativo alla violazione dei principi di proporzionalità,
ragionevolezza e logicità (in uno, degli obblighi
motivazionali), nei limiti di seguito indicati.
Il Collegio osserva che l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n.
163/2006 dispone che “L'affidamento e l'esecuzione di opere
e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del
presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni
e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità,
efficacia, tempestività e correttezza; l'affidamento deve
altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità
di trattamento, non discriminazione, trasparenza,
proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità
indicate nel presente codice”. I suddetti principi sono
ribaditi anche dal successivo art. 27, il quale stabilisce
che anche i c.d. “contratti esclusi” sono affidati “nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità”.
A tutela della qualità delle prestazioni, poi, il
legislatore nazionale ha posto specifiche norme volte a
garantire che il corrispettivo offerto dall’appaltatore
nelle gare pubbliche sia proporzionato e sufficiente
rispetto all’oggetto dell’appalto. Ci si riferisce agli
articoli 86 e seguenti del d.lgs. n. 163/2006 in materia di
verifica dell’anomalia delle offerte, la cui finalità “è
quella di evitare che offerte troppo basse espongano
l'Amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione
in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella
richiesta, o con modalità esecutive in violazione di norme,
con la conseguenza di far sorgere contestazioni e ricorsi.
L'appalto deve quindi essere aggiudicato a soggetti che
abbiano prestato offerte che, avuto riguardo alle
caratteristiche specifiche della prestazione richiesta,
risultino complessivamente proporzionate sotto il profilo
economico all'insieme dei costi, rischi ed oneri che
l'esecuzione della prestazione comporta a carico
dell'appaltatore…” (ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, n.
2063 del 15.04.2013).
Ancora, “Il meccanismo previsto per l’eliminazione delle
offerte ingiustificatamente anomale dal novero di quelle
ammesse ad una gara è teso ad evitare che possa risultare
aggiudicataria di una gara una ditta che, per l’esiguità del
prezzo offerto, non sia poi in grado di assicurare una
prestazione adeguata alle esigenze che l’amministrazione
vuole soddisfare con l’appalto indetto”( TAR Sicilia,
Palermo, Sentenza 07/09/2011 n. 1608).
La ratio del sub procedimento di verifica dell’anomalia è,
pertanto, quella di accertare la serietà, la sostenibilità e
la sostanziale affidabilità della proposta contrattuale, in
maniera da evitare che l’appalto sia aggiudicato a prezzi
eccessivamente bassi, tali da non garantire la qualità e la
regolarità dell’esecuzione del contratto oggetto di
affidamento.
Se tanto è vero “a valle” delle procedure di aggiudicazione,
a maggior ragione, parallelamente, lo stesso principio deve
fondare l’attività della Pubblica Amministrazione “a monte”
della procedura stessa, e cioè nella fase
dell’individuazione dell’importo determinato proprio dalla
stazione appaltante quale corrispettivo del servizio da
acquisire.
Nel caso specifico, a fronte della prestazione professionale
complessa e specializzata richiesta (si veda l’articolo 2
del bando), l’Istituto scolastico ha previsto un compenso
omnicomprensivo (articolo 7 del bando) di euro 1.500,00,
manifestamente e palesemente incongruo e inadeguato.
Tanto è ancora più evidente se si considera che il predetto
importo include anche le spese vive da sostenere per
l’espletamento dell’incarico (spese di viaggio,
assicurazione, materiale di consumo, disponibilità di
specifici programmi) e, inoltre, che lo stesso incarico deve
essere espletato su due plessi scolastici situati in Comuni
diversi (Galatina e Galatone), distanti quasi 20 chilometri
uno dall’altro.
Sicché l’importo palesemente esiguo offerto potrebbe indurre
il professionista ad una non corretta esecuzione
dell’incarico ed essere foriera di probabili futuri
contenziosi. Ciò è tanto più grave in relazione alla
delicatezza dell’oggetto dell’incarico, che coinvolge la
vita e la sicurezza degli operatori scolastici e degli
alunni.
Il Collegio osserva, inoltre, che la stazione appaltante non
ha motivato in ordine alle modalità seguite nella
determinazione del compenso. Al riguardo, non è
condivisibile il rilievo opposto dall’Istituto resistente
relativo alla mancanza di parametri tabellari professionali
minimi inderogabili.
Il Collegio non ignora che l’articolo 9 del decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito con legge 24.03.2012, n.
27, ha disposto, al comma 1, l’abrogazione delle tariffe
delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. E’
evidente, pertanto, che le stesse non possono essere più
indicate nemmeno quale possibile riferimento per
l’individuazione del valore della prestazione.
Tuttavia, lo stesso art. 9, al comma 4, pur con specifico
riferimento al mercato privato, fornisce indicazioni utili
anche per la determinazione dell’importo relativo ai
compensi per l’espletamento di incarichi affidati dalle
Pubbliche Amministrazioni, stabilendo che, in ogni caso, la
misura del compenso “deve essere adeguata all'importanza
dell'opera e va pattuita indicando per le singole
prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese,
oneri e contributi”.
Da tale disposizione si ricava che la determinazione
dell’importo dell’affidamento non può essere connotata da
arbitrarietà: le stazioni appaltanti non possono, quindi,
porre a base di gara un importo senza un minimo di analisi
che consenta di comprendere le modalità esatte di
determinazione dell’importo e senza motivare il percorso
tecnico-logico seguito nella determinazione del valore
stesso.
L’interpretazione di cui innanzi risulta, altresì, coerente
con quanto prescritto dalla lettera d) del comma 1)
dell’articolo 264 del d.P.R. n. 207 del 2010, nella parte in
cui dispone che nel bando di gara devono essere indicate le
modalità di calcolo del corrispettivo. Difatti, se il
riferimento alla possibilità di utilizzo delle tariffe
professionali è da ritenersi abrogato, è tuttavia da
considerare ancora del tutto vigente l’obbligo di illustrare
le predette modalità.
A questi fini le stazioni appaltanti non possono limitarsi
ad una generica e sintetica indicazione del compenso, ma
devono specificare con accuratezza ed analiticità i singoli
elementi che compongono la prestazione, nonché dare conto
del percorso motivazionale seguito per la determinazione del
suo valore.
Tali principi sono stati espressi anche dall’Autorità di
Vigilanza sui Contratti Pubblici con la deliberazione n. 49
del 03.05.2012.
Nel caso di specie, al contrario, nel bando di gara non vi è
traccia alcuna dei criteri di calcolo specificamente
utilizzati dall’Istituto per la quantificazione del
corrispettivo.
Fermo restando quanto innanzi esposto, la Sezione osserva,
infine, che, in extrema ratio, l’Amministrazione avrebbe
potuto motivare l’esiguità del corrispettivo fissato anche
ricorrendo a giustificazioni di natura diversa, inerenti, ad
esempio, la necessità di conciliare l’esiguità delle risorse
di bilancio disponibili con l’adempimento di obblighi di
legge (quale, appunto, quello relativo alla prevenzione e
protezione), o, ancora, la richiesta di collaborazione e
disponibilità ai professionisti eventualmente interessati.
Tanto avrebbe, altresì, consentito di evitare quella lesione
della “dignità professionale”, in considerazione della quale
l’ordine ricorrente si è determinato a respingere la
richiesta della Stazione appaltante di pubblicazione sul
proprio albo dell’avviso in questione.
Al riguardo, si richiama il condivisibile ed autorevole
orientamento giurisprudenziale, secondo il quale è stata
riconosciuta la possibilità della prestazione gratuita per
l’attività professionale: in tal senso è la sentenza della
Cassazione Civile, 17.08.2005, n. 16966, per la quale
“Come più volte affermato da questa Corte (v. Cass.
7741/1999; Cass. 8787/2000), poiché l'onerosità costituisce
un elemento normale del contratto d'opera intellettuale, ma
non essenziale ai fini della sua validità, è consentita al
professionista la prestazione gratuita della sua attività
professionale per i motivi più vari che possono consistere
nell'affectio o nella benevolentia, o in considerazioni di
ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un
personale ed indiretto vantaggio”.
Tuttavia, neanche in tal senso l’Istituto Scolastico ha
motivato nel bando di che trattasi.
Pertanto, il ricorso è fondato e deve essere accolto per
difetto di motivazione dell’atto impugnato
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 16.07.2014 n. 1844 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel processo amministrativo le dichiarazioni
sostitutive di notorietà non hanno alcun valore sul piano
probatorio; esse costituiscono al più semplici indizi,
comunque inidonei a smentire i risultati dell'attività
istruttoria compiuta dall'Amministrazione in mancanza di
altri elementi nuovi, precisi e concordanti.
---------------
L'ordine di demolizione dell'abuso edilizio è atto vincolato
alla constatata abusività, che non richiede alcuna specifica
valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto.
----------------
L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive e i
successivi provvedimenti connessi e/o conseguenti non devono
essere preceduti dall'avviso di cui all'art. 7, l. n. 241
del 1990, trattandosi di atti dovuti, che vengono emessi
quale sanzione, rispettivamente per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche e per
l'inottemperanza all'ingiunzione di rimessione in prestino,
secondo un procedimento di natura vincolata, disciplinato
rigidamente dalla legge.
Si aggiunga che l'omessa comunicazione di avvio del
procedimento non inficia la legittimità del provvedimento
anche alla luce di quanto stabilito dall'art. 21-octies
comma 2, l. n. 241 del 1990.
---------------
L'ordinanza di demolizione è da ritenersi sorretta da
adeguata e autosufficiente istruttoria e motivazione
allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli
interventi abusivi contestati e l'individuazione della
violazione commessa (realizzazione di manufatti in assenza
del prescritto permesso di costruire).
Con ricorso notificato il 14.12.2013
e ritualmente depositato il successivo 10.01.2014, il
Sig. Luigi Di Marino impugna gli atti di cui in epigrafe,
con i quali il Comune di Cava de’ Tirreni ha ordinato la
sospensione e demolizione di opere edilizie ritenute
abusive, consistenti in: “1) struttura in muratura di mt.
3,30 x 4,30 per una altezza di mt. 2,30 con copertura a
solaio piano in c.a.;
2) struttura in muratura di mt. 2,30 x
5,70 con copertura inclinata costituita da struttura
precaria mista in legno e pannelli di lamiera, con altezza
parte alta mt. 2,60 e parte bassa mt. 2,20;
3) struttura in
muratura di mt. 4,60 x 4,70. Detti corpi di fabbrica sono
coperti da una tettoia con struttura portante in ferro e
lamiera in ferro…inoltre si riscontra una tettoia…un varco
d’accesso…una struttura in c.a. adibita a deposito….Inoltre
al di sotto della rampa di accesso sono stati creati tre
locali…”.
...
Il ricorso è infondato e, in relazione alle articolate
censure, per le seguenti ragioni:
1) parte ricorrente non ha adeguatamente comprovato l’epoca
di realizzazione delle opere contestate e, comunque, dalla
documentazione istruttoria versata in atti a cura del Comune
resistente (relazione prot. n. 13959 del 07.02.2014) risulta
verosimilmente che le stesse sono successive alla predetta
data; parte ricorrente produce dichiarazione sostituiva
rilasciata dallo stesso ricorrente in ordine all’epoca di
realizzazione delle opere contestate, ma l’atto è privo
dell’auspicato rilievo probatorio, in quanto “Nel processo
amministrativo le dichiarazioni sostitutive di notorietà non
hanno alcun valore sul piano probatorio; esse costituiscono
al più semplici indizi, comunque inidonei a smentire i
risultati dell'attività istruttoria compiuta
dall'Amministrazione in mancanza di altri elementi nuovi,
precisi e concordanti” (cfr. TAR Brescia–Lombardia -
sez. I 28.04.2014 n. 452); in ordine al preteso difetto
motivazionale, il Collegio ritiene di aderire
all’orientamento, di recente confermato dal Supremo Consesso
di G.A., secondo cui “L'ordine di demolizione dell'abuso
edilizio è atto vincolato alla constatata abusività, che non
richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una
motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione d'illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr.
Consiglio di Stato sez. V 30.06.2014 n. 3281);
2) in ordine alla lamentata pretermissione del diaframma
dialogico ex art. 7 l. n. 241/1990, il Collegio ritiene
all’orientamento, di recente ribadito in giurisprudenza,
secondo cui “L'ordine di demolizione di opere edilizie
abusive e i successivi provvedimenti connessi e/o
conseguenti non devono essere preceduti dall'avviso di cui
all'art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atti dovuti,
che vengono emessi quale sanzione, rispettivamente per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche e per l'inottemperanza all'ingiunzione di
rimessione in prestino, secondo un procedimento di natura
vincolata, disciplinato rigidamente dalla legge. Si aggiunga
che l'omessa comunicazione di avvio del procedimento non
inficia la legittimità del provvedimento anche alla luce di
quanto stabilito dall'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del
1990” (cfr. TAR Napoli-Campania - sez. VIII 26.03.2014 n. 1780);
3) l’invocata norma di cui all’art. 27 T.U.E. non preclude
all’Amministrazione di disporre contestualmente la
sospensione e demolizione delle opere;
4) l'ordinanza di demolizione è da ritenersi sorretta da
adeguata e autosufficiente istruttoria e motivazione
allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli
interventi abusivi contestati e l'individuazione della
violazione commessa (realizzazione di manufatti in assenza
del prescritto permesso di costruire) (cfr. TAR Napoli
(Campania) sez. VIII 10.10.2012 n. 4052);
5) le opere edilizie contestate, per la loro natura e
consistenza, sono senz’altro riconducibili al regime del
permesso di costruire e pertanto sono assoggettati a
sanzione demolitoria;
6) trova quindi applicazione, contrariamente a quanto si
assume in ricorso, l’art. 31 T.U.E., appunto rubricato
“Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire…”;
7) la sanzione demolitoria va doverosamente applicata non
richiedendosi il previo accertamento della sua conformità o
meno alla vigente disciplina urbanistica (TAR Napoli–Campania - sez. VI 05.03.2012 n. 1111);
8) il provvedimento demolitorio impugnato è adeguatamente
giustificato dall’abusività delle opere accertate, di guisa
che il richiamo all’art. 167 del d.lgs. 42/2004, anche se, a
tutto concedere ai rilievi di parte, risultasse ultroneo ed
ingiustificato, non è in grado di inficiare la sua
legittimità;
9) la censura relativa alla pretesa incompetenza del Comune
all’adozione dell’ordine di sospensione dei lavori a norma
degli artt. 96 e 97 T.U.E. non è a sua volta tale da
inficiare la legittimità dell’atto impugnato, in quanto la
qualificazione del potere esercitato non può prescindere
dall’art. 27 T.U.E., a sua volta espressamente richiamato in
seno all’atto impugnato, che attribuisce agli uffici
comunali il potere di ordinare l’immediata sospensione dei
lavori;
10) inammissibile per difetto di interesse è, infine, la
censura relativa al difetto di legittimazione passiva in
capo alla sig.ra Maria Bruno, siccome soggetto estraneo al
presente giudizio.
Tanto premesso, il ricorso è da respingere siccome del tutto
infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 16.07.2014 n. 1381 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La violazione dell'art. 10-bis della l.
07.08.1990 n. 241 non produce ex se l'illegittimità del
provvedimento finale, dovendosi interpretare la disposizione
sul c.d. preavviso di diniego alla luce del successivo art.
21-octies della medesima legge, in base alla quale, laddove
sia dedotto un vizio di natura formale, è imposto al giudice
di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e,
conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in
cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla
legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati.
---------------
L'art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente
il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica a sanatoria
quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di
compatibilità abbia determinato la creazione o l'aumento di
superfici utili o di volumi” e, d’altro canto, “non sussiste
alcun obbligo in capo all'amministrazione di imporre
prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile
con l'area tutelata, in quanto tale finalità non rientra nei
compiti d'istituto, dovendo l'amministrazione limitarsi a
valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo
di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già per
suggerire attività ulteriori volte a legalizzare
comportamenti contra legem.
L’intervento, al fine di verificarne la compatibilità con il
paesaggio va inteso unitariamente e comunque ogni
valutazione tecnico-discrezionale è interdetta dalla
preclusiva formulazione della norma testé esaminata, con
conseguente superfluità del contributo dialogico che il
ricorrente avrebbe potuto rendere in caso di comunicazione
di preavviso di diniego; per le medesime ragioni non ha
alcuna attitudine patologica quanto dedotto dal ricorrente a
proposito del novero dei vincoli realmente insistenti
sull’area.
---------------
Parte ricorrente lamenta, al riguardo, la violazione
dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, per la mancata
comunicazione dell’ordine di ripristino alla Soprintendenza,
ma in senso contrario va osservato che “In applicazione
dell'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, in presenza di
esecuzione di opere senza titolo su aree assoggettate a
vincoli paesaggistici, l'adozione delle misure repressive
demanda direttamente ed immediatamente al dirigente o al
responsabile”.
invero, “L'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, nel prevedere la
competenza sia del Comune sia della Soprintendenza in ordine
alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, non priva
certo il primo della funzione di controllo
urbanistico-edilizio che gli appartiene”.
---------------
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
mediante applicazione della misura ripristinatoria
costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione. Infatti, una volta
accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione
ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non
costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle
opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia.
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto
della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria della demolizione.
Fatta questa necessaria premessa e,
transitando al merito delle articolate censure, se ne
ravvisa l’infondatezza per i seguenti motivi:
- la deprecata convergenza, nel contesto di un unico atto,
della duplice determinazione reiettiva -riferita,
rispettivamente, alle domande di condono e dell’accertamento
di conformità- non assume l’auspicato rilievo patologico,
riguardando il medesimo immobile; né da ciò deriva la pur
lamentata perplessità del provvedimento in ordine al potere
in concreto esercitato, potendosi agevolmente ricavare,
dalle diffuse ed articolate ragioni poste a base
dell’interposto diniego, i profili ritenuti aventi carattere
ostativo al rilascio dei sospirati provvedimenti;
- la lamentata pretermissione del momento dialogico scolpito
dall’art. 10-bis della l. n. 47/1985 non è in grado di
inficiare gli atti impugnati, in quanto, per le ragioni che
si esporranno, il ricorrente non ha fornito dimostrazione
dell’utilità del contributo istruttorio che avesse ricevuto
il preavviso di diniego; ritenuto infatti di aderire
all’orientamento giurisprudenziale, affermato anche di
recente (TAR Napoli–Campania - sez. VII 07.01.2014
n. 1), secondo cui “la violazione dell'art. 10-bis della l.
07.08.1990 n. 241 non produce ex se l'illegittimità del
provvedimento finale, dovendosi interpretare la disposizione
sul c.d. preavviso di diniego alla luce del successivo art.
21-octies della medesima legge, in base alla quale, laddove
sia dedotto un vizio di natura formale, è imposto al giudice
di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e,
conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in
cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla
legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati”; va
altresì osservato che il ricorrente ha comunque avuto modo
di interloquire con l’Amministrazione nel corso del lungo ed
articolato sviluppo procedimentale, come detto,
contrassegnato da ripetuti accessi e sopralluoghi, tanto da
ricevere comunicazione di “avvio del procedimento emesso ai
sensi dell’art. 7 della legge 241/1990 prot. 14816 del
18.11.2010 regolarmente ricevuta in data 24.11.2010, avente
all’oggetto tra l’altro la richiesta di integrazione alla
succitata domanda di condono edilizio” (cfr. atto impugnato,
pag. 2); a tal riguardo, il ricorrente contesta la mancata
comunicazione di tale richiesta a tutti gli eredi
dell’istante deceduto, ed in particolare alla sig.ra Buonocore Lucia (madre del ricorrente e abitante il primo
piano del fabbricato) ma la censura, riflettendo un
interesse partecipativo ascrivibile non al ricorrente ma a
soggetto estraneo al presente giudizio, è da ritenere
inammissibile;
- parte ricorrente fonda le proprie doglianze sull’assunto
che le opere abusive sarebbero state realizzate nel 1980,
quindi prima dell’entrata in vigore del P.U.T., con la
conseguenza che non troverebbe applicazione il vincolo di
inedificabilità assoluta (conseguente alla collocazione del
fabbricato in zona territoriale 1A del P.U.T.) ritenuto
dall’Amministrazione ostativo all’accoglimento delle
istanze; ebbene, tale circostanza non è stata in alcun modo
documentata dal ricorrente nel corso del giudizio e non
trova comunque riscontro negli atti di causa, in quanto,
come evidenziato in seno all’atto impugnato, la pratica
relativa alla domanda di condono presentata dal sig. Casola
Alfonso “risulta priva di documentazioni
grafiche/fotografiche atte alla individuazione certe delle
opere abusive per cui si richiede la sanatoria”; va
soggiunto che, come agevolmente si ricava dalla successione
temporale dei sopralluoghi espletati dagli organi
accertatori, le opere abusive sono abbondantemente
proseguite, sia al piano primo che al piano secondo,
successivamente al sopralluogo del 24.02.2006;
- parte ricorrente contesta la legittimità del diniego di
accertamento di conformità urbanistica e di compatibilità
paesaggistica avendo trascurato che il ricorrente aveva
manifestato la disponibilità a demolire le opere non
sanabili perché tali da determinare un incremento di volume
e di superficie (ripristino cisterna e scannafosso),
chiedendo quindi la sanatoria solo delle restanti opere
abusive prive di rilevanza in termini plano volumetrici, ma
la censura non convince; premesso che il diniego si fonda
sul rilevato contrasto con il vincolo di inedificabilità
insistente sull’area e sulla stessa formulazione dell’art.
167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004 –laddove esclude la
compatibilità paesaggistica, tra l’altro, “per i lavori,
realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati”– occorre osservare che, come di
recente ribadito dal Supremo Consesso di G.A. (cfr.
Consiglio di Stato sez. VI 20.06.2013 n. 3373) “L'art.
167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica a sanatoria
quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di
compatibilità abbia determinato la creazione o l'aumento di
superfici utili o di volumi” e, d’altro canto, “non sussiste
alcun obbligo in capo all'amministrazione di imporre
prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile
con l'area tutelata, in quanto tale finalità non rientra nei
compiti d'istituto, dovendo l'amministrazione limitarsi a
valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo
di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già per
suggerire attività ulteriori volte a legalizzare
comportamenti contra legem” (cfr. TAR Firenze–Toscana -
sez. III 16.10.2012 n. 1623);
- l’intervento, al fine di verificarne la compatibilità con
il paesaggio va inteso unitariamente e comunque ogni
valutazione tecnico-discrezionale è interdetta dalla
preclusiva formulazione della norma testé esaminata, con
conseguente superfluità del contributo dialogico che il
ricorrente avrebbe potuto rendere in caso di comunicazione
di preavviso di diniego; per le medesime ragioni non ha
alcuna attitudine patologica quanto dedotto dal ricorrente a
proposito del novero dei vincoli realmente insistenti
sull’area;
- anche l’ordine di demolizione impugnato risulta immune
dalle articolate censure, venendo in considerazione un
intervento che assume piena rilevanza planovolumetrica
avendo determinato la complessiva trasformazione
dell’immobile rispetto alla sua originaria consistenza di
vetusto fabbricato rurale; la conseguente riconducibilità
dell’intervento, nella sua complessiva consistenza, al
regime del permesso di costruire (invece che della d.i.a.,
come divisato in ricorso) lo rende meritevole di essere
assoggettato alla irrogata sanzione demolitoria;
- parte ricorrente lamenta, al riguardo, la violazione
dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, per la mancata
comunicazione dell’ordine di ripristino alla Soprintendenza,
ma in senso contrario va osservato che “In applicazione
dell'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, in presenza di
esecuzione di opere senza titolo su aree assoggettate a
vincoli paesaggistici, l'adozione delle misure repressive
demanda direttamente ed immediatamente al dirigente o al
responsabile” (TAR Napoli–Campania - sez. VI 23.10.2013 n. 4679); invero, “L'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001,
nel prevedere la competenza sia del Comune sia della
Soprintendenza in ordine alla vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia, non priva certo il primo della
funzione di controllo urbanistico-edilizio che gli
appartiene” (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 18.04.2013
n. 2150);
- parte ricorrente lamenta, infine, il difetto di
motivazione, ma in senso contrario va rilevato che
“L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
mediante applicazione della misura ripristinatoria
costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione. Infatti, una volta
accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione
ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non
costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle
opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia; l'atto
può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della
stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria della demolizione”
(cfr. TAR Napoli (Campania) sez. VI 20.03.2014 n.
1616).
Tanto premesso, il ricorso va respinto siccome del tutto
infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 16.07.2014 n. 1380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo costante orientamento giurisprudenziale,
confermato di recente dal Supremo Consesso di G.A., “Il
decorso dei termini fissati dall'art. 35, comma 18, l.
28.02.1985, n. 47 per la formazione del
silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e per
la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle
somme dovute presuppone la completezza della domanda di
sanatoria”.
Anche questa Sezione ha osservato che per la formazione del
silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio è
necessario che ricorrano i requisiti sia dell’avvenuto
pagamento dell’oblazione dovuta e degli oneri di
concessione, che dell'avvenuto deposito di tutta la
documentazione prevista per l'istanza di condono, affinché
possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica
dell'Amministrazione comunale; di conseguenza il decorso dei
termini per la formazione del silenzio-accoglimento
sull'istanza di condono edilizio presuppone necessariamente
la completezza della domanda di sanatoria, sicché il titolo
abilitativo tacito può formarsi per effetto del silenzio
assenso soltanto se la domanda di sanatoria presentata
possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere
accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce
in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria,
in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo
della fattispecie autorizzativa.
La formazione tacita del provvedimento favorevole è quindi
preclusa laddove, come nel caso di specie, sia stata
richiesta integrazione dei documenti allegati all’istanza di
condono.
---------------
Tenuto conto della specialità del procedimento di condono
rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della
concessione edilizia, nonché dell'assenza di una specifica
previsione in ordine alla necessità del parere della
Commissione Edilizia Integrata, l'acquisizione di tale
parere, ai fini del rilascio della concessione edilizia in
sanatoria, non è obbligatoria, bensì meramente facoltativa.
---------------
L’orientamento della giurisprudenza consolidata, una volta
riconosciuto che nel provvedimento amministrativo la
motivazione per relationem corrisponde ad una tecnica
motivazionale pienamente ammessa dall’art. 3, l. 07.08.1990
n. 241, specie allorquando il provvedimento sia preceduto da
atti istruttori o da pareri, reputa sufficiente che
“l'interessato sia messo in grado di prenderne visione” e,
quindi, che gli atti dell'istruttoria a cui si fa rinvio
siano indicati e resi disponibili.
La giurisprudenza amministrativa formatasi al riguardo è
infatti costante nell'affermare che tale norma è rispettata
mediante l'indicazione degli estremi e la messa a
disposizione dell'interessato degli atti endoprocedimentali
o comunque che dal tenore motivazionale del provvedimento
emerga che l'autorità decidente si è basata su di essi.
Occorre premettere alle articolate censure che
il provvedimento di diniego impugnato presenta la seguente
testuale motivazione: “la richiesta prot. 34208 del
17/12/1998, notificata in data 08/01/1999 allo stesso G.G., con la quale l’Ente assegnava al richiedente la
sanatoria il termine di 90 giorni per integrare l’istanza
con la documentazione necessaria per l’istruttoria della
stessa, con l’avvertenza che qualora non si fosse
ottemperato a quanto richiesto si sarebbe proceduto ad
esprime PARERE SFAVOREVOLE al rilascio della concessione
edilizia in sanatoria ai sensi e per gli effetti dell’art.
49, comma 7, della legge 449/1997; ACCERTATO che al 08/04/1999,
termine ultimo per la presentazione della documentazione
minima richiesta per legge, l’interessato non aveva
ottemperato a quanto richiesto con la nota sopra
menzionata…”.
Ebbene, parte ricorrente, dopo aver
evidenziato, in punto di fatto, di avere provveduto
“all’obbligo di presentazione di tutta la documentazione
necessaria per l’esame della domanda di condono” (cfr. pag 1
del ricorso), contesta, con i primi due motivi di censura,
meritevoli per il loro tenore di trattazione congiunta, che
si sarebbe formato il silenzio assenso ex art. 35 della l. n.
47/1985 e che pertanto occorreva l’attivazione del
contraddittorio nelle forme dell’art. 7 della legge n.
241/1990 prima di provvedere negativamente sull’istanza di
condono.
Il rilievo non persuade il Collegio, avuto riguardo
alla stessa documentazione versata in atti, in quanto dalla
domanda di condono prot. n. 10787 del 30.04.1986, presentata
dal sig. G.G., risulta che alla stessa, come
espressamente riportato in calce, è stata allegata la sola
“attestazione oblazione versata 1/3”. Ciò non può reputarsi
sufficiente ai fini della formazione del titolo per silentium, come preteso in ricorso.
Infatti, secondo
costante orientamento giurisprudenziale, confermato di
recente dal Supremo Consesso di G.A., “Il decorso dei
termini fissati dall'art. 35, comma 18, l. 28.02.1985,
n. 47 per la formazione del silenzio-accoglimento
sull'istanza di condono edilizio e per la prescrizione
dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute
presuppone la completezza della domanda di sanatoria” (cfr.
Consiglio di Stato sez. V 17.06.2014 n. 3076).
Anche
questa Sezione (sentenza n. 2354 del 27/11/2013) ha
osservato che per la formazione del silenzio-assenso
sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano
i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione
dovuta e degli oneri di concessione, che dell'avvenuto
deposito di tutta la documentazione prevista per l'istanza
di condono, affinché possano essere utilmente esercitati i
poteri di verifica dell'Amministrazione comunale; di
conseguenza il decorso dei termini per la formazione del
silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio
presuppone necessariamente la completezza della domanda di
sanatoria, sicché il titolo abilitativo tacito può formarsi
per effetto del silenzio assenso soltanto se la domanda di
sanatoria presentata possegga i requisiti soggettivi e
oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di
taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il
procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è
mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa.
La formazione tacita del provvedimento favorevole è quindi
preclusa laddove, come nel caso di specie, sia stata
richiesta integrazione dei documenti allegati all’istanza di
condono.
---------------
Nemmeno coglie nel segno
il rilievo col quale si lamenta la mancanza del parere della
Commissione Edilizia, atteso che questa Sezione Distaccata
(sez. I 15.01.2014 n. 137) si è già espressa, di
recente, nel senso che “Tenuto conto della specialità del
procedimento di condono rispetto all'ordinario procedimento
di rilascio della concessione edilizia, nonché dell'assenza
di una specifica previsione in ordine alla necessità del
parere della Commissione Edilizia Integrata, l'acquisizione
di tale parere, ai fini del rilascio della concessione
edilizia in sanatoria, non è obbligatoria, bensì meramente
facoltativa”.
Peraltro di tale contributo consultivo non si
appalesa la necessità, stante la mancata integrazione della
documentazione richiesta dalla normativa in materia, che
preclude l’accoglimento della domanda senza la necessità di
espletare valutazione di carattere tecnico-discrezionale di
pertinenza dell’organo consultivo che sarebbe stato
indebitamente pretermesso. Il motivo è quindi da respingere.
---------------
Col quarto ed ultimo
motivo di gravame, parte ricorrente lamenta il difetto di
motivazione, denunciando -da un lato- la inidoneità della
mancata integrazione documentale a suffragare il diniego,
dall’altro, la mancata trasmissione al ricorrente della
relazione istruttoria del tecnico responsabile del
procedimento.
In senso contrario va in primo luogo osservato
che, come è dato agevolmente evincere dal tratto testuale
del provvedimento, l’Amministrazione ha dato ampia contezza
delle ragioni poste a base del diniego, esattamente connesse
all’inottemperanza alla notificata richiesta di integrazione
documentale.
Ne consegue l’infondatezza già del primo
profilo di censura, non avendo l’Amministrazione denegato la
domanda di condono senza dare la possibilità all’istante di
integrare la documentazione presentata, avendolo stimolato
con apposita richiesta rimasta inevasa.
Con il secondo
profilo di censura, parte ricorrente richiama i principi
espressi in giurisprudenza in materia di motivazione per relationem, assumendo che in sede pretoria sarebbe richiesta
la comunicazione, a cura della stessa Amministrazione
procedente, al destinatario del provvedimento conclusivo,
dell’atto esterno recepito in sede decisoria.
In senso
contrario è sufficiente osservare che l’orientamento della
giurisprudenza consolidata, una volta riconosciuto che nel
provvedimento amministrativo la motivazione per relationem
corrisponde ad una tecnica motivazionale pienamente ammessa
dall’art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, specie allorquando il
provvedimento sia preceduto da atti istruttori o da pareri,
reputa sufficiente che “l'interessato sia messo in grado di
prenderne visione” (Consiglio di Stato sez. V 24.03.2014
n. 1420) e quindi che gli atti dell'istruttoria a cui si fa
rinvio siano indicati e resi disponibili.
La giurisprudenza
amministrativa formatasi al riguardo è infatti costante
nell'affermare che tale norma è rispettata mediante
l'indicazione degli estremi e la messa a disposizione
dell'interessato degli atti endoprocedimentali o comunque
che dal tenore motivazionale del provvedimento emerga che
l'autorità decidente si è basata su di essi (C. Stato, Sez.
IV, 20.12.2013, n. 6169, 22.03.2013, n. 1632, 03.08.2010, n. 5150; Sez. VI, 17.01.2014, n. 227, 15.10.2013, n. 5008,
04.10.2013, n. 4896, 20.09.2012, n. 4984, 24.02.2011, n. 1156).
Nel caso di
specie, non solo l’Amministrazione ha esattamente riportato
gli estremi (“in data 10/08/01 prot. gen. n. 22665”) della
relazione istruttoria alla quale ha fatto rinvio, ma ha
comunque esplicitato, nel quadro motivazionale posto a
corredo dell’atto, le ragioni poste a base del diniego
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 16.07.2014 n. 1378 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In esito alle innovazioni apportate dall’art. 5,
comma 2, lett. a), n. 3, del d.l. n. 70/2011, conv. in l. n.
106/2011, il legislatore, in omaggio alla regola generale di
semplificazione amministrativa codificata nell’art. 20 della
l. n. 241/1990, ha, dunque, espressamente esteso al
procedimento di rilascio del permesso di costruire il regime
del silenzio-assenso, fatte salve le deroghe previste in
ipotesi di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Di conseguenza, una volta decorso inutilmente il termine per
la definizione del procedimento di rilascio del permesso di
costruire, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la
conclusione dell’istruttoria + 30 o, in caso di preavviso di
rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), salvo
sospensione per modifiche al progetto ovvero interruzione
per integrazioni documentali, senza che il dirigente o il
responsabile dell'ufficio abbia opposto motivato diniego,
sulla domanda di permesso di costruire deve intendersi
formato il titolo abilitativo tacito.
---------------
Il titolo abilitativo tacito ex art. 20, comma 8, del d.p.r.
n. 380/2001 non può essere considerato tamquam non esset
dall'amministrazione, che per rimuoverne gli effetti dovrà
esperire il procedimento di autotutela.
A tale ultimo riguardo, occorre precisare che, se, da un
lato, il perfezionarsi del silenzio-assenso non priva, di
per sé, l’amministrazione del potere di negare il
provvedimento ampliativo derivante ex lege dall’oggettiva
integrazione dello schema semplificatorio, tale potere deve
essere, d’altro lato, indeclinabilmente esercitato mediante
il ricorso agli ordinari strumenti dell’autotutela, ossia
nell’osservanza dei presidi sostanziali e procedimentali ex
artt. 21-quinquies o 21-nonies della l. n. 241/1990, così
come espressamente previsto dal precedente art. 20, comma 3
(“nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale
ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente
può assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi
degli articoli 21-quinques e 21-nonies”).
In particolare, tra gli evocati presidi sostanziali e
procedimentali non può non annoverarsi la comunicazione di
avvio ex art. 7 della l. n. 241/1990, la quale deve
indefettibilmente precedere l’intervento in autotutela sul
titolo abilitativo tacito, e la motivazione in ordine
all’interesse pubblico, specifico e concreto, giustificativo
del ricorso all’autotutela, ed alla sua prevalenza rispetto
a quello antagonista del privato.
---------------
In perfetta simmetria con quanto prima affermato, anche in
riferimento al c.d. “silenzio-assenso”, l’attività
giurisprudenziale interpretativa in chiave perimetrativa si
è strutturata su più versanti. Avuto riguardo alle qualità
intrinseche che la istanza deve possedere affinché possa
validamente formarsi un silenzio-assenso giuridicamente
rilevante e produttivo di effetti ampliativi, si è posto in
luce che “una fattispecie di tacito accoglimento può aver
luogo in presenza di istanze assistite da requisiti minimali
(afferenti alla legittimazione del richiedente, alla
corretta individuazione dell'oggetto del provvedere, alla
competenza dell'ente chiamato a pronunciarsi, ecc.), tali da
poter ricondurre al dato obiettivo della loro presentazione,
unitamente al decorso del termine assegnato per provvedere,
l'accoglimento per silentium.
Da tale principio si è fatta discendere la conseguenza che
“non può formarsi il silenzio-assenso sull'istanza di
concessione edilizia quando non è accompagnata ab initio da
tutti i requisiti previsti dalla legge (in primis la perizia
giurata di un tecnico qualificato), necessari perché il
silenzio possa essere equiparato a rilascio della
concessione edilizia” e che, comunque, “il privato deve
chiarire sin da subito quale sia il provvedimento favorevole
cui aspira non potendosi invocare la formazione di un
provvedimento tacito di accoglimento laddove si presentino
all'amministrazione istanze articolate in più sottorichieste
comportanti termini e procedimenti diversi. Una diversa
interpretazione condurrebbe all'inevitabile conseguenza
della completa incertezza, per l'Amministrazione così come
per il privato, sul valore da attribuire al comportamento
inerte dell'Amministrazione e sul provvedimento tacito che
si è formato”.
---------------
La formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per
silenzio-assenso presuppone, quale sua condizione
imprescindibile, non solo l'inutile decorso del tempo dalla
presentazione dell'istanza senza che sia intervenuta
risposta dall'Amministrazione, ma la ricorrenza di tutte le
condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla
legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di
cui si deduce l'avvenuto perfezionamento, con la conseguenza
che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui
l'interessato abbia rappresentato una situazione di fatto
difforme da quella reale.
---------------
Il diniego esplicito, sopravvenuto alla formazione del
silenzio-assenso, non può considerarsi atto inesistente, ma
atto che si sostituisce all'assenso tacito, quale ulteriore
rinnovata espressione del potere di cui l'amministrazione
era e rimane titolare, quanto meno in via di autotutela; il
diniego, quindi, può, se mai, ritenersi illegittimo -in
quanto non conforme all'esercizio del potere di autotutela-,
ma non nullo (facendone peraltro discendere –in un quadro
legislativo precedente all’art. 5-bis dell’art. 20 della
legge n. 241 del 1990 introdotto dall'articolo 2, comma
1-sexies, del D.L. 05.08.2010, n. 125- la conseguenza che il
diniego stesso e gli atti che ne costituiscono esecuzione
debbono essere sindacati non dall'A.g.o., ma dal giudice
amministrativo, in quanto oggetto del contendere è un
asserito non corretto uso dei poteri amministrativi).
A fronte di un silenzio-assenso legittimamente formatosi, si
sosteneva –da parte di una qualificata corrente dottrinaria
e giurisprudenziale- che sarebbe potuto pur sempre
intervenire un provvedimento a contenuto negativo;
quest’ultimo, se reso con le forme procedimentali proprie
degli atti “di secondo grado”, rientranti nell’alveo dei
provvedimenti di autotutela, doveva essere tempestivamente
impugnato: altrimenti si sarebbe consolidato, con effetto
annullatorio dell’“assenso-silenzioso”.
La giurisprudenza più recente ha, però, espresso non poche
critiche verso questo modo di provvedere delle
Amministrazioni, affermando che sarebbe illegittimo l'atto
di diniego successivamente emesso, considerato che il potere
di provvedere sulla domanda si è consumato e residua solo
eventualmente in capo all'ente pubblico la potestà di
autotutela, da attuarsi con provvedimento di annullamento e
in presenza dei relativi presupposti, tra cui l'indicazione
dei profili di illegittimità.
L’elaborazione pretoria ha trovato conferma in un successivo
intervento legislativo: l'art. 20, terzo comma, L. n. 241
del 1990 (legge sul procedimento amministrativo), nel testo
modificato dalla L. n. 80 del 2005, dispone che, nei casi in
cui il silenzio equivale ad accoglimento della domanda,
l'Amministrazione competente può soltanto assumere
determinazioni in via di autotutela, secondo le previsioni
dei successivi artt. 21-quinquies e 21-nonies, L. n. 241 del
1990.
L’amministrazione non può, quindi, limitarsi a provvedere
tardivamente sull’istanza, ma deve avviare un vero e proprio
procedimento di secondo grado finalizzato alla rimozione
dell’atto (che si assume illegittimo) formatosi per
silentium.
In senso parzialmente contrario, altra corrente
“sostanzialistica” della giurisprudenza di primo grado ha
sostenuto che non sarebbe precluso alla p.a. di determinarsi
in contrario con un provvedimento esplicito, ma, trattandosi
di un atto implicito di autotutela, essa dovrebbe comunicare
all'interessato l'avvio del relativo procedimento, pena
l'illegittimità dell'atto.
---------------
Nell’ipotesi di silenzio-assenso, viceversa, si è ritenuto
che “l'inerente potere di autotutela assorba in sé anche
profili valutativi che normalmente ineriscono all'esercizio
della funzione amministrativa di primo grado, ma che
l'Amministrazione non è stata a suo tempo in grado di
esercitare.
La funzione sollecitatoria a cui si ispira l'istituto del
silenzio-assenso non può, infatti, a pena di insanabile
contrasto della relativa disciplina legislativa con la
sovraordinata fonte costituzionale (art. 97 cost.),
pregiudicare la possibilità di un pieno e ponderato
esercizio dell'attività di valutazione e comparazione dei
diversi interessi pubblici e privati coinvolti
dall'esercizio della funzione amministrativa.
Pertanto, in sede di annullamento d'ufficio di un silenzio
assenso, deve essere restituito integro il potere-dovere di
compiere, per la prima volta, quelle valutazioni che a suo
tempo l'Amministrazione avrebbe potuto e dovuto porre a
fondamento dell'esercizio della funzione istituzionale di
primo grado ad essa spettante.
Correlativamente, è stato reputato legittimo il
provvedimento di annullamento d'ufficio del silenzio
assenso, ove l'Amministrazione, pur senza enucleare
specifici profili di illegittimità dell'atto da annullare e
specifiche, distinte, ragioni di interesse pubblico
giustificanti l'annullamento medesimo, abbia svolto una
completa ed approfondita disamina dell'assetto di interessi
scaturente dal provvedimento tacito, in rapporto a quello
inerente alla funzione tipica cui è preordinata l'attività
amministrativa di primo grado, pervenendo, ove ne abbia
riscontrato la dissonanza, alla rimozione dell'assetto
ritenuto "contra legem" ed al ripristino di quello
risultante conforme all'interesse pubblico da perseguire -l'interesse
pubblico sotteso al legittimo esercizio del potere di
autotutela può rinvenirsi anche nella necessità di
ripristinare l'equilibrio delle posizioni private coinvolte,
che non costituisce un aspetto di disciplina dei rapporti
intersoggettivi di natura privata, ma costituisce
l'essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di
tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che
devono ricevere adeguata tutela nell'ordinamento, rimanendo
escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni-".
In esito alle innovazioni apportate dall’art. 5, comma
2, lett. a), n. 3, del d.l. n. 70/2011, conv. in l. n.
106/2011, il legislatore, in omaggio alla regola generale di
semplificazione amministrativa codificata nell’art. 20 della
l. n. 241/1990, ha, dunque, espressamente esteso al
procedimento di rilascio del permesso di costruire il regime
del silenzio-assenso, fatte salve le deroghe previste in
ipotesi di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Di conseguenza, una volta decorso inutilmente il termine per
la definizione del procedimento di rilascio del permesso di
costruire, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la
conclusione dell’istruttoria + 30 o, in caso di preavviso di
rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), salvo
sospensione per modifiche al progetto ovvero interruzione
per integrazioni documentali, senza che il dirigente o il
responsabile dell'ufficio abbia opposto motivato diniego,
sulla domanda di permesso di costruire deve intendersi
formato il titolo abilitativo tacito (cfr. TAR Puglia, Bari,
sez. III, 18.09.2012, n. 1677; TAR Lazio, Latina, 25.02.2013, n. 192).
---------------
Alla stregua delle
osservazioni svolte, deve, pertanto, ritenersi che –come
fondatamente denunciato da parte ricorrente–
illegittimamente il Comune di Salerno, nell’adozione del
provvedimento sfavorevole alla richiesta della parte non ha
tenuto conto del silenzio-assenso medio tempore intervenuto.
Ed invero, il titolo abilitativo tacito ex art. 20, comma 8,
del d.p.r. n. 380/2001 non può essere considerato tamquam
non esset dall'amministrazione, che per rimuoverne gli
effetti dovrà esperire il procedimento di autotutela (cfr.
TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.04.2013, n. 704; TAR
Abruzzo, Pescara, 15.11.2013, n. 555).
A tale ultimo riguardo, occorre precisare che, se, da
un lato, il perfezionarsi del silenzio-assenso non priva, di
per sé, l’amministrazione del potere di negare il
provvedimento ampliativo derivante ex lege dall’oggettiva
integrazione dello schema semplificatorio, tale potere deve
essere, d’altro lato, indeclinabilmente esercitato mediante
il ricorso agli ordinari strumenti dell’autotutela, ossia
nell’osservanza dei presidi sostanziali e procedimentali ex
artt. 21-quinquies o 21-nonies della l. n. 241/1990, così
come espressamente previsto dal precedente art. 20, comma 3
(“nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale
ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente
può assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi
degli articoli 21-quinques e 21-nonies”).
In particolare, tra gli evocati presidi sostanziali e
procedimentali non può non annoverarsi la comunicazione di
avvio ex art. 7 della l. n. 241/1990, la quale deve
indefettibilmente precedere l’intervento in autotutela sul
titolo abilitativo tacito, e la motivazione in ordine
all’interesse pubblico, specifico e concreto, giustificativo
del ricorso all’autotutela, ed alla sua prevalenza rispetto
a quello antagonista del privato.
Orbene, nella specie, non si ravvisa l’adozione di presidi,
avendo l’amministrazione direttamente rigettato la domanda
di permesso di costruire del 18.12.2012, senza curarsi
dell’avvenuta formazione del silenzio assenso.
Invero, l’amministrazione comunale, nella propria
memoria, mostra di non condividere la surriportata
ricostruzione giurisprudenziale, appellandosi ad una
pronuncia del Tar Lazio, Roma, Sez. I n. 8155 del 06.09.2013,
a mente delle cui conclusioni in ipotesi come quelle
esaminate, la mancata adozione del provvedimento entro i
termini stabiliti non costituisce silenzio assenso, bensì
silenzio-rifiuto ”che va inteso come mero inadempimento che è
pertanto ovviabile quando il provvedimento espresso
intervenga in un momento successivo ancorché in ritardo”.
Il Collegio non condivide le rassegnate difese,
condividendo, al contrario, quel percorso giurisprudenziale
maggioritario sinteticamente espresso, ex multis, da Cons.
St. n. 1767/2014 che di seguito si riporta:
“In perfetta simmetria con quanto prima affermato, anche in
riferimento al c.d. “silenzio-assenso”, l’attività
giurisprudenziale interpretativa in chiave perimetrativa si
è strutturata su più versanti.
Avuto riguardo alle qualità intrinseche che la istanza deve
possedere affinché possa validamente formarsi un
silenzio-assenso giuridicamente rilevante e produttivo di
effetti ampliativi, si è posto in luce che “una fattispecie
di tacito accoglimento può aver luogo in presenza di istanze
assistite da requisiti minimali (afferenti alla
legittimazione del richiedente, alla corretta individuazione
dell'oggetto del provvedere, alla competenza dell'ente
chiamato a pronunciarsi, ecc.), tali da poter ricondurre al
dato obiettivo della loro presentazione, unitamente al
decorso del termine assegnato per provvedere, l'accoglimento
per silentium” (Consiglio di Stato, Sezione VI, 21.09.2010 n. 7012).
Da tale principio si è fatta discendere la conseguenza che
“non può formarsi il silenzio-assenso sull'istanza di
concessione edilizia quando non è accompagnata ab initio da
tutti i requisiti previsti dalla legge (in primis la perizia
giurata di un tecnico qualificato), necessari perché il
silenzio possa essere equiparato a rilascio della
concessione edilizia” (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 05.10.2010 n. 1239), e che, comunque, “il
privato deve chiarire sin da subito quale sia il
provvedimento favorevole cui aspira non potendosi invocare
la formazione di un provvedimento tacito di accoglimento
laddove si presentino all'amministrazione istanze articolate
in più sottorichieste comportanti termini e procedimenti
diversi. Una diversa interpretazione condurrebbe
all'inevitabile conseguenza della completa incertezza, per
l'Amministrazione così come per il privato, sul valore da
attribuire al comportamento inerte dell'Amministrazione e
sul provvedimento tacito che si è formato” (Tar Campania,
Napoli, Sezione III n. 17583, del 04.10.2010).
Con una affermazione che suona quale “clausola di chiusura
del sistema”, si è di recente puntualizzato che “la
formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per
silenzio-assenso presuppone, quale sua condizione
imprescindibile, non solo l'inutile decorso del tempo dalla
presentazione dell'istanza senza che sia intervenuta
risposta dall'Amministrazione, ma la ricorrenza di tutte le
condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla
legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di
cui si deduce l'avvenuto perfezionamento, con la conseguenza
che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui
l'interessato abbia rappresentato una situazione di fatto
difforme da quella reale” (Tar Piemonte, 14.01.2011 n.
16).
Come è noto, poi, analoga cautela ha improntato le
valutazioni giurisprudenziali in riferimento agli
accadimenti intervenuti in un momento successivo al decorso
del termine previsto ex lege per la formazione del silenzio-assenso.).
La questione si è posta in passato, con una certa frequenza,
laddove il provvedimento espresso sopravvenuto abbia
contenuto reiettivo (e quindi si ponga in contrasto con il
“provvedimento silenzioso” già formatosi).
Si è detto, infatti, a più riprese, in passato (tra le tante
Consiglio Stato, sez. VI, 10.03.1994, n. 298 ma anche
Consiglio Stato, sez. V, 17.03.2003, n. 1381), che il
diniego esplicito, sopravvenuto alla formazione del
silenzio-assenso, non può considerarsi atto inesistente, ma
atto che si sostituisce all'assenso tacito, quale ulteriore
rinnovata espressione del potere di cui l'amministrazione
era e rimane titolare, quanto meno in via di autotutela; il
diniego, quindi, può, se mai, ritenersi illegittimo -in
quanto non conforme all'esercizio del potere di autotutela-, ma non nullo (facendone peraltro discendere –in un
quadro legislativo precedente all’art. 5-bis dell’art. 20
della legge n. 241 del 1990 introdotto dall'articolo 2,
comma 1-sexies, del D.L. 05.08.2010, n. 125- la
conseguenza che il diniego stesso e gli atti che ne
costituiscono esecuzione debbono essere sindacati non dall'A.g.o.,
ma dal giudice amministrativo, in quanto oggetto del
contendere è un asserito non corretto uso dei poteri
amministrativi).
A fronte di un silenzio-assenso legittimamente formatosi, si
sosteneva –da parte di una qualificata corrente dottrinaria
e giurisprudenziale- che sarebbe potuto pur sempre
intervenire un provvedimento a contenuto negativo;
quest’ultimo, se reso con le forme procedimentali proprie
degli atti “di secondo grado”, rientranti nell’alveo dei
provvedimenti di autotutela, doveva essere tempestivamente
impugnato: altrimenti si sarebbe consolidato, con effetto annullatorio dell’“assenso-silenzioso”.
La giurisprudenza più recente ha, però, espresso non poche
critiche verso questo modo di provvedere delle
Amministrazioni, affermando che sarebbe illegittimo l'atto
di diniego successivamente emesso, considerato che il potere
di provvedere sulla domanda si è consumato e residua solo
eventualmente in capo all'ente pubblico la potestà di
autotutela, da attuarsi con provvedimento di annullamento e
in presenza dei relativi presupposti, tra cui l'indicazione
dei profili di illegittimità.
L’elaborazione pretoria ha trovato conferma in un successivo
intervento legislativo: l'art. 20, terzo comma, L. n. 241
del 1990 (legge sul procedimento amministrativo), nel testo
modificato dalla L. n. 80 del 2005, dispone che, nei casi in
cui il silenzio equivale ad accoglimento della domanda,
l'Amministrazione competente può soltanto assumere
determinazioni in via di autotutela, secondo le previsioni
dei successivi artt. 21-quinquies e 21-nonies, L. n. 241 del
1990.
L’amministrazione non può, quindi, limitarsi a provvedere
tardivamente sull’istanza (tra le tante, TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 03.05.2010, n. 2266), ma deve
avviare un vero e proprio procedimento di secondo grado
finalizzato alla rimozione dell’atto (che si assume
illegittimo) formatosi per silentium.
In senso parzialmente contrario, altra corrente
“sostanzialistica” della giurisprudenza di primo grado (si
veda TAR Friuli Venezia Giulia Trieste, sez. I, 28.10.2010, n. 719) ha sostenuto che non sarebbe precluso
alla p.a. di determinarsi in contrario con un provvedimento
esplicito, ma, trattandosi di un atto implicito di
autotutela, essa dovrebbe comunicare all'interessato l'avvio
del relativo procedimento, pena l'illegittimità dell'atto.
Per chiudere con questo –necessario, seppur sintetico-
excursus, va anche evidenziato che neppure v’è pieno accordo
in ordine alla latitudine applicativa del detto eventuale
atto di autotutela.
Se è, infatti, certo che esso deve essere assunto nel
rispetto delle cautele infraprocedimentali proprie dei
procedimenti di secondo grado (primo tra tutti, l’obbligo di
dare avviso dell’avvio del procedimento finalizzato alla
rimozione dell’atto: ex multis, si veda Consiglio Stato,
sez. VI, 28.02.2006, n. 887), il nuovo provvedimento
secondo parte della giurisprudenza amministrativa, non
sarebbe soggetto ai limiti applicativi (sussistenza di
ragioni di interesse pubblico, termine ragionevole
ponderazione degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati) di cui all’art. 21-novies della legge 07.08.1990 n. 241.
Tali limiti all’adozione di un atto di autotutela
ricorrerebbero soltanto in ipotesi di rimozione di un
provvedimento espresso.
Nell’ipotesi di silenzio-assenso, viceversa, si è ritenuto
che “l'inerente potere di autotutela assorba in sé anche
profili valutativi che normalmente ineriscono all'esercizio
della funzione amministrativa di primo grado, ma che
l'Amministrazione non è stata a suo tempo in grado di
esercitare. La funzione sollecitatoria a cui si ispira
l'istituto del silenzio-assenso non può, infatti, a pena di
insanabile contrasto della relativa disciplina legislativa
con la sovraordinata fonte costituzionale (art. 97 cost.),
pregiudicare la possibilità di un pieno e ponderato
esercizio dell'attività di valutazione e comparazione dei
diversi interessi pubblici e privati coinvolti
dall'esercizio della funzione amministrativa. Pertanto, in
sede di annullamento d'ufficio di un silenzio assenso, deve
essere restituito integro il potere-dovere di compiere, per
la prima volta, quelle valutazioni che a suo tempo
l'Amministrazione avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento
dell'esercizio della funzione istituzionale di primo grado
ad essa spettante. Correlativamente, è stato reputato
legittimo il provvedimento di annullamento d'ufficio del
silenzio assenso, ove l'Amministrazione, pur senza enucleare
specifici profili di illegittimità dell'atto da annullare e
specifiche, distinte, ragioni di interesse pubblico
giustificanti l'annullamento medesimo, abbia svolto una
completa ed approfondita disamina dell'assetto di interessi
scaturente dal provvedimento tacito, in rapporto a quello
inerente alla funzione tipica cui è preordinata l'attività
amministrativa di primo grado, pervenendo, ove ne abbia
riscontrato la dissonanza, alla rimozione dell'assetto
ritenuto "contra legem" ed al ripristino di quello
risultante conforme all'interesse pubblico da perseguire -l'interesse
pubblico sotteso al legittimo esercizio del potere di
autotutela può rinvenirsi anche nella necessità di
ripristinare l'equilibrio delle posizioni private coinvolte,
che non costituisce un aspetto di disciplina dei rapporti
intersoggettivi di natura privata, ma costituisce
l'essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di
tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che
devono ricevere adeguata tutela nell'ordinamento, rimanendo
escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni-” (Tar
Campania, Napoli, 10.09.2010 n. 17398)“
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.07.2014 n. 1359 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Al momento dell’entrata
in vigore della legge di conversione n. 98/2013, il P.A. era
mantenuto provvisoriamente in vita dall’istanza di proroga
(antecedente alla scadenza del P.A.) sul quale il Comune non
aveva ancora provveduto dichiarando la definitiva decadenza
del medesimo piano attuativo, con la conseguenza che doveva
trovare applicazione al caso in esame la proroga automatica
prevista dall’art. 30, comma 3-bis, della L. n. 98/2013.
... per l'annullamento della deliberazione della Giuta
Comunale di Vicenza n. 51/2014 (comunicata con nota del
direttore del settore urbanistica del 01.04.2014, prot. n.
25648) con cui è stata respinta l'istanza di proroga dei
termini di efficacia del PIRUEA "Pomari", del successivo
provvedimento del direttore del settore urbanistica emesso
in data 09/05/2014, prot. n. 36804, confermativo della
delibera n. 51/2014, nonché di ogni altro atto connesso,
presupposto ai provvedimenti impugnati, ivi compreso, per
quanto necessario, della nota della Avvocatura Comunale n.
75477 del 09/10/2013.
...
Il ricorso è fondato.
In particolare merita accoglimento il primo motivo con il
quale è stata dedotta la violazione dell’art. 30, comma
3-bis, della L. n. 98/2013, norma che ha disposto la proroga
triennale dei piani e degli accordi stipulati fino al
31.12.2012.
Nel caso di specie il PIRUEA “Pomari” è stato approvato con
delibera della Giunta Regionale n. 288 del 07.02.2003,
pubblicata l’11.03.2003.
In data 10.01.2013, prima della scadenza del piano
(11.03.2013), la ricorrente ha formulato motivata richiesta
di proroga dei termini di scadenza del PIRUEA.
In data 20.08.2013 è entrata in vigore la L. n. 98/2013,
che, nel convertire con modifiche il D.L. n. 69/2013, ha
introdotto il meccanismo di proroga di cui si è detto.
Il Comune di Vicenza ha provveduto, nel marzo 2014, negando,
con la delibera impugnata, la richiesta di proroga formulata
dalla ricorrente.
In particolare il Comune ha ritenuto la legge suddetta
inapplicabile al caso di specie, essendo il piano attuativo
scaduto al momento dell’entrata in vigore della stessa legge
di conversione.
Rileva, al contrario, il Collegio, come sia evidente che, al
momento dell’entrata in vigore della legge di conversione n.
98/2013, il PIRUEA era mantenuto provvisoriamente in vita
dall’istanza di proroga (antecedente alla scadenza del
PIRUEA), sulla quale il Comune non aveva ancora provveduto
dichiarando la definitiva decadenza del medesimo piano
attuativo, con la conseguenza che doveva trovare
applicazione al caso in esame la proroga automatica prevista
dall’art. 30, comma 3-bis, della L. n. 98/2013.
Il ricorso deve pertanto essere accolto con l’annullamento
dell’atto impugnato (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 16.07.2014 n. 1038 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA:
Circa la contestata
incompetenza del dirigente ad adottare provvedimenti
previsti dall’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152
(ordinanza a rimuovere rifiuti abbandonati)
è intervenuta in corso di
causa la di ratifica da parte del Sindaco, organo competente
in materia, adottata ai sensi dell’art. 6 della legge n. 249
del 1968 e, come è noto, l'esercizio di tale potere di
ratifica sana con efficacia retroattiva l'atto viziato da
incompetenza relativa, nonostante questo sia oggetto di
ricorso giurisdizionale ancora pendente, e comporta la
dichiarazione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di
interesse delle censure di incompetenza.
Peraltro il provvedimento di ratifica resiste alle
censure proposte con i secondi motivi aggiunti, di
violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n.
241.
Infatti va in primo luogo sottolineato che, come chiarito
dalla giurisprudenza, la ratifica di un atto amministrativo
non richiede una specifica motivazione sull'interesse
pubblico in quanto l’interesse pubblico che lo sorregge è la
perdurante persistenza di quello perseguito dall’atto da
convalidare.
In secondo luogo va osservato che l’esigenza di
salvaguardare l’ambiente e le matrici ambientali dalla
contaminazione derivante dall’abbandono dei rifiuti, obbliga
l’Amministrazione ad individuare i responsabili e ad
ottenere da loro il ripristino delle condizioni ambientali
precedenti e, contrariamente a quanto dedotto, il potere di
ratifica risulta esercitato entro un termine ragionevole,
tenuto conto della circostanza che alla data del
provvedimento di ratifica non era stato ancora presentato il
programma di smaltimento, e l’abbandono dei rifiuti
configura un illecito di carattere permanente.
---------------
La ratio perseguita con l'art. 7 della legge 07.08.1990, n.
241 deve ritenersi soddisfatta, nonostante la mancanza della
rituale comunicazione di avvio, ogniqualvolta l'interessato
abbia avuto comunque compiuta conoscenza dell'avvio del
procedimento.
Deve invece essere dichiarata
l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse
delle censure con le quali la parte ricorrente lamenta
l’incompetenza del dirigente ad adottare provvedimenti
previsti dall’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152.
Infatti rispetto al provvedimento impugnato con il ricorso
introduttivo ed alla diffida impugnata con i primi motivi
aggiunti è intervenuta in corso di causa la di ratifica da
parte del Sindaco, organo competente in materia, adottato ai
sensi dell’art. 6 della legge n. 249 del 1968 e, come è
noto, l'esercizio di tale potere di ratifica sana con
efficacia retroattiva l'atto viziato da incompetenza
relativa, nonostante questo sia oggetto di ricorso
giurisdizionale ancora pendente, e comporta la dichiarazione
di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse
delle censure di incompetenza.
Peraltro il provvedimento di ratifica resiste alle
censure proposte con i secondi motivi aggiunti, di
violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n.
241.
Infatti va in primo luogo sottolineato che, come chiarito
dalla giurisprudenza, la ratifica di un atto amministrativo
non richiede una specifica motivazione sull'interesse
pubblico (cfr. Consiglio Stato Sez. V, 30.08.2005, n.
4419) in quanto l’interesse pubblico che lo sorregge è la
perdurante persistenza di quello perseguito dall’atto da
convalidare (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 07.09.2001,
n. 771; Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.09.1983, n.
683).
In secondo luogo va osservato che l’esigenza di
salvaguardare l’ambiente e le matrici ambientali dalla
contaminazione derivante dall’abbandono dei rifiuti, obbliga
l’Amministrazione ad individuare i responsabili e ad
ottenere da loro il ripristino delle condizioni ambientali
precedenti e, contrariamente a quanto dedotto, il potere di
ratifica risulta esercitato entro un termine ragionevole,
tenuto conto della circostanza che alla data del
provvedimento di ratifica non era stato ancora presentato il
programma di smaltimento, e l’abbandono dei rifiuti
configura un illecito di carattere permanente.
---------------
Il secondo motivo del
ricorso introduttivo, con il quale la parte ricorrente
lamenta la mancata acquisizione del suo apporto
procedimentale mediante la comunicazione di avvio del
procedimento deve essere respinta.
Il Comune nelle proprie difese ha infatti evidenziato, senza
essere contraddetto sul punto, che la parte ricorrente è
stata fin dall’inizio resa edotta delle problematiche
emerse, partecipando in contradditorio non solo al
procedimento, ma anche ai sopralluoghi, nel corso dei quali
ha addirittura messo a disposizione il proprio escavatore
meccanico per effettuare sondaggi geognostici (cfr. pagg. 11
e 12 della memoria del Comune del 16 agosto 2008).
Orbene, tenuto conto che la ratio perseguita con l'art. 7,
della legge 07.08.1990, n. 241, deve ritenersi
soddisfatta, nonostante la mancanza della rituale
comunicazione di avvio, ogniqualvolta l'interessato abbia
avuto comunque compiuta conoscenza dell'avvio del
procedimento (cfr. Tar Lazio, Roma, 06.03.2013, n. 2391;
Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 12.12.2012, n. 1167;
Consiglio di Stato, Sez. V, 07.09.2011, n. 5032;
Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.03.2011, n. 1476; id. 04.12.2009, n. 7607; Consiglio di Stato, Sez. IV,
04.03.2009, n. 1207), la censura deve essere respinta
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 16.07.2014 n. 1031 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Avvalimento/1 Nei contratti al bando generiche menzioni.
I contratti di avvalimento non soddisfano i necessari
requisiti di specificità e determinatezza, se contengono una
generica menzione della messa a disposizione delle risorse
necessarie, senza la necessaria indicazione dei mezzi, del
personale e degli strumenti organizzativi di cui la società
ausiliata potrà fare uso per eseguire le prestazioni a suo
carico.
Ad affermarlo sono stati i giudici della
V Sez. del
Consiglio di Stato con
sentenza
15.07.2014 n. 3716.
I giudici amministrativi hanno sottolineato come «l'art. 49
del codice dei contratti pubblici prevede, al primo comma,
che il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato, in
relazione a una specifica gara di lavori, servizi, forniture
può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei
requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico,
organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione Soa avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o
dell'attestazione Soa di altro soggetto. Il secondo comma
della stessa disposizione prevede che, «ai fini di quanto
previsto nel comma 1», il concorrente allega, «oltre
all'eventuale attestazione Soa propria e dell'impresa
ausiliaria», tra l'altro:
- una sua dichiarazione, «attestante l'avvalimento dei
requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con
specifica indicazione dei requisiti stessi e dell'impresa
ausiliaria» (lettera a);
- «una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria
con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso
la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la
durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente
il concorrente» (lettera d);
- in originale o copia autentica il contratto in virtù del
quale l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del
concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione
le risorse necessarie per tutta la durata dell'appalto
(lettera f). La stessa disposizione prevede, al comma 4, che
«il concorrente e l'impresa ausiliaria sono responsabili in
solido nei confronti della stazione appaltante in relazione
alle prestazioni oggetto del contratto».
Si tratta evidentemente di un procedimento negoziale
complesso composto dai negozi atti unilaterali del
concorrente (lettera a), dell'impresa ausiliaria (lettera
d), indirizzati alla stazione appaltante, nonché da un
contratto tipico di avvalimento (lettera f) stipulato tra il
concorrente e l'impresa ausiliaria
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
APPALTI: Avvalimento/2 Mezzi e personale rispettosi del principio di
qualità.
Nel contratto di avvalimento è necessario che risulti
chiaramente che la parte ausiliaria presti le proprie
risorse e il proprio apparato organizzativo, rispettando il
requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale,
prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti).
Ad affermarlo sono stati i giudici della V Sez. del
Consiglio di Stato con
sentenza
15.07.2014 n. 3716.
Nel contratto in commento è inoltre necessaria una puntuale
individuazione del suo oggetto, e tale individuazione,
«oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno
civilistico, nella generale previsione codicistica che
configura quale causa di nullità di ogni contratto
l'indeterminatezza (e indeterminabilità) del relativo
oggetto, trova la propria essenziale giustificazione
funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure
contrattuali del settore pubblico, nella necessità di non
permettere, fin troppo, agevoli aggiramenti del sistema dei
requisiti di ingresso alle gare pubbliche (requisiti pur
solennemente prescritti e, di solito, attentamente
verificati nei confronti dei concorrenti che se ne
dichiarino titolari in proprio)».
Rilevante è stato poi quanto osservato dai supremi giudici
amministrativi, i quali in ossequio ad una ormai consolidata
giurisprudenza hanno affermato che: «la pratica della mera
riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della
formula legislativa della messa a disposizione delle
«risorse necessarie di cui è carente il concorrente» (o
espressioni similari) si appalesa, oltre che tautologica (e,
come tale, indeterminata per definizione), inidonea a
permettere qualsivoglia sindacato, da parte della stazione
appaltante, sull'effettività della messa a disposizione dei
requisiti».
È stato, poi, osservato, che l'esigenza di determinazione
dell'oggetto del contratto di avvalimento esiste anche con
riferimento alla dichiarazione unilaterale in quanto
«nell'istituto dell'avvalimento l'impresa ausiliaria non è
semplicemente un soggetto terzo rispetto alla gara,
dovendosi essa impegnare non soltanto verso l'impresa
concorrente ausiliata ma anche verso la stazione appaltante
a mettere a disposizione del concorrente le risorse di cui
questi sia carente, sicché l'ausiliario è tenuto a
riprodurre il contenuto del contratto di avvalimento in una
dichiarazione resa nei confronti della stazione appaltante»
(Cons. stato, VI, 13.05.2010, n. 2956).
Ciò in quanto
occorre soddisfare esigenze di certezza
dell'amministrazione, essendo la dichiarazione dell'impresa
ausiliaria «volta a soddisfare l'interesse della stazione
appaltante ad evitare, dopo l'aggiudicazione, l'insorgere di
contestazioni sugli obblighi dell'ausiliario» (Cons. stato, VI, n. 2956 del 2010, cit.) (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: È scusabile l'omissione dei termini per il ricorso.
CONSIGLIO DI STATO/ I presupposti validi per la p.a..
Sussiste il presupposto per il riconoscimento dell'errore
scusabile in sede processuale nell'ipotesi in cui
l'Amministrazione pubblica abbia solo omesso di indicare nel
provvedimento rivolto al privato i termini entro i quali
ricorrere.
Lo hanno sostenuto i giudici della V Sez.
del Consiglio di Stato con
sentenza
15.07.2014 n. 3710.
I giudici hanno, poi, sottolineato come l'errore
scusabile rappresenti un istituto inteso a garantire
l'effettività della tutela giurisdizionale, suscettibile di
trovare applicazione sia quando siano ravvisabili situazioni
di obiettiva incertezza normativa, connesse a difficoltà
interpretative o ad oscillazioni giurisprudenziali, sia
quando si sia di fronte a comportamenti, indicazioni o
avvertenze fuorvianti provenienti dalla medesima
Amministrazione, da cui possa conseguire difficoltà nella
domanda di giustizia ed un'effettiva diminuzione della
tutela giustiziale.
Il riconoscimento dell'errore scusabile, secondo il
Consiglio di stato, può avvenire solo previo rigoroso
accertamento, caso per caso, dei presupposti e, quindi, ex
art. 37 del c.p.a., in presenza di oggettive ragioni di
incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di
fatto. Pertanto, hanno affermato i giudici che: «La
violazione dell'art. 3, comma 4, della legge n. 241/1990,
secondo cui in ogni atto notificato al destinatario devono
essere indicati il termine e l'autorità alla quale è
possibile ricorrere, pur non comportando un vizio del
procedimento e l'illegittimità dell'atto, è invece idonea a
determinare la scusabilità dell'errore del destinatario
circa i termini di impugnazione dell'atto stesso. Quindi, a
maggior ragione, qualora l'atto amministrativo impugnato
indichi, come richiesto dall'art. 3, comma 4, della legge n.
241/1990, il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere,
ma lo faccia in modo erroneo, l'interessato che lo impugni
entro il termine e davanti al giudice indicati incorre in
errore scusabile».
È quindi doveroso ritenere scusabile
l'errore del ricorrente che impugni un provvedimento
amministrativo oltre il termine di decadenza, ove esso
errore trovi radice nell'errata indicazione del termine
contenuta nel provvedimento impugnato (Consiglio di stato,
sez. IV, 07.09.2000, n. 4725; sez. VI, 16.06.2003,
n. 3384) e ove la corretta durata del termine non sia
univocamente desumibile dalla normativa vigente (Consiglio
di stato, sez. VI, 18.10.2000, n. 5605).
E inoltre «anche se, ai sensi dell'art. 37 del c.p.a., nel
processo amministrativo la rimessione in termini per errore
scusabile ha carattere eccezionale, in quanto deroga al
principio della perentorietà dei termini di impugnazione, e
la disposizione relativa deve essere considerata di stretta
interpretazione (Consiglio di stato, ad. plen., 09.08.2012, n. 32), tuttavia -hanno osservato i giudici
amministrativi- il beneficio può essere riconosciuto in
presenza di un quadro normativo da poco assestatosi o di un
orientamento giurisprudenziale ancora in via di
consolidazione»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
silenzio-assenso formatosi sulla domanda di permesso di
costruire può essere rimosso mediante l’esercizio del potere
di annullamento di ufficio da parte del Comune e che tale
misura di autotutela consente di contemperare il ripristino
della legalità con l’esigenza, pure avvertita dal
legislatore, di rendere effettivamente praticabile
l’istituto del silenzio accoglimento.
Tale atto di autotutela trova la sua disciplina normativa
nell’art. 21-nonies, della legge sul procedimento, che
individua le seguenti condizioni per l’esercizio in
autotutela da parte dell’Amministrazione del potere di
annullamento d’ufficio:
- l’illegittimità dell’atto amministrativo;
- la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
- l’esercizio del potere entro un termine ragionevole;
- la valutazione degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati rispetto all’atto da rimuovere.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza
amministrativa ha costantemente precisato che l’esercizio
del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione
richiede che quest’ultima, oltre ad accertare entro un
termine ragionevole l’illegittimità dell’atto, debba altresì
valutare la sussistenza di un interesse pubblico
all’annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni
giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio
tempore, dovendosi in particolare escludere che tale
interesse pubblico possa consistere nel mero ripristino
della legalità violata. Fermo restando che in sede di
annullamento d’ufficio di un silenzio assenso rimane integro
in capo all’Amministrazione il potere-dovere di compiere,
per la prima volta, quelle valutazioni che essa a suo tempo
avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell’esercizio
della funzione istituzionale di primo grado ad essa
spettante.
Il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa
impone, inoltre -come questa stessa Sezione ha già più volte
avuto modo di precisare- che vada accertata oltre alla
necessità della “misura” assunta, anche la sua idoneità allo
scopo da raggiungere e la stretta proporzionalità della
misura applicata con il fine da raggiungere; per cui in
applicazione di tale principio deve essere preferita “la
misura più mite” che consenta di raggiungere lo scopo
perseguito dalla norma.
Ciò posto, va ricordato che -come è noto- il silenzio-assenso formatosi
sulla domanda di permesso di costruire può essere rimosso
mediante l’esercizio del potere di annullamento di ufficio
da parte del Comune e che tale misura di autotutela consente
di contemperare il ripristino della legalità con l’esigenza,
pure avvertita dal legislatore, di rendere effettivamente
praticabile l’istituto del silenzio accoglimento.
Tale atto di autotutela trova la sua disciplina normativa
nell’art. 21-nonies, della legge sul procedimento, che
individua le seguenti condizioni per l’esercizio in
autotutela da parte dell’Amministrazione del potere di
annullamento d’ufficio:
- l’illegittimità dell’atto amministrativo;
- la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
- l’esercizio del potere entro un termine ragionevole;
- la valutazione degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati rispetto all’atto da rimuovere.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza
amministrativa ha costantemente precisato che l’esercizio
del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione
richiede che quest’ultima, oltre ad accertare entro un
termine ragionevole l’illegittimità dell’atto, debba altresì
valutare la sussistenza di un interesse pubblico
all’annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni
giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio
tempore, dovendosi in particolare escludere che tale
interesse pubblico possa consistere nel mero ripristino
della legalità violata. Fermo restando che in sede di
annullamento d’ufficio di un silenzio assenso rimane integro
in capo all’Amministrazione il potere-dovere di compiere,
per la prima volta, quelle valutazioni che essa a suo tempo
avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell’esercizio
della funzione istituzionale di primo grado ad essa
spettante (Cons. St., sez. IV, 11.04.2014, n. 1767).
Il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa
impone, inoltre -come questa stessa Sezione ha già più volte
avuto modo di precisare (da ultimo, con sentenze 03.02.2014
n. 67, e 05.11.2013 n. 513)- che vada accertata oltre alla
necessità della “misura” assunta, anche la sua
idoneità allo scopo da raggiungere e la stretta
proporzionalità della misura applicata con il fine da
raggiungere; per cui in applicazione di tale principio deve
essere preferita “la misura più mite” che consenta di
raggiungere lo scopo perseguito dalla norma (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 15.07.2014 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
presentazione dell'istanza di permesso di costruire mediante
P.E.C..
In via ordinaria
la richiesta di permesso di costruire deve essere presentata
e sottoscritta dal titolare del diritto di proprietà (o di
altro titolo idoneo) e tale domanda deve contenere una
autodichiarazione in ordine al possesso dei requisiti, alla
quale deve essere necessariamente allegata “una copia
fotostatica del documento di identità del sottoscrittore”;
tale copia dell’istanza sottoscritta dall'interessato e la
copia del documento di identità possono, inoltre, essere
inviate per via telematica.
Tale sistema della documentazione amministrativa, imperniato
sulla sostituzione di un certificato o di un atto di
notorietà con altrettante dichiarazioni rese
dall'interessato, poggia sui due fondamentali principi dell'autoresponsabilità
del dichiarante e dell’equivalenza funzionale delle suddette
dichiarazioni rispetto ai certificati o agli atti sostituiti
e le formalità sopra indicate hanno lo scopo di realizzare
la massima collaborazione fra cittadino e Amministrazione,
in un’ottica di semplificazione delle procedure, ma senza
elidere l’indispensabile nesso di imputabilità soggettiva
della dichiarazione ad una determinata persona fisica, non
essendo, altrimenti, l’atto in grado di dispiegare gli
effetti certificativi previsti, per difetto di una forma
essenziale prescritta dalla legge e non altrimenti sanabile.
In definitiva, secondo quanto dispone il predetto art. 38 le
istanze e le dichiarazioni (sostitutive di atto di notorietà
o della documentazione da allegare alle istanze) sono valide
se sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica
di un documento di identità del sottoscrittore; con la
conseguenza che la mancata allegazione, alla dichiarazione
sostitutiva o all’istanza, della copia del documento di
identità del sottoscrittore rende l’atto non in grado di
spiegare gli effetti certificativi previsti, in quanto nullo
per difetto di una forma essenziale stabilita dalla legge.
Nell’ipotesi in cui il richiedente il titolo edilizio
deleghi poi un altro soggetto a presentare l’istanza, tale
potere di rappresentanza in base all’art. 3-bis dell’art. 38
del testo unico delle disposizioni in materia di
documentazione amministrativa può essere “validamente
conferito ad altro soggetto con le modalità di cui” al terzo
comma dello stesso art. 38, cioè mediante un atto
“sottoscritto dall'interessato”, che deve essere presentato
“unitamente a copia fotostatica non autenticata di un
documento di identità del sottoscrittore”, atti questi che
“possono essere inviati per via telematica”.
In definitiva, quando la domanda di permesso di costruire
viene presentata -come nel caso di specie- da un tecnico a
ciò incaricato è necessario per un verso che alla domanda
debba essere allegata la documentazione di conferimento del
potere di rappresentanza e per altro verso che, ove il
proprietario effettui delle autodichiarazioni da allegare
alla richiesta di permesso di costruire, è necessario che
tale autodichiarazione sia presentata unitamente a copia
fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore;
con la conseguenza che tale mancata allegazione renda l’atto
nullo per difetto di una forma essenziale stabilita dalla
legge.
Ciò posto, dall’esame degli atti di causa si rileva nella
specie la domanda è stata firmata dal legale rappresentante
della società ricorrente, ma è stata presentata tramite PEC
dal progettista, senza che a tale domanda fossero stati
allegati la copia fotostatica di un documento di identità
del sottoscrittore (cioè del rappresentante legale della
società ricorrente) e l’atto di conferimento al tecnico del
potere di rappresentanza.
Tali carenze documentali hanno impedito, ad avviso del
Collegio, la formazione del titolo edilizio per
silenzio-assenso.
Né appare al riguardo rilevante il fatto, che essendo stata
presentata la documentazione via PEC, era certa la
provenienza degli atti dallo studio del progettista e la
conformità degli atti inviati agli originali, in quanto tale
tecnico (oltre a non apporre su alcuni atti la propria firma
digitale) ha omesso di trasmettere al momento della
presentazione della domanda copia del documentato d’identità
del richiedente e dell’atto che le aveva conferito il potere
di presentare l’istanza.
Con il ricorso in esame -come sopra esposto- è stato chiesto
l’annullamento del provvedimento 10.07.2013, n. 97114,
del Dirigente dello Sportello Unico per l’Edilizia del
Comune di Pescara di comunicazione della “avvenuta
archiviazione d’ufficio” della richiesta di permesso di
costruire trasmessa via PEC al Comune dal tecnico del
ricorrente il 30.10.2012.
La ricorrente ha anche chiesto l’accertamento della avvenuta
formazione tacita del titolo edilizio per decorso dei
termini di cui all’art. 20 del D.P.R. 380/2001 e la condanna
dell’Amministrazione comunale al rilascio materiale del
titolo abilitativo richiesto o, in via subordinata, alla
definizione della relativa procedura istruttoria, con
l’adozione di un provvedimento espresso.
Era, invero, accaduto che alla domanda di permesso di
costruire presentata all’Amministrazione comunale di
Pescara, a mezzo di posta elettronica certificata e per il
tramite del proprio tecnico di fiducia, avevano fatto
seguito delle note del Comune di richiesta di invio in forma
cartacea di tutta la documentazione progettuale, con
l’avvertimento che “in mancanza, decorsi ulteriori 30
(trenta) giorni dal ricevimento della presente, si procederà
all’archiviazione della senza ulteriore comunicazione”.
Non avendo provveduto la ricorrente a trasmettere gli atti
richiesti, il Comune ha “archiviato” l’istanza presentata.
...
Il ricorso, va subito precisato, è privo di pregio.
Ai fini del decidere deve partirsi dal rilievo che il
procedimento di rilascio del permesso di costruire era già
disciplinato, al momento della presentazione dell’istanza in
questione, dall’art. 20 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia), così come modificato dall’art. del
D.L. 13.05.2011, n. 70 convertito, con modificazioni,
dalla legge 12.07.2011, n. 106.
Tale articolo, dopo aver analiticamente disciplinato tale
procedimento, dispone testualmente al comma n. 8 che
“decorso inutilmente il termine per l’adozione del
provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile
dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla
domanda di permesso di costruire si intende formato il
silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano
vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali
si applicano le disposizioni di cui al comma 9”.
Va, inoltre, ricordato che nel caso di specie la domanda del
titolo edilizio era stata presentata dal tecnico della
ricorrente via PEC e che tale modalità di presentazione
delle istanze alla Pubblica Amministrazione è disciplinato
dal D.P.R. 28.12.2000 n. 445 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
documentazione amministrativa), il cui art. 38 regolamenta,
appunto, le modalità di invio e sottoscrizione delle
istanze.
Tale disposizione prevede testualmente quanto segue:
“1. Tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla
pubblica amministrazione o ai gestori o esercenti di
pubblici servizi possono essere inviate anche per fax e via
telematica.
2. Le istanze e le dichiarazioni inviate per via telematica
sono valide se effettuate secondo quanto previsto
dall'articolo 65 del decreto legislativo 07.03.2005, n.
82.
3. Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di
notorietà da produrre agli organi della amministrazione
pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono
sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente
addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia
fotostatica non autenticata di un documento di identità del
sottoscrittore. La copia fotostatica del documento è
inserita nel fascicolo. La copia dell'istanza sottoscritta
dall'interessato e la copia del documento di identità
possono essere inviate per via telematica; nei procedimenti
di aggiudicazione di contratti pubblici, detta facoltà è
consentita nei limiti stabiliti dal regolamento di cui
all’articolo 15, comma 2, della legge 15.03.1997, n. 59.
3-bis. Il potere di rappresentanza per la formazione e la
presentazione di istanze, progetti, dichiarazioni e altre
attestazioni nonché per il ritiro di atti e documenti presso
le pubbliche amministrazioni e i gestori o esercenti di
pubblici servizi può essere validamente conferito ad altro
soggetto con le modalità di cui al presente articolo”.
Va, inoltre, in merito ricordato che il summenzionato art.
65 del D.Lgs. 07.03.2005 n. 82 (Codice
dell’amministrazione digitale), nel disciplinare le istanze
e dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni
per via telematica, dispone testualmente al primo comma che:
“1. Le istanze e le dichiarazioni presentate per via
telematica alle pubbliche amministrazioni e ai gestori dei
servizi pubblici ai sensi dell'articolo 38, commi 1 e 3, del
decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n.
445, sono valide:
a) se sottoscritte mediante la firma digitale o la firma
elettronica qualificata, il cui certificato è rilasciato da
un certificatore accreditato;
b) ovvero, quando l’autore è identificato dal sistema
informatico con l’uso della carta d'identità elettronica o
della carta nazionale dei servizi, nei limiti di quanto
stabilito da ciascuna amministrazione ai sensi della
normativa vigente;
c) ovvero quando l’autore è identificato dal sistema
informatico con i diversi strumenti di cui all’articolo 64,
comma 2, nei limiti di quanto stabilito da ciascuna
amministrazione ai sensi della normativa vigente nonché
quando le istanze e le dichiarazioni sono inviate con le
modalità di cui all'articolo 38, comma 3, del decreto del
Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445;
c-bis) ovvero se trasmesse dall’autore mediante la propria
casella di posta elettronica certificata purché le relative
credenziali di accesso siano state rilasciate previa
identificazione del titolare, anche per via telematica
secondo modalità definite con regole tecniche adottate ai
sensi dell'articolo 71, e ciò sia attestato dal gestore del
sistema nel messaggio o in un suo allegato. In tal caso, la
trasmissione costituisce dichiarazione vincolante ai sensi
dell'articolo 6, comma 1, secondo periodo. Sono fatte salve
le disposizioni normative che prevedono l’uso di specifici
sistemi di trasmissione telematica nel settore tributario”.
Il secondo comma di tale articolo dispone poi che “le
istanze e le dichiarazioni inviate o compilate su sito
secondo le modalità previste dal comma 1 sono equivalenti
alle istanze e alle dichiarazioni sottoscritte con firma
autografa apposta in presenza del dipendente addetto al
procedimento”.
Tali disposizioni, in estrema sintesi, dispongono per un
verso che decorso il termine per l’adozione del
provvedimento conclusivo sulla domanda di permesso di
costruire si intende formato il silenzio-assenso, e per
altro verso che anche la domanda di rilascio del permesso di
costruire può legittimamente essere inviata anche per via
telematica.
Secondo il ricorrente l’istanza di permesso di costruire in
questione era stata correttamente presentata a mezzo PEC,
per cui, una volta decorsi i termini previsti dal predetto
art. 20 della legge sul procedimento, vi era stata la
formazione tacita del titolo edilizio per silenzio assenso.
Secondo la parte resistente la domanda, così come
presentata, non era completa, per cui non si erano prodotti
gli effetti previsti da tale articolo 20. In particolare, ha
evidenziato in sede di giudizio che la domanda era stata
sottoscritta dalla ricorrente, ma era stata presentata dal
proprio tecnico, senza che fosse stato allegato alcun atto
di conferimento dell’incarico, e che le dichiarazioni di
rito, erano state sottoscritte dalla richiedente, senza però
allegare copia del documento di identità.
Inoltre, si è evidenziata la palese differenza tra la firma
apposta sulla domanda e sull’autodichiarazione e quella
posta in calce al ricorso.
Ritiene il Collegio di condividere quando al riguardo
opposto dal Comune nella relazione degli uffici tecnici
versata in giudizio e da quanto dedotto negli scritti
difensivi ed, in particolare, che non si era formato il
silenzio-assenso data l’incompletezza della documentazione
presentata.
Trattandosi di accertare la formazione o meno del silenzio-assenso non appare al riguardo rilevante il divieto di
integrazione giudiziale della motivazione in corso di
giudizio, che, peraltro, non ha carattere assoluto; invero,
alla luce dell’attuale assetto normativo, la giurisprudenza
ha già precisato (cfr., da ultimo, Cons. Stato Sez. IV, 04.03.2014, n. 1018) che devono ritenersi attenuate le
conseguenze del principio del divieto di integrazione
postuma, dequotando il relativo vizio, tutte le volte in cui
l’omissione di motivazione successivamente esternata sia
relativa -come nel caso di specie- all’adozione di atti
vincolati ed all’accertamento dei presupposti per la
formazione del silenzio assenso.
Ciò premesso, va ricordato che -secondo quanto
costantemente chiarito dalla giurisprudenza amministrativa
(Cons. St., V, 13.01.2014 n. 63. sez. VI, 06.12.2013, n. 5852), le cui conclusioni sono state recepite anche
da questa Sezione (con sentenza 18.10.2013 n. 482)- la
formazione del silenzio-assenso postula che l’istanza sia
assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non
determinandosi ope legis l’accoglimento dell’istanza ogni
qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto
previsti dalla norma: il silenzio-assenso non può, infatti,
formarsi in assenza della documentazione completa prescritta
dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio,
in quanto l’eventuale inerzia dell’Amministrazione nel
provvedere non può far guadagnare agli interessati un
risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in
virtù di un provvedimento espresso.
In aggiunta, va anche ricordato che la presenza di
dichiarazioni non veritiere esclude che il meccanismo del
silenzio-assenso possa operare (Cons. St., sez. V, 20.08.2013 n. 4182).
Ciò premesso, va anche precisato che la normativa vigente in
relazione alla richiesta di rilascio del permesso di
costruire dispone, per la parte che qui interessa, quanto
segue:
- che il titolo sia richiesto e rilasciato al “proprietario
dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo” (art. 11
del t.u. dell’edilizia);
- che il potere di rappresentanza per la presentazione
dell’istanza di rilascio del titolo edilizio possa essere
“validamente conferito ad altro soggetto con le modalità di
cui al presente articolo” (art. 38, n. 3-bis, del D.P.R. 28.12.2000 n. 445);
- che -come previsto dal comma 3 di tale art. 38 del testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di documentazione amministrativa- le istanze e le
dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà debbano
essere “sottoscritte dall’interessato in presenza del
dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate
unitamente a copia fotostatica non autenticata di un
documento di identità del sottoscrittore” e che “la copia
dell’istanza sottoscritta dall'interessato e la copia del
documento di identità possono essere inviate per via
telematica”;
- che in base al predetto art. 65, secondo comma, del codice
dell’amministrazione digitale le istanze e le dichiarazioni
inviate via PEC “sono equivalenti alle istanze e alle
dichiarazioni sottoscritte con firma autografa apposta in
presenza del dipendente addetto al procedimento”.
Secondo tale normativa, in estrema sintesi, in via ordinaria
la richiesta di permesso di costruire deve essere presentata
e sottoscritta dal titolare del diritto di proprietà (o di
altro titolo idoneo) e tale domanda deve contenere una
autodichiarazione in ordine al possesso dei requisiti, alla
quale deve essere necessariamente allegata “una copia
fotostatica del documento di identità del sottoscrittore”;
tale copia dell’istanza sottoscritta dall'interessato e la
copia del documento di identità possono, inoltre, essere
inviate per via telematica.
Tale sistema della documentazione amministrativa, imperniato
sulla sostituzione di un certificato o di un atto di
notorietà con altrettante dichiarazioni rese
dall'interessato, poggia sui due fondamentali principi dell'autoresponsabilità
del dichiarante e dell’equivalenza funzionale delle suddette
dichiarazioni rispetto ai certificati o agli atti sostituiti
e le formalità sopra indicate hanno lo scopo di realizzare
la massima collaborazione fra cittadino e Amministrazione,
in un’ottica di semplificazione delle procedure, ma senza
elidere l’indispensabile nesso di imputabilità soggettiva
della dichiarazione ad una determinata persona fisica, non
essendo, altrimenti, l’atto in grado di dispiegare gli
effetti certificativi previsti, per difetto di una forma
essenziale prescritta dalla legge e non altrimenti sanabile.
In definitiva, secondo quanto dispone il predetto art. 38 le
istanze e le dichiarazioni (sostitutive di atto di notorietà
o della documentazione da allegare alle istanze) sono valide
se sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica
di un documento di identità del sottoscrittore; con la
conseguenza che la mancata allegazione, alla dichiarazione
sostitutiva o all’istanza, della copia del documento di
identità del sottoscrittore rende l’atto non in grado di
spiegare gli effetti certificativi previsti, in quanto nullo
per difetto di una forma essenziale stabilita dalla legge
(Cons. St., sez. V, 26.03.2012 n. 1739, e sez. VI 20.12.2011 n. 6740 e 12.06.2009, n. 3690).
Nell’ipotesi in cui il richiedente il titolo edilizio
deleghi poi un altro soggetto a presentare l’istanza, tale
potere di rappresentanza in base all’art. 3-bis dell’art. 38
del testo unico delle disposizioni in materia di
documentazione amministrativa può essere “validamente
conferito ad altro soggetto con le modalità di cui” al terzo
comma dello stesso art. 38, cioè mediante un atto
“sottoscritto dall'interessato”, che deve essere presentato
“unitamente a copia fotostatica non autenticata di un
documento di identità del sottoscrittore”, atti questi che
“possono essere inviati per via telematica”.
In definitiva, quando la domanda di permesso di costruire
viene presentata -come nel caso di specie- da un tecnico a
ciò incaricato è necessario per un verso che alla domanda
debba essere allegata la documentazione di conferimento del
potere di rappresentanza e per altro verso che, ove il
proprietario effettui delle autodichiarazioni da allegare
alla richiesta di permesso di costruire, è necessario che
tale autodichiarazione sia presentata unitamente a copia
fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore;
con la conseguenza che tale mancata allegazione renda l’atto
nullo per difetto di una forma essenziale stabilita dalla
legge.
Ciò posto, dall’esame degli atti di causa si rileva nella
specie la domanda è stata firmata dal legale rappresentante
della società ricorrente, ma è stata presentata tramite PEC
dal progettista, senza che a tale domanda fossero stati
allegati la copia fotostatica di un documento di identità
del sottoscrittore (cioè del rappresentante legale della
società ricorrente) e l’atto di conferimento al tecnico del
potere di rappresentanza.
Tali carenze documentali hanno impedito, ad avviso del
Collegio, la formazione del titolo edilizio per silenzio-assenso.
Né appare al riguardo rilevante il fatto, che essendo stata
presentata la documentazione via PEC, era certa la
provenienza degli atti dallo studio del progettista e la
conformità degli atti inviati agli originali, in quanto tale
tecnico (oltre a non apporre su alcuni atti la propria firma
digitale) ha omesso di trasmettere al momento della
presentazione della domanda copia del documentato d’identità
del richiedente e dell’atto che le aveva conferito il potere
di presentare l’istanza.
Né a tali carenze può oggi sopperirsi in corso di giudizio.
Una volta escluso che si fosse formato per silentium il
titolo edilizio richiesto, va ricordato che in punto di
fatto che con nota 15.04.2013, n. 56601, il Comune aveva
intimato alla ricorrente la trasmissione della
documentazione in forma cartacea, con l’avvertimento che “in
mancanza, decorsi ulteriori 30 (trenta) giorni dal
ricevimento della presente, si procederà all’archiviazione
della senza ulteriore comunicazione” e che, non avendo la
ricorrente adempiuto a tale richieste, il Comune in data 28.05.2013 ha provveduto d’ufficio all’archiviazione della
pratica edilizia “per decorrenza dei termini per
l’integrazione documentale”.
Nei confronti di tale determinazione la ricorrente ha
dedotto che il Comune aveva ingiustificatamente congelato
l’istruttoria, che era inammissibile la richiesta
dell’Amministrazione di “duplicazione” della produzione
documentale posta a corredo dell’istanza, già inviata
digitalmente, e che il procedimento di rilascio del permesso
di costruire non contempla l’archiviazione.
Ritiene la Sezione, innanzi tutto, che il procedimento in
questione può legittimante concludersi con un provvedimento
di archiviazione nelle ipotesi di carenze documentali non
soddisfatte nei termini (Cons. St., sez. IV, 29.08.2011,
n. 4835).
Inoltre, la mancanza degli atti sopra evidenziati fa sì che
le censure dedotte non siano idonee ad inficiare la
legittimità dell’atto impugnato, in quanto -a tacer d’altro- la documentazione richiesta era, in realtà, necessaria per
poter positivamente esaminare l’istanza.
Né, infine, può essere accolta la richiesta, formulata in
via subordinata, di condanna dell’Amministrazione
all’espletamento ed alla definizione della relativa
procedura istruttoria, con l’adozione di un provvedimento
espresso, in quanto, essendosi il procedimento concluso con
la predetta archiviazione, è necessario che la società
interessata presenti una nuova richiesta di permesso di
costruire.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame
deve, conseguentemente, essere respinto (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 15.07.2014 n. 348 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'informativa antimafia impianti probatori ad
hoc.
L'informativa interdittiva antimafia, essendo espressione
della logica di anticipazione della difesa sociale, non
richiede un grado di dimostrazione probatoria analogo a
quello che serve per provare l'appartenenza di un soggetto
alla criminalità organizzata.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del
Consiglio di Stato con
sentenza
14.07.2014 n. 3676.
L'interdittiva, affermano i giudici amministrativi: «può
fondarsi su fatti e vicende aventi un valore soltanto
sintomatico ed indiziario, con l'ausilio di indagini che
possono riferirsi anche ad eventi verificatisi a distanza di
tempo (cfr., da ultimo, da Cons. stato, III, 05.03.2013,
n. 1329).
Ai fini dell'adozione dell'interdittiva, i fatti sintomatici
ed indizianti che sostengono la plausibilità della
sussistenza di un collegamento tra impresa e criminalità
organizzata possono anche incentrarsi nelle relazioni
familistiche dell'interessato con contesti e persone che non
lasciano seriamente propendere per la loro affidabilità
(cfr., da ultimo, Cons. stato, III, 04.09.2013, n.
4414)».
Sembra opportuno però sottolineare, in sintonia anche con
quanto affermato dai giudici del Consiglio di Stato, che, in
assenza di ulteriori elementi, il mero rapporto di parentela
(o di affinità) non sia di per sé idoneo a dare conto del
tentativo di infiltrazione, poiché «non può ritenersi
sussistente un vero e proprio automatismo tra un legame
familiare, sia pure tra stretti congiunti, ed il
condizionamento dell'impresa, che deponga nel senso di
un'attività sintomaticamente connessa a logiche e ad
interessi malavitosi (cfr., da ultimo, Cons. stato, III, 10.01.2013, n. 96); se è infatti vero, in base alle regole
di comune esperienza, che il vincolo di sangue può esporre
il soggetto all'influsso dell'organizzazione, se non
addirittura imporre (in determinati contesti) un
coinvolgimento nella stessa, tuttavia l'attendibilità
dell'interferenza dipende anche da una serie di circostanze
ed ulteriori elementi indiziari che qualifichino, su un
piano di attualità ed effettività, una immanente situazione
di condizionamento e di contiguità con interessi malavitosi
(cfr., da ultimo, Cons. stato, III, 26.02.2014, n. 930)»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: La revisione dei prezzi è a tutela della p.a..
Nei contratti pubblici, alla revisione dei prezzi è affidato
anzitutto il compito di tutelare l'esigenza della p.a. di
evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca
aumenti incontrollati nel corso del tempo, tali da
sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta
la stipulazione del contratto.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del
Consiglio di Stato con
sentenza
14.07.2014 n. 3669.
La revisione dei prezzi dei contratti della p.a. può
concernere soltanto le proroghe contrattuali propriamente
dette e l'istituto, hanno ribadito i giudici amministrativi,
non s'applica anche agli atti successivi al contratto
originario, con cui, mercé specifiche manifestazioni di
volontà, si dia corso tra le parti a distinti, nuovi ed
autonomi rapporti giuridici.
Fermo restando che sul punto
non rileva che il contenuto sia analogo a quello del
rapporto originario, la distinzione tra rinnovo e proroga
del contratto consiste nell'un caso si ha una nuova
negoziazione con il medesimo soggetto, la quale può
concludersi con l'integrale conferma delle precedenti
condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non
più attuali.
Nell'altro, invece, si determina essenzialmente
solo l'effetto del differimento del termine finale del
rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall'atto
originario. Secondo i giudici del Consiglio di stato: «Tale
istituto tutela, pur se in via mediata, anche l'interesse
dell'impresa a non subire alterazioni del sinallagma,
conseguenti alle modifiche dei costi che si verifichino
durante il rapporto e potrebbero indurla alla surrettizia
riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni».
La
stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato è ferma nel
ritenere che l'art. 6, legge 537/1993, come modificato
dall'art. 44, legge 724/1994, è norma che detta una
disciplina speciale in materia di revisione dei prezzi, la
quale ha natura imperativa che si pone nelle pattuizioni
considerate modificando ed integrando la volontà delle parti
contrastante con la stessa.
Ne consegue che le clausole
difformi contenute nei contratti della tipologia presa in
considerazione sono nulle per contrasto con la norma
imperativa. La nullità evidentemente non investe l'intero
contratto in applicazione del principio utile per inutile
non vitiatur di cui all'art. 1419 c.c., ma colpisce la
clausola contrastante con la norma considerata
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014). |
APPALTI:
Sulla fideiussione non si sgarra.
Senza presentazione dell'impegno scatta l'esclusione.
Il Tar Calabria interviene sulle procedure di gara
disciplinate dal codice contratti.
La mancata presentazione dell'impegno di un fideiussore a
rilasciare la garanzia per l'esecuzione del contratto
integra una causa testuale di esclusione, coerente con il
canone della tassatività posto dall'art. 46, comma 1-bis,
del dlgs 2006 n. 163, mentre la norma sulla cauzione
provvisoria va intesa nel senso che la stazione appaltante
non può escludere il concorrente che abbia presentato una
cauzione di importo non sufficiente o connotata da altre
irregolarità, dovendosi consentire la regolarizzazione della
cauzione prodotta.
Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. del
TAR Calabria-Catanzaro con
sentenza
14.07.2014 n. 1189.
I giudici amministrativi calabresi, hanno osservato che:
«Nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei
contratti pubblici, il «potere di soccorso» di cui all'art.
46, comma 1, del medesimo codice (dlgs n. 163/2006),
sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione
appaltante di regolarizzare certificati, documenti o
dichiarazioni già esistenti ovvero di completarli ma solo in
relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione,
chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi,
fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto
della par condicio dei concorrenti, non consente la
produzione tardiva del documento o della dichiarazione
mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali
adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal codice
dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e
dalle leggi statali (cfr. Consiglio di stato, Adunanza
plenaria, 25.02.2014, n. 9)».
I giudici del Tribunale amministrativo regionale hanno poi
evidenziato che è irrilevante la circostanza che il bando di
gara non preveda la produzione del detto impegno. Di regola,
quando la «lex specialis» di una gara di appalto non
riproduca una norma imperativa dell'ordinamento giuridico,
soccorre al riguardo il meccanismo di integrazione
automatica, sicché, analogamente a quanto avviene nel
diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339, c.c., si
colmano in via suppletiva le eventuali lacune del
provvedimento adottato.
In particolare -hanno sostenuto i
giudici catanzaresi- la funzione prevalente della
normativa, dettata in materia dal dlgs n. 163/2006, comporta
che le relative disposizioni entrano a far parte della «lex
specialis» della procedura di evidenza pubblica, senza
necessità che la cogenza delle relative prescrizioni venga
prevista nel bando o nel disciplinare (Cons. di stato, sez
VI, 13.06.2008, n. 2959; sez. V, 31.01.2012 n. 467) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Luna park.
Sulla necessità del permesso di
costruire per la realizzazione di un complesso di strutture
da adibire a luna park, trattandosi di attività produttiva
all'aperto caratterizzata dalla durata nel tempo (almeno un
anno) come desumibile dal contratto di locazione dell'area (Corte
di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 11.07.2014
n. 30564 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' onerosa la costruzione di una R.S.A. da parte della
parrocchia.
La RSA [residenza sanitario-assistenziale, vale a dire una
Casa di Riposo, struttura residenziale per l’accoglienza di
persone anziane normalmente non autosufficienti] non è
puramente e semplicemente una struttura sanitaria, per cui
non può annoverarsi fra le opere di urbanizzazione
secondaria.
Infatti, la Casa di Riposo non ha carattere esclusivamente
sanitario (al pari, ad esempio, di una azienda ospedaliera),
ma appaiono invece centrali le attività assistenziali e
ricettive, per cui non può essere considerata puramente e
semplicemente una “attrezzatura sanitaria”, vale a dire
un’opera di urbanizzazione secondaria la cui realizzazione
non è soggetta a contributo di costruzione ai sensi del più
volte citato art. 17 del Testo Unico dell’Edilizia.
-----------------
Inoltre, neppure sussiste l’ulteriore requisito al
quale la lettera c) del menzionato art. 17 dpr 380/2001
subordina l’esenzione dal contributo di costruzione.
Tale requisito richiede il concorso di due presupposti,
vale a dire l’ascrivibilità del manufatto alla categoria
delle opere pubbliche o di interesse generale e l’esecuzione
delle opere da parte di enti pubblici istituzionalmente
competenti ovvero di privati concessionari dell’ente
pubblico.
Nel caso di specie, anche a volere ammettere la natura di
opera di interesse generale della RSA, manca però
l’ulteriore condizione della realizzazione da parte
dell’ente pubblico o di un soggetto legato al medesimo,
quale ad esempio un concessionario di opera pubblica.
Infatti, il terreno sul quale insiste la RSA è di proprietà
della Parrocchia (la quale, al di là del riconoscimento
delle finalità meritorie svolte dalle Parrocchie, non è però
ente pubblico), mentre la realizzazione è stata attribuita
ad un operatore privato, avente natura di imprenditore
commerciale ai sensi dell’art. 1 della legge fallimentare
(prova ne è il fatto che è intervenuta a carico
dell’operatore medesimo la dichiarazione di fallimento).
Nel primo mezzo di gravame, viene
lamentata la violazione degli articoli 43 della legge
regionale della Lombardia 12/2005 e dell’art. 17 del DPR
380/2001, in quanto, secondo parte ricorrente, l’opera di
cui è causa non sarebbe soggetta ad alcun contributo di
costruzione, rientrando nella fattispecie dell’art. 17,
comma 3°, lettera c), del DPR 380/2001, in forza del quale
non è dovuto il contributo di costruzione <<per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse
generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici>>.
La norma prevede due diverse condizioni di esenzione, vale a
dire la qualificazione come opera di urbanizzazione
secondaria oppure la realizzazione per finalità di interesse
generale da parte di enti pubblici o soggetti equiparati.
L’esponente rileva come l’originaria concessione edilizia
del 2001 (cfr. il doc. 13 del ricorrente), poi decaduta,
fosse stata rilasciata senza pagamento di alcun contributo,
vale a dire ai sensi dell’art. 9 della legge 10/1977 (il cui
contenuto è stato poi sostanzialmente riproposto dall’art.
17 sopra citato).
Si rimarca, ancora, che l’opera risponde ad evidenti
finalità di interesse generale e che, in ogni caso, dovrebbe
essere reputata opera di urbanizzazione secondaria, stante
la disciplina dell’art. 44 della legge regionale 12/2005,
che annovera fra le urbanizzazioni secondarie, le
<<attrezzature sanitarie>>.
La tesi di parte ricorrente, per quanto suggestiva e ben
argomentata, non appare convincente.
La struttura di cui è causa costituisce una RSA (residenza
sanitario-assistenziale), vale a dire una Casa di Riposo,
struttura residenziale per l’accoglienza di persone anziane
normalmente non autosufficienti, alle quali sono garantiti
interventi socio-sanitari per migliorare i livelli di
autonomia, promuoverne il benessere e curare le patologie da
cui sono afflitte.
All’interno delle Case di Riposo, sono erogate sia
prestazioni di carattere strettamente sanitario e di cura,
sia prestazioni avente invece carattere assistenziale e
financo alberghiero, per la soddisfazione dei quotidiani
bisogni dell’anziano.
Si ricordi anche che la distinzione fra attività sanitaria,
finalizzata alla tutela del diritto alla salute e attività
assistenziale assume rilievo anche a livello costituzionale
(cfr. gli articoli 32 e 38 della Costituzione).
Ciò premesso, la Casa di Riposo non ha carattere
esclusivamente sanitario (al pari, ad esempio, di una
azienda ospedaliera), ma appaiono invece centrali le
attività assistenziali e ricettive, per cui non può essere
considerata puramente e semplicemente una “attrezzatura
sanitaria”, vale a dire un’opera di urbanizzazione
secondaria la cui realizzazione non è soggetta a contributo
di costruzione ai sensi del più volte citato art. 17 del
Testo Unico dell’Edilizia (cfr. sul punto TAR Emilia
Romagna, Bologna, sez. II, 03.07.2012, n. 466).
Sul punto occorre avere riguardo anche alle concrete
caratteristiche costruttive dell’opera, nella quale
prevalgono le camere con annesso bagno, trattandosi di
struttura essenzialmente ricettiva, come desumibile dalle
planimetrie catastali (cfr. il doc. 6 del resistente, nel
quale a pag. 1 è indicata la categoria catastale B01, vale a
dire “Collegi e convitti, educandati; ricoveri; orfanotrofi;
ospizi; conventi”, mentre agli ospedali e case di cura è
attribuita la categoria catastale B02).
In conclusione, la RSA non è puramente e semplicemente una
struttura sanitaria, per cui non può annoverarsi fra le
opere di urbanizzazione secondaria.
Inoltre, neppure sussiste l’ulteriore requisito al quale la
lettera c) del menzionato art. 17 subordina l’esenzione dal
contributo di costruzione.
Tale requisito richiede il concorso di due presupposti, vale
a dire l’ascrivibilità del manufatto alla categoria delle
opere pubbliche o di interesse generale e l’esecuzione delle
opere da parte di enti pubblici istituzionalmente competenti
ovvero di privati concessionari dell’ente pubblico (così,
fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 3.10.2005, n.
5246).
Nel caso di specie, anche a volere ammettere la natura di
opera di interesse generale della RSA, manca però
l’ulteriore condizione della realizzazione da parte
dell’ente pubblico o di un soggetto legato al medesimo,
quale ad esempio un concessionario di opera pubblica.
Infatti, il terreno sul quale insiste la RSA è di proprietà
della Parrocchia di San Giorgio (la quale, al di là del
riconoscimento delle finalità meritorie svolte dalle
Parrocchie, non è però ente pubblico), mentre la
realizzazione è stata attribuita ad un operatore privato,
avente natura di imprenditore commerciale ai sensi dell’art.
1 della legge fallimentare (prova ne è il fatto che è
intervenuta a carico dell’operatore medesimo la
dichiarazione di fallimento).
Non muta la situazione, la circostanza dell’intervenuta
sottoscrizione della convenzione del 18.10.2011 fra Comune,
Parrocchia e ICOS Coop. Sociale a r.l. (cfr. il doc. 7 del
ricorrente e del resistente).
La convenzione non ha –infatti– attribuito ad ICOS la
natura di concessionario del Comune, visto che ICOS opera
comunque in virtù della delega ricevuta dalla Parrocchia;
nell’atto convenzionale sono posti invece a carico
dell’operatore privato taluni obblighi verso il Comune
(inserimento lavorativo di personale residente, priorità di
ricovero degli anziani residenti ed erogazione di servizio
mensa e fisioterapia a favore degli anziani residenti), ma
tali obbligazioni attengono tutte ad una fase successiva a
quella di esecuzione dell’opera, esecuzione effettuata a
cura esclusiva del privato imprenditore su terreno di altro
soggetto privato.
Quanto alla circostanza che la concessione edilizia del 2001
fu rilasciata senza pagamento di oneri concessori, si tratta
tutt’al più di un errore degli uffici; in ogni caso tale
concessione è scaduta, per cui –doverosamente, preme
aggiungere– gli uffici comunali hanno valutato nuovamente
la questione al momento di presentazione della DIA del 2008
(cfr. il doc. 2 del ricorrente).
Neppure assume rilevo la deroga allo strumento urbanistico
per consentire una maggiore altezza della struttura, deroga
disposta con deliberazione di Consiglio Comunale n. 2 del
2008 (cfr. il doc. 1 del ricorrente).
Infatti, il rilascio di un titolo edilizio in deroga, ai
sensi dell’art. 40 della legge regionale 12/2005, non
implica necessariamente –non essendovi alcuna norma al
riguardo– che l’edificio o impianto in deroga non debba
essere assoggettato a contributo concessorio.
In conclusione, deve respingersi il primo mezzo di ricorso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.07.2014 n. 1827 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Individuazione terreni boschivi vincolati.
In tema di tutela del paesaggio ed al
fine di individuare i terreni boschivi protetti da vincolo
va qualificato come bosco, alla luce della speciale
normativa di settore (art. 2 del D.Lgs. 227/2001) qualsiasi
terreno coperto da vegetazione forestale arborea, associata
o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da
macchia mediterranea, con il limite spaziale di una
estensione non inferiore a 2000 mq., con larghezza media non
inferiore a mt. 20 e con copertura per l’intera superficie
non inferiore al 20% (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2014 n. 30303
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposti di efficacia del permesso in sanatoria.
I presupposti per attribuire efficacia
estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai
sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, sussistono solo
se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal
titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti
urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione
che al momento della presentazione della domanda, con la
conseguenza che detta vicenda estintiva non può prodursi se
sia necessario procedere ad ulteriori interventi che
riconducano i lavori realizzati a tale doppia conformità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2014 n. 30275
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Va abbattuto il piano sopraelevato senza titolo.
Il principio resta. anche dopo il decreto del fare.
Chi ha sopraelevato un piano del fabbricato senza titolo
deve abbatterlo anche dopo il decreto fare. Il dl 69/2013 ha
sì modificato il testo unico dell'edilizia cancellando la
necessità di rispettare la sagoma della costruzione ma non
ha attenuato le altre regole, anzi le ha rinforzate: tutti
gli interventi che comportano un incremento dei volumi
restano ristrutturazioni edilizie e dunque impongono la
titolarità del permesso di costruire.
Lo precisa il TAR
Campania-Napoli, Sez. IV, con la
sentenza
10.07.2014 n. 3867.
Cubature e destinazioni
Niente da fare per la famiglia napoletana che ha costruito
un intero piano senza autorizzazione: dopo il rapporto dei
vigili urbani l'opera dovrà essere demolita. Evidente
l'aumento dei volumi, il manufatto realizzato non può
rientrare nell'ambito della ristrutturazione edilizia
assentibile con Dia. E soprattutto è inutile invocare il
decreto legge 69/2013. È vero: il legislatore ha modificato
la lettera d) del comma 1 dell'art. 3 del testo unico
dell'edilizia e risulta scomparso il riferimento alla
necessità di rispettare la sagoma preesistente
dell'edificio.
Ma devono essere considerati interventi di ristrutturazione
edilizia anche quelli che consistono nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quella
preesistente: si tratta pur sempre di modifiche rilevanti. E
deve sempre considerarsi nuova costruzione la realizzazione
di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero
l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma
esistente (lettera e.1 del comma 1 dell'art. 3 del Testo
unico).
Insomma: resta la necessità del rilascio del permesso di
costruire quando l'immobile da ricostruire ha una diversa
volumetria, al di là del fatto che si verifichi la
circostanza concorrente del mutamento della destinazione
d'uso. Il concetto di ristrutturazione edilizia resta
distinto dall'intervento di nuova costruzione per la
necessità che la ricostruzione corrisponda (nella
ristrutturazione), quanto meno nel volume e nella sagoma, al
fabbricato demolito.
E c'è anche le modifiche dei prospetti
o delle superfici, oltre che del volume, fa in modo che
l'opera rientri fra le ristrutturazioni soggette a permesso
di costruire
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che, nell'ambito delle
opere edilizie, la semplice ristrutturazione si
verifica ove gli interventi abbiano interessato un edificio
del quale, all'esito degli stessi, rimangano inalterate le
componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le
strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la
ricostruzione allorché dell'edificio preesistente
siano venute meno, per evento naturale o per volontaria
demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduce
nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna
variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti,
si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da
considerare tale, anche ai fini del computo delle distanze
rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti
urbanistici locali.
Si è quindi precisato che il concetto di ristrutturazione
edilizia resta distinto dall'intervento di nuova
costruzione per la necessità che la ricostruzione
corrisponda (nella ristrutturazione), quanto meno nel volume
e nella sagoma, al fabbricato demolito.
Con la conseguenza che l’opera si palesa pertanto
assoggettata al regime del permesso di costruire, in quanto
l’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 06.06.2001 n. 380,
indica come interventi soggetti al permesso di costruire
quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un
organismo edilizio anche in parte diverso dal precedente,
che comportino, come nel caso di specie, aumento modifiche
del volume (oppure dei prospetti o delle superfici).
La necessità di rispettare l’originaria volumetria risulta
viepiù rinforzata alla luce delle modifiche di recente
apportate al T.U. dell’edilizia dal decreto legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (cd decreto del fare), con cui il
legislatore (mediante la modifica della lettera d) del
citato comma 1 dell’art. 3 del T.U. dell’edilizia) ha
considerando fra gli interventi di ristrutturazione
edilizia anche gli interventi «consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di
quella preesistente», senza fare più riferimento al rispetto
della sagoma precedente.
Ed invero resta fermo che deve sempre considerarsi nuova
costruzione «la costruzione di manufatti edilizi fuori
terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti
all'esterno della sagoma esistente» (lettera e.1 del comma 1
dell’art. 3 del T.U.) e resta ferma quindi la necessità del
rilascio del permesso di costruire quando l’immobile
ricostruendo ha una diversa volumetria, in disparte la
concorrente circostanza relativa al mutamento della
destinazione d’uso.
Facendo applicazione di tali principi l’intervento edilizio
concernete il piano in sopraelevazione deve inevitabilmente
qualificarsi come di nuova costruzione.
3.1. Portata dirimente rivesta la corretta qualificazione
dell’intervento effettuato in sopraelevazione dal ricorrente
ed oggetto di demolizione.
In primo luogo vale considerare che l’aumento di volume,
pacificamente sussistente (mediante la sopraelevazione, la
modifica della sagoma e del i volumi) non consente di
annoverare l’intervento nell’ambito della ristrutturazione
edilizia assentibile con Dia.
3.2. Al di là del tenore letterale dell’articolo 124 del
regolamento comunale, ai fini della distinzione fra nuova
costruzione e ristrutturazione edilizia debba farsi
riferimento alle disposizioni contenute nel T.U.
dell’edilizia che di tali nozioni danno la definizione e ne
individuano i limiti.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, recante il Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, nel testo
precedente le modifiche apportate dal D.L. 21.06.2013, n. 69
(e quindi all’epoca vigente), sono «interventi di
ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica».
Ai sensi della successiva lettera e) sono «interventi di
nuova costruzione, quelli di trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie
definite alle lettere precedenti. Sono comunque da
considerarsi tali: e.1) la costruzione di manufatti edilizi
fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli
esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo
restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto
alla lettera e.6) ….».
3.3. Sulla base di tali definizioni la giurisprudenza ha
chiarito che, nell'ambito delle opere edilizie, la
semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi
abbiano interessato un edificio del quale, all'esito degli
stessi, rimangano inalterate le componenti essenziali, quali
i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura,
mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché
dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento
naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e
l'intervento si traduce nell'esatto ripristino delle stesse
operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti
della volumetria né delle superfici occupate in relazione
alla originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali
aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova
costruzione, da considerare tale, anche ai fini del
computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come
previste dagli strumenti urbanistici locali (Consiglio di
Stato, Sez. V, n. 3221 dell’11.06.2013).
3.4. Si è quindi precisato che il concetto di
ristrutturazione edilizia resta distinto dall'intervento
di nuova costruzione per la necessità che la
ricostruzione corrisponda (nella ristrutturazione), quanto
meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito
(Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3278 del 13.06.2013).
Con la conseguenza che l’opera si palesa pertanto
assoggettata al regime del permesso di costruire, in quanto
l’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 06.06.2001 n. 380,
indica come interventi soggetti al permesso di costruire
quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un
organismo edilizio anche in parte diverso dal precedente,
che comportino, come nel caso di specie, aumento modifiche
del volume (oppure dei prospetti o delle superfici).
3.5. La necessità di rispettare l’originaria volumetria
risulta viepiù rinforzata alla luce delle modifiche di
recente apportate al T.U. dell’edilizia dal decreto legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (cd decreto del fare), con cui il
legislatore (mediante la modifica della lettera d) del
citato comma 1 dell’art. 3 del T.U. dell’edilizia) ha
considerando fra gli interventi di ristrutturazione
edilizia anche gli interventi «consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di
quella preesistente», senza fare più riferimento al
rispetto della sagoma precedente.
Ed invero resta fermo che deve sempre considerarsi nuova
costruzione «la costruzione di manufatti edilizi
fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli
esistenti all'esterno della sagoma esistente» (lettera
e.1 del comma 1 dell’art. 3 del T.U.) e resta ferma quindi
la necessità del rilascio del permesso di costruire quando
l’immobile ricostruendo ha una diversa volumetria, in
disparte la concorrente circostanza relativa al mutamento
della destinazione d’uso.
Facendo applicazione di tali principi l’intervento edilizio
concernete il piano in sopraelevazione deve inevitabilmente
qualificarsi come di nuova costruzione (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza
10.07.2014 n. 3867). |
ESPROPRIAZIONE:
L'articolo 1158 del
codice civile prevede che “La proprietà dei beni immobili e
gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si
acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Orbene, nelle vicende come quelle in esame, in cui sia
avviato ma non concluso un procedimento espropriativo,
l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione,
ossia la trasformazione della mera detenzione in possesso,
si verifica subito dopo la scadenza del termine massimo di
occupazione legittima del bene, atteso che l’apprensione e
la detenzione dello stesso in virtù di provvedimento di
occupazione di urgenza (che comporta la corresponsione di
una indennità in favore del privato), implicando il
riconoscimento del diritto dominicale di quest’ultimo, non
integra l’elemento possessorio necessario per l’acquisto
della proprietà.
---------------
La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, in virtù
del rinvio fatto dall’articolo 1165 cc all’art. 2943 cc,
risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del
possesso, onde non è consentito attribuire efficacia
interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla
legge, con la conseguenza che tale efficacia può
riconoscersi solo ad atti che comportino, per il possessore,
la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure
ad atti giudiziali diretti ad ottenere ope iudicis la
privazione del possesso nei confronti del possessore
usucapente, come la notifica dell’atto di citazione con il
quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni
immobili in ordine ai quali si vanti un diritto dominicale.
---------------
Si è, poi, affermato:
- che gli atti di diffida e messa in mora sono idonei ad
interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma
non anche il termine utile per usucapire, potendosi
esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato
contrasto con la volontà del titolare del diritto reale;
- che in tema di atti interruttivi del termine per
usucapire, non è sufficiente un mero atto o fatto che
evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza
ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si
richiede che il possessore, per il modo in cui questa
conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita,
esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto
reale al suo titolare;
- che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere
nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto
interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il
principio di cui all’art. 1310 cc trova applicazione in
materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali,
per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi
invece farsi riferimento ai singoli comportamenti dei
compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li
hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere.
Ciò posto, si osserva che l’articolo 1158 del
codice civile prevede che “La proprietà dei beni immobili e
gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si
acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Orbene, nelle vicende come quelle in esame, in cui sia
avviato ma non concluso un procedimento espropriativo,
l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione,
ossia la trasformazione della mera detenzione in possesso,
si verifica subito dopo la scadenza del termine massimo di
occupazione legittima del bene, atteso che l’apprensione e
la detenzione dello stesso in virtù di provvedimento di
occupazione di urgenza (che comporta la corresponsione di
una indennità in favore del privato), implicando il
riconoscimento del diritto dominicale di quest’ultimo, non
integra l’elemento possessorio necessario per l’acquisto
della proprietà (cfr. TAR Puglia, Lecce, II, 02.11.2011, n.
1913; CGA Sicilia, 14.01.2013, n. 9).
Nella vicenda in esame la scadenza del termine di
occupazione legittima si colloca alla data del 30.12.1989,
come accertato sia dal Tribunale di Vallo della Lucania (con la sentenza n. 33 del 2003) sia dalla Corte di Appello
di Salerno ( con la sentenza n. 761/2011) nel giudizio
civile svoltosi tra il Torrusio ed il Comune di Vallo della
Lucania, avente ad oggetto il risarcimento del danno da
occupazione appropriativa e conclusosi con il rigetto della
domanda attorea.
Di conseguenza, risultando il 31.12.1989 il dies a quo per
il calcolo del possesso ventennale ad usucapionem, la
maturazione del termine previsto dall’articolo 1958 c.c. si
è verificata in data 01.01.2010, dunque in epoca ben anteriore
alla proposizione del presente ricorso, notificato solo il
19.01.2012.
Né, d’altra parte, vengono dedotti in giudizio elementi
utili a ritenere che, durante il suddetto arco temporale, la
pubblica amministrazione non abbia avuto, in relazione al
suolo per cui è causa, un possesso non interrotto,
pacifico, pubblico e non equivoco.
Invero, nel ricorso introduttivo si precisa che, a seguito
del decreto sindacale di occupazione del 25.11.1983, lo IACP
prendeva possesso del fondo in data 30.12.1983 e che “i
successivi lavori di realizzazione dell’intervento di
edilizia popolare venivano appaltati alla CoGePa e
collaudati in data 02.03.1989… e che pertanto alla scadenza
del termine di fine lavori indicato nella delibera 1666 del
22.11.1983 dello IACP di Salerno ( 5 anni dalla presa di
possesso delle aree, avvenuta il 30.12.1983) si era già
verificata l’irreversibile trasformazione del bene”.
Ritiene, di poi, il Tribunale che dagli atti depositati in
giudizio e dalle emergenze di causa non emerge l’esistenza
di atti interruttivi del predetto termine ventennale utile
all’acquisto della proprietà per usucapione.
Con riferimento a tale questione, invero, la giurisprudenza
ha avuto modo di precisare che, in virtù del rinvio fatto
dall’articolo 1165 cc all’art. 2943 cc, risultano
tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso,
onde non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad
atti diversi da quelli stabiliti dalla legge (cfr. Cass.
civ. II, 20.01.2014, n. 1071), con la conseguenza che tale
efficacia può riconoscersi solo ad atti che comportino, per
il possessore, la perdita materiale del potere di fatto
sulla cosa, oppure ad atti giudiziali diretti ad ottenere
ope iudicis la privazione del possesso nei confronti del
possessore usucapente, come la notifica dell’atto di
citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna
di tutti i beni immobili in ordine ai quali si vanti un
diritto dominicale (cfr. Cass. civ., II, 06.05.2014, n.
9682).
Si è, poi, affermato:
- che gli atti di diffida e messa in mora sono idonei ad
interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma
non anche il termine utile per usucapire, potendosi
esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato
contrasto con la volontà del titolare del diritto reale (Cass. II, n. 9682/2014);
- che in tema di atti interruttivi del termine per usucapire,
non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la
consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri
del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede
che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è
rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la
volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo
titolare (cfr. Cass. civ., II, 28.11.2013, n. 26641);
- che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere
nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto
interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il
principio di cui all’art. 1310 cc trova applicazione in
materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali,
per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi
invece farsi riferimento ai singoli comportamenti dei
compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li
hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere (cfr. Cass. civ., II,
25.10.2013, n. 24165)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.07.2014 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione, per
caratteristiche e (pur modeste) dimensioni (ndr: baracca in
lamiera di modeste dimensioni adibita a rimessa attrezzi e
ricovero animali), debbono ritenersi oggi sottoposte al
permesso a costruire (e a concessione edilizia quanto al
regime prendente l’entrata in vigore del D.p.r. 06.06.2001
n. 380) in quanto suscettibili di arrecare comunque una
trasformazione del territorio e non precarie, secondo la
oramai pacifica nozione di precarietà invalsa presso la
giurisprudenza.
---------------
Come noto, la giurisprudenza anche di questo Tribunale è
consolidata nel porre (in materia di abusivismo edilizio) a
carico del ricorrente l’onere della prova circa il periodo
di realizzazione del manufatto, in modo ragionevolmente
certo.
---------------
Ritiene il Collegio nella fattispecie per cui è causa di
poter riconoscere nei confronti del ricorrente la
sussistenza di un affidamento tutelabile ingenerato
dall’inerzia nell’esercizio del potere repressivo, che
doveva essere adeguatamente tenuto in considerazione
allorquando l’Amministrazione si è determinata ad ordinare
la demolizione.
Infatti dalla documentazione depositata in giudizio emerge
come anche in sede di riunioni effettuate nella sede
comunale alla presenza dei vari enti pubblici interessati
(verbale del 18.02.2002) fosse ben presente il problema
della presenza da lungo tempo e comunque prima del 1967 di
manufatti per il ricovero del bestiame, come ammesso dallo
stesso consulente legale del Comune seppur in riferimento
alla generalità dei manufatti esistenti in loco.
Non ignora affatto il Collegio come secondo un diffuso e
prevalente orientamento giurisprudenziale anche dell’adito
Tribunale, l’attività di repressione degli abusi edilizi è
espressione di attività strettamente vincolata, non soggetta
a termini potendo intervenire anche a notevole distanza di
tempo, né comportante la necessità di alcuna ponderazione e
motivazione in ordine all'interesse pubblico perseguito.
In particolare viene evidenziato il carattere permanente
degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e
paesistica, potendo il potere sanzionatorio anche in forma
ripristinatoria essere esercitato senza limiti di tempo e
senza necessità di motivazione in ordine al ritardo,
reprimendo l'Amministrazione una situazione antigiuridica
contestualmente contra jus, ancora sussistente.
L'orientamento suesposto, pur se prevalente, non è oggi
comunque pacifico, dal momento che anche in materia edilizia
la più recente giurisprudenza non ha mancato di contemperare
il pur rilevante potere repressivo con il consolidarsi di
posizioni di affidamento meritevoli di tutela per effetto
del protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione, in
relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è
subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto
riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato.
La giurisprudenza di questo Tribunale è pacifica
nell’interpretare restrittivamente la rilevanza del decorso
del tempo in ordine alla tutela dell’affidamento al
mantenimento dell’opera abusivamente realizzata,
subordinandosi tale rilevanza al “rigoroso accertamento di
molteplici presupposti, tra cui la prova, di cui è onerata
la parte ricorrente, del periodo di realizzazione del
manufatto in modo ragionevolmente certo”.
Se quindi non può negarsi tout court qualsivoglia
affidamento meritevole di tutela allorquando sia trascorso
un notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso e
la risposta sanzionatoria, nella fattispecie può
riconoscersi la sussistenza di affidamento tutelabile,
poiché pur non risultando dimostrato l’esatto periodo di
realizzazione, emerge un quadro indiziario (art. 2729 c.c.)
volto a collocarlo con ragionevole probabilità negli anni
sessanta/settanta e comunque prima dell’istituzione del
Parco Nazionale dei Monti Sibillini avvenuta con legge n.
67/1988.
Tale quadro indiziario è dunque sufficiente, nel caso di
specie, a dimostrare la circostanza circa il lungo lasso di
tempo intercorso tra la realizzazione e l’intervento
sanzionatorio, presupposto dell’affidamento di cui si invoca
tutela. Mette poi conto evidenziare le modeste dimensioni
del manufatto de quo, come risultante dalla stessa
documentazione fotografica depositata dal Comune resistente.
Conclusivamente, in considerazione dell’inerzia
dell’autorità comunale e della modesta entità dell’abuso,
comunque realizzato ben prima dell’istituzione del Parco
Nazionale dei Monti Sibillini, risultano meritevoli di
condivisione le censure di cui al II motivo di ricorso, dal
momento che l’ordinanza gravata omette di effettuare
qualsivoglia contemperamento tra l’interesse pubblico alla
repressione dell’abuso e l’affidamento del ricorrente al
mantenimento dell’opera pur abusiva stante la lunga inerzia
nell’esercizio del potere repressivo.
... per l'annullamento,
previa sospensiva, dell’ordinanza del Sindaco di Norcia e del Responsabile
dell’Ufficio Urbanistica n. 16 del 06/09/2002 prot. n. 10274
notificata l’11/09/2002, con la quale è stato disposto
l’annullamento dell’ordinanza sindacale n. 54 del 17/05/1996 prot. 5659 ed è stata ordinata al ricorrente la demolizione
di una baracca sita in località “Pratacce” di Castelluccio.
...
E’ materia del contendere la legittimità dell’ordinanza n.
16 del 06.09.2002 emanata dal Comune di Norcia, avente
ad oggetto l’ordine di demolizione intimato ad Oreste
Cappelli di una baracca in lamiera di modeste dimensioni
adibita a rimessa attrezzi e ricovero animali, realizzata
“in epoca remota” seppur incerta.
2. Preliminarmente, il Collegio non ravvisa la necessità di
procedere alla riunione, ai sensi dell’art. 70 cod. proc.
amm., con il ricorso RG 700/1996 avente ad oggetto
l’impugnativa della precedente ordinanza 54/1996, risultando
quest’ultima annullata in autotutela dall’ordinanza oggetto
del presente giudizio impugnatorio.
3. Il ricorso è fondato e va accolto.
3.1. Deve premettersi che le opere oggetto dell’impugnata
ordinanza di demolizione, per caratteristiche e (pur
modeste) dimensioni, debbano ritenersi oggi sottoposte al
permesso a costruire (e a concessione edilizia quanto al
regime prendente l’entrata in vigore del D.p.r. 06.06.2001 n. 380) in quanto suscettibili di arrecare comunque una
trasformazione del territorio e non precarie, secondo la
oramai pacifica nozione di precarietà invalsa presso la
giurisprudenza (ex multis Consiglio di Stato sez. VI,
03.06.2014, n. 2842).
Come correttamente prospettato dalla difesa comunale non può
disconoscersi l’abusività del manufatto in questione, sia
per la documentata regolamentazione da parte del Comune di
Norcia sin dall’anno 1935 tesa ad imporre titoli abilitativi
edilizi a tutela delle esigenze di pubblico ornato, sia per
il mancato assolvimento da parte del ricorrente dell’onere
di fornire elementi probatori univoci in merito alla
presunta data di realizzazione.
Sotto il primo profilo, la difesa comunale ha effettivamente
depositato la delibera del Commissario prefettizio del 06.07.1935 ed il regolamento sul Pubblico Ornato ai sensi
degli artt. 3 e 4 del R.D. n. 640 del 1935 richiedenti
apposita autorizzazione del Podestà per la realizzazione di
nuove costruzioni.
Sotto il secondo profilo, l’affermazione del ricorrente
circa la presunta realizzazione del manufatto “sin dalla
metà degli anni sessanta” appare non suffragata da univoci
elementi probatori, al di fuori di quanto genericamente
dichiarato dal Corpo Forestale dello Stato con la nota del
23.11.1994, in cui si attestava la realizzazione “in
epoca remota”.
Come noto, la giurisprudenza anche di questo Tribunale è
consolidata (TAR Umbria 18.08.2009, n. 492; id. 18.03.2008, n. 102; id. 13.05.2013, n. 293) nel porre
in subiecta materia a carico del ricorrente l’onere della prova
circa il periodo di realizzazione del manufatto, in modo
ragionevolmente certo.
Nel caso di specie, risulta carente di riscontri l’asserita
realizzazione dell’opera nel periodo antecedente l’entrata
in vigore della legge n. 765/1967, pur allegando parte
ricorrente quanto meno elementi circa l’avvenuta
realizzazione della baracca “in epoca remota” (giusta la
citata nota della Guardia di Finanza) che pur se di
contenuto generico non è irrilevante, come si dirà, in punto
di sussistenza di un affidamento tutelabile.
3.2. Non può pertanto dirsi provata la circostanza in merito
alla presunta realizzazione del manufatto nella metà degli
anni sessanta vale a dire in periodo antecedente l’entrata
in vigore della legge 06.08.1967 n. 765, con conseguente
infondatezza di tutte le doglianze mosse al I motivo di
gravame.
3.3. Parimenti prive di pregio risultano le censure di cui
al III motivo di gravame, per l’assorbente considerazione
che risulta priva di senso logico-giuridico il riferimento
alla presunta sanabilità dell’opera, in considerazione del
carattere formale dell’abuso, in assenza di documentata
istanza proveniente da parte dell’interessato, non potendo
mai l’Amministrazione procederne all’esame in via ufficiosa
(ex plurimis TAR Campania-Napoli sez. VII, 10.01.2014, n.166).
3.4. Tanto premesso, ritiene il Collegio nella fattispecie
per cui è causa di poter riconoscere nei confronti del
ricorrente la sussistenza di un affidamento tutelabile
ingenerato dall’inerzia nell’esercizio del potere
repressivo, che doveva essere adeguatamente tenuto in
considerazione allorquando l’Amministrazione si è
determinata ad ordinare la demolizione.
Infatti dalla documentazione depositata in giudizio emerge
come anche in sede di riunioni effettuate nella sede
comunale alla presenza dei vari enti pubblici interessati
(verbale del 18.02.2002) fosse ben presente il
problema della presenza da lungo tempo e comunque prima del
1967 di manufatti per il ricovero del bestiame nel Pian
Grande di Castelluccio di Norcia, come ammesso dallo stesso
consulente legale del Comune seppur in riferimento alla
generalità dei manufatti esistenti in loco.
Non ignora affatto il Collegio come secondo un diffuso e
prevalente orientamento giurisprudenziale anche dell’adito
Tribunale, l’attività di repressione degli abusi edilizi è
espressione di attività strettamente vincolata, non soggetta
a termini potendo intervenire anche a notevole distanza di
tempo, né comportante la necessità di alcuna ponderazione e
motivazione in ordine all'interesse pubblico perseguito (ex plurimis TAR Veneto sez II, 13.03.2008, n. 605; TAR
Puglia-Lecce 08.04.2010, n. 907; TAR Emilia-Romagna
Bologna, 01.09.2006, n. 1729; Consiglio Stato, sez. IV,
16.04.2010, n. 2160).
In particolare viene evidenziato
il carattere permanente degli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, potendo il potere
sanzionatorio anche in forma ripristinatoria essere
esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di
motivazione in ordine al ritardo, reprimendo
l'Amministrazione una situazione antigiuridica
contestualmente contra jus, ancora sussistente (su tutte
Consiglio Stato, sez. IV, 16.04.2010, n. 2160).
L'orientamento suesposto, pur se prevalente, non è oggi
comunque pacifico, dal momento che anche in materia edilizia
la più recente giurisprudenza non ha mancato di contemperare
il pur rilevante potere repressivo con il consolidarsi di
posizioni di affidamento meritevoli di tutela per effetto
del protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione, in
relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è
subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto
riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato (TAR
Campania Napoli, sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; TAR
Toscana Firenze sez III, 30.07.2010, n. 3268; TAR
Piemonte sez I, 16.07.2010, n. 3131).
La giurisprudenza di questo Tribunale è pacifica (TAR
Umbria 18.08.2009, n. 492; id. 18.03.2008, n. 102; id.
13.05.2013, n. 293) nell’interpretare restrittivamente la
rilevanza del decorso del tempo in ordine alla tutela
dell’affidamento al mantenimento dell’opera abusivamente
realizzata, subordinandosi tale rilevanza al “rigoroso
accertamento di molteplici presupposti, tra cui la prova, di
cui è onerata la parte ricorrente, del periodo di
realizzazione del manufatto in modo ragionevolmente certo”.
Se quindi non può negarsi tout court qualsivoglia
affidamento meritevole di tutela allorquando sia trascorso
un notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso e
la risposta sanzionatoria, nella fattispecie può
riconoscersi la sussistenza di affidamento tutelabile,
poiché pur non risultando dimostrato l’esatto periodo di
realizzazione, emerge un quadro indiziario (art. 2729 c.c.)
volto a collocarlo con ragionevole probabilità negli anni
sessanta/settanta e comunque prima dell’istituzione del
Parco Nazionale dei Monti Sibillini avvenuta con legge n.
67/1988.
Tale quadro indiziario è dunque sufficiente, nel caso di
specie, a dimostrare la circostanza circa il lungo lasso di
tempo intercorso tra la realizzazione e l’intervento
sanzionatorio, presupposto dell’affidamento di cui si invoca
tutela. Mette poi conto evidenziare le modeste dimensioni
del manufatto de quo, come risultante dalla stessa
documentazione fotografica depositata dal Comune resistente.
Conclusivamente, in considerazione dell’inerzia
dell’autorità comunale e della modesta entità dell’abuso,
comunque realizzato ben prima dell’istituzione del Parco
Nazionale dei Monti Sibillini, risultano meritevoli di
condivisione le censure di cui al II motivo di ricorso, dal
momento che l’ordinanza gravata omette di effettuare
qualsivoglia contemperamento tra l’interesse pubblico alla
repressione dell’abuso e l’affidamento del ricorrente al
mantenimento dell’opera pur abusiva stante la lunga inerzia
nell’esercizio del potere repressivo
(TAR Umbria,
sentenza 10.07.2014 n. 379 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Natura del reato di illecita gestione e trasporto
in forma ambulante.
1. La condotta sanzionata dall'art. 256,
comma 1, d.lgs. 152/2006 è riferibile a chiunque svolga, in
assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività
rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli
208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo
decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o
consequenziale all'esercizio di una attività primaria
diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli
abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da
assoluta occasionalità;
2. La deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs.
152/2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti
prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera
qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in
possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività
commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs.
31.03.1998, n. 114 e, dall'altro, che si tratti di rifiuti
che formano oggetto del suo commercio
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
09.07.2014 n. 29992 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150 ha
introdotto una normativa complessa diretta a disciplinare in
modo organico e specifico le attività urbanistiche ed
edilizie, fino ad allora trattate in modo disorganico e
frammentario, disciplinando "l'assetto e l'incremento
edilizio dei centri abitati o Io sviluppo urbanistico in
genere del territorio dello Stato" (art. 1).
La legge predetta non si limitava più a prevedere la facoltà
riconosciuta ai Comuni di compilare, in presenza di
circostanze particolari, piani di ricostruzioni e di
ampliamento dell'abitato, ma assoggettava a pianificazione
l'intero territorio comunale (che doveva essere suddiviso in
zone funzionali diverse, a seconda della destinazione d'uso
dei terreni) e introdusse una nuova distinzione nell'ambito
della pianificazione, individuando i piani territoriali di
coordinamento (art. 5), i piani regolatori generali (artt. 7
e 8), i piani regolatori generali intercomunali (art. 12) e
i piani regolatori particolareggiati di esecuzione (art.
13).
Con riguardo all'attività costruttiva edilizia, la legge
urbanistica disciplinava compiutamente le modalità di
richiesta e di rilascio della licenza di costruzione (art.
31), facendo obbligo a chiunque nei centri abitati e, in
presenza di un piano regolatore comunale, anche nelle zone
di espansione dell'aggregato urbano previste e regolamentate
dal piano stesso, intendesse eseguire nuove costruzioni,
ampliare, modificare o demolire quelle esistenti o
modificarne la struttura o l'aspetto, di chiedere apposita
licenza al sindaco (art. 31, comma 1).
Il rilascio della licenza edilizia era prescritto per le
sole edificazioni realizzate nei centri abitati e, in
presenza di piano regolatore, anche nelle zone di
espansione.
... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione lavori
e rimessa in pristino dello stato dei luoghi n. 6795 prot.
int. n. 35767 in data 05.11.2012, notificata il
successivo 7 novembre, con cui il Comune di Fossano -
Dipartimento Tecnico Lavori Pubblici / Urbanistica /
Ambiente Servizio Edilizia Privata e Convenzionata ha
ordinato ai ricorrenti la demolizione della stalla con
soprastante fienile ed il ripristino dello stato dei
luoghi;
...
La legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150 ha introdotto
una normativa complessa diretta a disciplinare in modo
organico e specifico le attività urbanistiche ed edilizie,
fino ad allora trattate in modo disorganico e frammentario,
disciplinando "l'assetto e l'incremento edilizio dei centri
abitati o Io sviluppo urbanistico in genere del territorio
dello Stato" (art. 1).
La legge predetta non si limitava più a prevedere la facoltà
riconosciuta ai Comuni di compilare, in presenza di
circostanze particolari, piani di ricostruzioni e di
ampliamento dell'abitato, ma assoggettava a pianificazione
l'intero territorio comunale (che doveva essere suddiviso in
zone funzionali diverse, a seconda della destinazione d'uso
dei terreni) e introdusse una nuova distinzione nell'ambito
della pianificazione, individuando i piani territoriali di
coordinamento (art. 5), i piani regolatori generali (artt. 7
e 8), i piani regolatori generali intercomunali (art. 12) e
i piani regolatori particolareggiati di esecuzione (art.
13).
Con riguardo all'attività costruttiva edilizia, la legge
urbanistica disciplinava compiutamente le modalità di
richiesta e di rilascio della licenza di costruzione (art.
31), facendo obbligo a chiunque nei centri abitati e, in
presenza di un piano regolatore comunale, anche nelle zone
di espansione dell'aggregato urbano previste e regolamentate
dal piano stesso, intendesse eseguire nuove costruzioni,
ampliare, modificare o demolire quelle esistenti o
modificarne la struttura o l'aspetto, di chiedere apposita
licenza al sindaco (art. 31, comma 1).
Il rilascio della licenza edilizia era prescritto per le
sole edificazioni realizzate nei centri abitati e, in
presenza di piano regolatore, anche nelle zone di espansione
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 08.07.2014 n. 1169 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte costituzionale ha affermato "che,
invero, gli oneri di concessione potrebbero, in teoria,
essere ancorati alle tariffe vigenti, alternativamente, al
momento in cui l'abuso è iniziato, al momento in cui
l'immobile abusivo è completato, al momento dell'entrata in
vigore della normativa statale sul condono, al momento
dell'entrata in vigore della normativa regionale sul
condono, al momento in cui è stata effettuata la richiesta
di condono o, infine, al momento del perfezionamento del
procedimento di sanatoria” e “che, in tale contesto di
pluralità di soluzioni, la scelta del legislatore regionale
di privilegiare l'interesse pubblico all'adeguatezza della
contribuzione ai costi reali da sostenere rispetto a quello,
ad esso antitetico, del cittadino alla sua piena previsione
dei costi al momento della formazione del consenso
-ugualmente meritevole di protezione- sembra essere il
frutto di una scelta discrezionale implicante un
bilanciamento di interessi che può solo essere effettuato
dal legislatore”.
Sulla scorta di tali parametri, è quindi del tutto coerente
il richiamo a una giurisprudenza amministrativa che afferma
che l’obbligazione di pagamento degli oneri concessori sorge
con il rilascio della concessione edilizia e la
giurisprudenza è concorde nel ritenere che la determinazione
del contributo dovuto per gli oneri in questione debba
essere riferita al momento in cui sorge l’obbligazione, dove
si prosegue affermando che “in tale contesto, il
considerevole lasso di tempo decorso tra la presentazione
della domanda di sanatoria ed il rilascio della concessione
non può essere utilmente valorizzato nell’ottica della
individuazione di decorrenze del termine per la formazione
del silenzio-assenso (e, così, del decorso della
prescrizione) diverse da quelle normativamente indicate né
per sollecitare una non meglio specificata ‘giusta
mediazione’ che tenga conto delle tariffe eventualmente più
favorevoli esistenti all’epoca della presentazione della
domanda di sanatoria (quanto a quelle vigenti al momento di
realizzazione dell’opera abusiva, lo stesso ricorrente
riconosce che sarebbe ingiusto agevolare il responsabile)”.
Occorre peraltro evidenziare come appaia ardua
l’omologazione tra l’obbligazione nascente dal rilascio del
titolo abilitativo in via ordinaria e quella derivante dalla
sua adozione in sanatoria, come espressamente notato dalla
giurisprudenza.
Si è così affermato che “I contributi di cui all’articolo 11
della L. 10/1977, ed all’art. 1 della L.R. 71/1978, a
differenza di altre fattispecie normative, non vengono
determinati in via dichiaratamente provvisoria al momento
della domanda dell’interessato e quindi non sono
necessariamente richiesti salvo conguaglio, come ad esempio
nella fattispecie della domanda di concessione in sanatoria
(art. 35 L. 47/1995).
La determinazione dei contributi de quibus è stato infatti
collocato temporalmente dal legislatore al termine di un
lungo e complesso procedimento che ha alla base una espressa
dettagliata e circostanziale domanda del privato, cui fa
seguito una complessa istruttoria da parte
dell’Amministrazione nel corso della quale l’Amministrazione
stessa può chiedere all’interessato tutti i chiarimenti e
gli ulteriori elementi di cui abbia bisogno.
Il momento del rilascio della concessione non è quindi
equiparabile sotto nessun profilo al momento della domanda
di concessione in sanatoria.
In quest’ultimo caso l’Amministrazione si trova di fronte ad
una attività già posta in essere dal richiedente e ad una
richiesta di legittimazione a posteriori di tale attività e
non può quindi che riservarsi ad un momento futuro il
controllo sulla corrispondenza tra il fatto compiuto e la
domanda.
Del tutto diversa è la situazione della concessione in via
ordinaria in cui si tratta di legittimare una attività allo
stato ancora inesistente ed in cui l’Amministrazione, prima
di rimuovere l’ostacolo a tale attività, ha il potere ed il
dovere di verifica e di accertamento sotto ogni profilo
della legittimità della richiesta del privato.”
Sulla scorta di tale ontologica differenza, la posizione più
recente della Sezione è andata nel senso di escludere un
automatismo nell’adeguamento temporale alle tariffe
successive. Si è allora detto che la determinazione del
contributo di concessione in sanatoria, in adesione al
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “ai
sensi dell'art. 37 l. 28.02.1985 n. 47 e dell'art. 3 l.
28.01.1977 n. 10, la determinazione del contributo di
concessione in sanatoria deve effettuarsi con riferimento
alle tariffe vigenti al momento della domanda, risultando
irrilevante la verifica della regolare formazione del
silenzio–assenso sulla relativa domanda.”
A tale impostazione si è attenuto il primo giudice,
espressamente evidenziando come “nel caso di condono
edilizio, gli oneri di concessione vanno rapportati al
momento di ultimazione dell’opera e della presentazione
della domanda di sanatoria, e non al momento del rilascio
del titolo concessorio”.
Le ragioni così espresse vanno anche in questa sede
valorizzate, in quanto coerenti con le differenti funzioni
delle obbligazioni collegate al rilascio, in via ordinaria o
di sanatoria, del titolo abilitativo e legate alla posizione
rispettiva delle parti, anche per valorizzare la
prevedibilità degli oneri connessi all’edificazione.
Con un unico motivo di diritto,
il Comune appellante lamenta violazione o falsa applicazione
dell’art. 37 della legge n. 47 del 1985 e del principio di
corrispondenza tra oneri di urbanizzazione e carico
urbanistico indotto dall’edificazione.
Premesso che la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo
di evidenziare che sulla questione della definizione del
momento cui ancorare la determinazione degli oneri di
concessione non è ravvisabile un orientamento interpretativo
consolidato da cui possa ricavarsi un principio fondamentale
della legislazione statale secondo cui gli oneri stessi
debbano essere determinati con riferimento alle tariffe
vigenti alla data di entrata in vigore della legge di
sanatoria, il Comune evidenzia come rispetto alla pluralità
di soluzioni possibili non può non tenersi in considerazione
l'interesse pubblico all'adeguatezza della contribuzione ai
costi reali da sostenere rispetto a quello, a esso
antitetico, del cittadino alla sua piena previsione dei
costi al momento della formazione del consenso alla
realizzazione dell’opera, facendo quindi prevalere la
disciplina esistente in tale momento.
La censura non può essere accolta.
La posizione teorica espressa dal Comune ha sicuramente un
suo fondamento, anche in relazione alla valutazione operata
dal giudice delle leggi sulla situazione in esame. Infatti,
la Corte costituzionale ha affermato (sentenza 17.03.2010 n.
105) “che, invero, gli oneri di concessione potrebbero,
in teoria, essere ancorati alle tariffe vigenti,
alternativamente, al momento in cui l'abuso è iniziato, al
momento in cui l'immobile abusivo è completato, al momento
dell'entrata in vigore della normativa statale sul condono,
al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale
sul condono, al momento in cui è stata effettuata la
richiesta di condono o, infine, al momento del
perfezionamento del procedimento di sanatoria” e “che,
in tale contesto di pluralità di soluzioni, la scelta del
legislatore regionale di privilegiare l'interesse pubblico
all'adeguatezza della contribuzione ai costi reali da
sostenere rispetto a quello, ad esso antitetico, del
cittadino alla sua piena previsione dei costi al momento
della formazione del consenso -ugualmente meritevole di
protezione- sembra essere il frutto di una scelta
discrezionale implicante un bilanciamento di interessi che
può solo essere effettuato dal legislatore”.
Sulla scorta di tali parametri, è quindi del tutto coerente
il richiamo a una giurisprudenza amministrativa che afferma
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.05.2011, n. 3116) che
l’obbligazione di pagamento degli oneri concessori sorge con
il rilascio della concessione edilizia e la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che la determinazione del contributo
dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al
momento in cui sorge l’obbligazione, dove si prosegue
affermando che “in tale contesto, il considerevole lasso di
tempo decorso tra la presentazione della domanda di
sanatoria ed il rilascio della concessione non può essere
utilmente valorizzato nell’ottica della individuazione di
decorrenze del termine per la formazione del
silenzio-assenso (e, così, del decorso della prescrizione)
diverse da quelle normativamente indicate né per sollecitare
una non meglio specificata ‘giusta mediazione’ che tenga
conto delle tariffe eventualmente più favorevoli esistenti
all’epoca della presentazione della domanda di sanatoria
(quanto a quelle vigenti al momento di realizzazione
dell’opera abusiva, lo stesso ricorrente riconosce che
sarebbe ingiusto agevolare il responsabile)”.
Occorre peraltro evidenziare come appaia ardua
l’omologazione tra l’obbligazione nascente dal rilascio del
titolo abilitativo in via ordinaria e quella derivante dalla
sua adozione in sanatoria, come espressamente notato dalla
giurisprudenza. Si è così affermato (da ultimo, CGARS, 27.05.2008 n. 466) che “I contributi di cui all’articolo 11
della L. 10/1977, ed all’art. 1 della L.R. 71/1978, a
differenza di altre fattispecie normative, non vengono
determinati in via dichiaratamente provvisoria al momento
della domanda dell’interessato e quindi non sono
necessariamente richiesti salvo conguaglio, come ad esempio
nella fattispecie della domanda di concessione in sanatoria
(art. 35 L. 47/1995).
La determinazione dei contributi de quibus è stato
infatti collocato temporalmente dal legislatore al termine
di un lungo e complesso procedimento che ha alla base una
espressa dettagliata e circostanziale domanda del privato,
cui fa seguito una complessa istruttoria da parte
dell’Amministrazione nel corso della quale l’Amministrazione
stessa può chiedere all’interessato tutti i chiarimenti e
gli ulteriori elementi di cui abbia bisogno.
Il momento del rilascio della concessione non è quindi
equiparabile sotto nessun profilo al momento della domanda
di concessione in sanatoria.
In quest’ultimo caso l’Amministrazione si trova di fronte
ad una attività già posta in essere dal richiedente e ad una
richiesta di legittimazione a posteriori di tale attività e
non può quindi che riservarsi ad un momento futuro il
controllo sulla corrispondenza tra il fatto compiuto e la
domanda.
Del tutto diversa è la situazione della concessione in via
ordinaria in cui si tratta di legittimare una attività allo
stato ancora inesistente ed in cui l’Amministrazione, prima
di rimuovere l’ostacolo a tale attività, ha il potere ed il
dovere di verifica e di accertamento sotto ogni profilo
della legittimità della richiesta del privato.”
Sulla scorta di tale ontologica differenza, la posizione più
recente della Sezione è andata nel senso di escludere un
automatismo nell’adeguamento temporale alle tariffe
successive. Si è allora detto (Consiglio di Stato, sez. IV,
03.10.2012 n. 5201) che la determinazione del contributo
di concessione in sanatoria, in adesione al consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo cui “ai sensi
dell'art. 37 l. 28.02.1985 n. 47 e dell'art. 3 l. 28.01.1977 n. 10, la determinazione del contributo di
concessione in sanatoria deve effettuarsi con riferimento
alle tariffe vigenti al momento della domanda, risultando
irrilevante la verifica della regolare formazione del
silenzio–assenso sulla relativa domanda.”
A tale impostazione si è attenuto il primo giudice,
espressamente evidenziando come “nel caso di condono
edilizio, gli oneri di concessione vanno rapportati al
momento di ultimazione dell’opera e della presentazione
della domanda di sanatoria, e non al momento del rilascio
del titolo concessorio”.
Le ragioni così espresse vanno anche in questa sede
valorizzate, in quanto coerenti con le differenti funzioni
delle obbligazioni collegate al rilascio, in via ordinaria o
di sanatoria, del titolo abilitativo e legate alla posizione
rispettiva delle parti, anche per valorizzare la
prevedibilità degli oneri connessi all’edificazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.07.2014 n. 3425 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Nozione di tranquillità pubblica.
La tranquillità pubblica non è concetto
astratto. Essa assomma in sé quella delle singole persone
che, nei loro vivere quotidiano o nel loro riposo, possano
anche solo potenzialmente risentire dell’altrui condotta
rumorosa.
Non è dunque bene che si astrae dalla realtà dei singoli e
che vive di vita propria; è invece bene che trova nella
quiete della pluralità dei singoli la sua ragion d’essere.
La sua natura pubblica sta nella diffusività, non nel suo
astrarsi dal vivere quotidiano delle persone (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2014 n. 27434
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Dichiarazione di notevole interesse
pubblico.
Il delitto paesaggistico è configurabile
anche se la dichiarazione di notevole interesse pubblico sia
intervenuta con provvedimento emesso ai sensi delle
disposizioni previgenti (trattandosi di dichiarazione di
notevole interesse pubblico, non è necessaria alcuna
notificazione del vincolo ai proprietari o ad altri soggetti
interessati).
Inoltre ai fini dell’operatività del decreto ministeriale
con cui è stato dichiarato il notevole interesse pubblico
dell’area, è sufficiente la mera pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale, essendo necessaria la notifica del
decreto ai proprietari unicamente con riguardo al vincolo
imposto su singoli beni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.06.2014 n. 26856 - tratto da
www.lexambiente.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Il progetto esecutivo deve essere conforme al
definitivo e redatto nel pieno rispetto di quest’ultimo: su
tale dato (art. 35, comma 1, del dPr n. 554/1999: “il progetto
esecutivo costituisce la ingegnerizzazione di tutte le
lavorazioni e, pertanto, definisce compiutamente ed in ogni
particolare architettonico, strutturale ed impiantistico
l'intervento da realizzare. Restano esclusi soltanto i piani
operativi di cantiere, i piani di approvvigionamenti, nonché
i calcoli e i grafici relativi alle opere provvisionali. Il
progetto è redatto nel pieno rispetto del progetto
definitivo nonché delle prescrizioni dettate in sede di
rilascio della concessione edilizia o di accertamento di
conformità urbanistica, o di conferenza di servizi o di
pronuncia di compatibilità ambientale ovvero il
provvedimento di esclusione delle procedure, ove previsti.”)
non è dato controvertere.
---------------
E' corretta la deduzione del primo giudice secondo la quale
non la legittimità, ma l’attuabilità del progetto esecutivo
è condizionata all’effettivo perfezionamento del c.d.
raccordo urbanistico, stante il chiaro tenore dell’art. 19
ult. co. (“si intende approvata”), che consente di non
ritenere attuale il risalente orientamento, discendente
dalla antevigente legislazione, secondo il quale è
illegittima l'approvazione del progetto esecutivo di una
ferrovia metropolitana con un tracciato conforme ad una
variante al piano regolatore solo adottata dal comune e non
ancora approvata dalla regione.
La vigente legislazione (art. 12 del TU) non ricollega, a
differenza della precedente, la nozione di atto comportante
la pubblica utilità alla approvazione del progetto
esecutivo, ma la ricollega al progetto definitivo (ex aliis
Cons. Stato Sez. IV, 04.06.2013, n. 3087: “a norma dell'art.
12, D.P.R. n. 327 del 2001 la dichiarazione di pubblica
utilità si intende disposta con l'approvazione o la
definizione, da parte dell'autorità procedente, di
determinati strumenti, ivi elencati. La dichiarazione di
pubblica utilità, pertanto, non richiede una particolare
dichiarazione, con la conseguenza che l'eventuale
dichiarazione della pubblica utilità delle opere al momento
dell'approvazione del progetto esecutivo è un di più, che
non può alterare il quadro legale di riferimento e non è
suscettibile di inficiare la regolarità e la legittimità
della procedura.”).
Ne consegue la non applicabilità del detto risalente
orientamento e la correttezza dell’approdo del primo giudice
che ha ritenuto che, nella fattispecie in esame, potesse, al
più, raffigurarsi una mera irregolarità non viziante e non
già il vizio di illegittimità prospettato.
1. L’appello è nel merito infondato e
va disatteso.
2. Le doglianze articolate dall’appellante verranno
separatamente esaminate.
2.1. La prima censura muove dal consolidato orientamento
della giurisprudenza che ancora di recente configura
l’ordinario fluire della procedura di adozione ed
approvazione dei progetti delle opere pubbliche attraverso
il succedersi di tre fasi della progettazione, scandite da
differenti peculiarità (progettazione preliminare, definita,
ed esecutiva) corrispondenti a differenti livelli di
approfondimento.
Si è detto infatti, ancora di recente che (TAR Marche
Ancona Sez. I, 24.01.2013, n. 70) “ai sensi dell'art. 93 D.Lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti) la progettazione
in materia di lavori pubblici si articola secondo tre
livelli di successivi approfondimenti tecnici, in
preliminare, definitiva ed esecutiva. Il progetto
preliminare definisce le caratteristiche qualitative e
funzionali dei lavori, il quadro delle esigenze da
soddisfare e delle specifiche prestazioni da fornire e
consiste in una relazione illustrativa delle ragioni della
scelta della soluzione prospettata in base alle valutazioni
delle soluzioni possibili. Il progetto definitivo individua
compiutamente i lavori da realizzare, nel rispetto delle
esigenze, dei criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle
indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e contiene
tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle
prescritte autorizzazioni e approvazioni. Il progetto
esecutivo, redatto in conformità al progetto definitivo,
determina in ogni dettaglio i lavori da realizzare e il
relativo costo previsto e deve essere sviluppato ad un
livello di definizione tale da consentire che ogni elemento
sia identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione
e prezzo.”.
Muovendo da tale punto di partenza, sostanzialmente
ricognitivo anche della legislazione previgente,
l’appellante perviene a conclusioni non condivisibili.
Il sillogismo da questi proposto è il seguente:
posto che il comune agiva in dichiarata applicazione
dell’art. 19 del TU Espropriazione –dPR n. 327/2001- esso
adottò il progetto definitivo, con deliberazione consiliare
08.02.2005 n. 4.
L’approvazione di tale deliberazione, giusta previsione di
cui appunto all’art. 19 del TU Espropriazione (“Quando
l'opera da realizzare non risulta conforme alle previsioni
urbanistiche, la variante al piano regolatore può essere
disposta con le forme di cui all'articolo 10, comma 1,
ovvero con le modalità di cui ai commi seguenti.
L'approvazione del progetto preliminare o definitivo da
parte del consiglio comunale costituisce adozione della
variante allo strumento urbanistico. Se l'opera non è di
competenza comunale, l'atto di approvazione del progetto
preliminare o definitivo da parte della autorità competente
è trasmesso al consiglio comunale, che può disporre
l'adozione della corrispondente variante allo strumento
urbanistico. Nei casi previsti dai commi 2 e 3, se la
Regione o l'ente da questa delegato all'approvazione del
piano urbanistico comunale non manifesta il proprio dissenso
entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla
ricezione della delibera del consiglio comunale e della
relativa completa documentazione, si intende approvata la
determinazione del consiglio comunale, che in una successiva
seduta ne dispone l'efficacia”) era differita di novanta
giorni, e dipendeva dalla omessa manifestazione di dissenso
della Regione (dissenso che, come è incontroverso tra le
parti, nella fattispecie in esame non intervenne mai).
Ne consegue quindi che, alla data dell’08.02.2005 (in
cui intervenne la delibera n. 4 di adozione del progetto
definitivo) non poteva aversi un progetto definitivo
“conforme allo strumento urbanistico” e la variante suddetta
non era ancora né approvata, né efficace.
In tale quadro, quindi, ad avviso di parte appellante, posto
che il progetto esecutivo (conforme al definitivo adottato:
anche tale circostanza è incontestata) è stato parimenti
adottato alla data dell’08.02.2005, esso si sarebbe
conformato ad un definitivo non (ancora) conforme allo
strumento urbanistico: ciò concreterebbe irrimediabile
illegittimità.
2.2. La detta tesi assembla dati normativi diversi, ma muove
da un dato congetturale e non trova concorde il Collegio.
2.2.1. Il progetto esecutivo deve essere conforme al
definitivo e redatto nel pieno rispetto di quest’ultimo: su
tale dato (art. 35, comma 1, del dPr n. 554/1999: “il progetto
esecutivo costituisce la ingegnerizzazione di tutte le
lavorazioni e, pertanto, definisce compiutamente ed in ogni
particolare architettonico, strutturale ed impiantistico
l'intervento da realizzare. Restano esclusi soltanto i piani
operativi di cantiere, i piani di approvvigionamenti, nonché
i calcoli e i grafici relativi alle opere provvisionali. Il
progetto è redatto nel pieno rispetto del progetto
definitivo nonché delle prescrizioni dettate in sede di
rilascio della concessione edilizia o di accertamento di
conformità urbanistica, o di conferenza di servizi o di
pronuncia di compatibilità ambientale ovvero il
provvedimento di esclusione delle procedure, ove previsti.”)
non è dato controvertere.
Ma nel caso in esame non v’è dubbio che tale pieno rispetto
vi fosse.
Nessuna norma, invece, esprime la necessità che il progetto
esecutivo debba essere conforme ad un progetto definitivo
“approvato ed efficace”.
Sebbene non possa ignorare il Collegio che tale evenienza
debba costituire la normalità nella stragrande maggioranza
dei casi (discendendo dalla sequenzialità cronologica
imposta dalla legge), nulla vieta che, nel rispetto di detta
sequenza (nel caso di specie non obliata, posto che
l’adozione del progetto esecutivo seguì, seppur di poche
ore, l’adozione del definitivo), l’Amministrazione, per le
evenienze più disparate (nel caso di specie per la lodevole
esigenza di non perdere lo stanziamento dei contributi
decisi a proprio favore), si assuma il rischio di approvare,
coevamente all’adozione del progetto definitivo, il progetto
esecutivo al primo conforme.
E’ ovvio che di “rischio” si tratta, perché, nell’ipotesi in
cui ex art. 19 ult. co. la Regione o l'ente da questa delegato
all'approvazione del piano urbanistico comunale manifesti il
proprio dissenso entro il termine di novanta giorni,
decorrente dalla ricezione della delibera del consiglio
comunale e della relativa completa documentazione, la
delibera di adozione del progetto esecutivo “cade” in quanto
quest’ultima rimane senza oggetto, posto che “cade” anche
quella di adozione del progetto definitivo, non essendosi
concluso l’iter approvativo del medesimo.
Ma, nella ipotesi in cui tale evenienza non si verifichi (e,
lo si ripete, nel caso de quo ciò non avvenne certamente),
nessuna disposizione di legge sanziona con la illegittimità
tale “anticipata” (rispetto all’approvazione del definitivo)
approvazione del progetto esecutivo.
Ed è sintomatico rilevare, peraltro, che in concreto
l’appellante di nulla si duole se non dell’omesso rispetto
di tale “ordine”, non deducendo infatti che da tale
“anticipazione” sia discesa alcuna lesione sostanziale alla
propria sfera giuridica.
Ma se così è, in assenza di un dato formale univoco che
sanzioni detta “anticipazione” dell’approvazione del
progetto esecutivo e nell’assenza di alcun vulnus
sostanziale alla posizione di parte appellante, la censura
si risolve nella constatazione che al momento
dell’approvazione del progetto esecutivo il progetto
definitivo era soltanto adottato e quindi l’opera pubblica
non era “conforme allo strumento urbanistico”.
Ma la conformità sopravvenne con l’omesso dissenso della
Regione nei termini di legge, ed è corretta la deduzione del
primo giudice secondo la quale non la legittimità, ma
l’attuabilità del progetto esecutivo è condizionata
all’effettivo perfezionamento del c.d. raccordo urbanistico,
stante il chiaro tenore dell’art. 19 ult. co. (“si intende
approvata”), che consente di non ritenere attuale il
risalente orientamento, discendente dalla antevigente
legislazione, secondo il quale (TAR Lazio Sez. II,
27.06.1988, n. 907) è illegittima l'approvazione del
progetto esecutivo di una ferrovia metropolitana con un
tracciato conforme ad una variante al piano regolatore solo
adottata dal comune e non ancora approvata dalla regione.
La vigente legislazione (art. 12 del TU) non ricollega, a
differenza della precedente, la nozione di atto comportante
la pubblica utilità alla approvazione del progetto
esecutivo, ma la ricollega al progetto definitivo (ex aliis
Cons. Stato Sez. IV, 04.06.2013, n. 3087: “a norma dell'art.
12, D.P.R. n. 327 del 2001 la dichiarazione di pubblica
utilità si intende disposta con l'approvazione o la
definizione, da parte dell'autorità procedente, di
determinati strumenti, ivi elencati. La dichiarazione di
pubblica utilità, pertanto, non richiede una particolare
dichiarazione, con la conseguenza che l'eventuale
dichiarazione della pubblica utilità delle opere al momento
dell'approvazione del progetto esecutivo è un di più, che
non può alterare il quadro legale di riferimento e non è
suscettibile di inficiare la regolarità e la legittimità
della procedura.”); ne consegue la non applicabilità del
detto risalente orientamento e la correttezza dell’approdo
del primo giudice che ha ritenuto che, nella fattispecie in
esame, potesse, al più, raffigurarsi una mera irregolarità
non viziante e non già il vizio di illegittimità prospettato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.06.2014 n. 3116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Nel caso in esame, il
progetto preliminare non ha alcuna valenza di variante
urbanistica; legittimamente, quindi, è stato approvato dalla
Giunta e non da Consiglio.
Quanto invece alla
questione dell’approvazione del progetto preliminare,
l’appellante ha censurato che esso fosse stato approvato
dalla Giunta e non in sede consiliare.
Ciò secondo la consolidata giurisprudenza per cui (Cons.
Stato Sez. VI, 27.07.2010, n. 4890) “ai sensi dell'art. 42,
comma 2, lett. b), d.lgs. n. 267/2000 la Giunta municipale
ha competenza generale e residuale, e quindi le appartiene
il potere di approvazione del progetto preliminare di
un'opera pubblica, salvo che questo comporti una variante
allo strumento urbanistico, nel qual caso la competenza
appartiene al Consiglio.” (si veda anche TAR Toscana
Firenze Sez. I, 20.07.2011, n. 1258: ”in riferimento al Comune, l'approvazione di un progetto
preliminare di opera pubblica appartiene alla competenza
generale residuale della Giunta municipale, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 42 e 48 d.lgs. 267 del 2000,
salvo che l'approvazione del progetto comporti una variante
allo strumento urbanistico, nel qual caso la competenza
appartiene al Consiglio.”).
Sennonché, interrogandosi sulla fondatezza della detta
censura, il Tar ha espresso il convincimento secondo cui
“nel caso in esame, il progetto preliminare non aveva alcuna
valenza di variante; legittimamente quindi è stato approvato
dalla Giunta. Quest’ultima, peraltro, non ha errato nella
qualificazione dell’area come destinata a sport, dal momento
che la destinazione S3 non concretava un vincolo
espropriativo, ma conformativo, come argomentato dal
Collegio nella sentenza parallela emessa sul ricorso n.
281/2005.”.
E che la (ormai regiudicata) sentenza richiamata n.
7131/2010 resa proprio sul suindicato ricorso n. 281/2005,
al capo 24, ciò avesse stabilito è dato sul quale non è
possibile controvertere: così infatti recita il punto 24
della citata decisione “l’art. 33.3 n.t.a. prevedeva tale
modalità attuativa per ogni tipo di standard residenziale (SR),
comprendente attrezzature per l’istruzione inferiore (SR1),
attrezzature di interesse comune (SR2), spazi pubblici a
parco, per il gioco e lo sport (SR3) e parcheggi pubblici
(SR4); il che basta ad escludere l’inedificabilità assoluta
delle aree, la natura espropriativa del vincolo e la sua
decadenza.”.
La sentenza pertanto non contiene alcuna contraddizione
interna
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.06.2014 n. 3116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il potere di sospensione dei lavori edili in
corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27, comma
3, d.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo
cautelare, in quanto destinato ad evitare che la
prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno
urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere
segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la
caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei
provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45
giorni , ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun
provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in
questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di
emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di
quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera
giuridica del destinatario con conseguente assorbimento
dell'ordine di sospensione dei lavori.
Il disposto di cui all’art. 27 del dPR n. 380/2001 così prevede (si veda soprattutto il comma
III): “Il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità
stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la
vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio
comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge
e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli
abilitativi. Il dirigente o il responsabile, quando accerti
l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su
aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre
norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici
ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di
cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree
assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla
legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al
decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente
provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei
luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti
le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della
demolizione, anche di propria iniziativa. Per le opere
abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento
nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o
dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi
degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, o
su beni di interesse archeologico, nonché per le opere
abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni
del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, il
Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o
delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il
termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito,
procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità
operative di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della
legge 23.12.1996, n. 662. Ferma rimanendo l'ipotesi
prevista dal precedente comma 2, qualora sia constatata, dai
competenti uffici comunali d'ufficio o su denuncia dei
cittadini, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e
modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile
dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione dei lavori, che
ha effetto fino all'adozione dei provvedimenti definitivi di
cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro
quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei lavori.
Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il
dirigente o il responsabile dell’ufficio, su ordinanza del
sindaco, può procedere al sequestro del cantiere. Gli
ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi
in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il
permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto
cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta
violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata
comunicazione all'autorità giudiziaria, al competente organo
regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il
quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere
e dispone gli atti conseguenti.”.
La costante giurisprudenza amministrativa di merito ha
sempre interpretato in termini categorici detta
disposizione, pervenendo al convincimento per cui (ex aliis,
cfr. TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 27.07.2012, n. 840)
“il potere di sospensione dei lavori edili in corso,
attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare,
in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei
lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla
descritta natura interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica
della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti
definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni , ove l'Amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre,
nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio,
è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la
lesione della sfera giuridica del destinatario con
conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei
lavori.”.
Il Tar ha fatto buongoverno del detto principio, e del
relativo corollario secondo cui deve essere dichiarato
improcedibile il mezzo proposto allorché, anche per
sopravvenute circostanza di fatto o di diritto (tra le quali
rientra, ovviamente, il decorso del tempo che priva di
efficacia, e quindi di portata lesiva un provvedimento di
natura interinale o cautelare), l’impugnante non possa
ricavare alcun vantaggio dall’accoglimento dell’impugnazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.06.2014 n. 3115 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il reato di lottizzazione abusiva è integrato non
solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da
qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il
pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da
quella programmata -fattispecie di lavori interni di
redistribuzione degli spazi, finalizzati alla trasformazione
in appartamenti di un complesso immobiliare con precedente
destinazione d'uso alberghiera.
La condotta materiale sottesa alla integrazione della
fattispecie illecita riposa nella erezione di opere (c.d.
lottizzazione materiale) ovvero nella intrapresa di
iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione negoziale)
che comportano una trasformazione urbanistica od edilizia
dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
Nell’ipotesi di lottizzazione c.d. “materiale”, si è
a più riprese evidenziato che la fattispecie integra
qualcosa di diverso, seppur collegato, rispetto alle singole
opere realizzate, costituendo un quid pluris (anche,
ovviamente, in termini di maggiore gravità).
Si rammenta infatti che, la fattispecie di lottizzazione
abusiva disciplinata in passato dall'art. 18 l. n. 47 cit.,
si riferisce alla mancanza dell'autorizzazione specifica
alla lottizzazione, prevista dall'art. 28 della legge
urbanistica 17.08.1942 n. 1150.
Si è posto in luce pertanto che alcun rilievo sanante
sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una
eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di
concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in
presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria. Ciò
in quanto, ove manchi la specifica autorizzazione a
lottizzare, la lottizzazione abusiva sussiste e deve essere
sanzionata anche se, per le singole opere facenti parte di
tale lottizzazione, sia stata rilasciata una concessione
edilizia.
In tal senso si è pronunciata altresì la Corte
Costituzionale nella sentenza n. 148/1994, con cui è stata
chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale
delle norme che escludono la condonabilità, ai fini
penalistici, del reato di lottizzazione abusiva, nel caso in
cui la stessa risulti conforme alle prescrizioni di legge ed
alla strumentazione urbanistica. Sul punto la Corte ha
chiarito al riguardo che: "il rilascio della concessione in
sanatoria opera nell'ambito di uno schema procedimentale,
delineato nell'art. 13 della stessa legge 26.02.1985, n. 47,
con previsione di interventi, adempimenti e termini, che
appaiono specificamente modellati sulla fattispecie della
costruzione priva di concessione. Di qui l'impossibilità di
una mera trasposizione di un siffatto schema procedimentale
all'ipotesi della lottizzazione abusiva, per la quale
occorrerebbero, pertanto, soluzioni normative che mai
potrebbero essere apprestate in questa sede, implicando,
fermo quanto dedotto in ordine alla non comparabilità delle
situazioni, scelte di modi, condizioni e termini che non
spetta alla Corte stabilire".
Pertanto, la constatata autonomia dei procedimenti
sanzionatori in questione induce ad escludere
l'applicabilità della sospensione invocata ex art. 44 della
legge n. 47/1985, posto che la sospensione dei procedimenti
ivi prevista non può che riferirsi alle misure sanzionatorie
relative agli abusi suscettibili di sanatoria e/o di
condono, ove, nel caso di presentazione della relativa
istanza entro i termini, la sospensione del procedimento è
strumentale a preservare l'interesse dell'istante a veder
definito il procedimento instaurato e di evitare che la
messa in esecuzione di un provvedimento di ripristino
vanifichi del tutto il suo interesse legittimo a vedere
definita la domanda di sanatoria.
-----------------
Tuttavia, si rammenta che in seno ad una recente decisione
la Sezione ha avuto modo di rivisitare la fattispecie,
pervenendo ad alcune conclusioni che è opportuno riportare
per esteso, che appaiono traslabili alla fattispecie, ed
alle quali il Collegio si atterrà, non ravvisando alcun
elemento per mutare divisamento.
Ivi infatti, è stato affermato che (si riporta un breve
stralcio motivazionale della sentenza) “al fine di valutare
un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare
necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una
verifica nel suo complesso dell'attività edilizia
realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche
rispetto all'attività assentita idonee a conferire un
diverso assetto al territorio comunale oggetto di
trasformazione.
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i
casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la
programmazione del territorio, deve rilevarsi, ad avviso del
Collegio, che la verifica dell'attività edilizia realizzata
nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo
mutamento della destinazione all'uso del territorio
autoritativamente impressa anche nei casi in cui le
variazioni apportate incidano esclusivamente sulla
destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R.
n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi di
lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente,
a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione (che viene posta di fronte
al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita
adeguamento degli standards. Come già affermato dalla
giurisprudenza di merito il concetto di "opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei
terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera
"funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico
tutelato è costituito dalla necessità di preservare la
potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché
l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto
titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il
Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica
ed edilizia" e non quello di "opera comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di
destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire
sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi
insistono e può altresì comportare nuovi interventi di
urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve
quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è
costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di
preservare la potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del
territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva,
appunto, a garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della
trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle
previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui
si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n.
380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia
che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa
conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le
singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato
rilasciato il permesso di costruire
Tenuto conto della natura del provvedimento impugnato in
primo grado (ordinanza di sospensione per lottizzazione
abusiva) cadono quindi tutte le censure fondate sulla
mancata definizione delle domande di condono dei singoli –e
reiterati- abusi realizzati, in quanto non incidenti sulla riscontrabilità di una condotta lottizzatoria materiale
abusiva.
Deve per ulteriore conseguenza affermarsi che può integrare
un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere
in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio
preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto
ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene
posta di fronte al fatto compiuto), ma anche soltanto un
carico urbanistico che necessita di adeguamento degli
standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei
reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente
considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di
specie.”.
Nella detta pronuncia, si è altresì fatto presente che “La
giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai
stabilmente orientata all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a
quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa
giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di
lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione
d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile,
nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale
consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due
casi: a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato
alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad
immobili residenziali; b) quando la destinazione d'uso
residenziale comporti un incremento degli "standards"
richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars"
aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in
concreto”.
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente
affermato che il problema della configurabilità del reato di
lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso
consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile
già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche
alla stregua della legislazione urbanistica regionale in
materia di classificazione delle categorie funzionali della
destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni
della pianificazione comunale, alle quali deve essere
raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata
trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può
integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento
della destinazione d'uso di un immobile che alteri il
complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso
gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto
alla individuazione di siffatta "alterazione", che
l'organizzazione del territorio comunale si attua con il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le
loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni
singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità
di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche
allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli
standards di zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca
risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato ha
rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della
destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca
all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in
una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare
un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in
insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto
che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione
formale destinata a muoversi tra i possibili usi del
territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione
idonea ad incidere significativamente sulla destinazione
funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da
alterare gli equilibri prefigurati in quella sede" (nella
specie è stato affermato che legittimamente un Comune aveva
respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso di un
complesso immobiliare, relativamente ad uso esclusivamente
residenziale, del tutto incompatibile con la destinazione di
zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza
(ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in
ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la
definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3,
comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori,
anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione
di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente".
La dedotta circostanza che, a particolari condizioni, possa
conseguirsi la sanatoria degli immobili abusivamente
edificati -(principio costantemente affermato dalla Corte
di Cassazione:
“In tema di reati edilizi, l'inapplicabilità della
disciplina sul condono edilizio prevista dall'art. 39 L. 23.12.1994, n. 724 al reato di lottizzazione abusiva
(art. 18 L. 28.02.1985 n. 47), non esclude
l'applicabilità di tale disciplina ai singoli manufatti
abusivamente eseguiti, i quali sono suscettibili di condono
previa valutazione globale dell'attività lottizzatoria
secondo il meccanismo previsto dal combinato disposto degli
articoli 29 e 35, comma tredicesimo, L. 28.02.1985, n.
47.”; e confermato pure dalla giurisprudenza amministrativa
di merito: non inficia la legittimità
dell’ordinanza di sospensione gravata, posto che lo stesso
principio non può precludere all’amministrazione comunale la ravvisabilità di una fattispecie di lottizzazione materiale
abusiva, né l’adozione dei provvedimenti ad essa
consequenziali.”.
---------------
La condivisibile giurisprudenza di legittimità penale
perviene ad affermare che “il reato di lottizzazione
abusiva, a condotta libera, si realizza con varie modalità
mediante operazioni con cui il suolo è abusivamente
utilizzato per la realizzazione di una pluralità
d'insediamenti residenziali e, in particolare:
- in presenza di un intervento sul territorio tale da
comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente
in zona non urbanizzata e non sufficientemente urbanizzata,
per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello
strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la
stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle
caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione;
- ma anche allorquando detto intervento non potrebbe in
nessun caso essere realizzato poiché, per le sue
connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni
di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento
generale di pianificazione che non possono essere modificate
da piani urbanistici attuativi.”
E, può aggiungersi, il Giudice di legittimità ha addirittura
ritenuto che alla luce di tali indirizzi interpretativi
persino “il rilascio di concessioni edilizie (destinate a
creare nuovi insediamenti abitativi in una zona per la quale
PRG subordina l'attività edificatoria all'adozione di piani
di lottizzazione convenzionati) in assenza dei prescritti
strumenti attuativi, richieda, ai fini della legittimità
dell'intervento, la prova rigorosa della preesistenza e
sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da
rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo.”
2. Nel merito, ritiene il Collegio opportuno far precedere
lo specifico scrutinio della controversia da alcune
considerazioni di insieme in ordine alla fattispecie per cui
è causa.
2.1. Si rammenta a tal proposito che l’art. 30 del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, recante “Lottizzazione abusiva” così
dispone, in sostanziale continuità con l’antevigente
previsione di cui all’art. 18 della legge 28.02.1985
n. 47: “Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo
edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino
trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in
violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici,
vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali
o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti che, per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio.
2. Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica sia in forma
privata, aventi ad oggetto trasferimento o costituzione o
scioglimento della comunione di diritti reali relativi a
terreni sono nulli e non possono essere stipulati né
trascritti nei pubblici registri immobiliari ove agli atti
stessi non sia allegato il certificato di destinazione
urbanistica contenente le prescrizioni urbanistiche
riguardanti l'area interessata. Le disposizioni di cui al
presente comma non si applicano quando i terreni
costituiscano pertinenze di edifici censiti nel nuovo
catasto edilizio urbano, purché la superficie complessiva
dell'area di pertinenza medesima sia inferiore a 5.000 metri
quadrati.
3. Il certificato di destinazione urbanistica deve essere
rilasciato dal dirigente o responsabile del competente
ufficio comunale entro il termine perentorio di trenta
giorni dalla presentazione della relativa domanda. Esso
conserva validità per un anno dalla data di rilascio se, per
dichiarazione dell'alienante o di uno dei condividenti, non
siano intervenute modificazioni degli strumenti urbanistici.
4. In caso di mancato rilascio del suddetto certificato nel
termine previsto, esso può essere sostituito da una
dichiarazione dell'alienante o di uno dei condividenti
attestante l'avvenuta presentazione della domanda, nonché la
destinazione urbanistica dei terreni secondo gli strumenti
urbanistici vigenti o adottati, ovvero l'inesistenza di
questi ovvero la prescrizione, da parte dello strumento
urbanistico generale approvato, di strumenti attuativi.
4-bis. Gli atti di cui al comma 2, ai quali non siano stati
allegati certificati di destinazione urbanistica, o che non
contengano la dichiarazione di cui al comma 3, possono
essere confermati o integrati anche da una sola delle parti
o dai suoi aventi causa, mediante atto pubblico o
autenticato, al quale sia allegato un certificato contenente
le prescrizioni urbanistiche riguardanti le aree interessate
al giorno in cui è stato stipulato l'atto da confermare o
contenente la dichiarazione omessa.
5. I frazionamenti catastali dei terreni non possono essere
approvati dall'agenzia del territorio se non è allegata
copia del tipo dal quale risulti, per attestazione degli
uffici comunali, che il tipo medesimo è stato depositato
presso il comune.
[6.]
7. Nel caso in cui il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale accerti l'effettuazione di
lottizzazione di terreni a scopo edificatorio senza la
prescritta autorizzazione, con ordinanza da notificare ai
proprietari delle aree ed agli altri soggetti indicati nel
comma 1 dell'articolo 29, ne dispone la sospensione. Il
provvedimento comporta l'immediata interruzione delle opere
in corso ed il divieto di disporre dei suoli e delle opere
stesse con atti tra vivi, e deve essere trascritto a tal
fine nei registri immobiliari.
8. Trascorsi novanta giorni, ove non intervenga la revoca
del provvedimento di cui al comma 7, le aree lottizzate sono
acquisite di diritto al patrimonio disponibile del comune il
cui dirigente o responsabile del competente ufficio deve
provvedere alla demolizione delle opere. In caso di inerzia
si applicano le disposizioni concernenti i poteri
sostitutivi di cui all'articolo 31, comma 8.
9. Gli atti aventi per oggetto lotti di terreno, per i quali
sia stato emesso il provvedimento previsto dal comma 7, sono
nulli e non possono essere stipulati, né in forma pubblica
né in forma privata, dopo la trascrizione di cui allo stesso
comma e prima della sua eventuale cancellazione o della
sopravvenuta inefficacia del provvedimento del dirigente o
del responsabile del competente ufficio comunale.
10. Le disposizioni di cui sopra si applicano agli atti
stipulati ed ai frazionamenti presentati ai competenti
uffici del catasto dopo il 17.03.1985, e non si applicano
comunque alle divisioni ereditarie, alle donazioni fra
coniugi e fra parenti in linea retta ed ai testamenti,
nonché agli atti costitutivi, modificativi od estintivi di
diritti reali di garanzia e di servitù.”.
V’è concordia in dottrina nel ritenere che la fattispecie
descritta dalla detta disposizione integri il più grave
attentato alle potestà di Governo del territorio previste ed
espressamente normate dall’art. 117 della Costituzione,
incidendo sulla potestà programmatoria urbanistica e,
insieme, sull’assetto del territorio.
La giurisprudenza penale ha costantemente interpretato la
detta fattispecie in termini ampi, e costruendola qual reato
di pericolo: si è detto pertanto che (Cass. pen. Sez. III,
16.07.2013, n. 37383) “il reato di lottizzazione abusiva è
integrato non solo dalla trasformazione effettiva del
territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente
comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non
prevista o diversa da quella programmata -fattispecie di
lavori interni di redistribuzione degli spazi, finalizzati
alla trasformazione in appartamenti di un complesso
immobiliare con precedente destinazione d'uso alberghiera”.
La condotta materiale sottesa alla integrazione della
fattispecie illecita riposa nella erezione di opere (c.d.
lottizzazione materiale) ovvero nella intrapresa di
iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione negoziale) che
comportano una trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
2.1. Nell’ipotesi di lottizzazione c.d. “materiale”, si è a
più riprese evidenziato che la fattispecie integra qualcosa
di diverso, seppur collegato, rispetto alle singole opere
realizzate, costituendo un quid pluris (anche, ovviamente,
in termini di maggiore gravità).
Si rammenta infatti che, la fattispecie di lottizzazione
abusiva disciplinata in passato dall'art. 18 l. n. 47 cit.,
si riferisce alla mancanza dell'autorizzazione specifica
alla lottizzazione, prevista dall'art. 28 della legge
urbanistica 17.08.1942 n. 1150.
Si è posto in luce pertanto che alcun rilievo sanante
sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una
eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di
concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in
presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria. Ciò
in quanto, ove manchi la specifica autorizzazione a
lottizzare, la lottizzazione abusiva sussiste e deve essere
sanzionata anche se, per le singole opere facenti parte di
tale lottizzazione, sia stata rilasciata una concessione
edilizia (cfr. C.d.S. sez. V 26.03.1996 n. 301).
In tal senso
si è pronunciata altresì la Corte Costituzionale nella
sentenza n. 148/1994, con cui è stata chiamata a
pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme
che escludono la condonabilità, ai fini penalistici, del
reato di lottizzazione abusiva, nel caso in cui la stessa
risulti conforme alle prescrizioni di legge ed alla
strumentazione urbanistica. Sul punto la Corte ha chiarito
al riguardo che: "il rilascio della concessione in sanatoria
opera nell'ambito di uno schema procedimentale, delineato
nell'art. 13 della stessa legge 26.02.1985, n. 47, con
previsione di interventi, adempimenti e termini, che
appaiono specificamente modellati sulla fattispecie della
costruzione priva di concessione. Di qui l'impossibilità di
una mera trasposizione di un siffatto schema procedimentale
all'ipotesi della lottizzazione abusiva, per la quale
occorrerebbero, pertanto, soluzioni normative che mai
potrebbero essere apprestate in questa sede, implicando,
fermo quanto dedotto in ordine alla non comparabilità delle
situazioni, scelte di modi, condizioni e termini che non
spetta alla Corte stabilire".
Pertanto, la constatata autonomia dei procedimenti
sanzionatori in questione induce ad escludere
l'applicabilità della sospensione invocata ex art. 44 della
legge n. 47/1985, posto che la sospensione dei procedimenti
ivi prevista non può che riferirsi alle misure sanzionatorie
relative agli abusi suscettibili di sanatoria e/o di
condono, ove, nel caso di presentazione della relativa
istanza entro i termini, la sospensione del procedimento è
strumentale a preservare l'interesse dell'istante a veder
definito il procedimento instaurato e di evitare che la
messa in esecuzione di un provvedimento di ripristino
vanifichi del tutto il suo interesse legittimo a vedere
definita la domanda di sanatoria (cfr in tal senso vd. anche
Cass. Pen. Sez. III, 18.11.1997 n. 3900).
2.2. Ciò precisato, si rammenta che in seno ad una recente
decisione (la n. 3381/2012) la Sezione ha avuto modo di
rivisitare la fattispecie, pervenendo ad alcune conclusioni
che è opportuno riportare per esteso, che appaiono
traslabili alla fattispecie, ed alle quali il Collegio si
atterrà, non ravvisando alcun elemento per mutare
divisamento.
Ivi infatti, è stato affermato che (si riporta un breve
stralcio motivazionale della sentenza) “al fine di valutare
un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare
necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una
verifica nel suo complesso dell'attività edilizia
realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche
rispetto all'attività assentita idonee a conferire un
diverso assetto al territorio comunale oggetto di
trasformazione.
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i
casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la
programmazione del territorio, deve rilevarsi, ad avviso del
Collegio, che la verifica dell'attività edilizia realizzata
nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo
mutamento della destinazione all'uso del territorio
autoritativamente impressa anche nei casi in cui le
variazioni apportate incidano esclusivamente sulla
destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R.
n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi di
lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente,
a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione (che viene posta di fronte
al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita
adeguamento degli standards. Come già affermato dalla
giurisprudenza di merito il concetto di "opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei
terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera
"funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico
tutelato è costituito dalla necessità di preservare la
potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché
l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto
titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il
Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica
ed edilizia" e non quello di "opera comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di
destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire
sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi
insistono e può altresì comportare nuovi interventi di
urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve
quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è
costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di
preservare la potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del
territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva,
appunto, a garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della
trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle
previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui
si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n.
380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia
che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa
conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le
singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato
rilasciato il permesso di costruire
Tenuto conto della natura del provvedimento impugnato in
primo grado (ordinanza di sospensione per lottizzazione
abusiva) cadono quindi tutte le censure fondate sulla
mancata definizione delle domande di condono dei singoli –e
reiterati- abusi realizzati, in quanto non incidenti sulla riscontrabilità di una condotta lottizzatoria materiale
abusiva.
Deve per ulteriore conseguenza affermarsi che può integrare
un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere
in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio
preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto
ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene
posta di fronte al fatto compiuto), ma anche soltanto un
carico urbanistico che necessita di adeguamento degli
standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei
reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente
considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di
specie.”.
Nella detta pronuncia, si è altresì fatto presente che “La
giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai
stabilmente orientata all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a
quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa
giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di
lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione
d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile,
nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale
consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due
casi: a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato
alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad
immobili residenziali; b) quando la destinazione d'uso
residenziale comporti un incremento degli "standards"
richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars"
aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in
concreto” (Cassazione penale, sez. III, 07.03.2008, n.
24096).
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente
affermato che il problema della configurabilità del reato di
lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso
consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile
già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche
alla stregua della legislazione urbanistica regionale in
materia di classificazione delle categorie funzionali della
destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni
della pianificazione comunale, alle quali deve essere
raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata
trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può
integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento
della destinazione d'uso di un immobile che alteri il
complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso
gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto
alla individuazione di siffatta "alterazione", che
l'organizzazione del territorio comunale si attua con il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le
loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni
singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità
di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche
allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli
standards di zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca
risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato (sez. 5^, 03.01.1998, n. 24) ha
rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della
destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca
all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in
una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare
un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in
insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto
che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione
formale destinata a muoversi tra i possibili usi del
territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione
idonea ad incidere significativamente sulla destinazione
funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da
alterare gli equilibri prefigurati in quella sede" (nella
specie è stato affermato che legittimamente un Comune aveva
respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso di un
complesso immobiliare, relativamente ad uso esclusivamente
residenziale, del tutto incompatibile con la destinazione di
zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza
(ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in
ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la
definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3,
comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori,
anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione
di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente".
La dedotta circostanza che, a particolari condizioni, possa
conseguirsi la sanatoria degli immobili abusivamente
edificati -(principio costantemente affermato dalla Corte
di Cassazione:
“In tema di reati edilizi, l'inapplicabilità della
disciplina sul condono edilizio prevista dall'art. 39 L. 23.12.1994, n. 724 al reato di lottizzazione abusiva
(art. 18 L. 28.02.1985 n. 47), non esclude
l'applicabilità di tale disciplina ai singoli manufatti
abusivamente eseguiti, i quali sono suscettibili di condono
previa valutazione globale dell'attività lottizzatoria
secondo il meccanismo previsto dal combinato disposto degli
articoli 29 e 35, comma tredicesimo, L. 28.02.1985, n.
47.”- Cassazione penale, sez. III, 21.11.2007, n.
9982; e confermato pure dalla giurisprudenza amministrativa
di merito: si veda TAR Campania Napoli, sez. II, 27.08.2010, n. 17263)- non inficia la legittimità
dell’ordinanza di sospensione gravata, posto che lo stesso
principio non può precludere all’amministrazione comunale la ravvisabilità di una fattispecie di lottizzazione materiale
abusiva, né l’adozione dei provvedimenti ad essa
consequenziali.”.
Sin qui la sentenza n. 3381/2012 richiamata.
3. Quanto alle ulteriori
censure secondo cui lottizzazione urbanistica potrebbe
esservi soltanto allorché “si crei una nuova maglia di
tessuto urbano” (ultimo cpv della pag. 13 dell’appello e pag
14 del mezzo), oltre alle considerazioni richiamate in
premessa in punto di aumento del carico urbanistico, etc.
(considerazioni che, ad avviso del Collegio, sarebbero già
sufficienti alla reiezione della doglianza), si deve
richiamare l’opposto convincimento della giurisprudenza.
La tesi dell’appellante avrebbe la conseguenza di produrre,
ove accolta, una interpretatio abrogans della norma che
reprime la lottizzazione, “riservandone” l’applicabilità a
fattispecie macroscopiche difficilmente riscontrabili: in
contrario senso da quanto sostenutosi, è appena il caso di
richiamare che la condivisibile giurisprudenza di
legittimità penale perviene a conclusioni del tutto diverse,
spingendosi invece ad affermare che (Cass. pen. Sez. III,
Sent., 13.06.2011, n. 23646) “il reato di lottizzazione
abusiva, a condotta libera, si realizza con varie modalità
mediante operazioni con cui il suolo è abusivamente
utilizzato per la realizzazione di una pluralità
d'insediamenti residenziali e, in particolare:
- in presenza
di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova
definizione dell'assetto preesistente in zona non
urbanizzata e non sufficientemente urbanizzata, per cui
esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento
urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di
una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche
dell'intervento di nuova realizzazione;
- ma anche allorquando detto intervento non potrebbe in
nessun caso essere realizzato poiché, per le sue
connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni
di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento
generale di pianificazione che non possono essere modificate
da piani urbanistici attuativi (Cfr. Cassazione SU
28.11.2001, Salvini; Sezione 3, 11.05.2005, Stiffi; Sezione
3, 29.01.2001, Matarrese; Sezione 3, 30.12.1996 n. 11249,
Urtis).”
E, può aggiungersi, il Giudice di legittimità ha addirittura
ritenuto che alla luce di tali indirizzi interpretativi
persino “il rilascio di concessioni edilizie (destinate a
creare nuovi insediamenti abitativi in una zona per la quale PRG subordina l'attività edificatoria all'adozione di piani
di lottizzazione convenzionati) in assenza dei prescritti
strumenti attuativi, richieda, ai fini della legittimità
dell'intervento, la prova rigorosa della preesistenza e
sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da
rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo.” (Cass. pen. Sez. III, Sent., 13.06.2011, n. 23646 cit.).
4. Quanto infine all’ultima parte dell’appello (che
comunque, anche in ipotesi di accoglimento non avrebbe
potuto implicare l’annullamento degli atti gravati), la tesi
di parte appellante collide con il dato storico relativo
alla pluralità di frazionamenti intervenuti: ciò giustifica
pienamente l’applicazione alla fattispecie del consolidato
approdo della Sezione, secondo il quale (Cons. Stato Sez. IV, 22.08.2013, n. 4254) “la fattispecie della lottizzazione
cartolare o negoziale prescinde dalla prova di qualsiasi
intento di lottizzare abusivamente, rilevando obiettivamente
i soli fatti del frazionamento e della vendita in lotti di
un'area, quando essi per dimensioni, per natura del terreno
e per numero evidenzino la loro destinazione a scopo
edificatorio. In tal senso, l'intento edificatorio
perseguito dagli ex comunisti, da attuarsi mediante il
frazionamento dell'originario cespite avente destinazione
agricola, può legittimamente desumersi dal complesso degli
atti di frazionamento e di disposizione dei lotti risultanti
dalla divisione in favore di società esercente attività
edilizia, stipulati sul dichiarato presupposto della
destinazione edilizia delle aree”).
4.1. La condotta posta in essere ex post concorre
nell’inquadrare la fattispecie realizzate anche sub species
lottizzazione cartolare e, pertanto, anche tale
articolazione del mezzo va respinta (si veda, ancora di
recente, la condivisibile ricostruzione di cui alla
decisione della Quinta Sezione di questo Consiglio di Stato
n. 2711 del 27.05.2014 ove ben si illustra la particolare
gravità di tutte le fattispecie di lottizzazione e si
ribadisce che trattasi di fattispecie insuscettibile di
condono) .
4.2. Posto che i motivi di appello null’altro deducono, che
nessuna violazione infraprocedimentale venne perpetrata
dall’Amministrazione (ed in ogni caso l’appellante venne
resa sempre in condizione di contraddire alle iniziative
intraprese dall’amministrazione) e che nessuna ulteriore
alternativa spiegazione plausibile è stata fornita delle
riscontrate difformità in sede esecutiva, l’appello va
disatteso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.06.2014 n. 3115 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Anche se in passato vi è stato un orientamento
restrittivo, per il quale chi ricorre contro l’atto che
localizza un’opera pubblica –pur essendo titolare di un bene
posto nelle vicinanze- avrebbe l’onere di provare
l’effettivo danno che riceverebbe, la più recente e
condivisibile giurisprudenza ha evidenziato che –sulla base
del criterio della vicinitas- sussiste la legittimazione ad
agire dei singoli non solo per la tutela della integrità
dell’ambiente, ma anche per evitare che nei pressi del loro
bene vi siano illegittime modifiche dello stato dei luoghi e
conseguente degrado urbanistico.
Il medesimo criterio della vicinitas, dunque, consente di
individuare non solo chi sia legittimato a impugnare i
titoli abilitativi edilizi (così come da tempo precisato
dalla giurisprudenza ai sensi dell'art. 10 della l. n. 765
del 1967), ma anche ogni altro provvedimento che comporti la
realizzazione di un’opera pubblica.
Ritiene la Sezione che risultano fondate le
deduzioni delle appellanti, sulla ammissibilità del ricorso
di primo grado.
Anche se in passato vi è stato un orientamento restrittivo,
per il quale chi ricorre contro l’atto che localizza
un’opera pubblica –pur essendo titolare di un bene posto
nelle vicinanze- avrebbe l’onere di provare l’effettivo
danno che riceverebbe (cfr. Cons. St., Sez. V, 20.05.2002 n. 2714 e 31.01.2001 n. 358; VI sez. 18.07.1995 n. 745), la più recente e condivisibile giurisprudenza
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3849,
sez. IV, 02.10.2006, n. 5760) ha evidenziato che –sulla
base del criterio della vicinitas- sussiste la
legittimazione ad agire dei singoli non solo per la tutela
della integrità dell’ambiente, ma anche per evitare che nei
pressi del loro bene vi siano illegittime modifiche dello
stato dei luoghi e conseguente degrado urbanistico.
Il medesimo criterio della vicinitas, dunque, consente di
individuare non solo chi sia legittimato a impugnare i
titoli abilitativi edilizi (così come da tempo precisato
dalla giurisprudenza ai sensi dell'art. 10 della l. n. 765
del 1967), ma anche ogni altro provvedimento che comporti la
realizzazione di un’opera pubblica.
Pertanto, non rileva sotto tale aspetto nel presene giudizio
verificare la natura delle opere da realizzare sulla base
della impugnata concessione, se cioè esse abbiano natura
pubblica o privata
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2014 n. 3096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Secondo giurisprudenza
consolidata, la concessione edilizia (come il permesso di
costruire ed ogni altro atto della P.A. destinato ad
incidere sulla proprietà privata) costituisce un
provvedimento autoritativo, che può essere rilasciato solo
se il progetto risulta conforme alla normativa urbanistica
ed edilizia della zona interessata.
A tal fine il Comune deve articolare l'istruttoria
verificando l'esistenza dei presupposti richiesti dall'art.
4 della l. n. 10/1977, all’epoca vigente, secondo il quale
"La concessione è data dal sindaco al proprietario dell'area
o a chi abbia titolo per richiederla".
Da una corretta interpretazione della norma, si evince che
la P.A. deve rilasciare il permesso di costruire solo a chi
dimostri di possedere un titolo idoneo di godimento
sull'area da assoggettare alla trasformazione urbanistica
(perché la legge intende evitare che il titolo abilitativo
rilasciato dal Comune leda indebitamente posizioni
soggettive tutelate dal diritto civile).
Tuttavia, al di là di tale onere di accertamento, non
incombe in capo alla PA l'ulteriore onere di effettuare
complesse indagini e ricognizioni giuridico documentali sul
titolo di proprietà depositato dal richiedente.
Tranne il caso in cui al Comune sia tempestivamente
rappresentata la sussistenza di circostanze particolari,
meritevoli di essere prese in considerazione, il Comune deve
limitarsi ad accertare la sussistenza del titolo della
proprietà: la giurisprudenza maggioritaria è infatti
concorde nell'affermare che "ai fini del rilascio del
permesso di costruire l'amministrazione è onerata del solo
accertamento della sussistenza del titolo astrattamente
idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell'area
oggetto dell'intervento edilizio: cioè l'astratta proprietà
desunta dagli atti pubblici prodotti ed in via residuale
dalle risultanze catastali", anche perché essa è di norma
rilasciata con la clausola “fatti salvi i diritti dei
terzi”.
Invero, secondo
giurisprudenza consolidata, la concessione edilizia (come il
permesso di costruire ed ogni altro atto della P.A.
destinato ad incidere sulla proprietà privata) costituisce
un provvedimento autoritativo, che può essere rilasciato
solo se il progetto risulta conforme alla normativa
urbanistica ed edilizia della zona interessata.
A tal fine il Comune deve articolare l'istruttoria
verificando l'esistenza dei presupposti richiesti dall'art.
4 della l. n. 10/1977, all’epoca vigente, secondo il quale
"La concessione è data dal sindaco al proprietario dell'area
o a chi abbia titolo per richiederla".
Da una corretta interpretazione della norma, si evince che
la P.A. deve rilasciare il permesso di costruire solo a chi
dimostri di possedere un titolo idoneo di godimento
sull'area da assoggettare alla trasformazione urbanistica
(perché la legge intende evitare che il titolo abilitativo
rilasciato dal Comune leda indebitamente posizioni
soggettive tutelate dal diritto civile).
Tuttavia, al di là di tale onere di accertamento, non
incombe in capo alla PA l'ulteriore onere di effettuare
complesse indagini e ricognizioni giuridico documentali sul
titolo di proprietà depositato dal richiedente.
Tranne il caso in cui al Comune sia tempestivamente
rappresentata la sussistenza di circostanze particolari,
meritevoli di essere prese in considerazione, il Comune deve
limitarsi ad accertare la sussistenza del titolo della
proprietà: la giurisprudenza maggioritaria è infatti
concorde nell'affermare che "ai fini del rilascio del
permesso di costruire l'amministrazione è onerata del solo
accertamento della sussistenza del titolo astrattamente
idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell'area
oggetto dell'intervento edilizio: cioè l'astratta proprietà
desunta dagli atti pubblici prodotti ed in via residuale
dalle risultanze catastali" (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV
04.04.2012 n. 1990), anche perché essa è di norma
rilasciata con la clausola “fatti salvi i diritti dei terzi”
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2014 n. 3096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Le varianti in senso proprio sono, invero, quelle che si
riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di
limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al
progetto originario e si distinguono da quelle che, pur
chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali
non possono essere considerate perché richiedono la
realizzazione di un “quid novi” (da valutarsi con
riferimento alle evidenze progettuali quali la superficie
coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria,
le distanze dalle proprietà vicine, nonché le
caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato
complessivamente inteso): in questa seconda categoria vanno
ricondotte le varianti così dette improprie o essenziali,
che si configurano come nuove concessioni, che in quanto
tali sono provvedimenti autoritativi autonomamente lesive,
suscettibili di autonoma e specifica impugnativa
giurisdizionale.
Secondo un univoco indirizzo giurisprudenziale il rilascio
di una variante ‘non essenziale’ non è idonea a riaprire i
termini per impugnare la concessione originaria, mentre lo è quella ‘essenziale’, che consente la
realizzazione di un “quid novi” e, quindi, va qualificata
come ‘nuova’ concessione.
Ovviamente il rilascio della variante alla concessione
edilizia originaria non è idonea a determinare la riapertura
del termine per la impugnazione della concessione edilizia
originaria
allorché i vizi dedotti siano ascrivibili alla concessione
originaria.
Osserva in proposito la Sezione che il
TAR, pur avendo ritenuto tardiva la impugnazione della
concessione edilizia n. 45/1998 del 20.04.1998, ha condivisibilmente valutato tempestiva l’azione
giurisdizionale rispetto al rilascio delle successive
concessioni edilizie, rispettivamente in sanatoria n. 136
dell’11.12.2001 (per lavori eseguiti in difformità a
detta concessione) e in variante in corso d’opera n. 137
dell’11.12.2001, rispetto alle precedenti.
Le varianti in senso proprio sono, invero, quelle che si
riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di
limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al
progetto originario e si distinguono da quelle che, pur
chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali
non possono essere considerate perché richiedono la
realizzazione di un “quid novi” (da valutarsi con
riferimento alle evidenze progettuali quali la superficie
coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria,
le distanze dalle proprietà vicine, nonché le
caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato
complessivamente inteso): in questa seconda categoria vanno
ricondotte le varianti così dette improprie o essenziali,
che si configurano come nuove concessioni, che in quanto
tali sono provvedimenti autoritativi autonomamente lesive,
suscettibili di autonoma e specifica impugnativa
giurisdizionale.
Secondo un univoco indirizzo giurisprudenziale il rilascio
di una variante ‘non essenziale’ non è idonea a riaprire i
termini per impugnare la concessione originaria (Cons. St.,
sez. V, 24.09.2003, n. 5452, e 27.04.2006, n.
2363), mentre lo è quella ‘essenziale’, che consente la
realizzazione di un “quid novi” e, quindi, va qualificata
come ‘nuova’ concessione (Cons. St., sez. V, 07.07.1987,
n. 463).
Ovviamente il rilascio della variante alla concessione
edilizia originaria non è idonea a determinare la riapertura
del termine per la impugnazione della concessione edilizia
originaria (Cons. St., sez. V, 02.04.2001, n. 1898) allorché
i vizi dedotti siano ascrivibili alla concessione originaria
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2014 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In materia edilizia la
mera “vicinitas”, ossia l'esistenza di uno stabile
collegamento con il terreno interessato dall'intervento
edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia
della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza
che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di
subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività
edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo: è sufficiente
che il ricorrente lamenti l’illegittimità del provvedimento
che comporta una modifica contra ius dello stato dei luoghi,
non rilevando l’eventuale conseguenza secondo cui la regula
iuris affermata dal giudice amministrativo potrebbe far
dedurre l’illegittimità della realizzazione di una
costruzione già realizzata dal ricorrente, ovvero
l’impossibilità per questi di considerare edificabile un
proprio fondo.
Osserva in proposito la
Sezione che, secondo una consolidata giurisprudenza che va
condivisa, in materia edilizia la mera “vicinitas”, ossia
l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno
interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a
comprovare la sussistenza sia della legittimazione che
dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al
ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico
pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria
intrapresa sul suolo limitrofo (Consiglio di Stato, sez. IV,
18.12.2013, n. 6082): è sufficiente che il ricorrente
lamenti l’illegittimità del provvedimento che comporta una
modifica contra ius dello stato dei luoghi, non rilevando
l’eventuale conseguenza secondo cui la regula iuris
affermata dal giudice amministrativo potrebbe far dedurre
l’illegittimità della realizzazione di una costruzione già
realizzata dal ricorrente, ovvero l’impossibilità per questi
di considerare edificabile un proprio fondo (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2014 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'asservimento dà luogo ad
un rapporto pertinenziale che ha natura permanente,
indipendentemente da quando esso si è verificato, a nulla valendo
che, all’epoca di realizzazione del manufatto preesistente,
non sussistesse ancora alcuna pianificazione urbanistica,
ovvero un atto di volontà espresso o tacito che avesse posto
a disposizione della costruzione di esso una zona di
territorio.
La quantità di asservimento del terreno rimasto libero va
infatti calcolata sulla base degli indici vigenti al momento
del rilascio dell’ulteriore titolo edilizio, perché i limiti
entro i quali un'area può essere edificata si riferiscono
non all'edificazione ulteriore rispetto a quella esistente
al momento dell'approvazione, ma all'edificazione
complessivamente realizzabile sull'area; se così non fosse,
si verificherebbe l'effetto perverso di consentire
l'edificabilità di aree già impegnate da preesistenze, in
contrasto con gli indici del piano urbanistico in vigore.
Quindi l'asservimento di un fondo, in caso di edificazione,
costituisce una qualità oggettiva dello stesso, che continua
a seguirlo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi
titolo posti in essere in epoca successiva ed il vincolo creato dall'asservimento per sua natura
permane sul fondo ‘servente’ (nel senso che per il calcolo
della sua edificabilità vanno computati i volumi comunque
esistenti) a tempo indeterminato, pena la completa
vanificazione delle previsioni urbanistiche (che ad un tempo
complessivamente rilevano i volumi preesistenti e delimitano
quelli che ad essi si possono aggiungere).
Quanto alla rilevanza della unicità o meno della proprietà
del fondo su cui preesiste il manufatto, va osservato che,
anche quando un'area edificabile venga successivamente
frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria
disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera
area permane invariata, con la conseguenza che, nell'ipotesi
in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la
volumetria che eventualmente residua tenuto conto
dell'originaria costruzione.
Pertanto, sia la vendita di una parte dell'originario unico
fondo, così come il frazionamento di esso da parte
dell'originario unico proprietario e la mancanza di
specifici negozi giuridici privati diretti all'asservimento
(o alla cessione di cubatura), sono irrilevanti ai fini
dell'edificabilità delle aree libere, che –pur in assenza
di titoli formali- devono comunque intendersi asservite
alle costruzioni già realizzate ed a quelle assentite al
momento del frazionamento, e cioè risultano edificabili solo
entro l’eventuale surplus che deriva dal computo delle
preesistenti volumetrie comunque realizzate.
Pertanto, nel caso di realizzazione di un manufatto edilizio
la cui volumetria va calcolata sulla base anche di un'area
‘asservita’, ai fini edificatori deve essere considerata
l'intera estensione interessata (nella specie il comparto
edificatorio unitariamente considerato), con l'effetto che
l'area asservita non è più edificabile anche se è stata
oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle
aree su cui insistono i manufatti.
In definitiva, gli effetti derivanti dalla conformazione
urbanistica (poiché i criteri legali di computo della
volumetria, integrano una qualità oggettiva del terreno)
hanno carattere definitivo ed irrevocabile ed evidenziano la
già avvenuta utilizzazione delle potenzialità edificatorie
dell'area asservita, con permanente dovere di tener conto di
tale computo da parte di chiunque ne sia il proprietario.
Osserva in proposito il
Collegio che il primo giudice ha rilevato che il fabbricato
di 450 mc. circa, di cui il signor De Monaco è
comproprietario (da lungo tempo insistente sull’area di cui
la attuale appellante è proprietaria, di 14.767 mq.), non è
stato considerato nel computo della volumetria utilizzabile,
in base alla densità edilizia applicabile all’area ai sensi
della normativa urbanistica vigente, ed ha ritenuto
ininfluente l’epoca di realizzazione del manufatto,
dovendosi considerare tutta la volumetria già realizzata sul
lotto, a nulla valendo le vicende private connesse alla
disponibilità dell’area interessata, stante la irrilevanza
della vendita di parte del fondo su cui il manufatto era
stato realizzato o del frazionamento dello stesso da parte
dell’originario unico proprietario ai fini della
edificabilità delle aree libere, da intendersi comunque
asservite alla preesistente costruzione ivi realizzata.
Tale statuizioni del TAR vanno condivise, in primo luogo
quanto alla irrilevanza dell’epoca di realizzazione del
preesistente manufatto, considerato che l'asservimento dà
luogo ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente,
indipendentemente da quando esso si è verificato (Cons.
Stato, adunanza plenaria 23.04.2009, n. 3; Consiglio di
Stato, sez. V, 26.09.2013, n. 4757), a nulla valendo
che, all’epoca di realizzazione del manufatto preesistente,
non sussistesse ancora alcuna pianificazione urbanistica,
ovvero un atto di volontà espresso o tacito che avesse posto
a disposizione della costruzione di esso una zona di
territorio.
La quantità di asservimento del terreno rimasto libero va
infatti calcolata sulla base degli indici vigenti al momento
del rilascio dell’ulteriore titolo edilizio, perché i limiti
entro i quali un'area può essere edificata si riferiscono
non all'edificazione ulteriore rispetto a quella esistente
al momento dell'approvazione, ma all'edificazione
complessivamente realizzabile sull'area; se così non fosse,
si verificherebbe l'effetto perverso di consentire
l'edificabilità di aree già impegnate da preesistenze, in
contrasto con gli indici del piano urbanistico in vigore.
Quindi l'asservimento di un fondo, in caso di edificazione,
costituisce una qualità oggettiva dello stesso, che continua
a seguirlo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi
titolo posti in essere in epoca successiva (Consiglio Stato,
sez. V, 30.03.1998, n. 387; sez. IV, 06.07.2010, n.
4333) ed il vincolo creato dall'asservimento per sua natura
permane sul fondo ‘servente’ (nel senso che per il
calcolo della sua edificabilità vanno computati i volumi
comunque esistenti) a tempo indeterminato, pena la completa
vanificazione delle previsioni urbanistiche (che ad un tempo
complessivamente rilevano i volumi preesistenti e delimitano
quelli che ad essi si possono aggiungere).
Quanto alla rilevanza della unicità o meno della proprietà
del fondo su cui preesiste il manufatto, va osservato che,
anche quando un'area edificabile venga successivamente
frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria
disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera
area permane invariata, con la conseguenza che, nell'ipotesi
in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la
volumetria che eventualmente residua tenuto conto
dell'originaria costruzione.
Pertanto, sia la vendita di una parte dell'originario unico
fondo, così come il frazionamento di esso da parte
dell'originario unico proprietario e la mancanza di
specifici negozi giuridici privati diretti all'asservimento
(o alla cessione di cubatura), sono irrilevanti ai fini
dell'edificabilità delle aree libere, che –pur in assenza
di titoli formali- devono comunque intendersi asservite
alle costruzioni già realizzate ed a quelle assentite al
momento del frazionamento, e cioè risultano edificabili solo
entro l’eventuale surplus che deriva dal computo delle
preesistenti volumetrie comunque realizzate.
Pertanto, nel caso di realizzazione di un manufatto edilizio
la cui volumetria va calcolata sulla base anche di un'area
‘asservita’, ai fini edificatori deve essere considerata
l'intera estensione interessata (nella specie il comparto
edificatorio unitariamente considerato), con l'effetto che
l'area asservita non è più edificabile anche se è stata
oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle
aree su cui insistono i manufatti (Consiglio di Stato, sez. IV,
06.05.2013, n. 2442).
In definitiva, gli effetti derivanti dalla conformazione
urbanistica (poiché i criteri legali di computo della
volumetria, integrano una qualità oggettiva del terreno)
hanno carattere definitivo ed irrevocabile ed evidenziano la
già avvenuta utilizzazione delle potenzialità edificatorie
dell'area asservita, con permanente dovere di tener conto di
tale computo da parte di chiunque ne sia il proprietario
(Cass. pen., sez. III, 21177/2009)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2014 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Requisiti di configurabilità del reato di omessa
bonifica dei siti inquinati.
Ai fini della configurabilità del reato
di omessa bonifica dei siti inquinati, è necessario il
superamento della concentrazione soglia di rischio (ovvero,
in altri termini, dei livelli di contaminazione delle
matrici ambientali che costituiscono valori al di sopra dei
quali è necessaria la caratterizzazione del sito e l'analisi
di rischio sito specifica) nonché l’adozione del progetto di
bonifica previsto dall'art. 242 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.06.2014 n. 25718 - tratto da
www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva reato progressivo nell'evento.
Il reato di lottizzazione è inquadrabile
nel cd. reato progressivo nell'evento (che è cosa ben
diversa dal ritenere che la lottizzazione rientri nello
schema del reato progressivo) in cui possono concorrere,
nell'unicità della fattispecie incriminatrice, il momento
negoziale, quello programmatorio mediante l‘esecuzione di
opere di urbanizzazione e quello attuativo con la
costruzione degli edifici.
Ed infatti la condotta illegittima, pur nella sua
unitarietà, può essere attuata in forme (il reato è a forma
libera) e momenti diversi e da una pluralità di soggetti, in
concorso fra loro (proprietari, costruttori, geometri,
architetti, mediatori di vendita, notai, esecutori di opere,
ecc.) sicché correttamente si può configurare la figura del
reato progressivo nell’evento lesivo dell’interesse
urbanistico protetto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.06.2014 n. 25182 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Inosservanza delle prescrizioni imposte con
l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera e natura del
reato.
Il reato di cui all'art. 279, comma 2, d.lgs. 152/2006,
relativo all'inosservanza delle prescrizioni imposte con
l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera, è reato
formale e di pericolo che si perfeziona anche mediante
comportamenti incidenti negativamente sul complesso sistema
di autorizzazioni e controlli previsto dalla normativa di
settore, che è comunque funzionale alla tutela
dell'ambiente, la quale è assicurata anche attraverso la
regolamentazione, il contenimento ed il monitoraggio di
attività potenzialmente inquinanti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2014 n. 24334 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque. Attivazione senza autorizzazione di scarico
proveniente da lavanderia.
L'attivazione di uno scarico, proveniente da lavanderia, di
acque reflue qualificabili come industriali in mancanza dei
presupposti per l'assimilabilità a quelle domestiche,
effettuato in assenza della preventiva autorizzazione,
configura la contravvenzione di cui all'art. 137, comma 1,
d.lgs. 152/2006
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
10.06.2014 n. 24330 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Deposito incontrollato e responsabilità
proprietario del fondo.
Non è sufficiente per integrare il reato di abbandono di
rifiuti la consapevolezza, da parte del possessore di un
fondo, del fenomeno di abbandono sul medesimo di rifiuti da
parte di terzi senza che risulti accertato il concorso, a
qualsiasi titolo, del predetto possessore del fondo con gli
autori del fatto (Corte
di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 06.06.2014
n. 23911 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Trasporto illecito e confisca del mezzo.
L'art. 259, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 stabilisce che è
suscettibile di confisca obbligatoria il mezzo utilizzato
per il trasporto abusivo di rifiuti.
Il sequestro preventivo
"delle cose di cui è consentita la confisca" si giustifica
non per la pericolosità intrinseca della cosa, ma per la
funzione generalpreventiva e dissuasiva attribuitale dal
legislatore.
La sopravvenuta autorizzazione al titolare dell'automezzo
adibito al trasporto di rifiuti non esclude la confisca del
mezzo stesso, precedentemente sottoposto a sequestro
preventivo per la mancanza di detta autorizzazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.06.2014 n. 22903
- tratto da
www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Sussiste l’onere
dichiarativo previsto dal combinato disposto degli artt. 86,
comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006 che
impone, per ogni tipo di appalto, la specificazione già in
sede di offerta dei costi di sicurezza aziendali, non
potendosi ritenere a tal fine utile la dichiarazione resa
dalle imprese di gara ai sensi della lettera B, punto 17,
del disciplinare di gara che si limita a richiedere al
concorrente un generico impegno ad aver valutato tutti gli
elementi incidenti sulla propria offerta.
Di tali costi l’ordinamento prevede l’indicazione con norme
immediatamente precettive (cfr. i citati artt. 86, comma
3-bis, del d.lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, del d.lgs. n.
81/2008) e tali da eterointegrare, in virtù del loro
carattere imperativo (in ragione degli interessi di ordine
pubblico che tutelano, in quanto poste a presidio di diritti
fondamentali dei lavoratori), ogni diversa disciplina di
gara.
L’indicazione degli oneri aziendali costituisce pertanto un
elemento essenziale dell’offerta, la cui mancanza rileva
(quale specifica di esclusione) ai sensi dell’art. 46, comma
1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 determina un’insanabile
incompletezza dell’offerta medesima “in quanto rende
l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente
rilevante alla luce della natura costituzionalmente
sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla
stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità
dell’offerta stessa”.
A fronte di tale lacuna, dunque, non può essere attivato
alcun soccorso istruttorio, dal momento che con esso si
determina l’integrazione/modificazione ex post di un
elemento essenziale dell’offerta in violazione del
fondamentale principio della par condicio dei concorrenti.
Il motivo è fondato.
Dagli atti di causa emerge che nel corso della seconda
seduta di gara (del 31.07.2013) la stazione appaltante
dava atto del fatto che l’offerta della ricorrente,
diversamente dalle offerte economiche degli altri
concorrenti, recasse in allegato un “documento nel quale
[erano] indicati i costi relativi alla sicurezza aziendale …
determinati in 120.000,00 per l’intera durata contrattuale”
e ciò nondimeno, rinvenuto il miglior ribasso nell’offerta
prospettata dal RTI capeggiato da Conav, aggiudicava
provvisoriamente l’appalto a quest’ultimo.
Nella successiva seduta del 04.09.2013, dopo aver
ribadito la suddetta circostanza, la stazione appaltante
rilevava che i tre concorrenti avevano prodotto, tra la
documentazione di gara, la dichiarazione richiesta dalla
lettera B, punto 17, del disciplinare di gara secondo la
quale l’impresa aveva tenuto conto, “in sede di preparazione
dell’offerta, degli obblighi in materia di sicurezza, di
condizioni di lavoro, di previdenza e di assistenza a favore
dei lavoratori dipendenti in vigore nel luogo dove deve
essere eseguito il servizio” e che il “Comune al fine di
poter comparare le offerte, [aveva] richiesto ai tre
concorrenti una dichiarazione sui costi della sicurezza
aziendale, con specificazione delle singole voci che
concorrono a formarli” (cfr. verbale della seduta del
04.09.2013).
La stazione appaltante dava poi atto (nella medesima
seduta) che i concorrenti avevano provveduto a trasmettere
la nota richiesta e che “tuttavia CONAV nell’elencazione
delle singole voci non [aveva] tenuto conto della voce
relativa ai costi di primo soccorso relativi a 22 autisti
che svolgeranno il servizio in assenza dell’accompagnatore”
e che ad una successiva richiesta CONAV aveva risposto che
tali costi ammontavano a euro 1.860,00 annui.
Ritiene il Collegio che tale modus operandi abbia
senz’altro violato l’onere dichiarativo previsto dal
combinato disposto degli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma
4, del d.lgs. n. 163 del 2006 che impone, per ogni tipo di
appalto, la specificazione già in sede di offerta dei costi
di sicurezza aziendali, non potendosi ritenere a tal fine
utile la dichiarazione resa dalle imprese di gara ai sensi
della lettera B, punto 17, del disciplinare di gara (sopra
riportata) che si limita a richiedere al concorrente un
generico impegno ad aver valutato tutti gli elementi
incidenti sulla propria offerta.
Di tali costi l’ordinamento prevede l’indicazione con
norme immediatamente precettive (cfr. i citati artt. 86,
comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008) e tali da eterointegrare, in virtù del loro
carattere imperativo (in ragione degli interessi di ordine
pubblico che tutelano, in quanto poste a presidio di diritti
fondamentali dei lavoratori), ogni diversa disciplina di
gara (cfr. in senso conforme Consiglio di Stato, sez. III,
18.10.2013, n. 5070 e sez. III, 03.07.2013, n. 3565).
L’indicazione degli oneri aziendali costituisce
pertanto un elemento essenziale dell’offerta, la cui
mancanza rileva (quale specifica di esclusione) ai sensi
dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 determina
un’insanabile incompletezza dell’offerta medesima “in quanto
rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente
rilevante alla luce della natura costituzionalmente
sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla
stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità
dell’offerta stessa” (così TAR Veneto, sez. I, n. 228 del
17.02.2014; nonché in senso conforme: TAR Lombardia Brescia,
sez. II, 19.02.2013, n. 181; nello stesso senso, tra le più
recenti, TAR Lazio Roma, sez. II-ter, 07.01.2013, n. 66; TAR
Calabria Catanzaro, sez. II, 14.01.2013 n. 56).
A fronte di tale lacuna, dunque, non poteva essere
attivato alcun soccorso istruttorio, dal momento che con
esso si sarebbe determinata, come in effetti è accaduto
nella fattispecie sottoposta a scrutinio,
l’integrazione/modificazione ex post di un elemento
essenziale dell’offerta in violazione del fondamentale
principio della par condicio dei concorrenti
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 03.06.2014 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
titolarità del diritto dominicale dell’opera non costituisce
presupposto giuridico per chiedere prima ed ottenere poi
l’accertamento di conformità dell’immobile abusivamente
realizzato.
Tanto meno il relativo accertamento giudiziale ha carattere
di questione pregiudiziale nel processo amministrativo sul
diniego.
La platea degli aventi diritto, per orientamento
giurisprudenziale consolidato qui condiviso, non è affatto
circoscritta a chi vanti una situazione giuridica
d’appartenenza sull’opus, essendo estesa, oltre al
responsabile dell’abuso, a tutti coloro i quali abbiano un
interesse qualificato alla sanatoria. E che –va rimarcato–
coincide con l’interesse pubblico alla celere
regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio
per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa,
suscettibili di essere riparate, ai sensi dell’art. 36,
comma 2, t.u.ed., mediante il pagamento del contributo di
costruzione in misura doppia da destinarsi all’adeguamento
dell’assetto urbano.
---------------
Non v’è affatto coincidenza soggettiva fra richiedenti il
titolo edilizio, indicati nell’art. 11 t.u.ed. per il
tramite del riferimento al diritto di proprietà
dell’immobile o ad un titolo giuridico equivalente, e quanti
invece presentino la domanda d’accertamento di conformità
dell’opera abusivamente realizzata.
Per individuarli, l’art. 36 t.u.ed. evoca in primo luogo la
figura del responsabile dell’abuso che è categoria
onnicomprensiva enucleabile mediante una relazione di fatto
(non di diritto) con l’immobile: aver concorso a vario
titolo (esemplificamente: committente economico, appaltante
materiale, direttore dei lavori, esecutore dei lavori) alla
realizzazione dell’opera abusiva.
Sicché la controversia sub judice sulla proprietà dell’area
di sedime, non costituisce causa ostativa alla definizione
della domanda di sanatoria, rilasciata con la consueta
formula di stile “salvi i diritti dei terzi” e, per quel che
più rileva sul piano sostanziale, in alcun modo condizionata
dalla res litigiosa civile.
Aggiungasi che colui il quale abbia versato le somme
richieste per sanare gli abusi ha comunque la possibilità di
agire in via di regresso su chi, (in ipotesi) all’esito
della controversia, risulti essere effettivo proprietario,
conseguendo la ripetizione dell’esborso patrimoniale
È fondata la censura che deduce la falsa
applicazione dell’art. 36 d.P.R. 380/2001.
La titolarità del diritto dominicale dell’opera, come
sottolineato in ricorso, non costituisce presupposto
giuridico per chiedere prima ed ottenere poi l’accertamento
di conformità dell’immobile abusivamente realizzato.
Tanto meno il relativo accertamento giudiziale ha carattere
di questione pregiudiziale nel processo amministrativo sul
diniego.
La platea degli aventi diritto, per orientamento
giurisprudenziale consolidato qui condiviso, non è affatto
circoscritta a chi vanti una situazione giuridica
d’appartenenza sull’opus, essendo estesa, oltre al
responsabile dell’abuso, a tutti coloro i quali abbiano un
interesse qualificato alla sanatoria (cfr., Cons. St., sez.
V, 11.06.2013 n. 3220; Id., sez. VI, 27.06.2008 n.
3282).
E che –va rimarcato– coincide con l’interesse pubblico
alla celere regolarizzazione degli immobili insistenti sul
territorio per mettere fine a situazioni di illiceità
amministrativa, suscettibili di essere riparate, ai sensi
dell’art. 36, comma 2, t.u.ed., mediante il pagamento del
contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi
all’adeguamento dell’assetto urbano.
In senso contrario a quanto supposto dal Comune, non v’è
affatto coincidenza soggettiva fra richiedenti il titolo
edilizio, indicati nell’art. 11 t.u.ed. per il tramite del
riferimento al diritto di proprietà dell’immobile o ad un
titolo giuridico equivalente, e quanti invece presentino la
domanda d’accertamento di conformità dell’opera abusivamente
realizzata.
Per individuarli, l’art. 36 t.u.ed. evoca in primo luogo la
figura del responsabile dell’abuso che è categoria
onnicomprensiva enucleabile mediante una relazione di fatto
(non di diritto) con l’immobile: aver concorso a vario
titolo (esemplificamente: committente economico, appaltante
materiale, direttore dei lavori, esecutore dei lavori) alla
realizzazione dell’opera abusiva.
Sicché la controversia sub judice sulla proprietà dell’area
di sedime, non costituisce causa ostativa alla definizione
della domanda di sanatoria, rilasciata con la consueta
formula di stile “salvi i diritti dei terzi” e, per quel che
più rileva sul piano sostanziale, in alcun modo condizionata
dalla res litigiosa civile.
Aggiungasi che colui il quale abbia versato le somme
richieste per sanare gli abusi ha comunque la possibilità di
agire in via di regresso su chi, (in ipotesi) all’esito
della controversia, risulti essere effettivo proprietario,
conseguendo la ripetizione dell’esborso patrimoniale
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 28.05.2014 n. 800 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La particolare sanatoria prevista dall’art. 36
DPR 380/2001 non può essere più richiesta quando sia
definitivamente decorso il termine di novanta giorni
dall’ingiunzione di demolizione e di ripristino dello stato
dei luoghi (nel caso di opere eseguite in assenza di
concessione, in totale difformità e con variazioni
essenziali, art. 7) ovvero quello fissato dal sindaco
nell’ordinanza di demolizione (nel caso di interventi di
ristrutturazione edilizia, art. 9, comma 1, e di opere
eseguite in parziale difformità dalla concessione, art. 12,
comma 1) e, nel caso di opere eseguite senza autorizzazione,
ex art. 10, fino alla irrogazione delle sanzioni
amministrative.
Il legislatore ha in tal modo inteso contemperare i
contrapposti interessi in conflitto, subordinando la
sanatoria dell’abuso edilizio, di natura esclusivamente
formale per la sola mancanza del titolo abilitativo o per la
violazione dello stesso, stante invece la sua doppia
conformità edilizia ed urbanistica (al momento della
realizzazione dell’opera e al momento della domanda), al
mancato definitivo consolidarsi del provvedimento
sanzionatorio di demolizione o di irrogazione della
sanzione, indipendentemente dal fatto che la sanzione sia
stata effettivamente già portata ad esecuzione.
---------------
Per la consolidata giurisprudenza, che il Collegio condivide
e fa propria, è legittimo il doveroso diniego della
concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo
abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto
alla normativa urbanistica vigente al momento della loro
realizzazione quanto a quella vigente al momento della
domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il
legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può
essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente
anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e
risulta del tutto ragionevole il divieto legale di
rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria,
anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una
modifica favorevole dello strumento urbanistico.
Come rilevato da questo Consiglio, tale ragionevolezza
risulta da due fondamentali esigenze, prese in
considerazione dalla legge:
a) evitare che il potere di pianificazione possa essere
strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non
punibile) ciò che risulta illecito (e punibile);
b) disporre una regola senz’altro dissuasiva dell’intenzione
di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce
sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione
dell’abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole
dello strumento urbanistico.
L’articolo 13 della legge 28.02.1985, n.
47 (ora trasfuso nell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n.
380), su cui è stata fondata l’istanza di concessione in
sanatoria dell’abuso edilizio, negata col provvedimento
impugnato in primo grado, stabilisce che il responsabile
dell’abuso possa ottenere la concessione o l’autorizzazione
in sanatoria, quando l’opera eseguita in assenza della
concessione o autorizzazione sia conforme agli strumenti
urbanistici generali e di attuazione approvati e non in
contrasto con quelli adottati sia al momento della
realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione
della domanda, “fino alla scadenza del termine di cui
all’art. 7, terzo comma, per i casi di opere eseguite in
assenza di concessione o in totale difformità o con varianti
essenziali, o dei termini stabiliti nell’ordinanza del
sindaco di cui al primo comma dell’art. 9, nonché, nei casi
di parziale difformità, nel termine di cui al primo comma
dell’art. 12, ovvero nel caso di opere eseguite in assenza
di autorizzazione ai sensi dell’art. 10 o comunque fino alla
irrogazione delle sanzioni”.
La particolare sanatoria prevista dall’articolo in esame non
può pertanto essere più richiesta quando sia definitivamente
decorso il termine di novanta giorni dall’ingiunzione di
demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi (nel caso
di opere eseguite in assenza di concessione, in totale
difformità e con variazioni essenziali, art. 7) ovvero
quello fissato dal sindaco nell’ordinanza di demolizione
(nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia, art.
9, comma 1, e di opere eseguite in parziale difformità dalla
concessione, art. 12, comma 1) e, nel caso di opere eseguite
senza autorizzazione, ex art. 10, fino alla irrogazione
delle sanzioni amministrative.
Il legislatore ha in tal modo inteso contemperare i
contrapposti interessi in conflitto, subordinando la
sanatoria dell’abuso edilizio, di natura esclusivamente
formale per la sola mancanza del titolo abilitativo o per la
violazione dello stesso, stante invece la sua doppia
conformità edilizia ed urbanistica (al momento della
realizzazione dell’opera e al momento della domanda), al
mancato definitivo consolidarsi del provvedimento
sanzionatorio di demolizione o di irrogazione della
sanzione, indipendentemente dal fatto che la sanzione sia
stata effettivamente già portata ad esecuzione (sul rapporto
di consequenzialità tra provvedimento di accertamento
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello
successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e
dell'area di sedime rispetto all'ordine di demolizione delle
opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi e sulla
loro non autonoma impugnabilità in mancanza di tempestiva
impugnazione dell'atto con cui era stata ingiunta la
demolizione, tra le tante Cons. St., sez. V, 10.01.2007, n. 40).
Da ciò deriva la natura perentoria dei termini sopra
indicati.
---------------
Per la consolidata
giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è
legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria
di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse
non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella
vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St.,
Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n.
3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il
legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101)
può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva
del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il
divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso)
in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi
sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico.
Come rilevato da questo Consiglio (Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, cit.), tale ragionevolezza risulta da due
fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge:
a) evitare che il potere di pianificazione possa essere
strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non
punibile) ciò che risulta illecito (e punibile);
b) disporre una regola senz’altro dissuasiva dell’intenzione
di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce
sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione
dell’abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole
dello strumento urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2755 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
L’offerta deve essere valutata nella globalità
dei servizi e delle prestazioni a questi riferibili, non
rilevando (ai fini della verifica della anomalia) che lo
svolgimento di un servizio di non rilevante entità, rispetto
al complesso di quelli offerti, sia offerto sottocosto, in
quanto compensabile con quanto ricavato dallo svolgimento
degli altri servizi.
D’altra parte, ai sensi dell'art. 86, del d.lgs. n. 163 del
2006, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle
ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma
semplicemente un parametro di valutazione della congruità
dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che
l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative
voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia,
potendo essere accertato quando risulti puntualmente e
rigorosamente giustificato.
Con particolare riguardo alla questione del costo del
lavoro, è stato anche affermato che un’offerta non può
essere ritenuta senz'altro anomala e comportante
l'automatica esclusione dalla gara per il solo fatto che il
costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori
inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali,
giacché queste ultime non costituiscono parametri
inderogabili, ma solo indici del giudizio di congruità; così
che -ai fini del giudizio di anomalia dell'offerta- è
necessario che la discordanza sia considerevole e
palesemente ingiustificata, purché lo scostamento non sia
eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei
lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione
collettiva.
---------------
Sebbene, ai sensi degli artt. 17 e 27 del d.lgs. n. 163 del
2006, la procedura riguardante la verifica dell'anomalia
dell'offerta non sia obbligatoria quando questa ha per
oggetto contratti esclusi, tuttavia la stessa è rimessa alla
discrezionalità della stazione appaltante, la cui
determinazione è sindacabile in sede giurisdizionale se
microscopicamente irragionevole.
Sennonché, fermo restando che non può
ragionevolmente dubitarsi della legittimità della
determinazione assunta dall’amministrazione appaltante di
affidare la valutazione delle offerte presentate ad un
consulente di propria fiducia (determinazione nei cui
confronti peraltro non sono state sollevati specifici mezzi
di censura, del tutto inammissibili, oltre che irrilevanti
ed ininfluenti, essendo le considerazioni svolte circa la
singolarità della scelta del consulente e l’imputazione
della relativa spesa, questione quest’ultima che comunque
potrebbe integrare una ipotesi di irregolarità e non di
invalidità dell’atto), la Sezione osserva che, secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è
motivo per discostarsi, l’offerta deve essere valutata nella
globalità dei servizi e delle prestazioni a questi
riferibili, non rilevando (ai fini della verifica della
anomalia) che lo svolgimento di un servizio di non rilevante
entità, rispetto al complesso di quelli offerti, sia offerto
sottocosto, in quanto compensabile con quanto ricavato dallo
svolgimento degli altri servizi (caso di offerta di servizio
in cui i costi medi della manodopera si discostano in modo
enorme da quelli individuati dal decreto ministeriale sul
costo del lavoro, Cons. St., sez. V, 14.06.2013, n.
3314).
D’altra parte, ai sensi dell'art. 86, del d.lgs. n. 163 del
2006, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle
ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma
semplicemente un parametro di valutazione della congruità
dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che
l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative
voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia,
potendo essere accertato quando risulti puntualmente e
rigorosamente giustificato (Cons. St., sez. VI. 22.03.2013, n. 1633; 29.05.2012, n. 3226).
Con particolare riguardo alla questione del costo del
lavoro, è stato anche affermato che un’offerta non può
essere ritenuta senz'altro anomala e comportante
l'automatica esclusione dalla gara per il solo fatto che il
costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori
inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali,
giacché queste ultime non costituiscono parametri
inderogabili, ma solo indici del giudizio di congruità; così
che -ai fini del giudizio di anomalia dell'offerta- è
necessario che la discordanza sia considerevole e
palesemente ingiustificata (Cons. St., sez. IV, 23.07.2012, n. 4306), purché lo scostamento non sia eccessivo e
vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così
come stabilito in sede di contrattazione collettiva (Cons.
St., sez. III, 28.05.2012, n. 3134).
Alla luce di tali consolidati principi effettivamente
la impugnata determinazione dell’amministrazione appaltante
risulta affetta dai vizi indicati, atteso che l’esclusione
dalla gara si fonda esclusivamente sulla ravvisata
incongruità dei costi del lavoro e sulla sostanziale
inaffidabilità, sotto questo solo profilo, dell’offerta
della società appellante, non essendo stata invece
effettuata la necessaria valutazione complessiva della
eventuale anomalia dell’offerta, verificando cioè, anche
alla luce della giustificazioni, osservazioni e
controdeduzioni fornite dalla società interessata, se le
discordanze concernenti i costi del lavoro, ancorché in
assoluto di per sé non giustificabili, potessero in concreto
trovare giustificazioni o compensazioni in altri voci
dell’offerta proposta.
Né sul punto può essere condivisa l’argomentazione difensiva
dell’amministrazione comunale secondo cui nel caso di
specie, trattandosi di un appalto escluso dall’applicazione
della normativa del codice dei contratti pubblici, non
poteva trovare ingresso la procedura di verifica
dell’anomalia dell’offerta.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di rilevare che
sebbene, ai sensi degli artt. 17 e 27 del d.lgs. n. 163 del
2006, la procedura riguardante la verifica dell'anomalia
dell'offerta non sia obbligatoria quando questa ha per
oggetto contratti esclusi, tuttavia la stessa è rimessa alla
discrezionalità della stazione appaltante, la cui
determinazione è sindacabile in sede giurisdizionale se
microscopicamente irragionevole (Cons. St., sez. IV, 04.06.2013, n. 3059): nel caso in esame, come emerge
dall’esame del disciplinare di gara, l’amministrazione
appaltante aveva effettivamente previsto lo svolgimento
della procedura di verifica dell’anomalia dell’offerta (con
ciò autovincolandosi), non essendo attribuibile diverso
significato alla disposizione riportata nella pag. 13 del
predetto disciplinare, a proposito del contenuto della busta
C, secondo cui “Al fine della verifica dell’anomalia,
ciascun concorrente dovrà indicare, in sede di offerta e per
ciascun servizio, la composizione del prezzo orario, il
quale dovrà tener conto dell’inderogabilità dei minimi
salariali previsti dai contratti collettivi di lavoro, dei
costi e degli utili di impresa”.
Del resto, significativamente la stessa ricordata previsione
del disciplinare di gara esclude anch’essa che il solo
discostarsi dell’offerta quanto al costo del lavoro dai
minimi inderogabili salariali previsti dai contratti
collettivi di lavoro determini automaticamente
l’inaffidabilità dell’offerta e giustifichi un automatico
giudizio di anomalia.
A ciò consegue l’illegittimità del provvedimento impugnato,
non già per essere fondato sulle osservazioni del consulente
dell’amministrazione, ma per il fatto che è mancata la
valutazione dell’offerta nel suo complesso, essendosi la
valutazione dell’amministrazione fermata alla riscontrata
incongruità ed inaffidabilità degli esposti costi del
lavoro, senza verificare se i discostamenti degli stessi
dalle tariffe minime inderogabili potesse trovare una
giustificazione (ed un’eventuale compensazione) nella
globalità dell’offerta presentata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2752 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’aggiudicazione provvisoria di una gara pubblica
ha natura di atto endoprocedimentale, ad effetti instabili
ed interinali, soggetta, a’ sensi dell’art. 12 del D.L.vo
12.04.2006 n. 163 all’approvazione dell’organo a ciò
competente nel contesto organizzativo dell’amministrazione
aggiudicatrice.
In dipendenza di ciò, l’instabilità degli effetti
dell’aggiudicazione provvisoria non obbliga il concorrente
non dichiarato aggiudicatario provvisorio all’immediata
impugnazione di tale provvedimento, ma sostanzia una sua
facoltà al riguardo, posto che l’atto finale della procedura
di gara è comunque l’aggiudicazione definitiva, la quale non
costituisce atto meramente confermativo dell’aggiudicazione
provvisoria, ma esprime la volontà provvedimentale
definitiva della stazione appaltante e presuppone, quindi,
l’approvazione di tutti gli atti di gara, inclusa dunque la
precedente esclusione di concorrenti diversi dal vincitore.
Aggiudicazione provvisoria e aggiudicazione definitiva sono
pertanto atti connotati da autonome valutazioni
dell’amministrazione in merito all’esito della gara, tali
che la rimozione della prima non caduca automaticamente la
seconda, poiché quest’ultima non ne è l’esito ineluttabile,
ma il frutto di ulteriore esercizio del potere discrezionale
dell’amministrazione; ossia, il bene della vita del
concorrente che assume di essere stato illegittimamente
pretermesso è con ciò leso da due distinti provvedimenti:
l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva, solo
l’ultimo dei quali –peraltro- cristallizza la lesione
inferta al suo interesse legittimo; rimane fermo che il
provvedimento di esclusione, secondo ricevuti principi
giurisprudenziali, impedendo in via immediata e diretta
all’impresa di proseguire nella partecipazione alla
procedura di gara, deve essere sollecitamente impugnato nel
rispetto dei rigorosi termini decadenziali previsti dalla
legge.
Detto altrimenti –e in via più generale– va ricordato che
nell’ambito del rapporto di presupposizione corrente fra
atti inseriti all’interno di un più ampio contesto
procedimentale occorre distinguere fra invalidità ad effetto
caducante ed invalidità ad effetto viziante, atteso che nel
primo caso l’annullamento dell’atto presupposto determina
l’automatico travolgimento dell’atto consequenziale senza
bisogno che questo ultimo sia stato autonomamente impugnato,
nel mentre in caso di invalidità ad effetto viziante l’atto
consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità
derivata, ma resta efficace salva apposita e idonea
impugnazione, resistendo all’annullamento dell’atto
presupposto: e la figura dell’invalidità ad effetto
caducante non ricorre –per l’appunto- fra aggiudicazione
provvisoria ed aggiudicazione definitiva, proprio perché,
per quanto detto innanzi, l’aggiudicazione provvisoria è
solo un atto endo-procedimentale, dagli effetti ancora
instabili e meramente interinali, nel mentre autonoma
incidenza lesiva assume soltanto l’aggiudicazione
definitiva, quale provvedimento di formale ricezione, da
parte dell’amministrazione, dell’esito della gara, con nuova
e conclusiva valutazione degli interessi.
Alle medesime conclusioni si perviene in relazione al
giudizio avente ad oggetto l’esclusione dal procedimento ad
evidenza pubblica, in quanto l’omessa impugnazione
dell’aggiudicazione definitiva non può che comportare (di
norma e salvo casi particolari che non ricorrono nella
specie), l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto
difetto di interesse alla sua decisione.
L’aggiudicazione provvisoria di una gara
pubblica ha natura di atto endoprocedimentale, ad effetti
instabili ed interinali, soggetta, a’ sensi dell’art. 12 del
D.L.vo 12.04.2006 n. 163 all’approvazione dell’organo a
ciò competente nel contesto organizzativo
dell’amministrazione aggiudicatrice (così, ad es., Cons.
Stato, Sez. V, 22.01.2014 n. 313).
In dipendenza di ciò, l’instabilità degli effetti
dell’aggiudicazione provvisoria non obbliga il concorrente
non dichiarato aggiudicatario provvisorio all’immediata
impugnazione di tale provvedimento, ma sostanzia una sua
facoltà al riguardo (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI,
11.12.2013 n. 5945), posto che l’atto finale della
procedura di gara è comunque l’aggiudicazione definitiva, la
quale non costituisce atto meramente confermativo
dell’aggiudicazione provvisoria, ma esprime la volontà provvedimentale definitiva della stazione appaltante e
presuppone, quindi, l’approvazione di tutti gli atti di
gara, inclusa dunque la precedente esclusione di concorrenti
diversi dal vincitore (così Cons. Stato, A.P., 29.11.2012 n. 36).
Aggiudicazione provvisoria e aggiudicazione definitiva sono
pertanto atti connotati da autonome valutazioni
dell’amministrazione in merito all’esito della gara, tali
che la rimozione della prima non caduca automaticamente la
seconda, poiché quest’ultima non ne è l’esito ineluttabile,
ma il frutto di ulteriore esercizio del potere discrezionale
dell’amministrazione; ossia, il bene della vita del
concorrente che assume di essere stato illegittimamente
pretermesso è con ciò leso da due distinti provvedimenti:
l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva, solo
l’ultimo dei quali –peraltro- cristallizza la lesione
inferta al suo interesse legittimo; rimane fermo che il
provvedimento di esclusione, secondo ricevuti principi
giurisprudenziali, impedendo in via immediata e diretta
all’impresa di proseguire nella partecipazione alla
procedura di gara, deve essere sollecitamente impugnato nel
rispetto dei rigorosi termini decadenziali previsti dalla
legge.
Detto altrimenti –e in via più generale– va ricordato che
nell’ambito del rapporto di presupposizione corrente fra
atti inseriti all’interno di un più ampio contesto
procedimentale occorre distinguere fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, atteso che nel
primo caso l’annullamento dell’atto presupposto determina
l’automatico travolgimento dell’atto consequenziale senza
bisogno che questo ultimo sia stato autonomamente impugnato,
nel mentre in caso di invalidità ad effetto viziante l’atto
consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità
derivata, ma resta efficace salva apposita e idonea
impugnazione, resistendo all’annullamento dell’atto
presupposto: e la figura dell’invalidità ad effetto
caducante non ricorre –per l’appunto- fra aggiudicazione
provvisoria ed aggiudicazione definitiva, proprio perché,
per quanto detto innanzi, l’aggiudicazione provvisoria è
solo un atto endo-procedimentale, dagli effetti ancora
instabili e meramente interinali, nel mentre autonoma
incidenza lesiva assume soltanto l’aggiudicazione
definitiva, quale provvedimento di formale ricezione, da
parte dell’amministrazione, dell’esito della gara, con nuova
e conclusiva valutazione degli interessi (così, ad es.,
Cons. Stato, Sez. VI, 05.09.2011 n. 4998).
Alle medesime conclusioni si perviene in relazione al
giudizio avente ad oggetto l’esclusione dal procedimento ad
evidenza pubblica, in quanto l’omessa impugnazione
dell’aggiudicazione definitiva non può che comportare (di
norma e salvo casi particolari che non ricorrono nella
specie), l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto
difetto di interesse alla sua decisione (così, ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. V, 18.11.2011 n. 6093 e Sez. VI, 29.04.2013 n. 2342; Cons. giust. Reg. Sic. Sez. giurisd. 25.02.2013 n. 281, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co.
2, lett. d), c.p.a.)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2710 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il Collegio non intende decampare dai principi
elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della
Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da
illecita attività provvedimentale dell’amministrazione in forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale
rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale
disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per
accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non
sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto
soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da
comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso
nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica
e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che
funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e
che non consente di configurare la tutela degli interessi
c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei
ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta,
evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza),
grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto
l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno
deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto
che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua
volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica
sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile
(oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando
vi sia una rilevante probabilità di risultato utile
frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della
p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da
autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di
giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza
nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata
illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai
sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto
costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla
sussistenza della colpa in capo all’amministrazione.
Ne
consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità
dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di
improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di
oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della
formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di
rilevante complessità del fatto, della influenza
determinante dei comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da successiva declaratoria di
incostituzionalità della norma applicata
dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito
della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio
della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione
dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in
forza dei quali un evento è da considerare causato da un
altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non
si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria
della condicio sine qua non).
Il rigore del principio
dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in
base al quale, se la produzione di un evento dannoso è
riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento
nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art.
41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve
essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta
sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da
rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi
al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto.
Al contempo non è sufficiente tale
relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto
che, nel momento in cui si produce l’evento causante non
appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come
effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio
della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d.
regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie
causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non
appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto
inverosimili.
Il Collegio non intende decampare dai principi
elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della
Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da
illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr.
ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22.10.2013, n. 23993; sez. un., 23.03.2011, n. 6594; sez. un.,
11.01.2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19.04.2013, n. 7; ad. plen., 23.03.2011, n. 3; sez. III,
19.03.2014, n. 1357; sez. V, 17.01.02014, n. 183;
sez. V, 31.10.2013, n. 5247; sez. V, 21.06.2013, n.
3408; sez. III, 30.05.2012, n. 3245; sez. IV, 22.05.2012, n. 2974; sez. IV,
02.04.2012, n. 1957; sez. IV, 31.01.2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co.
2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale
rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale
disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per
accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non
sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto
soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da
comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso
nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica
e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che
funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e
che non consente di configurare la tutela degli interessi
c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei
ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta,
evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza),
grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto
l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno
deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto
che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua
volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica
sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile
(oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando
vi sia una rilevante probabilità di risultato utile
frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della
p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da
autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di
giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza
nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata
illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai
sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto
costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla
sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne
consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità
dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di
improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di
oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della
formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di
rilevante complessità del fatto, della influenza
determinante dei comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da successiva declaratoria di
incostituzionalità della norma applicata
dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito
della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio
della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione
dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in
forza dei quali un evento è da considerare causato da un
altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non
si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria
della condicio sine qua non); il rigore del principio
dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in
base al quale, se la produzione di un evento dannoso è
riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento
nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art.
41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve
essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta
sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da
rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi
al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale
relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto
che, nel momento in cui si produce l’evento causante non
appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come
effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio
della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d.
regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie
causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non
appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto
inverosimili.
Per quanto poi concerne l’aspetto che qui segnatamente
rileva, ossia il nesso causale tra l’illecito e il danno
subito, va parimenti rimarcato che l’onnicomprensiva
categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059
c.c., pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di
diritti inviolabili della persona (ad es. il diritto alla
salute di cui all’art. 32 Cost.), costituisce pur sempre
un’ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in
concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione
e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in
ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del
soggetto asseritamente danneggiante.
Ne consegue, quindi, che il riconoscimento del diritto del
lavoratore al risarcimento del danno professionale e
biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di
inadempimento datoriale e non può prescindere da una
specifica allegazione, da parte di colui che si pretende
danneggiato, sulla natura e sulle caratteristiche del
pregiudizio medesimo.
In una con i principi elaborati dalle sezioni unite della
Corte di cassazione (cfr. le celebri sentenze gemelle sez.
un., nn. 26973, 26974, 26975 del 2008, successivamente si
vedano gli affinamenti elaborati da Cass. civ., sez. III,
2228 del 2012) e dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio
(n. 7 del 2013 cit.), si rileva che mentre il risarcimento
del danno biologico è subordinato all’esistenza di una
lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente
accertabile, il danno non patrimoniale -da intendersi come
ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed
interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul
“fare areddittuale” del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il
soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto
all’espressione e alla realizzazione della sua personalità
nel mondo esterno- deve essere dimostrato in giudizio con
tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro
anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova
per presunzioni; ne discende che il prestatore di lavoro,
che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento
del danno (anche nella sua eventuale componente di danno
alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a
causa della lesione del proprio diritto di eseguire la
prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale
rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale
danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto
che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza
automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto
non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva
della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore
che denunzi il danno subito di fornire la prova in base
all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2708 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Finalità della destinazione d'uso.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di
interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto
funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate
dagli strumenti urbanistici in considerazione della
differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e
disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per
qualità e quantità proprio a seconda della diversa
destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio
comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti,
realizzate attraverso il coordinamento delle varie
destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le
modifiche non consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il
complessivo assetto territoriale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.05.2014 n. 20773 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 21-nonies L. n. 241 del 1990 ha declinato
le coordinate per il valido esercizio del potere di
autotutela, ponendo quali indefettibili condizioni di
legalità per l'esercizio del relativo potere, la necessità
che l'atto di autotutela sia sorretto dal rilievo della
sussistenza di ragioni di interesse pubblico alla rimozione
del provvedimento viziato.
In particolare, tale norma, recependo principi di remota
origine giurisprudenziale, stabilisce che la potestà di
annullamento di atti amministrativi presuppone l'esistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale
all'annullamento e prescrive che, nella ponderazione di tale
interesse, debba venire considerato anche quello dei
soggetti privati coinvolti dall'azione amministrativa,
avendo particolare riguardo per l'affidamento eventualmente
creatosi in capo a costoro per effetto del trascorrere del
tempo. L'art. 21-nonies conferma, quindi, la dimensione
tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio che,
rifuggendo da ogni automatismo, deve essere espressione di
una congrua valutazione comparativa degli interessi in
conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella
motivazione del provvedimento di ritiro.
Pertanto, ogni qualvolta la posizione del destinatario di un
provvedimento amministrativo si sia consolidata, suscitando
un affidamento sulla legittimità del titolo stesso,
l'esercizio del potere di autotutela rimane subordinato alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
all'annullamento, diverso da quello al mero ripristino della
legalità violata e comunque prevalente sull'interesse del
privato alla conservazione del titolo illegittimo.
... per l'annullamento della nota prot. n. 1656 del
29.01.2013, ricevuta in data 07.02.2013, avente ad oggetto "pratica
edilizia n. 50 anno 2010, denuncia inizio attività acquisita
in data 19.03.2010 prot. 4924 per installazione di un
impianto fotovoltaico su tettoia in struttura metallica, sul
terreno sito in Via del Mare e riportato in Catasto al Fg.6,
p.lla 1507, ordine motivato di non effettuare l'intervento
denunciato, art. 23, co. 6, del D.P.R. 380/2001", ove
occorra, delle note prot. nn. 9708/9709 del 06.06.2011
richiamate nella nota del 29.01.2013, non in possesso della
ricorrente, di ogni atto comunque connesso, presupposto e
consequenziale
....
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
L'art. 21-nonies L. n. 241 del 1990 ha declinato le
coordinate per il valido esercizio del potere di autotutela,
ponendo quali indefettibili condizioni di legalità per
l'esercizio del relativo potere, la necessità che l'atto di
autotutela sia sorretto dal rilievo della sussistenza di
ragioni di interesse pubblico alla rimozione del
provvedimento viziato.
In particolare, tale norma, recependo principi di remota
origine giurisprudenziale, stabilisce che la potestà di
annullamento di atti amministrativi presuppone l'esistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale
all'annullamento e prescrive che, nella ponderazione di tale
interesse, debba venire considerato anche quello dei
soggetti privati coinvolti dall'azione amministrativa,
avendo particolare riguardo per l'affidamento eventualmente
creatosi in capo a costoro per effetto del trascorrere del
tempo. L'art. 21-nonies conferma, quindi, la dimensione
tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio che,
rifuggendo da ogni automatismo, deve essere espressione di
una congrua valutazione comparativa degli interessi in
conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella
motivazione del provvedimento di ritiro. Pertanto, ogni
qualvolta la posizione del destinatario di un provvedimento
amministrativo si sia consolidata, suscitando un affidamento
sulla legittimità del titolo stesso, l'esercizio del potere
di autotutela rimane subordinato alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale all'annullamento,
diverso da quello al mero ripristino della legalità violata
e comunque prevalente sull'interesse del privato alla
conservazione del titolo illegittimo (cfr. TAR Campania
Napoli, sez. VII, 07.05.2008, n. 3511).
Dall’esame del provvedimento impugnato, al contrario,
risulta che:
a) viene genericamente affermata la mera violazione di
disposizioni di carattere urbanistico (richiamandosi la
destinazione impressa all’area dall’art. 2.15 delle NTA del
PRG che tipizza l’area “a verde privato” subordinando
ogni intervento all’approvazione di un progetto unitario
sull’intera maglia);
b) non viene in alcun modo allegato uno specifico interesse
pubblico (diverso come si è visto dalla mera legittimità
degli atti) alla rimozione del titolo edilizio ormai
formatosi da un congruo lasso di tempo;
c) di conseguenza, non è stata neppure condotta una
qualsivoglia comparazione tra tale interesse pubblico e la
posizione vantata in ogni caso dal privato (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.05.2014 n. 1247 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le valutazioni in ordine all'esistenza di un
interesse storico-artistico su un immobile, tali da
giustificare l'apposizione del relativo vincolo,
costituiscono espressione di un potere nel quale sono
presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia momenti
di propria discrezionalità amministrativa.
Tale valutazione è espressione di una prerogativa esclusiva
dell'Amministrazione e può essere sindacata in sede
giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità
ed illogicità di evidenza tale da far emergere
inattendibilità della valutazione tecnica-discrezionale
compiuta.
La declaratoria di particolare interesse storico ed
artistico di un immobile scaturisce, infatti,
dall'applicazione di canoni e criteri aventi peraltro un
grado notevole di opinabilità, poiché basati sulla
valutazione del contenuto artistico e della rilevanza
storica dei beni, con l'effetto dell'ampiezza della
discrezionalità esercitata e della conseguente limitazione
del riscontro di legittimità al solo difetto di motivazione,
alla illogicità manifesta e all'errore di fatto.
---------------
Non può ritenersi sussistente il dedotto difetto
motivazionale del decreto impositivo del vincolo, dovendo lo
stesso considerarsi legittimamente motivato per relationem
con riferimento all'allegata relazione storico
architettonica.
Invero, l'art. 3 della L. n. 241 del 1990 consente l'uso
della motivazione per relationem con riferimento ad altri
atti dell'Amministrazione, che devono essere comunque
indicati e resi disponibili, fermo restando che questa
disponibilità dell'atto va intesa nel senso che
all'interessato deve essere consentito di prenderne visione,
di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul
diritto di accesso ai documenti amministrativi e di
chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste
l'obbligo dell'Amministrazione di notificare all'interessato
tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto
l'obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a
disposizione su richiesta dell'interessato.
Oggetto del ricorso è la legittimità del procedimento di
dichiarazione di interesse culturale dell'immobile
denominato Palazzo Guglielmo e, in particolare, della
dichiarazione di interesse particolarmente importante del
bene resa, a conclusione del procedimento, dal Direttore
regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia
ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. a), del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42.
In primo luogo, destituita di fondamento è la censura con
cui parte ricorrente deduce l'erroneità del giudizio
espresso dalla Soprintendenza sul valore storico
architettonico dell'immobile de quo.
Secondo la giurisprudenza "Le valutazioni in ordine
all'esistenza di un interesse storico-artistico su un
immobile, tali da giustificare l'apposizione del relativo
vincolo, costituiscono espressione di un potere nel quale
sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia
momenti di propria discrezionalità amministrativa. Tale
valutazione è espressione di una prerogativa esclusiva
dell'Amministrazione e può essere sindacata in sede
giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità
ed illogicità di evidenza tale da far emergere
inattendibilità della valutazione tecnica-discrezionale
compiuta. La declaratoria di particolare interesse storico
ed artistico di un immobile scaturisce, infatti,
dall'applicazione di canoni e criteri aventi peraltro un
grado notevole di opinabilità, poiché basati sulla
valutazione del contenuto artistico e della rilevanza
storica dei beni, con l'effetto dell'ampiezza della
discrezionalità esercitata e della conseguente limitazione
del riscontro di legittimità al solo difetto di motivazione,
alla illogicità manifesta e all'errore di fatto"
(Consiglio di Stato sez. VI, 30.06.2011, n. 3894; in senso
analogo Consiglio di Stato sez. VI 03.05.2011, n. 2607;
Consiglio Stato sez. VI, 29.09.2009, n. 5869; Consiglio
Stato sez. VI, 19.06.2009, n. 4066; Consiglio Stato sez. VI,
06.03.2009; n. 1332).
---------------
Né può ritenersi sussistente il
dedotto difetto motivazionale del decreto impositivo del
vincolo, dovendo lo stesso considerarsi legittimamente
motivato per relationem con riferimento all'allegata
relazione storico architettonica.
E, invero, l'art. 3 della L. n. 241 del 1990 consente l'uso
della motivazione per relationem con riferimento ad
altri atti dell'Amministrazione, che devono essere comunque
indicati e resi disponibili, fermo restando che questa
disponibilità dell'atto va intesa nel senso che
all'interessato deve essere consentito di prenderne visione,
di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul
diritto di accesso ai documenti amministrativi e di
chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste
l'obbligo dell'Amministrazione di notificare all'interessato
tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto
l'obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a
disposizione su richiesta dell'interessato (ex multis,
TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.05.2005, n. 6500;
18.01.2005, n. 178)
(TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 22.05.2014 n. 1245 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Le valutazioni tecniche, quali quelle della
Soprintendenza, possono essere sindacate esclusivamente nel
caso in cui le stesse risultino contrarie al principio di
ragionevolezza tecnica e, quindi, sono soggette al sindacato
entro i consueti canoni della ragionevolezza, della assenza
di evidenti e palesi contraddittorietà logiche o abnormità
di fatto.
---------------
In base ai principi affermati dalla Corte costituzionale, la
tutela ambientale e paesaggistica ha ad oggetto un bene
complesso ed unitario, che costituisce un valore primario ed
assoluto.
Pertanto, non è corretto ritenere la legittimità
dell’intervento (in zona ambientalmente vincolata) per il
solo fatto che non incide direttamente sulla parte
vegetazionale o sulle dune.
Sicché, risulta legittimo il parere negativo espresso dalla
Soprintendenza secondo il quale "se realizzate, le opere in
progetto, ancorché stagionali, determinerebbero
significativa alterazione del sito vincolato, caratterizzato
dalla presenza di dune coperte da fitta macchia
mediterranea. È appena il caso di osservare che proprio
questa porzione di litorale è stata oggetto di opere di
salvaguardia da parte del Comune di Porto Cesareo,
attraverso la realizzazione di steccati di legno e pedane
che perimetrano le dune, rimarcando in tal modo
l’eccezionale valore paesaggistico e naturalistico del sito.
L’area posta tra le dune, dove si intende collocare il
manufatto in progetto, costituisce parte integrante
dell’insieme paesaggistico-naturalistico e definisce un
tratto pianeggiante e sabbioso, dal quale si traguarda il
mare e il litorale. Detto insieme panoramico verrebbe
gravemente alterato dall’inserimento del volume in progetto
che intercetterebbe le visuali accennate, impedendo la
lettura del sistema dunale e del contesto marino".
... per l'annullamento:
- del parere contrario espresso sulla richiesta di
autorizzazione paesaggistica per l'esecuzione delle opere di
installazione di strutture balneari precarie per chiosco
bar, pedane e servizi igienici su area detenuta in
concessione demaniale distinta in catasto fl. 12 ptc. 1981
del litorale di Porto Cesareo in Località Castiglione,
comunicato con atto prot. 10556 del 20/06/2013, ricevuto in
data 09/07/2013;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o
consequenziale, ivi incluso il parere sfavorevole espresso
in data 03/06/2013 dalla Commissione locale per il paesaggio
del Comune di Porto Cesareo.
...
Il ricorso è infondato.
La giurisprudenza ha chiarito che le valutazioni tecniche,
quali quelle della Soprintendenza, possono essere sindacate
esclusivamente nel caso in cui le stesse risultino contrarie
al principio di ragionevolezza tecnica (Cons. St., sez. VI,
07.09.2012, n. 4759), e quindi sono soggette al sindacato
entro i consueti canoni della ragionevolezza, della assenza
di evidenti e palesi contraddittorietà logiche o abnormità
di fatto.
La Soprintendenza ha espresso parere negativo in quanto “se
realizzate, le opere in progetto, ancorché stagionali,
determinerebbero significativa alterazione del sito
vincolato, caratterizzato dalla presenza di dune coperte da
fitta macchia mediterranea. È appena il caso di osservare
che proprio questa porzione di litorale è stata oggetto di
opere di salvaguardia da parte del Comune di Porto Cesareo,
attraverso la realizzazione di steccati di legno e pedane
che perimetrano le dune, rimarcando in tal modo
l’eccezionale valore paesaggistico e naturalistico del sito.
L’area posta tra le dune, dove si intende collocare il
manufatto in progetto, costituisce parte integrante
dell’insieme paesaggistico-naturalistico e definisce un
tratto pianeggiante e sabbioso, dal quale si traguarda il
mare e il litorale. Detto insieme panoramico verrebbe
gravemente alterato dall’inserimento del volume in progetto
che intercetterebbe le visuali accennate, impedendo la
lettura del sistema dunale e del contesto marino”.
La ricorrente contesta tale affermazione, rilevando come
l’intervento non inciderebbe “sulla salvaguardia dello
specifico bene paesaggistico considerato”, posto che “i
manufatti di progetto ricadono tutti ed esclusivamente
all’interno di un’area sabbiosa completamente pianeggiante e
totalmente priva di vegetazione, così da risultare del tutto
ininfluente rispetto alle vicine dune ed alla macchia
mediterranea sovrastante”.
Tale considerazione non può essere condivisa, in quanto, in
base ai principi affermati dalla Corte costituzionale, la
tutela ambientale e paesaggistica ha ad oggetto un bene
complesso ed unitario, che costituisce un valore primario ed
assoluto (sentenze n. 367 del 2007 e n. 182 del 2006).
Pertanto, non è corretto ritenere la legittimità
dell’intervento per il solo fatto che non incide
direttamente sulla parte vegetazionale o sulle dune.
In sostanza, nessuna irragionevolezza o contraddittorietà è
individuabile nella valutazione operata dalla
Soprintendenza, laddove ha ritenuto che l’intervento in
questione determinerebbe un’alterazione del sito vincolato,
caratterizzato dalla presenza di dune e macchia mediterranea
(TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 22.05.2014 n. 1241 -
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APPALTI: Costi della sicurezza di rigore.
Senza indicazione, l'azienda resta fuori dall'appalto.
Tar del Lazio: l'impresa deve sempre quantificare gli oneri
di tutela dei lavoratori.
L'impresa perde l'appalto pubblico quando non indica i costi
di sicurezza aziendali, anche se è lo stesso committente a
escludere la necessità del Duvri, il documento unico di
regolarità contributiva, perché il servizio messo a gara non
lo impone. Il fatto che l'amministrazione escluda la
sussistenza di rischi d'interferenze non autorizza l'impresa
a ignorare nella sua offerta gli oneri di tutela dei
lavoratori che scaturiscono direttamente dalla legge.
Lo
stabilisce il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, con la
sentenza
20.05.2014 n. 5309.
Natura specifica
È la stessa l'amministrazione, nella specie, dichiarare non
sussistenti i rischi da interferenze, che risultano pari a
zero, «tenuto conto della natura strettamente intellettuale
del servizio». Ma ciò non esclude l'onere per l'impresa di
prevedere e quantificare in sede di offerta i costi della
sicurezza da «rischio specifico»: la necessità deriva
direttamente dalla norme di legge che sono poste a presidio
di diritti fondamentali dei lavoratori e, quindi, sussiste
anche quando il disciplinare di gara non contiene alcuna
previsione al riguardo. Accolto il ricorso incidentale della
concorrente: l'impresa doveva essere subito esclusa dalla
procedura.
Spesa pura
In particolare, spiegano i giudici amministrativi, si
definisce «costo della sicurezza aziendale», il valore
determinato come frazione percentuale delle spese generali
che l'impresa sostiene nell'esecuzione dell'appalto, in base
alla tipologia dei lavori dell'opera e alla stato dei
luoghi.
È stata la legge 98/2013, che ha convertito il dl
fare (decreto legge 69/2013) a introdurre il comma 3-bis
dell'articolo 82 del codice dei contratti pubblici, il
decreto legislativo 163/2006: la novella impone che il costo
del lavoro deve essere valutato puntualmente in quanto
«costo puro e incomprimibile», che non può essere
assoggettato al mercato: la verifica non può limitarsi a un
mero controllo di congruità formulato su valutazioni in base
a meri parametri e decontestualizzate.
Fra i costi della
sicurezza, dunque, rientrano anche gli esborsi riferibili in
modo generico alla sicurezza «nel» luogo di lavoro, come
oggi dice a chiare lettere il codice appalti nel comma 3-bis
dell'articolo 83, aggiunto dalla legge 98/2013
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.08.2014).
-----------------
Si definisce “costo della sicurezza
aziendale” (CS), il valore determinato come frazione
percentuale delle spese generali (SG) che l'impresa sostiene
nell'esecuzione dell'appalto, in base alla tipologia dei
lavori dell'opera e alla stato dei luoghi. Tra tali costi
rientrano, certamente, i “costi della sicurezza” e,
all’interno di essi, anche quelli genericamente riferibili
alla sicurezza “nel” luogo di lavoro, come oggi chiaramente
indicato dal nuovo comma 3-bis dell’art. 83 del Codice
Appalti (inserito dall’art. 32, comma 7-bis, D.L.
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L.
09.08.2013, n. 98, prima che venisse bandita la gara in
questione).
Tale disposizione, con riferimento al criterio del prezzo
più basso -ma con una ratio che ad avviso del Collegio deve
imprescindibilmente essere applicata anche agli altri
criteri– chiarisce che infatti “Il prezzo più basso è
determinato al netto (….) delle misure di adempimento alle
disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di
lavoro”.
Ciò premesso, come chiarito anche da una recente decisione,
i costi di sicurezza per i rischi da interferenza -la cui
misura va predeterminata dalla stazione appaltante- devono
essere distinti dai costi di sicurezza “aziendali”, la cui
quantificazione compete ad ogni concorrente in rapporto alla
sua offerta economica, rispetto all'entità ed alle
caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura.
L'omessa previa indicazione dei costi per la sicurezza
pertanto- sia nel comparto dei lavori che in quelli dei
servizi e delle forniture- rende l'offerta incompleta sotto
un profilo di particolare rilevanza, alla luce della natura
costituzionalmente sensibile degli interessi protetti,
impedendo alla stazione appaltante un adeguato controllo
sull'affidabilità dell'offerta stessa, con il corollario che
la sanzione per tale omissione non può che essere
l'esclusione dalla gara, come peraltro stabilito dalla lex
specialis di gara.
La circostanza, quindi, che l’amministrazione abbia escluso
la sussistenza di rischi da interferenze -e, nel caso in
esame, l'obbligo di elaborazione del D.U.V.R.I. in quanto
gli oneri di sicurezza per i rischi da interferenza sono
pari a zero, “tenuto conto della natura strettamente
intellettuale del servizio”- non esclude l’onere per
l’impresa di prevedere e quantificare in sede di offerta i
costi della sicurezza da c.d. “da rischio specifico” il cui
obbligo, come già evidenziato, deriva direttamente dalla
norme di legge poste a presidio di diritti fondamentali dei
lavoratori e, quindi, deve ritenersi sussistente pur ove il
disciplinare di gara non rechi alcuna previsione al
riguardo.
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, i costi per
la sicurezza propri dell’impresa devono essere
specificatamente indicati anche nel caso in cui siano
eventualmente ritenuti dalla concorrente –per la peculiarità
del servizio, del luogo di lavoro o per altre ragioni- pari
a “zero”.
La censura merita
di essere condivisa.
In particolare, non convincono le argomentazioni fornite
dalla ricorrente principale, che ha invocato in proposito
l'art. 5 del capitolato d'oneri, il quale precisava che "Ai
sensi di quanto disposto dall'art. 26, commi 1, 2, 3 e 5,
del D.lgs. n. 81/2008 e s.m.i, non sussiste l'obbligo di
elaborazione del D.UV.R.I. in quanto gli oneri di sicurezza
per i rischi da interferenza sono pari a zero, tenuto conto
della natura strettamente intellettuale del servizio."
In particolare, secondo la ricorrente principale, “poiché
la stazione appaltante ha dichiarato che gli oneri di
sicurezza per i rischi da interferenza sono pari a zero,
tenuto conto della natura strettamente intellettuale del
servizio, del tutto legittima appare la valutazione in
termini di "irrilevanza" e/o "ininfluenza" dei costi della
sicurezza dichiarata dal RTI Borgomeo”.
In proposito, il Collegio -pur non disconoscendo le
peculiarità dell’appalto in questione avente ad oggetto il
reclutamento di un contingente di personale al fine di
integrare, presso la Direzione Generale dell'immigrazione e
delle politiche di integrazione in materia di minori
stranieri, quello destinato al servizio di assistenza al
programma di valutazione e approvazione dei programmi
solidaristici di accoglienza temporanea e il monitoraggio
sulle modalità di soggiorno dei minori stranieri accolti
temporaneamente in Italia, nell'ambito dei programmi
solidaristici di accoglienza (sotto il profilo e
dell'aggiornamento costante della banca dati informatizzata,
impulso alle indagini familiari, rilascio dei pareri ex art.
32 del T.U. sull'immigrazione; e della tutela del minore
stesso, a partire dall'accoglienza del minore e fino
all'inserimento sociale e lavorativo)- ritiene che ciò non
esimesse, comunque, la ricorrente dal prendere
specificatamente in considerazione e ponderare
adeguatamente, pur con le peculiarità del caso, gli obblighi
gravanti ex lege sull’impresa, in materia di
indicazione dei costi di sicurezza aziendali.
In particolare, si definisce “costo della sicurezza
aziendale” (CS), il valore determinato come frazione
percentuale delle spese generali (SG) che l'impresa sostiene
nell'esecuzione dell'appalto, in base alla tipologia dei
lavori dell'opera e alla stato dei luoghi. Tra tali costi
rientrano, certamente, i “costi della sicurezza” e,
all’interno di essi, anche quelli genericamente riferibili
alla sicurezza “nel” luogo di lavoro, come oggi
chiaramente indicato dal nuovo comma 3-bis dell’art. 83 del
Codice Appalti (inserito dall’art. 32, comma 7-bis, D.L.
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L.
09.08.2013, n. 98, prima che venisse bandita la gara in
questione).
Tale disposizione, con riferimento al criterio del prezzo
più basso -ma con una ratio che ad avviso del
Collegio deve imprescindibilmente essere applicata anche
agli altri criteri– chiarisce che infatti “Il prezzo più
basso è determinato al netto (….) delle misure di
adempimento alle disposizioni in materia di salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro”.
Ciò premesso, come chiarito anche da una recente decisione
(cfr. TAR Lazio Latina Sez. I, 15.01.2014, n. 7), i costi di
sicurezza per i rischi da interferenza -la cui misura va
predeterminata dalla stazione appaltante- devono essere
distinti dai costi di sicurezza “aziendali”, la cui
quantificazione compete ad ogni concorrente in rapporto alla
sua offerta economica, rispetto all'entità ed alle
caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura.
L'omessa previa indicazione dei costi per la sicurezza
pertanto- sia nel comparto dei lavori che in quelli dei
servizi e delle forniture- rende l'offerta incompleta sotto
un profilo di particolare rilevanza, alla luce della natura
costituzionalmente sensibile degli interessi protetti,
impedendo alla stazione appaltante un adeguato controllo
sull'affidabilità dell'offerta stessa, con il corollario che
la sanzione per tale omissione non può che essere
l'esclusione dalla gara (cfr. TAR Lazio Latina Sez. I,
15.01.2014, n. 7; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n.
181/2013, cit.), come peraltro stabilito dalla lex
specialis di gara.
La circostanza, quindi, che l’amministrazione abbia escluso
la sussistenza di rischi da interferenze -e, nel caso in
esame, l'obbligo di elaborazione del D.U.V.R.I. in quanto
gli oneri di sicurezza per i rischi da interferenza sono
pari a zero, “tenuto conto della natura strettamente
intellettuale del servizio”- non esclude l’onere per
l’impresa di prevedere e quantificare in sede di offerta i
costi della sicurezza da c.d. “da rischio specifico”
il cui obbligo, come già evidenziato, deriva direttamente
dalla norme di legge poste a presidio di diritti
fondamentali dei lavoratori e, quindi, deve ritenersi
sussistente pur ove il disciplinare di gara non rechi alcuna
previsione al riguardo (cfr., ex multis, C.d.S., Sez.
III, 28.08.2012, n. 4622; TAR Veneto, Sez. I, n. 1050
dell’08.08.2013, n. 1050; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, II,
19.02.2013, n. 181; TAR Puglia Lecce Sez. III, 15.05.2013,
n. 1091).
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr.,in
proposito, TAR Lazio Roma Sez. I-ter, 15.07.2013, n. 6999,
Cons. Stato Sez. III, 02.09.2013, n. 4369) i costi per la
sicurezza propri dell’impresa devono essere specificatamente
indicati anche nel caso in cui siano eventualmente ritenuti
dalla concorrente –per la peculiarità del servizio, del
luogo di lavoro o per altre ragioni- pari a “zero”.
Tale adempimento, nel caso in esame, non è stato assolto,
con la conseguenza che non può neppure aderirsi alla tesi
esposta dal difensore della ricorrente principale, secondo
cui tale aspetto, al più, avrebbe potuto essere preso in
considerazione in sede di congruità dell’offerta.
Né può aderirsi alla tesi secondo cui, nel caso in esame, la
violazione avrebbe una mera rilevanza “formale”,
attesa –ad avviso della ricorrente principale- la “sicura
assenza, nell'ambito delle lavorazioni oggetto della gara,
di profili di interesse in tema di salute e sicurezza sul
lavoro” con la conseguenza che l’imposizione della
specificazione di tali costi a titolo di “rischio specifico”
non sarebbe pertinente con gli interessi sostanziali
dell'Amministrazione.
Infatti, la circostanza che il servizio appaltato attenesse
a prestazioni di carattere prettamente “intellettuale”
-con conseguente esonero, per quanto riguarda gli obblighi
dell’amministrazione appaltante, dell’ottemperanza alle
prescrizioni di cui all’art. 26 del d.lgs. 09.04.2008 n. 81
(strumento deputato unicamente ad indicare le misure da
adottare per eliminare o, ove ciò non risulti possibile,
ridurre al minimo esclusivamente i c.d. “rischi da
interferenze” tra i propri lavoratori e quelli
dell’Impresa appaltatrice e prevederne i relativi costi
della sicurezza)– nel caso di specie non esimeva l’impresa
appaltatrice dal valutare esplicitamente, la sussistenza di
profili di interesse in tema di salute e sicurezza del
personale sul luogo di lavoro (si pensi, a titolo di
esempio, ai rischi per la salute connessi all’utilizzo di
strumenti informatici), anche al fine di escludere la
necessità di sostenere costi specifici.
Ed infatti, il Capitolato d’oneri e disciplinare di gara
allegato alla determina a contrarre dell’11.09.2013
prevedeva espressamente, all’art. 12, che qualsiasi onere
relativo al rispetto della normativa vigente a tutela dei
lavoratori, anche sotto il profilo previdenziale e della
sicurezza, fosse posto a carico dell’aggiudicatario, con
esonero totale dell’amministrazione anche per eventuali
ipotesi di infortunio di qualsiasi genere anche per attività
svolte nei locali dell’amministrazione procedente, con la
conseguenza che tali costi avrebbero dovuto senz’altro
essere computati nell’ambito del rischio specifico della
concorrente.
Anche a volere aderire, quindi, all’orientamento da ultimo
espresso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio
di Stato, n. 330 del 22.01.2014, che nel caso esaminato, ha
ritenuto l'indicazione dei costi sulla sicurezza non
obbligatoria nelle gara di servizi di natura intellettuale,
in quanto agli atti di causa era stata fornita da parte
dell’impresa documentazione attestante il rispetto degli
obblighi di sicurezza sul lavoro), il principio ivi
affermato non potrebbe applicarsi al caso in esame, in cui
non solo tale dimostrazione non risulta fornita, ma comunque
le peculiari modalità della prestazione intellettuale
fornita (nell’ambito di locali e con l’utilizzo di supporti
tecnologici altrui, ma a rischio esclusivo
dell’aggiudicatario) imponevano di indicare espressamente, a
pena di esclusione comminata dall’art. 31 (Ulteriori cause
di esclusione dalla procedura) la dichiarazione relativa
all’importo relativo agli oneri di sicurezza (cfr. art. 25
del Disciplinare, Contenuto dell’offerta), così da potersi
ritenere, a tal fine, del tutto insufficiente la mera
attestazione della “regolarità nei confronti delle norme
in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”,
pur richiesta dall’art. 20 lett. g) del Disciplinare di
gara. In conclusione, il ricorso incidentale va accolto,
attesa la fondatezza del secondo motivo con assorbimento
delle ulteriori censure e, per l’effetto, va disposto
l'annullamento degli atti gravati con il predetto ricorso
incidentale, nella parte in cui l’amministrazione non ha
disposto l’esclusione della C. BORGOMEO & Co. S.r.l già in
sede di prequalifica.
La accertata fondatezza del ricorso incidentale preclude al
Collegio l'esame del merito delle censure proposte dal
ricorrente principale con il ricorso introduttivo (Cons.
Stato Sez. III, 07.04.2014, n. 1634) che, pertanto, va
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza
20.05.2014 n. 5309). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Tratturi.
I tratturi, a prescindere dalla loro attuale utilizzabilità
come strade, quali espressioni di vestigia e tracce di
remote civiltà passate ed in considerazione del rilievo
costituzionale dei beni culturali come ribadito nella Legge
Costituzionale 18/10/2001 n. 3, art. 2, costituiscono una zona
d'interesse archeologico per il loro valore intrinseco, ai
sensi dell'art. 142, comma 1, lett. m), d.lgs. n. 42/2004.
La citata disciplina, sotto la rubrica «Aree tutelate per
legge», dispone che sono comunque di interesse paesaggistico
e sono sottoposti alle disposizioni del Titolo I (Tutela e
valorizzazione), PARTE III^ (Beni paesaggistici) del d. Igs.
n. 42/2004 "m) le zone di interesse archeologico"
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
16.05.2014 n. 20443 -
tratto da www.lexambiente.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno
chiarito, in tema di rimborso di spese di difesa ai
funzionari onorari, che, ai fini della identificazione della
giurisdizione -escluso ogni rilievo delle norme concernenti
la giurisdizione sul rapporto di lavoro pubblico- occorre
distinguere l'ipotesi di funzionari onorari nominati da
un'autorità amministrativa, il cui trattamento economico, in
difetto di disciplina normativa, è stabilito dalla stessa,
con conseguente posizione di interesse legittimo e
giurisdizione del giudice amministrativo, da quella di
soggetti che svolgono funzioni pubbliche sulla base di
un'investitura politico-elettorale, la cui posizione, anche
economica, è di solito direttamente regolata dalla legge,
con la conseguenza che le relative posizioni soggettive
assumono la consistenza di diritti, e la giurisdizione è del
giudice ordinario a meno che la legge stessa non attribuisca
funzioni discrezionali all'amministrazione.
E’ stato ulteriormente chiarito, con riferimento a
funzionari onorari del comune, ossia persone fisiche che
prestano la propria opera per conto dell'ente pubblico non a
titolo di lavoro subordinato (nella specie assessore e
vicesindaco), che, in mancanza di specifica disposizione che
regoli i rapporti patrimoniali con l’ente rappresentato, la
pretesa di rimborso delle spese processuali, ammesso che
esista una lacuna normativa, non può che assumere la
consistenza del diritto soggettivo perfetto, da esercitare
davanti al giudice ordinario, in base ad una disposizione di
legge, l’art. 1720 c.c., da applicare in via analogica ai
sensi dell’art. 12, comma II, disp. prel. c.c..
Non a caso, nel proporre la domanda principale di condanna
dell’amministrazione provinciale al rimborso delle spese
legali sostenute, O.G.B. ha invocato, quale fondamento della
propria pretesa, l’art. 1720 c.c.
Ed allora, sulla domanda difetta la potestas decidendi da
parte di questo plesso amministrativo di giustizia,
spettando il compito di decidere al giudice ordinario.
1. O.G.B. è stato presidente della Provincia di Vibo
Valentia.
A cagione dell’attività prestata in tale veste, egli è stato
sottoposto a procedimento penale per il reato previsto e
punito dagli artt. 110 e 323 c.p., per aver attribuito
indebiti vantaggi patrimoniali ad alcuni dipendenti in
violazione degli artt. 65 e 66 d.P.R. 10.01.1957, n. 3,
nonché in violazione dei principi di buona amministrazione.
All’esito del processo, egli è stato mandato assolto perché
il fatto non costituisce reato.
2. In questa sede O.G.B. ha impugnato la nota
meglio indicata in epigrafe, con la quale l’amministrazione
provinciale gli ha negato il rimborso delle spese legali
sostenute per il processo penale.
2.1. Il ricorrente ha dedotto, in particolare, che il
provvedimento sarebbe mancante di una motivazione adeguata e
in ogni caso contrasterebbe con l’art. 1720 c.c..
Infatti, il rimborso delle spese legali gli spetterebbe
perché trattasi di esborsi sopportati a causa del mandato di
presidente della Provincia, adempiuto nel rispetto delle
precise disposizioni impartite dalla giunta provinciale.
In aggiunta, vi sarebbe l’incompetenza del dirigente che ha
emanato il provvedimento impugnato.
In forza delle argomentazioni testé riassunte, O.G.B. ha chiesto la condanna dell’amministrazione
provinciale di Vibo Valentia al rimborso delle spese di
giudizio da lui sostenute.
2.2. In via subordinata, il ricorrente ha dedotto che la l.
03.08.1999, n. 265, ha imposto a tutte le amministrazioni
l’obbligo di stipulare apposite polizze assicurative volte a
garantire la responsabilità degli amministratori pubblici.
L’amministrazione provinciale di Vibo Valentia non avrebbe
assolto tale obbligo, così ingenerandogli un danno, dal
quale chiede di essere tenuto indenne.
3. L’amministrazione provinciale di Vibo Valentia si è
costituita in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
4. All’udienza del 09.05.2014 il ricorso è stato discusso
ed è stato trattenuto in decisione, previa sollecitazione
del contraddittorio sul possibile difetto di giurisdizione
di questo plesso amministrativo di giustizia.
5. Ritiene, infatti, il Collegio che la cognizione sulle
domande prospettate nel ricorso spetti al giudice ordinario.
5.1. Quanto alla prima domanda, si osserva che le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione (in particolare Cass. Civ.,
Sez. Un., 09.04.2008, n. 9160) hanno chiarito, in tema di
rimborso di spese di difesa ai funzionari onorari, che, ai
fini della identificazione della giurisdizione -escluso
ogni rilievo delle norme concernenti la giurisdizione sul
rapporto di lavoro pubblico- occorre distinguere l'ipotesi
di funzionari onorari nominati da un'autorità
amministrativa, il cui trattamento economico, in difetto di
disciplina normativa, è stabilito dalla stessa, con
conseguente posizione di interesse legittimo e giurisdizione
del giudice amministrativo, da quella di soggetti che
svolgono funzioni pubbliche sulla base di un'investitura
politico-elettorale, la cui posizione, anche economica, è di
solito direttamente regolata dalla legge, con la conseguenza
che le relative posizioni soggettive assumono la consistenza
di diritti, e la giurisdizione è del giudice ordinario a
meno che la legge stessa non attribuisca funzioni
discrezionali all'amministrazione.
E’ stato ulteriormente chiarito, con riferimento a
funzionari onorari del comune, ossia persone fisiche che
prestano la propria opera per conto dell'ente pubblico non a
titolo di lavoro subordinato (nella specie assessore e
vicesindaco), che, in mancanza di specifica disposizione che
regoli i rapporti patrimoniali con l’ente rappresentato, la
pretesa di rimborso delle spese processuali, ammesso che
esista una lacuna normativa, non può che assumere la
consistenza del diritto soggettivo perfetto, da esercitare
davanti al giudice ordinario, in base ad una disposizione di
legge, l’art. 1720 c.c., da applicare in via analogica ai
sensi dell’art. 12, comma II, disp. prel. c.c. (Cass. Civ.,
Sez. Un., 13.01.2006, n. 478).
Non a caso, nel proporre la domanda principale di condanna
dell’amministrazione provinciale al rimborso delle spese
legali sostenute, O.G.B. ha invocato, quale
fondamento della propria pretesa, l’art. 1720 c.c.
Ed allora, sulla domanda difetta la potestas decidendi da
parte di questo plesso amministrativo di giustizia,
spettando il compito di decidere al giudice ordinario.
5.2. Anche quanto alla seconda domanda non sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo.
Invero, il ricorrente ha domandato il ristoro dei danni
subiti non a cagione dell’esercizio del potere
amministrativo, bensì dall’inadempimento, da parte
dell’amministrazione resistente, di un preteso obbligo
assicurativo.
E’ evidente, allora, che la pretesa giuridica soggettiva
azionata ha natura di diritto soggettivo e non già di
interesse legittimo; quindi, non ricadendo la controversia
in una materia attribuita alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, deve escludersi che di essa non
possa occuparsi questo plesso di giustizia.
6. Va in conclusione affermato che la giurisdizione spetta
al giudice ordinario, d’innanzi al quale l’odierno giudizio,
inammissibile in questa sede, potrà trasmigrare a mente
degli artt. 11 c.p.a. e 59 l. 18.06.2009, n. 69 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 15.05.2014 n. 730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: L’ordinamento
sovranazionale recepito dalla Repubblica italiana, anche a
fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del
suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica
astrattamente riconducibile al compendio demaniale
necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di
parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna
puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché
una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della
proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera
giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella
della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito,
questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia
abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero
accessione invertita), vietato dal primo protocollo
addizionale della convenzione europea dei diritti dell’uomo
e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo.
Né la realizzazione dell’opera pubblica rappresenta un
impedimento alla possibilità di restituire l’area
illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle
modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di
acquisizione del terreno.
Donde la necessità, in ogni caso, di un passaggio
intermedio, finalizzato all’acquisto della proprietà del
bene da parte dell’ente espropriante.
Tale passaggio, secondo la legislazione vigente, è
costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327, al
cui testo si rinvia.
Pertanto, affinché l’interesse primario della parte lesa
possa essere soddisfatto, deve imporsi all’amministrazione
di rinnovare, entro trenta giorni dalla notificazione della
presente sentenza, la valutazione di attualità e prevalenza
dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione della
quota parte di fondo di cui è titolare il ricorrente, per
come essa risulta da atti pubblici fidefacenti, tenuto conto
dei rilievi dei contro interessati (comproprietari che hanno
ceduto la loro quota in via bonaria). Quindi, all’esito di
essa, di adottare un provvedimento col quale la predetta
quota parte, in tutto od in parte, sia alternativamente:
a) acquisita non retroattivamente al patrimonio
indisponibile comunale;
b) restituita in tutto od in parte al legittimo proprietario
entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto
esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se ad interessare è l’intera quota o
solo parte di essa, disponendo la restituzione della parte
rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello
stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni,
sia corrisposto al proprietario il valore venale della
quota, nonché un indennizzo per il pregiudizio non
patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del
dieci per cento del medesimo valore venale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno
condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data
dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente
motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione;
- dovrà essere notificato al proprietario e comporterà il
passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute ovvero del loro
deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R.
08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei
registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente
e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi
dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché
comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti,
mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo
interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su
autorizzazione scritta del medesimo ed inoltre che tutte le
questioni che dovessero insorgere nella fase di
conformazione alla presente decisione potranno formare
oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso,
tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da
emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore del
ricorrente ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro
pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per
cento annuo sul valore venale della quota occupata, per
tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre
dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione.
...
l’istante chiede la condanna del comune di Carlopoli al
risarcimento del danno patrimoniale cagionato
dall’irreversibile trasformazione in opera pubblica (una
sala congressi) di un fabbricato censito in catasto alla
partita 856, fl. 9, part. 286/2 e 286/5, del quale egli è
comproprietario, per successione ereditaria paterna.
...
Occorre muovere dal mancato perfezionamento della procedura
espropriativa nel termine dato, quanto alla quota ideale
relativa all’odierno ricorrente (che non è parte
dell’accordo di cessione bonaria sottoscritto da altri
coeredi) e dall’irreversibile trasformazione del bene
occupato.
L’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica
italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile
trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di
un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio
demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal
senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una
condanna puramente risarcitoria a carico
dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula
l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto
illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario
proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente
impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in
diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo
risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal
primo protocollo addizionale della convenzione europea dei
diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2012 n. 5189).
Né la realizzazione dell’opera pubblica rappresenta un
impedimento alla possibilità di restituire l’area
illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle
modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di
acquisizione del terreno (cfr. C. cost. 04.10.2010 n.
293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Donde la necessità, in ogni caso, di un passaggio
intermedio, finalizzato all’acquisto della proprietà del
bene da parte dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV, 16.11.2007 n. 5830; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43).
Tale passaggio, secondo la legislazione vigente, è
costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327,
al cui testo si rinvia.
Pertanto, affinché l’interesse primario della parte lesa
possa essere soddisfatto, deve imporsi all’amministrazione
di rinnovare, entro trenta giorni dalla notificazione della
presente sentenza, la valutazione di attualità e prevalenza
dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione della
quota parte di fondo di cui è titolare il ricorrente, per
come essa risulta da atti pubblici fidefacenti, tenuto conto
dei rilievi dei contro interessati (comproprietari che hanno
ceduto la loro quota in via bonaria). Quindi, all’esito di
essa, di adottare un provvedimento col quale la predetta
quota parte, in tutto od in parte, sia alternativamente:
a) acquisita non retroattivamente al patrimonio
indisponibile comunale;
b) restituita in tutto od in parte al legittimo proprietario
entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto
esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se ad interessare è l’intera quota o
solo parte di essa, disponendo la restituzione della parte
rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello
stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni,
sia corrisposto al proprietario il valore venale della
quota, nonché un indennizzo per il pregiudizio non
patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del
dieci per cento del medesimo valore venale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno
condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data
dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente
motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione;
- dovrà essere notificato al proprietario e comporterà il
passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute ovvero del loro
deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R.
08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei
registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente
e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi
dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché
comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti,
mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo
interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su
autorizzazione scritta del medesimo ed inoltre che tutte le
questioni che dovessero insorgere nella fase di
conformazione alla presente decisione potranno formare
oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso,
tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da
emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore del
ricorrente ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro
pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per
cento annuo sul valore venale della quota occupata, per
tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre
dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione.
In conclusione, il ricorso va accolto nei sensi e limiti
anzi esposti
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza
15.05.2014 n. 726 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Conferimento a terzi.
Colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per
il recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che
questi ultimi siano debitamente autorizzati allo svolgimento
delle operazioni, con la conseguenza che l'inosservanza di
tale regola di cautela imprenditoriale è idonea a
configurare la responsabilità per il reato di illecita
gestione di rifiuti in concorso con coloro che li hanno
ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.05.2014 n. 19884
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo sbancamento e di livellamento
del terreno.
In tema di trasformazione dei suoli, versandosi nella
materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento e di
livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico
del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo
edilizio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.05.2014 n. 19845
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ambito di applicazione della della normativa
sul conglomerato cementizio armato.
In tema della violazione della normativa sul conglomerato
cementizio armato, le relative norme, poste a tutela della
pubblica incolumità, per espressa previsione normativa si
applicano alle opere comunque caratterizzate dalla presenza
di strutture in cemento armato che assolvano una funzione
statica nel complesso edificato, come può evincersi
agevolmente anche dalle relative "norme tecniche" emanate
dal Ministro dei lavori pubblici, la cui ultima formulazione
è contenuta nel D.M 09.01.1996
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
13.05.2014 n. 19593 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Acque. Autorizzazione allo scarico e AIA.
Non può automaticamente ritenersi sostituita
l'autorizzazione allo scarico di cui al d.lgs. n. 152 del
1999 già in atto con l'autorizzazione integrata ambientale.
Una tale sostituzione non opera, infatti, automaticamente
per effetto del disposto dell'allegato 2 del richiamato
d.lgs. n. 59 del 2005 (oggi trasfuso nell'allegato 5-quinquies - allegato IX
alla parte seconda del d.lgs. n. 152 del 2006), il quale si
limita ad includere al punto 2, nell'elenco delle
autorizzazioni ambientali già in atto idonee ad essere
sostituite dall'autorizzazione integrata ambientale,
l'autorizzazione allo scarico di cui al d.lgs. n. 152 del
1999.
Presupposto necessario per l'operatività del regime
dell'autorizzazione integrata ambientale è infatti la
circostanza che l'attività svolta rientri fra quelle di cui
all'allegato 1 del richiamato d.lgs. n. 59 del 2005, perché
quest'ultimo disciplina, appunto, il rilascio, il rinnovo e
il riesame dell'autorizzazione integrata ambientale degli
impianti di cui all'allegato 1, nonché le modalità di
esercizio degli impianti medesimi, ai fini del rispetto
dell'autorizzazione integrata ambientale (art. 1, commi 1 e
2) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.05.2014 n. 19576
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Afferma il Collegio che la misura degli oneri di
urbanizzazione deve essere definita sulla base dell’impatto
urbanistico del progetto, secondo la tabella in vigore nel
comune interessato.
Qualora il progetto riguardi la ristrutturazione di un
edificio esistente il suo impatto è destinato ad incidere su
una zona già urbanizzata per cui la sua incidenza sarà data
dalla consistenza del nuovo intervento detratto l’impatto di
quanto già esistente (sostanzialmente in termini C. di S.,
V, 21.04.2006, n. 2258: “la determinazione dell’onere dovuto
per il rilascio della concessione costituisce, dunque, il
risultato di un calcolo materiale, essendo la misura
concreta direttamente collegata dalla legge al carico
urbanistico accertato secondo parametri rigorosamente
stabiliti”).
Da tale affermazione consegue che qualora il comune ometta,
come l’odierno appellato, di determinare specificamente la
misura del contributo da corrispondere per interventi di
ristrutturazione edilizia, quest’ultimo dovrà essere
determinato secondo il principio appena esposto.
Non giova, evidentemente, invocare una consuetudine alla
quale non può essere attribuita efficacia normativa e
nemmeno può essere data rilevanza a considerazioni attinenti
la particolare fruttuosità economica dell’operazione che il
Comune deve, se del caso, tenere presenti in sede di
determinazione delle tabelle.
Rimane da decidere l’ultima censura.
L’appellante sottolinea, condivisibilmente, che la sua
argomentazione non è stata rettamente intesa dal primo
giudice il quale ha argomentato la pronuncia di rigetto
sulla base di una divergenza, fra l’appellante e
l’Amministrazione, in ordine alla determinazione della
superficie sulla cui base calcolare il contributo, mentre la
divergenza riguarda il sistema di calcolo seguito
dall’Amministrazione.
L’appellante ribadisce quindi che illegittimamente le
delibere comunali impugnate hanno determinato nella stessa
misura il contributo per opere di urbanizzazione dovuto in
caso di nuova edificazione ed in caso di ristrutturazione
dell’esistente osservando inoltre che anche a prescindere da
tale argomentazione il Comune appellato avrebbe male
determinato, in concreto, il contributo, avendo omesso di
detrarre dal computo definitivo la somma corrispondente agli
oneri relativi al manufatto già edificato, interessato dal
progetto di ristrutturazione.
Osserva il Collegio che la doglianza può essere affrontata
sotto quest’ultimo profilo, che meglio descrive
l’illegittimità nella quale sarebbe incorsa
l’Amministrazione.
Infatti, assumere l’obbligo, per l’Amministrazione, di
tenere conto del già costruito all’atto della determinazione
del contributo dovuto per un intervento di ristrutturazione
delinea la compiuta disciplina della materia, stabilendo il
discrimine fra intervento di nuova costruzione ed intervento
di ristrutturazione.
In sostanza, la stessa appellante afferma che in caso di
ristrutturazione il contributo dovuto è pari a quello
previsto per la nuova edificazione, detratto quanto
corrispondente al maggior onere urbanistico provocato
dall’edificio preesistente.
Tale argomentazione è condivisa dal Collegio.
Deve essere rilevato come in realtà l’esattezza della tesi
non sia contestata dal Comune appellato il quale nella
relazione depositata in esecuzione della sentenza parziale
di cui in narrativa ha espressamente ammesso che
“l’applicazione del contributo venne all’epoca effettuata
senza conguaglio, ritenendo che questo dovesse essere in
effetti calcolato in base alla quota percentuale fissata dal
Comune per gli interventi di nuova costruzione e non di
ristrutturazione in base alla considerazione che la
struttura fu interessata da importanti interventi di
ristrutturazione inoltre gli oneri allora vigenti non
prevedevano un diverso importo per i casi di
ristrutturazione bensì una sola tariffa.”
Prosegue la relazione affermando che “resta inteso che tale
modalità operativa era una consuetudine ed una facoltà
ammessa per legge pertanto gli importi degli oneri dovuti
non furono calcolati a conguaglio proprio in ragione del
fatto che la variazione della destinazione era anche
finalizzata a stipulare contratti locativi che avrebbero
garantito una forte redditività immobiliare al gruppo
bancario”.
Lo stesso Comune quindi ammette che la decisione di non
considerare, nella determinazione del contributo, il già
costruito era stata basata su una consuetudine, legittimata
dall’evidente convenienza economica dell’operazione
immobiliare in progetto.
E’ evidente che tali considerazioni non possono avere
rilievo.
Afferma il Collegio che la misura degli oneri di cui si
tratta deve essere definita sulla base dell’impatto
urbanistico del progetto, secondo la tabella in vigore nel
comune interessato.
Qualora il progetto riguardi la ristrutturazione di un
edificio esistente il suo impatto è destinato ad incidere su
una zona già urbanizzata per cui la sua incidenza sarà data
dalla consistenza del nuovo intervento detratto l’impatto di
quanto già esistente (sostanzialmente in termini C. di S.,
V, 21.04.2006, n. 2258: “la determinazione dell’onere
dovuto per il rilascio della concessione costituisce,
dunque, il risultato di un calcolo materiale, essendo la
misura concreta direttamente collegata dalla legge al carico
urbanistico accertato secondo parametri rigorosamente
stabiliti”).
Da tale affermazione consegue che qualora il comune ometta,
come l’odierno appellato, di determinare specificamente la
misura del contributo da corrispondere per interventi di
ristrutturazione edilizia, quest’ultimo dovrà essere
determinato secondo il principio appena esposto.
Non giova, evidentemente, invocare una consuetudine alla
quale non può essere attribuita efficacia normativa e
nemmeno può essere data rilevanza a considerazioni attinenti
la particolare fruttuosità economica dell’operazione che il
Comune deve, se del caso, tenere presenti in sede di
determinazione delle tabelle (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.05.2014 n. 2437 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lavori edilizi necessitanti di permesso a
costruire.
Costituiscono lavori edilizi necessitanti di permesso a
costruire non soltanto quelli per la realizzazione di
manufatti che si elevano al di sopra del suolo, ma anche
quelli in tutto o in parte interrati e che trasformano in
modo durevole l'area impegnata dai lavori stessi
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.05.2014 n. 19444 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Emissioni in atmosfera e rilevanza limiti tabellari.
Quando esistono precisi limiti tabellari fissati dalla
legge, non possono ritenersi "non consentite" le emissioni
che abbiano, in concreto, le caratteristiche qualitative e
quantitative già valutate ed ammesse dal legislatore.
Discorso diverso va fatto in quei casi nei quali non esiste
una predeterminazione normativa, gravando sul giudice penale
l'obbligo di valutare la tollerabilità consentita, ma pur
sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche
normative di settore
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
08.05.2014 n. 18896 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e momento consumativo.
Il reato di lottizzazione abusiva ha carattere permanente ed
è inquadrabile nella categoria dei reati progressivi
nell'evento, la cui permanenza continua per ogni concorrente
sino a che di ciascuno di essi perdura la condotta
volontaria e la possibilità di fare cessare la condotta
antigiuridica dei concorrenti.
Conseguentemente, il concorso
del venditore lottizzatore permane sino a quando continua
l'attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei
singoli lotti, atteso che egli, avendo dato causa alla
condotta edificatoria dei concorrenti, risponde, a norma
dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, che potrebbe fare
cessare attivando il potere di sospensione della
lottizzazione del sindaco, o richiedendo il sequestro
preventivo dal pubblico ministero.
La permanenza nel reato
per gli acquirenti dei singoli lotti prosegue, invece, sino
a quando continua l'attività edificatoria nel lotto di
riferimento, atteso che il singolo acquirente non ha dato
causa all'operazione lottizzatoria e risponde nei limiti
della propria partecipazione, realizzata attraverso
l'attività negoziale o edificatoria nel proprio lotto
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
08.05.2014 n. 18919 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Accorpamento di un sottotetto con unità
abitativa sottostante.
L'accorpamento di un sottotetto con l'unità abitativa
sottostante e la trasformazione di parte di una tettoia in
terrazzino con realizzazione della relativa copertura
comportano la modifica dell'originaria destinazione del
locale sottotetto - costituente, di regola, un «volume
tecnico», non computabile nel calcolo della volumetria
massima consentita ed avente un rapporto di strumentalità
necessaria con l’utilizzazione del fabbricato - con
conseguente aumento della volumetria complessiva impiegabile
ad uso abitativo
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
06.05.2014 n. 18709 -
tratto da www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il Collegio non intende decampare dai
principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio
e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del
danno da illecita attività provvedimentale
dell’amministrazione in
forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale
rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale
disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per
accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non
sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto
soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da
comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso
nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica
e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che
funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e
che non consente di configurare la tutela degli interessi
c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei
ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta,
evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza),
grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto
l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno
deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto
che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua
volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica
sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile
(oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando
vi sia una rilevante probabilità di risultato utile
frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della
p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da
autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di
giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza
nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata
illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai
sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto
costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla
sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne
consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità
dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di
improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di
oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della
formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di
rilevante complessità del fatto, della influenza
determinante dei comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da successiva declaratoria di
incostituzionalità della norma applicata
dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito
della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio
della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione
dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in
forza dei quali un evento è da considerare causato da un
altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non
si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria
della condicio sine qua non);
- il rigore del principio
dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in
base al quale, se la produzione di un evento dannoso è
riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento
nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art.
41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve
essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta
sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da
rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi
al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto;
- al contempo non è sufficiente tale
relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto
che, nel momento in cui si produce l’evento causante non
appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come
effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio
della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d.
regolarità causale;
- in quest’ottica, all’interno della serie
causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non
appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto
inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del
regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti
valori sottesi ai due processi: nel senso che,
nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed
amministrativa), vige la regola della preponderanza
dell’evidenza o del «più probabile che non», mentre nel
processo penale vige la regola della prova «oltre il
ragionevole dubbio»;
- nello stesso ordine di idee, l’esistenza
del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un
evento di danno può essere affermata dal giudice anche
soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a
nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire
un’assoluta certezza al di là di ogni ragionevole: infatti,
la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del
torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della
causalità materiale, l’adozione del criterio della
probabilità relativa (anche detto criterio del «più
probabile che non»), che si delinea in un’analisi specifica
e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo
processo, nella loro irripetibile unicità, con la
conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza
probabilistica deve essere attentamente valutata e
valorizzata in ragione della specificità del caso concreto,
senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla
regola del «cinquanta per cento plus unum»;
- ancora,
diffusamente e compiutamente indagati i temi della causalità
materiale e giuridica, come pure delle regole dettate per
l’individuazione del danno risarcibile si è puntualizzato,
da un lato, che la categoria della possibilità non
costituisce una (terza) regola causale insieme a quella
penalistica dell’alto grado di probabilità logica/conoscenza
razionale e a quella civilistica del «più probabile che
non», ma individua, puramente e semplicemente, l’oggetto
della tutela nella fattispecie della chance: la possibilità,
appunto, quale oggetto di tutela (e non quale regola causale
o direttamente danno-conseguenza); pertanto, la chance va
intesa come possibilità di un risultato diverso (e non come
mancato raggiungimento di un risultato possibile), vulnerata
dalla condotta causalmente rilevante rispetto all’evento
(costituito dal mancato verificarsi di tale migliore
possibilità), ma pur sempre e comunque indagata alla stregua
del canone probatorio del «più probabile che non»;
- dall’altro lato, che l’esatta configurazione del problema
causale in seno alla responsabilità civile postula che il
momento attributivo dell’obbligazione risarcitoria sia
consequenziale tanto a quello dell’accertamento
dell’illecito che a quello dell’individuazione del danno
che, con esso —inteso come violazione dell’interesse
protetto (id est come evento di danno)— non sempre
coincide;
- è ulteriore conseguenza di tali principî che,
nella comparazione delle diverse concause, ove sufficienti a
concorrere a determinare l’evento e senza che una sola
assuma con evidenza un’efficacia esclusiva al riguardo, il
giudice dovrà valutare quale di esse appaia «più probabile
che non» rispetto a ciascuna delle altre a determinare
l’evento ed attribuire a quella l’efficacia determinante ai
fini della responsabilità;
f) il danno –inteso sia come danno evento che come danno
conseguenza– e la sua quantificazione devono essere
oggetto, da parte dell’attore, di un rigoroso onere allegatorio, potendosi ammettere il ricorso alla prova per
presunzioni (praesumptio tantum iuris), solo in relazione ai
danni non patrimoniali, comunque dovendosi ripudiare le
suggestioni derivanti dalla teorica del c.d. diritto
all’integrità patrimoniale in favore del più rigoroso e ben
conosciuto metodo sotteso alla Differenzhypothese.
Il Collegio non intende decampare dai
principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio
e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del
danno da illecita attività provvedimentale
dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass.
civ., sez. III, 22.10.2013, n. 23993; sez. un., 23.03.2011, n. 6594; sez. un., 11.01.2008, n. 576 e
582; Cons. Stato, ad. plen., 19.04.2013, n. 7; ad. plen.,
23.03.2011, n. 3; sez. III, 19.03.2014, n. 1357; sez.
V, 17.01.2014, n. 183; sez. V, 31.10.2013, n.
5247; sez. V, 21.06.2013, n. 3408; sez. III, 30.05.2012, n. 3245; sez. IV, 22.05.2012, n. 2974; sez. IV,
02.04.2012, n. 1957; sez. IV, 31.01.2012, n. 482; cui
si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in
forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale
rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale
disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per
accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non
sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto
soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da
comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso
nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica
e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che
funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e
che non consente di configurare la tutela degli interessi
c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei
ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta,
evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza),
grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto
l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno
deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto
che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua
volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica
sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile
(oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando
vi sia una rilevante probabilità di risultato utile
frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della
p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da
autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di
giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza
nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata
illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai
sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto
costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla
sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne
consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità
dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di
improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di
oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della
formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di
rilevante complessità del fatto, della influenza
determinante dei comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da successiva declaratoria di
incostituzionalità della norma applicata
dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito
della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio
della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione
dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in
forza dei quali un evento è da considerare causato da un
altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non
si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria
della condicio sine qua non);
- il rigore del principio
dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in
base al quale, se la produzione di un evento dannoso è
riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento
nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art.
41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve
essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta
sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da
rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi
al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto;
- al contempo non è sufficiente tale
relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto
che, nel momento in cui si produce l’evento causante non
appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come
effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio
della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d.
regolarità causale;
- in quest’ottica, all’interno della serie
causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non
appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto
inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del
regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti
valori sottesi ai due processi: nel senso che,
nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed
amministrativa), vige la regola della preponderanza
dell’evidenza o del «più probabile che non», mentre nel
processo penale vige la regola della prova «oltre il
ragionevole dubbio»;
- nello stesso ordine di idee, l’esistenza
del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un
evento di danno può essere affermata dal giudice anche
soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a
nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire
un’assoluta certezza al di là di ogni ragionevole: infatti,
la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del
torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della
causalità materiale, l’adozione del criterio della
probabilità relativa (anche detto criterio del «più
probabile che non»), che si delinea in un’analisi specifica
e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo
processo, nella loro irripetibile unicità, con la
conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza
probabilistica deve essere attentamente valutata e
valorizzata in ragione della specificità del caso concreto,
senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla
regola del «cinquanta per cento plus unum»;
- ancora,
diffusamente e compiutamente indagati i temi della causalità
materiale e giuridica, come pure delle regole dettate per
l’individuazione del danno risarcibile si è puntualizzato,
da un lato, che la categoria della possibilità non
costituisce una (terza) regola causale insieme a quella
penalistica dell’alto grado di probabilità logica/conoscenza
razionale e a quella civilistica del «più probabile che
non», ma individua, puramente e semplicemente, l’oggetto
della tutela nella fattispecie della chance: la possibilità,
appunto, quale oggetto di tutela (e non quale regola causale
o direttamente danno-conseguenza); pertanto, la chance va
intesa come possibilità di un risultato diverso (e non come
mancato raggiungimento di un risultato possibile), vulnerata
dalla condotta causalmente rilevante rispetto all’evento
(costituito dal mancato verificarsi di tale migliore
possibilità), ma pur sempre e comunque indagata alla stregua
del canone probatorio del «più probabile che non»;
- dall’altro lato, che l’esatta configurazione del problema
causale in seno alla responsabilità civile postula che il
momento attributivo dell’obbligazione risarcitoria sia
consequenziale tanto a quello dell’accertamento
dell’illecito che a quello dell’individuazione del danno
che, con esso —inteso come violazione dell’interesse
protetto (id est come evento di danno)— non sempre
coincide;
- è ulteriore conseguenza di tali principî che,
nella comparazione delle diverse concause, ove sufficienti a
concorrere a determinare l’evento e senza che una sola
assuma con evidenza un’efficacia esclusiva al riguardo, il
giudice dovrà valutare quale di esse appaia «più probabile
che non» rispetto a ciascuna delle altre a determinare
l’evento ed attribuire a quella l’efficacia determinante ai
fini della responsabilità;
f) il danno –inteso sia come danno evento che come danno
conseguenza– e la sua quantificazione devono essere
oggetto, da parte dell’attore, di un rigoroso onere allegatorio, potendosi ammettere il ricorso alla prova per
presunzioni (praesumptio tantum iuris), solo in relazione ai
danni non patrimoniali, comunque dovendosi ripudiare le
suggestioni derivanti dalla teorica del c.d. diritto
all’integrità patrimoniale in favore del più rigoroso e ben
conosciuto metodo sotteso alla Differenzhypothese
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.04.2014 n. 2195 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
L’art. 7, comma 1, della legge n. 241 del 1990 stabilisce che “Ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato,
con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei
confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti (…)”.
Trattasi di disposizione espressiva di un principio generale
dell'ordinamento giuridico, la cui finalità va individuata
nell'esigenza di assicurare piena visibilità all'azione
amministrativa nel momento della sua formazione e di
garantire, al contempo, la partecipazione del destinatario
dell'atto finale alla fase istruttoria preordinata alla sua
adozione.
Le limitazioni alla sua osservanza vanno, pertanto, intese
in modo rigoroso e restrittivo, ancorché non formalistico.
In giurisprudenza è stato, peraltro, condivisibilmente
affermato che l’adozione di provvedimenti in autotutela non
si sottrae alla regola generale della preventiva
comunicazione di avvio, sancita dall'art. 7 della legge n.
241/1990 in funzione della dovuta instaurazione del
contraddittorio procedimentale, nonché, in maniera ancor più
incisiva, che “la comunicazione dell'avvio del procedimento
di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, finalizzata, come
noto, a consentire la migliore composizione degli interessi
coinvolti dall'azione amministrativa attraverso la
partecipazione al procedimento del destinatario dell'atto da
adottare, assume particolare rilevanza nei provvedimenti di
secondo grado che incidono negativamente sulle posizioni
scaturite dal provvedimento di primo grado”.
Sulla scorta di quanto esposto, va, quindi, affermata la
piena espansione del principio in esame anche nel caso dei
procedimenti c.d. di secondo grado (annullamento, revoca,
decadenza) incidenti su posizioni giuridiche soggettive
originate da un precedente atto, oggetto della nuova
determinazione di ritiro, derivandone l’illegittimità
dell’annullamento d’ufficio di un provvedimento, adottato senza la previa comunicazione
dell'avvio del procedimento al soggetto che dall'atto
annullato aveva ottenuto effetti favorevoli e in assenza di
espresse esigenze di celerità del procedimento.
... per l'annullamento:
►
Quanto al ricorso introduttivo:
1) del decreto n. 51/09, emesso in data 30.01.2009
dalla Direzione Centrale Pianificazione territoriale,
recante annullamento, ai sensi dell'art. 21-nonies L.
241/1990, in sede di autotutela, dell'autorizzazione
paesaggistica n. 251/2004, rilasciata per la realizzazione di
un intervento di trasformazione d'uso del suolo per impianto
di un vigneto;
2) del decreto n. 743/2008, emesso in data 16.12.2008, recante
l'annullamento, dell'autorizzazione paesaggistica n. 1039/2005
rilasciata per opere in variante al progetto di
trasformazione d'uso del suolo per impianto di un vigneto;
3) del decreto n. 720/2007, emesso in data 17.12.2008,
recante l'annullamento, in sede di autotutela,
dell'autorizzazione paesaggistica n. 1039/05 rilasciata per
ulteriori varianti al progetto di trasformazione d'uso del
suolo per impianto di un vigneto;
4) della richiamata nota prot. RF n. 84181/2008 dd.
20.10.2008, nonché del richiamato verbale di accertamento
amministrativo n. 48/2007 dell'Ispettorato Ripartimentale
delle Foreste di Trieste e Gorizia;
►
Quanto ai motivi aggiunti depositati in data 04.03.2009
degli stessi atti impugnati con il ricorso introduttivo;
►
Quanto ai secondi motivi aggiunti depositati in data 21.02.2013 degli stessi atti impugnati con i ricorso
introduttivo, nonché del provvedimento della Direzione
Centrale Ambiente, Energia e Politiche per la Montagna n.
38851/1.410 recante l’ordinanza di ripristino dei luoghi per
opere realizzate in assenza di autorizzazione: eliminazione
di bosco e realizzazione di un vigneto sulle p.c.n. 659/12 e
925 del C.C. di S. Pelagio, eliminazione di bosco sulla
p.c.n. 659/13 del C.C. di S. Pelagio, deposito di 76.000 mc
di materiale terroso sulle p.c.n. 925, 659/12 e 1527 del
C.C. di S. Pelagio.
...
Il ricorso principale è meritevole di accoglimento.
Ad avviso del Collegio, è, invero, fondato il primo motivo
di gravame, con cui il ricorrente lamenta l’omesso invio
della comunicazione di avvio del procedimento.
Devesi, infatti, convenire col medesimo circa l’ontologica
diversità sussistente tra il procedimento necessitato
dall’esigenza di reagire all’esecuzione di opere in assenza
e/o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica già
rilasciata e destinato a concludersi con l’emissione di un
provvedimento sanzionatorio e quello, tipicamente
discrezionale, con cui l’Amministrazione ritiene, invece, di
annullare, con effetto ex tunc, l’autorizzazione stessa, con
la conseguenza che l’eventuale conoscenza che l’interessato
possa aver avuto in ordine alla pendenza del primo
procedimento (o di altri procedimenti con finalità
sanzionatorie) non può, all’evidenza, valere a sanare
l’omesso invio della comunicazione di avvio del procedimento
con riferimento al secondo.
Erra, dunque, la difesa della Regione laddove attribuisce
natura ”vincolata” ai provvedimenti in autotutela e richiama
principi giurisprudenziali relativi a fattispecie che nulla
hanno a che fare con quella concreta portata all’attenzione
del Collegio.
La legge è, del resto, chiara sul punto.
L’art. 7, comma 1, della legge n. 241 del 1990 stabilisce,
infatti, che “Ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato,
con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei
confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti (…)”.
Trattasi di disposizione espressiva di un principio generale
dell'ordinamento giuridico, la cui finalità va individuata
nell'esigenza di assicurare piena visibilità all'azione
amministrativa nel momento della sua formazione e di
garantire, al contempo, la partecipazione del destinatario
dell'atto finale alla fase istruttoria preordinata alla sua
adozione.
Le limitazioni alla sua osservanza vanno, pertanto, intese
in modo rigoroso e restrittivo, ancorché non formalistico.
In giurisprudenza è stato, peraltro, condivisibilmente
affermato che l’adozione di provvedimenti in autotutela non
si sottrae alla regola generale della preventiva
comunicazione di avvio, sancita dall'art. 7 della legge n.
241/1990 in funzione della dovuta instaurazione del
contraddittorio procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.09.2011, n. 4996), nonché, in maniera ancor più
incisiva, che “la comunicazione dell'avvio del procedimento
di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, finalizzata, come
noto, a consentire la migliore composizione degli interessi
coinvolti dall'azione amministrativa attraverso la
partecipazione al procedimento del destinatario dell'atto da
adottare, assume particolare rilevanza nei provvedimenti di
secondo grado che incidono negativamente sulle posizioni
scaturite dal provvedimento di primo grado” C.d.S., Sez. IV,
24.05.2011, n. 3120).
Sulla scorta di quanto esposto, va, quindi, affermata la
piena espansione del principio in esame anche nel caso dei
procedimenti c.d. di secondo grado (annullamento, revoca,
decadenza) incidenti su posizioni giuridiche soggettive
originate da un precedente atto, oggetto della nuova
determinazione di ritiro (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
05.12.2002, n. 3184), derivandone l’illegittimità
dell’annullamento d’ufficio di un provvedimento, adottato –come nel caso di specie- senza la previa comunicazione
dell'avvio del procedimento al soggetto che dall'atto
annullato aveva ottenuto effetti favorevoli e in assenza di
espresse esigenze di celerità del procedimento.
Il ricorso introduttivo ed i (primi) motivi aggiunti
successivamente proposti vanno, pertanto, accolti e, per
l’effetto, annullati i provvedimenti emessi in autotutela,
con gli stessi impugnati (TAR Friuli Venezia
Giulia,
sentenza 22.04.2014 n.
160
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Definizione e caratteristiche della discarica.
Secondo la definizione legislativa adottata in attuazione
della Direttiva 1999/31/CE del 26.04.1999, è discarica
qualunque area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante
operazioni di deposito sul suolo o nel suolo (art. 2, lett.
g, d.lgs. 13.01.2003, n. 36).
Si tratta di definizione
che, da un lato, come anche in dottrina non si è mancato di
evidenziare, espunge definitivamente, dall'area del
penalmente rilevante, e comunque non la individua come
requisito essenziale, la necessaria predisposizione di
uomini e/o mezzi per la realizzazione e/o la gestione della
discarica, dall'altro, valorizza piuttosto la destinazione
dell'area a luogo di smaltimento permanente dei rifiuti, a
prescindere dall'effettivo degrado che ne può derivarne (e
che, in ipotesi, potrebbe essere anche del tutto assente ove
la discarica sia realizzata e gestita secondo la migliore
tecnica possibile)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
18.04.2014 n. 17289 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
carattere compatto o friabile della struttura (copertura) in
amianto non rileva ai fini di stabilire se la stessa debba o
meno essere bonificata, ma solo al fine di stabilire entro
quale termine e con quali modalità debba esserlo.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 55, prot. n. 7265,
emessa dal Comune di Tortona, Settore Territorio e Ambiente
- Servizio Ambiente, in data 25.03.2013 e notificata alla
ricorrente in pari data, con cui è stato ordinato alla
ricorrente di provvedere alla bonifica del manufatto sito in
Tortona (AL), Strada Statale per Voghera n. 42, tramite
rimozione della relativa copertura di eternit.
...
Con un secondo
profilo di censura, la ricorrente ha sostenuto che le
valutazioni svolte dall’ARPA sarebbero contraddittorie, dal
momento che la copertura del fabbricato di proprietà della
ricorrente è stata giudicata “friabile” benché la stessa
Agenzia abbia riconosciuto che il materiale “si spezza a
fatica con le pinze”, il che significa che esso non è
friabile ma “compatto”, con la conseguenza che esso non
necessita di alcuna bonifica in base alla normativa di
settore.
Anche tale censura non può essere condivisa.
Le valutazioni svolte nel caso di specie dall’ARPA non
appaiono affatto contraddittorie, ma perfettamente coerenti
con la normativa tecnica applicata.
Risulta dagli atti di causa (ci si riferisce, in
particolare, alla relazione di servizio ARPA prodotta in
giudizio dalla difesa comunale sub doc. 9) che le condizioni
di degrado della copertura sono state valutate dall’Agenzia
con riferimento a tutti i parametri previsti dal protocollo
tecnico operativo “U.RP.T104”: età, spessore, consistenza
(friabile/compatto), trattamenti superficiali, muschi e
licheni, sfaldamenti e/o crepe superficiali, residui
(stalattiti) a bordo lastra, residui di canali di gronda,
affioramenti superficiali di fibre.
A ciascuno di tali parametri, in relazione allo stato del
manufatto, è stato attribuito un punteggio nell’ambito del
range individuato dal protocollo.
La somma di tali punteggi (42) ha consentito di determinare
l’”indice di degrado” della struttura (0,52) attraverso
l’applicazione di un determinato algoritmo previsto dal
protocollo.
Quindi, dall’indice di degrado così determinato, l’Agenzia è
pervenuta a determinare, attraverso un altro algoritmo,
“l’indice di valutazione complessiva” (0,78).
Quest’ultimo è ricompreso dal protocollo tecnico nella
fascia “0,60-0.89” che individua uno stato di conservazione
della struttura qualificato “scadente”, in relazione quale
si prevedono i seguenti “provvedimenti da adottare”:
“Necessaria la bonifica dei manufatti da programmare
nell’arco di uno/due anni. Predisposizione del programma di
manutenzione e custodia ex D.M. 06/09/1994 ove applicabile”:
esattamente quello il Comune ha imposto di fare alla
ricorrente, sia con il provvedimento qui impugnato, sia con
la precedente diffida del 17.02.2012.
Tali provvedimenti sono dunque coerenti rispetto agli
accertamenti e agli adempimenti successivi previsti dalla
normativa tecnica applicata.
E vero, quindi, che la struttura è stata giudicata
sostanzialmente “compatta” perché “si spezza a
fatica con le pinze”, ma tale circostanza è stata
valutata correttamente dall’ARPA con l’attribuzione del
punteggio più basso (2 punti) previsto dal protocollo
tecnico proprio con riferimento a tale ipotesi, laddove se
il materiale fosse stato giudicato mediamente friabile (“si
spezza facilmente con le pinze”) sarebbe stato valutato con
5 punti, ovvero con 10 punti laddove fosse stato giudicato
friabile (“si può spezzare senza l’uso degli attrezzi”).
In altre parole, il carattere compatto o friabile della
struttura in amianto non rileva ai fini di stabilire se la
stessa debba o meno essere bonificata, ma solo al fine di
stabilire entro quale termine e con quali modalità debba
esserlo
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 18.04.2014 n. 688 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
costante giurisprudenza, in caso di ordine di demolizione
delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L.
241/1990, trattandosi di atto dovuto, sicché non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
E’ infondata la censura che attiene alla violazione delle
garanzie partecipative prescritte dalla L. 241/1990: difatti,
per costante giurisprudenza, in caso di ordine di
demolizione delle opere abusive non è necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
della L. 241/1990, trattandosi di atto dovuto, sicché non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario
(ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 29.01.2009
n. 5001) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
16.04.2014 n. 2174 -
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EDILIZIA
PRIVATA: In
materia di cambio di destinazione d'uso necessita
distinguere tra:
I) mutamento d'uso “funzionale” di un locale, inteso quale
variazione di destinazione degli immobili non implicante la
realizzazione di opere edilizie, per il quale non è
necessario il permesso di costruire: difatti, lo stesso è
espressione dello “ius utendi” e non già dello “ius
aedificandi”;
II) mutamento di destinazione d'uso non già funzionale, bensì
“strutturale” (e, cioè, connesso e conseguente
all'esecuzione di opere) il quale, al contrario, necessita
di apposito titolo concessorio il cui difetto legittima la
demolizione delle opere stesse: al riguardo si è osservato
che in detta evenienza rileva il profilo risultante dalla
combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di
destinazione d'uso del fabbricato interessato ai lavori e la
realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché andranno
considerate abusive, qualora realizzate in assenza del
titolo edilizio, non solo le opere di costruzione vere e
proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto
modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova
destinazione.
Con riguardo alle ulteriori censure che attengono al merito
della sanzione edilizia irrogata, occorre distinguere e, per
cogliere le ragioni della decisione giova premettere una
sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento
che attiene al mutamento di destinazione, come tratteggiato
dalla giurisprudenza di questo Tribunale (TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, 23.02.2011 n. 1072; Sez. II, 14.03.2006 n. 2931).
L’istituto in argomento ha trovato una prima organica
disciplina nella L. 28.02.1985 n. 47.
Secondo l’autorevole lettura offerta dalla Corte
Costituzionale (sentenza 11.02.1991 n. 73), la
precitata legge, per quel che riguarda il mutamento di
destinazione, all'art. 8 ne prevedeva l'assoggettabilità al
regime della concessione se connessa a variazioni essenziali
“del progetto”, comportanti variazione degli standards
previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968.
Doveva, quindi, ritenersi esclusa dal regime della
concessione ogni ipotesi di mutamento di destinazione non
connessa con modifiche strutturali dell'immobile.
Viceversa, il mutamento di destinazione comunque
accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale
non sia altrimenti prevista la concessione), anche se solo
interno, era invece assoggettato dall'art. 26 della L.
47/1985 al regime dell'autorizzazione, ciò desumendosi
dall'eccezione ivi espressamente prevista rispetto al regime
ordinario delle opere interne.
Del mutamento di destinazione senza opere, si occupava,
invece, l'ultimo comma dell'art. 25 della legge statale
citata che attribuiva alle Regioni il potere di fissare con
legge i casi in cui il mutamento di destinazione d'uso,
anche senza opere, può essere soggetto a concessione oppure
ad autorizzazione.
In seguito, nel novellato quadro ordinamentale, l’art. 10
del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni
stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a
denuncia di inizio attività.
La Regione Campania, ai sensi dell'art. 2 della L.Reg. 28.11.2001 n. 19, ha previsto che possono essere
realizzati in base a semplice denunzia d'inizio attività,
tra gli altri, “i mutamenti di destinazione d'uso d'immobili
o loro parti, che non comportino interventi di
trasformazione dell'aspetto esteriore, e di volumi e
superfici”.
Viceversa, restano soggetti a permesso di costruire i
mutamenti di destinazione d'uso, con opere che incidono
sulla sagoma dell'edificio o che determinano un aumento
volumetrico, che risulti compatibile, con le categorie
edilizie previste per le singole zone omogenee (comma 6)
quelli con opere che incidano sulla sagoma, sui volumi e
sulle superfici, con passaggio di categoria edilizia, purché
tale passaggio sia consentito dalla norma regionale (comma
7) ovvero quelli programmati nelle zone agricole - zona E
(comma 8).
Di contro, ai sensi del comma 5, il mutamento di
destinazione d'uso senza opere, nell'ambito di categorie
compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è
libero.
Tali principi sono stati espressi anche da questa Sezione
(TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.11.2010 n.
23752) che ha distinto tra:
I) mutamento d'uso “funzionale” di un locale, inteso quale
variazione di destinazione degli immobili non implicante la
realizzazione di opere edilizie, per il quale non è
necessario il permesso di costruire: difatti, lo stesso è
espressione dello “ius utendi” e non già dello “ius aedificandi” (TAR Lazio, Latina,
04.05.2010 n. 686);
II) mutamento di destinazione d'uso non già funzionale,
bensì “strutturale” (e, cioè, connesso e conseguente
all'esecuzione di opere) il quale, al contrario, necessita
di apposito titolo concessorio il cui difetto legittima la
demolizione delle opere stesse: al riguardo si è osservato
che in detta evenienza rileva il profilo risultante dalla
combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di
destinazione d'uso del fabbricato interessato ai lavori e la
realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché andranno
considerate abusive, qualora realizzate in assenza del
titolo edilizio, non solo le opere di costruzione vere e
proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto
modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova
destinazione (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
16.04.2014 n. 2174 -
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EDILIZIA
PRIVATA: Secondo
consolidata e condivisibile giurisprudenza, l’accertamento
di conformità di cui all'art. 36 del D.P.R. 380/2001 va
effettuato su iniziativa dell'interessato e non
dell'amministrazione: ciò in quanto la normativa urbanistica
non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare
l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità
atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte
interessata l'attivazione del procedimento di accertamento
di conformità urbanistica.
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Secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza
amministrativa, a giustificare il provvedimento di
ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente
un'analitica descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra
indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento,
ivi compresa quella relativa alle aree pertinenziali in
quanto la corretta determinazione di queste ultime dovrà
avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del
Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorquando
sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di
cui all'art. 31 del T.U. Edilizia, un sub-procedimento
specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle
aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma.
Infine, non hanno pregio
le ulteriori doglianze illustrate nel ricorso, secondo cui
l’amministrazione avrebbe omesso qualsivoglia verifica
diretta a scrutinare l’eventuale sanabilità delle opere e
non avrebbe dettagliatamente indicato l’area pertinenziale
dell’opera abusiva da acquisire in caso di inottemperanza
all’ordine demolitorio.
Sul primo profilo, si rammenta che, secondo consolidata e
condivisibile giurisprudenza, l’accertamento di conformità
di cui all'art. 36 del D.P.R. 380/2001 va effettuato su
iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VI,
06.11.2008 n.
19290; TAR Lazio, Roma, 04.09.2009 n. 8389): ciò in
quanto la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in
capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione,
di verificarne la sanabilità atteso che è rimessa
all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica.
Sull’ultimo rilievo è agevole rilevare che, secondo il
prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa
(TAR Campania Napoli, Sez. VII, 14.01.2011 n. 164;
Sez. VI, 09.11.2009 n. 7053; Sez. IV, 26.06.2009 n.
3530), a giustificare il provvedimento di ingiunzione a
demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione
delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire
al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del
provvedimento, ivi compresa quella relativa alle aree pertinenziali in quanto la corretta determinazione di queste
ultime dovrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento,
da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione,
allorquando sarà avviato, nell'ambito del procedimento
sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. Edilizia, un
sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa
individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai
sensi del terzo comma (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
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EDILIZIA
PRIVATA:
Le controversie in tema di determinazione e
quantificazione degli oneri concessori sono relative ad atti
paritetici adottati dalla Pubblica amministrazione ed
ineriscono diritti soggettivi di natura patrimoniale, per
cui alcuna decadenza può ritenersi maturata per effetto
della mancata contestazione dell’atto con cui a suo tempo
gli oneri sono stati indicati come dovuti.
Inoltre deve escludersi che l’intervenuto pagamento dei
contributi connessi al rilascio di un permesso di costruire
possa costituire in qualche modo acquiescenza sulla debenza
delle relative somme, precludendone la tutela
giurisdizionale contro gli atti relativi.
Va difatti osservato al riguardo che il pagamento delle
predette somme non denota l’univoca intenzione di rinunciare
a contestare la loro liquidazione, né a richiederne il
rimborso, in tutto o in parte, dovendo esso piuttosto essere
considerato quale espressione della connaturale esigenza
dell’attività imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza
indugi, alla realizzazione dell’opera progettata. Oltretutto
è da considerare che il pagamento senza riserva del
contributo urbanistico non può comportare acquiescenza
rispetto all’atto di liquidazione, dal momento che il
permesso di costruire non può essere rilasciato ove non ne
sia stato effettuato il versamento.
Con l’ordinanza
ingiunzione n. 11 del 2.01.2006 oggetto di contestazione il
Comune di Telese, ha ingiunto alla ricorrente, per il
rilascio in suo favore della concessione edilizia n. 32
dell’11.04.1995, il pagamento della complessiva somma di
euro 97.893,05 cosi determinata: euro 39.698,32 quale
importo dovuto a titolo di “oneri di costruzione”, euro
39.698,32 quale maggiorazione per sanzioni, euro 18.486,91
per interessi di mora, ed euro 9,50 per spese postali.
E’ da precisare che la Concessione edilizia n. 32 citata
quantificava il contributo dovuto per oneri di
urbanizzazione nella misura di lire 50.897.870, dando atto
dell’intervenuto versamento della prima rata di lire
5.897.870, e si riservava di applicare il contributo
relativo agli oneri di costruzione di cui all’art 6 della
legge n. 10/1977.
Preliminarmente non può accedersi all’eccezione
sollevata dal Comune secondo cui la società ricorrente,
avendo ottemperato al versamento della prima rata degli
oneri di urbanizzazione, avrebbe riconosciuto di essere
obbligata agli esborsi per cui è causa e per tale ragione
sarebbe privata della legittimazione a contestarne la
debenza.
Si è innanzi chiarito che le controversie in tema di
determinazione e quantificazione degli oneri concessori sono
relative ad atti paritetici adottati dalla Pubblica
amministrazione ed ineriscono diritti soggettivi di natura
patrimoniale, per cui alcuna decadenza può ritenersi
maturata per effetto della mancata contestazione dell’atto
con cui a suo tempo gli oneri sono stati indicati come
dovuti.
Inoltre deve escludersi che l’intervenuto pagamento dei
contributi connessi al rilascio di un permesso di costruire
possa costituire in qualche modo acquiescenza sulla debenza
delle relative somme, precludendone la tutela
giurisdizionale contro gli atti relativi.
Va difatti
osservato al riguardo che il pagamento delle predette somme
non denota l’univoca intenzione di rinunciare a contestare
la loro liquidazione, né a richiederne il rimborso, in tutto
o in parte, dovendo esso piuttosto essere considerato quale
espressione della connaturale esigenza dell’attività
imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla
realizzazione dell’opera progettata. Oltretutto è da
considerare che il pagamento senza riserva del contributo
urbanistico non può comportare acquiescenza rispetto
all’atto di liquidazione, dal momento che il permesso di
costruire non può essere rilasciato ove non ne sia stato
effettuato il versamento (Tar Lazio Roma sez. II 17.05.2005
n. 3488; Cons. St. sez. V 26.03.1996 n. 296; Cons. St. sez.
V 26.03.1996 n. 296)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
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PRIVATA:
Ritiene il Collegio di
condividere l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza
secondo cui, per le sanzioni per ritardato pagamento degli
oneri concessori, trova applicazione l'art. 28, L. n.
689/1981 che fissa in cinque anni il termine di prescrizione
del diritto a riscuotere le somme di denaro dovute a tale
titolo volte a colpire l'inesatta osservanza di un obbligo
contributivo posto a carico del concessionario e non
correlate in via immediata alla protezione di un interesse
urbanistico ambientale.
Non a caso la Corte dei Conti ha chiarito che in ipotesi di
ritardata riscossione dei contributi in questione non è
configurabile un danno per mancata esazione di interessi e
rivalutazione monetaria sui contributi stessi, proprio
perché la conseguenza del ritardo è sanzionata dalle
specifiche sanzioni amministrative pecuniarie di cui al
citato art. 3 l. 47/1985.
Ed invero, il suddetto art. 28, che fissa in cinque anni il
termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme
dovute, in virtù della disposta estensione prevista
dall'art. 12 della stessa legge, si applica a tutte le
sanzioni amministrative di tipo afflittivo, tra le quali
deve essere ricompresa anche quella conseguente al ritardato
od omesso versamento dei contributi afferenti la concessione
edilizia (oggi, permesso di costruire), atteso che
l'irrogazione della stessa, essendo volta a sanzionare la
non puntuale osservanza dell'obbligo contributivo, presenta
di certo carattere afflittivo, e ciò la prefigura svincolata
da ogni forma di protezione diretta dell'interesse di natura
urbanistica.
Pertanto, a norma dell’art. 28 della legge n. 689 cit. il
"...diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni
indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di
cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la
violazione".
L’eccezione è fondata
limitatamente all’intervenuta prescrizione estintiva del
credito relativo al pagamento della sanzione amministrativa
pari al 100% della somma ingiunta per il ritardato pagamento
irrogata ai sensi dell’art. 42 del d.p.r. n. 380/2001.
Con riferimento al termine di prescrizione applicabile, non
v’è dubbio che la misura rivesta natura sanzionatoria tenuto
conto dell’afflittività della medesima nonché della
progressività percentuale stabilita dalla legge in misura
decisamente esuberante rispetto al tasso degli interessi
moratori, e direttamente proporzionale al ritardo accumulato
dal debitore, fino al limite massimo del 100% del contributo
di costruzione nella versione di cui all’art. 3 della legge
n. 47/1985, ridotta al 40% nella formulazione di cui
all’art. 42 del d.p.r. n. 380/2001.
Stante la natura sanzionatoria della misura in questione
ritiene il Collegio di condividere l’indirizzo maggioritario
della giurisprudenza secondo cui, per le sanzioni per
ritardato pagamento degli oneri concessori, trova
applicazione l'art. 28, L. n. 689/1981 che fissa in cinque
anni il termine di prescrizione del diritto a riscuotere le
somme di denaro dovute a tale titolo volte a colpire
l'inesatta osservanza di un obbligo contributivo posto a
carico del concessionario e non correlate in via immediata
alla protezione di un interesse urbanistico ambientale. Non
a caso la Corte dei Conti ha chiarito che in ipotesi di
ritardata riscossione dei contributi in questione non è
configurabile un danno per mancata esazione di interessi e
rivalutazione monetaria sui contributi stessi, proprio
perché la conseguenza del ritardo è sanzionata dalle
specifiche sanzioni amministrative pecuniarie di cui al
citato art. 3 l. 47/1985 (Corte conti, Sez. giur. Calabria,
14.05.1993, n. 20).
Ed invero, il suddetto art. 28, che
fissa in cinque anni il termine di prescrizione del diritto
a riscuotere le somme dovute, in virtù della disposta
estensione prevista dall'art. 12 della stessa legge, si
applica a tutte le sanzioni amministrative di tipo
afflittivo, tra le quali deve essere ricompresa anche quella
conseguente al ritardato od omesso versamento dei contributi
afferenti la concessione edilizia (oggi, permesso di
costruire), atteso che l'irrogazione della stessa, essendo
volta a sanzionare la non puntuale osservanza dell'obbligo
contributivo, presenta di certo carattere afflittivo, e ciò
la prefigura svincolata da ogni forma di protezione diretta
dell'interesse di natura urbanistica (cfr. Tar Napoli
sez. I n. 2394 del 25.03.2009; Tar Campania Salerno, II, n. 552
del 16.01.2014; Tar Campania Salerno 22.04.2005, n.
647; TAR Lombardia-Milano n. 7719 del 12.12.2000; TAR Abruzzo-L’Aquila n. 159 del 10.04.2000; TAR Puglia-Bari n.
680 del 24.06.1999; TAR Puglia-Bari n. 634 del 09.10.1996;
TAR Puglia-Lecce n. 670 del 07.11.1991 Tar Calabria
Catanzaro, sez. I, 14.04.2011, n. 522; Cass. Civ. sez. I
06.11.2006 n. 23633; Tar Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza
13.07.2012 n. 2002; TAR Liguria, Sez. I, sentenza 01.02.2012
n. 237; TAR Cagliari, sent. n. 70/2008; TAR Catanzaro, sent.
n. 1514/2001; TAR Catania, sent. n. 701/2006).
Pertanto, a norma dell’art. 28 della legge n. 689 cit. il
"...diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni
indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di
cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la
violazione" (cfr., in proposito, C.d.S., VI, 15.11.2004, n. 7405; C.d.S., IV,
04.02.2004, n. 395; e
C.d.S., IV, 06.10.2003, n. 5875).
Sicché, la violazione in esame viene a coincidere con
l’inadempimento all’obbligo di corrispondere il pagamento
del contributo di costruzione in argomento, che, secondo le
previsioni di cui all’art. 3 della legge n. 47/1985
applicata ratione temporis, presuppone un ritardo superiore
a 240 giorni per il caso di sanzione applicata nella misura
del 100% dell’importo dovuto.
A sua volta l’art. 11, comma 2, della legge n. 10/1977 (poi
riprodotto dall’art. 16, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001)
stabilisce che la quota di contributo di cui al precedente
articolo 6, ossia quella relativa al costo di costruzione, è
determinata all'atto del rilascio della concessione ed è
corrisposta in corso d'opera con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune e, comunque, non oltre sessanta giorni
dalla ultimazione delle opere.
Nella specie si è innanzi chiarito che all’atto del rilascio
della concessione edilizia il Comune si è riservato di
quantificare in un momento successivo l’ammontare del costo
di costruzione e, dagli atti risulta che, con la richiesta
di pagamento notificata alla società ricorrente in data
11.02.1997 il Comune ha richiesto il pagamento dell’importo
del contributo commisurato all’incidenza del costo di
costruzione dell’intervento, stabilendo che l’importo doveva
essere quantificato tenendo conto delle tabelle di cui al
d.m. 10.05.1977 e della delibera di Giunta Municipale n. 475
del 23.11.1995, e che l’importo poteva essere rateizzato in
sei rate semestrali pagando la prima rata entro 60 giorni
dal ricevimento della intimazione medesima
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
16.04.2014 n. 2170 -
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PRIVATA:
Per il credito circa la quota afferente il costo di
costruzione vige il termine
ordinario di prescrizione decennale di cui all’art. 2946
c.c., che, ai sensi dell’art. 2936 c.c. comincia a decorrere
dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Quanto al dies a quo di decorrenza del termine
prescrizionale in esame si osserva che una parte della
giurisprudenza di merito sostiene che il diritto alla
corresponsione della quota parte degli oneri relativi al
contributo di costruzione può essere fatto valere dal
Comune, in caso di inadempimento, una volta che siano
decorsi sessanta giorni dalla data di ultimazione dei
lavori. Ciò in quanto l’art. 16, comma 3, stabilisce che la
quota di contributo relativa al costo si costruzione è
corrisposta in corso d’opera e comunque non oltre sessanta
giorni dall’ultimazione della costruzione.
Sicché si sostiene che è da questa data, o da quella
successiva in cui l’opera è stata effettivamente ultimata, e
non prima, che il diritto di credito diventa esigibile ed il
Comune può farlo valere ed azionarlo legittimamente nei
confronti del soggetto obbligato.
D’altra parte si è affermato che, poiché in base all'art.
11, l. 28.01.1977 n. 10 la quota del contributo
relativo al costo di costruzione deve essere determinata
all'atto del rilascio della concessione edilizia, il
rilascio della concessione coincide con il momento in cui
sorge l'obbligazione contributiva. Ed infatti, la
disposizione dell'art. 11 della legge n. 10 del 1977, in
tema di "Versamento del contributo afferente alla
concessione", stabilisce che: "La quota di contributo di
cui al precedente articolo 6 è determinata all'atto del
rilascio della concessione ed è corrisposta in corso d'opera
con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e,
comunque, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione delle
opere".
Da tale norma si desume, invero, che il fatto
costitutivo dell'obbligo giuridico del titolare della
concessione edilizia, di versare il contributo previsto, è
rappresentato dal rilascio della concessione medesima, ed è
a tale momento, quindi, che occorre aver riguardo per la
determinazione dell'entità del contributo, divenendo il
relativo credito certo, liquido o agevolmente liquidabile ed
esigibile.
Sulla base di tale orientamento
alcun rilievo può assumere la circostanza che il Comune sia
sia espressamente riservato la facoltà di stabilire modalità
e garanzie per il pagamento del contributo, atteso che
l'atto di imposizione non ha carattere autoritativo ma si
risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo
di precedenti provvedimenti di carattere generale, e la sua
mancata tempestiva adozione non implica alcun potere
dell'Amministrazione di differire il suo diritto di credito,
configurandosi piuttosto come mancato esercizio del diritto
stesso, idoneo a far decorrere il periodo di prescrizione.
A diverse conclusioni
deve pervenirsi quanto all’eccezione di prescrizione
ordinaria del credito azionato dall’amministrazione con
l’ordinanza ingiunzione in questione avente ad oggetto la
corresponsione del contributo di costruzione.
Si è innanzi anticipato che, nella determinazione delle
somme dovute a titolo di oneri concessori, l’amministrazione
non esercita poteri autoritativi discrezionali ma compie
attività di mero accertamento della fattispecie in base ai
parametri fissati da leggi e da regolamenti, per cui le
relative controversie rientrano nella categoria di quelle
aventi ad oggetto atti paritetici, inerenti diritti
soggettivi (Cons. St. Sez., sez. V, 17.10.2002, n.
5678).
Per il credito in questione vige pertanto il termine
ordinario di prescrizione decennale di cui all’art. 2946
c.c., che, ai sensi dell’art. 2936 c.c. comincia a decorrere
dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Quanto al dies a quo di decorrenza del termine
prescrizionale in esame si osserva che una parte della
giurisprudenza di merito sostiene che il diritto alla
corresponsione della quota parte degli oneri relativi al
contributo di costruzione può essere fatto valere dal
Comune, in caso di inadempimento, una volta che siano
decorsi sessanta giorni dalla data di ultimazione dei
lavori. Ciò in quanto l’art. 16, comma 3, stabilisce che la
quota di contributo relativa al costo si costruzione è
corrisposta in corso d’opera e comunque non oltre sessanta
giorni dall’ultimazione della costruzione.
Sicché si
sostiene che è da questa data, o da quella successiva in cui
l’opera è stata effettivamente ultimata, e non prima, che il
diritto di credito diventa esigibile ed il Comune può farlo
valere ed azionarlo legittimamente nei confronti del
soggetto obbligato (TAR Potenza Basilicata sez. I, 08.03.2013 n. 126; TAR Catanzaro Calabria sez. I 14.04.2011 n. 522; TAR Cagliari Sardegna sez. II 14.01.2008
n. 9; Tar Napoli Campania sez. II 11.07.2006 n. 7392; Tar Perugia Umbria 23.06.2003 n. 512).
D’altra parte si è affermato che, poiché in base all'art.
11, l. 28.01.1977 n. 10 la quota del contributo
relativo al
costo di costruzione
deve essere determinata
all'atto del rilascio della concessione edilizia, il
rilascio della concessione coincide con il momento in cui
sorge l'obbligazione contributiva. Ed infatti, la
disposizione dell'art. 11 della legge n. 10 del 1977, in
tema di "Versamento del contributo afferente alla
concessione", stabilisce che: "La quota di contributo di
cui al precedente articolo 6 è determinata all'atto del
rilascio della concessione ed è corrisposta in corso d'opera
con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e,
comunque, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione delle
opere".
Da tale norma si desume, invero, che il fatto
costitutivo dell'obbligo giuridico del titolare della
concessione edilizia, di versare il contributo previsto, è
rappresentato dal rilascio della concessione medesima, ed è
a tale momento, quindi, che occorre aver riguardo per la
determinazione dell'entità del contributo, divenendo il
relativo credito certo, liquido o agevolmente liquidabile ed
esigibile (cfr. Cons. St. Sez. IV 06.06.2008, n. 2686
Consiglio Stato sez. V 13.06.2003 n. 3332; Consiglio
Stato sez. IV 16.01.2009; TAR Catania Sicilia sez. I
02.10.2003 n. 1502).
Sulla base di tale orientamento
alcun rilievo può assumere la circostanza che il Comune sia
sia espressamente riservato la facoltà di stabilire modalità
e garanzie per il pagamento del contributo, atteso che
l'atto di imposizione non ha carattere autoritativo ma si
risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo
di precedenti provvedimenti di carattere generale, e la sua
mancata tempestiva adozione non implica alcun potere
dell'Amministrazione di differire il suo diritto di credito,
configurandosi piuttosto come mancato esercizio del diritto
stesso, idoneo a far decorrere il periodo di prescrizione
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
16.04.2014 n. 2170 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
Come espressamente stabilito dall’art. 15, comma
3, del d.p.r. n. 380/2001, riproduttivo del comma 5
dell’art. 4 della legge n. 10/1977 vigente ratione temporis,
la mancata ultimazione dell’intervento nei termini stabiliti
resta subordinata al rilascio di un nuovo permesso di
costruire per la parte non ultimata.
Sicché la mancata ultimazione dei lavori di costruzione nel
termine stabilito dalla concessione determina la necessità
per il titolare della concessione, di chiedere il rilascio
di una nuova concessione edilizia, per ultimare i lavori
edilizi assentiti.
Tale nuova concessione è indubitabilmente assoggettata agli
obblighi di natura urbanistica e patrimoniale previsti dalla
normativa in materia alla data del relativo rilascio,
incluso l’obbligo di attualizzazione del contributo
concessorio secondo i parametri di riferimento vigenti in
tale data.
Va rilevato innanzitutto
che, come espressamente stabilito dall’art. 15, comma 3, del
d.p.r. n. 380/2001, riproduttivo del comma 5 dell’art. 4
della legge n. 10/1977 vigente ratione temporis, la mancata
ultimazione dell’intervento nei termini stabiliti resta
subordinata al rilascio di un nuovo permesso di costruire
per la parte non ultimata.
Sicché la mancata ultimazione dei lavori di costruzione nel
termine stabilito dalla concessione determina la necessità
per il titolare della concessione, di chiedere il rilascio
di una nuova concessione edilizia, per ultimare i lavori
edilizi assentiti. Tale nuova concessione è indubitabilmente
assoggettata agli obblighi di natura urbanistica e
patrimoniale previsti dalla normativa in materia alla data
del relativo rilascio, incluso l’obbligo di attualizzazione
del contributo concessorio secondo i parametri di
riferimento vigenti in tale data.
Difatti il fabbricato oggetto della prima concessione
edilizia in quanto realizzato “al rustico” non poteva
ritenersi ultimato.
Suggestiva risulta la tesi difensiva secondo cui il
presupposto sostanziale dei contributi di concessione è la
sussistenza di un carico urbanistico, per cui le opere che
non inducono un nuovo carico urbanistico gravante sul
territorio e nemmeno lo ampliano, come nel caso di specie,
dovrebbero essere esenti da contribuzione.
Tuttavia tale assunto viene smentito dalla circostanza che
il contributo relativo al costo di costruzione, a differenza
degli oneri di urbanizzazione, non concorre alla
realizzazione delle infrastrutture pubbliche a servizio
della nuova opera, ma sorge semplicemente a fronte
dell’incremento del patrimonio del titolare del permesso, e
dunque della sua capacità contributiva, conseguente
all’intervento edilizio.
Inoltre la fattispecie in esame non rientra in alcuno dei
casi di esenzione o gratuità della concessione contemplati
dall’art. 9 della legge n. 10/1977 che riconosce il diritto
all’esenzione nei casi di interventi di manutenzione
straordinaria, restauro risanamento conservativo,
ristrutturazione e ampliamento in misura non superiore al
20% di edifici unifamiliari, modifiche interne o
realizzazione di volumi tecnici indispensabili per esigenze
abitative.
I casi di gratuità o di esenzione costituiscono difatti
fattispecie eccezionali e di stretta interpretazione, per
cui non è consentita all’interprete l’individuazione in via
pretoria di ulteriori ipotesi non previste dalla legge, ivi
inclusi i casi di fabbricati non ultimati sulla base di una
precedente concessioni edilizia.
In ogni caso parte ricorrente non ha nemmeno dimostrato
quale fosse l’effettivo stato di avanzamento dei lavori, né
ha comprovato l’assunto secondo cui il progetto di
completamento del fabbricato, sulla cui base il Comune ha
calcolato gli oneri in esame, non apportava alcun elemento
di novità rispetto a quanto previsto dalla concessione
originaria.
Non può quindi sostenersi che attraverso l’ingiunzione in
oggetto il Comune abbia inteso in qualche modo indebitamente
realizzare una duplicazione di un’entrata di cui aveva già
in precedenza beneficiato
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
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EDILIZIA
PRIVATA:
Quanto alla natura degli oneri concessori, la prevalente
giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, in un primo
momento solo con riguardo agli oneri di urbanizzazione, e più di recente anche con
riferimento al costo di costruzione, ne ha affermato la natura di
obbligazioni c.d. “reali” o propter rem caratterizzate
pertanto dalla stretta inerenza alla res e destinate a
circolare unitamente ad essa per il carattere dell’ambulatorietà
che le contraddistingue.
Sulla base di tali argomentazioni la Cassazione ha difatti
affermato che l'obbligazione del pagamento degli oneri di
urbanizzazione è un’obbligazione propter rem, e che colui
che realizza opere di trasformazione edilizia ed
urbanistica, valendosi di concessione rilasciata al suo
dante causa, ha verso il Comune gli stessi obblighi che
gravano sull'originario concessionario ed è con lui
solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione.
Anche il giudice amministrativo, in relazione all’obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione, ha chiarito che essa deve
qualificarsi "propter rem" nel senso che essa va adempiuta
non solo da colui che ha stipulato la convenzione edilizia,
ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la
concessione edilizia e da colui che realizza opere di
trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della
concessione edilizia rilasciata al suo dante causa.
L’obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e la natura reale dell'obbligazione in esame
riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione,
quelli che richiedono la concessione, e quelli che
realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa.
Le argomentazioni addotte a sostegno della qualificazione
come obbligazioni propter rem degli oneri di urbanizzazione
sono state poi estese anche agli oneri relativi al costo di
costruzione nel senso che: “nulla vieta dal punto di vista
logico prima che giuridico che alle identiche conclusioni
debba pervenirsi in ordine alla parte del contributo
commisurato al costo di costruzione; questo, infatti, in uno
con gli oneri di urbanizzazione costituisce “il contributo”
per il rilascio per permesso di costruire (già c.e.) con
conseguente e doverosa disciplina unitaria ai fini che qui
interessano delle due voci in cui si viene a scomporre".
Tale orientamento, che trova
condivisione da parte di questo Collegio, ha trovato
riscontro da ultimo in una più recente decisione del
Consiglio di Stato secondo cui il presupposto di esigibilità
dell’onere relativo al costo di costruzione non risiede solo
nella materiale esecuzione delle opere ma anche nella
concreta fruizione del titolo e comunque: “le obbligazioni
per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno
trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché
nel caso di trasferimento del bene, esse gravano
sull’acquirente”.
Trattasi in sostanza di obbligazioni connotate dall’inerenza
alla cosa, anziché alla persona cui è rilasciato il permesso
di costruire, sicché tutti coloro che partecipano alla
costruzione e la utilizzano sono solidalmente obbligati
verso il Comune al pagamento degli oneri in questione.
Sotto altro profilo nemmeno fondata può dirsi
l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata
dalla società ricorrente, argomentata sul presupposto che
gli oneri sarebbero stati già assolti dalla società titolare
della concessione edilizia originaria che aveva realizzato
il fabbricato senza tuttavia portarlo a ultimazione, e che,
a suo dire, sarebbe per questo l’unico soggetto legittimato
passivo nei confronti dell’amministrazione intimata.
Al riguardo è da rilevare che la circostanza secondo cui gli
oneri di costruzione in oggetto sarebbero stati assolti
dalla società titolare della originaria concessione
edilizia, è stata decisamente contestata in atti dal Comune,
ed è restata così a livello di mera asserzione del tutto
sfornita di prova.
A ciò deve aggiungersi che, quanto alla natura degli
oneri concessori, la prevalente giurisprudenza, condivisa da
questo Collegio, in un primo momento solo con riguardo agli
oneri di urbanizzazione (Cassazione civile, sez. III, 17.06.1996, n. 5541), e più di recente anche con
riferimento al costo di costruzione (TAR Bari Puglia,
11/09/2008, n. 2078, sez. III), ne ha affermato la natura di
obbligazioni c.d. “reali” o propter rem caratterizzate
pertanto dalla stretta inerenza alla res e destinate a
circolare unitamente ad essa per il carattere dell’ambulatorietà
che le contraddistingue.
Sulla base di tali argomentazioni la Cassazione ha difatti
affermato che l'obbligazione del pagamento degli oneri di
urbanizzazione è un’obbligazione propter rem, e che colui
che realizza opere di trasformazione edilizia ed
urbanistica, valendosi di concessione rilasciata al suo
dante causa, ha verso il Comune gli stessi obblighi che
gravano sull'originario concessionario ed è con lui
solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione (Cass. Civile Sez. III, 17.06.1996, n.
5541; Sez. II 27.08.2002, n. 12571).
Anche il giudice amministrativo, in relazione all’obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione, ha chiarito che essa deve
qualificarsi "propter rem" nel senso che essa va adempiuta
non solo da colui che ha stipulato la convenzione edilizia,
ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la
concessione edilizia e da colui che realizza opere di
trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della
concessione edilizia rilasciata al suo dante causa.
L’obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e la natura reale dell'obbligazione in esame
riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione,
quelli che richiedono la concessione, e quelli che
realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa (TAR
Sicilia Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011).
Le argomentazioni addotte a sostegno della qualificazione
come obbligazioni propter rem degli oneri di urbanizzazione
sono state poi estese anche agli oneri relativi al costo di
costruzione nel senso che: “nulla vieta dal punto di vista
logico prima che giuridico che alle identiche conclusioni
debba pervenirsi in ordine alla parte del contributo
commisurato al costo di costruzione; questo, infatti, in uno
con gli oneri di urbanizzazione costituisce “il contributo”
per il rilascio per permesso di costruire (già c.e.) con
conseguente e doverosa disciplina unitaria ai fini che qui
interessano delle due voci in cui si viene a scomporre" (CGA
18.05. 2007, n. 395; cfr. Tar Puglia Bari sez. III n. 2078
dell’11.09.2008; nello stesso senso Tar Abruzzo L’Aquila
n. 879 del 23.10.2003).
Tale orientamento, che trova
condivisione da parte di questo Collegio, ha trovato
riscontro da ultimo in una più recente decisione del
Consiglio di Stato secondo cui il presupposto di esigibilità
dell’onere relativo al costo di costruzione non risiede solo
nella materiale esecuzione delle opere ma anche nella
concreta fruizione del titolo e comunque: “le obbligazioni
per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno
trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché
nel caso di trasferimento del bene, esse gravano
sull’acquirente” (cfr. Cons. Stato sez.V, n. 6333 del
12.07.2011).
Trattasi in sostanza di obbligazioni connotate dall’inerenza
alla cosa, anziché alla persona cui è rilasciato il permesso
di costruire, sicché tutti coloro che partecipano alla
costruzione e la utilizzano sono solidalmente obbligati
verso il Comune al pagamento degli oneri in questione
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
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APPALTI: Questa
Sezione ha già avuto modo di affrontare la tematica della
corrispondenza tra quota di qualificazione, quota di
partecipazione e quota di esecuzione, espressamente
dichiarando tale principio applicabile anche agli appalti di
servizi.
Si è, infatti, affermato, con considerazione condivise nella
presente sede, che la giurisprudenza ha già avuto modo di
affermare che il comma 13 dell’art. 37, applicabile anche
agli appalti di servizi, stabilisce che i concorrenti
riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le
prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento, il che comporta che deve
sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori
(o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o
della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e
quota di effettiva partecipazione al raggruppamento,
essendovi peraltro la necessità che sia l'una che l'altra
siano specificate dai componenti del raggruppamento all'atto
della partecipazione alla gara.
Si è precisato che ai fini dell'ammissione alla gara di un
raggruppamento consortile o di un' A.T.I. occorre che già
nella fase di offerta sia evidenziata la corrispondenza
sostanziale tra quote di qualificazione e quote di
partecipazione, nonché tra quote di partecipazione e quote
di esecuzione, trattandosi di obbligo costituente
espressione di un principio generale che prescinde
dall'assoggettamento o meno della gara alla disciplina
comunitaria e non consente distinzioni legate alla natura
morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), o
alla tipologia delle prestazioni, principali o secondarie,
scorporabili o unitarie.
Più in particolare, si è affermato che “l'obbligo di
specificazione in esame trova la sua ratio ... nella
necessità di assicurare alle Amministrazioni aggiudicatrici
la conoscenza preventiva del soggetto, che in concreto
eseguirà il servizio. E ciò non solo per consentire una
maggiore speditezza nella fase di esecuzione del contratto,
ma anche per l'effettuazione di ogni previa verifica sulla
competenza tecnica dell'esecutore; oltre che per evitare che
le imprese si avvalgano del raggruppamento non per unire le
rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per
aggirare le norme d'ammissione alle gare.
La regola, si soggiunge, non può non valere poi anche per le
A.T.I. costituende, che correttamente sono dunque tenute
anch'esse ad indicare, già nella fase di ammissione alla
gara, e dunque prima dell'aggiudicazione, le quote di
partecipazione di ciascuna impresa al futuro raggruppamento
e le quote di ripartizione delle prestazioni oggetto
dell'appalto, ai fini della verifica della rispondenza della
prestazione da eseguirsi ai requisiti di qualificazione
tecnico-organizzativa fatti valere secondo le relative
corrispondenti percentuali, essendo del resto evidente che
una diversa soluzione porterebbe ad un diversificato ed
ingiustificato trattamento tra le A.T.I. già formalmente
costituite e le A.T.I. costituende, che ne sarebbero
esonerate e chiamate a dimostrare l'affidabilità della loro
proposta contrattuale solo se e quando risultino
aggiudicatarie della gara.”.
Alla luce di quanto sin qui esposto, si è anche precisato
che l’indicazione delle quote di partecipazione ad un’ATI
costituenda deve indispensabilmente essere indicato in sede
di gara e non può essere desunto dalla diversa indicazione
delle quote di ripartizione delle prestazioni oggetto
dell’appalto.
Ed infatti, per un verso, l’indicazione delle quote di
partecipazione costituisce il presupposto per una compiuta
verifica della rispondenza della prestazione da eseguirsi ai
requisiti di qualificazione tecnico-organizzativa fatti
valere secondo le relative corrispondenti percentuali,
verifica che è negata dalla indicazione del solo dato
relativo alla ripartizione delle quote di esecuzione
dell’appalto, con conseguente sostanziale disapplicazione
dell’art. 37, co. 13, d.lgs. n. 163/2006.
Per altro verso, l’omissione della precisa indicazione delle
quote di partecipazione alla costituenda ATI non consentendo
–in difetto di specifica indicazione, impegno e conseguente
assunzione di responsabilità da parte delle imprese– le
corrette ed esaustive verifiche da parte
dell’amministrazione, determina una violazione della par
condicio dei concorrenti (ed in particolare tra ATI già
costituite ed ATI costituende).
D’altra parte, a fronte di una specifica indicazione
prevista dal citato art. 37, co. 13, non vi è ragione per
consentire indicazioni differenti, obbligando
l’amministrazione –in luogo di una valutazione immediata
derivante dalla chiara percezione offerta dalla indicata
(con conseguente assunzione di responsabilità) quota di
partecipazione all’ATI– a dover desumere tale quota da
indicazioni diverse.
---------------
Il Collegio ritiene che la modifica apportata al citato art.
37 d.lgs. n. 163/2006, ad opera dell’art. 1, co. 2-bis,
lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, conv. in l. 07.08.2012 n.
135, non abbia valore di norma di interpretazione autentica,
né possa ad essa essere comunque riconosciuta efficacia
retroattiva.
Giova ricordare che, per effetto delle modifiche introdotte,
il comma 13 del citato art. 37 dispone ora: “Nel caso di
lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo
devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento”, laddove il medesimo comma disponeva,
invece: “I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo
devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento.”.
Il nuovo testo della norma rende, dunque, evidente la
applicazione del principio di corrispondenza ivi enunciato
esclusivamente agli appalti di lavori, dovendosi tuttavia
ritenere condivisibile la considerazione svolta sul punto
dalla sentenza di I grado, secondo la quale “è stata
necessaria una precisa disposizione di legge per
differenziare, sul punto, la disciplina degli appalti di
lavori da quella dei servizi, con ciò significando che la
disciplina normativa precedente non era sufficiente ... alla
bisogna e che l’indirizzo giurisprudenziale consolidato ...
era conforme alla normativa vigente”.
Ed infatti, come ha già avuto modo di affermare la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la intervenuta
modifica dell’art. 37, co. 13, d.lgs. n. 163/2006 non può
avere efficacia retroattiva, per principio generale (art. 11
disp. prel. cod. civ.). Tale novellazione, non avendo
carattere ricognitivo, appare ininfluente sulle procedure
concluse o in corso, posto che già nella fase di offerta
deve essere evidenziata la corrispondenza sostanziale tra
quote di qualificazione, quote di partecipazione e quote di
esecuzione.
L’appello è infondato e deve essere,
pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza
impugnata.
Questa Sezione ha già avuto modo di affrontare (Cons. Stato,
sez. IV, 01.08.2012 n. 4406), la tematica della
corrispondenza tra quota di qualificazione, quota di
partecipazione e quota di esecuzione, espressamente
dichiarando tale principio applicabile anche agli appalti di
servizi.
Si è, infatti, affermato, con considerazione condivise nella
presente sede, che la giurisprudenza ha già avuto modo di
affermare che il comma 13 dell’art. 37, applicabile anche
agli appalti di servizi, stabilisce che i concorrenti
riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le
prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento, il che comporta che deve
sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori
(o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o
della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e
quota di effettiva partecipazione al raggruppamento,
essendovi peraltro la necessità che sia l'una che l'altra
siano specificate dai componenti del raggruppamento all'atto
della partecipazione alla gara (Cons. St., sez. III, 11.05.2011 n. 2805; in senso conforme, Cons. St., sez. IV,
27.01.2011 n. 606).
Si è precisato che ai fini dell'ammissione alla gara di un
raggruppamento consortile o di un' A.T.I. occorre che già
nella fase di offerta sia evidenziata la corrispondenza
sostanziale tra quote di qualificazione e quote di
partecipazione, nonché tra quote di partecipazione e quote
di esecuzione, trattandosi di obbligo costituente
espressione di un principio generale che prescinde
dall'assoggettamento o meno della gara alla disciplina
comunitaria e non consente distinzioni legate alla natura
morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), o
alla tipologia delle prestazioni, principali o secondarie,
scorporabili o unitarie (Cons. St., Ad. Plen., 05.07.2012
n. 26; sez. VI, 24.01.2011 n. 472; sez. IV, 27.11.2010 n. 8253).
Più in particolare, si è affermato (Cons. St., sez. III, n.
2805/2011 cit.) che “l'obbligo di specificazione in esame
trova la sua ratio ... nella necessità di assicurare alle
Amministrazioni aggiudicatrici la conoscenza preventiva del
soggetto, che in concreto eseguirà il servizio. E ciò non
solo per consentire una maggiore speditezza nella fase di
esecuzione del contratto, ma anche per l'effettuazione di
ogni previa verifica sulla competenza tecnica
dell'esecutore; oltre che per evitare che le imprese si
avvalgano del raggruppamento non per unire le rispettive
disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le
norme d'ammissione alle gare.
La regola, si soggiunge, non può non valere poi anche per le
A.T.I. costituende, che correttamente sono dunque tenute
anch'esse ad indicare, già nella fase di ammissione alla
gara, e dunque prima dell'aggiudicazione, le quote di
partecipazione di ciascuna impresa al futuro raggruppamento
e le quote di ripartizione delle prestazioni oggetto
dell'appalto, ai fini della verifica della rispondenza della
prestazione da eseguirsi ai requisiti di qualificazione
tecnico-organizzativa fatti valere secondo le relative
corrispondenti percentuali, essendo del resto evidente che
una diversa soluzione porterebbe ad un diversificato ed
ingiustificato trattamento tra le A.T.I. già formalmente
costituite e le A.T.I. costituende, che ne sarebbero
esonerate e chiamate a dimostrare l'affidabilità della loro
proposta contrattuale solo se e quando risultino
aggiudicatarie della gara.”.
Alla luce di quanto sin qui esposto, si è anche precisato
che l’indicazione delle quote di partecipazione ad un’ATI
costituenda deve indispensabilmente essere indicato in sede
di gara e non può essere desunto dalla diversa indicazione
delle quote di ripartizione delle prestazioni oggetto
dell’appalto.
Ed infatti, per un verso, l’indicazione delle quote di
partecipazione costituisce il presupposto per una compiuta
verifica della rispondenza della prestazione da eseguirsi ai
requisiti di qualificazione tecnico-organizzativa fatti
valere secondo le relative corrispondenti percentuali,
verifica che è negata dalla indicazione del solo dato
relativo alla ripartizione delle quote di esecuzione
dell’appalto, con conseguente sostanziale disapplicazione
dell’art. 37, co. 13, d.lgs. n. 163/2006.
Per altro verso, l’omissione della precisa indicazione delle
quote di partecipazione alla costituenda ATI non consentendo
–in difetto di specifica indicazione, impegno e conseguente
assunzione di responsabilità da parte delle imprese– le
corrette ed esaustive verifiche da parte
dell’amministrazione, determina una violazione della par
condicio dei concorrenti (ed in particolare tra ATI già
costituite ed ATI costituende).
D’altra parte, a fronte di una specifica indicazione
prevista dal citato art. 37, co. 13, non vi è ragione per
consentire indicazioni differenti, obbligando
l’amministrazione –in luogo di una valutazione immediata
derivante dalla chiara percezione offerta dalla indicata
(con conseguente assunzione di responsabilità) quota di
partecipazione all’ATI– a dover desumere tale quota da
indicazioni diverse.
--------------
Il Collegio ritiene, inoltre, che la modifica apportata
al citato art. 37 d.lgs. n. 163/2006, ad opera dell’art.
1, co. 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, conv. in
l. 07.08.2012 n. 135, non abbia valore di norma di
interpretazione autentica, né possa ad essa essere comunque
riconosciuta efficacia retroattiva.
Giova ricordare che, per effetto delle modifiche introdotte,
il comma 13 del citato art. 37 dispone ora:
“Nel caso di lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento”, laddove il medesimo comma disponeva,
invece:
“I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono
eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente
alla quota di partecipazione al raggruppamento.”.
Il nuovo testo della norma rende, dunque, evidente la
applicazione del principio di corrispondenza ivi enunciato
esclusivamente agli appalti di lavori, dovendosi tuttavia
ritenere condivisibile la considerazione svolta sul punto
dalla sentenza di I grado, secondo la quale “è stata
necessaria una precisa disposizione di legge per
differenziare, sul punto, la disciplina degli appalti di
lavori da quella dei servizi, con ciò significando che la
disciplina normativa precedente non era sufficiente ...
alla bisogna e che l’indirizzo giurisprudenziale consolidato
... era conforme alla normativa vigente”.
Ed infatti, come ha già avuto modo di affermare la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. III, 07.06.2013 n. 3138), la intervenuta modifica dell’art. 37, co. 13, d.lgs. n. 163/2006 non può avere efficacia
retroattiva, per principio generale (art. 11 disp. prel. cod.
civ.). Tale novellazione, non avendo carattere ricognitivo,
appare ininfluente sulle procedure concluse o in corso,
posto che –come si è già avuto modo di affermare- già
nella fase di offerta deve essere evidenziata la
corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione,
quote di partecipazione e quote di esecuzione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.04.2014 n. 1753 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Va innanzi tutto
richiamata la giurisprudenza penale che, argomentando dal
carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione
abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti
risultanti dal frazionamento non possono invocare sic et
simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo
essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi terzi
estranei all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver
adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei
doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia,
rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad
un’operazione di illecita lottizzazione.
Per converso, dal punto di vista amministrativo, un
condivisibile indirizzo di primo grado assume che è
irrilevante l’asserita buona fede degli acquirenti, i quali
in ipotesi facciano risalire la responsabilità della
lottizzazione abusiva esclusivamente ai loro danti causa,
trattandosi di una situazione in cui rileva, dal punto di
vista urbanistico, la sussistenza di un abuso oggettivo,
fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti di buona
fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede
civile nei confronti dell’alienante.
Quanto sopra rende giustizia anche degli principi in materia
di sanzioni amministrative di cui alla legge 24.11.1981, nr.
689, evocati dalle parti odierne appellanti, dal momento che
–anche ammesso che nella specie si controverta di sanzioni
riconducibili a detta disciplina- quanto rilevato in ordine
alla responsabilità penale per lottizzazione abusiva non può
non valere, stante l’identità di ratio, anche per gli
eventuali illeciti amministrativi ravvisabili nelle medesime
condotte.
Quanto all’ultimo motivo di tutti gli appelli qui riuniti, anche questo è
privo di pregio, non potendo essere utilmente invocata una
presunta buona fede degli istanti, i quali –giova
sottolinearlo– sono tutti aventi causa dal frazionamento
“in prima battuta”, e non terzi che hanno acquistato da
altri soggetti che fossero stati i primi beneficiari dello
stesso.
Al riguardo, va innanzi tutto richiamata la giurisprudenza
penale che, argomentando dal carattere contravvenzionale del
reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti
dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono
invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede,
non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi
terzi estranei all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di
aver adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei
doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia,
rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad
un’operazione di illecita lottizzazione (cfr. Cass. pen.,
sez. III, 13.02.2014, nr. 2646; id., 03.12.2013, nr. 51710; id., 27.04.2011, nr. 21853).
Per converso, dal punto di vista amministrativo, un
condivisibile indirizzo di primo grado assume che è
irrilevante l’asserita buona fede degli acquirenti, i quali
in ipotesi facciano risalire la responsabilità della
lottizzazione abusiva esclusivamente ai loro danti causa,
trattandosi di una situazione in cui rileva, dal punto di
vista urbanistico, la sussistenza di un abuso oggettivo,
fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti di buona
fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede
civile nei confronti dell’alienante.
Quanto sopra rende giustizia anche degli principi in materia
di sanzioni amministrative di cui alla legge 24.11.1981, nr. 689, evocati dalle parti odierne appellanti, dal
momento che –anche ammesso che nella specie si controverta
di sanzioni riconducibili a detta disciplina- quanto
rilevato in ordine alla responsabilità penale per
lottizzazione abusiva non può non valere, stante l’identità
di ratio, anche per gli eventuali illeciti
amministrativi ravvisabili nelle medesime condotte (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.04.2014 n. 1589 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI - EDILIZIA
PRIVATA: Sebbene in giurisprudenza sia stata, anche di
recente, affermata la competenza della Giunta in materia di
adeguamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione, reputa il
collegio di aderire all’opposto orientamento che ritiene
sussistente la competenza del Consiglio comunale.
In tal senso depone il tenore letterale dell’art. 16, comma
4, del D.P.R. n. 380/2001 che riconosce espressamente la
competenza del Consiglio comunale in materia, affermando
che: “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio
comunale in base alle tabelle parametriche che la regione
definisce per classi di comuni…”. La suddetta competenza è
ribadita dal successivo comma 5 per il caso in cui la
regione non provveda alla definizione della tabelle
parametriche e dal successivo art. 19 recante la disciplina
del contributo di costruzione per opere o impianti non
destinati alla residenza, alle quali è ascrivibile
l’intervento assentito in favore della esponente.
Deve ancora osservarsi che le menzionate disposizioni
contenute nel D.P.R. n. 380/2001 non rivestono portata
derogatoria bensì confermativa della disciplina sulle
attribuzioni del Consiglio comunale come normate all’art. 42
del d.lgs. n. 267/2000 atteso che, ai sensi della lettera
f), comma 2, del disposto normativo in esame, il Consiglio ha
competenza anche in materia di “istituzione e ordinamento
dei tributi, con esclusione della determinazione delle
relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la
fruizione dei beni e dei servizi”, e non v’è dubbio che,
anche a prescindere dalla controversa natura giuridica degli
oneri in questione, si tratti di prestazioni patrimoniali
imposte la cui disciplina, secondo un risalente principio
giuridico, spetta all’organo elettivo della comunità di
riferimento, nella specie rappresentato dal Consiglio
comunale.
Né per sostenere la tesi della competenza della Giunta
comunale vale opporre che nel caso di specie si tratterebbe
di un mero adeguamento degli importi degli oneri dovuti
poiché, in senso contrario, deve osservarsi che l’art. 16
del DPR n. 380/2001 non distingue tra determinazione degli
oneri e loro aggiornamento, limitandosi ad indicare nel
consiglio l’organo competente a provvedere in materia, in
linea con la previsione generale di cui all’art. 42, comma
2, lett. f), del d.lgs. n. 267/2000.
Al contempo la tesi della competenza della Giunta non può
fondatamente essere sostenuta facendo valere il carattere
sostanzialmente vincolato del procedimento di adeguamento
periodico degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione, atteso che, in realtà, si tratta di decisioni
comunque caratterizzate dall’esercizio di poteri
discrezionali che, per l’ampia latitudine delle valutazioni
di merito implicate e per le ricadute dirette sui diritti
dominicali degli appartenenti alle comunità di riferimento,
non possono non essere esercitati dal Consiglio in quanto
unico organo competente in materia di istituzione ed
ordinamento di tributi e di disciplina delle tariffe per la
fruizione dei servizi.
Che si tratti di esercizio di poteri discrezionali è
confermato sia dal tenore delle disposizioni normative
pertinenti che dal contenuto delle delibere in concreto
assunte dalla Giunta e contestate dalla ricorrente.
Ed infatti, ai sensi dell’art. 16, comma 6, del DPR. n.
380/2001 “Ogni cinque anni i comuni provvedono ad aggiornare
gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, in
conformità alle relative disposizioni regionali, in
relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di
urbanizzazione primaria, secondaria e generale”; nella
specie non risulta che la regione Molise abbia assunto
alcuna decisione in materia di adeguamento degli oneri di
urbanizzazione sicché l’attività posta in essere dalla
Giunta non si rivela come meramente attuativa degli
indirizzi regionali in materia.
Inoltre la norma prevede che l’aggiornamento debba essere
eseguito “in relazione ai riscontri e prevedibili costi
delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e
generale”, secondo cioè parametri tutt’altro che oggettivi
ed univoci, implicando stime di carattere presuntivo e
probabilistico certamente opinabili, tant’è che, nel caso di
specie, la Giunta nell’esercizio di un potere ampiamente
discrezionale, ha ritenuto di ancorare l’aggiornamento al
parametro della rivalutazione in ragione della variazione
intervenuta nei costi delle summenzionate opere di
urbanizzazione, peraltro pervenendo in tal modo ad un
incremento di ben il 348 per cento degli oneri di
urbanizzazione.
Ora è evidente che la scelta di un criterio, non imposto
dalla legge e neppure dagli indirizzi regionali, nella
specie non adottati, e quindi espressione di una valutazione
discrezionale e che comporta, al contempo, un incremento
degli oneri di urbanizzazione di oltre il 300%, non può
ragionevolmente essere sottratto alla competenza del
Consiglio in quanto organo responsabile della istituzione
dei tributi e della disciplina generale delle tariffe per la
fruizione dei servizi, qual è l’attività di realizzazione
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
---------------
... per l'annullamento
- del provvedimento del 1/10/2012, prot. n. 6811, a firma del
Responsabile dell’Area G.S.T. con il quale si comunica
l’accoglimento dell’istanza presentata dalla ricorrente in
data 25/01/20012 con prot. n. 663 e volta ad ottenere il
rilascio del permesso di costruire, subordinandone il
rilascio alla consegna della ricevuta di versamento dei
diritti di segreteria pari ad Euro 6.990,00, del contributo
corrispondente alla incidenza degli oneri di urbanizzazione
pari ad Euro 21.018,57 e del costo di costruzione pari ad
Euro 28.469,61 nonché della marca da bollo da Euro 14,62,
nonché
- della delibera di Giunta n. 69 del 18/06/2012 avente ad oggetto “Adeguamento
costo oneri di urbanizzazione”, della delibera di Giunta
n. 70 del 18/06/2012 avente ad oggetto “Adeguamento
tariffe costo di costruzione” e della delibera di Giunta
n. 72 del 18/06/2012 avente ad oggetto “Aggiornamento ed
istituzione nuovi diritti di segreteria. Provvedimenti”
e di ogni atto successivo, consequenziale e, comunque,
connesso.
...
La società ricorrente riferisce di avere presentato in data
25.01.2012 istanza per il rilascio di un permesso di
costruire avente ad oggetto la realizzazione di un capannone
artigianale in zona P.I.P. previamente acquistata dal Comune
di Santa Croce di Magliano e che, nelle more
dell’istruttoria, la Giunta Comunale con delibere nn. 69,
70, 72 adottate il 18.06.2012 ha provveduto ad adeguare il
costo degli oneri di urbanizzazione, le tariffe relative al
costo di costruzione ed ad aggiornare ed istituire nuovi
diritti di segreteria.
L’accoglimento dell’istanza di rilascio del permesso di
costruire è stato così condizionato al pagamento di un
importo complessivo di euro 56.467,18 che l’esponente assume
sproporzionato e comunque determinato in forza di delibere
adottate da organo incompetente essendo la materia riservata
alla competenza del Consiglio Comunale ai sensi del
combinato disposto di cui agli art. 16, comma 4, del DPR n.
380/2001 e 42, comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 267/2000.
Lamenta, al contempo, che i provvedimenti impugnati
sarebbero affetti da violazione di legge in tema di
aggiornamento degli oneri urbanistici; violazione dell’art.
3 della legge n. 241 del 1990; eccesso di potere per difetto
ed erronea motivazione; erroneità di istruttoria;
travisamento dei fatti; erronea valutazione dei presupposti;
manifesta ingiustizia; eccesso di potere.
...
Il ricorso è fondato.
Con ordinanza n. 7/2013 il collegio ha accolto la domanda
cautelare ritenendo fondata la dedotta censura di difetto di
competenza della Giunta nella determinazione del contributo
relativo agli oneri di urbanizzazione, al costo di
costruzione ed ai diritti di segreteria.
La successiva fase di merito del giudizio non ha introdotto
elementi in fatto o in diritto nuovi sicché l’orientamento
espresso dal collegio in sede cautelare deve, in questa
sede, essere confermato.
Sebbene, infatti, in giurisprudenza sia stata, anche di
recente, affermata la competenza della Giunta in materia di
adeguamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione (cfr. TAR Campania, II, n. 4206/2013), reputa il
collegio di aderire all’opposto orientamento che ritiene
sussistente la competenza del Consiglio comunale (TAR Lecce,
III, n. 2765/2010).
In tal senso depone il tenore letterale dell’art. 16, comma
4, del D.P.R. n. 380/2001 che riconosce espressamente la
competenza del Consiglio comunale in materia, affermando
che: “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio
comunale in base alle tabelle parametriche che la regione
definisce per classi di comuni…”. La suddetta competenza è
ribadita dal successivo comma 5 per il caso in cui la
regione non provveda alla definizione della tabelle
parametriche e dal successivo art. 19 recante la disciplina
del contributo di costruzione per opere o impianti non
destinati alla residenza, alle quali è ascrivibile
l’intervento assentito in favore della esponente.
Deve ancora osservarsi che le menzionate disposizioni
contenute nel D.P.R. n. 380/2001 non rivestono portata
derogatoria bensì confermativa della disciplina sulle
attribuzioni del Consiglio comunale come normate all’art. 42
del d.lgs. n. 267/2000 atteso che, ai sensi della lettera
f), comma 2, del disposto normativo in esame, il Consiglio ha
competenza anche in materia di “istituzione e ordinamento
dei tributi, con esclusione della determinazione delle
relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la
fruizione dei beni e dei servizi”, e non v’è dubbio che,
anche a prescindere dalla controversa natura giuridica degli
oneri in questione, si tratti di prestazioni patrimoniali
imposte la cui disciplina, secondo un risalente principio
giuridico, spetta all’organo elettivo della comunità di
riferimento, nella specie rappresentato dal Consiglio
comunale.
Né per sostenere la tesi della competenza della Giunta
comunale vale opporre che nel caso di specie si tratterebbe
di un mero adeguamento degli importi degli oneri dovuti
poiché, in senso contrario, deve osservarsi che l’art. 16
del DPR n. 380/2001 non distingue tra determinazione degli
oneri e loro aggiornamento, limitandosi ad indicare nel
consiglio l’organo competente a provvedere in materia, in
linea con la previsione generale di cui all’art. 42, comma
2, lett. f), del d.lgs. n. 267/2000.
Al contempo la tesi della competenza della Giunta non può
fondatamente essere sostenuta facendo valere il carattere
sostanzialmente vincolato del procedimento di adeguamento
periodico degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione, atteso che, in realtà, si tratta di decisioni
comunque caratterizzate dall’esercizio di poteri
discrezionali che, per l’ampia latitudine delle valutazioni
di merito implicate e per le ricadute dirette sui diritti
dominicali degli appartenenti alle comunità di riferimento,
non possono non essere esercitati dal Consiglio in quanto
unico organo competente in materia di istituzione ed
ordinamento di tributi e di disciplina delle tariffe per la
fruizione dei servizi.
Che si tratti di esercizio di poteri discrezionali è
confermato sia dal tenore delle disposizioni normative
pertinenti che dal contenuto delle delibere in concreto
assunte dalla Giunta e contestate dalla ricorrente.
Ed infatti, ai sensi dell’art. 16, comma 6, del DPR. n.
380/2001 “Ogni cinque anni i comuni provvedono ad aggiornare
gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, in
conformità alle relative disposizioni regionali, in
relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di
urbanizzazione primaria, secondaria e generale”; nella
specie non risulta che la regione Molise abbia assunto
alcuna decisione in materia di adeguamento degli oneri di
urbanizzazione sicché l’attività posta in essere dalla
Giunta non si rivela come meramente attuativa degli
indirizzi regionali in materia.
Inoltre la norma prevede che l’aggiornamento debba essere
eseguito “in relazione ai riscontri e prevedibili costi
delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e
generale”, secondo cioè parametri tutt’altro che oggettivi
ed univoci, implicando stime di carattere presuntivo e
probabilistico certamente opinabili, tant’è che, nel caso di
specie, la Giunta nell’esercizio di un potere ampiamente
discrezionale, ha ritenuto di ancorare l’aggiornamento al
parametro della rivalutazione in ragione della variazione
intervenuta nei costi delle summenzionate opere di
urbanizzazione, peraltro pervenendo in tal modo ad un
incremento di ben il 348 per cento degli oneri di
urbanizzazione.
Ora è evidente che la scelta di un criterio, non imposto
dalla legge e neppure dagli indirizzi regionali, nella
specie non adottati, e quindi espressione di una valutazione
discrezionale e che comporta, al contempo, un incremento
degli oneri di urbanizzazione di oltre il 300%, non può
ragionevolmente essere sottratto alla competenza del
Consiglio in quanto organo responsabile della istituzione
dei tributi e della disciplina generale delle tariffe per la
fruizione dei servizi, qual è l’attività di realizzazione
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Analoghe considerazioni valgono per la variazione del costo
di costruzione.
Deve premettersi che l’art. 16, comma 9, del D.P.R. n.
380/2001 se, da un lato, afferma che “Nei periodi
intercorrenti tra le determinazioni regionali, ovvero in
eventuale assenza di tali determinazioni, il costo di
costruzione è adeguato annualmente, ed autonomamente, in
ragione dell’intervenuta variazione dei costi di costruzione
accertata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT)”,
dall’altro, la medesima disposizione prosegue
precisando che “Il contributo afferente al permesso di
costruire comprende una quota di detto costo variabile dal 5
per cento al 20 per cento, che viene determinata dalle
regioni in funzione delle caratteristiche e delle tipologie
delle costruzioni e della loro destinazione ed ubicazione”.
Anche in questo caso, come si evince dalla parte motiva
della delibera di Giunta n. 70/2012, la Regione Molise non
ha più provveduto ad aggiornare il costo di costruzione a
partire dalla delibera di Giunta n. 4724 del 27.11.1995, ed
ha inoltre stabilito con delibera di Giunta n. 5548 del
05.12.1994 che la quota relativa al costo di costruzione
compresa nel contributo per la concessione, variabile tra un
minimo del 5 per cento ed un massimo del 20 per cento, venga
definito autonomamente dalle amministrazioni comunali.
Nella specie la Giunta comunale con la delibera n. 70/2012
ha deciso di fissare tale quota nel 5 per cento del costo di
costruzione risultante dal predetto adeguamento.
Così facendo, tuttavia, se ha da un lato applicato un
parametro vincolato nell’aggiornamento del costo di
costruzione, ancorandolo alla variazione accertata
dall’ISTAT, dall’altra ha operato una scelta di merito in
ordine alla determinazione della percentuale del costo di
costruzione, rilevante ai fini della determinazione del
contributo afferente il permesso di costruire, fissandola
nel 5 per cento, decisione che, in quanto ampiamente
discrezionale, non poteva non essere rimessa alla decisione
del Consiglio comunale.
Analoghe considerazioni valgono, infine, per la delibera di
Giunta n. 72 del 2012 avente ad oggetto “Aggiornamento ed
istituzione nuovi diritti di segreteria. Provvedimenti”,
atteso che nell’ambito della disciplina generale delle
tariffe per la fruizione dei servizi di cui all’art. 42,
comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 267/2000, non può non
essere rimessa al Consiglio comunale la decisione in ordine
alla istituzione di nuovi diritti di segreteria “alla
luce dell’evolversi del quadro normativo in materia di
edilizia”, sicché anche tale delibera deve ritenersi
affetta da illegittimità per vizio di incompetenza con la
conseguenza che, al pari delle prime due, merita di essere
annullata.
Da tali considerazioni discende che l’esercizio del potere
di adeguamento dei costi di urbanizzazione costituisce un
potere discrezionale e come tale è attribuito, anche in
applicazione dell’art. 42, comma 2, lett. f), del d.lgs.
267/2000, alla competenza dei consigli comunali, soprattutto
nelle fattispecie in cui la Regione abbia omesso, come nel
caso di specie, di adottare gli specifici atti di indirizzo
previsti dall’art. 16, commi 6 e 9, del DPR n. 380/2001.
In conclusione il ricorso dev’essere accolto con riferimento
al dedotto motivo di incompetenza della Giunta comunale, con
conseguente annullamento delle delibere impugnate e della
nota 01.10.2012 prot. n. 6811 nella parte in cui vengono
determinati gli oneri di urbanizzazione, il costo di
costruzione ed i diritti di segreteria, con obbligo del
Comune di rideterminarsi sul punto nel rispetto delle regole
di competenza
(TAR Molise,
sentenza 31.03.2014 n. 210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
a) in caso di ordine di demolizione delle opere
abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990
trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti
apporti partecipativi del soggetto destinatario;
b) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica ed
ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati.
Difatti, il presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione è costituito soltanto dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo
edilizio, in assenza del medesimo ovvero con variazioni
essenziali, con la conseguenza che tale provvedimento, ove
ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato
con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera,
essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
---------------
Non inficia la legittimità dell’azione amministrativa
l’esiguo tempo decorso tra il verbale di sopralluogo e
l’irrogazione dell’ingiunzione ripristinatoria.
Difatti, l’attività provvedimentale è stata posta in
applicazione degli artt. 27 e 31 del D.P.R. 380/2001 che,
come noto, riconoscono all'amministrazione comunale un
generale potere-dovere di vigilanza e controllo su tutta
l'attività urbanistica ed edilizia, del tutto privo di
margini di discrezionalità siccome rivolto a reprimere gli
abusi accertati al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio non autorizzato.
Neppure può convenirsi circa la presunta esistenza di un
termine dilatorio dall’accertamento dell’abuso, decorso il
quale l’amministrazione potrebbe procedere alla irrogazione
delle sanzioni edilizie: in disparte l’assenza di
qualsivoglia fondamento normativo, tale opzione ermeneutica
collide con la descritta natura del potere di vigilanza in
materia edilizia che, una volta soddisfatta l’esigenza di
adeguata verifica dell’abuso, va esercitato entro un
ristretto arco temporale al fine di ripristinare celermente
l’ordine urbanistico violato.
---------------
L'accertamento di conformità ex art. 36 DPR 380/2001 va
effettuato su iniziativa dell'interessato e non
dell'amministrazione.
Ed invero la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in
capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione,
di verificarne la sanabilità, atteso che è rimessa
all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di sanatoria.
Il ricorso è manifestamente infondato.
La censure (sviluppate con il primo ed il quarto motivo di
gravame) che attengono alla violazione delle garanzie
partecipative prescritte dalla L. 241/1990 e alla omessa
specificazione dell’interesse pubblico al ripristino si
infrangono contro il granitico indirizzo pretorio, dal quale
il Collegio non ritiene di discostarsi, secondo cui:
a) in
caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è
necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai
sensi dell’art. 7 della L. 241/1990 trattandosi di atto
dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario (ex multis, TAR Campania, Napoli,
Sez. VIII Napoli, 18.12.2013 n. 5811; 29.01.2009
n. 5001);
b) l’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura
urbanistica ed ambientale, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati.
Difatti, il presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla
constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal
titolo edilizio, in assenza del medesimo ovvero con
variazioni essenziali, con la conseguenza che tale
provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata
abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse
pubblico alla sua rimozione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.04.2004 n. 2529; TAR Campania Napoli, Sez. IV,
02.12.2004 n. 18085).
Non ha pregio il secondo motivo di diritto con il quale i
ricorrenti deducono il difetto di motivazione ed osservano
che la contestazione dell’illecito edilizio sarebbe avvenuta
in un ristretto arco temporale rispetto alla data di
accertamento dell’abuso (verbale di accertamento del 06.02.2007 – ordine demolizione del 13.02.2007).
Quanto al difetto di motivazione, si osserva che nell’atto
sono specificate le ragioni poste a fondamento del gravato
ordine demolitorio, controvertendosi appunto di un manufatto
abusivo realizzato in zona agricola in mancanza di permesso
di costruire.
Inoltre non inficia la legittimità dell’azione
amministrativa l’esiguo tempo decorso tra il verbale di
sopralluogo e l’irrogazione dell’ingiunzione ripristinatoria.
Difatti, l’attività provvedimentale è stata posta in
applicazione degli artt. 27 e 31 del D.P.R. 380/2001 che,
come noto, riconoscono all'amministrazione comunale un
generale potere-dovere di vigilanza e controllo su tutta
l'attività urbanistica ed edilizia, del tutto privo di
margini di discrezionalità siccome rivolto a reprimere gli
abusi accertati al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio non autorizzato (ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.01.2013 n. 62).
Neppure può convenirsi circa la presunta esistenza di un
termine dilatorio dall’accertamento dell’abuso, decorso il
quale l’amministrazione potrebbe procedere alla irrogazione
delle sanzioni edilizie: in disparte l’assenza di
qualsivoglia fondamento normativo, tale opzione ermeneutica
collide con la descritta natura del potere di vigilanza in
materia edilizia che, una volta soddisfatta l’esigenza di
adeguata verifica dell’abuso, va esercitato entro un
ristretto arco temporale al fine di ripristinare celermente
l’ordine urbanistico violato.
Con il terzo motivo di diritto gli esponenti assumono che
l’ente locale, prima di adottare il provvedimento
demolitorio, avrebbe dovuto verificare preliminarmente la
sanabilità del manufatto de quo ai sensi dell’art. 36 del
T.U. Edilizia.
L’argomentazione è priva di pregio.
In primo luogo, a fronte della dichiarata abusività
dell’opera (che, si rammenta, è stata realizzata in zona
agricola ed in difetto di titolo abilitativo), i ricorrenti
non hanno in alcun modo comprovato la conformità rispetto
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda ai sensi dell’art. 36
D.P.R. 380/2001, onde la censura si appalesa generica e
priva di alcun riscontro probatorio.
In ogni caso, si aggiunga che l'accertamento di conformità
di cui alla richiamata disposizione va effettuato su
iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione
(TAR Lazio, Roma, 04.09.2009 n. 8389). Ed invero la
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al
Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità, atteso che è rimessa
all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di sanatoria (TAR Campania
Napoli, Sez. VI, 06.11.2008 n. 19290)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 26.03.2014 n. 1787 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive
e i successivi provvedimenti connessi e/o conseguenti non
devono essere preceduti dall'avviso di cui all’art. 7 della
L. n. 241/1990, trattandosi di atti dovuti, che vengono
emessi quale sanzione, rispettivamente, per l’accertamento
dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche e per
l’inottemperanza dell’ingiunzione di rimessa in pristino,
secondo un procedimento di natura vincolata, disciplinato
rigidamente dalla legge.
Si aggiunga che l'omessa comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241 non inficia la
legittimità del provvedimento acquisitivo anche alla luce di
quanto stabilito dall’art. 21-octies, secondo comma, della
L. 241/1990 secondo cui “Non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
---------------
L’inottemperanza all'ordine di demolizione costituisce
presupposto e condizione per l'acquisizione del bene al
patrimonio comunale che è non solo gratuita, ma opera "di
diritto" (cfr. art. 31, terzo comma, del T.U. Edilizia) e di
conseguenza il provvedimento comunale di acquisizione non
soltanto costituisce un atto dovuto, ma ha carattere
meramente dichiarativo, in quanto l'acquisizione avviene,
per l'appunto, automaticamente per effetto dell'accertata
inottemperanza all'ordine di demolizione.
---------------
Com'è noto, la procedura disciplinata dall’art. 31 del
D.P.R. 380/2001 (e ancor prima, dall’art. 7 della L.
47/1985) prevede tale sequenza amministrativa:
- l'autorità comunale, accertato l'abuso edilizio, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell'abuso la demolizione
dell'immobile abusivo;
- se il responsabile non provvede alla demolizione nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, l'immobile è
acquisito di diritto gratuitamente al patrimonio comunale;
- l'autorità comunale accerta formalmente l'inottemperanza
all'ordine di demolizione e notifica detto accertamento
all'interessato;
- la notifica dell'accertamento costituisce titolo per
l'immissione nel possesso da parte del comune e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
Orbene, dal tenore letterale dell’art. 31, terzo comma
(secondo cui "se il responsabile dell'abuso non provvede
alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area
di sedime ... sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune") risulta evidente che l'effetto
ablatorio si verifica ope legis per effetto dell’inutile
scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione
di demolire, mentre la notifica dell'accertamento formale
dell'inottemperanza si configura solo come titolo necessario
per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei
registri immobiliari (cfr. art. 31, quarto comma:
"l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica
all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che
deve essere eseguita gratuitamente").
Del resto, questa interpretazione letterale risponde
perfettamente alla logica degli istituti giuridici che
connotano la specifica disciplina.
La scadenza del termine per ottemperare configura il
presupposto per l'applicazione automatica della sanzione
amministrativa, che consiste nel trasferimento coattivo
all'ente comunale della proprietà sull'immobile non
demolito. Scopo evidente di questa sanzione è quello di
consentire all'ente pubblico di provvedere d'ufficio alla
demolizione dell'immobile a spese del responsabile
dell'abuso, salvo che si accerti in concreto un prevalente
interesse pubblico alla conservazione dell'immobile stesso
(dell'art. 31, quinto comma). Tuttavia, anche dopo il
trasferimento all'ente comunale della proprietà e del
relativo jus possidendi, può capitare che il privato
responsabile dell'abuso non voglia spontaneamente spogliarsi
del possesso (jus possessionis), sicché l'ente comunale che
intenda procedere concretamente alla demolizione, dovrà
notificare formalmente all'interessato l'accertamento della
inottemperanza alla ingiunzione, in tal modo acquisendo il
titolo per l'immissione in possesso contro il privato
possessore.
Infine, per quanto riguarda i rapporti con i terzi, la
predetta notifica dell'accertamento di inottemperanza
consente all'ente comunale di trascrivere il trasferimento
della proprietà nei registri immobiliari al fine di poter
opporre ai sensi dell'art. 2644 cod. civ., il trasferimento
stesso ai terzi che abbiano acquistato diritti
sull'immobile.
Peraltro, è questo il prevalente indirizzo della
giurisprudenza amministrativa e della giurisprudenza penale
di legittimità secondo cui la notifica del verbale di
accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione, non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi
a constatare l'inadempimento all'ingiunzione di ripristino:
quindi, non è necessario che lo stesso venga notificato al
responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento
con cui si dispone l'acquisizione gratuita, rilevando
l'adempimento della notifica all'interessato
dell'accertamento formale dell'inottemperanza unicamente
allo scopo di consentire all'ente locale l'immissione in
possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del
titolo dell'acquisizione.
---------------
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce
una misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di
demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo
trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né l'affidamento
eventualmente riposto dall'interessato sulla legittimità
delle opere realizzate, né infine l'assenza di motivazione
specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite
attraverso l'acquisizione.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto
per quanto di ragione.
Non coglie nel segno la prima censura con la quale parte
ricorrente lamenta l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento amministrativo culminato con l’adozione
dell’impugnato provvedimento acquisitivo.
Ed invero, secondo consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa, l'ordine di demolizione di
opere edilizie abusive e i successivi provvedimenti connessi
e/o conseguenti non devono essere preceduti dall'avviso di
cui all’art. 7 della L. n. 241/1990, trattandosi di atti
dovuti, che vengono emessi quale sanzione, rispettivamente,
per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni
urbanistiche e per l’inottemperanza dell’ingiunzione di
rimessa in pristino, secondo un procedimento di natura
vincolata, disciplinato rigidamente dalla legge (ex multis
Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.09.2008 n. 465;
TAR Lombardia, Brescia, I, 17.01.2011 n. 69; TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 10.12.2007 n. 15871).
Si aggiunga che l'omessa comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241 non inficia
la legittimità del provvedimento acquisitivo anche alla luce
di quanto stabilito dall’art. 21-octies, secondo comma,
della L. 241/1990 secondo cui “Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
Ciò in quanto, nel provvedimento in esame, l’amministrazione
ha richiamato l’ordinanza n. 48/2007 con la quale, come si è
visto, veniva ingiunta la demolizione delle opere edilizie
realizzate in forza del permesso di costruire n. 22/2004
annullato in sede giurisdizionale. Sotto tale profilo, la
ricorrente non ha contestato la circostanza di fatto
relativa alla mancata ottemperanza alla precitata
ingiunzione di ripristino né ha dimostrato la concreta
utilità della sua partecipazione: deve quindi concludersi
che la misura sanzionatoria adottata assumeva carattere
dovuto e contenuto vincolato in relazione ai presupposti
acclarati e, pertanto, nella vicenda in esame una specifica
comunicazione dell'avvio del procedimento era oggettivamente
superflua poiché il contenuto dell'atto non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
Va infatti rammentato in punto di diritto che
l’inottemperanza all'ordine di demolizione costituisce
presupposto e condizione per l'acquisizione del bene al
patrimonio comunale che è non solo gratuita, ma opera "di
diritto" (cfr. art. 31, terzo comma, del T.U. Edilizia) e di
conseguenza il provvedimento comunale di acquisizione non
soltanto costituisce un atto dovuto, ma ha carattere
meramente dichiarativo, in quanto l'acquisizione avviene,
per l'appunto, automaticamente per effetto dell'accertata
inottemperanza all'ordine di demolizione (TAR Campania
Napoli, sez. II, 20.02.2013 n. 918; 03.05.2010 n.
2399; 08.01.2010 n. 23; TAR Campania Napoli, Sez. III,
07.05.2008 n. 3548).
Con il secondo e terzo motivo di diritto parte ricorrente
assume, rispettivamente, l’illegittimità dell’iter
procedimentale per omessa notifica alla ricorrente del
verbale di inottemperanza all’ordine di demolizione, in
violazione dell’art. 31, quarto comma, del D.P.R. 380/2001, ed
espone che l’amministrazione avrebbe applicato una sanzione
diversa (demolizione d’ufficio) da quella normativamente
prevista dal Testo Unico in materia edilizia (acquisizione
gratuita al patrimonio comunale).
Le argomentazioni sono prive di pregio.
Invero, com'è noto, la procedura disciplinata dall’art. 31
del D.P.R. 380/2001 (e ancor prima, dall’art. 7 della L.
47/1985) prevede tale sequenza amministrativa:
- l'autorità comunale, accertato l'abuso edilizio, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell'abuso la demolizione
dell'immobile abusivo;
- se il responsabile non provvede alla demolizione nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, l'immobile è
acquisito di diritto gratuitamente al patrimonio comunale;
- l'autorità comunale accerta formalmente l'inottemperanza
all'ordine di demolizione e notifica detto accertamento
all'interessato;
- la notifica dell'accertamento costituisce titolo per
l'immissione nel possesso da parte del comune e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
Orbene, dal tenore letterale dell’art. 31, terzo comma
(secondo cui "se il responsabile dell'abuso non provvede
alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area
di sedime ... sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune") risulta evidente che l'effetto ablatorio si verifica
ope legis per effetto dell’inutile
scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione
di demolire, mentre la notifica dell'accertamento formale
dell'inottemperanza si configura solo come titolo necessario
per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei
registri immobiliari (cfr. art. 31, quarto comma:
"l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica
all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che
deve essere eseguita gratuitamente").
Del resto, questa interpretazione letterale risponde
perfettamente alla logica degli istituti giuridici che
connotano la specifica disciplina.
La scadenza del termine per ottemperare configura il
presupposto per l'applicazione automatica della sanzione
amministrativa, che consiste nel trasferimento coattivo
all'ente comunale della proprietà sull'immobile non
demolito. Scopo evidente di questa sanzione è quello di
consentire all'ente pubblico di provvedere d'ufficio alla
demolizione dell'immobile a spese del responsabile
dell'abuso, salvo che si accerti in concreto un prevalente
interesse pubblico alla conservazione dell'immobile stesso
(dell'art. 31, quinto comma). Tuttavia, anche dopo il
trasferimento all'ente comunale della proprietà e del
relativo jus possidendi, può capitare che il privato
responsabile dell'abuso non voglia spontaneamente spogliarsi
del possesso (jus possessionis), sicché l'ente comunale che
intenda procedere concretamente alla demolizione, dovrà
notificare formalmente all'interessato l'accertamento della
inottemperanza alla ingiunzione, in tal modo acquisendo il
titolo per l'immissione in possesso contro il privato
possessore.
Infine, per quanto riguarda i rapporti con i terzi, la
predetta notifica dell'accertamento di inottemperanza
consente all'ente comunale di trascrivere il trasferimento
della proprietà nei registri immobiliari al fine di poter
opporre ai sensi dell'art. 2644 cod. civ., il trasferimento
stesso ai terzi che abbiano acquistato diritti
sull'immobile.
Peraltro, è questo il prevalente indirizzo della
giurisprudenza amministrativa (Consiglio Stato, Sez. V, 12.12.2008 n. 6174), seguita anche da questo Tribunale
(TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.04.2012 n. 1542;
Sez. III, 19.01.2010 n. 195) e della giurisprudenza
penale di legittimità (Cassazione penale, Sez. III, 28.11.2007 n. 4962 e 16.02.2005 n. 14638) secondo
cui la notifica del verbale di accertamento
dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, non ha
alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare
l'inadempimento all'ingiunzione di ripristino: quindi, non è
necessario che lo stesso venga notificato al responsabile
dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si
dispone l'acquisizione gratuita, rilevando l'adempimento
della notifica all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza unicamente allo scopo di consentire
all'ente locale l'immissione in possesso e la trascrizione
nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione.
Quanto alla misura sanzionatoria concretamente adottata,
l’attività amministrativa non si è discostata dall’art. 31
T.U. Edilizia, posto che –dopo aver verificato
l’inottemperanza all’ordine di demolizione in sede di
sopralluogo effettuato in data 14.11.2008 con
l’ausilio dei Vigili Urbani (cfr. provvedimento n. 37/2008)– il Comune ha correttamente disposto l’acquisizione
gratuita al patrimonio ai sensi dell’art. 31, terzo comma.
Al contempo l’ente ha avvisato la ricorrente che, ai sensi
del quinto comma della richiamata disposizione, avrebbe
proceduto alla demolizione d’ufficio delle opere edilizie a
spese del responsabile dell'abuso che, come noto,
costituisce il naturale sbocco dell’iter acquisitivo salvo
che “con deliberazione consiliare non si dichiari
l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che
l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali”.
E’ viceversa inammissibile l’ulteriore censura –sempre
sviluppata con il terzo motivo di gravame- con cui parte
ricorrente contesta il difetto di istruttoria esponendo che
il Comune non avrebbe verificato l’effettiva
imprescindibilità dell’assenso dell’Autorità di Bacino (la
cui carenza aveva portato alla declaratoria di inefficacia
dell’autorizzazione paesaggistica ed al conseguente
annullamento del permesso di costruire n. 22/2004). Ciò in
quanto trattasi di questione coperta dal giudicato formatosi
per effetto della sentenza di questo TAR n. 6486/2007
confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza n.
2620/2012: ne consegue che l’impugnazione del provvedimento
acquisitivo non può costituire il pretesto per svolgere
argomentazioni che, a ben vedere, andavano dedotte nel corso
del pregresso giudizio di legittimità del permesso di
costruire 22/2004.
Occorre infine respingere, siccome palesemente infondati in
punto di fatto e di diritto, gli ultimi due rilievi con i
quali l’esponente censura, rispettivamente, l’omessa
specificazione dei manufatti oggetto di demolizione e la
mancata ponderazione dell’interesse pubblico al ripristino
con quello contrapposto del privato destinatario dell’atto
sanzionatorio.
Sotto un primo profilo, le opere abusive acquisite di
diritto ai sensi dell’art. 31, terzo comma, del D.P.R.
380/2001 vanno individuate in quelle realizzate per effetto
del titolo edilizio annullato in sede giurisdizionale ed
ubicate sulla porzione immobiliare dettagliatamente indicata
nei suoi estremi catastali (Foglio 16, particella 269).
Quanto al pubblico interesse sotteso all’adozione del
provvedimento, giova rammentare che l'acquisizione gratuita
al patrimonio comunale costituisce una misura di carattere
sanzionatorio che consegue automaticamente
all'inottemperanza dell'ordine di demolizione, sicché non
osta alla stessa né il tempo trascorso dalla realizzazione
dell'abuso, né l'affidamento eventualmente riposto
dall'interessato sulla legittimità delle opere realizzate,
né infine l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni
di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.02.2013 n. 718)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 26.03.2014 n. 1780 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Le esigenze di protezione dell’affidamento del
privato, cui sono finalizzate le regole garantistiche per
l’esercizio dell’autotutela, tuttavia, richiedono la
sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali
la d.i.a. resta inefficace, con conseguente sottoposizione
delle opere realizzate –da ritenere prive di titolo– agli
ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto
il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n. 380
del 2001: al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda
le modalità della domanda ed i requisiti soggettivi
richiesti per la relativa presentazione, e nel comma 4 in
presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.
Viene anche chiarito, al comma 5 del medesimo articolo 23,
che la “sussistenza del titolo è provata con la copia della
denuncia, l’elenco di quanto presentato a corredo del
progetto, l’attestazione del professionista abilitato,
nonché gli atti di assenso eventualmente necessari”.
Tale disposizione conferma l’assunto secondo cui, anche
aderendo alla tesi che attribuisce alla d.i.a. natura
‘privata’, esiste comunque un titolo abilitativo, che può
considerarsi formato alla scadenza del termine previsto per
l’inizio dei lavori, ma solo in presenza di tutti i
presupposti di completezza e veridicità delle
autocertificazioni, nonché degli altri documenti prescritti.
A detto titolo abilitativo, ove regolarmente formato,
corrisponde un legittimo affidamento dell’interessato, su
cui l’Amministrazione può eventualmente incidere –ove
dissenta sulla qualificazione dell’intervento– ma solo con
le garanzie imposte all’esercizio della potestà di
autotutela.
Le disposizioni sopra richiamate debbono essere coordinate
con il pacifico indirizzo giurisprudenziale che identifica,
dal punto di vista amministrativo, l’abuso edilizio come
realizzazione ad effetti permanenti, in relazione ai quali
l’Amministrazione, nel vigilare sul rispetto della normativa
urbanistico-edilizia, non può non disporre il ripristino
dell’ordine urbanistico indebitamente violato, anche per
manufatti risalenti nel tempo, ove realizzati senza il
prescritto titolo abilitativo.
In tale contesto –se è stata ritenuta inefficace la d.i.a.,
presentata senza che fosse stato almeno richiesto la
prescritta autorizzazione paesaggistica– a maggior ragione
non può non ritenersi inefficace una d.i.a., che asseveri la
conformità urbanistica di lavori, da effettuare su un
immobile di cui non sia consentita la legittima permanenza
sul territorio.
La regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio,
dell’immobile interessato da nuovi interventi soggetti a
d.i.a., in altre parole, deve considerarsi presupposto di
veridicità e attendibilità della relazione del progettista
abilitato, chiamato ad asseverare “la conformità delle opere
da realizzare agli strumenti urbanistici approvati”, nonché
l’assenza di “contrasto con quelli adottati ed ai
regolamenti edilizi vigenti”, oltre al “rispetto delle norme
di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”: appare
evidente infatti che le varie tipologie di interventi
edilizi, diversi da quelli di nuova edificazione ed
incidenti su immobili già realizzati, debbano avere come
indefettibile presupposto il carattere non illegittimo di
detti immobili.
Tale evidenza è rafforzata dalla possibilità di effettuare
previa d.i.a., ex art. 22, comma 3, del d.P.R. n. 380 del
2001, “gli interventi di ristrutturazione di cui all’art.
10, comma 1, lettera c)”, ordinariamente soggetti a permesso
di costruire ed implicanti –come specificato sia nel citato
art. 10 che nell’art. 3, comma 1, lettera d), del medesimo
d.P.R. n. 380 del 200 – “un insieme sistematico di opere che
possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente” anche con “aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle
superfici”, non esclusa la “demolizione e ricostruzione con
la stessa volumetria” dell’edificio preesistente.
Ove la d.i.a. non fosse chiamata a certificare la
legittimità dell’intervento nella dimensione più ampia,
riferita anche alla regolarità urbanistico-edilizia
dell’immobile preesistente, potrebbero verificarsi
situazioni paradossali facilmente intuibili, come in caso di
edificazione, in base a d.i.a. (o s.c.i.a.), di un immobile
di cui si postulasse la regolarità, in quanto realizzato al
posto di un fabbricato abusivo demolito e fedelmente
ricostruito, oppure (come nel caso di specie) in presenza
della sopraelevazione di un edificio privo di titolo
abilitativo, che verrebbe sostanzialmente sanato –con
effetti sovrapposti alle disposizioni vigenti in materia
(art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001)– ove l’Amministrazione
ritenesse, in via di autotutela, non applicabili le misure
repressive previste per detta sopraelevazione, con effetti
che coinvolgerebbero inevitabilmente –di fatto
paralizzandole– le misure repressive vincolate, imposte
dall’ordinamento per l’immobile sottostante, con lesione
dell’interesse pubblico alla doverosa salvaguardia
dell’ordine del territorio.
In conclusione, queste nuove forme (basate sulla
dichiarazione dell’interessato) di legittimazione
all’intervento edilizio si fondano su esigenze di rapidità
ed efficacia dell’azione amministrativa. Ma non vi può
corrispondere anche un’attenuazione dei controlli e delle
misure sanzionatorie, che debbono essere anzi rafforzati
grazie al coinvolgimento della responsabilità del
professionista incaricato, che non può non fondare la
propria valutazione di legittimità degli interventi “da
effettuare” anche con riferimento alla verificata
regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio,
dell’immobile interessato dai lavori.
La questione sottoposta all’esame del
Collegio concerne la dichiarazione di inefficacia di due
denunce di inizio attività (d.i.a.) riferite a un capannone
sul quale si intendevano eseguire lavori di ristrutturazione
con sopraelevazione: lavori ritenuti non più legittimati –con conseguente ordine di demolizione– a causa della
rilevata assenza di titolo abilitativo dell’immobile
preesistente.
In materia di denuncia di inizio attività (d.i.a.), come
disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 –e con decorrenza 13.07.2011 anche dall’art. 19 della
legge 07.08.1990, n. 241, nel desto introdotto dall’art.
5d. l. 13.05.2011, n. 70, convertito dalla legge 12.07.2011, n. 106 (s.c.i.a.: segnalazione certificata di
inizio attività)– in effetti, sussistono tuttora diversi
indirizzi circa la sua natura giuridica e gli effetti del
decorso del termine, che consente al dichiarante di
effettuare gli interventi edilizi oggetto di denuncia.
In
alcuni casi, in particolare, è stato ravvisata in esito alla
procedura la formazione di un provvedimento tacito,
abilitativo dell’intervento (cfr. in tal senso, fra le
tante, Cons. Stato, VI, 05.04.2007, n. 1550; Cons. Stato, IV, 12.03.2009, n. 1474 e 25.11.2008, n. 5811;
Cons. Stato, II, 28.05.2010, parere n. 1990); in altri
la d.i.a. è stata identificata come atto ‘privato’ di
autocertificazione, che pur non costituendo espressione di
potestà pubblicistica, resta oggetto di poteri di controllo
ed inibitori, anche dopo la scadenza del detto termine,
sempre comunque nel rispetto degli articoli 21-quinquies e
21-novies della legge n. 241 del 1990 (cfr. in tal senso
Cons. Stato, VI, 09.02.2009, n. 717 e 14.11.2012, n. 5751).
Le esigenze di protezione dell’affidamento del
privato, cui sono finalizzate le regole garantistiche per
l’esercizio dell’autotutela, tuttavia, richiedono la
sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali
la d.i.a. resta inefficace, con conseguente sottoposizione
delle opere realizzate –da ritenere prive di titolo– agli
ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto
il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n. 380
del 2001: al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda
le modalità della domanda ed i requisiti soggettivi
richiesti per la relativa presentazione, e nel comma 4 in
presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.
Viene anche chiarito, al comma 5 del medesimo articolo 23,
che la “sussistenza del titolo è provata con la copia della
denuncia, l’elenco di quanto presentato a corredo del
progetto, l’attestazione del professionista abilitato,
nonché gli atti di assenso eventualmente necessari”.
Tale
disposizione conferma l’assunto secondo cui, anche aderendo
alla tesi che attribuisce alla d.i.a. natura ‘privata’,
esiste comunque un titolo abilitativo, che può considerarsi
formato alla scadenza del termine previsto per l’inizio dei
lavori, ma solo in presenza di tutti i presupposti di
completezza e veridicità delle autocertificazioni, nonché
degli altri documenti prescritti. A detto titolo
abilitativo, ove regolarmente formato, corrisponde un
legittimo affidamento dell’interessato, su cui
l’Amministrazione può eventualmente incidere –ove dissenta
sulla qualificazione dell’intervento– ma solo con le
garanzie imposte all’esercizio della potestà di autotutela.
Le disposizioni sopra richiamate debbono essere coordinate
con il pacifico indirizzo giurisprudenziale che identifica,
dal punto di vista amministrativo, l’abuso edilizio come
realizzazione ad effetti permanenti, in relazione ai quali
l’Amministrazione, nel vigilare sul rispetto della normativa urbanistico-edilizia, non può non disporre il ripristino
dell’ordine urbanistico indebitamente violato, anche per
manufatti risalenti nel tempo, ove realizzati senza il
prescritto titolo abilitativo (cfr. in tal senso, fra le
tante, Cons. Stato, IV, 11.04.2007, n. 1585, 27.12.2011, n. 6783 e
08.01.2013, n. 32; VI, 15.03.2007, n.
1255).
In tale contesto –se è stata ritenuta inefficace la d.i.a.,
presentata senza che fosse stato almeno richiesto la
prescritta autorizzazione paesaggistica (Cons. Stato, VI, 20.11.2013, n. 5513)– a maggior ragione non può non
ritenersi inefficace una d.i.a., che asseveri la conformità
urbanistica di lavori, da effettuare su un immobile di cui
non sia consentita la legittima permanenza sul territorio.
La regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio,
dell’immobile interessato da nuovi interventi soggetti a
d.i.a., in altre parole, deve considerarsi presupposto di
veridicità e attendibilità della relazione del progettista
abilitato, chiamato ad asseverare “la conformità delle opere
da realizzare agli strumenti urbanistici approvati”, nonché
l’assenza di “contrasto con quelli adottati ed ai
regolamenti edilizi vigenti”, oltre al “rispetto delle norme
di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”: appare
evidente infatti che le varie tipologie di interventi
edilizi, diversi da quelli di nuova edificazione ed
incidenti su immobili già realizzati, debbano avere come
indefettibile presupposto il carattere non illegittimo di
detti immobili.
Tale evidenza è rafforzata dalla possibilità
di effettuare previa d.i.a., ex art. 22, comma 3, del d.P.R.
n. 380 del 2001, “gli interventi di ristrutturazione di cui
all’art. 10, comma 1, lettera c)”, ordinariamente soggetti a
permesso di costruire ed implicanti –come specificato sia
nel citato art. 10 che nell’art. 3, comma 1, lettera d), del
medesimo d.P.R. n. 380 del 200 – “un insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal precedente” anche con “aumento di
unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e
delle superfici”, non esclusa la “demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria” dell’edificio
preesistente.
Ove la d.i.a. non fosse chiamata a certificare
la legittimità dell’intervento nella dimensione più ampia,
riferita anche alla regolarità urbanistico-edilizia
dell’immobile preesistente, potrebbero verificarsi
situazioni paradossali facilmente intuibili, come in caso di
edificazione, in base a d.i.a. (o s.c.i.a.), di un immobile
di cui si postulasse la regolarità, in quanto realizzato al
posto di un fabbricato abusivo demolito e fedelmente
ricostruito, oppure (come nel caso di specie) in presenza
della sopraelevazione di un edificio privo di titolo
abilitativo, che verrebbe sostanzialmente sanato –con
effetti sovrapposti alle disposizioni vigenti in materia
(art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001)– ove l’Amministrazione
ritenesse, in via di autotutela, non applicabili le misure
repressive previste per detta sopraelevazione, con effetti
che coinvolgerebbero inevitabilmente –di fatto
paralizzandole– le misure repressive vincolate, imposte
dall’ordinamento per l’immobile sottostante, con lesione
dell’interesse pubblico alla doverosa salvaguardia
dell’ordine del territorio.
In conclusione, queste nuove forme (basate sulla
dichiarazione dell’interessato) di legittimazione
all’intervento edilizio si fondano su esigenze di rapidità
ed efficacia dell’azione amministrativa. Ma non vi può
corrispondere anche un’attenuazione dei controlli e delle
misure sanzionatorie, che debbono essere anzi rafforzati
grazie al coinvolgimento della responsabilità del
professionista incaricato, che non può non fondare la
propria valutazione di legittimità degli interventi “da
effettuare” anche con riferimento alla verificata
regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio,
dell’immobile interessato dai lavori.
Nella situazione in esame, non è contestato che il
fabbricato di cui si discute sia stato costruito fra il 1954
e il 1961, né che lo stesso ricadesse nel centro abitato,
sulla base del P.R.G. di Firenze approvato con delibera del
29.12.1931, modificata con delibera n. 967 in data 08.05.1943. E’ anche pacifico che con la legge
06.08.1967, n. 765 (cosiddetta “legge-ponte”) sia stato soltanto
esteso a tutto il territorio comunale quell’obbligo di
titolo abilitativo, che per i centri urbani risultava
introdotto dall’art. 31 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150 e che, per le principali città-capoluogo, era
già in precedenza previsto nei rispettivi regolamenti
edilizi. La stessa appellante non contesta del resto
l’assenza di un titolo abilitativo, necessario alla data di
realizzazione del capannone di cui trattasi e –pur
sottolineando l’avvenuta richiesta dell’autorizzazione e la
possibilità di rilascio della stessa (condizionata solo
all’acquisto della comunione su un muro)– conferma il
mancato perfezionamento della licenza edilizia.
In tale situazione, ad avviso del Collegio, nessuna delle
argomentazioni difensive prospettate dall’appellante può
trovare accoglimento.
Col primo motivo di gravame, in particolare, vengono
rappresentate ragioni riferite alla sopravvenuta normativa
in materia di segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.),
alla legge della Regione Toscana 03.01.2005, n. 1 (Norme
per il governo del territorio), approvata il 21.12.2004 e pubblicata sul BURT n. 2 del 12.01.2005 e alle
successive modificazioni della stessa, nonché ad eccesso di
potere sotto vari profili ed ulteriore violazione dell’art.
3 della legge n. 241 del 1990: il richiamo alle predette
norme (in verità, senza considerazione del principio che
impone di valutare la legittimità degli atti amministrativi
in base alla normativa vigente alla data della relativa
emanazione, o della formazione anche per silenzio-assenso)
mira comunque a sottolineare una fondamentale distinzione
fra gli interventi inibitori, posti in essere
dall’Amministrazione nei trenta giorni successivi alla
presentazione della d.i.a. (o s.c.i.a.) e –dato il
carattere perentorio di tale termine– la possibilità di
analoghi interventi successivi solo in base ai principi ed
alle garanzie proprie per l’esercizio dell’autotutela
(ovvero entro termini congrui e con discrezionale
bilanciamento fra l’interesse pubblico al ripristino della
legalità violata e l’interesse del privato, che abbia
maturato un legittimo affidamento sulla regolarità delle
opere edilizie realizzate).
Le argomentazioni in precedenza svolte, tuttavia,
recepiscono un’impostazione totalmente diversa, che
individua come elemento essenziale del titolo abilitativo
tacito –di cui la relazione asseverata costituisce fattore
probatorio, a norma del già ricordato art. 23, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001– la veridicità e l’attendibilità
della relazione stessa, da riferire anche al fondamentale
presupposto di non incidenza delle opere da realizzare su un
manufatto abusivo, soggetto in ogni tempo (a meno di
sanatoria) ai poteri repressivi vincolati
dell’Amministrazione. L’incompletezza, o l’erroneità in
fatto della citata relazione sul punto essenziale sopra
indicato costituisce, ad avviso del Collegio, causa di
nullità del titolo abilitativo in questione, a norma
dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990, anche in
assenza di dolo del professionista incaricato, come può
verificarsi in vicende complesse, come quella attualmente in
esame.
Nessuna delle normative, previgenti o successivamente
intervenute, può precludere detta fattispecie di nullità,
che trae le ragioni da principi basilari in materia di
disciplina urbanistica.
Consegue a quanto sopra l’infondatezza delle ulteriori
ragioni difensive rappresentate:
- la seconda, in quanto
riferita alle modalità previste per documentare l’esistenza,
o meno, del titolo abilitativo degli immobili di remota
realizzazione (comunque senza che dette modalità possano
coprire l’effettiva mancanza di titolo, ove positivamente
accertata come nel caso di specie);
- la terza, poiché in
parte relativa alla legittimità in sé dell’intervento ristrutturativo ed alla rilevata attivazione dei poteri
repressivi del Comune solo per l’intervento dei proprietari
limitrofi, mentre –come già illustrato– la conformità
delle nuove opere alla disciplina urbanistico-edilizia ha
carattere recessivo rispetto al carattere di illecito
permanente, riconducibile all’immobile su cui dette opere
dovrebbero essere effettuate; l’azione repressiva
dell’Amministrazione comunale su impulso di privati
cittadini, inoltre, risulta espressamente prevista dall’art.
27, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, mentre e la
ricostruzione delle vicende, che hanno comportato il mancato
perfezionamento della licenza edilizia, a suo tempo
richiesta, non risulta sviluppata in termini tali, da
escludere l’attuale carattere non autorizzato del manufatto,
con le conseguenze in precedenza illustrate;
- la quarta
censura (illegittimità dei provvedimenti sanzionatori, non
adottati entro quarantacinque giorni dall’ordine di
sospensione dei lavori) contrasta con il ricordato potere,
non soggetto a limiti temporali, di repressione degli abusi
edilizi ed è contraddetta da una consolidata giurisprudenza
(cfr., fra le tante, Cons. Stato, V, 30.09.1983, n.
405);
- la quinta censura, riferita ad omessa comunicazione di
avvio del procedimento, contrasta con il carattere vincolato
del provvedimento, conseguente alla rilevata inefficacia
della d.i.a., con applicabilità al riguardo dell’art.
21-octies della legge n. 241 del 1990, che esclude
l’annullabilità per vizi di forma o del procedimento, quando
il contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso;
- la sesta ed ultima censura riproduce in parte
le argomentazioni della prima e non può che essere ritenuta
infondata, per effetto della ritenuta insussistenza nella
fattispecie dei presupposti per l’esercizio della potestà di
autotutela dell’Amministrazione, in luogo dei provvedimenti
repressivi vincolati, che l’Amministrazione stessa è tenuta
ad adottare, in presenza di interventi edilizi senza titolo
ed in mancanza di iniziative di sanatoria, nel caso di
specie non evidenziate
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.03.2014 n. 1413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i
principi che governano l'esercizio del potere di
auto-annullamento dei titoli edilizi confluiti nell'art.
21-nonies della L. 241/1990.
In particolare, si è osservato che:
- i presupposti di tale potere sono costituiti dalla
illegittimità originaria del provvedimento, dall'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal
mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle
posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai
destinatari;
- l'esercizio del potere di autotutela è espressione di
rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia,
l'amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente,
della sussistenza dei summenzionati presupposti;
- l'ambito della motivazione esigibile è integrato dalla
allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio
dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare
atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del
territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente,
paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali) che
quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti
dei privati e della eventuale negligenza o della malafede
del privato che ha indotto in errore l'amministrazione o ha
approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo
erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato
rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati
attivi);
- pur non riscontrandosi un termine di decadenza del potere
di auto-annullamento del titolo edilizio, la caducazione che
intervenga ad una notevole distanza di tempo e dopo che le
opere sono state completate, esige una più puntuale e
convincente motivazione a tutela del legittimo affidamento.
Quanto poi alla ritenuta insussistenza dei
presupposti per procedere all’annullamento d’ufficio della
pregressa delibera consiliare valgano le seguenti
considerazioni.
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i principi che
governano l'esercizio del potere di auto-annullamento dei
titoli edilizi confluiti nell'art. 21-nonies della L.
241/1990 (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n.
8291, 21.12.2009 n. 8529, Sez. V, 06.12.2007 n.
6252; 12.11.2003 n. 7218; 24.09.2003 n. 5445).
In particolare, si è osservato che:
- i presupposti di tale potere sono costituiti dalla
illegittimità originaria del provvedimento, dall'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal
mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle
posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai
destinatari;
- l'esercizio del potere di autotutela è espressione di
rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia,
l'amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente,
della sussistenza dei summenzionati presupposti;
- l'ambito della motivazione esigibile è integrato dalla
allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio
dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare
atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del
territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente,
paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali) che
quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti
dei privati e della eventuale negligenza o della malafede
del privato che ha indotto in errore l'amministrazione o ha
approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo
erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato
rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati
attivi);
- pur non riscontrandosi un termine di decadenza del potere
di auto-annullamento del titolo edilizio, la caducazione che
intervenga ad una notevole distanza di tempo e dopo che le
opere sono state completate, esige una più puntuale e
convincente motivazione a tutela del legittimo affidamento
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.02.2014 n.
1197 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
01.01.2010 è entrato a regime il nuovo procedimento
autorizzatorio disciplinato dal predetto art. 146 dlgs
42/2004: prima di tale data, la disciplina applicabile in
materia di autorizzazione paesaggistica era rinvenibile
nell'art. 159 del Codice, rubricato “Regime transitorio in
materia di autorizzazione paesaggistica” il quale prevede
che il regime ordinario dettato dall'art. 146 "si applica
anche ai procedimenti di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica che alla data del 31.12.2009 non si siano
ancora conclusi con l'emanazione della relativa
autorizzazione o approvazione".
In particolare, la principale novità che attiene al “regime
ordinario” riguarda il ruolo della Soprintendenza: in
dettaglio, con il procedimento transitorio (in vigore fino
al 31.12.2009) previsto dall'art. 159 del Codice,
l'autorizzazione paesaggistica veniva rilasciata, previa
delega della Regione, dopo una valutazione svolta a livello
comunale sulla compatibilità dell'intervento sulla quale
doveva poi esprimersi la Soprintendenza che entro 60 giorni
poteva esercitare il potere di annullamento
dell’autorizzazione paesaggistica già emessa dal Comune.
La procedura ordinaria prevista dall'art. 146 del Codice è,
invece, caratterizzata dall'intervento della Soprintendenza
non più in via successiva, ma in sede endoprocedimentale,
con facoltà di formulare un parere che risulta espressione
di un potere decisorio: in altri termini, il portato
innovativo della novella consiste nell’aver anticipato, già
in sede procedimentale, l'apporto partecipativo
dell'autorità statale.
Detto parere non è soltanto obbligatorio, ma anche
"vincolante", per espressa dichiarazione di legge (comma 5,
primo periodo), al fine del conseguimento
dell'autorizzazione paesaggistica.
La vincolatività del detto parere emerge inoltre anche
dall’art. 143, comma 3, del Codice il quale prevede che
"approvato il piano paesaggistico, il parere reso dal
soprintendente nel procedimento autorizzatorio di cui agli
artt. 146 e 147 è vincolante in relazione agli interventi da
eseguirsi nell'ambito dei beni paesaggistici di cui alle
lett. b), c) e d) del comma 1...".
Tuttavia, al ricorrere di precise condizioni, tale parere
assume natura obbligatoria, ma non è vincolante (art. 146,
quinto comma, secondo periodo, secondo cui “Il parere del
soprintendente, all’esito dell’approvazione delle
prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati,
predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma
1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della
positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della
regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli
strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non
vincolante e, ove non sia reso entro il termine di novanta
giorni dalla ricezione degli atti, si considera
favorevole”).
A tale fine, la prima condizione è che i decreti di
dichiarazione di interesse pubblico (già vigenti o di nuova
proposizione), siano stati integrati con le specifiche
prescrizioni d'uso: successivamente all'introduzione di
queste ultime, deve essere, comunque, effettuata la positiva
verifica da parte degli organi ministeriali dell'adeguamento
degli strumenti urbanistici alle previsioni del piano
paesaggistico.
---------------
Il modulo procedimentale delineato dall’art. 146 si articola
come segue:
- l’amministrazione comunale competente, dopo aver ricevuto
la domanda di autorizzazione paesaggistica ed il progetto
delle opere, svolge le verifiche e gli accertamenti ritenuti
necessari e, entro 40 giorni dalla data di ricezione della
domanda, trasmette alla competente Soprintendenza la
proposta di autorizzazione corredata dagli elaborati
tecnici, dandone contestualmente comunicazione al soggetto
interessato (comma 7);
- la Soprintendenza comunica il parere di competenza entro
il termine di 45 giorni dalla data di ricezione degli atti
(comma 8);
- decorso tale termine in assenza di parere espresso della
Soprintendenza, l’amministrazione procedente può indire una
conferenza dei servizi, prolungando i termini del
procedimento di ulteriori 15 giorni (comma 9) che, sommati
ai 45 giorni di cui al comma 8, individuano il termine
finale di 60 giorni a disposizione della Soprintendenza per
la formulazione del parere di compatibilità paesaggistica.
---------------
Ai fini della legittimità del parere, non rileva la
circostanza che il parere sia stato espresso dopo il decorso
del termine di 15 giorni previsto dall’art. 146, comma 9,
per la conclusione dei lavori della conferenza di servizi.
Invero, l’eventuale inosservanza dei termini prescritti
dalla legge per l’emissione del parere di compatibilità
paesaggistica non priva la Soprintendenza del potere di
provvedere (che continua a sussistere e mantiene la sua
natura vincolante) e l’interessato potrà proporre ricorso al
giudice amministrativo per contestare l’illegittimo
silenzio–inadempimento ovvero richiedere l’intervento
sostitutivo della Regione ai sensi del comma 10 dell’art.
146 cit. che vi deve provvedere entro 60 giorni anche
tramite la nomina di un commissario ad acta.
Quindi la perentorietà del termine (nella fattispecie,
quello di 15 giorni entro il quale deve pronunciarsi la
conferenza di servizi indetta dal Comune) riguarda non la
sussistenza del potere o la legittimità del parere
tardivamente emanato, ma l’obbligo di concludere la fase del
procedimento che, se rimasto inadempiuto, può essere
dichiarato sussistente dal giudice, ragione per cui
l’eventuale superamento non priva la Soprintendenza del
potere di provvedere (che continua a sussistere e mantiene
la sua natura vincolante) che, a sua volta, non può essere
surrogato da meccanismi di silenzio–assenso o inerzia
devolutiva.
---------------
Il giudizio reso dalla Soprintendenza è espressione di
discrezionalità tecnica, con conseguente limitazione del
riscontro di legittimità al solo difetto di motivazione,
all’illogicità manifesta ed all'errore di fatto di tale
evidenza tale da far emergere l'inattendibilità della
valutazione tecnico-discrezionale compiuta, non potendo il
giudice sovrapporre la propria valutazione tecnica a quella
discrezionale dell'amministrazione.
Solo in presenza di valutazioni palesemente illogiche,
immotivate e viziate da travisamento dei fatti, il giudice
amministrativo può disporre l'annullamento dell'atto, mentre
quando emergano in giudizio più soluzioni tutte opinabili,
ma al tempo stesso tutte attendibili, deve essere certamente
mantenuta la scelta compiuta dall'amministrazione perché è a
questa che l'ordinamento attribuisce in prima battuta la
cura dell'interesse pubblico, diversamente si assisterebbe,
infatti, ad una inammissibile sostituzione del giudice
all'amministrazione.
La censura di parte ricorrente è priva di pregio.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 146 D.Lgs. 42/2004, i
proprietari o i detentori a qualsiasi titolo di immobili ed
aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, hanno
l’obbligo di presentare alle competenti amministrazioni il
progetto degli interventi che intendano intraprendere,
corredato della prescritta documentazione, astenendosi
dall'avviare i lavori sino all'ottenimento
dell'autorizzazione.
Con riguardo all’autorità competente al rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, il sesto comma dell’art.
146 individua nella Regione, l'ente preposto allo
svolgimento della funzione autorizzatoria, la quale,
nell'esercizio della medesima, dovrà avvalersi di "propri
uffici dotati di adeguate competenze tecnico-scientifiche e
idonee risorse strumentali".
La disposizione in esame contempla, comunque, la facoltà in
capo alla Regione di poter delegare tale funzione a Comuni e
Province, subordinando la delega alla preventiva verifica
della effettiva sussistenza in capo agli enti destinatari di
apparati dotati di adeguato livello di competenze
tecnico-scientifiche, nonché strutturati, in base al
personale a tal fine assegnato, in modo da garantire la
differenziazione tra l'attività di tutela paesaggistica e
l'esercizio delle funzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia.
Dal 01.01.2010 è entrato a regime il nuovo procedimento autorizzatorio disciplinato dal predetto art. 146: prima di
tale data, la disciplina applicabile in materia di
autorizzazione paesaggistica era rinvenibile nell'art. 159
del Codice, rubricato “Regime transitorio in materia di
autorizzazione paesaggistica” il quale prevede che il regime
ordinario dettato dall'art. 146 "si applica anche ai
procedimenti di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica
che alla data del 31.12.2009 non si siano ancora
conclusi con l'emanazione della relativa autorizzazione o
approvazione".
In particolare, la principale novità che attiene al “regime
ordinario” riguarda il ruolo della Soprintendenza: in
dettaglio, con il procedimento transitorio (in vigore fino
al 31.12.2009) previsto dall'art. 159 del Codice,
l'autorizzazione paesaggistica veniva rilasciata, previa
delega della Regione, dopo una valutazione svolta a livello
comunale sulla compatibilità dell'intervento sulla quale
doveva poi esprimersi la Soprintendenza che entro 60 giorni
poteva esercitare il potere di annullamento
dell’autorizzazione paesaggistica già emessa dal Comune.
La procedura ordinaria prevista dall'art. 146 del Codice è,
invece, caratterizzata dall'intervento della Soprintendenza
non più in via successiva, ma in sede endoprocedimentale,
con facoltà di formulare un parere che risulta espressione
di un potere decisorio: in altri termini, il portato
innovativo della novella consiste nell’aver anticipato, già
in sede procedimentale, l'apporto partecipativo
dell'autorità statale.
Detto parere non è soltanto obbligatorio, ma anche
"vincolante", per espressa dichiarazione di legge (comma 5,
primo periodo), al fine del conseguimento
dell'autorizzazione paesaggistica.
La vincolatività del detto parere emerge inoltre anche
dall’art. 143, comma 3, del Codice il quale prevede che
"approvato il piano paesaggistico, il parere reso dal
soprintendente nel procedimento autorizzatorio di cui agli
artt. 146 e 147 è vincolante in relazione agli interventi da
eseguirsi nell'ambito dei beni paesaggistici di cui alle
lett. b), c) e d) del comma 1...".
Tuttavia, al ricorrere di precise condizioni, tale parere
assume natura obbligatoria, ma non è vincolante (art. 146,
quinto comma, secondo periodo, secondo cui “Il parere del
soprintendente, all’esito dell’approvazione delle
prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati,
predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma
1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della
positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della
regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli
strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non
vincolante e, ove non sia reso entro il termine di novanta
giorni dalla ricezione degli atti, si considera
favorevole”).
A tale fine, la prima condizione è che i decreti di
dichiarazione di interesse pubblico (già vigenti o di nuova
proposizione), siano stati integrati con le specifiche
prescrizioni d'uso: successivamente all'introduzione di
queste ultime, deve essere, comunque, effettuata la positiva
verifica da parte degli organi ministeriali dell'adeguamento
degli strumenti urbanistici alle previsioni del piano
paesaggistico.
Sul punto si segnala che, nella circolare del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali del 22.01.2010 (recante
precisazioni e chiarimenti in ordine all'applicazione della
nuova procedura di autorizzazione paesaggistica), si
evidenziava che -alla relativa data di adozione– non
sussisteva alcun caso sul territorio nazionale che
rispettava le predette condizioni.
Da tali considerazioni discende che, trattandosi di parere
obbligatorio e vincolante, all’esito dell’annullamento
giurisdizionale il Comune ha correttamente riavviato il
procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica
interpellando l’amministrazione preposta alla tutela dei
beni culturali e, tenuto conto del parere contrario espresso
da quest’ultima, legittimamente ha respinto l’istanza.
---------------
Con un secondo motivo di diritto, parte ricorrente lamenta
la violazione dei termini procedurali di cui all’art. 146,
nono comma, del D.Lgs. 42/2004 (secondo cui “…La conferenza
si pronuncia entro il termine perentorio di quindici giorni.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli
atti da parte del soprintendente, l'amministrazione
competente provvede sulla domanda di autorizzazione”),
osservando che la conferenza di servizi indetta dall’ente
locale è durata due mesi, dall’atto di convocazione del 28.10.2011 alla seduta del 20.12.2011 alla quale ha
fatto poi seguito il provvedimento di diniego prot. n. 6137
del 23.01.2012.
La doglianza è destituita di giuridico fondamento in punto
di fatto e di diritto.
Il modulo procedimentale delineato dall’art. 146 si articola
come segue:
- l’amministrazione comunale competente, dopo aver ricevuto
la domanda di autorizzazione paesaggistica ed il progetto
delle opere, svolge le verifiche e gli accertamenti ritenuti
necessari e, entro 40 giorni dalla data di ricezione della
domanda, trasmette alla competente Soprintendenza la
proposta di autorizzazione corredata dagli elaborati
tecnici, dandone contestualmente comunicazione al soggetto
interessato (comma 7);
- la Soprintendenza comunica il parere di competenza entro
il termine di 45 giorni dalla data di ricezione degli atti
(comma 8);
- decorso tale termine in assenza di parere espresso della
Soprintendenza, l’amministrazione procedente può indire una
conferenza dei servizi, prolungando i termini del
procedimento di ulteriori 15 giorni (comma 9) che, sommati
ai 45 giorni di cui al comma 8, individuano il termine
finale di 60 giorni a disposizione della Soprintendenza per
la formulazione del parere di compatibilità paesaggistica.
---------------
In ogni caso, ai fini
della legittimità del parere, non rileva la circostanza che
il parere sia stato espresso dopo il decorso del termine di
15 giorni previsto dall’art. 146, comma 9, per la
conclusione dei lavori della conferenza di servizi.
Invero,
l’eventuale inosservanza dei termini prescritti dalla legge
per l’emissione del parere di compatibilità paesaggistica
non priva la Soprintendenza del potere di provvedere (che
continua a sussistere e mantiene la sua natura vincolante) e
l’interessato potrà proporre ricorso al giudice
amministrativo per contestare l’illegittimo silenzio–inadempimento ovvero richiedere l’intervento sostitutivo
della Regione ai sensi del comma 10 dell’art. 146 cit. che
vi deve provvedere entro 60 giorni anche tramite la nomina
di un commissario ad acta. Quindi la perentorietà del
termine (nella fattispecie, quello di 15 giorni entro il
quale deve pronunciarsi la conferenza di servizi indetta dal
Comune) riguarda non la sussistenza del potere o la
legittimità del parere tardivamente emanato, ma l’obbligo di
concludere la fase del procedimento che, se rimasto
inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice
(cfr. sul punto, Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.10.2013
n. 4914), ragione per cui l’eventuale superamento non priva
la Soprintendenza del potere di provvedere (che continua a
sussistere e mantiene la sua natura vincolante) che, a sua
volta, non può essere surrogato da meccanismi di silenzio–assenso o inerzia devolutiva (cfr. anche Consiglio di Stato,
Sez. VI, 24.09.2012 n. 5066).
---------------
Quanto alle ulteriori
motivazioni contrarie alla compatibilità paesaggistica,
valgano le considerazioni di seguito svolte.
Come noto, il giudizio reso dalla Soprintendenza è
espressione di discrezionalità tecnica, con conseguente
limitazione del riscontro di legittimità al solo difetto di
motivazione, all’illogicità manifesta ed all'errore di fatto
di tale evidenza tale da far emergere l'inattendibilità
della valutazione tecnico-discrezionale compiuta, non
potendo il giudice sovrapporre la propria valutazione
tecnica a quella discrezionale dell'amministrazione.
Solo in presenza di valutazioni palesemente illogiche,
immotivate e viziate da travisamento dei fatti, il giudice
amministrativo può disporre l'annullamento dell'atto, mentre
quando emergano in giudizio più soluzioni tutte opinabili,
ma al tempo stesso tutte attendibili, deve essere certamente
mantenuta la scelta compiuta dall'amministrazione perché è a
questa che l'ordinamento attribuisce in prima battuta la
cura dell'interesse pubblico, diversamente si assisterebbe,
infatti, ad una inammissibile sostituzione del giudice
all'amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI 06.03.2009 n. 1332; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII
Napoli, 07.11.2013 n. 4969; TAR Lazio, Roma, 03.07.2012 n. 6071).
A tali coordinate ermeneutiche si è peraltro attenuta la
pronuncia di questo TAR n. 4275/2011 con la quale è stato
annullato il primo parere contrario, ravvisando il difetto
di motivazione nel quale era incorsa la Soprintendenza che -nell’escludere la compatibilità paesaggistica del progetto
de quo- si era limitata alla mera constatazione della
vicinanza del manufatto al rivo S. Vito e alla “Fabbrica
Fantozzi” ed aveva avanzato generici dubbi sulla legittimità
urbanistica del progetto nonché su un preteso appesantimento
di volumetrie conseguente al piano di lottizzazione
approvato dalle competenti amministrazioni
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.02.2014 n. 1189 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.08.2014 |
ã |
13.08.2013 - 13.08.2014
Un
anno è già trascorso e sembra ieri. Lavoro, cerco di restare
indaffarato più che posso per tenere distratta la mente ma
sei sempre nei miei pensieri .... e non trovo parole per
descrivere quanto mi manchi ed il senso di inutilità che mi
sta consumando giorno dopo giorno.
T. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L'Ente sub-delegato in materia paesaggistica non può
dichiarare improcedibile un'istanza di
autorizzazione paesaggistica e deve inviare la
stessa in Soprintendenza al fine dell’espressione
del parere obbligatorio e vincolante.
Secondo il costante orientamento
della giurisprudenza amministrativa, invero, l’art.
146 del Codice dei beni culturali, nel ridisegnare
il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, ha previsto l’intervento
dell’Amministrazione statale in sede procedimentale,
che assume la forma di un parere obbligatorio e
vincolante, espressione di un potere decisorio
complesso facente capo a due apparati diversi e
inevitabilmente esponenziali di prospettive, se non
anche di interessi, non perfettamente
sovrapponibili. Nel delineato sistema, diversamente
dal regime transitorio dell’art. 159 del d.lgs. n.
42 del 2004, la Soprintendenza non si limita ad
esercitare un controllo di legittimità su di un
precedente atto, ma interviene nell’esercizio di un
potere attivo di cogestione del vincolo
paesaggistico.
Il rilascio dell'autorizzazione paesistica
presuppone, dunque, una valutazione complessa che
prende le mosse dal vincolo e si conclude con un
giudizio di compatibilità dell’intervento
prospettato con il vincolo stesso, e il relativo
provvedimento deve essere preceduto
dall’acquisizione del parere della Sovrintendenza.
La novella legislativa enfatizza sia il carattere
obbligatorio del parere della Sovrintendenza con la
conseguente necessità della sua acquisizione, che il
suo carattere allo stato vincolante, peraltro già
enucleabili dalla previgente formulazione dell’art.
146 del d.lgs. n. 42 del 2004.
In relazione, invece, all’art. 146, comma 4, nella
versione modificata dall’entrata in vigore del
d.lgs. n. 157 del 2006, la disposizione normativa
prevede che non possano più essere rilasciate
autorizzazioni paesaggistiche "in sanatoria", ossia
successive alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi, salvo le ipotesi tassative volte a
sanare "ex post" gli interventi abusivi di cui
all'art. 167; in tali casi deve essere, invece,
instaurata un’apposita procedura ad istanza della
parte interessata che contempla -a differenza
dell'ordinario procedimento di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica (in vigore in via
transitoria)– l’accertamento della compatibilità
paesaggistica, demandato sempre all’amministrazione
preposta alla gestione del vincolo, previa
acquisizione del parere della Soprintendenza che
nella particolare fattispecie in esame assume
carattere non solo obbligatorio, ma vincolante.
Ne consegue che, ai sensi della normativa vigente,
l’Ente Parco fosse obbligato a trasmettere alla
Sovrintendenza di Milano l’istanza corredata dalla
complessiva documentazione alla stessa allegata, al
fine dell’espressione del parere obbligatorio e
vincolante.
... per l'annullamento del provvedimento del
03.10.2012, prot. n. 9583/12, con cui il Parco della
Valle del Ticino dichiarava improcedibile la
richiesta di autorizzazione paesaggistica relativa
al recupero dell'insediamento rurale dismesso, sito
nell'area di proprietà della Società ricorrente,
ubicato nel territorio del Comune di Abbiategrasso,
nonché di ogni atto presupposto, connesso e
consequenziale agli atti sopra impugnati.
...
Il ricorso è fondato.
Dalla motivazione del provvedimento impugnato emerge
inequivocabilmente che l’istanza di autorizzazione
paesaggistica per il recupero dell’insediamento
rurale è stata dichiarata improcedibile, a
prescindere dalla carenza della documentazione
prodotta per alcuni aspetti, in ragione della
precedente realizzazione sull’area in questione da
parte dell’istante di interventi edilizi in assenza
di preventiva autorizzazione paesaggistica, né di
accertamento della compatibilità paesaggistica.
Per l’Amministrazione intimata, infatti, solo la
preventiva rimessione in pristino dell’area mediante
la demolizione delle opere realizzate abusivamente o
l’accertamento della compatibilità paesaggistica
delle medesime avrebbe permesso l’esame dell’istanza
in questione.
Dalla lettura delle osservazioni che l’istante aveva
presentato in seguito al ricevimento del preavviso
di rigetto emerge, peraltro, che la Società avesse
ben evidenziato non solo le porzioni della
documentazione ritenute carenti dall’Ente Parco, sia
in ordine all’identificazione dell’area di
intervento che alla consistenza e tipologia degli
interventi da realizzare, ma soprattutto che
l’intervento per il quale era stata richiesta
l’autorizzazione paesaggistica prevedeva proprio la
preventiva rimessione in pristino dell’area mediante
la rimozione dei manufatti realizzati in precedenza.
In ogni caso, l’interessata aveva anche precisato la
pendenza di ricorsi giurisdizionali in relazione
alla qualificazione come abusiva o meno di tali
ultimi manufatti.
Tanto premesso, il collegio ritiene che l’Ente Parco
fosse obbligato a trasmettere alla Sovrintendenza di
Milano l’istanza corredata dalla complessiva
documentazione alla stessa allegata, al fine
dell’espressione del parere obbligatorio e
vincolante.
Secondo il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, invero, l’art. 146
del Codice dei beni culturali, nel ridisegnare il
procedimento per il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, ha previsto l’intervento
dell’Amministrazione statale in sede procedimentale,
che assume la forma di un parere obbligatorio e
vincolante, espressione di un potere decisorio
complesso facente capo a due apparati diversi e
inevitabilmente esponenziali di prospettive, se non
anche di interessi, non perfettamente
sovrapponibili. Nel delineato sistema, diversamente
dal regime transitorio dell’art. 159 del d.lgs. n.
42 del 2004, la Soprintendenza non si limita ad
esercitare un controllo di legittimità su di un
precedente atto, ma interviene nell’esercizio di un
potere attivo di cogestione del vincolo
paesaggistico.
Il rilascio dell'autorizzazione paesistica
presuppone, dunque, una valutazione complessa che
prende le mosse dal vincolo e si conclude con un
giudizio di compatibilità dell’intervento
prospettato con il vincolo stesso, e il relativo
provvedimento deve essere preceduto
dall’acquisizione del parere della Sovrintendenza.
La novella legislativa enfatizza sia il carattere
obbligatorio del parere della Sovrintendenza con la
conseguente necessità della sua acquisizione, che il
suo carattere allo stato vincolante, peraltro già
enucleabili dalla previgente formulazione dell’art.
146 del d.lgs. n. 42 del 2004 (cfr. TAR Campania,
sez. IV, 07.09.2012, n. 3812).
In relazione, invece, all’art. 146, comma 4, nella
versione modificata dall’entrata in vigore del
d.lgs. n. 157 del 2006, la disposizione normativa
prevede che non possano più essere rilasciate
autorizzazioni paesaggistiche "in sanatoria",
ossia successive alla realizzazione, anche parziale,
degli interventi, salvo le ipotesi tassative volte a
sanare "ex post" gli interventi abusivi di
cui all'art. 167; in tali casi deve essere, invece,
instaurata un’apposita procedura ad istanza della
parte interessata che contempla -a differenza
dell'ordinario procedimento di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica (in vigore in via
transitoria)– l’accertamento della compatibilità
paesaggistica, demandato sempre all’amministrazione
preposta alla gestione del vincolo, previa
acquisizione del parere della Soprintendenza che
nella particolare fattispecie in esame assume
carattere non solo obbligatorio, ma vincolante (cfr.
TAR Veneto, sez. II, 23.04.2010, n. 1550).
Ne consegue che, ai sensi della normativa vigente,
l’Ente Parco fosse obbligato a trasmettere alla
Sovrintendenza di Milano l’istanza corredata dalla
complessiva documentazione alla stessa allegata, al
fine dell’espressione del parere obbligatorio e
vincolante (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 02.05.2014 n. 1125 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: A
fronte di un intervento riconosciuto, a posteriori,
compatibile con il contesto paesistico, l'indennità
ex art. 167 è dovuta anche in mancanza di un
concreto danno ambientale; in tal caso la sanzione
deve essere commisurata al profitto conseguito.
In via generale è qualificato quale profitto
conseguito la differenza tra il valore dell'opera
realizzata ed i costi sostenuti per la esecuzione
della stessa, alla data di effettuazione della
perizia.
---------------
1. Sulla determinazione della sanzione per abusi
edilizi in aree con vincolo paesaggistico.
1.1 In base all’art. 15 della
legge n. 1497 del 1939 e poi dell'art. 164 del
decreto legislativo 29.10.1999 n. 490 (testo unico
delle disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali) ed ora dell’art. 167 del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, recante il
Codice dei Beni culturali e del paesaggio, la
sanzione da irrogare per gli abusi edilizi commessi
in aree con vincolo paesaggistico (in alternativa
all’ordine di rimessione in pristino) è pari alla
maggior somma fra il danno ambientale causato
dall’intervento sanzionato e il “profitto conseguito
mediante la trasgressione”, la somma è determinata
previa perizia di stima.
1.2 Trattandosi di sanzione pecuniaria tesa a
reprimere, con effetto deterrente, ogni tipo di
violazione, sostanziale (per l’effettivo
contrasto della costruzione con i valori paesistici
ed ambientali della zona) e formale (per
l’omessa acquisizione del nulla osta paesistico) in
cui il trasgressore ha violato l’obbligo di munirsi
preventivamente della autorizzazione, a fronte di un
intervento riconosciuto, a posteriori, compatibile
con il contesto paesistico, l'indennità per
giurisprudenza oramai costante è dovuta anche in
mancanza di un concreto danno ambientale; in tal
caso la sanzione deve essere commisurata al profitto
conseguito.
2. Sulla valutazione del profitto conseguito con la
realizzazione ex novo di opere abusive.
L’arricchimento ottenuto dal
trasgressore per effetto della realizzazione ex novo
dell’opera abusiva non può coincidere con il valore
venale attuale della stessa, senza detrarre il costo
sostenuto per la sua realizzazione.
Far coincidere il “profitto conseguito” con il costo
dell’opera, sganciando del tutto la nozione di
profitto dal vantaggio economico effettivamente
conseguito dal trasgressore con la realizzazione
dell’opera abusiva contrasta con il dettato
legislativo dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 che
ancora la nozione di “profitto” a quella di
vantaggio economico effettivamente conseguito.
La mancata detrazione del costo di esecuzione
dell’opera abusiva dal valore venale della stessa
risulta contrastante anche con quanto previsto dalla
nota informativa del Dipartimento Ambiente prot. IV/A/3390/4
del 13.03.1992 con cui la Regione Toscana ha dettato
le procedure ed i criteri di calcolo delle sanzioni
paesaggistiche e nella quale si confermano i criteri
già dettati dal Ministero dei Lavori Pubblici con
circolare prot. n. 325 dell’08.02.1966, la quale ha
chiarito che “l’utile conseguito debba essere
valutato calcolando il valore venale della parte
abusiva della costruzione e detraendo, da tale
valore, il costo della parte abusiva stessa”.
3. Sulla determinazione dell’indennità risarcitoria
di cui all’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
L’art. 2 del Decreto del
Ministero per i beni culturali e ambientali del
26.09.1997, fornisce un riferimento normativo certo
su scala nazionale per il calcolo dell’indennità di
cui all’art. 15 della legge n. 1497/1939, oggi
sostanzialmente trasfuso nell’art. 167 del D.Lgs. n.
42/2004.
Tale articolo ha previsto che l'indennità
risarcitoria è determinata previa apposita perizia
di valutazione del danno causato dall'intervento
abusivo in rapporto alle caratteristiche del
territorio vincolato ed alla normativa di tutela
vigente sull'area interessata, nonché mediante la
stima del profitto conseguito dalla esecuzione delle
opere abusive.
In via generale è qualificato quale profitto la
differenza tra il valore dell'opera realizzata ed i
costi sostenuti per la esecuzione della stessa, alla
data di effettuazione della perizia.
La questione sottoposta all’esame del Collegio con
l’atto introduttivo del presente giudizio riguarda
la correttezza del procedimento seguito e la
congruità dell’importo stabilito in sede di
irrogazione alla ricorrente della sanzione
pecuniaria ambientale ex art. 167 del D.Lgs. n.
42/2004, per aver realizzato senza la necessaria
preventiva autorizzazione paesaggistica un’opera
successivamente sanata, consistente in una c.d.
strada bianca per accedere ai fondi della propria
azienda.
A riguardo, occorre ricordare che secondo l’art. 15
della legge n. 1497 del 1939 e poi dell'art. 164 del
decreto legislativo 29.10.1999 n. 490 (testo unico
delle disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali) ed ora dell’art. 167 del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, recante il
Codice dei Beni culturali e del paesaggio, la
sanzione da irrogare per gli abusi edilizi commessi
in aree con vincolo paesaggistico (in alternativa
all’ordine di rimessione in pristino) è pari alla
maggior somma fra il danno ambientale causato
dall’intervento sanzionato e il “profitto
conseguito mediante la trasgressione”. Precisano
poi le indicate disposizioni che la somma è
determinata previa perizia di stima.
Trattandosi di sanzione pecuniaria tesa a reprimere,
con effetto deterrente, ogni tipo di violazione,
sostanziale (per l’effettivo contrasto della
costruzione con i valori paesistici ed ambientali
della zona) e formale (per l’omessa
acquisizione del nulla osta paesistico) –quale è
quella del caso di specie, in cui il trasgressore ha
violato l’obbligo di munirsi preventivamente della
autorizzazione, a fronte di un intervento
riconosciuto, a posteriori, compatibile con il
contesto paesistico- l'indennità in questione, per
giurisprudenza oramai costante, è dovuta anche in
mancanza di un concreto danno ambientale; in tal
caso la sanzione deve essere commisurata al profitto
conseguito (cfr., Cons. di Stato, sez. II, n. 48 del
15.05.2002).
Nel caso di specie, pertanto, essendo stato
l’intervento riconosciuto (a posteriori) compatibile
con il contesto paesistico, l’indennità in questione
dovrà essere commisurata al solo profitto
conseguito. E quest’ultimo va individuato
–conformemente alla natura sanzionatoria
dell’indennità in questione che mira ad esercitare
una funzione deterrente– nell’arricchimento ottenuto
dal proprietario per effetto della realizzazione
dell’opera abusiva (cfr., Cons. di Stato, sez. VI,
03.04.2003 n. 1729; TAR Lombardia, Brescia,
18.04.2008 n. 388; TAR Toscana, sez. III, 29.06.2009
n. 1149).
Il legislatore ha, quindi, ritenuto –così come
dedotto dalla ricorrente– che la sanzione per danno
ambientale, dovendo essere determinata sulla base
del profitto conseguito, debba essere rapportata
all’effettivo vantaggio economico ottenuto dal
trasgressore in conseguenza della realizzazione
dell’intervento abusivo.
Nel caso di specie, il Comune, come lo stesso ha
illustrato nei propri scritti difensivi, assume di
aver quantificato tale vantaggio economico, seguendo
il criterio logico che è stato successivamente
formalizzato nel Regolamento edilizio approvato con
deliberazione C.C. n. 40 dell’08.05.2009 –impugnato
per tale parte con il ricorso per motivi aggiunti,
indicato in epigrafe– secondo il quale il “profitto
conseguito” va identificato nell’incremento del
valore venale che gli immobili acquistano per
effetto della trasgressione; incremento che viene
determinato come differenza tra il valore venale
dell’immobile a seguito dell’esecuzione delle opere
(valore attuale) ed il valore venale dell’immobile
prima dell’esecuzione delle opere (valore
precedente).
Pertanto, nel caso che ci occupa, il Comune ha
ritenuto che, trattandosi di strada realizzata ex
novo non sussisterebbe un valore venale ante
abuso, con la conseguenza che il profitto
coinciderebbe “con il valore attuale meno zero”,
e cioè corrisponderebbe al valore venale attuale,
pari –tenuto conto che si tratta di una strada– al
costo sostenuto per costruirla.
Facendo applicazione del suindicato criterio,
l’Amministrazione è giunta, alla irrogazione alla
Società La Meta della sanzione di € 17.064,00 per il
danno ambientale, effettuando i calcoli nel modo qui
di seguito indicato, come esplicitato nello stesso
provvedimento impugnato:
“- per il primo tratto (di lunghezza ml 126,00)
realizzato al grezzo: riduzione al 60% dell’importo
di € 60.00 previsto per il costo di costruzione: ml
126,00x2.25 = mq 283,00 x € 36,00 (€ 60,00/mqx60%) =
€ 10.188,00;
- per il secondo tratto (di lunghezza ml 191.85)
attualmente in stato di abbandono: riduzione al 30%
dell’importo di € 60,00 previsto per il costo di
costruzione: ml 191.00x2.00 “ mq 382.00x18 (€
60,00/mqx30%) = € 6.876,00”.
Ma, così operando, il Comune ha finito con il far
coincidere il “profitto conseguito” con il
costo dell’opera, sganciando del tutto la nozione di
profitto dal vantaggio economico effettivamente
conseguito dal trasgressore con la realizzazione
dell’opera abusiva, cui, invece, come abbiamo visto,
l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 ancora la nozione
di “profitto”.
Tale metodo di calcolo, così come dedotto dalla
società ricorrente, si rivela, pertanto,
contrastante con il dettato legislativo, oltre ad
essere del tutto illogico, non potendo –essendovi
una contraddizione in termini– l’arricchimento
ottenuto dal trasgressore per effetto della
realizzazione ex novo dell’opera abusiva coincidere
con il valore venale attuale della stessa, senza
detrarre il costo sostenuto per la sua
realizzazione.
Né può sostenersi che il criterio di calcolo
concretamente seguito dal Comune sia applicativo del
criterio successivamente recepito nel Regolamento
edilizio del 2009, che, come si è visto, prevede che
il “profitto conseguito” vada identificato
nell’incremento del valore venale che gli immobili
acquistano per effetto della trasgressione, pari
alla differenza tra il valore venale dell’immobile a
seguito dell’esecuzione delle opere (valore attuale)
ed il valore venale dell’immobile prima
dell’esecuzione delle opere (valore precedente).
Nel caso di specie, infatti, ove fosse stata data
applicazione al suindicato criterio, il Comune,
tenuto conto che l’opera abusiva ha carattere
strumentale, avrebbe dovuto apprezzare il valore
dell’azienda agricola della ricorrente prima e dopo
l’esecuzione della c.d. strada bianca per accedervi.
A ciò si aggiunga che il criterio concretamente
utilizzato dal Comune, non consentendo di portare in
detrazione dal valore venale dell’opera abusiva il
costo sostenuto per la sua esecuzione, risulta
contrastare anche con quanto previsto dalla nota
informativa del Dipartimento Ambiente prot. IV/A/3390/4
del 13.03.1992 –che non risulta superata- con cui la
Regione Toscana ha dettato le procedure ed i criteri
di calcolo delle sanzioni paesaggistiche.
Con tale nota, l’Amministrazione regionale ha
ritenuto, per quanto attiene la quantificazione del
profitto, di poter confermare i criteri già dettati
dal Ministero dei Lavori Pubblici con circolare prot.
n. 325 dell’08.02.1966, la quale ha chiarito che “l’utile
conseguito debba essere valutato calcolando il
valore venale della parte abusiva della costruzione
e detraendo, da tale valore, il costo della parte
abusiva stessa”.
Tale criterio è stato, inoltre, confermato con
Decreto del Ministero per i beni culturali e
ambientali del 26.09.1997, che, seppure emanato ai
soli fini del condono edilizio, costituisce un
riferimento normativo certo su scala nazionale per
il calcolo dell’indennità di cui all’art. 15 della
legge n. 1497/1939, oggi sostanzialmente trasfuso
nell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
L’art. 2 del decreto ha, infatti, previsto che
l'indennità risarcitoria di cui all'art. 15 della
legge 29.06.1939 del 1497 è determinata previa
apposita perizia di valutazione del danno causato
dall'intervento abusivo in rapporto alle
caratteristiche del territorio vincolato ed alla
normativa di tutela vigente sull'area interessata,
nonché mediante la stima del profitto conseguito
dalla esecuzione delle opere abusive. In via
generale è qualificato quale profitto la differenza
tra il valore dell'opera realizzata ed i costi
sostenuti per la esecuzione della stessa, alla data
di effettuazione della perizia
(massima tratta da www.bollettinogiuridicotelematico.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.04.2012 n. 724 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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(Agenzia delle Entrate, agosto 2014).
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NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PATRIMONIO -
VARI:
Oggetto: Decreto-legge 28.03.2014, n. 47 convertito nella
legge 23.05.2014, n. 80, recante "Misure urgenti per
l'emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e
per EXPO 2015". Modalità di applicazione dell'art. 5,
rubricato "Lotta all'occupazione abusiva di immobili -
salvaguardia degli effetti di disposizione in materia di
contratti di locazione" (Ministero dell'Interno,
circolare 06.08.2014 n. 14/2014). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA - ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 32 dell'08.08.2014,
"Assestamento al bilancio 2014-2016 - I Provvedimento di
variazione con modifiche di leggi regionali" (L.R.
05.08.2014 n. 24).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
►
art. 8 - (Modifiche al Titolo II, Capo I, della l.r.
26/2003)
►
art. 21, commi 4, 5, 6, 7, 8 - (circa l’obbligo di gestione
in forma associata delle funzioni fondamentali di cui
all’articolo 14, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n.
78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria
e di competitività economica) convertito, con modificazioni,
dalla legge 30.07.2010, n. 122) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 32 dell'08.08.2014,
"Individuazione della Regione quale autorità competente
per il rilascio delle Autorizzazioni Integrate Ambientali
per le installazioni esistenti di nuovo assoggettamento ai
sensi del d.lgs. 46/2014" (comunicato
regionale 04.08.2014 n. 103). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 32 dell'08.08.2014, "Primi
indirizzi sulle modalità applicative della disciplina in
materia di Autorizzazioni Integrate Ambientali (A.I.A.)
recata dal titolo III-bis alla parte seconda del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, alla luce delle modifiche
introdotte dal decreto legislativo 04.03.2014, n. 46" (circolare
regionale 04.08.2014 n. 6). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
05.08.2014 n. 180 "Approvazione della regola tecnica di
prevenzione incendi per la progettazione, l’installazione e
l’esercizio delle macchine elettriche fisse con presenza di
liquidi isolanti combustibili in quantità superiore ad 1 m³"
(Ministero dell'Interno,
decreto 15.07.2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
P. Giampietro e M. Petronzi,
La Cassazione insiste sulla “temporaneità” dell’art. 186,
T.U.A. (“Terre e rocce da scavo”), con irretroattività del
D.M. 161/2012, ai fini penali (nota a sentenza n. 12229
del 14.03.2014, sui residui di lavorazione dei marmi:
rifiuti recuperabili o sottoprodotti?) (22.07.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
ESPROPRIAZIONE:
M. Grisanti,
Ad oggi non esiste possibilità di usucapione da parte della
Pubblica Amministrazione. Verso la doverosa
responsabilizzazione della Pubblica Amministrazione?
(annotazione a Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3346 del
03/07/2014) (16.07.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
APPALTI: R.
De Nictolis,
LE NOVITÀ DELL’ESTATE
2014 IN MATERIA DI CONTRATTI PUBBLICI RELATIVI A LAVORI,
SERVIZI E FORNITURE (16.07.2014 - tratto da
www.federalismi.it). |
ENTI LOCALI: V.
Raeli,
IL DANNO ALL’IMMAGINE DELLA
P.A. TRA GIURISPRUDENZA E LEGISLAZIONE (09.07.2014
- tratto da
www.federalismi.it).
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Sommario:
1. Introduzione. - 2. Il danno non patrimoniale delle
persone giuridiche. Il danno all’immagine. - 3. Il danno
all’immagine della P.A. nella giurisprudenza delle Sezioni
unite civili della Corte di cassazione. - 4. L’evoluzione
della nozione di danno non patrimoniale e del danno
all’immagine della P.A. nella giurisprudenza della Corte dei
conti. - 5 Per una corretta ricostruzione del danno
all’immagine della P.A. - 6. La prova del quantum. – 7. La
disciplina limitativa introdotta dall’art. 17, comma 30-ter,
d.l. 01.07.2009, n. 78. Profili sostanziali e processuali. -
8. (Segue) La giurisprudenza costituzionale e la “reazion “
della giurisprudenza contabile. - 9. Il danno all’immagine
nella più recente legislazione. – Appendice bibliografica. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
La raccolta e il trasporto
dei rifiuti «in forma ambulante»: che ne pensa la
giurisprudenza? (03.07.2014 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
A. Savatteri,
Gli interventi di recupero delle aree urbane ed il permesso
di costruire in deroga (nota a TAR Piemonte, Sez. II,
28.11.2013, n. 1286) (Urbanistica
e appalti n. 7/2014).
---------------
Nel caso esaminato dalla sentenza del TAR Piemonte n.
1286 del 2013, il giudice amministrativo si è trovato di
fronte ad iniziative del legislatore statale finalizzate a
promuovere l'attività edilizia, adottate senza prestare
attenzione ai principi cui si informa la disciplina
dell'edilizia e dell'urbanistica ed alle regole del riparto
di competenza legislativa tra Stato e Regioni nell'ambito
della materia concorrente del governo del territorio; il
rimedio è consistito in un forzoso ricorso all'applicazione
del permesso di costruire in deroga. |
EDILIZIA
PRIVATA:
S. Amorosino,
Autorizzazioni paesaggistiche: obbligo di parere motivato e
costruttivo. Il D.L. 83/2014 modifica l’art. 146 del Codice
(nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.03.2014, n. 1418)
(Urbanistica e
appalti n. 7/2014).
---------------
In assenza di piani paesaggistici regionali adeguati al
modello dettato dall’art. 143 del Codice dei beni culturali
e del paesaggio e in presenza di vincoli paesaggistici quasi
sempre “nudi”, perché privi di una specifica disciplina
delle aree vincolate, le amministrazioni di tutela preposte
al rilascio delle autorizzazioni, ed in particolare le
Soprintendenze, il cui parere è vincolante, hanno un potere
discrezionale eccessivamente ampio.
Di conseguenza tale potere deve essere bilanciato
dall’obbligo di motivare in modo analitico e specifico le
decisioni adottate nei singoli casi, al fine di consentire
al giudice amministrativo di verificarne la logicità,
ragionevolezza e proporzionalità.
Inoltre le amministrazioni preposte alla tutela, in ossequio
ai principi di collaborazione tra amministrazioni e di leale
interlocuzione con i cittadini (correttezza procedimentale),
nel caso di valutazioni negative hanno il dovere di
formulare specifiche indicazioni volte a rendere il progetto
di intervento assentibile (cd. dissenso costruttivo). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
L'obbligo di munirsi della licenza edilizia su tutto il
territorio comunale esiste dal 1935 (commento critico a TAR
Toscana, Sez. III, n. 899/2014) (30.06.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Tapetto,
Considerazioni sulla
raccolta di rifiuti metallici in forma ambulante (20.06.2014
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Le modifiche al procedimento di autorizzazione paesaggistica
apportate dal D.L. 31.05.2014, n. 83 (11.06.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
S. Maglia,
Sfalci e potature: rifiuti o non rifiuti? Una discutibile
sentenza della Cassazione (nota a Cassazione penale n.
11886/2014) (10.06.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
La proroga dei termini fissati dall’art. 15 del Testo Unico
dell’Edilizia (commento all’art. 30, comma 3, del D.L. n.
69/2013, così come modificato ed integrato dalla Legge n.
98/2013) (06.06.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Bertuzzi,
Permesso di costruire in sanatoria e sequestro preventivo (05.06.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Deliperi,
In area tutelata con vincoli ambientali difficilmente può
esser revocato l’ordine di demolizione e ripristino
ambientale (02.06.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
La novella normativa in tema di case mobili e permesso di
costruire (commento alle modifiche introdotte all’art. 3
del D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 10-ter del D.L. n. 47/2014
così come introdotto dalla Legge n. 80/2014) (02.06.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
VARI:
D. Lavermicocca,
La nullità del preliminare di vendita per irregolarità
urbanistica dell'immobile (nota a Cassazione Civile, Sez. II,
17.12.2013, n. 28194) (Urbanistica e appalti n.
6/2014).
----------------
La sentenza in commento estende la sanzione civilistica
della nullità, che l'art. 40, comma 2, della L. n. 47/1985
commina per gli atti di trasferimento immobiliare, anche al
contratto preliminare che abbia ad oggetto la vendita di un
immobile irregolare dal punto di vista urbanistico.
Con tale pronuncia, innovativa rispetto al precedente
indirizzo giurisprudenziale, che riconduceva la fattispecie
all’inadempimento contrattuale, la Suprema Corte introduce
il principio della incommerciabilità degli immobili
“irregolari urbanisticamente”, in quanto afferma che la
nullità degli atti di trasferimento immobiliare, prevista
dalla citata norma, ha natura sostanziale, ossia attiene
alla regolarità urbanistica dell'immobile, che si aggiunge
ad una nullità formale conseguente alla mancata indicazione
nell'atto di trasferimento degli estremi degli atti
concessori.
Tale interpretazione appare contrastante con il dato
letterale formale della legge e con la ratio normativa
sottesa al perseguimento degli abusi edilizi, che avviene
indipendentemente da chi sia proprietario dell'immobile,
risultando quindi indifferente la circolazione del bene ai
fini sanzionatori amministrativi. |
EDILIZIA
PRIVATA:
E. Ditta,
Non valgono le norme sulle distanze per le canne fumarie in
condominio (Consulente Immobiliare n. 953/2014 -
31.05.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Ancora sul parere vincolante del Soprintendente ex art. 146
del D.Lgs. 42/2004 e s.m.i. (nota a TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza n. 5278/2014) (28.05.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
R. Bertuzzi,
Attività di potatura e di sfalcio: i residui sono o non sono
rifiuto? (15.05.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
B. De Rosa,
Distanze, luci e vedute nelle costruzioni (Consulente
Immobiliare n. 952/2014 - 15.05.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
E. Ditta,
Avvocati: in vigore i nuovi parametri (Consulente
Immobiliare n. 952/2014 - 15.05.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Ancora sulla doverosità del rilascio della preventiva
autorizzazione ex art. 94 T.U.E. per costruire in tutte le
zone sismiche (nota a Corte Costituzionale, n. 121/2014
– Nota a TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, n. 2396/2013) (14.05.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - VARI:
D. Palombella,
L'abitabilità è essenziale per la validità del contratto?
(Consulente Immobiliare n. 951/2014 - 30.04.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I. Meo e A. Pesce,
Impianti termici: da giugno obbligatori i nuovi libretti
(Consulente Immobiliare n. 950/2014 - 15.04.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
P. Mantini e C. Panetta,
Ristrutturazione più libera nella forma o riuso urbano?
(Consulente Immobiliare n. 948/2014 - 15.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I. Meo e A. Pesce,
Lombardia: serre e logge non computano volumetria (Consulente
Immobiliare n. 948/2014 - 15.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
G. V. Tortorici,
Deroghe per le distanze legali tra fabbricati (Consulente
Immobiliare n. 947/2014 - 28.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. D'Agostino,
I c.d. reati satelliti
negli abusi edilizi (19-21.02.2014 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Fiale,
Il reato di cui alla lett.
b) dell’art. 44 T.U. edilizia: l’intervento soggetto a
permesso di costruire (19-21.02.2014 - tratto da
www.lexambiente.it).
---------------
SOMMARIO:
1. Attività edilizia e titoli abilitativi. – 2. Il regime
attuale dei titoli abilitativi. – 3. Attività edilizia
libera – 4. Gli interventi edilizi per i quali non è
richiesto titolo abilitativo ma la comunicazione dell’inizio
dei lavori all’Amministrazione comunale – 5. La DIA
(denuncia di inizio attività) in materia edilizia:
successione delle disposizioni normative. – 6. La
sostituzione della DIA con la segnalazione certificata di
inizio attività (SCIA) in materia edilizia. – 7. SCIA ed
immobili abusivi. – 8. SCIA ed immobili vincolati. – 9. La
DIA alternativa (cd. superDIA) e l’art. 22, 3° comma, del
T.U. n. 380/2001. – 10. Natura giuridica della denuncia di
inizio dell’attività. – 9. SCIA, DIA e silenzio-assenso. –
11. La procedura di SCIA in materia edilizia. – 12. La
procedura applicabile alla cd. «superDIA». – 14. Attività
subordinate a permesso di costruire. – 15. Demolizione
totale e ricostruzione di fabbricati. – 16. Lavori eseguiti
in base a permesso di costruire illegittimo. |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Parere in merito all'applicazione della legge 326/2003 e
della legge regionale 12/2004 agli impianti pubblicitari -
Procura presso il Tribunale di Viterbo (Regione Lazio,
parere 04.08.2014 n. 125798 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Diritto d'accesso a 360°.
Insindacabili le richieste dei consiglieri.
Va però garantita la riservatezza a tutela dei dati
personali.
È corretto dare seguito alla richiesta di accesso ai
fascicoli personali di contribuenti fisici e giuridici,
iscritti a ruolo per il tributo sui rifiuti Tarsu/Tares, che
hanno ricevuto l'avviso di accertamento per omessa/infedele
denuncia, formulata da un consigliere comunale?
Il diritto d'accesso agli atti amministrativi dell'ente
locale è disciplinato dall'art. 43, comma 2, del decreto
legislativo n. 267 del 18.08.2000 il quale prevede, in
capo ai consiglieri comunali e provinciali, il diritto di
ottenere dagli uffici comunali tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del
loro mandato.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale
consolidato, il diritto di accesso da parte del consigliere
«non può subire compressioni per pretese esigenze di natura
burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire
la richiesta secondo i tempi necessari per non determinare
interruzione delle altre attività di tipo corrente» (limite
della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste),
restando ferma la «necessità di contemperare nel modo più
ragionevole e adeguato possibile dette richieste,
finalizzate all'espletamento del mandato, con le esigenze di
funzionamento degli uffici».
Dal contenuto del citato art. 43 si desume il
riconoscimento, in capo al consigliere comunale, di un
diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai
documenti amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del comune di residenza (art. 10, Tuel ) sia, più
in generale, nei confronti della pubblica amministrazione,
genericamente intesa, come disciplinato dalla legge n.
241/1990. Tale maggiore ampiezza di legittimazione è
riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal
consigliere comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione, al fine di poter
esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della p.a., opportunamente considerando un ruolo
di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata.
Pertanto il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di informazioni, poiché,
diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle
forme di esercizio delle potestà pubblicistiche di cui è
titolare tale organo. Conseguentemente, gli uffici comunali
non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra
l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un
consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato. Ciò, anche nel rispetto della separazione
dei poteri sancita per gli enti locali dall'art. 107 del
dlgs n. 267/2000 che richiama il principio per cui i poteri
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano
agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la
gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
La
giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel
senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti
un'ampia prerogativa a ottenere informazioni, senza che
possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in
cui la richiesta riguardi l'esercizio del mandato
istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi di
tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati
personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza,
secondo la quale, ai sensi del più volte richiamato art. 43,
comma 2, i consiglieri comunali e provinciali «sono tenuti
al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge».
In merito alla specifica fattispecie, si richiama il parere
in data 14.12.2010 con il quale la Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi ha ribadito che «gli
uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni
avanzate da un consigliere comunale e le modalità di
esercizio del munus da questi espletato» e ha riconosciuto
il diritto ad accedere agli atti relativi al pagamento dei
tributi (per le concessioni cimiteriali) in quanto le
informazioni richieste attengono formalmente all'esercizio
del mandato consiliare, essendo esse preordinate a
verificare l'efficacia e l'imparzialità dell'azione
amministrativa in un settore particolarmente nevralgico come
quello dell'effettiva riscossione delle imposte comunali da
parte dell'amministrazione competente e pertanto sono da
ritenere accessibili dal consigliere comunale.
Nondimeno, è necessaria una regolamentazione della materia
da parte del Consiglio comunale, nell'ambito anche degli
strumenti di autorganizzazione dello stesso Consiglio (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: L’art.
4 del CCNL del Comparto Regioni – Autonomie Locali del
14.09.2000 riconosce ai dipendenti in regime di part-time la
possibilità di ottenere la riconduzione del rapporto alle
condizioni originarie (full-time).
Ma detta possibilità, che sembra atteggiarsi quale vero e
proprio diritto potestativo, viene riconosciuta anche
normativamente atteso che l’art. 6, comma 4, del D.L. n.
79/1997, conv. dalla Legge n. 140 del 1997, tutt’oggi in
vigore, prevede che i dipendenti del settore pubblico che
abbiano trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo
parziale “hanno il diritto di ottenere il ritorno al tempo
pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione
nonché alle successive scadenze previste dai contratti
collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno
avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le
successive vacanze”.
---------------
Ove ricorrano tutti presupposti previsti
dalla legge (ovvero dalla contrattazione collettiva), l’ente
non può non dar seguito alla richiesta del dipendente di
riconduzione del rapporto di lavoro alle modalità
originarie, anche nell’evenienza in cui tale comportamento
obbligato conduca ad un aumento della spesa di personale.
L’eventuale sforamento da parte del comune della spesa del personale a seguito
dell’accoglimento della richiesta di riespansione
dell’orario di lavoro da parte di alcuni dipendenti
attualmente in regime di part time non può determinare
effetti preclusivi ne sanzionatori a carico dell’ente.
---------------
Il Sindaco del Comune di San Pietro in Cariano (VR), formula
a questa Sezione una richiesta di parere, ai sensi
dell'articolo 7, comma 8, della Legge 131/2003, in merito
alla corretta valutazione della spesa di personale. Nella
richiesta si premette:
• che l’ente ha in essere alcuni contratti di lavoro a tempo
parziale e che alcuni dipendenti che usufruiscono di detti
contratti hanno fatto espressa richiesta per il ripristino
dell’orario di lavoro a tempo totale;
• che i menzionati ripristini comportano l'aumento ed il
conseguente sforamento delle spese di personale ai sensi del
comma 557 della legge 27/12/2006, n. 296 e che, tuttavia, i
rientri di cui trattasi sarebbero necessari a garantire una
migliore efficienza degli uffici interessati, considerate le
carenze di organico e le sempre maggiori incombenze affidate
agli enti locali.
Alla luce di quanto evidenziato l’ente conclusivamente
chiede: “Se è possibile la concessione di un diritto al
rientro dei dipendenti nonostante lo sforamento del limite
delle spese di personale di cui al comma 557 della Legge
27/12/2006 n. 296” e in caso di risposta affermativa, se,
“l'Ente, sforando le spese del personale, è soggetto alle
conseguenze previste dal comma 557ter della predetta legge,
riconducibili all'art. 76, comma 4, D.L. 112/2008 convertito
con modificazioni dalla Legge 06.08.2008, n. 133”.
...
Venendo al merito della richiesta, il Collegio
preliminarmente ritiene necessario richiamare la normativa
attualmente vigente in tema di contenimento della spesa di
personale per gli enti soggetti al patto di stabilità.
Questi, come noto, devono contribuire al raggiungimento dei
saldi di finanza pubblica conseguendo l’obiettivo assegnato
(art. 31 della Legge 183/2011).
L’osservanza delle
disposizioni che introducono detti vincoli “che
costituiscono principi fondamentali di coordinamento della
finanza pubblica ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e
119, secondo comma, della Costituzione” si pone come
necessario presupposto per poter esercitare legittimamente
le facoltà assunzionali nell’anno successivo (art. 76, comma
4, del D.L. n. 112/2008, art. 1, comma 119, lett. c), della
legge n. 220/2010 – legge di stabilità per il 2011, art. 7,
commi 2 e ss. del D.lgs. n. 149/2011 e, da ultimo, art. 31,
commi 26, 28 e 30 della Legge 183/2011- Legge di stabilità
2012).
A detto vincolo primario, per gli enti soggetti al patto, si
accompagna l’osservanza dell’obbligo di riduzione
tendenziale della spesa del personale disposto dall’articolo
1, comma 557 della Legge 27.12.2006 n. 296 (di seguito
Legge 296/2006), comma da ultimo modificato dall’art. 14,
comma 7, del D.L. 78/2010, da attuarsi mediante il
contenimento della dinamica retributiva ed occupazionale con
“azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia”
(art. 1, comma 557 e 557-bis, della legge 296/2006).
La violazione di detto obbligo di riduzione viene sanzionata
dal comma 557-ter del medesimo articolo 1, con il divieto di
assunzioni nell’esercizio successivo, divieto al quale è
soggetto l’ente inadempiente. Inoltre, vengono a
determinarsi ulteriori effetti preclusivi atteso che la
mancata riduzione della spesa del personale rispetto a
quella degli esercizi precedenti, collide anche con quanto
disposto dal comma 3-quinquies, dell’articolo 40 del d.lgs.
165/2001 nella parte in cui prevede che i presupposti
necessari per l’eventuale integrazione delle risorse
destinate alla contrattazione integrativa siano costituiti
dai “…parametri di virtuosità fissati per la spesa di
personale dalle vigenti disposizioni, in ogni caso nel
rispetto dei vincoli di bilancio e del patto di stabilità e
di analoghi strumenti del contenimento della spesa”. Con la
conseguenza che la mancata riduzione della spesa del
personale, in applicazione dei vincoli di cui al richiamato
comma 557, non possa considerarsi parametro di “virtuosità”
per gli enti locali ai sensi del richiamato articolo 40,
comma 3-quinquies, del D.lgs. 165/2001.
Da ciò ne discende
che le possibilità concrete di integrare le risorse
finanziarie destinate alla contrattazione decentrata
integrativa, vanno anch’esse subordinate al rispetto del
vincolo di riduzione della spesa di personale rispetto a
quella degli esercizi precedenti in coerenza con i vincoli
delineati dall’art. 1, comma 557 della Legge n. 296/2006 e
con le previsioni di cui all’articolo 40 comma 3-quinquies
del D.lgs. 165/2001 (cfr. questa Sezione deliberazioni n.
403 e n. 513/2012/PAR).
Peraltro, per gli enti locali
soggetti al patto di stabilità il vincolo (di spesa)
previsto dal richiamato comma 557 rimane l’unico che deve
essere osservato posto che l’obbligo di mantenimento del
rapporto tra spesa del personale e spesa corrente al di
sotto del 50% quale vincolo (assunzionale) ulteriore (art.
76, comma 7, del D.L. n. 112/2008, come modificato dall’art.
28, comma 11-quater, del decreto legge 06.12.2011, n.
201 convertito con modificazioni dalla legge 22.12.2011, n. 214), risulta venir meno a seguito dell’abrogazione
disposizione che lo contemplava (vedasi quanto disposto
dall’articolo 3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014,
n. 90 che abroga il comma 7 del D.L. 112/2008 sopra
richiamato).
Appare utile rammentare come la riduzione tendenziale degli
oneri del personale, che trova fondamento anche
nell’articolo 91 del Tuel, imponga alle amministrazioni di
effettuare una puntuale e capillare programmazione della
spesa nel corso dell’esercizio finanziario di volta in volta
considerato e una proiezione che abbracci gli esercizi
successivi (vedasi ad esempio i precisi gli obblighi imposti
a livello di determinazione delle cessazioni anche ai fini
del riassorbimento delle eventuali eccedenze di personale
previsti dall’articolo 2, comma 11, del D.L. 95/2012).
Il relazione alla detta esigenza, più volte richiamata da
questa Sezione nelle sue deliberazioni, si pongono una serie
di problemi pratici, dovuti essenzialmente alla rapida
sequenza della produzione normativa in materia di vincoli
alla spesa corrente ed in particolare a quella del
personale. Detti vincoli, infatti, vengono spesso introdotti
nel corso dell’esercizio finanziario con la conseguenza,
stante anche la mancanza di norme che regolino gli effetti
delle nuove previsioni sui rapporti in essere, di
determinare una serie di obiettive difficoltà in sede
applicativa. Altre volte invece, le dette difficoltà
emergono dall’esigenza di rendere compatibili i vincoli alla
spesa del personale con altre disposizioni vigenti,
normative e contrattuali, dall’applicazione delle quali
deriva un innalzamento del livello della spesa corrente del
personale, minacciando talvolta e violando in altre,
l’osservanza dei vincoli di riduzione.
Il quesito posto all’attenzione del Collegio da parte del
comune di San Pietro in Cairano si annovera proprio in
questa ultima tipologia posto che il rispetto del vincolo di
riduzione della spesa di personale dell’ente rispetto a
quella sostenuta nell’esercizio precedente è posto in dubbio
dall’incremento conseguente agli oneri derivanti dalla
riespansione di più rapporti di lavoro dal tempo parziale al
tempo pieno.
Sul punto, giova evidenziare che l’art. 4 del CCNL del
Comparto Regioni – Autonomie Locali del 14.09.2000
riconosce ai dipendenti in regime di part-time, la
possibilità di ottenere la riconduzione del rapporto alle
condizioni originarie (full-time). Ma detta possibilità, che
sembra atteggiarsi quale vero e proprio diritto potestativo,
viene riconosciuta anche normativamente atteso che l’art. 6,
comma 4, del D.L. n. 79/1997, conv. dalla Legge n. 140 del
1997, tutt’oggi in vigore, prevede che i dipendenti del
settore pubblico che abbiano trasformato il rapporto da
tempo pieno a tempo parziale “hanno il diritto di ottenere
il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla
trasformazione nonché alle successive scadenze previste dai
contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo
pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le
successive vacanze”.
Alla luce della richiamata disposizione appare chiaro che
le
amministrazioni, una volta che il dipendente abbia
esercitato detto diritto, potrebbero trovarsi di fronte
all’evidenza di dover sostenere per l’esercizio interessato
una spesa di personale ben più alta di quella programmata (e
rispettosa dei vincoli vigenti), non potendo prevedere
puntualmente quando la richiesta alla riespansione
dell’orario di lavoro verrà effettivamente formulata dal
dipendente.
Appare evidente che in questo caso come in altri già
affrontati dalla Sezione si verifica una presunta antinomia
tra le disposizioni in vigore che appare necessario
risolvere atteso che a fronte degli effetti di un’attività
normativamente consentita –la riespansione dell’orario di
lavoro a full time- l’ente non può subire delle conseguenze
sanzionatorie per la mancata osservanza dei vincoli
normativi di spesa, essendo ciò contrario al canone della
ragionevolezza ed in contrasto con “l’esigenza di garantire
il principio generale di non contraddizione all’interno
dell’ordinamento giuridico” (si veda questa Sezione,
deliberazione n. 287/2011/PAR).
Detto principio, a parere del Collegio, tralasciando la
ricorrenza, nel caso di specie, di tutti i presupposti
previsti dalle disposizioni normative e contrattuali ai fini
della configurabilità del diritto in esame (decorrenza del
biennio ovvero disponibilità del posto in pianta organica,
originaria assunzione a tempo pieno il cui accertamento non
compete a questa Sezione in sede consultiva), è applicabile
anche alla fattispecie prospettata dall’ente laddove
quest’ultimo ha comunque programmato e conseguito la
riduzione della spesa del personale nell’esercizio
finanziario all’interno del quale viene esercitato da parte
del lavoratore il diritto alla riespansione dell’orario di
lavoro.
Giova evidenziare, poi, che la Sezione in relazione ad una
richiesta di parere vertente sulla stessa questione
interpretativa ha affermato che: “….sia nell’ipotesi di
richiesta di rientro a tempo pieno alla scadenza del biennio
dalla trasformazione in part-time, sia in quella di rientro
prima del biennio, laddove l’ente non riesca ad evitare un
aumento della spesa di personale, parrebbe configurarsi un
contrasto tra “obblighi” derivanti da fonti diverse. In
realtà, considerato che le disposizioni in esame operano in
ambiti e su piani differenti -gli artt. 6 del D.L. 79/1997 e
4 del CCNL del 2000 disciplinano il rapporto di lavoro,
mentre il comma 557 disciplina la spesa di personale-
non
può ravvisarsi un’antinomia in senso tecnico, ma solo un
contrasto eventuale (laddove, cioè, l’ente non sia in grado
di “neutralizzare” l’aumento della spesa conseguente alla riespansione del rapporto di lavoro) tra le conseguenze
dell’assolvimento al primo obbligo e l’adempimento del
secondo. Tale contrasto, peraltro, non può essere risolto
configurando una sorta di effetto “derogatorio” della norma
vincolistica rispetto all’altra norma (di legge o
contrattuale), né, in generale, rispetto ad altri obblighi
giuridici gravanti sull’ente locale pure comportanti
un’incidenza, diretta o indiretta, sulla spesa di personale.
In sostanza, ove ricorrano tutti presupposti previsti dalla
legge (ovvero dalla contrattazione collettiva), l’ente non
può non dar seguito alla richiesta del dipendente di
riconduzione del rapporto di lavoro alle modalità
originarie, anche nell’evenienza in cui tale comportamento
obbligato conduca ad un aumento della spesa di personale
(sul punto, vedasi, deliberazione di questa sezione n.
2/2009/PAR, secondo cui i vincoli finanziari, quale quello
imposto dal comma 557, possono incidere solo sulla
componente discrezionale della spesa e non su quella
vincolata, identificabile, tra l’altro, con i “diritti sorti
in base a disposizioni vincolanti, di fonte legale o
contrattuale” (questa Sezione deliberazione n.
106/2013/PAR).
Peraltro, si osserva ulteriormente che il richiamato
principio di coerenza dell’ordinamento giuridico, dovrebbe
ritenersi applicabile agli adempimenti necessitati, in
generale, ovvero all’adempimento di obblighi giuridici
rispetto ai quali non residui, in capo all’Ente, alcun
margine di autonoma determinazione.
Proprio in relazione a tale assunto il Collegio, nella
delibera sopra richiamata, aveva conclusivamente affermato
che “….ove ricorrano tutti presupposti previsti dalla legge
(ovvero dalla contrattazione collettiva), l’ente non può non
dar seguito alla richiesta del dipendente di riconduzione
del rapporto di lavoro alle modalità originarie, anche
nell’evenienza in cui tale comportamento obbligato conduca
ad un aumento della spesa di personale (sul punto, vedasi,
deliberazione di questa sezione n. 2/2009/PAR, secondo cui i
vincoli finanziari, quale quello imposto dal comma 557,
possono incidere solo sulla componente discrezionale della
spesa e non su quella vincolata, identificabile, tra
l’altro, con i “diritti sorti in base a disposizioni
vincolanti, di fonte legale o contrattuale”)”.
La Sezione, alla luce di quanto evidenziato, ritiene che
l’eventuale sforamento da parte del comune di San Pietro in
Cariano della spesa del personale a seguito
dell’accoglimento della richiesta di riespansione
dell’orario di lavoro da parte di alcuni dipendenti
attualmente in regime di part time non può determinare
effetti preclusivi ne sanzionatori a carico dell’ente.
Ciò,
a maggior ragione laddove, come sembra delinearsi nel caso
in specie, dette scelte gestionali sono da ricondurre
all’adempimento di disposizioni normative nonché
contrattuali (art. 6, comma 4, del D.L. n. 79/1997, conv.
dalla Legge n. 140 del 1997 ed art. 4 del CCNL del Comparto
Regioni – Autonomie Locali del 14.09.2000). (cfr. questa
sezione deliberazione n. 106/2013/PAR citata).
Tuttavia, l’ente, successivamente al verificarsi del
superamento del vincolo di spesa in conseguenza
all’eventualità sopra richiamata, è tenuto ad indirizzare
tutte le scelte discrezionali in materia di spesa di
personale e la relativa programmazione al conseguimento nel
più breve tempo possibile dell’obiettivo di riduzione posto
dall’articolo 1, comma 557 della legge 27.12.2006 n.
296.
Ciò, in relazione alla politica dl personale, anche
ricorrendo a diverse modalità organizzative dei servizi (sia
interne all’Ente che esterne, applicando ove opportuno le
previsioni contenute nell’art. 14, co. 27 e segg., del D.L.
31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n.
122, come modificate ed integrate dall’art. 19 del D.L. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge
07.08.2012, n.
135), o ad una rimodulazione degli stessi (in applicazione
delle disposizioni di cui all’articolo 6, del D.lgs. n.
165/2001 e del citato art. 1, comma 557, della legge
296/2006) (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 24.07.2014 n. 406). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Ritiene la Sezione che, successivamente alla
realizzazione di un’opera pubblica, non sia consentito
modificare i quadri economici al fine di aggiungere le spese
per incentivi per la progettazione interna rilevato che,
secondo l’impostazione prescelta dal legislatore, le risorse
destinate agli incentivi per la progettazione debbano
trovare copertura, ai sensi dell’art. 93, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006, nell’ambito dei fondi stanziati per la
realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione
della spesa.
---------------
Il Sindaco del Comune di Torremaggiore (FG) illustra che
l’Ente ha realizzato ed ultimato sei opere pubbliche
finanziate con fondi regionali e cofinanziate, in alcuni
casi, con fondi comunali o con l’accensione di un mutuo
presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Il Sindaco evidenzia, quindi, che i quadri economici
iniziali delle opere non prevedevano alcuna somma per gli
incentivi per la progettazione e che tali somme sono state
richieste dai tecnici comunali dopo l’ultimazione dei lavori
e pertanto non è possibile trovare copertura alle suddette
spese nell’ambito dei quadri economici già approvati.
Conseguentemente, il Sindaco, rilevato che sia il mutuo che
i fondi regionali ed i cofinanziamenti comunali sono incapienti,
richiede il parere della Sezione per accertare
se sia possibile, a lavori ultimati, modificare i relativi
quadri economici al fine di aggiungere le spese per
incentivi per la progettazione ai sensi dell’art. 92 del D. Lgs. n. 163/2006 aumentando di pari importo il totale
complessivo del quadro economico e ponendo le suddette spese
a carico del bilancio comunale.
...
Il quesito sottoposto all’esame di questa Sezione appare
riconducibile alla materia della contabilità pubblica poiché
inerente l’interpretazione della normativa sulla
corresponsione degli incentivi di progettazione interna
destinata ad incidere direttamente sulla gestione del
bilancio dell’Ente.
L’articolo 92, comma 5, del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163,
recante il codice dei contratti pubblici, prevede che una
somma non superiore al due per cento dell'importo posto a
base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche
degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione, a valere direttamente sugli
stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita,
per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in
un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo
del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere.
La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione,
l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può
superare l'importo del rispettivo trattamento economico
complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie.
Preliminarmente, questa Sezione osserva che
gli enti devono
prevedere, in via analitica, nell’apposito regolamento,
richiamato dall’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006, i
criteri e le modalità di quantificazione, di ripartizione,
di corresponsione e di liquidazione dell’incentivo alla
progettazione interna.
Con il
parere 28.05.2014 n. 114 questa
Sezione ha, infatti, evidenziato che modalità e criteri di
ripartizione devono essere previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dalla Giunta comunale ai sensi dell’art. 48, comma
3, del D.Lgs. 267/2000.
In assenza del regolamento e della precedente contrattazione
decentrata, la corresponsione è illecita e determina danno
erariale.
La percentuale complessiva effettiva delle somme destinate
all’incentivo è predeterminata in sede regolamentare in
rapporto all’entità e complessità dell’opera da realizzare.
Perciò il regolamento deve consentire il calcolo della
percentuale effettiva attraverso una congrua e proporzionale
gradazione di valori/punteggi da attribuire ai due
coefficienti. La predeterminazione di un incentivo
sproporzionato rispetto ad entità e complessità dell’opera è
potenzialmente foriero di danno erariale alle casse
comunali, per cui si impone una ponderazione adeguata e
oggettiva dei valori.
La Sezione, con la citata deliberazione, ha, inoltre,
precisato che la corresponsione dell’incentivo può essere
disposta solo a favore dei seguenti soggetti in organico
all’amministrazione: responsabile del procedimento;
incaricati della redazione del progetto; incaricati della
redazione del piano della sicurezza; incaricati della
direzione dei lavori; incaricati del collaudo e
collaboratori dei soggetti predetti.
La giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo della
Corte dei conti ha chiarito che il cosiddetto “incentivo
alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti
pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il
legislatore attribuisce un compenso ulteriore e speciale, in
deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione
contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico
rinviando ai regolamenti dell’amministrazione
aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri
e le modalità di ripartizione (Sezione regionale di
controllo per il Piemonte,
parere 21.05.2014 n. 97 e
parere 17.03.2014 n. 44,
Sezione regionale di controllo per l’Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119, Sezione regionale di
controllo per la Campania,
parere 31.01.2013 n. 17).
L’art. 13, comma 1, del recente D.L. 24/06/2014 n. 90 ha
inserito, nel predetto articolo 92, il comma 6-bis che vieta
la corresponsione dei predetti incentivi di progettazione al
personale con qualifica dirigenziale proprio in ragione del
principio di onnicomprensività del trattamento economico
espressamente richiamato dalla novella normativa.
Ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso
incentivante, la Sezione delle Autonomie, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha
chiarito che deve ritenersi determinante non tanto il
nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il
suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente
connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ed ha
ribadito che, ove tale presupposto manchi, non è possibile
giustificare la deroga ai principi cardine in materia di
pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione
contrattuale delle componenti del trattamento economico.
L’articolo 93, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006 dispone che
gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei
lavori, alla vigilanza e ai collaudi, nonché agli studi e
alle ricerche connessi, gli oneri relativi alla
progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e
dei piani generali di sicurezza quando previsti ai sensi del
decreto legislativo 14.08.1996, n. 494, gli oneri
relativi alle prestazioni professionali e specialistiche
atte a definire gli elementi necessari a fornire il progetto
esecutivo completo in ogni dettaglio, ivi compresi i rilievi
e i costi riguardanti prove, sondaggi, analisi, collaudo di
strutture e di impianti per gli edifici esistenti, fanno
carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti.
Questa Sezione, alla luce del disposto predetto art. 93,
comma 7, già con la deliberazione n. 8/PAR/2007 del
14/05/2007, aveva, quindi, evidenziato che le risorse
finanziarie destinate agli incentivi per la progettazione
devono essere ex lege previste nel quadro economico di ogni
singola opera pubblica atteso che il legislatore ha inteso
considerare in modo unitario la spesa complessiva destinata
alla realizzazione di un’opera pubblica e conseguentemente
si era specificato che l’allocazione in bilancio di tali
risorse deve essere effettuata al titolo II della spesa
relativo alla spesa in conto capitale atteso che è destinata
a seguire gli stanziamenti previsti per le opere pubbliche.
Con la su citata
deliberazione 15.04.2014 n. 7,
la Sezione delle Autonomie ha, inoltre, richiamato la
propria precedente
deliberazione 13.11.2009 n. 16 che
aveva affermato per gli “incentivi per la progettazione
interna” la natura di spese di investimento, attinenti alla
gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della
spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la
realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di
funzionamento, rispetto alle quali la spesa per il personale
occupa un rilevante peso, nell’alveo della gestione
corrente, ed è iscritta nel titolo I della spesa.
Ritiene, quindi, la Sezione che, successivamente alla
realizzazione di un’opera pubblica, non sia consentito
modificare i quadri economici al fine di aggiungere le spese
per incentivi per la progettazione interna rilevato che,
secondo l’impostazione prescelta dal legislatore, le risorse
destinate agli incentivi per la progettazione debbano
trovare copertura, ai sensi dell’art. 93, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006, nell’ambito dei fondi stanziati per la
realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione
della spesa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 18.07.2014 n. 133). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: L’acquisizione di
beni e servizi secondo modalità diverse da quelle previste
dal novellato art. 1, comma 450, della L. 296/2006 sono causa
di nullità del contratto stipulato con configurazione di un
illecito disciplinare e di una fattispecie di responsabilità
amministrativa, “non potendo revocarsi in dubbio che il Me.PA, sia ascrivibile al genus degli strumenti di acquisto
messi a disposizione da Consip Spa”.
Tuttavia, la lettura coordinata e sistematica del
summenzionato comma 450 con l’immediatamente precedente
comma 449 della L. 296/2006 per cui, per l’acquisto di beni e
servizi “Le restanti amministrazioni pubbliche di cui
all’art. 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e
s.m., possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente
comma …. ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità
come limiti massimi per la stipulazione dei contratti. ….” ,
comporta che “l’obbligo di ricorrere agli strumenti di
approvvigionamento descritti va mitigato ogni qualvolta il
ricorso all’esterno persegue la ratio di contenimento della
spesa pubblica contenuta nella norma”.
Quanto
sopra pur, evidentemente, nella indispensabile
giustificazione delle oggettive motivazioni del mancato
esperimento della procedura della richiesta di offerta e/o
della mancata adesione alla procedura da parte
dell’offerente migliore, che dovrà, comunque, rispettare, ai
sensi dell’art. 327 del D.P.R. 207/2010, i requisiti generali
e di idoneità professionale previsti dagli artt. 38 e 39 del
codice dei contratti pubblici.
---------------
Il Presidente della Provincia di Parma ha inoltrato a questa
Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge
131/2003, una richiesta di parere in merito all’ambito di
applicazione dell’art. 1, comma 450, della Legge 27.12.2006, n. 296 per cui “Dal
01.07.2007, le amministrazioni
statali centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti
e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni
educative e delle istituzioni universitarie, per gli
acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di
rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione di cui
all’articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto
del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del
presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla
soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al
mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad
altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo
articolo 328. Per gli istituti e le scuole di ogni ordine e
grado, le istituzioni educative e le università statali,
tenendo conto delle rispettive specificità, sono definite,
con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e
della ricerca, linee guida indirizzate alla
razionalizzazione e al coordinamento degli acquisti di beni
e servizi omogenei per natura merceologica tra più
istituzioni, avvalendosi delle procedure di cui al presente
comma. A decorrere dal 2014 i risultati conseguiti dalle
singole istituzioni sono presi in considerazione ai fini
della distribuzione delle risorse per il funzionamento”.
Specificamente viene richiesto “se possa risultare possibile
l’accesso al libero mercato, qualora l’indagine nell’ambito
del mercato elettronico della pubblica amministrazione,
ovvero di atri mercati elettronici istituiti ai sensi
dell’articolo 328 del decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010 n. 207, evidenzi la disponibilità
dei beni e servizi necessari ma a prezzi superiori rispetto
a quelli normalmente praticati nel contesto commerciale di
riferimento”.
...
La soluzione del quesito si fonda sull’interpretazione da
fornire all’inciso del comma 450 dell’art. 1 della
finanziaria 2007 e s.m.i. per cui “le altre amministrazioni
pubbliche di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di beni e servizi di
importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono
tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici
istituiti ai sensi del medesimo articolo 328”.
Il richiamato
art. 328 del D.P.R. 207/2010 ne prevede tre tipologie
diverse: quello della stessa stazione appaltante, quello
realizzato dal Ministero dell’economia e delle finanze
tramite il sistema Consip, quello realizzato dalle centrali
di committenza di cui all’art. 33 del codice dei contratti
pubblici.
Peraltro, oltre al già ampio spettro di scelta tra le
summenzionate tipologie di mercato elettronico
normativamente previste, l’eventualità di prezzi inferiori
reperibili sul mercato, rispetto a quelli catalogati, per i
beni e servizi necessari, trova una risposta adeguata nel
vigente testo normativo. Infatti, il sistema si configura
come un “mercato aperto cui è possibile l’adesione da parte
di imprese che soddisfino i requisiti previsti dai bandi
relativi alla categoria merceologica o allo specifico
prodotto e servizio e, quindi, anche di quella asseritamente
in grado di offrire condizioni di maggior favore rispetto a
quelle praticate sul Me. PA … . D’altro canto …nell’ambito
dello stesso è prevista una duplicità di modalità
d’acquisto: così, oltre all’ordine diretto che permette di
acquisire sul Mercato Elettronico i prodotti/servizi con le
caratteristiche e le condizioni contrattuali già fissate, è
prevista la richiesta di offerta (cd. R.d.O.) con la quale è
possibile negoziare prezzi e condizioni migliorative o
specifiche dei prodotti/servizi pubblicati su cataloghi on line”
(cfr. Sezione regionale di controllo Marche n. 169/2012).
A tal proposito, infatti, il comma 4 dell’art. 328 del
D.P.R.207/2010 prevede che le stazioni appaltanti,
servendosi del mercato elettronico, possano effettuare
acquisti di beni e servizi sotto soglia “a) attraverso un
confronto concorrenziale …..delle offerte ricevute sulla
base di una richiesta di offerta rivolta ai fornitori
abilitati; ….”.
Pertanto, attraverso la procedura della richiesta di
offerta, pur nell’ambito del sistema del mercato
elettronico, sono acquisibili prezzi più convenienti per i
beni e servizi pur disponibili nei cataloghi on-line.
L’inderogabilità della richiamata procedura è suffragata
dall’interpretazione letterale del dato normativo di cui al
comma 450 dell’art. 1 della finanziaria 2007 e s.m.i. che non
ammette deroghe neppure per gli enti locali, nonché alla
luce della ratio di tutela della trasparenza e della
concorrenzialità cui l’automaticità del meccanismo di
aggiudicazione, normativamente previsto, è sotteso.
Ad
ulteriore conferma, infine, il fatto che l’acquisizione di
beni e servizi secondo modalità diverse da quelle previste
dal novellato art. 1, comma 450, della L. 296/2006 saranno causa
di nullità del contratto stipulato con configurazione di un
illecito disciplinare e di una fattispecie di responsabilità
amministrativa, “non potendo revocarsi in dubbio che il Me.PA, sia ascrivibile al genus degli strumenti di acquisto
messi a disposizione da Consip Spa” (cfr. Sezione regionale
di controllo per le Marche n.169/2012).
Altresì, la lettura coordinata e sistematica del
summenzionato comma 450 con l’immediatamente precedente
comma 449 della L. 296/2006 per cui, per l’acquisto di beni e
servizi “Le restanti amministrazioni pubbliche di cui
all’art. 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e
s.m., possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente
comma …. ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità
come limiti massimi per la stipulazione dei contratti. ….” ,
comporta che “l’obbligo di ricorrere agli strumenti di
approvvigionamento descritti va mitigato ogni qualvolta il
ricorso all’esterno persegue la ratio di contenimento della
spesa pubblica contenuta nella norma” (cfr. Sezione
regionale di controllo per la Toscana n. 151/2013).
Quanto
sopra pur, evidentemente, nella indispensabile
giustificazione delle oggettive motivazioni del mancato
esperimento della procedura della richiesta di offerta e/o
della mancata adesione alla procedura da parte
dell’offerente migliore, che dovrà, comunque, rispettare, ai
sensi dell’art. 327 del D.P.R. 207/2010, i requisiti generali
e di idoneità professionale previsti dagli artt. 38 e 39 del
codice dei contratti pubblici
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 17.12.2013 n. 286). |
NEWS |
ENTI
LOCALI: Tar in fuorigioco sul pre-dissesto.
Cassazione. Impugnabili per vizi propri gli atti dei
Prefetti.
Le Sezioni
Uniti Civili si (ri)pronunciano in materia di predissesto,
definendo il dilemma del giudice competente a decidere.
Lo
fanno con l'ordinanza n. 16631/2014, pronunciata a seguito di un
ulteriore ricorso per regolamento di giurisdizione, in
relazione ad un processo pendente (n. 238/2013) del Tar di
Catania sul dissesto del Comune di Milazzo. La seconda
pronuncia arriva dopo l'ordinanza 5805/2014 (Il Sole24 Ore
del 24.03.2014) che aveva sancito, in riferimento al
Comune di Cefalù, la competenza esclusiva delle Sezioni
Riunite della Corte dei conti in composizione speciale,
chiamate a decidere degli appelli contro le decisioni delle
Sezioni regionali di controllo in materia di predissesto/dissesto.
Una conclusione, quest'ultima, cui erano tuttavia pervenute
qualche tempo prima le stesse sezioni Riunite della Corte
dei conti, con la sentenza 19/20014/EL sulla dichiarazione
di dissesto guidato del Comune di Lamezia Terme deliberata
dalla Sezione regionale di controllo.
Le Sezioni Unite della Cassazione confermano
l'impugnabilità, per vizi propri, degli atti assunti dai
Prefetti in pedissequa esecuzione delle delibere delle
Sezioni regionali di controllo della magistratura contabile.
Decidono, in proposito, che su di essi non è ammesso
sindacato alcuno delle Sezioni Riunite, in composizione
speciale. Con questo, le Sezioni Unite della Cassazione
ribadiscono l'essenzialità dei due procedimenti intesi a
perseguire altrettanti e diversi giudizi.
Una decisione che mette in imbarazzo i Tar nel frattempo
giunti a diverse conclusioni. Tra questi, il Tar Calabria
che, con la sentenza n. 762/2014, ha dichiarato il proprio
difetto di giurisdizione in riferimento alla nota del
Prefetto di Catanzaro che diffidava il Comune di Lamezia
Terme ad adottare la delibera di dissesto (articolo 246 del
Tuel). Ciò a conclusione della procedura di dissesto guidato
perfezionata dal magistrato catanzarese in base all'articolo
6, comma 2, del Dlgs 149/2011.
Tutto questo è quanto si ricava dalla lettura più immediata
della recente ordinanza. A volere essere maliziosi ci si
potrebbe chiedere se non ci sia la volontà del giudice
massimo di porre un freno all'ampliamento della
giurisdizione delle Sezioni riunite della Corte dei conti,
in considerazione del peso che le sue decisioni stanno
assumendo (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2014). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Recuperi dai fondi integrativi se il contratto è illegittimo.
Personale. Le «istruzioni» della Conferenza unificata.
La partita
della sanatoria dei contratti decentrati illegittimi si è
formalmente conclusa, salvo che per la auspicata riforma
della contrattazione, con la presa d'atto da parte della
Conferenza Unificata, nella sua ultima riunione, del
documento predisposto dal comitato costituito tra
rappresentanti di ministeri, Comuni, Province e Regioni
(anticipato sul Sole 24 Ore del 28 luglio). Ma c'è da
scommettere che, a parte possibili novità legislative, la
questione si trascinerà ancora, perché i dubbi non sono
interamente chiariti. Nel frattempo è stato firmato il
contratto decentrato integrativo dei dipendenti del comune
di Roma, che si muove lungo la stessa lunghezza d'onda del
documento della Conferenza Unificata.
Il documento compie cinque scelte chiare. Gli enti:
- devono verificare la legittimità dei fondi per le risorse
decentrate e, in caso di illegittimità, recuperare le somme
illegittimamente erogate;
- devono controllare le modalità di utilizzazione del fondo;
- devono applicare le sanzioni per i contratti illegittimi
sottoscritti dopo il 31.12.2012 e per quelli che hanno
disposto l'utilizzo in modo illegittimo del fondo in assenza
dei presupposti per la sanatoria (cioè il rispetto del patto
e dei vincoli alla spesa del personale, ivi compresi quelli
dettati dal Dl 78/2010);
- non devono recuperare dai singoli dipendenti nelle ipotesi
in cui ricorrono le condizioni per la sanatoria;
- possono applicare unilateralmente queste misure,
rispettando l'obbligo della informazione ai soggetti
sindacali.
Il documento chiarisce che il 100% dei risparmi provenienti
dai piani di razionalizzazione può essere destinato al
recupero delle somme illegittimamente erogate; che le scelte
determinate dalla legislazione regionale non impugnata sono
da considerare comunque legittime; che le relazioni sui
piani di recupero devono essere analoghe a quelle sui
contratti decentrati; che le amministrazioni che hanno
superato il tetto del 50% della spesa per le assunzioni
flessibili del 2009 (vincolo peraltro abrogato dalla legge
di conversione del Dl per gli enti "virtuosi") per incarichi
conferiti in precedenza non sono inadempienti e che i
contratti decentrati stipulati prima dell'entrata in vigore
della legge Brunetta vanno adeguati ad essa. E inoltre
rinvia, per la definizione delle modalità di calcolo della
riduzione del fondo per le risorse decentrate a seguito di
diminuzione del personale, ad una futura intesa.
Tra i tanti aspetti non chiariti ricordiamo: come si devono
computare i risparmi derivanti dai prepensionamenti ai fini
del recupero delle somme illegittimamente erogate nella
contrattazione (vanno calcolati solo quelli di un anno o per
più anni); se le disposizioni si applicano agli enti che non
hanno rispettato il patto e/o i vincoli alla spesa del
personale per un solo anno; se le progressioni orizzontali
effettuate illegittimamente si possono considerare sanate o
meno.
In linea con le indicazioni del documento va il contratto
decentrato integrativo dei dipendenti di Roma. Esso
garantisce la invarianza delle risorse destinate alla
contrattazione (anzi un aumento di circa 8 milioni
provenienti dai risparmi del fondo del 2013), supera buona
parte delle illegittimità contenute nella contrattazione
precedente e garantisce una sostanziale invarianza del
trattamento accessorio medio spostando risorse su quelle
indennità che dovrebbero garantire un miglioramento dei
servizi (quali il turno e soprattutto la produttività) (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pa, si parte con staffetta e anticorruzione.
Ok definitivo della Camera al Dl Madia - Renzi: bene, ora
sotto con la delega e i decreti attuativi.
Si parte
subito con la staffetta generazionale. Dalla fine di ottobre
nessun dipendente pubblico potrà restare a lavoro dopo avere
raggiunto i requisiti pensionistici, mentre finora la
carriera poteva protrarsi ancora per due anni. E ancora le
pubbliche amministrazioni potranno mandare a riposo i loro
dipendenti a 62 anni, purché abbiano l'anzianità massima. Si
tratterà di uscite anticipate di 4 anni rispetto al limite
dei 66 anni. La possibilità in realtà era già prevista, ma
la ricetta viene modificata, includendo ora anche i
dirigenti. Al via subito anche il pacchetto anticorruzione
nato sulla scia delle polemiche sui maxi appalti del Mose e
dell'Expo finiti nel mirino della magistratura.
Sono questi alcuni degli ingredienti più sostanziosi della
riforma della pubblica amministrazione che ieri ha incassato
il via libera definitivo del Parlamento, dopo tre passaggi
tra Camera e Senato. Un sì subito festeggiato con un tweet
(«è legge») dal premier Matteo Renzi e dal ministro Pa,
Marianna Madia. Che subito hanno rilanciato, puntando sulla
delega, definita dal ministro «il cuore» dell'operazione di
rinnovamento.
Il decreto, passato con la terza fiducia al Montecitorio, è
infatti «il primo tassello». Ma il cantiere resta aperto e
si guarda già avanti. «Adesso sotto con la delega e i
decreti attuativi», ha spronato ieri il premier. Il disegno
di legge comincerà il suo iter dal Senato dopo la pausa
estiva, con l'obiettivo di completare tutto per la fine
dell'anno, così da dedicare «il prossimo» -ha spiegato il
ministro Madia- proprio «all'attuazione».
Intanto però non
si placano le polemiche suscitate dallo stralcio di «quota
96», lo sblocco dei pensionamenti nella scuola, con il
presidente della commissione Bilancio, Francesco Boccia
(Pd), che ieri ha parlato di «frattura» da sanare.
Dichiarazioni che per il capogruppo di Fi alla Camera,
Renato Brunetta, manifestano «una crisi istituzionale».
Madia però minimizza e chiarisce come dopo i «rilievi»
dell'Economia il Governo, «unito», abbia fatto «una scelta
politica».
Nel menù del del decreto –che prevede una ventina di
provvedimenti attuativi– oltre alla staffetta generazionale,
i pensionamenti automatici per i dipendenti che hanno
raggiunto i requisiti contributivi pieni, e il pacchetto
anticorruzione ci sono misure che intervengono su più
fronti. C'è la sperimentazione della mobilità, la
semplificazione del turn over. E ancora: lo stop agli
incarichi per i pensionati, esteso anche alle società a
controllo pubblico, e il dimezzamento dei distacchi e dei
permessi sindacali.
Sul fronte dei tagli il dimezzamento delle somme dovute
dalle imprese alle Camere di commercio ci sarà, anzi la
prospettiva è l'abolizione, ma arriverà con gradualità, solo
nel 2017. Resta in piedi l'ipotesi di accorpamento delle
sedi delle Authority, ma solo se non vengono rispettati i
nuovi vincoli: il 70% del personale deve essere concentrato
nel "quartier generale".
Infine viene allargato il campo
d'azione del presidente dell'Autorità anticorruzione, ruolo
oggi ricoperto da Raffaele Cantone. La sua vigilanza sui
contratti d'appalto a rischio coinvolgerà pure le
concessionarie e potrà proporre commissariamenti anche nei
casi in cui il procedimento penale non sia stato ancora
aperto (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014). |
APPALTI: Documenti irregolari per gli appalti sanati con sanzione.
Processo amministrativo. Il taglio alle cause.
L'articolo 38
del decreto-legge 90/2014 sulla pubblica amministrazione
conferma l'impulso informatico al processo amministrativo
imponendo la sottoscrizione digitale dei provvedimenti del
giudice e dei suoi ausiliari.
Novità riguardano il processo degli appalti di opere
forniture e servizi pubblici, cioè le gare ed il relativo
contenzioso. Si intende attuare (articolo 39) un
decongestionamento delle cause di esclusione per
irregolarità formali, mediante il contrappeso rappresentato
da una sanzione pecuniaria per chi incorre in irregolarità.
Le irregolarità stesse, una volta sanate, escludono il
contenzioso su mancanza, incompletezza o irregolarità
dichiarazioni necessarie per una corretta partecipazione
alle gare. È previsto un termine di 45 giorni entro il quale
va definito il giudizio: termine che decorre da quando tutte
le parti sono in grado di difendersi.
Come misura collaterale alla speditezza del tempo delle
liti, viene introdotta una rilevante previsione formale:
applicando il principio di sinteticità degli atti, sarà
imposto un limite alle dimensioni degli atti giudiziari e in
particolare agli atti difensivi.
Ciò avverrà all'indomani di consultazioni con gli avvocati.
Esiste in proposito già un impegno generico, assunto
all'indomani dell'entrata in vigore del codice del processo
amministrativo (Dlgs 104 del 2010) secondo il quale atti e
memorie dovranno essere calibrati intorno alle 20-30
cartelle, in analogia a quanto accade per la difesa innanzi
agli organi di giustizia comunitaria e alla corte dei
diritti dell'uomo. Dinanzi la giustizia Ue i limiti
quantitativi sono coerenti con la necessità di traduzione e
alla circostanza che esistono già, nel fascicolo,
provvedimenti giurisdizionali nazionali.
La novità del Dl 90 non è solo nei limiti quantitativi, ma
anche nelle sanzioni cui si va incontro qualora si eccedano
le quantità consentite. Fino ad oggi vi era un deterrente di
tipo pecuniario, che non superava qualche migliaio di euro
nei casi più clamorosi (per inutilità e ridondanza delle
espressioni difensive ). Oggi invece l'articolo 39 afferma
che il giudice è tenuto a esaminare solo le pagine
quantitativamente consentite e che nemmeno il giudice di
appello possa esaminare gli argomenti trattati nelle pagine
eccedenti il limite consentito in primo grado.
La previsione rischia di incidere sulla difesa in giudizio
obbligandola a limiti formali. Le tecniche difensive per
aggirare l'ostacolo quantitativo non mancheranno, a partire
dalla possibilità di allegare come documentazione separata i
precedenti giudiziari e le norme di riferimento.
Altra novità riguarda la cauzione che accompagna i
provvedimenti cautelari in materia di appalti: questo
contrappeso economico diventa facoltativo e non più
obbligatorio; inoltre, non può essere previsto qualora vi
siano possibili effetti irreversibili del provvedimento
urgente della magistratura, cioè quando sono lesi diritti
fondamentali, come quello alla salute, oppure quando le
scelte dell'amministrazione non siano più rinviabili nemmeno
per i 60 giorni entro i quali occorre emettere un
provvedimento definitivo.
Tornando al processo civile, l'articolo 45 del decreto legge
prevede che la comunicazione del dispositivo sia sostituita
dalla comunicazione del testo integrale della sentenza,
senza tuttavia che ciò faccia decorrere i termini per
l'impugnazione della sentenza stessa (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità «obbligata» all'interno di 50 chilometri.
Trasferimenti. L'articolo 30 del Dlgs 165/2001.
L'istituto
della mobilità tra le pubbliche amministrazioni è stato
totalmente riscritto dal Dl 90/2014 e ulteriormente
modificato dalla legge di conversione.
Il riferimento è l'articolo 30 del Dlgs 165/2001, anche se,
i vari rimandi a successivi interventi, non sembrano dare
nulla per definitivo.
Viene confermato che, a livello generale, per il passaggio
di dipendenti tra un ente l'altro serve sempre l'assenso
dell'amministrazione di appartenenza. Solamente per la
mobilità tra le sedi centrali dei ministeri, agenzie ed enti
pubblici non economici nazionali, ed in via sperimentale,
non è richiesto l'assenso dell'amministrazione di
appartenenza, la quale dispone il trasferimento entro due
mesi dalla richiesta dell'amministrazione di destinazione.
Al di fuori di questi casi, le amministrazioni devono
fissare preventivamente i requisiti e le competenze
professionali dei posti che si intendono ricoprire tramite
mobilità e debbono pubblicare sul proprio sito istituzionale
per almeno trenta giorni un bando per rendere pubblici i
posti che si intendono occupare, con i requisiti dei
candidati.
Poiché può accadere, soprattutto se sono coinvolte
amministrazioni di diversi comparti, che i dipendenti che
transitano con mobilità non abbiano la piena professionalità
necessaria per lo svolgimento dei nuovi compiti, la legge di
conversione del Dl 90/2014 ha previsto, senza corsi
aggiuntivi, la possibilità che vengano attivati percorsi di
riqualificazione dei lavoratori la cui domanda di
trasferimento è accolta.
Particolarmente delicata la questione della mobilità
"obbligatoria". Il comma 2 dell'articolo 30 del Dlgs
165/2001 prevede che i dipendenti possono essere trasferiti
all'interno della stessa amministrazione o, previo accordo
tra le amministrazioni interessate, in un'altra
amministrazione, in sedi collocate nel territorio dello
stesso comune ovvero a distanza non superiore a 50
chilometri dalla sede cui sono adibiti.
In questo caso non è necessario il benestare del lavoratore.
L'assenso del dipendente a trasferirsi in altra sede è,
invece, obbligatorio quando il dipendente ha figli di età
inferiore a tre anni con diritto al congedo parentale oppure
si tratti di persone che hanno familiari con disabilità
grave (articolo 33, comma 3, della legge 104/1992).
L'applicazione della norma è particolarmente delicata poiché
mette, ovviamente, in opposizione le esigenze
dell'amministrazione con quelle dei lavoratori. Al fine di
gestire nel migliore dei modi i potenziali conflitti, è
previsto un decreto da parte del ministro per la
Semplificazione e la pubblica amministrazione per fissare i
criteri per i processi di trasferimenti "obbligati" (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Più turn over negli uffici Dal 2018 sarà del 100%.
Il ricambio generazionale. Le nuove soglie.
Le
amministrazioni pretendevano maggiori spazi nelle assunzioni
per il ricambio generazione. Hanno prevalso le ragioni di
bilancio e l'articolo 3 del Dl 90/2014, in tema di turn over,
ha superato l'esame delle Camere senza grandi
sconvolgimenti.
Per lo Stato, è confermato il cronoprogramma in tema di
sostituzione del personale cessato: 20% nel 2014; 40% nel
2015; 60% nel 2016; 80% nel 2017 e, infine, 100% dal 2018.
Sono fatte salve le normative di settore, tra le quali, in
sede di conversione, sono state aggiunte le università.
Stessa previsione per gli enti di ricerca, (100% del turn
over dal 2018), ma diversa, rispetto allo Stato, è la
graduazione nel tempo: 50% nel 2014 e nel 2015; 60% nel
2016; 80% nel 2017 e 100% dal 2018. Per tali enti, le
assunzioni possono essere effettuate solo a condizione che
la spesa per il personale di ruolo non superi l'80% delle
entrate correnti proprie risultanti dal bilancio consuntivo
dell'anno precedente.
Ma la parte del leone, nel decreto, è riservata agli enti
locali soggetti al patto di stabilità. Viene confermata
l'applicazione dell'articolo 1, comma 557 della legge
296/06, ma il riferimento alla spesa di personale dell'anno
precedente è sostituito con la media del triennio precedente
alla data di entrata in vigore della legge. Non risulta
chiaro se, dal 2015, il riferimento è sempre al triennio
2011-2013 ovvero si debba procedere a scorrimento. Rimane
l'aumento delle facoltà assunzionali, che passa, per il 2014
e il 2015, al 60% della spesa dei cessati dell'anno
precedente. Sono abrogate, però, le norme di maggior favore
previste per i settori polizia locale, istruzione pubblica e
sociale. Probabilmente le due misure si pareggiano.
La
percentuale di sostituzione dei cessati sale all'80% nel
2016 e 2017 e arriva al 100% nel 2018. In sede di
conversione è stata inserita una norma a favore degli enti
virtuosi, vale a dire dove il rapporto fra spesa di
personale e spesa corrente non supera il 25 per cento. In
tale ipotesi, il turn over sale all'80% già nel 2014 e
diventa integrale dal 2015.
Confermata, infine, anche l'abrogazione del vincolo del 50%
nel rapporto fra spesa di personale e spesa corrente, oltre
al quale operava la sanzione del divieto di assunzione.
Viene meno, quindi, anche l'obbligo di consolidamento della
spesa di personale delle società partecipate, delle aziende
speciali e delle istituzioni, per le quali resta solo un
coordinamento con l'ente proprietario che porti a una
riduzione del rapporto fra spesa di personale e spese
correnti.
A vigilare su questi obblighi sono chiamati i revisori dei
conti, che dovranno allegare alla delibera di approvazione
del bilancio una relazione. In caso di omissione, il
prefetto invia una segnalazione al ministero dell'interno
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il contratto può finire a 62 anni.
Cancellato l'istituto del trattenimento in servizio una
volta raggiunti i 65 anni.
Il Dl sulla Pa. Gli enti pubblici possono risolvere il
rapporto con il dipendente che ha i requisiti per la
pensione anticipata.
Confermate
l'abrogazione del trattenimento in servizio e la risoluzione
unilaterale del rapporto di lavoro al raggiungimento
dell'anzianità contributiva richiesta per il pensionamento
anticipato.
Lo prevede la legge di conversione del Dl
90/2014 approvato in via definitiva ieri dalla Camera.
Con il venir meno dell'articolo 16 del Dlgs 503/1992
(Riforma Amato) le Pa dovranno risolvere il rapporto di
lavoro nei confronti dei dipendenti che, al compimento del
65esimo anno di età, hanno maturato un qualsiasi diritto a
pensione senza che questi possano opporsi.
La prosecuzione del rapporto di lavoro fino ai nuovi limiti
anagrafici (66 anni 3 mesi) è ammessa solo per far sì che
l'interessato acquisisca la pensione qualora a 65 anni non
risulti perfezionato alcun diritto.
I trattenimenti in servizio già disposti -prima del Dl
90/2014- cesseranno la loro efficacia il 31.10.2014 o
fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore. Altra
deroga ammessa è quella di consentire al lavoratore di
permanere in servizio fino al raggiungimento dell'anzianità
contributiva minima richiesta per la pensione di vecchiaia
(20 anni) anche se tale requisito dovesse risultare
perfezionato successivamente al compimento dell'età
anagrafica prevista per la pensione di vecchiaia.
Inoltre, fino al 24.06.2014, le pubbliche
amministrazioni potevano risolvere il rapporto di lavoro al
raggiungimento dell'anzianità contributiva prevista per la
pensione anticipata, fino al 31.12.2014. In sede di
prima applicazione la norma si riferiva al triennio
2009/2011 e successivamente fu esteso al triennio 2012/2014.
Con la nuova formulazione gli enti, con decisione motivata e
con riferimento alle esigenze organizzative e senza
pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi,
potranno risolvere il rapporto di lavoro al raggiungimento
dei requisiti contributivi vigenti tempo per tempo per
l'accesso alla pensione anticipata -con un preavviso di sei
mesi- e comunque non prima del compimento del 62esimo anno
di età, al fine di evitare l'applicazione delle penalità
(1%-2%) previste sulle quote retributive di pensione.
A tal fine si ricorda che le penalità non trovano comunque
applicazione fino al 2017 qualora l'anzianità contributiva
considerata derivi da prestazione effettiva di lavoro,
compresi i periodi di astensione obbligatoria per maternità,
per l'assolvimento degli obblighi di leva, per infortunio,
per malattia e di cassa integrazione guadagni ordinaria, per
la donazione di sangue e per i congedi parentali di
maternità e paternità previsti dal relativo testo unico,
nonché per i congedi e i permessi concessi in base alla
legge 104/1992.
Nei confronti del personale con diritto a pensione maturato
entro il 31.12.2011, la risoluzione del rapporto di lavoro
avverrà al compimento del 40esimo anno contributivo, poiché
tali lavoratori non sono soggetti alle nuove norme, neppure
su opzione, se non limitatamente al calcolo contributivo a
decorrere dal 01.01.2012.
Salvi dalle novità il personale di magistratura nonché i
professori universitari i quali continueranno ad accedere
alla pensione al raggiungimento dei limiti ordinamentali
previsti per le singole categorie.
Le risoluzioni unilaterali nei confronti dei responsabili di
struttura complessa del Servizio sanitario nazionale
avverranno al raggiungimento del 40esimo di servizio
effettivo e comunque non oltre il 70esimo anno di età. I
dirigenti medici e del ruolo sanitario potranno restare in
servizio comunque fino al 65esimo anno di età.
Come già annunciato dal Governo, è saltata la clausola di
salvaguardia che avrebbe consentito l'accesso alla pensione
di anzianità a 4mila docenti che per effetto della riforma
Monti-Fornero erano rimasti esclusi dalle clausole di
salvaguardia, stante la specificità del settore scuola che
contempla uscite obbligatorie con l'inizio dell'anno
scolastico (1° settembre)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Il decreto Pa incassa la fiducia. Madia: nessuna
marcia indietro su «quota 96», normale dialettica i rilievi
dell'Economia.
Passaggio finale senza sorprese
in Aula al Senato per il decreto Pa dopo lo stralcio delle
misure previdenziali che erano state introdotte alla Camera.
Palazzo Madama ha votato con 160 sì e 106 no la fiducia
chiesta dal Governo sul maxi-emendamento interamente
sostitutivo del Dl nella versione modificata dalla
commissione Affari Costituzionali.
La Commissione aveva approvato lunedì quattro emendamenti
presentati dall'Esecutivo per sopprimere misure giudicate
dalla Ragioneria generale dello Stato prive di copertura: la
norma che avrebbe consentito a quattromila tra insegnanti e
personale della scuola di andare in pensione con la "quota
96"; la norma che consentiva il pensionamento d'ufficio per
primari e professori universitari che avessero raggiunto i
68 anni; la norma che toglieva le penalizzazioni in caso di
pensionamento anticipato di alcune categorie e quella in
favore delle vittime del terrorismo. Su richiesta della
Commissione Bilancio è stata invece recuperata un'altra
misura tolta a Montecitorio e che fa salva l'aspettativa dei
magistrati per i quali è già in corso.
Il ministro Marianna Madia ha spiegato che il decreto
rappresenta solo il primo tassello d'una riforma ben più
ampia, contenuta nel disegno di legge delega trasmesso allo
stesso Senato e destinata a «ribaltare il rapporto tra
cittadini e pubblica amministrazione». Mentre su "quota 96",
ha aggiunto, non c'è stata alcuna marcia indietro del
Governo, visto l'annuncio del presidente del Consiglio di un
provvedimento strutturale sulla scuola entro agosto che
interesserà anche i precari aprendo a «nuove entrate».
Nessun problema anche con il Quirinale: «La firma del Capo
dello Stato -ha affermato Madia- è stata apposta sul decreto
uscito dal consiglio dei ministri e i rilievi del ministero
dell'Economia di queste ore sono su norme entrate nel
decreto dopo una normale dialettica democratica
parlamentare».
Una dialettica che ora dovrebbe chiudersi con un terzo voto
di fiducia alla Camera, dopo quello di giovedì scorso sulle
misure poi cancellate al Senato. «Il Mef ha voluto un
braccio di ferro. Si è aperta una ferita» ha commentato con
amarezza il presidente della Commissione Bilancio di
Montecitorio, Francesco Boccia, che sulla questione di
"quota 96" s'è confrontato con Renzi: «L'importante è che si
risolva il nodo. Il provvedimento va fatto entro agosto». Il
via libera definitivo al dl Pa è atteso a questo punto entro
venerdì.
L'impianto del decreto, partito con 52 articoli e la
previsione di 17 provvedimenti attuativi poi lievitati oltre
la ventina con le modifiche dopo la prima lettura, resta
incentrato sulle misure per la staffetta generazionale, con
le norme che cancellano da ottobre i trattenimenti in
servizio (fatte salve alcune categorie) e confermano i
pensionamenti automatici per i dipendenti che hanno
raggiunto i requisiti contributivi pieni. C'è poi la
sperimentazione della mobilità, la semplificazione del turn
over e le oltre mille assunzioni per i vigili del fuoco.
E ancora: lo stop agli incarichi per i pensionati, esteso
anche alle società a controllo pubblico, e il dimezzamento
dei distacchi e dei permessi sindacali. Sul fronte dei tagli
il dimezzamento delle somme dovute dalle imprese alle Camere
di commercio ci sarà, anzi la prospettiva è l'abolizione, ma
arriverà con gradualità, solo nel 2017. Resta in piedi
l'ipotesi di accorpamento delle sedi delle Authority, ma
solo se non vengono rispettati i nuovi vincoli: il 70% del
personale deve essere concentrato nel "quartier generale".
Infine viene allargato il campo d'azione del presidente
dell'Autorità anticorruzione, ruolo oggi ricoperto da
Raffaele Cantone. La sua vigilanza sui contratti d'appalto a
rischio coinvolgerà pure le concessionarie e potrà proporre
commissariamenti anche nei casi in cui il procedimento
penale non sia stato ancora aperto
(articolo
Il Sole 24 Ore del 06.08.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIAGO: Avvocati locali, tornano i premi per le «vittorie».
Incentivi. Il correttivo.
Via libera
alla possibilità di remunerare le attività degli avvocati
degli enti locali, anche se, nella versione dell'articolo 9
del Dl 90/2014 approvata dalla Camera, le regole si fanno
molto dettagliate e di non agile lettura.
Il legislatore, innanzitutto, distingue, sia nella tipologia
sia nella procedura per l'erogazione dei compensi, gli
avvocati dipendenti dalle amministrazioni elencate
dall'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, dal personale
dell'Avvocatura dello Stato.
Per entrambi, però, vale il principio secondo il quale i
compensi professionali rientrano nel computo del limite
massimo del trattamento economico annuo onnicomprensivo,
parametrato a quello del primo presidente della Corte di
cassazione, attualmente fissato 240mila euro al lordo degli
oneri previdenziali e fiscali. Un limite, naturalmente, che
interessa sul piano pratico solo gli avvocati dello Stato.
Nel contesto degli enti locali, è previsto che ai fini del
riconoscimento delle somme per l'avvocatura la misura e le
modalità di riparto siano definiti dai «rispettivi
regolamenti e dalla contrattazione collettiva». Il
meccanismo proposto, sembra essere quello di un duplice
passaggio: un riconoscimento a livello contrattuale ai fini
dell'inquadramento dei compensi in virtù del principio di
onnicomprensività della retribuzione, e una definizione
specifica, in ciascun ente, contenente le concrete regole di
distribuzione.
È lo stesso articolo 9 che stabilisce, però, i criteri
generali del riparto a cui devono attenersi contratti e
regolamenti. L'elemento di base è il rendimento individuale,
da valutarsi secondo elementi oggettivamente misurabili che
tengano conto anche della puntualità negli adempimenti
processuali. Da questi documenti, inoltre, dovranno
scaturire i criteri di assegnazione delle pratiche a seconda
che si tratti di «affari consultivi o contenziosi»,
garantendo parità di trattamento tra i dipendenti e
specializzazione professionale.
Tutto questo, si applica esclusivamente in caso di sentenza
favorevole con recupero delle spese legali a carico delle
controparti.
Nel caso, infatti, in cui vi sia una pronunciata
compensazione integrale delle spese, oltre alla definizione
tramite regolamenti e contratti, scatta anche un limite
economico: non possono essere erogati compensi oltre il
corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013.
I contratti e i regolamenti dovranno essere adeguati entro
tre mesi dalla legge di conversione del Dl 90/2014.
Diversamente, a decorrere dal 01.01.2015, le
amministrazioni non potranno corrispondere alcun compenso
professionale ai propri avvocati (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Società, il Comune guida i tagli.
Le controllate devono ridurre il personale secondo gli atti
di indirizzo.
Decreto Pa. Il criterio base è quello dell'alleggerimento
della spesa rispetto al triennio 2011-2013.
Le società
partecipate possono assumere, ma devono rispettare gli atti
di indirizzo degli enti locali soci e pervenire a una
graduale riduzione della percentuale tra spese di personale
e spese correnti.
Le disposizioni sul personale delle amministrazioni
pubbliche contenute nell'articolo 3 del Dl 90/2014, nella
formulazione derivante dal disegno di legge di conversione
approvato in prima lettura alla Camera, riservano importanti
novità anche per il reclutamento delle risorse umane nelle
partecipate, appena ridisciplinato dalla revisione
dell'articolo 18, comma 2-bis, della legge n. 133/2008,
operato dalla legge 89/2014.
Si stabilisce ora che le società a partecipazione pubblica
locale totale o di controllo (ma anche le aziende speciali e
le istituzioni) si attengono al principio di riduzione dei
costi del personale, con il contenimento degli oneri
contrattuali e delle assunzioni. Spetta all'ente
controllante, con atto di indirizzo e tenendo conto delle
norme che stabiliscono per esso limiti alle assunzioni,
definire, per ciascuno dei soggetti partecipati, criteri e
modalità di attuazione del contenimento, tenendo conto del
settore di attività.
Il vincolo-chiave del rapporto tra spesa per il personale e
spesa corrente inferiore al 50% per poter consentire le
assunzioni, secondo quanto stabilito dall'articolo 76, comma
7, della legge 133/2008, è abrogato e sostituito
dall'articolo 3 del Dl 90.
All'articolo 3, comma 5, è previsto che le amministrazioni
coordinino le politiche assunzionali delle aziende speciali,
delle istituzioni e delle società con partecipazione
interamente pubblica o di controllo al fine di garantire
anche per tali organismi una graduale riduzione della
percentuale tra spese di personale e spese correnti.
Gli enti locali, nel definire gli atti di indirizzo e i
vincoli per le partecipate nella riduzione graduale, hanno
ora un nuovo parametro, dato dal riformulato comma
557-quater della legge 296/2006: il contenimento delle spese
di personale va riferito al valore medio del triennio
precedente alla data di entrata in vigore della legge di
conversione della norma.
Per le società partecipate, il decreto di riforma della Pa
prevede anche nuove regole nella composizione dei consigli
di amministrazione, modificando le norme introdotte a suo
tempo dai commi 4 e 5 della legge 135/2012.
Per quelle che gestiscono servizi strumentali, il consiglio
di amministrazione non può essere composto da più di tre
membri e dal 2015 il costo degli amministratori deve essere
ridotto all'80% di quello sostenuto nel 2013.
Per le società affidatarie di servizi pubblici, invece, il
cda può essere di tre o cinque componenti al massimo, a
seconda della rilevanza dell'attività: anche in tal caso,
però, dal 2015 opera la riduzione dei compensi.
La nomina dei dipendenti pubblici nei consigli di
amministrazione non è più obbligatoria, ma, qualora l'ente
socio decida di ricorrervi, permane per i dipendenti
nominati l'obbligo di riversamento dei compensi
all'amministrazione di appartenenza.
Sia per le società che gestiscono servizi strumentali sia
per quelle che gestiscono servizi pubblici locali le
disposizioni del Dl 90 rimarcano la possibilità di procedere
alla nomina di un amministratore unico.
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2014). |
SEGRETARI COMUNALI:
I segretari perdono il fondo ministeriale.
Diritti di rogito. Effetti collaterali.
Abrogata la
ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria
a favore del fondo ministeriale previsto dall'articolo 42
della legge 604/1962.
L'articolo 10 del Dl 90/2014, nella versione approvata dalla
Camera, sostituisce l'articolo 30, comma 2, della legge
734/1973, disponendo l'attribuzione integrale all'ente dei
diritti di rogito spettanti ai segretari.
Secondo le vecchie norme, il 10% del provento andava
assegnato al fondo ministeriale, mentre il 75% di quanto
rimaneva competeva al segretario rogante, sino a concorrenza
del terzo dello stipendio in godimento. La quota rimanente
entrava nelle casse dell'ente.
I proventi del fondo erano destinati al finanziamento di
corsi di preparazione e formazione, ma anche al pagamento di
assegni al segretario o alla vedova o ai figli minorenni in
caso di reintegrazione a seguito di assoluzione in sede di
giudizio penale.
Anche l'equo indennizzo e le borse di studio a favore dei
figli particolarmente meritevoli dei segretari venivano
finanziate con i proventi in questione.
Dopo l'abolizione tout court dell'abrogazione dei diritti a
favore dei segretari, un correttivo approvato alla Camera ha
reintrodotto l'incentivo per i segretari che non hanno la
qualifica dirigenziale o prestano la loro opera presso enti
locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale. In
questo caso, il diritto di rogito spettante agli ufficiali
roganti non può superare l'importo di un quinto dello
stipendio in godimento.
Con l'emendamento in questione, viene inoltre chiarito che
le nuove disposizioni non si applicano alle quote maturate
prima della data di entrata in vigore del decreto legge. E'
stato infine previsto che il rogito da parte del segretario
avviene esclusivamente su richiesta dell'ente locale di
appartenenza (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Vento in poppa per il Sistri. Impianti portuali fra gli
obbligati al telemonitoraggio. Dal ministero dell'ambiente le istruzioni sul tracciamento
dei rifiuti prodotti dalle navi.
Sono gli impianti portuali di raccolta dei rifiuti prodotti
dalle navi, e non queste ultime, a dover garantire il
monitoraggio telematico Sistri dei residui in parola,
iscrivendosi al sistema ed onorando i relativi adempimenti
fino all'eventuale loro trasferimento ad altra impresa
esterna.
A chiarirlo sono le nuove istruzioni diramate dal
Minambiente lo scorso 15.07.2014 attraverso il relativo
portale internet, istruzioni che arrivano alla vigilia della
conferma dell'operatività del Sistri data dal Senato con
l'approvazione il successivo giorno 25 della legge di
conversione del dl 91/2014 recante rilevanti norme di
settore, come l'accesso diretto del Corpo forestale dello
Stato al database nazionale del sistema, la stretta sugli
obblighi di tracciamento per i soggetti che, avendone mera
facoltà, non vi aderiscono ed ulteriori regole per le
imprese agricole che vi interagiscono.
Rifiuti portuali e Sistri. Con la nuova «Guida» il dicastero
effettua una ricognizione sulle regole di tracciamento da
osservare nell'intera filiera di gestione dei rifiuti
prodotti da navi, dalla loro raccolta ad opera degli
impianti portuali fino al successivo trattamento da parte di
questi ultimi e/o di eventuali impianti esterni.
Il Minambiente chiarisce innanzitutto che le imprese di
navigazione non sono, in virtù degli articoli 177, comma 3,
e 232 del dlgs 152/2006 («Codice ambientale») obbligate a
utilizzare il Sistri per il tracciamento dei rifiuti
prodotti dalle proprie navi, essendo lo stesso tutt'ora
disciplinato dalle particolari regole dettate in materia dal
dlgs 182/2003.
Ben diversa, sottolinea il dicastero, è la posizione degli
impianti portuali di raccolta di detti residui che,
rientrando tra quelli di «gestione rifiuti» autorizzati ex
articolo 208 dello stesso dlgs 152/2006, soggiacciono invece
alla disciplina Sistri (ndr: in relazione ai soli rifiuti
speciali pericolosi, come si evince dall'attuale Codice
ambientale riformulato dal dl 101/2013).
Saranno questi ultimi impianti a dover quindi iscriversi al
Sistri, e in particolare: sicuramente, nella categoria
«produttori/detentori» (dichiarando però nei relativi
documenti di tracciamento, quali reali produttori originari
dei rifiuti, le navi da cui li ricevono); eventualmente,
anche nelle categorie «trasportatori» (se effettuano oltre
prima movimentazione dalla nave produttrice alla loro unità
produttiva, che rientra esclusivamente nella disciplina ex
dlgs 182/2003, anche il successivo trasporto dal proprio
impianto ad altre strutture esterne di trattamento), come
«smaltitori/recuperatori» (se provvedono direttamente la
trattamento dei residui), e come «intermediari» (se svolgono
anche tale ulteriore attività).
Gli adempimenti operativi imposti agli stessi impianti
portuali sono quelli di tracciamento previsti dal dm 52/2001
(«Testo unico Sistri», recante attuazione del dlgs 152/2006),
ossia: tenuta del «registro cronologico» (il corrispondente
telematico dei tradizionali registri di carico e scarico
rifiuti) e della «scheda di movimentazione» dei rifiuti
(versione «online» del formulario di trasporto dei rifiuti).
Adempimenti che devono coprire anche l'eventuale
movimentazione dei rifiuti effettuata dall'impianto portuale
di prima ricezione alle altre strutture esterne di
accoglienza. E tale attività di trasporto «extra situ»,
avverte ancora il Minambiente, dovrà sempre essere condotta
sotto Sistri sia che avvenga tramite mezzi di terra sia che
sia condotta, ancora una volta, tramite nave (in
quest'ultimo caso dovendosi applicare le particolari regole
ex articolo 18, comma 6 del citato dm 52/2011). Sul punto si
ritiene utile ricordare, ad avviso dello scrivente, la
vigenza delle particolari regole sul trasporto intermodale
dei rifiuti previste dal dm 24/04/2014, che nel rispetto di
determinate e ferree condizioni permettono di effettuare il
deposito tecnico dei rifiuti oggetto di trasferimento da un
mezzo di trasporto ad un altro («trasbordo») in deroga
all'ordinario regime autorizzatorio sullo stoccaggio ex dlgs
152/2006.
L'operatività del Sistri. In base all'attuale assetto
normativo, il Sistri continua a essere obbligatorio per i
seguenti soggetti: enti/imprese produttori iniziali di
rifiuti speciali pericolosi (ad eccezione, a condizione che
non stocchino i propri rifiuti, delle aziende agricole
conferenti rifiuti a propri sistema di raccolta e le piccole
strutture individuate dal citato dm 24.04.2014);
enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale,
di trattamento, recupero, smaltimento, commercio,
intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi
produttori di rifiuti pericolosi; operatori del trasporto
intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi;
comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione
Campania.
Fino al 31.12.2014 è tuttavia vigente un regime
transitorio che sospende l'applicazione delle (sole)
sanzioni per le violazioni Sistri ma impone ai soggetti
interessati dal tracciamento telematico di continuare ad
osservare anche le tradizionali regole costituite da
registri di carico/scarico, formulario di trasporto e
dichiarazione annuale Mud.
All'appello mancano due importanti decreti ministeriali
previsti dal «Codice ambientale» e provvedimenti satellite:
il regolamento che avrebbe dovuto avviare in via
sperimentale l'applicazione del Sistri ai gestori di rifiuti
urbani pericolosi operanti sull'intero territorio nazionale;
i decreti Minambiente previsti dal dl 91/2014 che entro il
24 agosto prossimo dovranno invece renderne funzionale
l'interoperatività (ossia l'interazione tra il sistema
informatico dello Stato ed eventuali software esterni) e
provvedere alla sostituzione dei dispositivi token usb (le
c.d. «chiavette» contenenti i codici di identificazione
utente).
Le novità in arrivo. L'operatività del Sistri è stata
confermata anche dalla legge di conversione del citato dl
91/2014 approvata dal senato in prima lettura lo scorso 25
luglio e ora all'esame della camera, provvedimento che
prevede il pieno coinvolgimento del Corpo forestale dello
Stato nel Sistri e nuove regole per incentivare l'utilizzo
del Sistema. Sotto il primo profilo è infatti previsto che,
al fine di intensificare la lotta alla gestione illecita dei
rifiuti, il Minambiente provveda a disciplinare
l'interconnessione della citata Forza di polizia al sistema
telematico. Sotto il secondo profilo, invece, si prevede
mediante la diretta modifica del «Codice ambientale» a
inasprire la responsabilità per la gestione dei rifiuti da
parte dei soggetti che, pur non essendo obbligati, non
aderiscono volontariamente al Sistri ed a regolare nel
dettaglio l'attività di tracciamento delle imprese agricole
«Sistri orientate».
Viene infatti in linea generale dimezzato il termine entro
cui i soggetti ammessi a effettuare raccolta e trasporto dei
propri rifiuti in deroga alle regole abilitative ordinarie
devono denunciare la mancata ricezione della copia del
formulario di trasporto in caso di spedizione dei rifiuti a
impianti oltreconfine per essere esentati (salvo di concorso
nel reato) dall'eventuale illecita gestione altrui. Ancora,
la legge specifica le modalità alternative di tenuta dei
registri di carico/scarico da parte degli imprenditori
agricoli che, non essendovi obbligati, non aderiscono
volontariamente al Sistri. Per questi, la tenuta dei
registri di carico/scarico effettuata tramite la
conservazione delle «schede Sistri» loro inoltrate dal
destinatario dei rifiuti dovrà avvenire conservandone il
«formato fotografico digitale».
La nuova direttiva.
A spingere verso l'informatizzazione dei dati relativi ai
rifiuti sembra essere anche l'Unione europea, che nello
schema di nuova direttiva sui rifiuti presentata lo scorso
02.07.2014 sottolinea come sia «necessario potenziare la
registrazione dei dati e i meccanismi di tracciabilità
tramite l'introduzione di registri informatici dei rifiuti
pericolosi negli Stati membri» (articolo ItaliaOggi Sette del 04.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Patente energetica affievolita.
In mancanza, non è più prevista nullità della vendita.
Con uno studio il Notariato riepiloga le regole vigenti in
materia di certificazione.
Non è più prevista la nullità dell'atto, quale sanzione per
la violazione dell'obbligo di allegazione dell'attestato di
prestazione energetica: la sanzione della nullità è stata
eliminata con decorrenza dalla data di entrata in vigore del
dl 145/2013, ossia a partire dal 24.12.2013.
Lo ha sottolineato il Consiglio nazionale del notariato che
con lo
studio 19-20.06.2014 n. 657-2013/C è tornato sul
tema della certificazione energetica alla luce del dl 23.12.2013 n. 145, convertito, con modificazioni, con
legge 21.02.2014 n. 9.
I notai hanno ribadito che l'attestato di prestazione
energetica ha sostituito, a far data dal 6 giugno 2013, il
precedente attestato di certificazione energetica, la cui
disciplina è stata introdotta a seguito delle modifiche al
dlgs 192/2005 apportate dal dl 63/2013, a sua volta
modificato dal dl 145/2013.
Vendite e non solo
Nello studio si sostiene la tesi a favore dell'estensibilità
a tutti gli atti traslativi a titolo oneroso della
disciplina in materia di certificazione energetica,
motivandola schematicamente con le seguenti argomentazioni:
1. una limitazione dell'applicabilità delle prescrizioni in
materia di certificazione energetica al solo atto di vendita
appare poco coerente con quelli che sono gli scopi che si
intendono perseguire;
2. sicuramente se ne deve ammettere l'applicazione all'atto
di permuta, quanto meno argomentando ex art. 1555 c.c. (le
norme stabilite per la vendita si applicano alla permuta, in
quanto con questa compatibili);
3. il legislatore ha, in realtà, utilizzato il medesimo
termine («vendita») che si rinviene nella direttiva
comunitaria 2010/31/Ue. Ma si può fondatamente ritenere, in
relazione a quella che è la «ratio» della normativa in
commento, che, sia nell'uno (direttiva) che nell'altro caso
(legge attuativa), il termine «vendita» sia stato utilizzato
in senso lato, quale sinonimo di «alienazione», comprensivo,
pertanto, di ogni atto traslativo a titolo oneroso.
È quindi opportuno, secondo il Notariato, procedere, in via
prudenziale, alla dotazione dell'attestato di prestazione
energetica in occasione della stipula di tutti gli atti
inter vivos comportanti il trasferimento, a titolo «oneroso»
di edifici.
Atti a titolo gratuito
Con il dl 145/2013, da un lato, sono stati espressamente
assoggettati all'obbligo di allegazione «gli atti di
trasferimento a titolo oneroso» mentre, dall'altro, sono
stati esclusi dall'obbligo di allegazione gli atti
traslativi a titolo gratuito (non più contemplati nel comma
3, art. 6, dlgs 192/2005, così come riscritto per l'appunto
dal dl 145/2013).
Obbligo di dotazione
È stato inoltre precisato dai notai che l'obbligo di
dotazione sussiste ogni qualvolta vi sia l'obbligo di
allegazione, in quanto il primo è funzionale al secondo; non
è vera, invece, l'affermazione contraria.
Validità
Un eventuale errore materiale nella trascrizione di uno dei
dati identificativi dell'immobile (dato catastale,
generalità del proprietario, indirizzo dell'immobile) non
inficia la validità dell'attestato energetico, qualora,
sulla base degli altri dati, sia, comunque possibile
riferire, con sufficiente certezza, l'attestato stesso
all'immobile negoziato (salvo quanto previsto in eventuali
disposizioni delle leggi regionali che facciano dipendere la
validità dell'attestato dall'esatta esposizione
dell'identificativo catastale) (articolo ItaliaOggi Sette del 04.08.2014). |
CONDOMINIO: Il cavedio è sempre comune.
Immobili. La proprietà non può essere rivendicata da un
condomino.
La funzione di
dare aria e luce agli appartamenti fa del cavedio un bene
comune del condominio, al pari del cortile. E il
proprietario del singolo immobile non può rivendicare una
servitù sul piccolo cortile anche se a questo si accede solo
dalla sua casa.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 17556/2014,
respinge il ricorso di un condomino che rivendicava il
diritto ad un uso esclusivo di un cavedio -un cortile di
piccolissime dimensioni chiamato anche chiostrina, vanello o
pozzo luce- che, nel caso esaminato, era diventato anche
pomo della discordia.
Per la proprietaria dell'appartamento il giudice di primo
grado non aveva dato il giusto peso ad una serie di elementi
che provavano che l'area calpestabile del pozzo luce era
posta al servizio esclusivo del suo immobile situato al
pianterreno. Deponevano per l'uso "privato" la presenza di
un lavatoio, uno scaldabagno e di un impianto di
illuminazione tutti collegati, tramite gli impianti idrici ed
elettrici, solo con l'appartamento del pianoterra.
Anche la
"storia" della nascita del pozzo luce provava la proprietà
privata. Il cortiletto era, infatti, stato ricavato da un
vano centrale dell'appartamento dell'odierna ricorrente nel
lontano 1966 per effetto di una sopraelevazione -fatta per
realizzare gli appartamenti del primo e del secondo piano-
con la quale era stato eliminato il soffitto del locale
centrale per creare il pozzo luce.
Una evoluzione dell'edilizia che avrebbe dovuto indurre i
giudici ad affermare l'esistenza di una servitù.
Ma la "genesi" del cavedio non convince la Suprema corte che
conferma la natura condominiale della chiostrina. Il piccolo
cortile «circoscritto dai muri perimetrali e dalle
fondamenta dell'edificio comune - essendo destinato
prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari, è
sottoposto al medesimo regime giuridico del cortile,
espressamente contemplato dall'articolo 1117 n. 1 del codice
civile tra i beni comuni, salvo titolo contrario».
Un titolo contrario che la Corte non ha trovato. Sul punto
non c'era alcuna indicazione sull'atto costitutivo del
condominio, predisposto in coincidenza con il trasferimento
di un immobile che faceva parte dell'edificio
dall'originario unico proprietario a un altro soggetto. Né
la presunzione di proprietà comune può essere scalfita
dall'accesso al bene da un solo appartamento e dalla
collocazione di lavatoi e scaldabagni.
Neppure la
sopraelevazione giova alla causa della ricorrente perché
opera di un solo proprietario. E qui la Cassazione per
negare la servitù fa ricorso al latino ricordando che «nemini
res sua servit»: nessuno può asservire una cosa propria.
Che però con la vendita era diventata proprietà comune (articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., la riforma si fa più dolce.
Attenuata la stretta sulle Cciaa. Mobilità obbligatoria soft.
Dalla camera ok al dl che punta sul ricambio generazionale
per creare 15 mila nuovi assunti.
Decreto p.a. al primo giro di boa. Grazie al voto di
fiducia, la riforma Madia ha tagliato il traguardo della
prima approvazione parlamentare, incassando l'ok della
camera con 286 sì, 132 no e due astenuti. Sarà ora il senato
(impegnato sulla riforma costituzionale che si sta rivelando
un campo minato per il governo Renzi) a decidere se lasciare
inalterato il testo o modificarlo, costringendo Montecitorio
a una nuova approvazione entro il 23 agosto.
Il decreto
legge (n. 90/2014) prende le mosse dai 44 punti di riforma
su cui Renzi ha avviato una consultazione pubblica a fine
aprile. La parola d'ordine è svecchiare la p.a. attraverso
l'incremento del turnover e l'abolizione dell'istituto del
trattenimento in servizio che secondo l'esecutivo dovrebbe
creare 15.000 nuovi ingressi nel pubblico impiego. Numeri
che però il sindacato è tornato anche ieri a contestare,
ritenendo che la platea di beneficiari riguardi a conti
fatti «600 dipendenti, magistrati esclusi».
«Con 400 mila posti di lavoro già persi in 10 anni e una
previsione di pensionamento per altri 250 mila nei prossimi
5, i nuovi ingressi non supereranno i 150 mila da qui al
2019. Risultato: 100 mila lavoratori in meno», hanno
scritto in un comunicato congiunto Cgil, Cisl e Uil. Nel
passaggio alla camera il decreto è stato significativamente
modificato, con alcune correzioni in corsa come, per
esempio, la rimodulazione del taglio dei diritti pagati
dalle imprese alle camere di commercio (che doveva essere
dimezzato dal 2015 e invece sarà ridotto del 35% l'anno
prossimo, del 40% nel 2016 e del 50% solo nel 2017).
Altri parziali dietrofront hanno riguardato la risoluzione
unilaterale del rapporto di lavoro per i prof universitari e
i medici primari (che non scatterà a 62 anni, ma a 68) e la
mobilità obbligatoria entro 50 km (da cui saranno esonerati
i dipendenti con figli sotto i tre anni). Tra le novità, la
soppressione dell'Authority lavori pubblici e dei Tar di
Parma, Pescara e Latina (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014). |
ENTI LOCALI - VARI: Valide le multe fuori servizio.
VIGILI/Lo dice il Tribunale di Parma.
Il vigile che è fuori servizio è legittimato a contestare le
violazioni del codice della strada. Infatti, per lo
svolgimento dell'attività di polizia stradale non si applica
alla polizia locale il vincolo temporale di servizio,
previsto dall'art. 57 del codice di procedura penale.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Parma con una sentenza
29.07.2014.
Un agente di polizia municipale del Comune di Parma aveva
accertato e contestato, in abiti civili e fuori dal
servizio, che un veicolo aveva violato gli artt. 141 e 143
del codice della strada, in quanto procedeva con una
velocità pericolosa invadendo la corsia di marcia opposta.
Il giudice di Parma, però, in seguito al ricorso del
trasgressore, aveva successivamente annullato il verbale,
sostenendo che la violazione non poteva essere contestata
dall'agente che al momento dell'accertamento non fosse in
servizio.
Tuttavia, con il successivo appello, il tribunale di Parma
ha ribaltato la decisione del giudice di primo grado. La
legge n. 65 del 07.03.1986 dispone che il personale che
svolge servizio di polizia municipale esercita, nell'ambito
territoriale dell'ente di appartenenza e nei limiti delle
proprie attribuzioni, servizio di polizia stradale, oltre
alle funzioni di polizia giudiziaria e alle funzioni
ausiliarie di pubblica sicurezza. Dunque, per contestare un
illecito stradale, la legge quadro n. 65/1986
sull'ordinamento della polizia municipale richiede che
l'agente si trovi nel territorio di competenza.
Non è invece richiesto che il vigile sia in servizio al
momento dell'accertamento. L'essere in servizio è una
condizione richiesta dall'art. 57, comma 3, del codice di
procedura penale, affinché gli agenti e ufficiali di polizia
municipale siano anche agenti e ufficiali di polizia
giudiziaria. Ma, come chiarito dalla sentenza del 29.07.2014 del
Tribunale di Parma, tale vincolo sussiste solo per
l'attività di polizia giudiziaria diretta all'accertamento
dei fatti di reato (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014). |
APPALTI: P.a., fatture elettroniche in scioltezza.
La fatturazione elettronica verso la p.a. procede senza
intoppi tecnici. Nella sola prima metà di luglio il sistema
di interscambio (Sdi) ha ricevuto e gestito circa 77 mila
fatture, di cui il 71% è stato inoltrato agli enti
interessati. Solo il 29%, pari a 22.475, è stato scartato
dal software per motivazioni concernenti errori formali
nella formazione dei file.
È quanto ha spiegato ieri il
sottosegretario all'economia, Enrico Zanetti, rispondendo
davanti alla commissione finanze della camera a
un'interrogazione presentata da alcuni deputati del
Movimento 5 Stelle. A partire dal 6 giugno scorso, infatti,
è scattato l'obbligo di fatturazione elettronica per le
imprese e i professionisti che cedono beni o prestano
servizi a ministeri, agenzie fiscali ed enti nazionali di
previdenza e di assistenza sociale. Il quesito, che vedeva
come primo firmatario Sebastiano Barbanti, evidenziava
malfunzionamenti nel Sdi, l'infrastruttura telematica
attraverso la quale viaggiano le fatture digitali.
In
particolare, rilevavano i deputati istanti, vi sarebbero
difficoltà tecniche per gli uffici periferici di procure e
tribunali nel rilascio all'emittente della ricevuta di
consegna della fattura elettronica trasmessa. Con l'effetto
di bloccare i pagamenti dei fornitori. Una problematica che
però non sussiste, secondo l'esecutivo. Il Sdi, gestito
dall'Agenzia delle entrate in collaborazione con Sogei,
risulta infatti «operativo e perfettamente funzionante»,
rileva Zanetti, «come testimoniato dai dati ricavati dai
sistemi informatici e regolarmente pubblicati sul sito
www.fatturapa.gov.it».
Con specifico riferimento al caso segnalato, riguardante la
procura generale di Bologna, il Sdi «ha trasmesso sia le
fatture all'ufficio destinatario che le relative notifiche
di consegna agli operatori economici mittenti», osserva il
sottosegretario. Nessuna difficoltà tecnica, quindi. Nel
periodo 6 giugno-19.07.2014 le fatture trasmesse a uffici
del ministero della giustizia sono state 7.623: di queste
6.720 sono state regolarmente consegnate e 903 (pari al 12%)
scartate dal sistema per errori formali (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014). |
APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma p.a., gli enti sorridono.
Più turnover e assunzioni flessibili. Slitta la centrale
unica. Tutte le novità per le autonomie contenute nel dl 90.
Proroga per le gestioni associate.
Un profondo restyling in materia di personale, oltre alla
consueta dose di proroghe. Possono essere riassunti in
questi termini i contenuti del dl 90/2014 (approvato ieri
dall'aula della camera) limitatamente agli enti locali. Il
capitolo, già abbastanza ricco nella prima stesura del
provvedimento, si è ulteriormente arricchito dopo il
passaggio parlamentare.
La novità più attesa è certamente la proroga dell'obbligo
per i comuni non capoluogo di ricorrere a una centrale unica
per gli acquisiti. Ora sono previste due nuove scadenze: 01.01.2015 per i beni e i servizi,
01.07.2015 per i
lavori. È stata quindi recepita l'intesa sancita nei giorni
scorsi in conferenza stato-città e autonomie locali, in modo
da ovviare alle obiezioni dell'Autorità nazionale
anticorruzione.
Parzialmente reintrodotte anche le deroghe
per gli acquisti di modesto valore, ma solo per i comuni con
più di 10.000 abitanti, che potranno fare da sé per importi
inferiori a 40.000 euro. Poiché una proroga tira l'altra, è
arrivato anche l'ennesimo rinvio dei termini per l'avvio
delle gestioni associate dei piccoli comuni, che avranno
tempo fino al 30 settembre per conferire a unioni e
convenzioni altre tre funzioni fondamentali (rimane fermo il
termine del 31.12.2014 per le restanti tre funzioni).
Per gli enti soggetti al Patto, il limite al turnover dei
dipendenti a tempo indeterminato viene innalzato,
dall'attuale 40%, al 60% per gli anni 2014-2015, all'80% per
il biennio 2016-2017, per arrivare al 100% nel 2018. Negli
enti dove la spesa di personale non supera il 25% della
spesa corrente, il turnover sale all'80% quest'anno e al
100% dal 2015.
Spariscono, però, i regimi agevolati per le assunzioni
nell'istruzione, nei servizi sociali e nella polizia locale.
Agli enti in regola con l'obbligo di riduzione delle spese
di personale, inoltre, non si applica più il limite del 50%
sulle assunzioni con contratti flessibili. Reintrodotti
anche se solo parzialmente, gli incentivi per la
progettazione e i diritti di rogito per i segretari (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: DECRETO
P.A./
Province, mobilità privilegiata.
Agevolato il passaggio dei lavoratori agli enti subentranti.
Il fondo di sostegno favorirà anche
i trasferimenti verso gli uffici giudiziari.
Percorso privilegiato per la mobilità dei dipendenti delle
province. Tra i vari ritocchi apportati dalla camera al dl
90/2014, spicca la previsione secondo la quale le risorse
del fondo di sostegno ai processi di mobilità sono, in sede
di prima applicazione, destinate, oltre che agli uffici
giudiziari, anche alla «piena applicazione della riforma
delle province di cui alla legge 07.04.2014, n. 56».
Insomma, la legge di conversione indica di utilizzare in via
prioritaria le risorse del fondo non solo per agevolare i
trasferimenti dei dipendenti pubblici verso gli uffici
giudiziari, ma anche per agevolare i futuri processi di
mobilità dalle province verso gli enti che subentreranno
loro nell'esercizio delle funzioni.
Per la verità, di questa disposizione non c'era affatto
bisogno. Infatti, l'articolo 1, comma 96, lettera a), della
legge 56/2014 prevede che «il personale trasferito mantiene
la posizione giuridica ed economica, con riferimento alle
voci del trattamento economico fondamentale e accessorio, in
godimento all'atto del trasferimento, nonché l'anzianità di
servizio maturata; le corrispondenti risorse sono trasferite
all'ente destinatario; in particolare, quelle destinate a
finanziare le voci fisse e variabili del trattamento
accessorio, nonché la progressione economica orizzontale,
secondo quanto previsto dalle disposizioni contrattuali
vigenti, vanno a costituire specifici fondi, destinati
esclusivamente al personale trasferito, nell'ambito dei più
generali fondi delle risorse decentrate del personale delle
categorie e dirigenziale».
Dunque, la legge Delrio già contiene lo strumento per
assicurare all'ente di destinazione il finanziamento della
spesa per il personale proveniente dalle province.
Sulla mobilità obbligatoria, il testo della legge di
conversione chiarisce meglio che nell'ambito della medesima
amministrazione i dipendenti possono essere trasferiti da
una sede all'altra, purché nel raggio di 50 chilometri. Allo
scopo, non sarà necessaria alcuna specifica motivazione.
Infatti, si esclude di applicare l'articolo 2013, comma 1,
terzo periodo, del codice civile, a mente del quale il
lavoratore «non può essere trasferito da una unità
produttiva a un'altra se non per comprovate ragioni
tecniche, organizzative e produttive».
La mobilità obbligatoria svincolata dall'obbligo di
motivazione ed entro il raggio dei 50 chilometri potrà
avvenire anche tra amministrazioni pubbliche diverse, previo
accordo tra loro.
Per il decreto del ministro della funzione pubblica
finalizzato a determinare i casi in cui la mobilità
obbligatoria possa avvenire tra amministrazioni diverse
anche senza un preventivo accordo tra loro, la legge di
conversione introduce una preventiva consultazione con le
confederazioni sindacali rappresentative.
I dipendenti pubblici con figli di età inferiore a tre anni,
che hanno diritto al congedo parentale, e i soggetti di cui
all'articolo che godano dei congedi previsti dall'articolo
33, comma 3, della legge 104/1992 possono essere oggetto
della mobilità obbligatoria solo se prestano consenso
espresso al trasferimento di sede.
Per quanto concerne la mobilità volontaria, la legge di
conversione stabilisce che i bandi con i quali le
amministrazioni debbono avviare le procedure dovranno
indicare anche i requisiti e le competenze professionali
richieste, allo scopo di effettuare una più corretta
selezione tra i dipendenti che si candidano ai trasferimenti (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari, diritti di rogito a forfait e solo per i non
dirigenti.
Torna la compartecipazione ai diritti di rogito in misura
forfetizzata e solo per i segretari comunali non aventi
qualifica dirigenziale.
Il testo della legge di conversione del decreto sulla
riforma della p.a. corregge parzialmente il tiro sui
segretari comunali, chiarendo il diritto transitorio
dell'eliminazione della compartecipazione ai diritti di
rogito, ripristinandoli solo in parte.
Diritto transitorio. L'articolo 10 del dl 90/2014 era
scritto in modo oscuro e non si riusciva a comprendere se
l'abolizione dell'attribuzione ai segretari comunali di
quota parte dei diritti di rogito fosse operante sin dal
primo gennaio, o valesse solo per il futuro (come, invece,
espressamente stabilito per le avvocature).
Già molti enti avevano congelato i provvedimenti di
attribuzione delle compartecipazioni ai segretari comunali
per il secondo trimestre, mentre si era posto il problema
del recupero delle somme già liquidate.
Il nuovo testo, a chiarimento della fattispecie ed in
obbedienza al principio di irretroattività delle leggi,
stabilisce che le norme dell'articolo 10 del dl 90/2014 «non
si applicano per le quote già maturate alla data di entrata
in vigore del presente decreto».
A chi spetta la compartecipazione. Gli emendamenti alla
legge di conversione confermano l'eliminazione della vecchia
normativa sulla compartecipazione dei segretari ai proventi
per diritti di rogito.
Tale cancellazione è totale per i segretari aventi qualifica
dirigenziale. Invece, negli enti locali privi di dipendenti
con qualifica dirigenziale, e comunque a beneficio di tutti
i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale,
si stabilisce che una quota del provento annuale spettante
al comune, per diritti di segreteria vada attribuita al
segretario comunale rogante, in misura non superiore a un
quinto dello stipendio in godimento.
Sono coinvolti nell'eliminazione della compartecipazione ai
diritti di rogito anche i segretari comunali operanti presso
enti nei quali sia presente la qualifica dirigenziale,
probabilmente in virtù della clausola di «galleggiamento»,
che fa comunque ascendere la loro retribuzione a quella del
livello più elevato presso l'ente. Curiosamente, invece di
eliminare la clausola del «galleggiamento», considerata a
più riprese illegittima dalla giurisprudenza, si agisce su
una «onnicomprensività» del trattamento economico dei
segretari, parificato a quella della dirigenza, costruita
appunto su una norma discutibilissima, come quella sul
galleggiamento.
Funzione rogante. Molti segretari comunali hanno ritenuto
che l'articolo 10 del dl 90/2014 li avesse, nella sostanza,
sollevati dalla funzione rogante, pur prevista dall'articolo
97, comma 4, lettera c), del Tuel. La conseguenza è stata
che già molti comuni hanno iniziato a rivolgersi ai notai,
con evidente aggravio di costi e di gestione amministrativa.
Il legislatore intende scongiurare queste inefficienze,
correggendo proprio il testo dell'articolo 97, comma 4,
lettera c), del dlgs 267/2000 sostituendo le parole: «può
rogare tutti i contratti nei quali l'ente è parte ed
autenticare» con: «roga, su richiesta dell'ente, i contratti
nei quali l'ente è parte e autentica».
Pertanto, a richiesta dell'ente, richiesta che può provenire
dal sindaco o anche dalla parte stipulante (il funzionario
chiamato alla gestione), i segretari comunali non potranno
sottrarsi al dovere di rogitare i contratti, anche se non
percepiranno alcuno specifico compenso per l'attività (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2014). |
APPALTI: Commesse pubbliche meno ingessate dopo la riforma delle Ati.
Con la legge n. 80/2014 di conversione del dl n. 47/2014,
recante «Misure urgenti per l'emergenza abitativa, per il
mercato delle costruzioni e per Expo 2015», che ha
modificato l'art. 92, comma 2, del dpr n. 207/2010, il
legislatore è finalmente intervenuto nell'annosa questione
relativa al rapporto sussistente tra riparto percentuale tra
le prestazioni relative all'esecuzione di appalti pubblici
di lavori e quota di partecipazione delle imprese esecutrici
al raggruppamento temporaneo.
La norma, in particolare,
dispone, anche tramite l'abrogazione del comma 13 dell'art.
37 del dlgs n. 163/2006, che in sede di partecipazione, ad
appalti di lavori, mediante costituzione di raggruppamenti
di imprese di natura orizzontale, i concorrenti possano
liberamente indicare quote di partecipazione al
raggruppamento senza che fra queste e requisiti dichiarati
vi sia una diretta corrispondenza.
Parimenti, la norma prevede che, nel corso di esecuzione di
un appalto di lavori, le quote di partecipazione ad un
raggruppamento temporaneo di imprese possono essere
liberamente modificate, con il solo limite dei requisiti
posseduti.
Al riguardo delle modifiche introdotte giova precisare,
innanzitutto, che i riferimenti operano ed hanno valore solo
in caso di Ati orizzontali, poiché, come evidente, diverso è
il caso di Ati verticali. E infatti se nell'ipotesi di Ati
orizzontali la novità prende atto di circostanze ordinarie,
che possono condurre a modifiche «quantitative» della quota
di esecuzione lavori ripartita fra le imprese
originariamente raggruppate, nel caso di Ati verticali
l'applicazione dello stesso precetto comporterebbe non solo
una modifica quantitativa, ma una vera e propria modifica
«qualitativa» tra le attività originariamente riservate ai
distinti membri del raggruppamento.
Infatti, se, in
astratto, ritenessimo applicabile la previsione anche in
caso di Ati verticali, operatori non qualificati in una data
categoria e classe Soa potrebbero (sempre che in possesso
delle qualificazioni necessarie) essere ammessi a svolgere
lavorazioni che viceversa, all'inizio, in sede di gara, non
avevano dichiarato di voler svolgere e in ordine alle
capacità/requisiti per svolgere le quali non vi era stata
alcuna valutazione da parte della stazione appaltante.
È evidente, dunque, che la ratio è quella, da un lato, di
consentire -nella fase intercorrente tra offerta e avvio
dei lavori ovvero in corso di esecuzione dei lavori- quelle
ordinarie modifiche alle Ati che, non ammesse nel quadro
previgente, rischiavano di «ingessare» eccessivamente il
sistema delle commesse pubbliche.
Sotto altro profilo, tuttavia, la novità normativa non può
riguardare i casi in cui, come nell'ipotesi di Ati
verticali, sarebbe necessaria e doverosa, in ordine al
possesso dei requisiti non già dichiarati in fase di gara,
una verifica approfondita da parte della stazione
appaltante.
In tale contesto sorge, peraltro, spontanea la domanda se la
ripartizione dei lavori possa determinare anche una connessa
modificazione del soggetto mandatario; se cioè l'assumere
maggiori percentuali di lavori comporti/possa comportare (o
addirittura debba comportare) in re ipsa o comunque previa
autorizzazione, una modificazione nel raggruppamento nel
senso indicato.
A tale riguardo tuttavia, la norma non precisa detta
evenienza, ancorché non pare escluderla. Circostanza che
imporrà una risoluzione giurisprudenziale. In ogni caso è
forse anche per tale ragione, e soprattutto per questioni
connesse alle conseguenti responsabilità dei soggetti
mandanti (che nella verticale sono circoscritte alle sole
attività svolte e nell'orizzontale sono solidali), che
l'opzione non è stata prevista per le Ati verticali. In
ragione del rilievo di tali novità normative occorre, tra
l'altro, verificare se le stesse possono trovare attuazione
anche in caso di appalti di servizi e forniture.
La questione non è risolta per tabulas poiché non vi è
analoga previsione normativa.
E' tuttavia indubbio che valore importante assume
l'abrogazione del citato comma 13 dell'art. 37 del Codice
dei contratti. E infatti, da un lato, la mancanza di una
norma che imponga la corrispondenza tra quote di
partecipazione al raggruppamento e prestazioni e,
dall'altro, il rinvio al Bando operato dall'art. 275 del dpr
n. 207/2010 e s.m.i., fanno ritenere che, ad oggi, anche nel
settore dei servizi e delle forniture, si possa ritenere
valevole, anche in assenza di una puntuale disposizione
normativa vigente al riguardo, la facoltà di modificabilità
dell'Ati in corso di esecuzione dell'appalto.
Resta inteso tuttavia che, l'assenza di qualificazioni Soa,
rende necessario, nel caso di servizi e forniture, una più
puntuale disciplina in argomento del Bando e comunque una
più attenta valutazione da parte delle stazioni appaltanti
nel riconoscere, ammettere e disciplinare suddetta facoltà (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Sblocca-Italia, cantieri per 43 miliardi e liberalizzazione
dei lavori in casa.
Non solo
rilancio delle infrastrutture ma anche liberalizzazione
totale dei lavori in casa, stabilizzazione dell'ecobonus del
65% per il risparmio energetico, rilancio della
riqualificazione urbana e di siti industriali «modello
Bagnoli», anche con la previsione di aree free tax,
regolamento edilizio standard per tutti gli 8mila comuni,
piani per la banda larga e per l'efficienza energetica degli
edifici pubblici alimentati con fondi Ue. Un malloppo di
quasi 500 pagine di misure fitte fitte che è rimasto, però,
fuori della porta del Consiglio dei ministri.
Per lo sblocca-Italia fortemente voluto dal premier ieri c'è stato
un primo giro di tavolo in Cdm per illustrare le linee-guida
e i capitoli principali che dovrebbero prendere la forma di
un paio di provvedimenti (un decreto legge e un disegno di
legge) e vedere la luce nel primo Consiglio dopo la pausa
estiva, a fine agosto.
Renzi -che dovrebbe illustrare il pacchetto oggi per
avviare una forma di consultazione pubblica- ha confermato
l'obiettivo principale di rilanciare cantieri per 43
miliardi di cui oltre 30 nel triennio 2015-2017. È passata
la linea di un fondo infrastrutture che ogni anno sia
alimentato con lo 0,3% del Pil (5,4 miliardi l'anno), mentre
due miliardi l'anno arriverebbero dal Fondo sviluppo
coesione. Per il resto fondi Ue, Bei, anche fondi pensione.
Si viaggerebbe a una velocità di 11-12 miliardi l'anno.
Il governo vuole individuare una trentina di grandi opere
prioritarie per dare corpo alla riforma della legge
obiettivo. Si tratterà di opere prevalentemente comprese nei
corridoi europei. In cima alla lista ci saranno due opere
ferroviarie: la Napoli-Bari per cui il governo pretende che
l'apertura dei cantieri avvenga nel 2015 e non nel 2018 come
previsto ora e l'alta velocità Brescia-Verona-Padova per cui
sono previsti circa 2,5-3 miliardi di finanziamenti. A
confermare l'urgenza e la priorità delle due opere, saranno
nominati altrettanti commissari di governo incaricati, con
adeguati poteri sostitutivi, di superare i colli di
bottiglia progettuali e autorizzativi attuali. Nell'elenco
delle priorità ci saranno comunque tutte le principale opere
"europee", dal Brennero al terzo valico alla Torino-Lione.
Ma il messaggio più forte che il premier vuole mandare con
le linee-guida dello sblocca-Italia è una robusta
semplificazione nel settore edilizio. Poteri sostitutivi in
caso di paralisi amministrativa, silenzio-assenso
certificato dagli sportelli edilizi, contenimento dei poteri
di autotutela dell'amministrazione (anche nei casi di Dia e
Scia), regolamento edilizio standard unico per tutti gli
8mila comuni e soprattutto liberalizzazione integrale per i
lavori in casa. Una novità dovrebbe arrivare, per esempio,
sui mutamenti di destinazione d'uso che oggi sono per lo più
regolati da leggi regionali: una norma nazionale che li
liberalizzasse pienamente supererebbe lo spezzatino
regionale e la diversità di regime da zona a zona.
Un capitolo pesante dovrebbe riguardare la riqualificazione
urbana con una particolare attenzione ai siti industriali.
Il governo ha in mente forme di sperimentazione su pochi
casi scelti, con un rilancio, in positivo, del «modello
Bagnoli»: non è chiaro se il rilancio riguarderebbe anche lo
strumento delle società di trasformazione urbana (Stu). Quel
che invece sarebbe un perno dell'intervento è un commissario
di governo che svolga le funzioni di coordinamento e di
accelerazione dell'iter amministrativo d'intesa con gli enti
locali interessati. Una sorta di cabina di regìa alla
francese che potrebbe decidere anche interventi in deroga
agli strumenti urbanistici sulla base di un piano condiviso.
Si punta anche a rilanciare le free tax zone per accrescere
la convenienza alle nuove localizzazioni.
Tutto da verificare il capitolo sulle sovrintendenze per cui
Renzi vorrebbe una razionalizzazione degli interventi e dei
pareri. Anche in questo caso, Palazzo Chigi potrebbe
assumere poteri sostitutivi di fronte a conflitti fra più
ministeri o fra più amministrazioni, ma l'obiettivo sarebbe
soprattutto quello di ridurre le ridondanze dei pareri delle
sovrintendenze, evitando che si ripeta più volte un parere
su aree che già lo abbiano avuto. In questo modo il premier
vorrebbe eliminare una quota consistente di sovrapposizioni
e reiterazioni (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
La realizzazione di una veranda su un balcone,
chiusa sui lati, costituisce una trasformazione
urbanistico-edilizia del preesistente manufatto comportante
un incremento dei volumi e, di conseguenza, è richiesta la
concessione edilizia (oggi permesso di costruire; restando
escluso che l'intervento possa qualificarsi come
manutenzione straordinaria ovvero risanamento conservativo,
ovvero pertinenza dell'immobile principale).
---------------
Quanto alla tesi dei ricorrenti secondo cui la veranda in
questione non rientrerebbe fra le predette opere in quanto
amovibile secondo stagione, osserva il Collegio che la
Giurisprudenza distingue fra precarietà dell'opera ed opera
stagionale, in quanto si può definire temporanea e precaria
quella struttura che, per la sua oggettiva funzione, reca in
sé visibili i caratteri della durata limitata in un
ragionevole lasso temporale, a nulla rilevando la
destinazione intenzionale del proprietario o la solo
potenziale futura amovibilità.
Quindi, ciò che rende "stabile" un manufatto non è il
materiale o la tecnica costruttiva che non ne consente il
futuro smontaggio, bensì la funzione che lo stesso assolve,
e affinché una struttura sia qualificata come precaria è
necessario che la stessa sia destinata ad un uso specifico e
temporalmente delimitato, mentre la stagionalità, se
associata ad uno stabile aumento di volumetria come nel caso
in esame, non esclude e, anzi, postula il soddisfacimento di
interessi non occasionali e stabili nel tempo, a maggior
ragione nel caso in esame, dove la struttura, peraltro mai
rimossa, appare "vecchia e fatiscente" evidenziando come la
stessa non assolva a funzioni temporanee bensì ad un bisogno
perdurante nel tempo.
Per costante giurisprudenza, la realizzazione di una veranda
su un balcone, chiusa sui lati, costituisce una
trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente
manufatto comportante un incremento dei volumi e, di
conseguenza, è richiesta la concessione edilizia (oggi
permesso di costruire; restando escluso che l'intervento
possa qualificarsi come manutenzione straordinaria ovvero
risanamento conservativo, ovvero pertinenza dell'immobile
principale) (da ultimo, Cons. Stato - Sez. VI n. 17/2014 che
conferma TAR Lazio - Sez. I-quater n. 7807/2012).
Quanto alla tesi dei ricorrenti secondo cui la veranda in
questione non rientrerebbe fra le predette opere in quanto
amovibile secondo stagione, osserva il Collegio che la
Giurisprudenza (fra le altre C.d.S., sez. VI, sent. n.
986/2011) distingue fra precarietà dell'opera ed opera
stagionale, in quanto si può definire temporanea e precaria
quella struttura che, per la sua oggettiva funzione, reca in
sé visibili i caratteri della durata limitata in un
ragionevole lasso temporale, a nulla rilevando la
destinazione intenzionale del proprietario o la solo
potenziale futura amovibilità.
Quindi, ciò che rende "stabile" un manufatto non è il
materiale o la tecnica costruttiva che non ne consente il
futuro smontaggio, bensì la funzione che lo stesso assolve,
e affinché una struttura sia qualificata come precaria è
necessario che la stessa sia destinata ad un uso specifico e
temporalmente delimitato, mentre la stagionalità, se
associata ad uno stabile aumento di volumetria come nel caso
in esame, non esclude e, anzi, postula il soddisfacimento di
interessi non occasionali e stabili nel tempo, a maggior
ragione nel caso in esame, dove la struttura, peraltro mai
rimossa, appare "vecchia e fatiscente" evidenziando
come la stessa non assolva a funzioni temporanee bensì ad un
bisogno perdurante nel tempo.
Infine, l'allegazione di parte ricorrente secondo cui
l'opera era già esistente all'epoca dell'acquisto
dell'appartamento da parte del dante causa dei ricorrenti, e
probabilmente realizzata dal costruttore dell'edificio, non
la esime dall’obbligo di demolizione dell'abuso ma la fa
salva dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di
demolizione, ove sia impossibilitata ad eseguire (cfr. TAR
Campania sent. n. 873 del 13.02.2013)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 08.08.2014 n. 8886 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ai sensi dell'art. 18
della L. 47/1985 si ha lottizzazione abusiva di terreni a
scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione
venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita,
o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro
caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura
del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale
previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad
elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
Pertanto, l'art. 18 della legge n. 47/1985, sostanzialmente
riprodotto dall'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 disciplina
due differenti ipotesi di lottizzazione abusiva, ossia la
prima (c.d. materiale), relativa all'inizio della
realizzazione di opere che comportano la trasformazione
urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o
adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi
statali o regionali, sia in assenza della prescritta
autorizzazione; la seconda (c.d. formale), che si
verifica allorquando, pur non essendo ancora avvenuta una
trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne
siano già realizzati i presupposti con il frazionamento e la
vendita del terreno in lotti che, per le specifiche
caratteristiche, quali la dimensione dei lotti stessi, la
natura del terreno, la destinazione urbanistica, l'
ubicazione e la previsione di opere urbanistiche. e per gli
altri elementi riferiti agli acquirenti. evidenzino in modo
non equivoco la destinazione ad uso edificatorio, creando
così una variazione in senso accrescitivo tanto del numero
dei lotti quanto di quello dei soggetti titolari del diritto
sul bene.
Occorre quindi la sussistenza di elementi precisi ed univoci
da cui possa ricavarsi oggettivamente l'intento di asservire
all'edificazione un'area non urbanizzata, mediante un
sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile
desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo
edificatorio degli atti posti in essere dalle parti,
giustificandosi l'adozione del provvedimento repressivo
anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di
almeno uno degli elementi precisi e univoci sopraddetti.
A giudizio del Collegio il ricorso non è fondato e deve
essere respinto: ai sensi dell'art. 18 della L. 47/1985 si
ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio,
osserva il Collegio, quando vengono iniziate opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione
venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita,
o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro
caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura
del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale
previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad
elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
Pertanto, l'art. 18 della legge n. 47/1985, sostanzialmente
riprodotto dall'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 disciplina
due differenti ipotesi di lottizzazione abusiva, ossia la
prima (c.d. materiale), relativa all'inizio della
realizzazione di opere che comportano la trasformazione
urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o
adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi
statali o regionali, sia in assenza della prescritta
autorizzazione; la seconda (c.d. formale), che si
verifica allorquando, pur non essendo ancora avvenuta una
trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne
siano già realizzati i presupposti con il frazionamento e la
vendita del terreno in lotti che, per le specifiche
caratteristiche, quali la dimensione dei lotti stessi, la
natura del terreno, la destinazione urbanistica, l'
ubicazione e la previsione di opere urbanistiche. e per gli
altri elementi riferiti agli acquirenti. evidenzino in modo
non equivoco la destinazione ad uso edificatorio, creando
così una variazione in senso accrescitivo tanto del numero
dei lotti quanto di quello dei soggetti titolari del diritto
sul bene (in tal senso, fra le altre, Cons. di Stato, Sez.
IV, n. 5849/2003 e 19.02.2013 n. 1028).
Occorre quindi la sussistenza di elementi precisi ed univoci
da cui possa ricavarsi oggettivamente l'intento di asservire
all'edificazione un'area non urbanizzata (Consiglio di
Stato, Sezione IV, 11.10.2006 n. 6060 e Sezione V,
13.09.1991 n. 1157), mediante un sufficiente quadro
indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non
equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti
posti in essere dalle parti (Consiglio Stato, Sezione V,
20.10.2004, n. 6810), giustificandosi l'adozione del
provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione
della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e
univoci sopraddetti (Consiglio Stato, Sezione V, 14.05.2004,
n. 3136).
In particolare, sostiene il Comune intimato con propria
argomentata memoria, la cosiddetta lottizzazione negoziale,
ossia il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto
sussistente nel caso di specie sulla base non tanto della
realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento
contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti
sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può
concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della
lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non
equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla
natura del terreno, dall'eventuale revisione di opere di
urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo
edificatorio (Cons. Stato, Sez. V, 12.03.2012 n. 1374).
Nel caso in esame assume quindi un rilievo decisivo la
circostanza che il lotto risultava interamente recintato e
interessato dal deposito di materiali ed apparecchiature da
cantiere univocamente idonei a connotare una sua
destinazione ad usi edificativi previa suddivisione in lotti
adeguatamente recintati, in area ricadente per gran parte in
zona "N" destinata a "verde pubblico", per la quale
non è consentito nessun tipo di frazionamento né di
edificazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 08.08.2014 n. 8884 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nell’ambito del procedimento in cui vengono in
rilievo i limiti all’installazione di una insegna di
esercizio su di un edificio sede dell’impresa <<nessun
valore può essere riconosciuto al fine di individuare detti
limiti e condizioni alla circolare emanata dall’ANAS (n.
4131 dell’11.05.1998) per modificare o integrare quanto
previsto, circa la definizione delle insegne di esercizio,
dall’articolo 47 del DPR n. 495 del 16.12.1992 che
contraddistingue tale tipologie di insegne attraverso la
“scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente
da simboli e marchi…, installata nella sede dell’attività a
cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla
stessa”>>.
Ciò in quanto, rispetto alla previsione regolamentare
contenuta nel D.P.R. n. 495 del 1992, appare molto più
restrittiva la definizione contenuta nella circolare
dell’ANAS, secondo cui per aversi insegna di esercizio si
dovrebbe accertare che l’insegna sia una sola per ogni
attività, che sia collocata all’ingresso principale della
sede dell’impresa o nella sue immediate vicinanze, che
indichi il nome dell’esercente o la ragione sociale della
ditta, l’attività esercitata ed il tipo di merci vendute e
l’eventuale marchio della ditta ed, inoltre, che sia di
dimensioni tali da non costituire un richiamo pubblicitario.
La giurisprudenza amministrativa, in controversie analoghe,
ha avuto modo di chiarire che nell’ambito del procedimento
in cui vengono in rilievo i limiti all’installazione di una
insegna di esercizio su di un edificio sede dell’impresa <<nessun
valore può essere riconosciuto al fine di individuare detti
limiti e condizioni alla circolare emanata dall’ANAS (n.
4131 dell’11.05.1998) per modificare o integrare quanto
previsto, circa la definizione delle insegne di esercizio,
dall’articolo 47 del DPR n. 495 del 16.12.1992 che
contraddistingue tale tipologie di insegne attraverso la
“scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente
da simboli e marchi…, installata nella sede dell’attività a
cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa”>>
(così, Cons. Stato, sez. IV, n. 4865 del 2009).
Ciò in quanto, rispetto alla previsione regolamentare
contenuta nel D.P.R. n. 495 del 1992, appare molto più
restrittiva la definizione contenuta nella circolare
dell’ANAS, secondo cui per aversi insegna di esercizio si
dovrebbe accertare che l’insegna sia una sola per ogni
attività, che sia collocata all’ingresso principale della
sede dell’impresa o nella sue immediate vicinanze, che
indichi il nome dell’esercente o la ragione sociale della
ditta, l’attività esercitata ed il tipo di merci vendute e
l’eventuale marchio della ditta ed, inoltre, che sia di
dimensioni tali da non costituire un richiamo pubblicitario.
Traslando i superiori arresti giurisprudenziali,
integralmente condivisi dal Collegio, all’odierno gravame,
si palesa pertanto illegittimo il diniego opposto alla
società ricorrente.
Ed invero, esso si basa proprio sul contenuto della
circolare ANAS n. 4131 dell’11.05.1998, come evidenziato sul
punto non compatibile con la previsione regolamentare di cui
all’art. 47 del D.P.R. n. 495 del 1992.
Nella specie la ricorrente ha chiesto di installare sul
tetto della propria sede operativa una insegna di circa
quattro metri quadrati raffigurante il proprio segno
distintivo (stella a tre punte inscritta in un cerchio), in
luogo della propria denominazione, considerata troppo lunga
e di non immediata percezione identificativa, in quanto
risultato di una fusione societaria tra la società tedesca
Daimler e la società americana Chrysler. Il luogo ove
l’insegna avrebbe dovuto essere installata dista circa 60
metri dal raccordo autostradale.
Tanto rilevato, non possono essere condivisi entrambi i
motivi dell’opposto diniego.
Difatti, l’insegna in esame, per caratteristiche intrinseche
e di localizzazione, appare riconducibile alla nozione di
insegna di esercizio scolpita nell’art. 47, comma 1, del
D.P.R. n. 495 del 1992, a nulla rilevando, per quanto già
detto, il contenuto restrittivo della circolare ANAS n. 4131
del 1998.
Per quanto concerne il diverso profilo motivazionale secondo
cui “sia per ubicazione (sulla sommità dell’edificio),
sia per le dimensioni che per la luminosità può ritenersi
che rappresenti disturbo visivo per l’utenza autostradale”,
è sufficiente qui evidenziare che non risultano eseguite
dalla società resistente i necessari accertamenti istruttori
per pervenire alle conclusioni predette. Una volta chiarito
che l’insegna di esercizio può essere collocata sul tetto
dell’edificio costituente sede operativa dell’impresa e che
l’art. 50 del D.P.R. n. 495 del 1992 consente espressamente
l’installazione di insegne di esercizio luminose, alla
conclusione secondo cui l’insegna costituisce disturbo per
l’utenza autostradale la società resistente avrebbe potuto
pervenire soltanto all’esito di una adeguata istruttoria
tecnica, nella specie del tutto mancante
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter,
sentenza 08.08.2014 n. 8873 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'inizio dei lavori può
ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali
da manifestare una effettiva volontà da parte del
concessionario di realizzare il manufatto assentito".
La nozione di "inizio dei lavori" contenuta nell’art. 15,
comma 2, DPR n. 380 del 2001 deve intendersi come riferita a
concreti lavori edilizi.
In questa prospettiva i lavori devono ritenersi iniziati
quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini,
cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di
elementi portanti, nell’elevazione di muri e nella
esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni
del costruendo edificio.
E’ evidente che il mero espianto arboreo e l’apposizione del
cartello di cantiere non può considerarsi come effettivo
inizio dei lavori tale da manifestare la reale e consistente
voluntas aedificandi dell’appellante.
---------------
In ordine poi alla mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento, si rileva che il provvedimento teso alla
decadenza della concessione edilizia per mancato inizio dei
lavori esime la PA dall’attivare la procedura di cui
all’art. 7 L. n. 241 del 1990.
Invero, essendosi in presenza di un provvedimento a
contenuto vincolato, di carattere ricognitivo di un effetto
decadenziale che si produce automaticamente in relazione al
mero decorso del tempo, non può non applicarsi il dettato
dell’art. 21-octies.
Appare evidente che il provvedimento di decadenza, per il
suo carattere dovuto e vincolato, non necessita di una
previa comunicazione di avvio del procedimento ed è
sufficientemente motivato con l’evidenziazione
dell’effettiva sussistenza dei presupposti di fatto.
Dalla relazione del 04.04.2008, prot. n. 390 del 2008,
frutto dell’istruttoria compiuta dagli Agenti della P.M. in
data 3 aprile 2008, emerge che suoi luoghi oggetto del
permesso di costruire n. 22 del 22.03.2004 e successiva
variante n. 38 del 15.11.205, oltre a non esservi apposto
alcun cartello ed a non esservi lavori in atto, "non sono
presenti maestranze edili e materiali di cantiere ed allo
stato attuale nel terreno si evidenzia ancora la presenza di
vegetazione".
Al riguardo, come da giurisprudenza costante, "l’inizio
dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere
intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà
da parte del concessionario di realizzare il manufatto
assentito"(cfr., ex multis: Cons. St., sez. IV,
11.04.2014, n.1740; id., sez. IV, 20.12.2013, n. 6151; id.,
sez. V, 15.07.2013 n. 3823; id., sez. IV, 15.04.2013, n.
2027).
La nozione di "inizio dei lavori" contenuta nell’art.
15, comma 2, DPR n. 380 del 2001 deve intendersi come
riferita a concreti lavori edilizi.
In questa prospettiva i lavori devono ritenersi iniziati
quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini,
cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di
elementi portanti, nell’elevazione di muri e nella
esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni
del costruendo edificio (cfr. Cass. pen., sez. III,
27.01.2010, n. 7114; Cass. pen. n. 19101 del 2008, Cass. pen.
n. 19101 del 2008; Cass. pen. n. 19101 del 2008; Cass. pen.
n. 12316 del 2007; Cass. pen. n. 539 del 2006).
E’ evidente che il mero espianto arboreo e l’apposizione del
cartello di cantiere non può considerarsi come effettivo
inizio dei lavori tale da manifestare la reale e consistente
voluntas aedificandi dell’appellante (cfr. Cons. St.,
sez. II, 28.04.2010, n. 4170; Cons. St., sez. IV,
18.06.2008, n. 3030).
In ordine poi alla mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento, si rileva che il provvedimento teso alla
decadenza della concessione edilizia per mancato inizio dei
lavori esime la PA dall’attivare la procedura di cui
all’art. 7 L. n. 241 del 1990.
Invero, essendosi in presenza di un provvedimento a
contenuto vincolato, di carattere ricognitivo di un effetto
decadenziale che si produce automaticamente in relazione al
mero decorso del tempo, non può non applicarsi il dettato
dell’art. 21-octies (cfr. Cons. St., sez. IV, 11.04.2014, n.
1740; id., sez. IV, 20.12.2013, n. 6151; id., sez. IV,
30.09.2013, n. 4855; id., sez. IV, 15.04.2013 n. 2027; id.,
18.05.2012, n. 2915).
Appare evidente che il provvedimento di decadenza, per il
suo carattere dovuto e vincolato, non necessita di una
previa comunicazione di avvio del procedimento ed è
sufficientemente motivato con l’evidenziazione
dell’effettiva sussistenza dei presupposti di fatto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.08.2014 n. 4201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: A
seguito della novella di cui alla legge nr. 183 del 2010, è
stata eliminata dall’art. 33 della legge nr. 104 del 1992 la
previsione dei requisiti della continuità ed esclusività
dell’assistenza: tali requisiti, pertanto, non possono più
essere pretesi dall’Amministrazione come presupposto per la
concessione dei benefici di cui al citato art. 33, e dunque
gli unici parametri entro i quali l’Amministrazione deve
valutare se concedere o meno i benefici in questione sono
da un lato le proprie esigenze organizzative ed
operative e dall’altro l’effettiva necessità del
beneficio, al fine di impedire un suo uso strumentale.
Ciò premesso, va rilevato che la richiesta di trasferimento
in base alla normativa suindicata non configura un diritto
incondizionato del richiedente: la p.a. può legittimamente
respingere l’istanza di trasferimento di un proprio
dipendente, presentata ai sensi dell’art. 33, quando le
condizioni personali e familiari dello stesso recedono di
fronte all’interesse pubblico alla tutela del buon
funzionamento degli uffici e del prestigio
dell’Amministrazione.
Il c.d. “diritto al trasferimento” è quindi rimesso ad una
valutazione relativamente discrezionale dell’Amministrazione
ed è soggetto ad una duplice condizione: che nella sede di
destinazione vi sia un posto vacante e disponibile e che vi
sia l’assenso delle Amministrazioni di provenienza e di
destinazione; ne discende che, quand’anche il requisito
della vacanza e della disponibilità risulti soddisfatto, il
beneficio può essere negato in considerazione delle esigenze
di servizio della struttura di provenienza o di
destinazione.
Quando poi risulta che la persona portatrice di handicap ha
altri familiari in loco e che il richiedente non ha in
precedenza prestato attività di assistenza nei suoi
confronti, la p.a. può legittimamente respingere l’istanza
di trasferimento.
... per la riforma, previa sospensione dell’esecuzione,
della sentenza nr. 324/2014 del 15.01.2014 del TAR della
Lombardia, Sezione Prima di Milano, depositata in data
29.01.2014 e non notificata.
...
Il signor -OMISSIS-, Assistente capo di Polizia
Penitenziaria in servizio a Milano presso la Casa
Circondariale di San Vittore, ha impugnato –chiedendone
l’annullamento previa sospensiva– il provvedimento con cui
l’Amministrazione penitenziaria ha denegato il trasferimento
ad altra sede da lui richiesto.
Tale trasferimento era stato domandato a seguito della
dichiarazione della Commissione Invalidi Civili di Matera,
la quale aveva documentato la condizione di portatrice di
handicap grave della madre dell’istante, ai sensi della
legge 05.02.1992, nr. 104.
Il diniego opposto dall’Amministrazione aveva come
presupposto la carenza dei requisiti di continuità ed
esclusività.
...
A seguito della novella di cui alla legge nr. 183 del 2010,
è stata eliminata dall’art. 33 della legge nr. 104 del 1992
la previsione dei requisiti della continuità ed esclusività
dell’assistenza: tali requisiti, pertanto, non possono più
essere pretesi dall’Amministrazione come presupposto per la
concessione dei benefici di cui al citato art. 33, e dunque
gli unici parametri entro i quali l’Amministrazione deve
valutare se concedere o meno i benefici in questione –nella
fattispecie concreta, il trasferimento presso la Casa
Circondariale di Matera– sono da un lato le proprie esigenze
organizzative ed operative e dall’altro l’effettiva
necessità del beneficio, al fine di impedire un suo uso
strumentale.
Ciò premesso, va rilevato che la richiesta di trasferimento
in base alla normativa suindicata non configura un diritto
incondizionato del richiedente: la p.a. può legittimamente
respingere l’istanza di trasferimento di un proprio
dipendente, presentata ai sensi dell’art. 33, quando le
condizioni personali e familiari dello stesso recedono di
fronte all’interesse pubblico alla tutela del buon
funzionamento degli uffici e del prestigio
dell’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. III,
07.03.2014, nr. 1073).
Il c.d. “diritto al trasferimento” è quindi rimesso
ad una valutazione relativamente discrezionale
dell’Amministrazione ed è soggetto ad una duplice
condizione: che nella sede di destinazione vi sia un posto
vacante e disponibile e che vi sia l’assenso delle
Amministrazioni di provenienza e di destinazione; ne
discende che, quand’anche il requisito della vacanza e della
disponibilità risulti soddisfatto, il beneficio può essere
negato in considerazione delle esigenze di servizio della
struttura di provenienza o di destinazione (cfr. Cons.
Stato, sez. III, 08.04.2014, nr. 1677).
Quando poi risulta che la persona portatrice di handicap ha
altri familiari in loco e che il richiedente non ha in
precedenza prestato attività di assistenza nei suoi
confronti, la p.a. può legittimamente respingere l’istanza
di trasferimento (cfr. Cons. Stato, sez. I, parere nr. 3297
del 21.11.2013).
Tutto ciò premesso, nel caso che qui occupa il deposito
della documentazione dell’Amministrazione attestante le
esigenze quantitative e qualitative della sede di servizio
del ricorrente dimostra come non vi sia stata, da parte
della stessa, alcuna deviazione dal dettato normativo;
spetta infatti al giudice verificare se l’esercizio di tale
potere valutativo sia aderente ai presupposti normativi, ai
dati di fatto e ai criteri di logica e razionalità.
In particolare:
- non appare manifestamente irragionevole il criterio
seguito, incentrato sul rapporto fra la popolazione dei
detenuti presso ciascuna delle strutture carcerarie
interessate e il numero dei dipendenti in pianta organica e
in servizio;
- a fronte dei dati emersi in applicazione di detto
criterio, non può essere utilmente invocata la circostanza
che l’Amministrazione abbia per il passato autorizzato
distacchi o trasferimenti di altre unità di personale,
atteso che tali provvedimenti potrebbero essere maturati in
contesto diverso ed aver condotto – appunto – all’attuale
situazione che rende non più sostenibili ulteriori
spostamenti di personale;
- il fatto che la madre dell’istante risulti assistita da
altri familiari, come sopra già accennato, ben può
costituire circostanza di fatto suscettibile di
apprezzamento da parte dell’Amministrazione nella
complessiva ponderazione degli interessi da comporre, pur
dopo la ricordata riforma del 2010 che ha eliminato la
previsione dei presupposti della continuità ed esclusività
dell’assistenza.
Alla luce dei rilievi fin qui svolti, s’impone la reiezione
dell’appello
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2014 n. 4200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La mancata comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento, prevista dall’art. 7 della legge n. 241 del
1990, non conduce all’annullabilità del provvedimento,
trattandosi di un inadempimento meramente formale rispetto a
un atto di natura vincolata, il cui contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr.
art. 21-octies, comma 2, della citata legge n. 241 del
1990).
Il Collegio non può qui non ribadire quanto più volte
precisato da questo Consiglio di Stato e cioè che nei
procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edili abusive non trova applicazione
l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale in
ragione della natura vincolata del potere repressivo
esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque
apporto partecipativo del privato (che gli appellanti per la
verità evocano, ma in termini del tutto generici).
In questo senso va così intesa la ricorrente affermazione
del medesimo Consiglio di Stato, secondo cui le norme sulla
partecipazione del privato al procedimento amministrativo
non vanno applicate meccanicamente e formalmente.
La mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, prevista
dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990, non conduce
all’annullabilità del provvedimento, trattandosi di un
inadempimento meramente formale rispetto a un atto di natura
vincolata, il cui contenuto non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato (cfr. art. 21-octies,
comma 2, della citata legge n. 241 del 1990).
Il Collegio non può qui non ribadire quanto più volte
precisato da questo Consiglio di Stato (cfr. sez. IV, 26.09.2008, n. 4659; sez. IV,
04.02.2013, n. 666;
sez. IV, 25.06.2013, n. 3471) e cioè che nei
procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edili abusive non trova applicazione
l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale in
ragione della natura vincolata del potere repressivo
esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque
apporto partecipativo del privato (che gli appellanti per la
verità evocano, ma in termini del tutto generici). In questo
senso va così intesa la ricorrente affermazione del medesimo
Consiglio di Stato, secondo cui le norme sulla
partecipazione del privato al procedimento amministrativo
non vanno applicate meccanicamente e formalmente (così
testualmente, fra le tante, sez. IV, 17.09.2012, n.
4925, proprio con riguardo all’ipotesi del provvedimento
vincolato) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2014 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' principio consolidato
che la demolizione degli abusi edilizi non richieda nessuna
specifica motivazione, necessaria invece in casi di
contrarie determinazioni. L'ordine di demolizione di opera
edilizia abusiva è sufficientemente motivato, cioè, con
l'affermazione dell’accertata abusività del manufatto.
Resta soltanto salva -per taluni orientamenti
giurisprudenziali, comunque di frequente contestati e
senz’altro minoritari- l'ipotesi in cui, per il lungo
intervallo di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e
il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta
alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato.
E’ questa la sola vicenda in cui potrebbe essere forse
lecito ravvisare un onere di congrua motivazione che, avuto
riguardo anche all’entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso e
ulteriore rispetto a quello al ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato.
Non è destinato a miglior
sorte, infine, il punto relativo al preteso difetto di
motivazione.
Al contrario, è principio consolidato che la demolizione
degli abusi edilizi non richieda nessuna specifica
motivazione, necessaria invece in casi di contrarie
determinazioni. L'ordine di demolizione di opera edilizia
abusiva è sufficientemente motivato, cioè, con
l'affermazione dell’accertata abusività del manufatto.
Resta soltanto salva -per taluni orientamenti
giurisprudenziali, comunque di frequente contestati e
senz’altro minoritari- l'ipotesi in cui, per il lungo
intervallo di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e
il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta
alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato. E’ questa la sola vicenda in cui
potrebbe essere forse lecito ravvisare un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche all’entità e alla
tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse,
evidentemente diverso e ulteriore rispetto a quello al
ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato (per tutti,
Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705).
Sennonché, premesso che l’orientamento da ultimo richiamato
non convince il Collegio, che preferisce l’indirizzo
dominante sull’inesistenza di un obbligo di motivazione
“ulteriore”, nella specie lo iato temporale
non viene dedotto e comunque non sembra sussistere, cosicché
il motivo deve essere rigettato (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2014 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’acquisizione dell’opera abusiva al patrimonio
comunale è effetto previsto dalla legge (art. 31), ha natura
sanzionatoria e non richiede alcuna particolare motivazione
al di là del suo presupposto legale, cioè l’accertata
violazione della normativa edilizia e urbanistica.
Le opere acquisite sono identificate con esattezza, anche
mediante il riferimento ai dati catastali, meglio
specificati attraverso le successive ordinanze di
acquisizione.
L’acquisizione dell’opera
abusiva al patrimonio comunale è effetto previsto dalla
legge (art. 31), ha natura sanzionatoria e non richiede
alcuna particolare motivazione al di là del suo presupposto
legale, cioè l’accertata violazione della normativa edilizia
e urbanistica.
Le opere acquisite sono identificate con esattezza, anche
mediante il riferimento ai dati catastali, meglio
specificati attraverso le successive ordinanze di
acquisizione.
La doglianza secondo cui non sarebbe motivata l’acquisizione
di un’area maggiore del bene e dell’area di sedime sembra
inammissibile, perché non compare nei ricorsi per motivi
aggiunti notificati -nel corso del giudizio di primo grado- il 17.12.2008 e il
07.05.2009 ed è dedotta solo
in appello. Comunque, essa non ha pregio in punto di fatto,
come si deduce dalla semplice lettura del testo delle
ordinanze impugnate, che dispongono l’acquisizione al
patrimonio comunale delle sole opere realizzate
abusivamente.
Sia detto incidentalmente che non appare essere stata
impugnata a suo tempo anche l’ultima -e definitiva-
ordinanza di acquisizione, e cioè la n. 41 del 2009 (come
dice il TAR: “risulta peraltro dagli atti…"). Il che
pone un evidente quesito in termini di ammissibilità e
procedibilità del ricorso di primo grado e di quello di
appello, sul quale non vale peraltro la pena di indugiare
vista l’evidente infondatezza nel merito delle censure
formulate dalla parte privata (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2014 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E’ principio consolidato che, in caso di
abusivismo edilizio, non sussiste a carico del Comune
l'onere di verificare la sanabilità dell'opera prima di
emettere una ordinanza di demolizione: invero, nello schema
giuridico delineato dall'art. 31 t.u. non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del
potere repressivo di un abuso edilizio consistente
nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo
abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re
ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto,
accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione
ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non
costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle
opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia.
Quanto alla mancata
valutazione della possibilità di un intervento di recupero,
che -nel caso di specie- avrebbe il suo necessario
antecedente nella modifica della disciplina urbanistica in
vigore, è evidente trattarsi di una mera facoltà
dell’Amministrazione, l’omesso esercizio della quale non può
essere valutato in termini di illegittimità.
E’ principio consolidato che, in caso di abusivismo
edilizio, non sussiste a carico del Comune l'onere di
verificare la sanabilità dell'opera prima di emettere una
ordinanza di demolizione: invero, nello schema giuridico
delineato dall'art. 31 t.u. non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del
potere repressivo di un abuso edilizio consistente
nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo
abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto,
accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione
ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non
costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle
opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 06.03.2012, n. 1260).
Si aggiunga che la normativa speciale evocata dagli
appellanti sarebbe comunque inapplicabile, nella misura in
cui fa riferimento a insediamenti abusivi risalenti a date
(01.10.1983: art. 29, primo comma, della legge 28.02.1985,
n. 47; 31.12.1993: art. 23, comma 3, della legge della
Regione Campania 22.12.2004, n. 16) circa il rispetto delle
quali nessuna prova è stata offerta
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2014 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: E'
consolidato il principio secondo cui deve essere negata la
configurabilità di controinteressati rispetto
all'impugnazione di strumenti urbanistici: <<la funzione
normalmente esclusiva del piano urbanistico è quella di
predisporre un ordinato assetto del territorio comunale,
prescindendo dal considerare le posizioni dei titolari di
diritti reali, anche se nominativamente indicati, ed i
vantaggi e gli svantaggi che ad essi possano derivare dalla
pianificazione, senza che possa differenziarsi al riguardo
la posizione degli interessati che abbiano presentato
osservazioni … È da considerare, inoltre, che normalmente,
gli eventuali svantaggi e vantaggi non sono predeterminabili
con certezza, essendo rimessi alla valutazione soggettiva
dei proprietari delle aree …>>.
Per costante e condivisa giurisprudenza, in materia
urbanistica vale in altri termini il canone per cui, “di
norma, non sussistono controinteressati rispetto
all'impugnazione degli strumenti di programmazione”, con
l’eccezione laddove oggetto del gravame sia una variante al
piano regolatore che abbia una portata del tutto specifica e
circoscritta, nonché nei casi in cui risulti evidente
l'esistenza di posizioni peculiari in capo a soggetti
interessati al mantenimento di un atto.
In materia, è consolidato il principio secondo
cui deve essere negata la configurabilità di controinteressati rispetto all'impugnazione di strumenti
urbanistici: <<la funzione normalmente esclusiva del piano
urbanistico è quella di predisporre un ordinato assetto del
territorio comunale, prescindendo dal considerare le
posizioni dei titolari di diritti reali, anche se
nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli svantaggi che
ad essi possano derivare dalla pianificazione, senza che
possa differenziarsi al riguardo la posizione degli
interessati che abbiano presentato osservazioni … È da
considerare, inoltre, che normalmente, gli eventuali
svantaggi e vantaggi non sono predeterminabili con certezza,
essendo rimessi alla valutazione soggettiva dei proprietari
delle aree …>> (Consiglio di Stato, sez. IV – 31/03/2009 n.
2012).
Per costante e condivisa giurisprudenza, in materia
urbanistica vale in altri termini il canone per cui, “di
norma, non sussistono controinteressati rispetto
all'impugnazione degli strumenti di programmazione”, con
l’eccezione (non riscontrabile nella specie) laddove oggetto
del gravame sia una variante al piano regolatore che abbia
una portata del tutto specifica e circoscritta, nonché nei
casi in cui risulti evidente l'esistenza di posizioni
peculiari in capo a soggetti interessati al mantenimento di
un atto (Consiglio di Stato, sez. IV – 17/05/2012 n. 2839) (cfr. sentenza
Sezione sez. II – 27/05/2010 n. 2152) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 06.08.2014 n. 907 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Anche
se il disegno urbanistico può essere improntato a criteri
ragionevoli (come l'allontanamento dal centro abitato delle
industrie insalubri), l'uso del potere di pianificazione con
finalità espulsive è sempre vietato, in quanto contrario ai
principi generali della materia. Sono ammesse solo misure
incentivanti, attraverso le quali la delocalizzazione è
perseguita individuando soluzioni alternative praticabili,
previo coinvolgimento degli interessati.
In precedenza, questo TAR aveva già affermato che, “se è
vero che la programmazione urbanistica è caratterizzata da
un altissimo grado di discrezionalità nella prospettiva di
un ordinato e funzionale assetto del territorio comunale, le
scelte pianificatorie devono pur sempre garantire
un'imparziale ponderazione degli interessi coinvolti,
dovendo l'amministrazione valutare attentamente se
l'astratto miglioramento della situazione urbanistica
generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di
interessi, anche privati. … gli strumenti urbanistici sono
essenzialmente rivolti a disciplinare la futura attività di
trasformazione e di sviluppo del territorio sicché, salvo
che non sia diversamente disposto, i limiti e le condizioni
cui subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere
già eseguite in conformità alla disciplina previgente -i
quali conservano la loro precedente e legittima destinazione
pur se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo
deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli
interventi necessari per integrarne o mantenerne la
funzionalità. La programmazione urbanistica non può, in
definitiva, introdurre misure espulsive degli insediamenti
produttivi esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio
ai principi di corretta pianificazione che traspaiono dalla
normativa di settore e che sono stati più volte evidenziati
dalla giurisprudenza amministrativa, anche di questa
Sezione”.
In altra fattispecie, si è osservato che la valutazione di
un’attività produttiva sotto il profilo sanitario “non può
essere compiuta aprioristicamente vietando in modo
generalizzato determinati insediamenti produttivi nel centro
abitato o ad una prestabilita distanza dallo stesso, in
quanto tale valutazione deve essere compiuta sul caso
specifico da parte dell'autorità sanitaria, che deve
accertare la presenza delle condizioni indispensabili
affinché essa si svolga senza pregiudizio per la salute
pubblica”.
Questo Tribunale ha di
recente statuito (cfr. sentenza sez. I – 04/06/2014 n. 598)
come <<anche se il disegno urbanistico può essere improntato
a criteri ragionevoli (come l'allontanamento dal centro
abitato delle industrie insalubri), l'uso del potere di
pianificazione con finalità espulsive è sempre vietato, in
quanto contrario ai principi generali della materia. Sono
ammesse solo misure incentivanti, attraverso le quali la
delocalizzazione è perseguita individuando soluzioni
alternative praticabili, previo coinvolgimento degli
interessati>>.
In precedenza, questo TAR aveva già
affermato (cfr. sentenza 01/06/2007 n. 470, la quale richiama
le proprie precedenti pronunce 04/09/2001 n. 767, 17/01/2004 n.
108 e 03/07/2006 n. 828) che, “se è vero che la programmazione
urbanistica è caratterizzata da un altissimo grado di
discrezionalità nella prospettiva di un ordinato e
funzionale assetto del territorio comunale, le scelte pianificatorie devono pur sempre garantire un'imparziale
ponderazione degli interessi coinvolti, dovendo
l'amministrazione valutare attentamente se l'astratto
miglioramento della situazione urbanistica generale si ponga
in contrasto con rilevanti sacrifici di interessi, anche
privati. … gli strumenti urbanistici sono essenzialmente
rivolti a disciplinare la futura attività di trasformazione
e di sviluppo del territorio sicché, salvo che non sia
diversamente disposto, i limiti e le condizioni cui
subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere già
eseguite in conformità alla disciplina previgente -i quali
conservano la loro precedente e legittima destinazione pur
se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo
deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli
interventi necessari per integrarne o mantenerne la
funzionalità (Consiglio di Stato, sez. V - 19/02/1997 n. 176).
La programmazione urbanistica non può, in definitiva,
introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi
esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi
di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di
settore e che sono stati più volte evidenziati dalla
giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione
(sentenza 31/05/1986 n. 185)”.
In altra fattispecie, si è
osservato che la valutazione di un’attività produttiva sotto
il profilo sanitario “non può essere compiuta
aprioristicamente vietando in modo generalizzato determinati
insediamenti produttivi nel centro abitato o ad una
prestabilita distanza dallo stesso, in quanto tale
valutazione deve essere compiuta sul caso specifico da parte
dell'autorità sanitaria, che deve accertare la presenza
delle condizioni indispensabili affinché essa si svolga
senza pregiudizio per la salute pubblica” (cfr. sentenza
Sezione sez. II – 27/05/2010 n. 2152) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 06.08.2014 n. 907 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
principio di non aggravio del procedimento, secondo il quale
non risulta logica l’imposizione, a pena di esclusione,
dell’onere di produrre per la seconda volta, in sede di
presentazione di offerta, la medesima documentazione già
prodotta in occasione della prequalifica, non può trovare
applicazione nel caso in cui in sede di prequalifica sia
stata prodotta solo l’autocertificazione e debba, quindi,
consentirsi il suo controllo tramite la necessaria
documentazione attestante il possesso dei requisiti.
Infondato è anche l’ulteriore motivo con cui le appellanti
sostengono di avere, comunque, assolto l’obbligo
dichiarativo mediante la presentazione
dell’autodichiarazione in sede di prequalifica.
Evidente è, invero, la differenza tra l’autocertificazione
presentata in sede di prequalificazione ai fini della
ammissione alla partecipazione alla procedura ristretta, non
minimamente contestata dalla stazione appaltante, dalla
documentazione richiesta ai fini del doveroso controllo
della veridicità delle affermazioni ivi contenute.
Il principio di non aggravio del procedimento, secondo il
quale non risulta logica l’imposizione, a pena di
esclusione, dell’onere di produrre per la seconda volta, in
sede di presentazione di offerta, la medesima documentazione
già prodotta in occasione della prequalifica (Cons. St. Sez.
VI, 08.02.2008, n. 416), non può trovare applicazione nel
caso in cui in sede di prequalifica sia stata prodotta solo
l’autocertificazione e debba, quindi, consentirsi il suo
controllo tramite la necessaria documentazione attestante il
possesso dei requisiti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
05.08.2014 n.
4165 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Dispone
l’art. 77 del R.D. n. 827/1924 che “Quando nelle aste al
ribasso due o più concorrenti presenti all’asta facciano la
stessa offerta ed essa sia accettabile, si procede nella
medesima adunanza ad una licitazione esclusivamente fra
detti concorrenti e colui che risulta migliore offerente è
dichiarato aggiudicatario.
Ove nessuno di coloro che hanno presentato le medesime
offerte sia presente o nel caso in cui i presenti non
vogliano migliorare l’offerta, la sorte decide chi debba
essere l’aggiudicatario”.
Pertanto, la norma prevede che si proceda all’esperimento
immediato della miglioria e ciò avviene o in presenza di
tutte le ditte offerenti o in presenza anche di una sola tra
esse o di una sola di esse con un proprio rappresentante
abilitato a procedere all’offerta suppletiva, trattandosi di
tutte ipotesi nelle quali non ha ragione d’essere negata la
possibilità del miglioramento.
Di fronte a tale previsione normativa, la scelta di una
delle concorrenti di non presenziare alla seduta di gara con
un proprio rappresentante abilitato a procedere all’offerta
suppletiva non può andare a detrimento della posizione
dell’altra concorrente che si è predisposta ad offrire, ad
nutum, un ulteriore ribasso, ancorché nel silenzio della lex
specialis di gara sul punto.
---------------
Non ha, dunque, pregio, la doglianza ditta ricorrente
principale, non presente alla seduta di gara con un
rappresentante abilitato a formulare l’offerta migliorativa.
Ad avviso di questo TAR l’esperimento del tentativo di
miglioria delle offerte, di cui al primo comma del cit. art.
77 del R.D. n. 827/1924, va in ogni caso ammesso da parte
del seggio di gara prima che possa procedersi al sorteggio
tra le offerte eguali: e ciò quand’anche nel silenzio della
lex specialis.
Infatti, un’effettiva e definitiva parità tra le offerte
-che è l’unica condizione che normativamente legittima
l’affidamento alla sorte della scelta dell’aggiudicatario-
deve ritenersi realizzata solo ove non si siano avute, per
qualsiasi causa, offerte migliorative, ovvero quando queste
ultime siano risultate di pari importo tra loro. Solo in
difetto di offerte migliorative e, se anomale, in difetto di
valida giustificazione, potrà quindi procedersi al
sorteggio.
La disposizione in parola, contenuta nel regolamento di
contabilità generale dello Stato che trova applicazione
indipendentemente dal suo richiamo nei bandi di gara, non è
stata peraltro abrogata né implicitamente né esplicitamente
dalla successiva normativa in materia di appalti, con la
conseguenza che deve trovare applicazione in tutte le
procedure di gara.
Ne consegue che, in caso di offerte uguali, il sorteggio è
un metodo di aggiudicazione meramente residuale, esperibile
solo qualora non sia possibile l’esperimento migliorativo,
il quale deve ritenersi rispondente a un principio generale,
in quanto consente all’Amministrazione, nel rispetto anche
della libera concorrenza, di ottenere la prestazione oggetto
dell’appalto alle migliori condizioni di mercato.
---------------
Quanto alla validità della offerta di miglioria presentata
dalla ditta aggiudicataria essa non è inficiata dalla
circostanza che l’autorizzazione del soggetto delegato,
inviata via fax durante la seduta di gara, fosse priva della
autenticazione notarile, essendo quella di miglioria una
fase di gara meramente eventuale e potendo comunque i poteri
rappresentativi essere verificati prima della sottoscrizione
del contratto (come nella specie accaduto).
Nessuna violazione della par condicio è stata posta in
essere dalla stazione appaltante, in quanto alla ricorrente
principale è stata data la possibilità di presentare la
propria offerta di miglioria con le stesse modalità
attribuite alla ditta controinteressata.
Infondato è, innanzitutto, il primo motivo
di ricorso con cui la ricorrente principale contesta la
correttezza dell’operato della stazione appaltante, che, a
fronte dei medesimi ribassi offerti da due delle ditte
concorrenti alla procedura scrutinata, ha proceduto alla
richiesta di un’offerta migliorativa anziché effettuare il
sorteggio.
Dispone l’art. 77 del R.D. n. 827/1924 che “Quando nelle
aste al ribasso due o più concorrenti presenti all’asta
facciano la stessa offerta ed essa sia accettabile, si
procede nella medesima adunanza ad una licitazione
esclusivamente fra detti concorrenti e colui che risulta
migliore offerente è dichiarato aggiudicatario.
Ove nessuno di coloro che hanno presentato le medesime
offerte sia presente o nel caso in cui i presenti non
vogliano migliorare l’offerta, la sorte decide chi debba
essere l’aggiudicatario”.
Pertanto, la norma prevede che si proceda all’esperimento
immediato della miglioria e ciò avviene o in presenza di
tutte le ditte offerenti o in presenza anche di una sola tra
esse o di una sola di esse con un proprio rappresentante
abilitato a procedere all’offerta suppletiva, trattandosi
di tutte ipotesi nelle quali non ha ragione d’essere negata
la possibilità del miglioramento.
Di fronte a tale previsione normativa, la scelta di una
delle concorrenti (nelle specie RTI G.B.S.) di non
presenziare alla seduta di gara con un proprio
rappresentante abilitato a procedere all’offerta suppletiva
non può andare a detrimento della posizione dell’altra
concorrente che si è predisposta ad offrire, ad nutum, un
ulteriore ribasso, ancorché nel silenzio della lex specialis
di gara sul punto.
Non ha, dunque, pregio, la doglianza ditta ricorrente
principale, non presente alla seduta di gara con un
rappresentante abilitato a formulare l’offerta migliorativa.
Ad avviso di questo TAR l’esperimento del tentativo di
miglioria delle offerte, di cui al primo comma del cit. art.
77 del R.D. n. 827/1924, va in ogni caso ammesso da parte del
seggio di gara prima che possa procedersi al sorteggio tra
le offerte eguali: e ciò quand’anche nel silenzio della lex
specialis. Infatti, un’effettiva e definitiva parità tra le
offerte -che è l’unica condizione che normativamente
legittima l’affidamento alla sorte della scelta
dell’aggiudicatario- deve ritenersi realizzata solo ove non
si siano avute, per qualsiasi causa, offerte migliorative,
ovvero quando queste ultime siano risultate di pari importo
tra loro. Solo in difetto di offerte migliorative e, se
anomale, in difetto di valida giustificazione, potrà quindi procedersi al sorteggio.
La disposizione in parola, contenuta nel regolamento di
contabilità generale dello Stato che trova applicazione
indipendentemente dal suo richiamo nei bandi di gara, non è
stata peraltro abrogata né implicitamente né esplicitamente
dalla successiva normativa in materia di appalti, con la
conseguenza che deve trovare applicazione in tutte le
procedure di gara. Ne consegue che, in caso di offerte
uguali, il sorteggio è un metodo di aggiudicazione meramente
residuale, esperibile solo qualora non sia possibile
l’esperimento migliorativo, il quale deve ritenersi
rispondente a un principio generale, in quanto consente
all’Amministrazione, nel rispetto anche della libera
concorrenza, di ottenere la prestazione oggetto dell’appalto
alle migliori condizioni di mercato.
Quanto alla validità della offerta di miglioria presentata
dalla ditta aggiudicataria, come già rilevato in sede
cautelare, essa non è inficiata dalla circostanza che
l’autorizzazione del soggetto delegato, inviata via fax
durante la seduta di gara, fosse priva della autenticazione
notarile, essendo quella di miglioria una fase di gara
meramente eventuale e potendo comunque i poteri
rappresentativi essere verificati prima della sottoscrizione
del contratto (come nella specie accaduto); nessuna
violazione della par condicio è stata posta in essere dalla
stazione appaltante, in quanto alla ricorrente principale è
stata data la possibilità di presentare la propria offerta
di miglioria con le stesse modalità attribuite alla ditta
controinteressata
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 01.08.2014 n. 2073 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Gli
ordini di sospensione dei lavori e di rimessione in
pristino, nonché l’acquisizione della superficie al
patrimonio del Comune, si basano su un duplice presupposto,
ossia:
(a) che l’alterazione della quota del terreno sia
intervenuta in difformità rispetto al permesso di costruire,
e
(b) che tale difformità sia irrimediabile, in quanto lesiva
dei diritti di terzi.
---------------
Il muro di contenimento, a differenza di quello avente un
mero scopo di recinzione, comporta un impatto sui luoghi
paragonabile all’edificazione (v. l’analogia con i depositi
permanenti di materiali ex art. 3 comma 1-e.7 del DPR
380/2001) talché è necessario il titolo edilizio.
La realizzazione abusiva del muro di contenimento comporta
l’applicazione della procedura di regolarizzazione ex art.
36 del DPR 380/2001, non essendo pertinente in questo caso
la disciplina prevista dal successivo art. 37 per le opere
minori o pertinenziali.
---------------
(a) quando l’edificazione riguarda terreni in pendenza, la
realizzazione di muri di contenimento è una circostanza
molto frequente e del tutto normale;
(b) gli uffici comunali devono valutare i muri di
contenimento da un punto di vista urbanistico e paesistico,
per limitarne il più possibile l’impatto sul territorio
complessivamente considerato;
(c) non spetta al Comune la risoluzione dei rapporti di
vicinato tra i privati;
(d) qualora i terzi rappresentino al Comune l’esistenza di
un loro diritto incompatibile con l’edificazione, gli uffici
comunali sono tenuti a effettuare degli approfondimenti, ed
eventualmente a ricondurre il progetto entro limiti
accettabili per tutti i soggetti interessati;
(e) se effettivamente i terzi chiariscono i loro diritti al
Comune presentando opposizione al progetto, e così pure
nell’ipotesi in cui i diritti dei terzi siano immediatamente
evidenti (come nel caso della comunione, del condominio, o
delle servitù trascritte in pubblici registri), le
prescrizioni inserite nel permesso di costruire
rappresentano vere e proprie condizioni sospensive, e
impediscono l’edificazione;
(f) al di fuori di queste fattispecie, le prescrizioni
devono essere considerate come varianti della generica
formula che fa salvi i diritti dei terzi, e dunque non
impediscono l’edificazione;
(g) spetterà poi ai terzi, se lo riterranno opportuno,
chiedere davanti al giudice ordinario l’eliminazione delle
opere che incidono negativamente sui loro diritti.
Sul riporto di terra e sulla recinzione
25. Gli ordini di sospensione dei lavori e di rimessione in
pristino, nonché l’acquisizione della superficie al
patrimonio del Comune, si basano su un duplice presupposto,
ossia (a) che l’alterazione della quota del terreno sia
intervenuta in difformità rispetto al permesso di costruire,
e (b) che tale difformità sia irrimediabile, in quanto
lesiva dei diritti di terzi.
26. La prima affermazione non appare condivisibile. La
ricorrente ha in realtà prospettato fin dall’inizio agli
uffici comunali la propria intenzione di rimodellare il
terreno lungo il confine di proprietà. Era quindi evidente
che il muro di recinzione avrebbe assunto anche la funzione
di muro di contenimento.
27. Poiché il muro di contenimento, a differenza di quello
avente un mero scopo di recinzione, comporta un impatto sui
luoghi paragonabile all’edificazione (v. l’analogia con i
depositi permanenti di materiali ex art. 3 comma 1-e.7 del
DPR 380/2001), era necessario che il titolo edilizio
autorizzasse anche questo tipo di intervento, cosa che in
effetti è avvenuta. La realizzazione abusiva del muro di
contenimento avrebbe imposto l’applicazione della procedura
di regolarizzazione ex art. 36 del DPR 380/2001, non essendo
pertinente in questo caso la disciplina prevista dal
successivo art. 37 per le opere minori o pertinenziali.
28. È vero che il permesso di costruire (attraverso la
prescrizione n. 12) subordinava le ricariche di terreno
lungo il perimetro della proprietà all’autorizzazione dei
confinanti, la quale finora non sembra intervenuta.
In
proposito sono però necessarie le seguenti precisazioni:
(a)
quando l’edificazione riguarda terreni in pendenza, la
realizzazione di muri di contenimento è una circostanza
molto frequente e del tutto normale;
(b) gli uffici comunali
devono valutare i muri di contenimento da un punto di vista
urbanistico e paesistico, per limitarne il più possibile
l’impatto sul territorio complessivamente considerato;
(c)
non spetta al Comune la risoluzione dei rapporti di vicinato
tra i privati;
(d) qualora i terzi rappresentino al Comune
l’esistenza di un loro diritto incompatibile con
l’edificazione, gli uffici comunali sono tenuti a effettuare
degli approfondimenti, ed eventualmente a ricondurre il
progetto entro limiti accettabili per tutti i soggetti
interessati;
(e) se effettivamente i terzi chiariscono i
loro diritti al Comune presentando opposizione al progetto,
e così pure nell’ipotesi in cui i diritti dei terzi siano
immediatamente evidenti (come nel caso della comunione, del
condominio, o delle servitù trascritte in pubblici
registri), le prescrizioni inserite nel permesso di
costruire rappresentano vere e proprie condizioni
sospensive, e impediscono l’edificazione;
(f) al di fuori di
queste fattispecie, le prescrizioni devono essere
considerate come varianti della generica formula che fa
salvi i diritti dei terzi, e dunque non impediscono
l’edificazione;
(g) spetterà poi ai terzi, se lo riterranno
opportuno, chiedere davanti al giudice ordinario
l’eliminazione delle opere che incidono negativamente sui
loro diritti.
29. Nello specifico, sembra dunque che i lavori, sotto il
profilo strettamente urbanistico-edilizio, potessero essere
eseguiti, con la conseguenza che non sussiste un abuso
sanzionabile con la perdita della proprietà ex art. 31,
comma 3, del DPR 380/2001
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 01.08.2014 n. 899 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per
giurisprudenza ormai consolidata, la veste societaria di
Poste Italiane non è di per sé sufficiente ad escluderla
dalla disciplina in tema di accesso, ai sensi dell'art. 22,
comma 1, lettera e), della legge 241 del 1990, secondo cui
nel novero delle "pubbliche amministrazioni" assoggettate
alla disciplina in materia di accesso rientrano "tutti i
soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse,
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario".
L'attività amministrativa, cui gli art. 22 e 23 della legge
n. 241 del 1990 correlano il diritto d'accesso, ricomprende
non solo quella di diritto amministrativo, ma anche quella
di diritto privato posta in essere dai soggetti gestori di
pubblici servizi che, pur non costituendo direttamente
gestione del servizio stesso, sia collegata a quest'ultima
da un nesso di strumentalità derivante anche, sul versante
soggettivo, dalla intensa conformazione pubblicistica.
--------------
Alla stregua del principio ad impossibilia nemo tenetur,
anche nei procedimenti d'accesso ai documenti amministrativi
l'esercizio del relativo diritto (o l'ordine d'esibizione
impartito dal giudice) non può che riguardare, per evidenti
ragioni di buon senso, i documenti esistenti e non anche
quelli mai formati, spettando alla P.A. destinataria
dell'accesso indicare, sotto la propria responsabilità,
quali siano gli atti inesistenti che non è in grado
d'esibire.
---------------
Quanto all’accesso alle schede valutative degli altri
dipendenti, Poste Italiane afferma trattarsi di valutazioni
rese dal datore di lavoro, nell’esercizio dei poteri di
organizzazione ad esso spettanti, al di fuori di procedure
comparative.
Anche su tale punto la Sezione si è già espressa nel senso
che il principio generale per cui l'attività di
organizzazione delle forze lavorative, imputabile al gestore
del pubblico servizio, complessivamente sottoposta ai
principi di buon andamento e imparzialità di cui all'art. 97
cost., comporta l’obbligo di trasparenza, va temperato con
le peculiarità del caso concreto; ne discende che il
dipendente può chiedere l’ostensione di documenti relativi a
circostanze di fatto riguardanti altri dipendenti, quali ad
esempio i fogli firma delle presenze giornaliere; viceversa,
laddove trattasi di valutazioni o opinioni, l’accesso agli
atti deve ritenersi consentito solo con riguardo a
valutazioni effettuate nell’ambito di procedure comparative,
volte a selezionare il personale.
Il diritto d'accesso non è, dunque, assoluto e
incondizionato ma presuppone un collegamento qualificato tra
l’interesse sostanziale del richiedente, che deve essere
serio e non emulativo, e la documentazione di cui si
pretende la conoscenza.
Invero una istanza di accesso formulata al di fuori del
suddetto perimetro finisce, in realtà, con l’essere
finalizzata ad eseguire un inammissibile controllo
generalizzato non tanto sull'operato dell'amministrazione
quanto, piuttosto, sulle presupposte scelte discrezionali.
Deve premettersi che, per
giurisprudenza ormai consolidata, la veste societaria di
Poste Italiane non è di per sé sufficiente ad escluderla
dalla disciplina in tema di accesso, ai sensi dell'art. 22,
comma 1, lettera e), della legge 241 del 1990, secondo cui
nel novero delle "pubbliche amministrazioni" assoggettate
alla disciplina in materia di accesso rientrano "tutti i
soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse,
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario".
L'attività amministrativa, cui gli art. 22 e 23 della legge
n. 241 del 1990 correlano il diritto d'accesso, ricomprende
non solo quella di diritto amministrativo, ma anche quella
di diritto privato posta in essere dai soggetti gestori di
pubblici servizi che, pur non costituendo direttamente
gestione del servizio stesso, sia collegata a quest'ultima
da un nesso di strumentalità derivante anche, sul versante
soggettivo, dalla intensa conformazione pubblicistica (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2012, n. 2516).
Il ricorso è, tuttavia, infondato.
Invero Poste Italiane ha rappresentato nella memoria di
costituzione che il premio meritocratico non viene
attribuito all’esito di procedure comparative bensì
nell’ambito della politica aziendale di governo della
retribuzione, sicché non esistono schede valutative né
graduatorie.
Come già osservato in un precedente specifico, alla stregua
del principio ad impossibilia nemo tenetur, anche nei
procedimenti d'accesso ai documenti amministrativi
l'esercizio del relativo diritto (o l'ordine d'esibizione
impartito dal giudice) non può che riguardare, per evidenti
ragioni di buon senso, i documenti esistenti e non anche
quelli mai formati, spettando alla P.A. destinataria
dell'accesso indicare, sotto la propria responsabilità,
quali siano gli atti inesistenti che non è in grado
d'esibire (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 18.12.2013, n. 389; v. anche Cons. Stato, sez. VI, 13.02.2013, n. 389).
Nel caso di specie Poste Italiane ha chiarito di non
detenere gli atti richiesti perché inesistenti, non essendo
mai state svolte procedure comparative.
La circostanza non è, peraltro, contestata nel ricorso
mediante allegazione di fatti o circostanze idonee a far,
quanto meno, presumere una realtà diversa da quella
rappresentata dalla resistente.
Il ricorso, infatti, è in gran parte imperniato sull’analisi
delle sentenze che hanno deciso precedenti giudizi, fra le
stesse parti, ma su situazioni differenti.
Anzi, nella memoria depositata in data 08.07.2014 il
ricorrente si dilunga nuovamente nell’esposizione di
principi senza, tuttavia, fornire elementi precisi, riferiti
al caso concreto, tali da far ritenere, viceversa, esistenti
gli atti che l’amministrazione afferma di non aver mai
formato.
Quanto all’accesso alle schede valutative degli altri
dipendenti, Poste Italiane afferma trattarsi di valutazioni
rese dal datore di lavoro, nell’esercizio dei poteri di
organizzazione ad esso spettanti, al di fuori di procedure
comparative.
Anche su tale punto la Sezione si è già espressa nel senso
che il principio generale per cui l'attività di
organizzazione delle forze lavorative, imputabile al gestore
del pubblico servizio, complessivamente sottoposta ai
principi di buon andamento e imparzialità di cui all'art. 97
cost., comporta l’obbligo di trasparenza, va temperato con
le peculiarità del caso concreto; ne discende che il
dipendente può chiedere l’ostensione di documenti relativi a
circostanze di fatto riguardanti altri dipendenti, quali ad
esempio i fogli firma delle presenze giornaliere; viceversa,
laddove trattasi di valutazioni o opinioni, l’accesso agli
atti deve ritenersi consentito solo con riguardo a
valutazioni effettuate nell’ambito di procedure comparative,
volte a selezionare il personale.
Il diritto d'accesso non è, dunque, assoluto e
incondizionato ma presuppone un collegamento qualificato tra
l’interesse sostanziale del richiedente, che deve essere
serio e non emulativo, e la documentazione di cui si
pretende la conoscenza (v. sentenza n. 389/2013 cit.).
Invero una istanza di accesso formulata al di fuori del
suddetto perimetro finisce, in realtà, con l’essere
finalizzata ad eseguire un inammissibile controllo
generalizzato non tanto sull'operato dell'amministrazione
quanto, piuttosto, sulle presupposte scelte discrezionali
(cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 21.02.2013, n. 57)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 28.07.2014 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’avvenuta
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in
uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che
in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria
l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva
contraria e positiva determinazione dell’amministrazione,
mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza
stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista
efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per
far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del
provvedimento di rigetto della domanda di conservazione“.
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3,
del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci
espressamente sull’istanza di accertamento di conformità
entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di
silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione
di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
Con il primo mezzo il ricorrente lamenta di aver
presentato per gli abusi oggetto dell’impugnata ordinanza,
istanza di concessione in sanatoria ex art. 36, D.P.R. n.
380/2001, la quale determina la paralisi del potere
sanzionatorio e l’improduttività di effetti dell’ordinanza
gravata.
La doglianza è infondata alla luce di costante
giurisprudenza del Tribunale, più volte enunciata anche
dalla Sezione, che ha avuto modo di precisare che
“L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma
la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la
conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di
sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla
successiva contraria e positiva determinazione
dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche
silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di
demolizione riacquista efficacia (in tal senso, da ultimo
TAR Campania–Napoli, Sez. III, 28.01.2013 n. 651; ID,
05.12.2012, n. 4941), decorrendo, peraltro, il termine di 90
giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione
del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione“ (TAR Campania–Napoli, III, 22.02.2013 n. 1070).
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3,
del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci
espressamente sull’istanza di accertamento di conformità
entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di
silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione
di motivi aggiunti o ricorso autonomo
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.07.2014 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto
rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento.
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi,
escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del
procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di
demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento
e l’inutilità della partecipazione del destinatario.
---------------
L’unico presupposto dell’ordinanza di demolizione è
l’accertata abusività delle opere, la loro descrizione e
l’indicazione del perché del loro carattere abusivo, senza
alcuna necessità di ulteriore motivazione, in particolare in
ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla
rimozione delle medesime.
Rammenta il Collegio che la Sezione ha da tempo affermato il
delineato avviso precisando che “i provvedimenti repressivi,
come l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva,
prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti
e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti
stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la
consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di
discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente
collegato”, conseguendone che “i provvedimenti repressivi
che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non
abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse
pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato)”.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive e delle
ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo
motivazionale.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente
suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare”.
La Sezione ha di recente ribadito la non necessità di una
specifica motivazione oltre la descrizione dell’abuso e
l’enunciazione ancorché sintetica delle ragioni
del’abusività.
Con il secondo motivo la
ricorrente deduce violazione delle garanzie procedimentali
disegnate all’art. 7 della L. n. 241/1990 lamentando
l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento
volto all’adozione dell’ordinanza di demolizione, all’uopo
invocando superata giurisprudenza.
La censura è infondata in diritto poiché per giurisprudenza
costante l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e
dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento
(TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; TAR Umbria,
05.06.2007, n. 499; TAR Campania–Napoli, Sez. IV,
17.01.2007, n. 357).
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi,
escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del
procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di
demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento
e l’inutilità della partecipazione del destinatario (TAR
Campania–Napoli, sez. III 10.10.2013 n. 4534; TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 301; TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.2012, n. 3302).
---------------
Con il quarto mezzo il deducente si duole del difetto di motivazione, sostenendo
che dal provvedimento avversato non risultino le superiori e
prevalenti ragioni di interesse pubblico che militano a
suffragio della scelta della sanzione demolitoria.
La doglianza è contraddetta da pacifica giurisprudenza
che afferma che l’unico presupposto dell’ordinanza di
demolizione è l’accertata abusività delle opere, la loro
descrizione e l’indicazione del perché del loro carattere
abusivo, senza alcuna necessità di ulteriore motivazione, in
particolare in ordine alla sussistenza dell’interesse
pubblico alla rimozione delle medesime.
Rammenta il Collegio che la Sezione ha da tempo affermato il
delineato avviso precisando che “i provvedimenti
repressivi, come l’ordine di demolizione di una costruzione
abusiva, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale
dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei
presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta
accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine
di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente
collegato”, conseguendone che “i provvedimenti repressivi
che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non
abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse
pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato)” (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.07.2007, n.
6581; più di recente, TAR Campania, Napoli, Sez. III, n.
270/2011).
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive e delle
ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo
motivazionale: TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente
suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011,
n. 79).
La Sezione ha di recente ribadito la non necessità di una
specifica motivazione oltre la descrizione dell’abuso e
l’enunciazione ancorché sintetica delle ragioni
del’abusività: TAR Campania Napoli, III, Sez. 20.03.2014
n. 1602; TAR Campania –Napoli, sez. III 10.10.2013
n. 4534; 26.09.2013, n. 4450 (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.07.2014 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di pertinenza edilizia, invero, in virtù della
prevalenza degli interessi pubblici all’ordinato assetto del
territorio e al rispetto delle prescrizioni urbanistiche,
presuppone anzitutto un dato fisico, riguardato nella
scarsa consistenza volumetrica della cosa che si assume
pertinenziale, di talché può riconoscersi la natura di
pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto
urbanistico.
Correlativamente, non può far difetto un requisito
teleologico, consistente nella circostanza che la cosa
non possa essere oggetto di autonoma valutazione ed
utilizzazione ma che esista e abbia una funzione solo in
quanto sia a servizio e a completamento della cosa
principale (si consideri una legnaia di modeste dimensioni).
Se fa difetto il primo requisito, ossia quello strutturale e
se, quindi, la cosa che si ritiene pertinenziale ha
dimensioni consistenti, non occorre neanche appurare
l’esistenza dell’elemento funzionale, dovendosi in radice
escludere che il manufatto abbia natura pertinenziale.
Orbene, riguardo a tale imprescindibile requisito
sostanziale si è, infatti, precisato che “La nozione
amministrativa di pertinenza edilizia è assolutamente
divergente dall'accezione civilistica di pertinenza e più
ristretta di quest'ultima, essendo circoscritta a quei
manufatti che non alterano in modo significativo l'assetto
del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte
rispetto alla cosa cui ineriscono”.
Ancora più recentemente si è posto l’accento sull’elemento
negativo che esclude la configurabilità della nozione di
pertinenza e che risiede nelle notevoli dimensioni del
manufatto e nella sua attitudine ad occupare aree ulteriori
e diverse rispetto a quelle interessate dalla res
principalis. Si è al riguardo puntualizzato, infatti, che
“La nozione di pertinenza edilizia non coincide con la più
ampia nozione descritta nell'art. 817 c.c. La prima
tipologia identifica interventi edilizi minori, cosicché il
rapporto pertinenziale non può esonerare dalla concessione
le opere che, dal punto di vista urbanistico ed edilizio, si
pongono come ulteriori, in quanto occupanti aree e volumi
diversi rispetto alla cosa principale”.
Con il secondo mezzo il deducente lamenta
che il Comune abbia travisato la natura delle opere
eseguite, ritenendole sussumibili nella categoria edilizia
della nuova costruzione, laddove le opere de quibus
integrerebbero un manufatto pertinenziale, non determinando
ulteriore aggravio degli standards ed essendo strettamente
strumentali e funzionali alla cosa principale, non
possedendo inoltre un autonomo valore di mercato.
La doglianza non persuade il Collegio, alla luce della
corretta definizione delle pertinenze urbanistiche, come
venutasi delineando in giurisprudenza.
La nozione di pertinenza edilizia, invero, in virtù della
prevalenza degli interessi pubblici all’ordinato assetto del
territorio e al rispetto delle prescrizioni urbanistiche,
presuppone anzitutto un dato fisico, riguardato nella scarsa
consistenza volumetrica della cosa che si assume pertinenziale, di talché può riconoscersi la natura di
pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto
urbanistico.
Correlativamente, non può far difetto un requisito
teleologico, consistente nella circostanza che la cosa non
possa essere oggetto di autonoma valutazione ed
utilizzazione ma che esista e abbia una funzione solo in
quanto sia a servizio e a completamento della cosa
principale (si consideri una legnaia di modeste dimensioni).
Se fa difetto il primo requisito, ossia quello strutturale e
se, quindi, la cosa che si ritiene pertinenziale ha
dimensioni consistenti, non occorre neanche appurare
l’esistenza dell’elemento funzionale, dovendosi in radice
escludere che il manufatto abbia natura pertinenziale.
Orbene, riguardo a tale imprescindibile requisito
sostanziale si è, infatti, precisato che “La nozione
amministrativa di pertinenza edilizia è assolutamente
divergente dall'accezione civilistica di pertinenza e più
ristretta di quest'ultima, essendo circoscritta a quei
manufatti che non alterano in modo significativo l'assetto
del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte
rispetto alla cosa cui ineriscono” (TAR Piemonte, Sez.
I, 04.09.2009, n. 2247).
Ancora più recentemente si è posto l’accento sull’elemento
negativo che esclude la configurabilità della nozione di
pertinenza e che risiede nelle notevoli dimensioni del
manufatto e nella sua attitudine ad occupare aree ulteriori
e diverse rispetto a quelle interessate dalla res
principalis. Si è al riguardo puntualizzato, infatti, che
“La nozione di pertinenza edilizia non coincide con la più
ampia nozione descritta nell'art. 817 c.c. La prima tipologia
identifica interventi edilizi minori, cosicché il rapporto pertinenziale non può esonerare dalla concessione le opere
che, dal punto di vista urbanistico ed edilizio, si pongono
come ulteriori, in quanto occupanti aree e volumi diversi
rispetto alla cosa principale” (TAR Toscana, Sez. III,
11.02.2011, n. 273)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.07.2014 n. 4230 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Stante
l’autonomia dell’autorizzazione paesaggistica rispetto ai
titoli edilizi, la mancanza della prima determina
l’applicazione della sanzione demolitoria anche ad opere
soggette a semplice d.i.a. e non a permesso di costruire.
---------------
Anche se il titolo edilizio legittimante un intervento è la
d.i.a., oggi la s.c.i.a., “L’imperatività e perentorietà
dell’inciso “il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione
in pristino”, di cui all’art. 167, conduce ad opinare che la
sanzione da irrogare per l’avvenuta realizzazione di
interventi edilizi senza la previa autorizzazione
paesaggistica è sempre la rimessione in pristino, senza che
residuino margini o spazi di valutazione discrezionale in
ordine alla scelta tra la sanzione reale e quella
pecuniaria, quest’ultima non essendo contemplata quale
sanzione alternativa per i predetti abusi, atteso che il
pagamento di una “indennità pecuniaria” –non di una
sanzione– è previsto solo in caso di accoglimento
dell’istanza di accertamento della compatibilità
paesaggistica postuma là dove quest’ultima è ammessa
dall’art. 167, comma 4, ossia relativamente agli interventi
minori posti in essere senza l’autorizzazione preventiva”.
---------------
Ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggetta a
vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto
esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa
acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la
conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere
pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria ai sensi
dell'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 è, comunque, doverosa
ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.
---------------
L'art. 27, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 riconosce
all'Amministrazione comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia,
imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione, in
presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza
dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la
legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato; e
ciò mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo
di margini di discrezionalità, in quanto rivolto a reprimere
gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con d.i.a., prive di autorizzazione
paesaggistica.
Con il primo e il terzo mezzo, che
possono essere trattati congiuntamente, esponendo la stessa
censura, la deducente rubrica violazione dell’art. 35,
d.p.r. n. 380/2001, eccesso di potere per sviamento, difetto
dei presupposti ed istruttoria, dolendosi che erroneamente
il Comune abbia applicato l’art. 35 cit., che sanziona con
la demolizione l’abusiva realizzazione su suolo pubblico di
manufatti assoggettati a permesso di costruire, laddove
l’insegna in questione è soggetta a mera d.i.a., come del
resto riconosciuto dalla stessa autorità procedente.
La censura è serenamente infondata alla luce della
giurisprudenza della Sezione, del Tribunale e di altre
corti, la quale afferma che, stante l’autonomia
dell’autorizzazione paesaggistica rispetto ai titoli
edilizi, la mancanza della prima determina l’applicazione
della sanzione demolitoria anche ad opere soggette a
semplice d.i.a. e non a permesso di costruire.
Dalla lettura dell’impugnata ordinanza emerge invero che
l’insegna di cui è causa è stata istallata “in assenza del
parere ambientale di cui all’art. 146 del Decreto
Legislativo n. 42/2004”.
Di conseguenza, la rimessione in pristino è stata ingiunta,
ove anche dovesse ritenersi erroneo il richiamo all’art. 35
del Testo unico sull’edilizia, a norma dell’art. 167 del
d.lgs. n. 42/2004.
Osserva al riguardo in chiave ricostruttiva il Collegio
che l’autorizzazione paesaggistica, che costituisce atto autonomo e presupposto rispetto ai titoli legittimanti
l’intervento edilizio, siano essi D.I.A. o permesso di
costruire, come espressamente recita l’art. 146, comma 4, del
d.lgs. n. 42/2004, è richiesta e salvo i casi di esclusione
tassativamente definiti all’art. 149, per ogni tipo di
intervento edilizio da effettuare in zone vincolate –come
il territorio del resistente Comune– ed i soggetti aventi
titolo “hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni
competenti il progetto degli interventi che intendono
intraprendere“ e devono “astenersi dall’avviare i lavori
fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione”
(art. 146, comma 2, d.lgs. cit.).
La sanzione amministrativa contemplata dalla legge per il
caso di inosservanza della riportata disposizione e la
conseguente realizzazione di interventi edilizi non
assistiti dal previo ottenimento dell’autorizzazione
paesaggistica, siano essi assoggettati, dal punto di vista
edilizio e ai sensi del D.P.R. n. 380/2001 a permesso di
costruire o a D.I.A., è definita all’art. 167 del Codice,
che la individua tout court nella demolizione, stabilendo
che “in caso di violazione degli obblighi e degli ordini
previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è
sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese”.
E l’art. 146 che impone il previo ottenimento
dell’autorizzazione paesaggistica onde realizzare interventi
edilizi è collocato nel Capo IV del Titolo I della Parte
terza del codice dei beni culturali e del paesaggio.
Segnala il Collegio che la Sezione ha già chiarito che anche
se il titolo edilizio legittimante un intervento è la d.i.a.,
oggi la s.c.i.a., “L’imperatività e perentorietà dell’inciso
appena riportato, “il trasgressore è sempre tenuto alla
rimessione in pristino”, di cui all’art. 167, conduce ad
opinare che la sanzione da irrogare per l’avvenuta
realizzazione di interventi edilizi senza la previa
autorizzazione paesaggistica è sempre la rimessione in
pristino, senza che residuino margini o spazi di valutazione
discrezionale in ordine alla scelta tra la sanzione reale e
quella pecuniaria, quest’ultima non essendo contemplata
quale sanzione alternativa per i predetti abusi, atteso che
il pagamento di una “indennità pecuniaria” –non di una
sanzione– è previsto solo in caso di accoglimento
dell’istanza di accertamento della compatibilità
paesaggistica postuma là dove quest’ultima è ammessa
dall’art. 167, comma 4, ossia relativamente agli interventi
minori posti in essere senza l’autorizzazione preventiva”
(TAR Campania–Napoli, Sez. III, 22.02.2013 n. 1069).
L’insegna in analisi è stata dunque realizzata senza il
previo parere di compatibilità paesaggistica richiesto
dall’art. 146 del Codice Urbani, come attesta il
provvedimento avversato, conseguendone la piena legittimità
dell’adottata ordinanza di rimessione in pristino.
Il Tribunale ha infatti successivamente precisato che “Ove
gli interventi edilizi ricadano in zona assoggetta a vincolo
paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore,
gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione
dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che,
quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie
e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della
sanzione demolitoria ai sensi dell'art. 27, d.P.R. n. 380
del 2001 è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta
alcuna autorizzazione paesistica” (TAR Napoli, Sez. VI 23.10.2013, n. 4676 ) .
Anche altro Tribunale ha più di recente chiarito che “L'art.
27, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 riconosce
all'Amministrazione comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia,
imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione, in
presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza
dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la
legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato; e
ciò mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo
di margini di discrezionalità, in quanto rivolto a reprimere
gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con d.i.a., prive di autorizzazione
paesaggistica” (TAR Molise, sez. I 21.03.2014 n. 181)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.07.2014 n. 4226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha da tempo attinto il
principio di diritto per il quale le ordinanze di
demolizione hanno un contenuto rigidamente vincolato,
ancorato al mero riscontro dell’abusività di un’opera, che
da solo legittima e impone l’adozione della misura
ripristinatoria, senza che occorra esplicitare la
sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione
ovvero la prevalenza di quest’ultimo sul contrapposto
interesse del privato al mantenimento in vita dall’abuso.
Rammenta il Collegio che la Sezione ha da tempo affermato il
delineato avviso precisando che “i provvedimenti repressivi,
come l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva,
prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti
e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti
stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la
consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di
discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente
collegato”, conseguendone che “i provvedimenti repressivi
che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non
abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse
pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato)”.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive e delle
ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo
motivazionale.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente
suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare”.
Tutti e tre i
sintetizzati motivi sono all’evidenza infondati e come tale
vanno reietti, avendo la giurisprudenza da tempo attinto il
principio di diritto per il quale le ordinanze di
demolizione hanno un contenuto rigidamente vincolato,
ancorato al mero riscontro dell’abusività di un’opera, che
da solo legittima e impone l’adozione della misura ripristinatoria, senza che occorra esplicitare la
sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione
ovvero la prevalenza di quest’ultimo sul contrapposto
interesse del privato al mantenimento in vita dall’abuso.
Rammenta il Collegio che la Sezione ha da tempo affermato il
delineato avviso precisando che “i provvedimenti repressivi,
come l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva,
prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti
e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti
stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la
consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di
discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente
collegato”, conseguendone che “i provvedimenti repressivi
che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non
abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse
pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato)” (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.07.2007, n.
6581; più di recente, TAR Campania, Napoli, Sez. III, n.
270/2011).
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive e delle
ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo
motivazionale: TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente
suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011,
n. 79).
La Sezione ha di recente ribadito l’indirizzo in rassegna:
ex multis, TAR Campania Napoli, III Sez., 20.03.2014 n.
1602; TAR Campania–Napoli, sez. III 10.10.2013 n. 4534;
26.09.2013, n. 4450
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.07.2014 n. 4226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica e concessione edilizia per
immobili a destinazione asseritamente non residenziale.
La sentenza affronta il tema della
necessaria coerenza del progetto agronomico con la specifica
situazione del terreno, in zona agricola ma sottoposto a
vincolo, al fine di legittimare l'autorizzazione
paesaggistica e la concessione edilizia per immobili a
destinazione asseritamente non residenziale (Corte
d'Appello di Cagliari, Sez. II,
sentenza 18.06.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
TRIBUTI: Le Poste pagano la tassa rifiuti come p.a. e non come
imprese.
La scelta delle tariffe Tarsu è legata alla destinazione dei
locali e non al soggetto che utilizza le superfici. Gli
uffici postali non possono essere inquadrati nella categoria
imprese commerciali, anziché in quella degli uffici
pubblici, solo perché le Poste italiane hanno cambiato
natura giuridica da ente pubblico economico a società per
azioni. Il comune, quindi, non può pretendere di far pagare
agli uffici postali la tassa rifiuti come una banca, un
istituto di credito o uno studio professionale, considerato
che svolgono una funzione istituzionale e un servizio
cosiddetto «universale».
È quanto ha affermato la Corte di
Cassazione, con la
sentenza 06.06.2014
n. 12777 (tratta da www.entionline.it).
Per i giudici di piazza Cavour, la categoria «ufficio
pubblico» prevista dal regolamento comunale «non può
ritenersi riferita al soggetto che usa le superfici, ma
involge necessariamente la considerazione del tipo di uso,
desunto dalla destinazione dei locali e/o delle aree
tassabili». Dunque, al di là della qualificazione giuridica
dell'Ente poste, «all'immobile avente destinazione di
ufficio postale deve applicarsi la tariffa corrispondente
alla categoria degli «uffici pubblici», e non quella
relativa alla categoria degli «uffici commerciali e studi
professionali, banche» e simili. Secondo la Cassazione, non
può essere messo in dubbio che l'ufficio postale resti
comunque asservito alla funzione istituzionale propria
«dell'afferente servizio cosiddetto universale».
La legge detta i criteri ai quali i comuni si devono
attenere per la determinazione delle tariffe. Compito degli
enti è la determinazione delle tariffe e l'indicazione delle
categorie di locali e aree con omogenea potenzialità di
rifiuti. In base all'articolo 68 del decreto legislativo
507/1993 i comuni erano tenuti a adottare un regolamento che
contenesse non solo la classificazione delle categorie e
eventuali sottocategorie, ma anche la graduazione delle
tariffe ridotte per particolari condizioni d'uso.
Nell'ambito del potere regolamentare potevano essere
individuate anche le fattispecie agevolative, con le
relative condizioni, le modalità di richiesta e le eventuali
cause di decadenza. Qualora queste regole non fossero state
rispettate, il contribuente avrebbe potuto impugnare i
relativi atti generali (regolamenti e delibere) innanzi al
giudice amministrativo. L'eventuale pronuncia di
annullamento del Tar ha effetti erga omnes e vale nei
confronti di tutti i contribuenti potenzialmente interessati
a denunciare i vizi di legittimità.
Il giudice tributario, invece, può disapplicare il
regolamento che disciplina la tassa rifiuti se ritiene che i
criteri adottati dal comune siano in contrasto con le leggi
vigenti, ma non può fissare nuovi criteri in sede
giudiziale. La Corte di cassazione (sentenza 9415/2005) ha
chiarito che le commissioni tributarie non possono
rideterminare l'importo del tributo dovuto, modificando le
percentuali in relazione alla diversa destinazione delle
aree tassabili (articolo ItaliaOggi del 02.08.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione gratuita parcheggi per singole unità
immobiliari solo se costruiti nel sottosuolo per l'intera
altezza.
L'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122 consente
di realizzare gratuitamente parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari solo se
realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza (ovvero al
piano terra dello stesso fabbricato ove sono situate le
unità immobiliari di cui il parcheggio costituisce
pertinenza).
La predetta norma, ponendosi in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, è di stretta
interpretazione e di rigorosa applicazione.
In altre parole, la deroga per la realizzazione di
autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989
n. 122, opera solo ed esclusivamente nel caso in cui i detti
garage (oltre ad essere formalmente vincolati a pertinenza
di singole unità immobiliari) siano totalmente realizzati al
di sotto dell'originario piano naturale di campagna, senza
alcuna tolleranza di sorta, mentre la realizzazione di
autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del
piano naturale di campagna, è soggetta alla disciplina
urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori
terra.
Del pari non possono essere condivise le residue doglianze
sulla pretesa sanabilità del manufatto in argomento.
Ed, invero, in aderenza ad un diffuso orientamento
giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha motivo di
discostarsi (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez.
IV del 16.04.2012; Sez. IV, 13.07.2011 n. 4234 e Sez. IV
16.4.2012 n. 2185), deve rilevarsi che l'art. 9, l.
24.03.1989 n. 122 consente di realizzare gratuitamente
parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari solo se realizzati nel sottosuolo per l'intera
altezza (ovvero al piano terra dello stesso fabbricato ove
sono situate le unità immobiliari di cui il parcheggio
costituisce pertinenza).
La predetta norma, ponendosi in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, è di stretta
interpretazione e di rigorosa applicazione. In altre parole,
la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi
prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera solo ed
esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad
essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità
immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto
dell'originario piano naturale di campagna, senza alcuna
tolleranza di sorta, mentre la realizzazione di autorimesse
e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale
di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata
per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra (cfr. anche
Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8260; Consiglio
Stato, sez. IV, 23.02.2009, n. 1070).
Inoltre, alcun elemento versato in atti consente di
suffragare il costrutto giuridico attoreo nella parte in cui
afferma che il manufatto in argomento si è sviluppato al di
sotto del piano di campagna. La stessa relazione tecnica
versata in atti, pur dando evidenza alla conformazione a
gradoni del terreno, non assevera in modo chiaro tale
assunto.
Di contro le emergenze istruttorie si rivelano incompatibili
con la suddetta asserzione evidenziando come il locale de
quo rechi una copertura in lamiera grecata con sovrastante
massetto per la configurazione delle pendenze (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 02.04.2014 n. 1904 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sopraelevazione del muro di confine necessita di permesso di
costruire.
La giurisprudenza amministrativa ha
affermato in più occasioni che il muro di contenimento che
ha prodotto un dislivello oppure ha aumentato quello già
esistente, costituisce costruzione la cui realizzazione
postula il previo rilascio del permesso di costruire.
La mera preesistenza del muro non può essere di per sé
titolo legittimante l'esecuzione di una serie di modifiche
che ne hanno mutato l'aspetto esteriore e l'impatto visivo,
né la pretesa natura pertinenziale fa venire meno la
necessità di munirsi di idoneo titolo abilitativo laddove
l'opera presenti, anche alla luce di una valutazione
complessiva dell'intervento e del conseguente ingombro,
caratteristiche tali da alterare la complessiva percezione
del manufatto.
Nella fattispecie, nel provvedimento si riferisce di una
sopraelevazione del muro di confine realizzata in difformità
dal titolo, per un’altezza variabile da mt. 1,00 a mt. 1,20
per una lunghezza di ml. 33.
La giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR, Piemonte,
Torino, sez. I, 18.12.2013 n. 1368; TAR Campania, Napoli,
sez VIII, 06.11.2012, n. 4427; sez. IV 03.04.2012, n. 1542)
ha affermato in più occasioni che il muro di contenimento
che ha prodotto un dislivello oppure ha aumentato quello già
esistente, costituisce costruzione la cui realizzazione
postula il previo rilascio del permesso di costruire. Questa
Sezione, in particolare, ha statuito che la mera
preesistenza del muro (cfr. eccezione del controinteressato
che rappresenta che il muro era già stato autorizzato e,
dunque preesisteva) non può essere di per sé titolo
legittimante l'esecuzione di una serie di modifiche che ne
hanno mutato l'aspetto esteriore e l'impatto visivo, né la
pretesa natura pertinenziale fa venire meno la necessità di
munirsi di idoneo titolo abilitativo laddove l'opera
presenti, anche alla luce di una valutazione complessiva
dell'intervento e del conseguente ingombro, caratteristiche
tali da alterare la complessiva percezione del manufatto
(cfr. 07.12.2011, n. 5718).
Nella fattispecie, nel provvedimento si riferisce di una
sopraelevazione del muro di confine realizzata in difformità
dal titolo, per un’altezza variabile da mt. 1,00 a mt. 1,20
per una lunghezza di ml. 33. Essendo evidente che l’opera,
così come descritta nell’ordinanza, è suscettibile di
incidere in modo permanente e significativo sul territorio,
per giunta paesaggisticamente vincolato, risulta
incongruente la conclusione cui perviene il Comune di
applicare la sola sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 37
del D.P.R. n. 380/2001 e non la misura rispristinatoria di
cui al precedente art. 27 del medesimo decreto, applicabile
nell’ipotesi in cui vengono eseguite opere senza titolo su
aree assoggettate a vincolo paesistico.
In altri termini, l’intervento, come dedotto da parte
ricorrente non era realizzabile con DIA (che in sua mancanza
prevede la mera sanzione pecuniaria) ma avrebbe richiesto la
previa acquisizione del permesso di costruire e
dell’autorizzazione paesaggistica che se omesse determinano
l’adozione dell’ingiunzione di demolizione.
Non rileva, in
questa sede, che la difformità rispetto al titolo edilizio
(ossia la differente altezza e collocazione del muro) sia
scaturita dalle opere, asseritamente abusive (sradicamento
della vegetazione, trasformazione del terreno, livellamento
del piano campagna) realizzate dal ricorrente (cfr. difesa
del controinteressato) in quanto ciò che rileva ai fini
dell’esame dei profili di illegittimità del provvedimento è
che l’oggettiva trasformazione del territorio determinatasi
per effetto della nuova collocazione e consistenza del muro
avrebbe richiesto la previa acquisizione del permesso di
costruire (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza
02.04.2014 n. 1925 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza, ai sensi dell'art.
34 d.P.R. n. 380/2001, la sanzione pecuniaria per interventi
di ristrutturazione edilizia è una misura eccezionale,
alternativa alla demolizione solo ove risulti
l'impossibilità del ripristino, che può essere rilevata
d'ufficio o fatta valere dall'interessato soltanto in sede
di esecuzione dell'eventuale ordine di demolizione, non in
sede di adozione dello stesso.
Ne deriva che la sussistenza di un eventuale pregiudizio non
rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio.
Quanto, infine, alla questione posta dal controinteressato
relativa al fatto che il Comune avrebbe applicato l’art. 34
del D.P.R. n. 380/2001 (il quale com’è noto al secondo comma
dispone che quando la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente
od il responsabile dell’ufficio applica una sanzione
pecuniaria pari al doppio) deve osservarsi, in primo luogo,
che l’amministrazione ha adottato l’atto ai sensi dell’art.
37 e non della disposizione citata dalla difesa del
controinteressato, in secondo luogo, che in ipotesi non vi
sarebbe alcun ostacolo ad adottare l’ingiunzione di
demolizione.
Per costante giurisprudenza, infatti, ai sensi dell'art. 34
d.P.R. n. 380/2001, la sanzione pecuniaria per interventi di
ristrutturazione edilizia è una misura eccezionale,
alternativa alla demolizione solo ove risulti
l'impossibilità del ripristino, che può essere rilevata
d'ufficio o fatta valere dall'interessato soltanto in sede
di esecuzione dell'eventuale ordine di demolizione, non in
sede di adozione dello stesso.
Ne deriva che la sussistenza di un eventuale pregiudizio non
rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio
(cfr. TAR, Campania, Napoli, sez. IV, 23.02.2012, n. 969)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza
02.04.2014 n. 1925 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO:
Registro degli incendi e art. 328 cod. pen..
Costituisce inadempimento rilevante ai
fini della configurabilità del reato ex art. 328 c.p. (ndr:
rifiuto di atti d'ufficio) la
mancata istituzione da parte dell'organo competente del comune del registro degli incendi di cui all'art. 10, comma
2, della legge n.353 del 2000 (TRIBUNALE
di Palermo - Ufficio GIP -
sentenza 26.02.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Nei
casi previsti alle lett. a-b-c del comma 4 dell’art. 167
dlgs 42/2004, l’accertamento della compatibilità
paesaggistica delle opere da parte dell’autorità preposta
alla gestione del vincolo, comporta l’applicazione al
trasgressore della sanzione pecuniaria prevista dall’art.
167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004, come modificato
dall’art. 27 del d.lgs n. 152/2006. Qualora, invece, la
domanda di sanatoria venga rigettata, per il combinato
disposto dei commi 1 e 5 del citato articolo 167, troverà
applicazione la sanzione della rimessione in pristino a
spese del trasgressore.
La presentazione della domanda di autorizzazione
paesaggistica in sanatoria obbliga, pertanto,
l’Amministrazione alla formazione di un nuovo provvedimento
esplicito di accoglimento o di rigetto dell’istanza, che, in
quanto atto a carattere non meramente confermativo, rende
definitivamente inoperante il precedente provvedimento
ripristinatorio.
In caso di accoglimento dell’istanza, infatti, l’accertata
compatibilità paesaggistica delle opere le rende legittime,
precludendo l’applicazione della sanzione demolitoria,
dandosi luogo all’applicazione di una semplice sanzione
pecuniaria; nel caso contrario, dovrà comunque essere
riattivato il procedimento sanzionatorio sulla base
dell’accertata non sanabilità paesaggistica delle opere
stesse.
In precedente fattispecie, sostanzialmente identica (TAR
Piemonte, sez. I, 20.07.2006, n. 3031), si è già affermato
che nei casi previsti alle lett. a-b-c del comma 4 dell’art.
167, l’accertamento della compatibilità paesaggistica delle
opere da parte dell’autorità preposta alla gestione del
vincolo, comporta l’applicazione al trasgressore della
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 167, comma 5, del
d.lgs. n. 42/2004, come modificato dall’art. 27 del d.lgs n.
152/2006. Qualora, invece, la domanda di sanatoria venga
rigettata, per il combinato disposto dei commi 1 e 5 del
citato articolo 167, troverà applicazione la sanzione della
rimessione in pristino a spese del trasgressore.
La presentazione della domanda di autorizzazione
paesaggistica in sanatoria obbliga, pertanto,
l’Amministrazione alla formazione di un nuovo provvedimento
esplicito di accoglimento o di rigetto dell’istanza, che, in
quanto atto a carattere non meramente confermativo, rende
definitivamente inoperante il precedente provvedimento
ripristinatorio.
In caso di accoglimento dell’istanza, infatti, l’accertata
compatibilità paesaggistica delle opere le rende legittime,
precludendo l’applicazione della sanzione demolitoria,
dandosi luogo all’applicazione di una semplice sanzione
pecuniaria; nel caso contrario, dovrà comunque essere
riattivato il procedimento sanzionatorio sulla base
dell’accertata non sanabilità paesaggistica delle opere
stesse.
Detti principi trovano applicazione nel caso in esame, ove
la domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica è
intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso, e
dunque la carenza di interesse è sopravvenuta e determina
l’improcedibilità dello stesso
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 29.10.2010 n. 3938 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
167 del D.Lgs. 42/2004 prevede al comma 5 (terzo periodo)
che “Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica,
il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma
equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il
profitto conseguito mediante la trasgressione”; e aggiunge
(periodo successivo): “L’importo della sanzione pecuniaria è
determinato previa perizia di stima”.
La norma costituisce esplicazione della potestà legislativa
esclusiva che compete allo Stato in materia di “tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”,
secondo quanto previsto dall’art. 117, comma 2, lettera s),
della Costituzione, nel testo novellato dall’art. 3, comma
1, della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3.
Ciò comporta che ogni eventuale diversa previsione contenuta
in una norma regionale previgente deve ritenersi abrogata
per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi.
Nel merito, il ricorso è fondato e va accolto nei limiti qui
di seguito precisati.
L’art. 1, comma 37, della L. 15.12.2004 n. 308 (contenente
la “delega al Governo per il riordino, il coordinamento e
l’integrazione della legislazione in materia ambientale e
misure di diretta applicazione”), dispone che “Per i
lavori compiuti su beni paesaggistici entro e non oltre il
30.09.2004 senza la prescritta autorizzazione o in
difformità da essa, l’accertamento di compatibilità
paesaggistica dei lavori effettivamente eseguiti […]
comporta l’estinzione del reato di cui all’art. 181 del
decreto legislativo n. 42 del 2004, e di ogni altro reato in
materia paesaggistica alle seguenti condizioni:
a) [omissis];
b) che i trasgressori abbiano previamente pagato:
1) la sanzione pecuniaria di cui all’art. 167 del decreto
legislativo n. 42 del 2004, maggiorata da un terzo alla
metà;
2) una sanzione pecuniaria aggiuntiva, determinata dall’autorità
amministrativa competente all’applicazione della sanzione di
cui al precedente numero 1), tra un minimo di tremila euro
ed un massimo di cinquantamila euro”.
A sua volta, l’art. 167 del D.Lgs. 42/2004, richiamato dalla
norma sopra citata, prevede al comma 5 (terzo periodo) che “Qualora
venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione”; e aggiunge
(periodo successivo): “L’importo della sanzione
pecuniaria è determinato previa perizia di stima”.
La norma costituisce esplicazione della potestà legislativa
esclusiva che compete allo Stato in materia di “tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”,
secondo quanto previsto dall’art. 117, comma 2, lettera s),
della Costituzione, nel testo novellato dall’art. 3, comma
1, della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3.
Ciò comporta che ogni eventuale diversa previsione contenuta
in una norma regionale previgente deve ritenersi abrogata
per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi.
E’ il caso della norma di cui all’art. 16, comma 4, della
L.R. Piemonte 03.04.1989, n. 20, concernente la
determinazione dell’indennità pecuniaria prevista dall’art.
15 della L. 1497/1939 (analoga a quella oggi prevista dal
predetto art. 167 del Codice Urbani).
Tale norma, secondo il collegio, contiene previsioni che si
pongono in palese contrasto con il criterio di
quantificazione della medesima indennità previsto dalla
sopravvenuta normativa statale: mentre infatti quest’ultima,
come detto, prevede che la predetta indennità debba essere
determinata in una “somma equivalente al maggior importo
tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione” e “previa perizia di stima”, la
norma regionale, invece, predetermina la medesima indennità
in un importo fisso, corrispondente al “100% del valore
delle opere eseguite” e comunque in misura non inferiore
ad importi anch’essi rigidamente prefissati, diversificati a
seconda delle diverse ipotesi contemplate.
Da tale constatazione conseguono le seguenti considerazioni:
- la norma di cui all’art. 16, comma 4, della L.R. Piemonte
n. 20/1989, afferendo a materia riservata alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato, deve ritenersi abrogata
per incompatibilità a seguito dell’entrata in vigore
dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004;
- conseguentemente, la delibera della giunta comunale di La
Loggia n. 111 del 12.09.2006, nel prescrivere che “la
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 1, comma 37, lettera
b), della L. 15.12.2004, n. 308 debba consistere nella
sanzione pecuniaria di cui all’art. 16 della Legge Regionale
03.04.1989, n. 20, maggiorata da un terzo alla metà”, è
illegittima per violazione dell’art. 1, comma 37, della L.
308/2004, in combinato disposto con gli articoli 117, comma
2, lettera s), della Costituzione e 167 del D.Lgs. 42/2004;
- per l’effetto, è viziata da illegittimità derivata la nota
n. 966 del 22.01.2008 con la quale il responsabile del
servizio del Comune di la Loggia, facendo applicazione dei
criteri stabiliti nella predetta delibera giuntale (criteri
illegittimi perché determinati per relationem con
riferimento ad una norma regionale abrogata), ha
quantificato le sanzioni pecuniarie previste dall’art. 1,
comma 37, lettera b), della L. 15.12.2004, n. 308 alla luce
dei criteri “di cui all’art. 16 della L.R. 20/1989 (punto
b) della D.G.C. 111/2006”, invece di applicare la
sopravvenuta normativa statale di cui all’art. 167 del
D.lgs. 42/2004;
- ciò ha comportato, in particolare, che la sanzione è stata
quantificata in assenza di una “previa perizia di stima”
finalizzata ad accertare “il maggiore importo tra il
danno arrecato e il profitto conseguito”, come invece
previsto dal citato art. 167, con conseguente difetto di
istruttoria;
- inoltre, nello stesso provvedimento è stata omessa ogni
motivazione sulla ragione che ha indotto l’amministrazione
ad applicare la sanzione aggiuntiva nella misura massima
prevista dalla legge, laddove la facoltà prevista dall’art.
1, comma 37, della L. 308/2004 di graduare l’importo della
predetta sanzione tra un minimo (di € 3.000) e un massimo
(di € 50.000) avrebbe certamente imposto una congrua
motivazione della scelta più penalizzante in concreto
adottata.
Alla stregua di tali considerazioni sono dunque fondati
entrambi i motivi di ricorso, sotto gli specifici profili
appena evidenziati, restando assorbiti gli ulteriori (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.10.2010 n. 3733 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Secondo
il consolidato orientamento giurisprudenziale il pagamento
dell’indennità ex art. 15 della legge n. 1497/1939 non
costituisce un’ipotesi di risarcimento del danno ambientale
(per il quale l’ordinamento appresta il diverso strumento
disciplinato dall’art. 18 della legge n. 349/1986), ma
rappresenta una sanzione amministrativa applicabile sia nel
caso di illeciti sostanziali che compromettano
l’integrità paesaggistica, sia in ipotesi di illeciti
formali in cui è stato violato l’obbligo di munirsi
preventivamente dell’autorizzazione a fronte di un
intervento riconosciuto a posteriori compatibile con il
contesto paesaggistico.
Che si tratti di sanzione emerge dal criterio legislativo
che commisura l’indennità alla maggiore somma tra danno
arrecato e profitto conseguito, dove il danno rileva solo ai
fini della quantificazione della sanzione, potendo mancare
per assenza di un vulnus materiale al paesaggio, nel qual
caso l’indennità va commisurata al profitto conseguito,
coincidente con l’arricchimento derivante al proprietario
dalla realizzazione dell’abuso edilizio.
Sulla base di tali argomentazioni, il Consiglio di Stato ha
più volte affermato che la sanzione in argomento è
applicabile anche qualora le opere abusive ricadano in zone
sottoposte a vincolo paesaggistico per le quali l’autorità
preposta alla tutela del vincolo stesso abbia espresso
parere favorevole alla sanatoria dell’abuso ex art. 32 della
legge n. 47/1985.
L’art. 2, comma 46, della legge n. 662/1996 chiarisce che
l’inapplicabilità, a seguito del condono edilizio, delle
sanzioni amministrative, sancita in termini generali
dall’art. 38 della legge n. 47/1985, non si estende alle
sanzioni in materia paesaggistica ex art. 15 della legge n.
1497/1939, anche se l’abuso sia stato ritenuto condonabile
dall’autorità preposta alla tutela del vincolo: tale norma
va dunque intesa nel senso che la citata indennità
costituisce sanzione amministrativa applicabile nonostante
il rilascio dell’atto di condono edilizio.
----------------
La circostanza che l’amministrazione abbia verificato la
compatibilità ambientale in via postuma se da un lato
esclude la compromissione dell’integrità paesaggistica,
dall’altro non cancella la violazione dell’obbligo, ex art.
7 della legge n. 1497/1939, di conseguire in via preventiva
l’assenso.
Il criterio di calcolo ancorato al valore catastale,
inoltre, appare ispirato all’esigenza di determinare, in via
forfettaria e prudenziale, l’arricchimento derivante al
proprietario dalla realizzazione dell’opera abusiva.
---------------
Gli illeciti in materia paesaggistica, urbanistica ed
edilizia, ove consistano nella realizzazione di opere senza
le dovute autorizzazioni, assumono natura di illeciti
permanenti, in relazione ai quali il termine di prescrizione
inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza
(ovvero con l’irrogazione della sanzione pecuniaria o con il
conseguimento del permesso postumo).
Nel caso di specie, in cui l’illecito è consistito nella
realizzazione di un’opera in zona vincolata senza la
prescritta autorizzazione paesaggistica e senza il
necessario titolo edilizio, la permanenza non può dirsi
cessata, e quindi non si è verificata la prescrizione
eccepita dal ricorrente.
Con il primo motivo il ricorrente deduce che il
rilascio della concessione in sanatoria e
dell’autorizzazione paesaggistica esclude che sussista danno
ambientale, e conclude che l’assenza di danno ambientale non
consente di applicare l’indennità risarcitoria in questione,
alla luce dell’art. 2, comma 46, della legge n. 662/1996.
La censura è infondata.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale il
pagamento dell’indennità ex art. 15 della legge n. 1497/1939
non costituisce un’ipotesi di risarcimento del danno
ambientale (per il quale l’ordinamento appresta il diverso
strumento disciplinato dall’art. 18 della legge n.
349/1986), ma rappresenta una sanzione amministrativa
applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali che
compromettano l’integrità paesaggistica, sia in ipotesi di
illeciti formali in cui è stato violato l’obbligo di
munirsi preventivamente dell’autorizzazione a fronte di un
intervento riconosciuto a posteriori compatibile con il
contesto paesaggistico. Che si tratti di sanzione emerge dal
criterio legislativo che commisura l’indennità alla maggiore
somma tra danno arrecato e profitto conseguito, dove il
danno rileva solo ai fini della quantificazione della
sanzione, potendo mancare per assenza di un vulnus
materiale al paesaggio, nel qual caso l’indennità va
commisurata al profitto conseguito, coincidente con
l’arricchimento derivante al proprietario dalla
realizzazione dell’abuso edilizio.
Sulla base di tali argomentazioni, il Consiglio di Stato ha
più volte affermato che la sanzione in argomento è
applicabile anche qualora le opere abusive ricadano in zone
sottoposte a vincolo paesaggistico per le quali l’autorità
preposta alla tutela del vincolo stesso abbia espresso
parere favorevole alla sanatoria dell’abuso ex art. 32 della
legge n. 47/1985 (Cons. Stato, VI, 02/06/2000, n. 3184;
idem, n. 5863/2000).
L’art. 2, comma 46, della legge n. 662/1996 chiarisce che
l’inapplicabilità, a seguito del condono edilizio, delle
sanzioni amministrative, sancita in termini generali
dall’art. 38 della legge n. 47/1985, non si estende alle
sanzioni in materia paesaggistica ex art. 15 della legge n.
1497/1939, anche se l’abuso sia stato ritenuto condonabile
dall’autorità preposta alla tutela del vincolo: tale norma
va dunque intesa nel senso che la citata indennità
costituisce sanzione amministrativa applicabile nonostante
il rilascio dell’atto di condono edilizio (Cons. Stato, VI,
n. 5863/2000; TAR Toscana, III, 27/05/2003, n. 2068).
---------------
Con la quarta censura il ricorrente deduce che il
D.M. del 26/09/1997, recepito dalla deliberazione consiliare
n. 125/1998, è irragionevole laddove determina il parametro
del profitto in base all’applicazione di un’aliquota al
valore catastale (elemento che egli ritiene sia irrilevante)
e distingue in modo incomprensibile tra abusi conformi o non
conformi alle norme di tutela, essendo evidente che il
rilascio dell’atto di condono presuppone il riconoscimento
della compatibilità con il vincolo.
Il rilievo è infondato alla stregua delle considerazioni
espresse nella trattazione del primo motivo, in quanto la
circostanza che l’amministrazione abbia verificato la
compatibilità ambientale in via postuma se da un lato
esclude la compromissione dell’integrità paesaggistica,
dall’altro non cancella la violazione dell’obbligo, ex art.
7 della legge n. 1497/1939, di conseguire in via preventiva
l’assenso (Cons. Stato, VI, n. 5863/2000). Il criterio di
calcolo ancorato al valore catastale, inoltre, appare
ispirato all’esigenza di determinare, in via forfettaria e
prudenziale, l’arricchimento derivante al proprietario dalla
realizzazione dell’opera abusiva.
La quinta doglianza è incentrata sull’avvenuto
decorso del termine decennale di prescrizione per
l’applicazione della sanzione in argomento.
Il motivo non può essere accolto.
Gli illeciti in materia paesaggistica, urbanistica ed
edilizia, ove consistano nella realizzazione di opere senza
le dovute autorizzazioni, assumono natura di illeciti
permanenti, in relazione ai quali il termine di prescrizione
inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza
(ovvero con l’irrogazione della sanzione pecuniaria o con il
conseguimento del permesso postumo). Nel caso di specie, in
cui l’illecito è consistito nella realizzazione di un’opera
in zona vincolata senza la prescritta autorizzazione
paesaggistica e senza il necessario titolo edilizio, la
permanenza non può dirsi cessata, e quindi non si è
verificata la prescrizione eccepita dal ricorrente (Cons.
Stato, IV, n. 7769/2003; Cons. Stato, VI, n. 1729/2003; TAR
Toscana, III, 27/05/2003, n. 2068; idem, 18/02/2002, n. 255)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 29.06.2009 n. 1149 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
pagamento della indennità ex art. 15 L. n. 1497 non
costituisce una ipotesi di risarcimento del danno ambientale
(per il quale l'ordinamento appresta un diverso e specifico
strumento, disciplinato dall'art. 18 L. 08.07.1986, n. 349),
ma rappresenta una sanzione amministrativa applicabile sia
nel caso di illeciti sostanziali che compromettano
concretamente la integrità paesaggistica, sia in ipotesi di
illeciti formali come è nel caso in esame in cui sia stato
violato l'obbligo di munirsi preventivamente della
autorizzazione, a fronte di un intervento riconosciuto (a
posteriori) compatibile con il contesto paesistico.
Che si tratti di sanzione amministrativa emerge dallo stesso
criterio legislativo che commisura la indennità alla
maggiore somma tra il danno arrecato ed il profitto
conseguito: dove il danno viene in rilievo solo ai fini
della quantificazione della sanzione, potendo anche mancare
per assenza di un "vulnus" materiale al paesaggio, nel qual
caso la indennità verrà commisurata al profitto conseguito.
E' quest'ultimo va individuato –conformemente alla natura
sanzionatoria della indennità che mira ad esercitare una
funzione deterrente– nell'arricchimento ottenuto dal
proprietario per effetto della realizzazione dell'opera
abusiva, senza che debba indagarsi se l'autorizzazione
preventiva sarebbe stata concessa ove domandata a termini di
legge.
---------------
Assodato che la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497
costituisce una sanzione amministrativa irrogabile anche in
assenza di danno ambientale, va ancora sottolineato che
detta sanzione è applicabile anche nel caso di opere abusive
ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico per le
quali l'Autorità preposta alla tutela del vincolo abbia
espresso parere favorevole alla sanatoria dell'abuso (ex
art. 32 L. n. 47/1985).
La circostanza invero che per effetto della presentazione
della istanza di condono non siano più irrogabili le
sanzioni amministrative (ai sensi dell'art. 38 L. n.
47/1985) non concerne anche la indennità di cui all'art. 15
L. n. 1497 giacché la inapplicabilità delle sanzioni
amministrative riguarda solo le violazioni previste dalla
normativa urbanistico–edilizia e non anche quelle previste
dalla normativa a tutela del paesaggio. In tal senso dispone
del resto l'art. 2, comma 46, L. n. 662/1996, ove è statuito
espressamente che a seguito del condono resta applicabile la
indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497.
Come già rilevato dalla richiamata giurisprudenza della
Sezione, il pagamento della indennità ex art. 15 L. n. 1497
non costituisce una ipotesi di risarcimento del danno
ambientale (per il quale l'ordinamento appresta un diverso e
specifico strumento, disciplinato dall'art. 18 L.
08.07.1986, n. 349), ma rappresenta una sanzione
amministrativa applicabile sia nel caso di illeciti
sostanziali che compromettano concretamente la integrità
paesaggistica, sia in ipotesi di illeciti formali come è nel
caso in esame in cui sia stato violato l'obbligo di munirsi
preventivamente della autorizzazione, a fronte di un
intervento riconosciuto (a posteriori) compatibile con il
contesto paesistico.
Che si tratti di sanzione amministrativa emerge dallo stesso
criterio legislativo che commisura la indennità alla
maggiore somma tra il danno arrecato ed il profitto
conseguito: dove il danno viene in rilievo solo ai fini
della quantificazione della sanzione, potendo anche mancare
per assenza di un "vulnus" materiale al paesaggio,
nel qual caso la indennità verrà commisurata al profitto
conseguito. E' quest'ultimo va individuato –conformemente
alla natura sanzionatoria della indennità che mira ad
esercitare una funzione deterrente– nell'arricchimento
ottenuto dal proprietario per effetto della realizzazione
dell'opera abusiva, senza che debba indagarsi se
l'autorizzazione preventiva sarebbe stata concessa ove
domandata a termini di legge.
Assodato che la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497
costituisce una sanzione amministrativa irrogabile anche in
assenza di danno ambientale, va ancora sottolineato che
detta sanzione è applicabile anche nel caso di opere abusive
ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico per le
quali l'Autorità preposta alla tutela del vincolo abbia
espresso parere favorevole alla sanatoria dell'abuso (ex
art. 32 L. n. 47/1985).
La circostanza invero che per effetto della presentazione
della istanza di condono non siano più irrogabili le
sanzioni amministrative (ai sensi dell'art. 38 L. n.
47/1985) non concerne anche la indennità di cui all'art. 15
L. n. 1497 giacché –come ha già rilevato la Sezione– la
inapplicabilità delle sanzioni amministrative riguarda solo
le violazioni previste dalla normativa urbanistico–edilizia
e non anche quelle previste dalla normativa a tutela del
paesaggio (così Cons. St. VI, 31.05.1990, n. 551). In tal
senso dispone del resto l'art. 2, comma 46, L. n. 662/1996,
ove è statuito espressamente che a seguito del condono resta
applicabile la indennità di cui all'art. 15 L. n. 1497.
Alla stregua delle considerazioni che precedono deve dunque
concludersi che una corretta interpretazione della normativa
primaria induce a ritenere –diversamente da quanto statuito
nella sentenza appellata– che sono pienamente legittimi gli
atti impugnati in primo grado: vale a dire la delibera
consiliare del Comune che ha determinato a carico
dell'odierno appellato la misura della indennità di che
trattasi in assenza di un accertato danno ambientale; ed il
D.M. 26.06.1997 che ha determinato parametri e modalità per
la quantificazione della indennità nella parte in cui si
dispone <<l'applicazione obbligatoria della indennità
stessa.....anche se dalla valutazione emerga che il
parametro danno sia pari a zero>> (art. 4).
Una volta preso atto che funzione della normativa ora
esaminata è quella di prevenire qualsiasi intervento
incidente su beni soggetti a vincolo, che non sia stato
preventivamente autorizzato, va da sé che i sospetti di
illegittimità costituzionale avanzati dalla difesa
dell'appellato con riferimento a detta normativa, per la
supposta lesione degli artt. 3 e 97 Cost., non hanno ragione
d'essere
(Consiglio di Stato, VI,
sentenza 03.04.2003 n. 1729). |
AGGIORNAMENTO AL 05.08.2014 |
ã |
UTILITA' |
PUBBLICO IMPIEGO:
Congedo straordinario (L. 388/2000 art. 80, comma 2) -
(D.lgs. 26.03.2001 n. 151, art. 42 come modificato dal
D.lgs. 119/2011) (link a www.inps.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi retribuiti legge 104/1992 (L. 104/1992 art. 33
- D.lgs 151/2001 artt. 33 e 42, come modificati dalla L.
183/2010 e dal D.lgs. 119/2011) (link a www.inps.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Obblighi
di dotare gli edifici di impianti rinnovabili e permesso di
costruire, la sintesi di tutti gli adempimenti.
Il 29.03.2011 è entrato in vigore il cosiddetto “Decreto
Rinnovabili” (D.Lgs. 28/2011) che definisce finalmente
in maniera compiuta i criteri di dotazione degli edifici di
impianti alimentati da fonti rinnovabili.
Il Decreto introduce 2 nuove definizioni:
►
“edificio di nuova costruzione”, inteso come un
edificio per il quale la richiesta del titolo edilizio
comunque denominato (Permesso di Costruire, Scia, Dia, etc.)
sia stata presentata successivamente alla data di entrata in
vigore del presente Decreto;
►
“edificio sottoposto a ristrutturazione rilevante”,
inteso come edificio esistente avente superficie utile
superiore a 1000 m², soggetto a ristrutturazione integrale
degli elementi edilizi costituenti l'involucro oppure
edificio esistente soggetto a demolizione e ricostruzione
anche in manutenzione straordinaria.
In base a tali definizioni, per ogni fabbricato per il quale
si richieda un nuovo titolo abilitativo (ad esempio il
permesso di costruire per nuova costruzione, per cambio di
destinazione d’uso o per ristrutturazione rilevante) occorre
prevedere impianti alimentati da fonte rinnovabile.
La potenza elettrica degli impianti rinnovabili che devono
essere obbligatoriamente installati sopra o all’interno
dell’edificio o nelle relative pertinenze è definita dal
Decreto in base alla tipologia di immobile, alla superficie
e alla data di richiesta del titolo.
Da notare che l'inosservanza di tali obblighi comporta il
diniego del rilascio del titolo edilizio.
In allegato a questo articolo proponiamo ai lettori di
BibLus-net uno speciale contenente la tavola sinottica, con
tutti gli obblighi per i vari edifici e con esempi
applicativi del Decreto Rinnovabili
(31.07.2014 - link a www.acca.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
La fatturazione delle operazioni nella disciplina
dell’Iva (articolo ItaliaOggi Sette del 28.07.2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Contenitori distributori mobili di gasolio:
assoggettabilità agli obblighi del DPR 151/2011 (ANCE
Bergamo,
circolare 01.08.2014 n. 153). |
ENTI LOCALI -
INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI:
AC 2486-AR, DDL di conversione del decreto legge n.
90/2014 - Misure urgenti per la semplificazione e la
trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici
giudiziari - Testo approvato dalla Camera dei Deputati il
31.07.2014 (nota
di lettura delle disposizioni in materia di personale e
delle altre disposizioni di interesse per gli enti locali)
(ANCI, 31.07.2014). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA- URBANISTICA: B.U.R.
Emilia Romagna, n. 210 del 14.07.2014:
►
"Atto di Coordinamento tecnico regionale per la
definizione della modulistica edilizia unificata (art. 12,
comma 4, lettere a) e b), e comma 5, L.R. 15/2013)" (deliberazione
G.R. 07.07.2014 n. 993);
►
"Atto di Coordinamento tecnico regionale per la
semplificazione degli strumenti di pianificazione
territoriale e urbanistica, attraverso l'applicazione del
principio di non duplicazione della normativa sovraordinata
(artt. 16 e 18-bis, comma 4, L.R. 20/2000). Modifiche
dell'atto di Coordinamento sulle definizioni tecniche
uniformi per l'urbanistica e l'edilizia (DAL 279/2010)"
(deliberazione
G.R. 07.07.2014 n. 994). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.R.S.
11.07.2014 n. 28 "Responsabile del procedimento e
responsabile unico del procedimento - Connotazioni e
distinzioni - Direttive sulla individuazione del RUP"
(Assessorato delle Infrastrutture ed ella Mobilità,
circolare 25.06.2014 n. 4). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: R.
Bianchini,
Evidenza pubblica
(02.08.2014 - link a www.altalex.com). |
APPALTI: R.
Bianchini,
Affidamento in house
(02.08.2014 - link a www.altalex.com). |
APPALTI: V.
Tevere,
Revoca dell’aggiudicazione dopo la stipula del contratto di
appalto (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza
20.06.2014 n. 14) - È possibile revocare l’aggiudicazione
dopo la stipula del contratto di appalto?
(02.08.2014 - link a www.altalex.com). |
APPALTI: P.
Russo,
L'esclusione dalla gara per omessa dichiarazione dei
requisiti morali
(10.07.2014 - link a www.altalex.com). |
APPALTI SERVIZI:
C. Volpe,
L’affidamento in house. Questioni aperte sulla disciplina
applicabile (04.07.2014 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Il certificato di rispondenza ex art. 62 D.P.R. n. 380/2001
e l’espropriazione di fatto (05.05.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L. Fanizzi,
Inquinamento idrico: da acque meteoriche di dilavamento, di
prima pioggia e reflue urbane di origine meteorica (28.04.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Ramacci,
Il reato edilizio in area
vincolata. Il reato paesaggistico (19-21.02.2014
- tratto da
www.lexambiente.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI: Chi ha varato il bilancio non deve riapprovarlo.
I comuni che hanno varato il bilancio di previsione entro il
31.12.2013 possono introdurre le modifiche conseguenti
alla definizione delle aliquote e delle tariffe dei tributi
mediante una semplice variazione, senza necessità di
riapprovare nuovamente il documento contabile.
Lo ha chiarito la Corte dei conti – sezione regionale di
controllo per la Lombardia, col
parere
15.07.2014 n. 216 rispondendo al quesito posto dal
comune di Mandello del Lario (Lc).
Tale ente, avendo
approvato il bilancio 2014 nello scorso mese di dicembre, ha
chiesto lumi circa la possibilità di variarlo per modificare
gli stanziamenti di entrata e di spesa a seguito
dell'istituzione dei nuovi tributi (Tari e Tasi), effettuata
entro il termine di approvazione del bilancio (al momento
fissato al 30 settembre).
Secondo i magistrati contabili lombardi, la risposta è
affermativa. È vero che la deliberazione delle sezioni
riunite n. 2/2011 ha affermato che non sono ammissibili
variazioni di aliquote e tariffe successivamente
all'approvazione del bilancio di previsione. Ma la stessa
pronuncia ha anche precisato che occorre considerare le
eventuali deroghe consentite dal legislatore.
Nel caso di specie, è stata la legge di stabilità 2014
(legge 147/2013) ad avere introdotto l'obbligo di
determinazione delle tariffe della Tari e delle aliquote
della Tasi in un momento (01.01.2014) in cui i comuni
potevano aver già approvato il bilancio di previsione.
Discorso diverso per gli enti che hanno approvato il
preventivo nell'anno in corso: in tal caso, se si modificano
i tributi, occorre approvare un nuovo documento contabile (articolo ItaliaOggi del 31.07.2014). |
PATRIMONIO: Dall’01.01.2014 gli enti locali possono effettuare operazioni
di acquisto di beni immobili nei limiti e con le modalità di
cui al comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 06.07.2011, n.
98, convertito con modificazioni dalla legge 15.07.2011,
n. 111, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della
legge n. 228/2012 (solo in caso di comprovata
indispensabilità ed indilazionabilità delle stesse, il
"prezzo di acquisto" deve essere oggetto di una attestazione
di congruità da parte dell'Agenzia del Demanio).
Con
riferimento alla riconducibilità dell’istituto
dell’espropriazione per pubblica utilità nell’ambito di
applicazione del comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011,
il Collegio ritiene condivisibile il parere della Sezione
Veneto secondo cui la formulazione della norma disciplina le
sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un
prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo
derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle
procedure espropriative. Ciò peraltro non significa che non
trovino adeguata considerazione, all’interno del
procedimento espropriativo, le prerogative enunciate dal
comma 1-ter, che prescrive la necessità di comprovare
l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione
nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori
rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
Ai sensi dell’art. 42, comma 3, Cost. l’espropriazione è
consentita, nei casi previsti dalla legge, per motivi di
interesse generale. Tale finalità costituisce il presupposto
indefettibile del potere di esproprio. Il Collegio ritiene
che la disciplina relativa alle procedura di acquisizione di
beni immobili (contenuta nell’art. comma 1-ter dell’art. 12
del d.l. 98/2011) e la disciplina delle procedure
espropriative (contenuta nel d.p.r. n. 327/2001), non siano
fra loro confliggenti e anzi siano caratterizzate da
notevoli punti di contatto soprattutto per quanto attiene ai
relativi presupposti.
Con specifico riferimento alla
possibilità di effettuare una permuta da parte dell’ente
locale si deve distinguere la fattispecie della permuta
“pura” dalla fattispecie della permuta con conguaglio di
prezzo. La permuta pura, costituisce un’operazione
finanziariamente neutra e pertanto non rientra nell’ambito
di applicazione del comma 1-ter. Diversamente, nell’ipotesi
in cui l’operazione comprenda il versamento, da parte
dell’ente territoriale, della differenza di valore fra i
beni immobili oggetto di permuta, con la conseguente
qualificazione dell’operazione non in termini di neutralità
finanziaria, si ricade nell’alveo di applicazione del comma
1-ter.
---------------
Il Sindaco del Comune di
Lomazzo, con nota 30.01.2014, prot. Comunale n. 1889 (prot.
Corte dei Conti, 03.02.2014 n. 1059), ha formulato una
richiesta di parere in merito alla possibilità di acquistare
beni immobili.
In particolare il Sindaco del Comune di Lomazzo chiede:
1) se effettivamente i comuni nell’anno 2014 possano
acquistare beni immobili;
2) ovvero in subordine se, come per il 2013, sia ammesso
acquisire immobili con procedure espropriative, ovvero nei
casi di permuta a parità di prezzo;
3) se sia nel caso di permuta comunque ammissibile
ricevere un immobile di valore inferiore con il versamento
della somma della differenza di valore.
...
A
decorrere dall’01.01.2014 gli enti locali possono
effettuare operazioni di acquisto di beni immobili nei
limiti e con le modalità di cui al comma 1-ter dell’art. 12
del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni
dalla legge 15.07.2011, n. 111, così come introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Attualmente quindi non è più vigente la precedente norma
imperativa che vietava l’acquisto di beni immobili nell’anno
2013, contenuta nel comma 1-quater dell’art. 12 del d.l.
98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della
legge n. 228/2012 ("Per l'anno 2013 le amministrazioni
pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione ... (omissis)... non possono
acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti
di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di
contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire,
a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in
sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad
avere la disponibilità di immobili venduti").
Il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come
introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012,
dispone che “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di
pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne
siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente”.
A partire dal 01.01.2014 è stato quindi introdotto
un regime che -al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno e con le modalità indicate dal richiamato comma 1-ter– consente operazioni di acquisto di beni immobili solo
in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità
delle stesse. Nel disciplinare le modalità di acquisto degli
immobili da parte degli Enti Territoriali per l'anno 2014,
il comma 1-ter dispone che il "prezzo di acquisto" debba
essere oggetto di una attestazione di congruità da parte
dell'Agenzia del Demanio.
Con specifico riferimento al quesito, presentato dal Sindaco
del Comune di Lomazzo, relativo alla riconducibilità
dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità
nell’ambito di applicazione del comma 1-ter dell’art. 12 del
d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138,
della legge n. 228/2012, si rileva che sono già intervenute
alcune pronunce di altre Sezioni regionali. In particolare,
dopo un primo parere della Sezione regionale per la Liguria
che, con deliberazione n. 9/2013/PAR, ha succintamente
fornito risposta positiva al quesito, la Sezione regionale
per il Veneto, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha
ritenuto, sulla base di un’approfondita disamina della
problematica, che “la formulazione della norma disciplina le
sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un
prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo
derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle
procedure espropriative. In tal senso si è pronunciata
altresì la Sezione regionale per la Puglia, con
deliberazione n. 89/PAR/2013.
Il Collegio ritiene condivisibile l’impostazione da ultimo
riferita, pur ritenendo di dover svolgere alcune
precisazioni.
Il comma 1-ter -che contiene un’espressa indicazione della
propria finalità (“al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno”) ed è inserita nell’ambito di una legge di
stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3 della
legge 31.12.2009, n. 196, contiene esclusivamente
norme tese a realizzare effetti finanziari–
contempla una
disciplina delle condizioni e delle modalità delle
operazioni di acquisto di immobili destinata a valere a
tempo indeterminato e prospetta una specifica disciplina dei
presupposti delle suddette operazioni.
Il previgente comma 1-quater (che conteneva un divieto di
acquisto di beni immobili) dell’art. 12 del d.l. 98/2011,
così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n.
228/2012, in vigore per tutto il 2013, era stato oggetto di
una norma di interpretazione autentica (legge n. 64/2013) al
fine di escludere espressamente dall’ambito di applicabilità
del divieto ivi contenuto le procedure espropriative per
pubblica utilità. Non si può quindi non tener conto del
fatto che lo stesso legislatore abbia espressamente voluto –intervenendo con la legge
06.06.2013 n. 64 in riferimento
al comma 1-quater citato- escludere dalla disciplina
limitativa dell’acquisto di beni immobili da parte, fra
l’altro, degli enti territoriali, le procedure
espropriative.
D’altro canto la procedura espropriativa è oggetto di una
compiuta e sistematica disciplina, contenuta nel d.p.r. 08.06.2001, n. 327, recante “Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità”, sia con riferimento ai presupposti di
esercizio del potere, sia in relazione alle modalità di
esercizio dello stesso.
L’applicazione del comma 1-ter alle procedure espropriative,
comunque connesse all’esercizio di funzioni fondamentali
dell’ente, quali quelle della programmazione del territorio
e della pianificazione urbanistica, introdurrebbe incisive
limitazioni nell’espletamento delle suddette funzioni e
andrebbe a modificare una disciplina con carattere di
specialità rispetto alla generale regolamentazione delle
procedure di acquisto di beni da parte delle pubbliche
amministrazioni. Il procedimento ablatorio è infatti legato
da un rapporto strutturalmente molto stretto con l’attività
di pianificazione urbanistica dal momento che, da un lato,
l’espropriazione costituisce un imprescindibile strumento di
pianificazione urbanistica e di attuazione del piano
regolatore generale e rappresenta una delle tipiche modalità
di perseguimento delle funzioni fondamentali degli enti
territoriali e, dall’altro lato, la “conformazione della
proprietà” è condizione necessaria del procedimento di
esproprio e nasce dalle prescrizioni urbanistiche contenute
nei piani regolatori.
Una limitazione del potere
espropriativo si ripercuoterebbe anche sulla programmazione
territoriale e sull’effettività della stessa, con
conseguenze che, verosimilmente, andrebbero al di là delle
dichiarate intenzioni del legislatore (conseguire risparmi
di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti
dall’operatività delle disposizioni finalizzate al
conseguimento degli obiettivi posti dal patto di stabilità
interno). Del resto, eventuali vincoli alla potestà
espropriativa delle amministrazioni pubbliche avrebbero
dovuto –alla luce del dettato costituzionale di cui
all’art. 42, comma 3, e della riserva di legge in esso
contenuta, che copre l’indicazione dei soggetti titolari del
potere e degli interessi perseguibili, oltre ai beni
espropriabili e alle regole procedimentali da osservare–
essere espressamente individuati dal legislatore.
Inoltre
risulta piuttosto difficile ritenere che il legislatore
abbia voluto, in modo indiretto ma così incisivo, limitare
l’attività di programmazione e di cura del territorio da
parte degli enti a ciò competenti con una disposizione
volta, in modo espresso, a realizzare effetti finanziari e
senza prevedere alcuna disposizione di raccordo espresso. E
ciò ancor più se si considera che la disciplina di cui al
comma 1-ter –al contrario di quanto previsto nel previgente
1-quarter- contiene potenzialmente una regolamentazione a
tempo indeterminato delle procedure di acquisto di beni
immobili e non svolge invece una funzione esclusivamente
derogatoria, per un tempo limitato, rispetto alla ordinaria
modalità di acquisizione dei beni medesimi.
Dal punto di vista procedurale la disciplina delle modalità
di effettuazione degli acquisti di beni immobili contenuta
nel comma 1-ter verrebbe sostanzialmente a sovrapporsi, in
modo peraltro non organico, all’iter espropriativo di cui al
d.p.r. n. 327/2001. In particolare si porrebbero
necessariamente problemi in ordine alla determinazione del
“prezzo” di acquisizione del bene immobile.
La stessa prescrizione, contenuta nella disposizione di cui
al comma 1-ter in esame, circa l’attestazione di conformità
da parte dell’Agenzia del Demanio in ordine al "prezzo di
acquisto" dell’immobile trova con difficoltà applicazione
nell’ambito di una procedura espropriativa volta
all’adozione di un provvedimento ablatorio, in quanto la
determinazione dell'indennità di espropriazione è soggetta
ai criteri e alla procedura previsti dal T.U. di cui al
d.p.r. 08.06.2001, n. 327. L’art. 20 del T.U. prevede
infatti che il promotore dell'espropriazione compili
l'elenco dei beni da espropriare e dei relativi proprietari,
con una descrizione sommaria, “ed indica le somme che offre
per le loro espropriazioni” oppure rimetta al proprietario,
ove non vi siano esigenze di celerità, anche in base ad una
relazione esplicativa, la precisazione di “quale sia il
valore da attribuire all'area ai fini della determinazione
della indennità di esproprio”.
Inoltre, in base alle previsioni del Testo unico –oltre che
dell’art. 42 della Costituzione, ai sensi del quale "La
proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla
legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi
d'interesse generale"-, è riconosciuto al proprietario un
indennizzo e non un prezzo di acquisto. I due concetti non
possono essere sovrapposti. La Corte costituzionale, con
sentenza n. 348/2007, dopo aver precisato che il criterio di
calcolo dell’indennizzo non deve essere valutato in modo
assoluto ma in relazione al (mutevole) contesto storico di
riferimento, ha indicato il valore di mercato del bene
oblato quale punto di riferimento per determinare
l’indennità di espropriazione ma precisando che non vi è
“coincidenza necessaria fra valore di mercato e indennità
espropriativa” e che “il legislatore non ha il dovere di
commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al
valore di mercato del bene oblato”.
La predetta ricostruzione interpretativa porta ad escludere
dal campo di applicazione della norma vincolistica di cui al
comma 1-ter le procedure di espropriazione per pubblica
utilità. Ciò peraltro non significa che non trovino adeguata
considerazione, all’interno del procedimento espropriativo,
le prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la
necessità di comprovare l’indispensabilità e l’indilazionabilità
dell’operazione nell’ottica di conseguire risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno. Ai sensi dell’art. 42, comma 3, Cost.
l’espropriazione è consentita, nei casi previsti dalla
legge, per motivi di interesse generale. Tale finalità
costituisce il presupposto indefettibile del potere di
esproprio.
Il trasferimento coattivo deve risultare infatti
“indispensabile per far fronte a bisogni che, pure se
destinati a concretarsi in futuro o a essere soddisfatti
soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal
momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che
valga a far considerare necessario e tempestivo il
sacrificio della proprietà privata nell’ora presente” (Corte
costituzionale, 06.07.1966, n. 90). Attraverso la
dichiarazione di pubblica utilità l’autorità espropriante è
tenuta pertanto a valutare la sussistenza di tali
condizioni, ponderando e confrontando gli interessi
coinvolti e le prerogative di cui sono portatori i soggetti
del procedimento, fra le quali devono essere ricompresi i
vincoli di finanza pubblica. Ciò è testimoniato anche dal
fatto che il d.p.r. n. 327/2001 è ispirato espressamente ai
principi di economicità ed efficienza, oltre che di
pubblicità e semplificazione (art. 2, comma 2).
D’altro canto la necessità che l’operazione espropriativa si
qualifichi in termini di concretezza assicura che
l’interesse pubblico perseguito non sia solamente ipotetico
ma rivesta i caratteri dell’attualità. “L’espropriazione
deve necessariamente collegarsi e cioè deve essere in
rapporto immediato con la soddisfazione di effettive e
specifiche esigenze rilevanti per la comunità” (Corte
costituzionale, 06.07.1966, n. 90). In particolare il
requisito temporale, declinato in termini di urgenza –e
quindi sottolineando la stretta concomitanza che deve
sussistere fra il l’interesso pubblico a cui è preordinata
l’espropriazione e la procedura ablatoria–, viene richiesto
in modo ancora più incisivo nelle ipotesi di decreto di
esproprio urgente (art. 20 d.p.r. 327/2001) e di decreto
d’occupazione d’urgenza (art. 22-bis d.p.r. n. 327/2001).
Si ritiene pertanto che, nei termini sopra descritti, le due
discipline, la disciplina relativa alle procedura di
acquisizione di beni immobili (contenuta nell’art. comma
1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011) e la disciplina delle
procedure espropriative (contenuta nel d.p.r. n. 327/2001),
non siano fra loro confliggenti e anzi siano caratterizzate
da notevoli punti di contatto soprattutto per quanto attiene
ai relativi presupposti.
Con specifico riferimento all’ulteriore quesito posto da
Sindaco del Comune di Lomazzo in ordine alla possibilità di
effettuare una permuta da parte dell’ente locale si deve
distinguere la fattispecie della permuta “pura” dalla
fattispecie della permuta con conguaglio di prezzo.
Si è già detto che il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l.
98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della
legge n. 228/2012 –che contiene un’espressa indicazione
della propria finalità “al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno”- novella un decreto-legge recante
“Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”,
ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la
quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 contiene esclusivamente norme tese a
realizzare effetti finanziari.
La permuta pura, risolvendosi nella mera diversa allocazione
delle poste patrimoniali afferenti a beni immobili,
costituisce un’operazione finanziariamente neutra (in
termini, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
la Lombardia, nn. 162/2013/PAR, 164/2013/PAR e 193/2013/PAR)
e pertanto non rientra nell’ambito di applicazione del comma
1-ter.
Peraltro, il comma 1-ter dell’art. 12 citato prevede
espressamente una serie di obblighi concernenti le
operazioni di acquisto che prevedono l'indicazione “del
soggetto alienante e del prezzo pattuito” mentre nel
contratto di permuta le posizioni di alienante e di
acquirenti sono reciproche e predicabili con riferimenti a
entrambi i contraenti. Ciò costituisce un ulteriore indizio
dell’inapplicabilità della disposizione in esame ai casi di
permuta “pura” (in termini Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo per la Lombardia, n. 193/2013/PAR).
Tali considerazioni si applicano ai soli casi di permuta
“pura”, nel presupposto dell’effettiva coincidenza di
valore, idoneamente accertata, fra i beni oggetto di
permuta. Diversamente, cioè nell’ipotesi in cui l’operazione
comprenda il versamento, da parte dell’ente territoriale,
della differenza di valore fra i beni immobili oggetto di
permuta, con la conseguente qualificazione dell’operazione
non in termini di neutralità finanziaria, si ricade
nell’alveo di applicazione del comma 1-ter (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere
05.03.2014 n. 97). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere circa l'obbligo di rilascio di una autorizzazione
paesistica in subdelega a fronte di un parere favorevole
della Soprintendenza non condiviso dal comune - Comune di
Santa Marinella (Regione Lazio,
parere 28.07.2014 n. 260639 di prot.). |
VARI: Locazioni
senza planimetrie.
Domanda
Nello stipulare un contratto di locazione è necessario
allegare le planimetrie degli immobili che ne costituiscono
l'oggetto oppure tale obbligo sussiste per gli atti di
trasferimento? Inoltre, che contenuto deve avere la
dichiarazione di conformità da inserire in atto?
Risposta
La risposta è negativa, nelle locazioni è sufficiente citare
i dati catastali delle unità. Peraltro, tale obbligo di
allegazione non sussiste neppure per gli atti traslativi,
rispetto ai quali, però, oltre a indicare i dati catastali,
occorre rendere la dichiarazione di conformità allo stato di
fatto dei luoghi di quanto risulta dalle planimetrie
depositate in Catasto e dai dati catastali, sancito
dall'articolo 19, comma 14, del dl n. 78/2010, che ha
integrato l'art. 22 della legge n. 52/2005. Tale obbligo può
essere assolto, oltre che dalla parte cedente in proprio,
anche ricorrendo a un'attestazione di conformità rilasciata
da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di
aggiornamento catastale.
Le circolari n. 2 e n. 3 del 2010, emanate dall'Agenzia del
territorio, hanno fornito svariati chiarimenti sulla
delicata tematica, precisando, tra l'altro, che assumono
rilevanza le (sole) difformità suscettibili di incidere
sulla consistenza dell'unità immobiliare e quindi sulla sua
rendita catastale.
Circa la dichiarazione in discorso, precisiamo che essa
interessa, a pena di nullità, gli atti pubblici e le
scritture private autenticate tra vivi aventi a oggetto il
trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di
comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, a
esclusione dei diritti reali di garanzia; tali atti devono
contenere, per le unità immobiliari urbane, oltre
all'identificazione catastale, il riferimento alle
planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione degli
intestatari circa la conformità allo stato di fatto dei dati
catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni
vigenti in materia catastale.
Tale dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione
di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla
presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Per
completezza, rammentiamo che la norma dispone anche
l'obbligo del notaio, prima della stipula dei predetti atti,
di individuare gli intestatari catastali delle unità e di
verificarne la conformità con le risultanze dei registri
immobiliari
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.07.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Prorogatio per
l'assessore. Dimissioni irrevocabili dopo 20 giorni.
Nel silenzio della legge, occorre far riferimento
ai regolamenti.
A un assessore comunale dimissionario devono essere
notificate le convocazioni delle sedute della giunta
comunale, per il periodo intercorrente tra la data di
presentazione al protocollo dell'ente delle proprie
dimissioni dalla carica di assessore e quella di nomina del
successore?
Non avendo il legislatore statale dettato una specifica
disciplina in ordine alle modalità e all'operatività delle
dimissioni dell'assessore, occorre far riferimento alle
fonti di autonomia locale. Nel caso di specie, il
regolamento comunale per il funzionamento del consiglio e
della giunta, recante «delle dimissioni da assessore»,
prevede che le stesse possano essere rassegnate in ogni
momento, per iscritto o verbalmente, nel corso della seduta
e che la sostituzione del singolo assessore dimissionario
deve essere effettuata in base alla procedura prevista dallo
statuto comunale.
La norma regolamentare, riproducendo il contenuto dell'art.
53, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000, stabilisce
che le dimissioni diventano irrevocabili ed efficaci
«trascorso il termine di 20 giorni dalla loro
presentazione».
Poiché nella fattispecie in esame, non emerge che sia stato
adottato un provvedimento sindacale di revoca dell'assessore
ai sensi dell'art. 46, comma 4, del Tuel n. 267/2000,
l'amministratore ha continuato a rivestire la carica
assessorile fino allo scadere del ventesimo giorno dalla
data di presentazione delle proprie dimissioni
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazione d'urgenza.
Qual è la portata applicativa dell'art. 38, comma 5, del
decreto legislativo n. 267/2000? In particolare, è possibile
dopo la convocazione dei comizi elettorali, dare seguito
alla richiesta di convocazione d'urgenza del consiglio
comunale ai sensi dell'art. 39, comma 2, del Tuel?
Ai sensi del richiamato art. 38, comma 5, i consigli
comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino
all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione
del decreto di indizione dei comizi elettorali, a adottare
gli atti urgenti e improrogabili. La previsione legislativa
in esame trae la propria ratio ispiratrice nella necessità
di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la
formazione della volontà degli elettori adottando atti
aventi natura cosiddetta «propagandistica», tali da alterare
la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle
elezioni amministrative.
È stato precisato in giurisprudenza che la preclusione
disposta dalla citata norma opera solamente con riguardo a
quelle fattispecie in cui il consiglio comunale è chiamato a
operare in pieno esercizio di discrezionalità e senza
interferenze con i diritti fondamentali dell'individuo
riconosciuti e protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l'organo consiliare è chiamato a pronunciarsi
su questioni vincolate nell'an, nel quando e nel quomodo e
che, inoltre, coinvolgano diritti primari dell'individuo,
l'esercizio del potere non può essere rinviato (Tar Puglia
n. 382/2004).
È stato, inoltre, evidenziato che il carattere
di atti urgenti e improrogabili possa essere riconosciuto
agli atti «per i quali è previsto un termine perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere di
emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a
realizzare la funzione per la quale devono essere formati
o hanno un'utilità di gran lunga inferiore» (Tar Veneto 1118
del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto
dell'urgenza e improrogabilità, è stato osservato che lo
stesso «costituisce apprezzamento di merito insindacabile in
sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il
limitato profilo della inesistenza del necessario apparato
motivazionale, ovvero della palese irrazionalità o
illogicità della motivazione addotta» (sentenza Tar Friuli
Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello dal
Consiglio di stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come
indicato nella circolare del ministero dell'interno n. 2 del
07.12.2006, va rilevato che l'esistenza dei presupposti
d'urgenza e improrogabilità deve essere valutata caso per
caso dallo stesso consiglio comunale che ne assume la
relativa responsabilità politica, tenendo presente il
criterio interpretativo di fondo che pone, quali elementi
costitutivi della fattispecie, scadenze fissate
improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante danno per
l'amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel
provvedere.
Pertanto, è alla luce di tali criteri
ermeneutici che dovrà essere valutata la richiesta di
convocazione d'urgenza del consiglio comunale, ai sensi
dell'art. 39, comma 2, del dlgs n. 267/2000
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Incompatibilità di un consigliere comunale. Articolo 63,
comma 1, num. 2, TUEL.
Nel caso in cui il coniuge di un
amministratore locale sia socio di una società in nome
collettivo, che ha in essere un contratto di
somministrazione di alimenti con l'asilo nido comunale,
viene in rilievo la causa di incompatibilità di cui all'art.
63, comma 1, n. 2, TUEL, nella parte in cui dispone che non
può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che,
come titolare, amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o
indirettamente, in servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune.
Trattasi di una causa di incompatibilità atta a
ricomprendere anche ipotesi di conflitto d'interessi
sostanziale, non direttamente collegabile ad una posizione
formale. In particolare, l'esistenza del conflitto di
interesse andrà valutata nel concreto, ritenendolo esistente
qualora si accerti la sussistenza di un interesse privato
del consigliere comunale tale da minare l'imparzialità del
suo agire quale amministratore locale.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito
all'esistenza di una causa di incompatibilità per un
amministratore locale il cui coniuge (insieme al fratello)
[1] è
socio di una società in nome collettivo che ha in essere un
contratto di somministrazione di alimenti con l'asilo nido
comunale.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
In via preliminare, si rileva che la valutazione della
sussistenza delle cause di ineleggibilità o di
incompatibilità dei componenti di un organo elettivo
amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo.
È, infatti, principio di carattere generale del nostro
ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano
esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti
(art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio
comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti
dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio
delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga
successivamente attivato il procedimento di contestazione di
una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del
D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio medesimo, al fine di
valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le
osservazioni difensive formulate dall'amministratore e, di
conseguenza, adottare gli atti ritenuti necessari.
In relazione alla situazione prospettata, rileva la norma di
cui all'articolo 63, comma 1, n. 2, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 nella parte in cui dispone che non può
ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia,
consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale: 'colui
che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o
indirettamente, in servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune o
della provincia [...]'.
La norma richiede la sussistenza di un duplice requisito:
uno di natura soggettiva, l'altro di tipo oggettivo.
La questione prospettata dall'Ente fa sorgere il dubbio
circa il ricorrere del requisito soggettivo, atteso che il
contratto di somministrazione fa capo ad una società i cui
soci sono, rispettivamente, coniuge ed affine di secondo
grado dell'amministratore locale.
Ratio della causa di incompatibilità in esame
(annoverabile tra le cosiddette 'incompatibilità di
interessi') 'risiede nell'esigenza di impedire che
possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli
comunali soggetti portatori di interessi configgenti con
quelli del comune o i quali si trovino comunque in
condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità'.
[2] In
altri termini, la norma è finalizzata ad evitare che la
medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di
amministratore di un comune e la qualità di titolare,
amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti
giuridici con l'ente locale, caratterizzati da una
prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse,
atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere
di una posizione di conflitto di interessi.
Il Ministero dell'Interno, nell'affrontare, in un proprio
parere [3],
una questione analoga a quella in esame, ha rilevato come
fra tutte le ipotesi contemplate dall'articolo 63 del TUEL,
quella di cui al comma 1, n. 2 appare 'quella con la
formulazione più aperta, atta a ricomprendere anche ipotesi
di conflitto d'interessi sostanziale, non direttamente
collegabile ad una posizione formale'.
La giurisprudenza [4]
ha, in particolare, precisato come «gli avverbi
"direttamente o indirettamente" -che, nella disposizione in
esame, seguono la locuzione "ha parte"- debbono intendersi
riferiti non già alla condizione oggettiva, bensì a quella
soggettiva. Nel senso ora precisato, militano, infatti,
diverse e concorrenti considerazioni. In primo luogo, il
testo originario della disposizione: infatti, nella
formulazione dell'art. 15 del D.P.R. n. 570 del 1960, comma
1, n. 7, i predetti avverbi seguivano immediatamente
l'individuazione (meno precisa di quella contenuta nella
disposizione vigente) dei soggetti incompatibili ("coloro i
quali"), facendosi cadere, quindi, inequivocabilmente,
l'accento sulla condizione soggettiva. In secondo luogo, il
rilievo, secondo cui la causa di incompatibilità
all'esercizio di una carica elettiva costituisce limitazione
ad un diritto politico fondamentale di natura individuale e
personalissima, la quale, perciò, non può che riferirsi, in
ultima analisi, ad una condizione soggettiva di conflitto di
interessi. In terzo luogo, l'ulteriore e decisivo rilievo,
secondo cui - ove i predetti avverbi fossero riferiti alla
condizione oggetti va (partecipazione al servizio) e,
quindi, l'area della incompatibilità comprendesse anche una
"partecipazione indiretta" al servizio un'interpretazione
siffatta si presterebbe a pericolose estensioni delle
limitazioni all'esercizio di un diritto costituzionalmente
garantito, che il legislatore costituente ha voluto come
"eccezionali", sulla base di una categoria giuridica (la
"partecipazione indiretta" al servizio, appunto) generica,
di difficile individuazione e, perciò, piuttosto
evanescente'».
Alla luce di un tanto, prosegue il giudice civile affermando
che: 'Ed allora, deve concludersi nel senso che il
legislatore -qualificando il modo della partecipazione al
servizio- ha inteso, specificamente, rafforzare
l'effettività della norma e limitare il predetto diritto non
soltanto nei confronti del soggetto, al quale, in ragione
della partecipazione al servizio con una determinata qualità
soggettiva (titolare, amministratore, dipendente con poteri
di rappresentanza o di coordinamento), il conflitto di
interessi sia immediatamente (e formalmente) riferibile, ma
anche, con un chiarissimo scopo "antielusivo", nei confronti
del soggetto che, al di là della qualità soggettiva di colui
che partecipa "formalmente" al servizio, debba, secondo le
circostanze del caso concreto, considerarsi come il "reale"
portatore dell'interesse "particolare" potenzialmente
confliggente con quelli "generali" connessi all'esercizio
della carica elettiva. Sicché, è evidente che la condizione
soggettiva di incompatibilità, nei casi di accertata
divergenza tra dato formale e dato sostanziale relativamente
al soggetto partecipante al servizio, non può che integrarsi
nei confronti del dominus -nel senso di portatore
"sostanziale" e non meramente "formale"- del predetto
interesse. E', naturalmente, difficile [...] individuare una
casistica esaustiva delle possibili ipotesi, ma sembra
sufficiente, in prima approssimazione, fare riferimento a
casi di interposizione "fittizia" di persona, ovvero a
situazioni di collegamento o di controllo societario
prefigurate dall'art. 2359 cod. civ.'.
Le affermazioni espresse dalla giurisprudenza portano,
conseguentemente, a ritenere che, con riferimento al caso in
esame, l'esistenza del conflitto di interesse andrà valutata
nel concreto ritenendolo esistente qualora si accerti la
sussistenza di un interesse privato del consigliere comunale
tale da minare l'imparzialità del suo agire quale
amministratore locale. Tale conclusione è stata fatta
propria anche dal Ministero dell'Interno il quale, nel
parere citato, ha affermato che: «Qualora invece il
citato amministratore non sia socio, il rapporto di coniugio
che lo lega al socio-amministratore della società, chiamata
alla gestione dei servizi, non è sufficiente, da solo a
configurare un'ipotesi di conflitto sostanziale con l'Ente,
che andrà eventualmente di volta in volta 'rigorosamente
accertato'».
Il Ministero dell'Interno, ad ulteriore sostegno delle sue
asserzioni, ha fatto riferimento, altresì, alla norma di cui
all'articolo 61, comma 1-bis, del D.Lgs. 267/2000 la quale
dispone che non può ricoprire la carica di sindaco o di
presidente della provincia colui che ha ascendenti o
discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado
che coprano, nelle rispettive amministrazioni, il posto di
appaltatore di lavori o di servizi comunali. La previsione
colpisce solo i citati amministratori anche in assenza di un
vantaggio diretto o indiretto che possa essere imputato loro
personalmente, ma rimanga esclusivo del parente che gestisce
l'appalto o il servizio, a salvaguardia del principio
d'imparzialità dell'azione amministrativa e per porre al
riparo coloro che svolgono una pubblica funzione dal
sospetto di essere influenzati da interessi confliggenti con
quelli del Comune. Rileva il Ministero che: 'Per tutti
gli altri amministratori non è posta invece analoga
disposizione, per cui la possibilità di conflitto fra gli
interessi del consigliere e quelli del Comune non può essere
presunta dall'esistenza di un rapporto di parentela con
l'amministratore di un'impresa che opera in servizi o
appalti dell'Ente, ma va accertata adeguatamente'.
L'interpretazione sopra fornita dell'articolo 63, comma 1,
n. 2), TUEL è stata fatta propria anche dalla dottrina la
quale, nel commentare tale disposizione, ha rilevato come: «La
norma comprende anche le situazioni di fatto non
esteriorizzate formalmente, aventi carattere 'indiretto',
per effetto dell'interposizione nel rapporto di altri
soggetti, sempre che sia rigorosamente accertato l'interesse
privato, diretto od indiretto, che determina
l'incompatibilità». [5]
Per completezza espositiva si segnala, tuttavia, un difforme
orientamento espresso dall'ANCI in un proprio parere,
risalente all'anno 2001, [6]
ove si afferma che: 'Il caso prospettato nel quesito
propone un'impresa edile destinataria di appalti di opere
pubbliche per conto del comune in cui il vice sindaco ne è
dipendente senza poteri di rappresentanza o coordinamento,
ma che è rappresentata dal genitore dello stesso vice
sindaco. Il diretto vincolo di parentela in primo grado con
il rappresentante dell'impresa costituisce per il
vicesindaco, a nostro parere, un AVER PARTE INDIRETTAMENTE
IN APPALTI NELL'INTERESSE DEL COMUNE e configura pertanto
causa di incompatibilità a mente della norma appena citata
(art. 63, comma uno, n. 2)'.
---------------
[1] Che è, pertanto, cognato dell'amministratore locale.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n.
550.
[3] Ministero dell'Interno, parere del 25.05.2010
(15900/TU/00/63).
[4] Cassazione civile, sentenza 550/2004.
[5] F. Narducci, 'Amministratori degli enti locali - Status
giuridico: requisiti e cause impeditive', in 'Le condizioni
di incompatibilità', parte quinta, consultabile sul sito
www.guidaentilocali.it. Nello stesso senso, E.Maggiora,
'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente
locale', Giuffrè editore, 2000, il quale rileva come 'il
legislatore ha riprodotto la proposizione «aver parte
direttamente o indirettamente» (già presente nella
previgente normativa comunale e provinciale), per la cui
corretta interpretazione è necessario 'aver riguardo alla
natura sostanziale del rapporto ... sicché si realizza la
causa di incompatibilità suddetta, non solo nell'ipotesi di
partecipazione personale del candidato a un'impresa
appaltatrice, ma anche nell'ipotesi di esistenza di un
interesse indiretto alla stessa impresa, quale si verifica
nel caso della presenza di un'interposta persona (Militerni-Saporito,
'La nuova legge elettorale', Napoli, 1982, pag. 106)''.
[6] ANCI, parere del 28.08.2001, consultabile sul sito
www.ancitel.it
(24.07.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Oneri di urbanizzazione soft. Si paga di meno in caso di
interventi di ristrutturazione. Lo prevede il
decreto Sblocca-Italia, pronto per l'esame del
consiglio dei ministri.
Oneri di urbanizzazione più leggeri per le ristrutturazioni.
Il decreto legge «sblocca Italia» pronto per l'esame del
consiglio dei ministri, introduce misure di incentivazione
all'edilizia, soprattutto per gli interventi sull'esistente.
Sia il contributo agli oneri di urbanizzazione sia quello
commisurato al costo di costruzione possono essere agevolati
e stabiliti in misura più conveniente per il cittadino e le
imprese.
Le modifiche riguardano l'articolo 16 del Testo
unico per l'edilizia (dpr 380/2001), che disciplina l'intera
materia del contributo di costruzione e cioè del contributo
che va pagato al comune in relazione agli interventi
edilizi. Il contributo si compone di due voci: una prima
parte è commisurata al il costo di costruzione e una seconda
all'incidenza degli oneri di urbanizzazione. Gli oneri di
urbanizzazione concernono strade parcheggi, fognature, rete
idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del
gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato
(urbanizzazione primaria); asili, scuole, mercati, edifici
pubblici, impianti sportivi e aree verdi, attrezzature
sanitarie (urbanizzazione secondaria).
In sostanza chi
costruisce è chiamato a partecipare alla spesa pubblica per
rendere vivibile un territorio urbanizzato. L'incidenza
degli oneri di urbanizzazione è stabilita in relazione ad
alcuni parametri: ampiezza e andamento demografico dei
comuni; caratteristiche geografiche dei comuni; destinazioni
di zona previste nei piani regolatori; livelli standard.
Il
decreto aggiunge un altro parametro e cioè la
differenziazione tra gli interventi al fine di incentivare,
in modo particolare nelle aree a maggiore densità del
costruito, quelli di ristrutturazione edilizia rispetto a
quelli di nuova costruzione. Se si paga di meno per una
ristrutturazione, sarà proprio questo intervento ad essere
privilegiato, rispetto al nuovo consumo di territorio.
Questo principio, inoltre, deve essere tenuto in conto dalle
amministrazioni comunali chiamate a definire, in caso di
inerzia della regione, le tabelle per il calcolo degli oneri
di urbanizzazione.
Il decreto legge in esame, infatti,
integra il comma 5 dell'articolo 16 del T.u. Edilizia,
specificando che la definizione delle tabelle parametriche
da parte dei comuni deve uniformarsi al criterio
dell'incentivo delle ristrutturazioni rispetto alle nuove
costruzioni. Il dl interviene anche sul comma 10 del citato
art. 16. La disposizione si occupa del costo di costruzione
(seconda voce del contributo di costruzione) e spiega che
deve essere determinato in relazione al costo degli
interventi stessi, così come individuati dal comune in base
ai progetti presentati per ottenere il permesso di
costruire.
L'attuale secondo periodo del comma 10 precisa
che, al fine di incentivare il recupero del patrimonio
edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione
edilizia, i comuni hanno comunque la facoltà di deliberare
che i costi di costruzione non superino i valori determinati
per le nuove costruzioni. Quindi la ristrutturazione non
paga di più di una nuova costruzione. Il decreto legge
modifica la norma nel senso di diminuire la parte di
contributo commisurata alle ristrutturazioni: grazie alla
nuova versione i comuni potranno deliberare che i costi di
costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori
determinati per le nuove costruzioni.
Altre modifiche riguardano la durata del procedimento del
rilascio del permesso di costruire. L'attuale art. 20 del
T.u. edilizia raddoppia i termini per i comuni per i comuni
con più di centomila abitanti, e per i progetti
particolarmente complessi secondo la motivata risoluzione
del responsabile del procedimento. Il dl elimina il
riferimento demografico e, quindi, si possono raddoppiare i
termini solo per pratiche complesse anche nei centri più
grossi. Nel comune oltre centomila abitanti si applicano,
quindi, di regola i termini ordinari (non raddoppiati),
salvo istruttorie complicate (articolo ItaliaOggi del 31.07.2014). |
APPALTI: Fusioni, la centrale unica può attendere.
Per i comuni istituiti a seguito di fusione, l'obbligo di
ricorrere alla centrale unica di committenza scatterà solo a
partire dal terzo anno successivo a quello dell'istituzione.
È una delle novità introdotte al decreto sulla pa (dl
90/2014) dopo il passaggio del provvedimento in commissione
affari costituzionali alla camera.
Il decreto, ora all'esame dell'aula, è dovuto tornare sul
tavolo della prima commissione per recepire l'ulteriore
pacchetto di 12 emendamenti presentato dal relatore nel
comitato dei nove (si veda ItaliaOggi di ieri). Ma per
scongiurare l'ostruzionismo delle opposizioni che già
avevano presentato in aula un migliaio di emendamenti, il
governo ha deciso di chiedere la fiducia che è stata votata
ieri in seduta notturna. L'ok al provvedimento è invece
previsto per stamattina, dopodiché il provvedimento andrà
all'esame del senato.
Le modifiche introdotte in materia di fusioni disegnano un
regime speciale per il passaggio alla centralizzazione degli
acquisti, imposta dal dl 66/2014 e, com'è noto, fatta
slittare al 2015 (1° gennaio per beni e servizi e 1° luglio
per lavori). Per le amministrazioni che decideranno di
fondersi viene introdotto un regime agevolato, analogo a
quello che consente di rinviare di due anni
l'assoggettamento al Patto di stabilità interno.
I correttivi approvati, inoltre, reintroducono la deroga per
gli appalti di basso importo, ma solo per i comuni con una
popolazione superiore ai 10.000 abitanti, che potranno
procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e
lavori di valore inferiore ai 40.000 euro.
Tornando al tema delle fusioni, va segnalato che, con un
altro emendamento al dl 90, è stato fissato un tetto al
contributo straordinario erogato dallo Stato ai comuni
coinvolti. La premialità è prevista dall'art. 15, comma 3,
del Tuel per un arco temporale di dieci anni ed è
quantificata dall'art. 20 del dl 95/2012 in misura pari al
20% dei trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010.
Attualmente non sono previsti limiti massimi, se non quelli
derivanti dagli stanziamenti di bilancio. Per effetto della
modifica approvata a Montecitorio, invece, l'assegno annuale
non potrà superare la somma di 1,5 milioni di euro. Ciò,
evidentemente, per evitare di esaurire le disponibilità, a
fronte del crescente numero di fusioni avviate negli ultimi
mesi (anche se le novità si applicheranno a tutte le
procedure avviate a partire dal 2012) (articolo ItaliaOggi del 31.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sblocca-Italia, più spazio ai privati.
Renzi: discussione in Cdm e consultazione di 30 giorni, poi
i provvedimenti.
Infrastrutture. Semplificazioni per edilizia privata e opere
pubbliche, defiscalizzazioni, regolamento edilizio unico per
8mila comuni.
Arriva
lo sblocca-Italia, una cornice di misure che dovrebbe far
ripartire infrastrutture, edilizia, città per 43 miliardi di
euro. Sarà il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a
spiegare cosa ci sarà in questa cornice stasera, nella
conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri. Nessun
provvedimento, per ora, ma una consultazione di un mese,
come già si era fatto con il decreto di riforma della Pa.
Le
uniche cose che potrebbero concretizzarsi già oggi in forma
di provvedimenti sono il «piano aeroporti» –un decreto che
aspetta l'approvazione del governo dopo una "riflessione" di
quattro anni nei cassetti ministeriali di un documento
strategico fondamentale– e un pacchetto di opere che
potrebbe essere approvato dal Cipe: la defiscalizzazione per
la Pedemontana lombarda (sarebbe il secondo caso dopo la
Orte-Mestre, delibera del novembre 2013 ferma però alla
Corte dei Conti), atto aggiuntivo per la Metro C di Roma,
piano finanziario della Milano-Serravalle.
«In consiglio dei ministri la discussione sullo sblocca-Italia e l'apertura della fase di consultazione (mi
dispiace, consulteremo i cittadini per il solo mese di
agosto: ma le buone idee non vanno in ferie. Fine di agosto
dobbiamo essere operativi con i provvedimenti!)». Così ha
scritto ieri Renzi nella sua lettera «e news».
Lo Sblocca Italia a cui sta lavorando il governo si annuncia
comunque come un provvedimento a 360 gradi.
Dall'accelerazione sui fondi Ue alle semplificazioni
radicali per l'edilizia privata, dalla riprogrammazione
della legge obiettivo al finanziamento immediato di un
numero ristretto di grandi opere, dalla riforma dei porti
all'approvazione (forse con Dpcm) del piano aeroporti, dalla
riforma degli incentivi per il project financing a quelli
per la banda larga, da un piano di piccole opere che tenga
dentro le 1.400 segnalazioni arrivate a Renzi dai sindaci al
rifinanziamento del «piano città» e del «piano dei 6mila
campanili».
Le nuove risorse dovrebbero oscillare fra due e tre miliardi
di euro, ma è probabile che su questo Renzi non scopra
ancora le carte, visto che non saranno approvati
provvedimenti. Almeno un miliardo dovrebbe arrivare dalla
revoca di finanziamenti a opere della legge obiettivo e non
solo, un lavoro istruttorio fatto dal ministero delle
Infrastrutture, mentre altre risorse dovrebbero arrivare
dall'Economia (il Dl Irpef convertito a fine giugno
prevedeva un lavoro di verifica e riassegnazione dei residui
passivi nel bilancio dello Stato, da effettuarsi entro il 31
luglio).
Una parte di questi fondi dovrebbero andare a un gruppo di
grandi opere, proposte dal Ministro delle Infrastrutture
Maurizio Lupi. Tra queste dovrebbero esserci l'autostrada
Tirrenica, la terza corsia sulla A4 Venezia-Trieste, il
Passante ferroviario di Torino, il collegamento ferroviario
Milano-Seregno-Malpensa, il primo lotto dell'autostrada
Termoli-San Vittore, il completamento della linea 1 della
metropolitana di Napoli.
Un'altra parte dei fondi dovrebbe invece andare al piano
"6mila Campanili" (piccole opere nei Comuni con meno di
5mila abitanti) e per finanziare alcune delle 1.400 opere
(piccole ma non solo) segnalate dai Comuni a Renzi su sua
diretta sollecitazione.
Un intervento radicale è annunciato anche per le
semplificazioni in edilizia privata, per tentare di superare
le "riforme a metà" o non attuate degli anni scorsi. La
prima misura sarà quella del regolamento edilizio standard
per tutti gli 8mila comuni, una vera rivoluzione. Ma ci
saranno anche norme per limitare il potere di autotutela dei
Comuni dopo la presentazione della Scia o della Dia
edilizia; un accorciamento dell'iter del permesso di
costruire; un rafforzamento dello Sportello unico edilizia.
Infine modifiche alle conferenze di servizi e una riduzione
del raggio d'azione delle Sovrintendenze, con l'esclusione
dei piccoli e piccolissimi lavori, che costituiscono il 70%
del totale (articolo Il Sole 24 Ore del 31.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Competitività, Dl da riscrivere.
Stralcio per una ventina di disposizioni - Saltano la
super-Scia e la seconda soglia Opa.
Alla Camera. Governo e maggioranza decidono di
ridimensionare il provvedimento: servirà un nuovo via libera
anche del Senato.
Il decreto
competitività diventa un autentico caso. Una lunga e
concitata giornata, con riunioni tra governo e maggioranza,
ha sancito un significativo ridimensionamento del
provvedimento attualmente all'esame della Camera. Sul tema
ci sarebbe stata una riunione con lo stesso premier Matteo Renzi ieri mattina presto. Il decreto, come uscito dal
Senato (dove aveva ottenuto la fiducia venerdì scorso),
appariva sempre più eterogeneo e simile ai provvedimenti
"omnibus" che poco sono apprezzati dal Quirinale.
Oltretutto, sono emerse in extremis perplessità
dell'esecutivo anche sul contenuto di alcune norme aggiunte
al Senato.
Di qui un lavoro vorticoso con lo stralcio clamoroso di una
ventina di norme, da attuare attraverso un unico emendamento
governativo o singoli emendamenti soppressivi dei ministeri.
«Se ci sono esigenze, si può verificare la possibilità di
inserire le norme in altri provvedimenti, magari in un Ddl
ad hoc» prova a tranquillizzare il sottosegretario ai
Rapporti con il Parlamento, Ivan Scalfarotto. Intanto
l'intervento alla Camera –dove sono stati presentati in
commissione anche 800 emendamenti dai gruppi– richiederà un
rapidissimo ritorno al Senato in terza lettura (il decreto
scade il 22 agosto).
Salta la norma che, in assenza dell'emanazione dei già
previsti decreti attuativi entro il 31.12.2014,
farebbe scattare automaticamente la Scia o
l'autocertificazione con controlli ex post per qualsiasi
professione o attività economica. Una misura considerata
forse troppo dirompente dal governo o destinata ad essere
recuperata nella prossima legge annuale per la concorrenza.
A forte rischio anche una parte delle norme inserite al
Senato per correggere il contestatissimo "spalma incentivi"
che modifica il regime delle agevolazioni per il
fotovoltaico. In particolare, le valutazioni del governo si
sono soffermate su una delle opzioni che verrebbero concesse
ai produttori di rinnovabili: un sistema di aste imperniato
sulla cessione di quote di incentivi, fino ad un massimo
dell'80 per cento, a un acquirente che vincerà la gara
indetta dall'Authority per l'energia. Cancellazione in vista
anche per la proroga per le gare d'ambito del gas.
Stop alla seconda soglia Opa (25%) inserita con un
emendamento dei relatori dopo un lavoro condotto in prima
persona dal "dissidente" Pd Massimo Mucchetti. Verso lo
stralcio anche la norma che stanziava 535 milioni per Poste
Italiane in seguito a una sentenza del Tribunale Ue sulla
legittimità di aiuti di Stato. Gran parte di questa dote –410 milioni– veniva recuperata tagliando le risorse
disponibili per pagare i debiti della Pa, paradossalmente a
distanza di pochi giorni dal protocollo di impegni tra
governo-enti territoriali-banche e imprese per completare il
rimborso di tutti gli arretrati.
Ma la lista delle norme stralciate, alla quale si è lavorato
fino a ieri notte, è particolarmente lunga. Verso
l'abolizione la nuova deroga sul tetto agli stipendi dei
manager (interessato il Gestore servizi energetici), la
misura sui limiti all'uso del contante da parte dei turisti,
le nuove disposizioni sulle società tra professionisti,
l'istituzione dei cosiddetti "condhotel" (abitazioni in
condominio dove sarà possibile usufruire dei servizi tipici
dell'hotel).
Per quanto riguarda la sezione sull'ambiente,
saltano le semplificazioni in materia di imballaggi; incerto
al momento il destino sulla norma Sistri. Diverse
soppressioni per il pacchetto agricoltura, tra cui
l'esclusione del carcere per chi semina Ogm in Italia in
violazione del divieto (articolo Il Sole 24 Ore del 31.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
URBANISTICA: Urbanistica, confronto al via.
La proposta Lupi prova a mettere punti fermi a 72 anni
dall'ultima legge.
Infrastrutture. Il ministro delle Infrastrutture ha messo in
consultazione un Ddl di riforma prima di andare al Cdm.
In
consultazione fino al prossimo 15 settembre, poi in
Consiglio dei ministri e, a seguire, in Parlamento. La
volata della «proposta Lupi» di riforma urbanistica è
partita, a 72 anni dall'ultima legge, dopo un lavoro di otto
mesi di un gruppo di esperti guidato dall'ex presidente del
Consiglio superiore dei lavori pubblici Francesco Karrer.
Adesso
la bozza (che Il Sole 24 Ore aveva largamente
anticipato il 21 maggio) viene data in pasto agli operatori
del settore, che dovranno discuterla e chiedere di limarla o
modificarla.
La pietra angolare attorno alla quale gira tutto il disegno
di legge, secondo Lupi, è la sezione dedicata al rinnovo
urbano, contenuta negli articoli 16 e 17. Qui si evoca il
principio del razionale uso del suolo, da attuare «per mezzo
della conservazione, della ristrutturazione edilizia, della
demolizione, della ricostruzione di edifici» e di porzioni
di città. Un ruolo decisivo viene affidato ai Comuni che
devono individuare le aree dove effettuare gli interventi
prioritari. Anche se la legge prevede una deroga
significativa: le operazioni di rinnovo possono essere
realizzate anche in assenza di pianificazione operativa o in
difformità da essa, quando ci sia un accordo tra i privati
interessati e l'amministrazione locale.
Non si tratta, però, dell'unico pezzo innovativo del testo.
Gli articoli 10 e 11, infatti, disciplinano in maniera
organica, per la prima volta a livello nazionale, gli
strumenti della "perequazione" e "compensazione", largamente
utilizzati dai Comuni più innovativi nei loro Prg e ammessi
da alcune leggi regionali, ma finora senza copertura
legislativa statale, con conseguente incertezza legata a
ricorsi e contestazioni (come avvenuto con il Prg di Roma).
Il principale obiettivo del Ddl Lupi, su questo punto, è
dunque dare legittimazione alle due pratiche, pur senza
renderle obbligatorie (e c'è chi, come Ance e Inu, avrebbe
voluto più coraggio nel renderle cogenti per i Comuni).
Come previsto dall'esperienza degli ultimi 10-15 anni, il
testo prevede che perequazione e compensazione servano a
distribuire in modo equo sul territorio i diritti
edificatori previsti dagli strumenti urbanistici, e anche a
rendere l'attuazione delle trasformazioni urbane più
fattibili, perché al posto dell'esproprio si utilizzano
cessioni gratuite di aree in cambio di cubature da usare
altrove e i trasferimenti incrociati di aree all'interno dei
piani attuativi.
La pianificazione comunale è basata su un livello
programmatorio e su un livello operativo. Ma non è tutto. Un
capitolo è dedicato alla fiscalità. Qui si cerca di
garantire l'equità dell'imposizione sugli immobili. E si
stabilisce un principio innovativo: nelle aree ad alta
densità la tassazione dovrà essere più bassa, perché è
minore la quota di servizi indivisibili di cui si fruisce.
Ancora, si parla edilizia residenziale sociale e si
stabilisce che questa andrà determinata come standard
aggiuntivo: non sostituirà, quindi, le aree verdi o i
parcheggi ma dovrà essere servita da dotazioni apposite.
I giudizi sulla bozza sono essenzialmente positivi, ma da
più parti si chiedono aggiustamenti. Il presidente della
commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, la
descrive come un «importante contributo per una nuova
normativa sul governo del territorio», ma da discutere
«insieme alle altre proposte già presentate in Parlamento».
Anche se sulla messa in sicurezza e il risparmio energetico,
«non appare sufficiente». L'ex assessore all'urbanistica del
Comune di Roma, Roberto Morassut parla di «fatto importante
e storico» perché «il tema della riforma urbanistica, che
rappresenta una delle principali necessità per la ripresa
economica, è sempre rimasto in coda nell'agenda delle
riforme». Anche il presidente del Consiglio nazionale
architetti, Leopoldo Freyrie pensa sia «molto positivo avere
riavviato questo processo» anche se «noi daremo un
contributo sulla parte che riguarda la rigenerazione, perché
vorremmo una visione più coraggiosa». La bozza tocca corde
molto delicate e si intreccia con il Ddl sul consumo di
suolo, che alla Camera ha subito diversi rallentamenti negli
ultimi mesi (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruzione doc.
Valutazione preventiva comunale per evitare modifiche.
Si va definendo il contenuto del decreto Sblocca-Italia. Alle
grandi opere 3,7 mld.
Permesso di costruire con valutazione preventiva di
fattibilità che impedirà al comune di chiedere al privato
modifiche ai progetti approvati; regolamento edilizio
standard per tutti i comuni; destinazione dello 0,3% del pil
alle grandi infrastrutture; 3,7 miliardi fino al 2019 per
grandi opere in corso; al via il nuovo piano città e il
nuovo programma 6.000 campanili; programma triennale per le
opere incompiute dei comuni.
Sono questi alcuni dei punti che, stando alle indiscrezioni,
dovrebbero essere contenuti nel pacchetto «Sblocca-Italia»
che sarà all'esame del Consiglio dei ministri del 31 luglio
dove, al momento non risultano intervento per evitare
l'impasse dell'entrata in vigore del sistema AvcPass, di
verifica dei requisiti nelle gare di appalto, ma verrebbe
invece esaminata la delega per il recepimento delle
direttive appalti pubblici e per la riforma del Codice dei
contratti pubblici.
Accelerazione
per i permessi
di costruire
Si propone di indirizzare il privato allo sportello unico
per l'edilizia (che avrà un mese per rispondere) per una
«valutazione preventiva sul progetto edilizio che accerti
l'ammissibilità in ordine al rispetto dei requisiti e
presupposti richiesti da leggi o da atti amministrativi». La
valutazione servirà ad evitare che il comune possa chiedere
successivamente modifiche al progetto approvato.
La
richiesta dovrà essere corredata da una semplice
autocertificazione e da una documentazione predisposta da un
tecnico che asseveri il rispetto di ogni norma urbanistica,
con anche delle rappresentazioni grafiche dell'intervento.
Lo sportello unico a quel punto procederebbe all'emissione
di un parere di valutazione preventiva di fattibilità per il
rilascio del quale sono previste delle spese di istruttoria.
Se lo sportello unico non si dovesse pronunciare entro il
mese dal deposito dell'istanza, il privato potrebbe
procedere.
Regolamento edilizio
standard per tutti
i comuni
Viene di fatto anticipata una norma (l'articolo 20) del
disegno di legge di riforma urbanistica che il ministro
delle infrastrutture Maurizio Lupi ha presentato giovedì
scorso a Roma (si veda ItaliaOggi del 25 luglio) che prevede
una delega per la «semplificazione e razionalizzazione della
disciplina dei titoli edilizi, la riorganizzazione dello
sportello unico dell'edilizia e dei procedimenti relativi».
Nel regolamento edilizio standard, unico per tutti i comuni,
sarebbero definiti, fra gli altri, i criteri generali per
l'individuazione e la definizione dei parametri urbanistici
ed edilizi, applicabili sull'intero territorio nazionale, le
caratteristiche e i requisiti igienico-sanitari, di
sicurezza e di accessibilità (barriere architettoniche), gli
elementi costitutivi o di corredo delle costruzioni, ma
anche gli incentivi per il recupero del patrimonio edilizio
esistente e la riduzione del consumo del suolo, le misure
per il risparmio energetico, per la bioedilizia, le fonti
rinnovabili e per la qualità architettonica.
Riforma della legge
obiettivo e 3,7 mld
per il rilancio
di opere bloccate
Sarebbe passata la proposta del ministro Lupi di stabilire
per legge una dotazione pari allo 0,3% del prodotto interno
lordo nominale (si stima circa 5,3 miliardi/anno di risorse
certe), per ogni anno finalizzata alla realizzazione delle
infrastrutture strategiche, oltre a una vasta
riprogrammazione delle priorità degli interventi. Per
garantire la continuità dei cantieri in corso (opere ancora
non completate) e per concludere atti contrattuali
finalizzati all'avvio dei lavori, vengono stanziati 3,7
miliardi di euro fino al 2019.
Per le concessioni si
stabilisce la «caducazione» del contratto, con la
possibilità dell'ente concedente di rimettere in gara
l'intera opera affidata in concessione, laddove, entro tre
anni dall'approvazione del progetto definitivo da parte del
Cipe, la sostenibilità economico finanziaria degli stralci
successivi non sia stata attestata da primari istituti
finanziari.
Piano città,
6.000 campanili
e opere incompiute
Dovrebbero essere inseriti nel pacchetto «Sblocca Italia»
anche il nuovo «Piano città», rivisto nelle priorità e da
allargare anche alle aree urbane del centro-nord, ma vanno
trovati 500 milioni, anche con i fondi di coesione. Previsto
il rilancio del programma 6.000 campanili, anch'esso
rivisitato, che dovrebbe interessare anche gli interventi al
di sotto dei 500 mila euro. Al via anche un programma
triennale per chiudere le opere incompiute segnalate dai
comuni (sarebbero quasi 700 le segnalazioni arrivate) per le
quali occorrerebbero circa un quinto delle risorse
inizialmente stanziate (articolo ItaliaOggi del 29.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: P.a., certificati al canto del cigno.
Vietato chiedere al cittadino dati già presenti in anagrafe.
RIFORMA P.A./ Approvato emendamento M5S al dl. I pensionati
potranno fare gli assessori.
Certificati anagrafici sul viale del tramonto. Grazie allo
scambio di informazioni obbligatorio tra le pubbliche
amministrazioni.
Quello dei data base che non dialogano tra
loro, costringendo i cittadini a file estenuanti per
comunicare alla p.a. informazioni che dovrebbero già essere
in suo possesso, è un problema atavico della burocrazia
italiana. Un problema con cui tutti gli ultimi governi (da
Berlusconi a Monti) hanno dovuto fare i conti anche se con
scarsi successi.
Ora, grazie a un emendamento del Movimento
5 Stelle, nel decreto p.a. approvato venerdì scorso in
commissione alla camera e ora all'esame dell'aula, ha
trovato posto un principio tanto semplice quanto dirompente
nell'impatto sulla vita di tutti i giorni: tutte le
pubbliche amministrazioni (ministeri, enti locali, enti
pubblici, università, enti del Servizio sanitario nazionale)
«non possono richiedere al cittadino informazioni e dati già
presenti all'interno dell'Anagrafe nazionale della
popolazione residente».
Si tratta del mega data base
anagrafico in cui a partire dal 2015 dovranno confluire le
anagrafi comunali, il cui fallimento è stato certificato da
anni di mal funzionamento del sistema Ina-Saia. L'Ina
(Indice nazionale delle anagrafi) a cui i comuni accedevano
attraverso il Saia (Sistema di accesso e interscambio
anagrafico) avrebbe dovuto garantire la cosiddetta
«circolarità anagrafica», che poi altro non è se non un
principio di buon senso che può essere così riassunto:
l'invio di una comunicazione di variazione anagrafica a un
ente connesso al sistema vale per tutti gli altri. Tuttavia,
a giudicare dai tanti disguidi lamentati dagli utenti, la
rete delle anagrafi locali ha bloccato, più che agevolato,
lo scambio di informazioni tra gli uffici pubblici, spesso
in tilt anche solo per un cambio di indirizzo.
Ora l'emendamento dei deputati pentastellati (primi
firmatari Emanuele Cozzolino e Roberta Lombardi), se sarà
confermato dall'aula, prova a cambiare le cose vietando a
tutte le p.a. (quelle dell'elenco contenuto nell'art.1 comma
2 del dlgs 165/2001) di richiedere dati già presenti nell'Anpr.
La commissione affari costituzionali ha messo una pezza a un
altro pasticcio contenuto nel testo originario del decreto
che, come anticipato da ItaliaOggi il 16 luglio, per un
eccesso di zelo, nella lodevole intenzione di limitare il
conferimento di incarichi dirigenziali a chi è andato in
pensione, impediva ai pensionati, non solo pubblici, ma
anche privati, di ricoprire l'incarico di assessore negli
enti locali. Il divieto di «conferire incarichi dirigenziali
o direttivi o cariche in organi di governo delle
amministrazioni» aveva messo in fibrillazione molti comuni,
ma ci ha pensato l'emendamento a firma Lorenzo Basso (Pd) a
chiarire che non si applica ai «componenti delle giunte
degli enti territoriali».
Incarichi e collaborazioni ai pensionati saranno consentiti,
esclusivamente a titolo gratuito e per una durata non
superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso
ciascuna amministrazione.
Nonostante il via libera della prima commissione, il lavoro
di Montecitorio non si annuncia facile. Sono circa 750 gli
emendamenti presentati in aula e sembra che il numero delle
proposte di modifica sia destinato a crescere, tanto che si
fa sempre più concreta l'ipotesi della fiducia. Il dl deve
ancora essere esaminato dal senato e va convertito entro il
24 agosto (articolo ItaliaOggi del 29.07.2014). |
ENTI
LOCALI: Mini-enti, nuova proroga per le gestioni associate.
Una nuova proroga, al 30.09.2014, per le gestioni
associate nei piccoli comuni.
A prevederla è un altro
emendamento (il n. 23.65) al dl 90/2014.
Ricordiamo che l'obbligo di gestire a livello sovracomunale
le funzioni fondamentali, previsto dall'art. 14 del dl
78/2010, interessa tutti i comuni inferiori a 5.000
abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli appartenenti
o appartenuta a comunità montane.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue proroghe:
al momento, delle nove funzioni obbligatorie, tre sono state
associate entro il 31.12.2012, altre tre avrebbero
dovuto esserlo entro il 30 giugno, mentre per le restanti
tre la scadenza è fissata al 31.12.2014.
I nodi, però stanno venendo al pettine solo ora, dato che
funzioni già devolute a livello sovracomunale o erano già
gestite in forma associata (per esempio, servizi sociali) o
sono piuttosto «leggere» (per esempio, protezione civile o
catasto).
Il vero «core business» include le funzioni «pesanti» (come,
ad esempio, amministrazione, gestione finanziaria e
contabile e controllo, servizi pubblici locali,
pianificazione urbanistica ecc.) ed è ancora tutto da
trasferire.
La maggior parte delle amministrazioni interessate è ancora
impreparata a questo passaggio, complice anche la recente
tornata elettorale, che ha interessato circa 4.000 comuni,
molti dei quali soggetti agli obblighi. Inoltre, occorre
ancora assimilare le numerose novità introdotte in materia
dalla recente l 56/2014 (legge Delrio).
Il risultato è che il termine intermedio del 30 giugno è
stato quasi ovunque ignorato. Il legislatore, preso atto di
questa situazione, si è quindi orientato a concedere un
breve extra time, fino alla fine di settembre, ferma
restando la scadenza del 31 dicembre per le restanti tre
funzioni.
Il correttivo fa il paio con quello relativo allo
slittamento dell'obbligo di centralizzazione degli acquisti,
che interessa tutti i comuni non capoluogo. In tal caso, le
scadenze sono due: 01.01.2015 per i beni e i servizi,
01.07.2015 per i lavori (articolo ItaliaOggi del 29.07.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Turnover più soft per gli enti locali con una bassa spesa di
personale.
Limiti al turnover più morbidi per gli enti locali con la
spesa di personale bassa.
È quanto prevede l'emendamento n.
3.35 approvato dalla camera durante i lavori relativi alla
conversione del decreto sulla p.a. (dl 90/2014).
Il
correttivo (inserendo un nuovo comma 557-quater all'art. 1
della legge 296/2006) prevede che le amministrazioni più
virtuose, ovvero quelle nelle quali le uscite per il
personale non superano il 25% della spesa corrente, possano
già da quest'anno procedere ad assunzioni a tempo
indeterminato nel limite dell'80% (anziché del 60%) della
spesa relativa al personale cessato nell'anno precedente.
Dal prossimo anno, inoltre, esse potranno procedere alla
copertura integrale del turnover, con tre anni di anticipo
rispetto agli altri enti. Per questi ultimi, infatti, il dl
90 prevede un turnover del 60% per gli anni 2014-2015,
dell'80% per il biennio 2016-2017, per arrivare al 100% solo
nel 2018.
Non si tratta dell'unica novità introdotta in materia.
Infatti, un altro emendamento approvato (n. 3.71) punta a
modificare il parametro di riferimento per l'obbligo di
riduzione della spesa di personale degli enti soggetti al
Patto di stabilità interno, che non sarà più rappresentato
dalla spesa dell'anno precedente ma dal valore medio del
triennio 2011-2013 (la norma, infatti, si riferisce al
triennio precedente alla sua entrata in vigore). Si passa,
quindi, da un riferimento «mobile» a uno «fisso», come
accade per gli enti non soggetti al Patto, per i quali si
considera la spesa del 2008, in base a quanto previsto dal
comma 562 della stessa legge 296.
Altra novità: il limite previsto per gli enti non soggetti
al Patto viene esteso a tutti i comuni con popolazione fino
a 5.000 abitanti, indipendentemente dal loro assoggettamento
o meno al Patto. Per i mini-enti, quindi, varrà in ogni caso
il riferimento alla spesa di personale 2008.
Altri due emendamenti, invece, mirano a reintrodurre, anche
se solo parzialmente, gli incentivi per la progettazione e i
diritti di rogito per i segretari. Sotto il primo profilo,
viene prevista l'istituzione, da parte di ciascuna
amministrazione, di un fondo per la progettazione e
l'innovazione, in cui far confluire una somma fino al 2%
(tetto già previsto per gli incentivi Merloni) degli importi
posti a base di gara di un'opera o di un lavoro. Di tali
somme, l'80% verrà ripartito al progettisti interni
(compresi anche i dirigenti, che invece il testo vigente del
dl escludeva dal beneficio). Il restante 20% sarà destinato
all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di
implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa per centri di costo
nonché all'ammodernamento ed efficientamento dell'ente e dei
servizi ai cittadini. In ogni caso, gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non potranno
superare, per il personale con qualifica non dirigenziale,
l'importo del 50% e, per il personale con qualifica
dirigenziale, l'importo del 25% del trattamento economico
complessivo annuo lordo.
Quanto ai diritti di rogito, si prevede che possano essere
attribuiti negli enti locali privi di dipendenti con
qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari
comunali che non hanno qualifica dirigenziale, in misura non
superiore a un quinto dello stipendio in godimento. Negli
altri casi, viene confermata l'irretroattività del taglio
per le quote già maturate. Infine, viene esplicitato
(mediante una modifica all'art. 97, comma 4, del Tuel) che
il segretario ha l'obbligo (e non la mera facoltà) di
rogare, su richiesta, tutti i contratti nei quali l'ente è
parte (articolo ItaliaOggi del 29.07.2014). |
APPALTI:
Per i ricorsi sugli appalti il rischio di un giudizio Ue.
Il
T.R.G.A. Trentino Alto
Adige-Trento, con
ordinanza 29.01.2014 n. 23 ha chiesto al segretario
generale del Tribunale regionale di giustizia amministrativa
se i principi fiscali della direttiva Ue del Consiglio 21.12.1989 (successiva modificazione e integrazione)
ostino a una normativa quale quella delineata dagli articoli
13 e 14 del Dpr 30.05.2002, n. 115 (come
progressivamente novellato dagli interventi legislativi
successivi) che hanno stabilito elevati importi di
contributi unificati per l'accesso alle giustizie
amministrative in materia di contratti pubblici.
L'articolo 13, comma 1, del Dpr 115 ha introdotto un nuovo
regime di tassazione degli atti giudiziari, costituito da
«contributo unificato» fissato in proporzione al valore
della controversia, rispetto al sistema preesistente basato
sul pagamento di una semplice marca da bollo.
Con la legge finanziaria (2007) il contributo unificato per
i processi amministrativi, diversamente da quanto previsto
per i processi civili, è stato svincolato dal valore della
controversia. Il legislatore ha adottato il differente
criterio per materia e ulteriormente distinto l'entità del
contributo unificato dovuto secondo un'ulteriore
differenziazione delle materie. Per i ricorsi proposti
davanti al Tar e al Consiglio di Stato il contributo è stato
ordinariamente dovuto in misura fissa. Per materia
particolare sono stabiliti importi diversi. Nel settore
degli appalti il contributo è stato aumentato fino a 2mila,
cioè il quadruplo per i ricorsi di quanto dovuto per i
ricorsi soggetti al rito ordinario e del sestuplo per quelli
agevolati.
Successivamente l'articolo 15 del decreto legislativo 20.03.2010, n. 53 ha disposto che il contributo unificato
fosse dovuto non solo all'atto dell'iscrizione del ricorso
introduttivo del giudizio, ma anche «per quello incidentale
e i motivi aggiunti che introducono domande nuove». E qui
comincia una serie di aumenti scriteriati specie in tema di
appalti: 2mila quando l'appalto è pari o inferiore a
200mila; 4mila per controversia di valore compreso tra
200mila e un milione; 6mila per quelli di valore superiore
al milione. Tali importi aumentano del 50% per i giudizi
d'appello. La legge ha aggiunto una sorta di sanzione
occulta o indiretta in caso di impugnazione in appello
dichiarata infondata, inammissibile o improcedibile. Tale
norma prevede che «quando l'impugnazione, anche incidentale,
venga respinta o integralmente dichiarata inammissibile o
improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o
incidentale». Tale norma, dice il Tar di Trento, è
rivelatrice di un intento quasi intimidatorio a non
insistere nell'azione giudiziaria intrapresa e a non
"disturbare" oltre il giudice. Come tale, sintomo ulteriore
dell'iniquità dell'intera disciplina. Dall'esame che
precede, dice il Tribunale, emerge un quadro assai
frastagliato, non sempre logico né coerente nella
determinazione e nella diversificazione degli importi del
contributo unificato dal quale, comunque, sbocca l'evidente
sproporzionata penalizzazione nella tassazione davanti al
giudice amministrativo soprattutto in materia di contratti
pubblici. Tale impianto legislativo pone evidenti problemi
di conformità ai parametri e principi dell'ordinamento
comunitario, ancor prima che di conformità ai precetti
costituzionali.
L'eccessiva somma da versare, non solo all'atto di deposito
del ricorso principale, ma per il deposito di ogni atto per
motivi aggiunti o ricorso incidentale, nonché nella fase
eventuale di appello incidentale, incide in modo decisivo e
intollerabile: a) sul diritto di agire in giudizio; b) sulle
strategie dei difensori; c) sulla pienezza ed effettività
del controllo giurisdizionale sugli atti della pubblica
amministrazione e sull'osservanza dello stesso principio
costituzionale del buon andamento, al qual si collega
strumentalmente il diritto a una tutela giurisdizionale
effettiva.
Il continuo e progressivo aumento del contributo unificato
con i diversi interventi normativi sembra in contrasto con i
principi comunitari di proporzionalità e di divieto di
discriminazione, nonché con il principio dell'effettività
della tutela giurisdizionale che è centrale nella logica
della stessa direttiva 89/665. È opinione diffusa in
dottrina, tra gli operatori giuridici e tra gli stessi
magistrati che il legislatore italiano abbia voluto
ostacolare l'accessibilità ai mezzi di ricorso in materia di
appalti rispetto alle altre materie del contenzioso
amministrativo mediante una tassazione esagerata, illogica,
iniqua e sproporzionata con la finalità di definire il
contenzioso e di non intralciare soverchiamente l'apparato
burocratico nel realizzare opere pubbliche. In conclusione
esistono tutte le condizioni perché la vicenda sia rimessa
all'esame della Corte di giustizia europea (articolo Il Sole 24 Ore del 29.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Scia e permessi, tutto in uno.
Gli adempimenti edilizi diventano standard e omogenei.
Operativi i modelli unificati per l'istanza e la
segnalazione certificata di inizio attività.
Schemi unici nazionali per la presentazione dell'istanza del
permesso di costruire e per la Scia (Segnalazione
certificata di inizio attività). Inoltre, adesso le regioni
potranno, se del caso, adeguare i moduli nazionali alle
singole normative settoriali. E nel ddl di riforma della
p.a. è previsto però un nuovo intervento normativo
finalizzato a una precisa indicazione dei procedimenti
oggetto di segnalazione di inizio attività.
Diventano quindi operativi i modelli unificati approvati a
seguito dell'accordo del 12.06.2014 siglato tra il
governo, le regioni e gli enti locali, concernente
l'adozione di moduli unificati e semplificati per la
presentazione dell'istanza del permesso di costruire e della
segnalazione certificata di inizio attività (Scia) edilizia,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 161 del 14.07.2014 (Suppl. ordinario n. 56).
L'effetto, di notevole rilevanza, è quello di procedere a
una standardizzazione e omogeneizzazione degli adempimenti
in ambito edilizio e quindi di mettere a disposizione di
ogni comune identici moduli per gli stessi procedimenti. La
base giuridica di questo intervento semplificatorio,
fortemente richiesto dalle categorie professionali (Cnappc,
Consiglio nazionale degli architetti, in testa), risale a
uno dei numerosi decreti-legge del governo Monti (il decreto
«sviluppo n. 5/2012) che prevedeva l'impegno per il governo
ad adottare i moduli semplificati e unificati per la
presentazione dell'istanza di permesso di costruire e della
segnalazione certificata di inizio attività (Scia), di cui
al dpr n. 380/2001, alla legge n. 241/1990 e al dpr n.
160/2010.
La disciplina del 2012 stabilisce anche che le
regioni debbano adeguare, in relazione alle specifiche
normative regionali di settore, i contenuti dei quadri
informativi dei moduli semplificati e unificati, di cui
all'accordo, utilizzando i quadri e le informazioni
individuati come variabili. Tutto ciò se le regioni,
chiamate anche a dare massima diffusione ai moduli, lo
ritengano necessario (se non possono semplicemente adottare
i moduli nazionali). Saranno poi gli enti locali ad adeguare
la modulistica in uso sulla base delle previsioni
dell'accordo. In sostanza, quindi adesso starà alle regioni
procedere in uno dei due modi previsti dalla legge e
successivamente agli enti locali adeguare la modulistica in
essere alla nuova pubblicata sulla gazzetta ufficiale.
Infatti i modelli allegati all'accordo del 12.06.2014 e
adesso in gazzetta hanno delle parti fisse identiche per
tutti e delle parti «variabili» che le regioni possono
cambiare in relazione alle specifiche normative regionali di
settore. I comuni adeguano i propri moduli sostituendoli con
quelli approvati. Il varo dei moduli unificati, sotto
l'impulso del ministro per la semplificazione Maria Elena
Boschi, arriva in contemporanea con la pubblicazione del dl
n. 90/2014, in corso di conversione in legge da parte del
parlamento, che all'articolo 24 prevede che sia messa a
disposizione degli enti locali la stessa documentazione per
la richiesta del permesso di costruire e per la
presentazione della Scia in ambito edilizio.
In particolare
il comma 3 dell'articolo 24, rubricato «Agenda della
semplificazione amministrativa e moduli standard»,
stabilisce: «Il governo, le regioni e gli enti locali, in
attuazione del principio di leale collaborazione,
concludono, in sede di Conferenza unificata, accordi ai
sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281 o intese ai sensi dell'articolo 8 della legge
05.06.2003, n. 131, per adottare, tenendo conto delle
specifiche normative regionali, una modulistica unificata e
standardizzata su tutto il territorio nazionale per la
presentazione alle pubbliche amministrazioni regionali e
agli enti locali di istanze, dichiarazioni e segnalazioni
con riferimento all'edilizia e all'avvio di attività
produttive. Le pubbliche amministrazioni regionali e locali
utilizzano i moduli unificati e standardizzati nei termini
fissati con i suddetti accordi o intese».
Nel merito del
contenuto dei modelli si tratta nella sostanza degli stessi
contenuti già noti fino a oggi: la richiesta (per il
permesso di costruire) e la segnalazione (di inizio
attività), con le dichiarazioni di prassi e i numerosi
allegati, fra cui un rilievo centrale è rappresentato dalla
relazione tecnica di asseverazione. Corredata anche da
elaborati grafici e fotografie, che deve essere fornita da
un professionista abilitato, dalle ricevute di pagamento dei
diritti di segreteria e dal documento di identicità del
richiedente.
---------------
Al lavoro per un nuovo intervento di semplificazione e
razionalizzazione.
In vista un nuovo intervento di semplificazione e
razionalizzazione sulla Scia. È quanto prevede il disegno di
legge di riorganizzazione della pubblica amministrazione,
approvato dal Consiglio dei ministri del 10 luglio scorso,
che contiene una apposita norma dedicata alla segnalazione
certificata di inizio attività e al silenzio assenso.
In particolare, stando all'ultima versione disponibile del
disegno di legge, si prevede una delega al governo
finalizzata ad adottare entro un anno dall'approvazione del
disegno di legge, un decreto legislativo «per la precisa
individuazione dei procedimenti oggetto di segnalazione
certificata di inizio attività o di silenzio assenso ai
sensi degli articoli 19 e 20 della legge 07.08.1990, n.
241».
La delega dovrà essere attuata partendo dai «principi e
criteri direttivi desumibili dagli stessi articoli, dai
principi del diritto europeo relativi all'accesso alle
attività di servizi e dai principi di ragionevolezza e di
proporzionalità». Il ministro proponente sarà quello per la
semplificazione di concerto con il ministro dell'interno e
sarà necessario anche in questo caso, come per i modelli
unificati, acquisire il parere della Conferenza unificata,
oltre che del Consiglio di stato (con un limite di tempo
massimo per l'emissione dei pareri fissato in 45 giorni).
Una volta acquisiti i pareri il testo dovrà poi essere
trasmesso alle commissioni parlamentari competenti.
La norma voluta dal ministro Maria Elena Boschi (nella foto)
prevede anche la possibilità di apportare correttivi al
decreto delegato entro i successivi dodici mesi. Appare
evidente come anche questo nuovo intervento normativo si
ponga in linea con le più recenti scelte di politica
legislativa che ripongono notevoli aspettative su questo
strumento di semplificazione soprattutto per favorire il
rilancio della produzione e degli scambi economici.
L'intervento di ulteriore razionalizzazione della materia ha
quindi lo scopo di fissare a livello normativo primario, con
«precisione», quali dovranno essere i procedimenti oggetto
di Scia, la Segnalazione certificata di inizio attività che
consente di iniziare, modificare o cessare un'attività
produttiva (artigianale, commerciale, industriale), senza
dover più attendere i tempi e l'esecuzione di verifiche e
controlli preliminari da parte degli enti competenti.
In
base alla normativa vigente il soggetto può dare inizio
all'attività, mentre l'amministrazione, in caso di accertata
carenza dei requisiti e dei presupposti legittimanti, nel
termine di sessanta giorni dal ricevimento della
segnalazione (trenta giorni nel caso di Scia in materia
edilizia), adotta motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali
effetti dannosi di essa, salva la possibilità che
l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente
detta attività e i suoi effetti entro un termine fissato
dall'amministrazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.07.2014). |
APPALTI: Gli acquisti che possono dribblare il blocco.
Centrali. Proroga.
Dal 1° luglio i Comuni
non capoluogo devono procedere all'acquisto di beni, servizi
e lavori nell'ambito di unioni, accordi consortili, soggetti
aggregatori, province oppure, in alternativa, tramite Mepa,
come chiede l'articolo 33, comma 3-bis, del Dlgs 163/2006
modificato dall'articolo 9, comma 4, del Dl 66/2014. In caso
contrario, non riceveranno il Cig dall'Autority.
La finalità
della norma è ottenere risparmi di spesa attraverso
l'aumento di efficienza nella gestione delle gare,
accentrandole in capo a soggetti o uffici ad hoc. Ad oggi,
però, i risparmi attesi non derivano da economie di scala,
bensì dalla paralisi dell'attività contrattuale che si è
determinata per effetto di una norma che ha spiazzato tutti,
visti i tempi ristretti di attuazione e la mancanza di
alternative, in particolare per i lavori.
La richiesta di
ANCI di rinviare l'entrata in vigore al 2015 (1° gennaio per
acquisto di beni e servizi e 1° luglio per i lavori) è stata
accolta formalmente in sede di Conferenza Stato Città
Autonomie locali il 10 luglio scorso e trasformata in un
emendamento inserito nel Dl 90/2014; tuttavia, il Presidente
dell'Anac ha ribadito che fino a quando le nuove regole non
saranno in vigore, l'Autorità dovrà seguire il vincolo di
legge e non rilasciare il Cig.
Questo significa nei fatti ripartire davvero a settembre, ma
anche in vigenza dell'attuale formulazione il Comune ha
qualche possibilità per procedere autonomamente. Gli spazi
sono limitati, ma visto che l'articolo 33, comma 3-bis, è
inserito nel Codice dei contratti, l'acquisto accentrato non
dovrebbe essere obbligatorio quando non è riconducibile a un
appalto, come nel caso degli acquisti economali (purché
tipicizzati nel regolamento dell'ente) di incarichi
professionali, lavoro accessorio, locazioni, ecc. per i
quali non deve essere richiesto neanche il Cig. Sarebbe
esclusa dalla procedura centralizzata anche
l'amministrazione diretta (se non si utilizzano beni e
servizi di terzi).
Nessuna deroga è invece possibile per gli
affidamenti diretti sotto i 40mila euro che, come ha
precisato la Corte dei Conti (sezione Piemonte n. 144/2014)
mutando il proprio orientamento, sono soggetti alla nuova
disciplina avente carattere di specialità. Anche per questi
la soluzione arriverà solo con l'entrata in vigore della
legge di conversione del Dl 90/2014.
Per l'acquisto di beni e servizi, il Comune non capoluogo
può poi procedere attraverso strumenti elettronici di
acquisto gestiti da Consip (Mepa) o anche da altro soggetto
aggregatore di riferimento, cioè la centrale di committenza
regionale iscritta di diritto (una per regione) nell'elenco
tenuto dall'Autorità. Dove le Regioni le hanno istituite (ad
esempio in Lombardia), gli enti possono avvalersi degli
strumenti elettronici da queste gestiti che, a differenza
del Mepa, permettono l'acquisto di beni e servizi anche
fuori da cataloghi preesistenti attraverso il lancio di
offerte. Di conseguenza, considerando che l'aumento di
efficienza non deve essere visto solo nell'acquisto
accentrato ma anche attraverso l'utilizzo di sistemi
efficienti e trasparenti, il Comune potrebbe espletare le
proprie gare in autonomia sulla piattaforma elettronica
della centrale di committenza. Anche per i lavori, una volta
gestiti dal soggetto aggregatore, potrà ricorrersi al
mercato elettronico.
È però auspicabile che entro il 2015 siano adottate
soluzioni tecniche e normative che concilino le esigenze di
riduzione e razionalizzazione della spesa con quelle di
autonomia negoziale dei Comuni e di funzionalità complessiva
del sistema (articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ora il premio all'avvocato trova il tetto nel compenso.
Incentivi. Il correttivo non risolve i problemi.
L'emendamento approvato
in commissione Affari costituzionali di Montecitorio
all'articolo 9 del decreto sulla Pubblica amministrazione
90/2014 sui compensi per l'avvocatura non risolve i tanti
problemi emersi negli enti locali. Se già la prima stesura
della norma denotava molta frettolosità da parte del
legislatore, la versione destinata alla conversione innesca
un meccanismo a dir poco complicato: il parallelismo
insistito fra l'Avvocatura di Stato e quelle degli enti
territoriali, infatti, continua a caratterizzare la nuova
regola, e a penalizzare gli avvocati "locali".
Va solo apprezzato il tentativo di stabilire con una certa
chiarezza i destinatari dei compensi professionali, e il
contestualizzare in un'unica disposizione di legge i
principi finalizzati all'erogazione delle somme. Per il
resto, è davvero una matassa difficile da sbrogliare.
La premessa è d'obbligo: i compensi professionali
corrisposti agli avvocati delle pubbliche amministrazioni,
rientrano nel computo del limite del massimo del trattamento
economico annuo onnicomprensivo, parametrato a quello del
primo presidente della Corte di cassazione, attualmente
240mila euro al lordo degli oneri previdenziali e fiscali:
livelli ovviamente lontanissimi a quelli raggiunti dalle
avvocature locali.
A questo punto, si aprono due nette casistiche.
Nei casi di pronunciata compensazione integrale delle spese,
compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle
Pubbliche amministrazioni, non è possibile riconoscere alcun
compenso professionale.
Esclusivamente nei giudizi di natura previdenziale e
assistenziale, possono essere corrisposte somme in base a
norme regolamentari o contrattuali, ma solamente nel limite
dello stanziamento previsto; quest'ultimo non può comunque
superare il 50% del corrispondente stanziamento dell'anno
2013. Queste previsioni si applicano alle sentenze
depositate dopo la data di entrata in vigore del decreto.
In caso, invece, di sentenza favorevole con recupero delle
spese legali a carico delle controparti, sarà possibile
ripartire le somme recuperate tra gli avvocati dipendenti
delle Pubbliche amministrazioni, enti locali compresi. La
misura e il modo di questo riparto, dovrà però essere
stabilito dai contratti collettivi (nazionali o
integrativi?) in modo da consentire l'attribuzione a ciascun
avvocato di una somma non superiore al suo trattamento
economico complessivo.
In modo particolare, questa contrattazione dovrà tener conto
del rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente
misurabili che si basino, tra l'altro, sulla puntualità
negli adempimenti processuali. Altri criteri dovranno essere
individuati ai fini dell'assegnazione degli «affari
consultivi e contenziosi», da operare attraverso sistemi
informatici e secondo principi di parità di trattamento e di
specializzazione contrattuale. Queste indicazioni appaiono,
peraltro, particolarmente fumose.
Arriva, da ultimo, la mannaia. I contratti collettivi hanno
tre mesi di tempo per adottare la specifica disciplina.
Senza adeguamento, dal 01.01.2015, le amministrazioni
pubbliche non potranno corrispondere compensi professionali
agli avvocati dipendenti (articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarti agricoli sdoganati. Consentiti i cumuli fino a tre
metri a ettaro. DECRETO COMPETITIVITÀ/Semplificazioni in vista per gli
imballaggi.
Raggruppare nei campi cataste di materiale agricolo
derivante da lavorazione, in misura non superiore a tre
metri di altezza sarà considerata una normale e consentita
attività agricola di concimazione e non più una operazione
da trattare con le pinze, perché rientrante nell'ambito
della gestione dei rifiuti. Inoltre, presto arriverà un
decreto per semplificare le operazioni di trasporto,
stoccaggio e preparazione per il riutilizzo degli imballaggi
e dei rifiuti di imballaggio non pericolosi prodotti
nell'ambito delle attività delle imprese. Nel provvedimento
verrà previsto che il deposito dei rifiuti presso il luogo o
i luoghi di raggruppamento iscritti nell'apposita sezione
dell'Albo nazionale gestori ambientali non sia soggetto ad
autorizzazione a condizione che vengano rispettati i limiti
quantitativi e temporali e le ulteriori condizioni per il
deposito temporaneo dei rifiuti e con l'adozione di un
documento semplificato di trasporto. Unico neo è che sarà
necessario un ulteriore decreto di attuazione.
Sono tutte novità inserite nel testo finale del dl
Competitività, per come emendato al Senato, dove ieri ha
incassato il voto di fiducia dell'aula. Ora il testo passa
alla Camera.
Non si tratta di grandi misure generali, ma di norme che
affrontano diverse situazioni particolari.
Un capitolo, si diceva in principio, riguarda novità
introdotte riguarda il campo agricolo. Infatti, le attività
di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in
quantità giornaliere non superiori a tre metri per ettaro
dei materiali agricoli effettuate nel luogo di produzione,
ora costituiscono normali pratiche agricole consentite per
il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti. Resta
fermo che nei periodi di massimo rischio per gli incendi
boschivi, dichiarati dalle Regioni, la combustione di
residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.
Inoltre, gli imprenditori agricoli potranno sostituire il
registro di carico e scarico con la conservazione della
scheda Sistri in formato fotografico digitale inoltrata dal
destinatario. L'archivio informatico è accessibile online
sul portale del destinatario, in apposita sezione, con nome
dell'utente e password dedicati.
Nuove norme anche per le operazioni di prelievo,
raggruppamento, cernita è deposito preliminari alla raccolta
di materiali o sostanze naturali derivanti da eventi
atmosferici o meteorici, ivi incluse mareggiate e piene,
anche ove frammisti ad altri materiali di origine antropica
effettuate, nel tempo tecnico strettamente necessario,
presso il medesimo sito nel quale detti eventi li hanno
depositati, che non costituiranno attività di gestione dei
rifiuti.
Dagli aventi atmosferici, si passa ai materiali dragati.
Essi se sono sottoposti a operazioni di recupero in casse di
colmata o in altri impianti autorizzati ai sensi della
normativa vigente, cessano di essere rifiuti se, all'esito
delle operazioni di recupero, che possono consistere anche
in operazioni di cernita e selezione, soddisfano e sono
utilizzati rispettando i requisiti e condizioni previste per
legge. Questi materiali durante la movimentazione saranno
accompagnati unicamente da una comunicazione di e dal
documento di trasporto o da copia del contratto di trasporto
redatto in forma scritta o dalla scheda di trasporto.
Quindi, due altre nuove misure piccole, ma non
insignificanti. Nel caso di trasporto transfrontaliero il
ritorno del formulario dovrà avvenire entro il termine
standard di tre mesi, previsto per le tratte nazionali e non
più sei mesi come previsto fino ad oggi per l'export dei
rifiuti. Ricordiamo che detta modalità è rilevante per
determinare correttamente la responsabilità del produttore.
Infine, relativamente all'esecuzione del test di cessione
previsto dall'articolo 9 del decreto ministeriale 5 febbraio
1998 sulle procedure semplificate sul recupero dei rifiuti
non pericolosi non verrà più considerato il parametro
amianto
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2014). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Tornano
i premi ai progettisti.
Tornano gli incentivi ai progettisti delle pubbliche
amministrazioni, che erano spariti a metà nella versione
originaria del decreto, erano stati cancellati del tutto da
un primo emendamento approvato in commissione Affari
costituzionali alla Camera e ora rientrano in campo,
riservati sempre ai non dirigenti. Su un'altalena simile
salgono i diritti di rogito dei segretari comunali, che un
altro emendamento approvato ieri resuscita ma solo nei
piccoli Comuni.
Lo yo-yo su premi e voci aggiuntive negli stipendi dei
dipendenti pubblici, che nei giorni scorsi ha riguardato
anche gli avvocati dello Stato e degli enti territoriali, è
insomma il filo rosso nei lavori di Montecitorio sulla legge
di conversione al decreto di riforma della Pubblica
amministrazione.
Per i progettisti interni gli incentivi nuovo modello, che
non potranno far crescere la busta paga di oltre il 50%,
sono stati inseriti ieri con l'articolo 13-bis della legge
di conversione, che permette a ogni amministrazione di
istituire un «fondo per la progettazione e l'innovazione»,
in cui far confluire una somma fino al 2% del valore posto a
base di gara per l'opera o il lavoro. Il tetto è lo stesso
previsto nei vecchi «incentivi Merloni», ripresi
dall'articolo 92 del Codice dei contratti pubblici nella
parte ora abrogata, ma non tutta la somma finirà nelle buste
paga dei progettisti; rispetto alle vecchie regole, del
resto, si restringe anche la platea, che ora esclude i
dirigenti.
Il fondo sarà diviso in due quote: la prima, pari
all'80%, servirà per i premi, mentre il resto andrà dedicato
all'acquisto di «strumentazioni e tecnologie» per
ammodernare ente, servizi e controlli sui centri di costo.
Un meccanismo analogo potrà essere adottato anche dai
concessionari di servizi pubblici e dalle società con
capitale pubblico, anche quelle miste in cui i soci privati
sono la maggioranza, purché operino fuori dagli ambiti di
libera concorrenza: si tratta di un'estensione inedita, che
può "premiare" le società strumentali e le in house, mentre
sembra difficile da applicare anche alle società miste.
Gli incentivi, in ogni caso, provano almeno sulla carta a
seguire la strada della "meritocrazia": le Pa dovranno
scrivere nuovi regolamenti per l'assegnazione dei premi,
legando i criteri di riparto soprattutto alle prestazioni
«non rientranti nella qualifica funzionale» del "premiato",
e il dirigente o il responsabile del servizio possono
riconoscere l'incentivo solo dopo aver verificato che
l'attività aggiuntiva è stata davvero svolta. Il
regolamento, inoltre, deve prevedere tagli ai premi quando
crescono i tempi o i costi di realizzazione, a meno che
ritardi e oneri aggiuntivi non dipendano da nuove regole o
da imprevisti geologici e idrici.
Un ritorno a metà è previsto, come accennato, anche per i
diritti di rogito dei segretari: l'emendamento approvato
ieri li prevede solo per gli enti più piccoli, in cui non ci
siano altri dirigenti, perché negli altri casi i meccanismi
di adeguamento della retribuzione del segretario a quella
del dirigente già alza il trattamento economico. Un via
libera in tutti gli enti, del resto, avrebbe smentito il
taglio annunciato da Renzi nella conferenza stampa di
presentazione del decreto Pa, ma quando si prevedono
meccanismi retributivi diversi all'interno della stessa
categoria il contenzioso è dietro l'angolo
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni a termine negli enti. Niente paletti per i
virtuosi. Più vigili nei piccoli comuni.
Le ultime modifiche alla riforma della p.a. puntano a
flessibilizzare il fabbisogno di personale.
Si aprono spazi per le assunzioni a tempo determinato nei
comuni. Gli emendamenti approvati dalla commissione affari
costituzionali della camera al disegno di legge di
conversione del dl 90/2014 sulla riforma della pubblica
amministrazione puntano a flessibilizzare il fabbisogno di
personale negli enti locali, sulla consapevolezza che le
maglie per le assunzioni sono divenute, ormai, troppo
strette.
Più assunzioni a tempo determinato per comuni virtuosi. Un
primo emendamento stabilisce che le limitazioni alla spesa
per assunzioni di personale flessibile previste
dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, convertito in
legge 122/2010 non si applicano agli enti locali in regola
con l'obbligo di riduzione delle spese di personale di cui
ai commi 557 e 562 della legge 296/2006, nell'ambito delle
risorse disponibili a legislazione vigente.
Dunque, saranno esentati dal contenimento della spesa nel
limite del 50% di quanto speso nel 2009 i comuni che avranno
garantito la costante riduzione della spesa di personale, se
soggetti al patto di stabilità, oppure non avranno valicato
il corrispondente ammontare dell'anno 2008, se non soggetti
al patto.
Stagionali nei piccoli comuni. Sempre nell'ottica di flessibilizzare le esigenze organizzative delle
amministrazioni locali, si consente ai comuni di piccola
dimensione di fare fronte alle esigenze «stagionali».
Uno degli emendamenti approvati prevede che a decorrere dal
2014, le disposizioni di cui all'articolo 1 comma 557 della
legge 296/2006 in materia di riduzione delle spese dei
personale, non si applicano ai comuni con popolazione
compresa tra i 1.001 e i 5.000 abitanti, limitatamente alle
sole spese di personale stagionale assunto con forme di
contratto a tempo determinato. Questo, però, a condizione
che tali assunzioni risultino (occorreranno specifiche
motivazioni) strettamente necessarie a garantire l'esercizio
delle funzioni di polizia locale in ragione di motivate
caratteristiche socio-economiche e territoriali connesse a
significative presenze di turisti, nell'ambito delle risorse
disponibili a legislazione vigente.
Demansionamenti e rimansionamenti. Tra gli emendamenti
approvati, si limita il demansionamento previsto per evitare
la messa in disponibilità (che prelude al licenziamento) a
un solo livello professionale.
Più rilevante, tuttavia, è la previsione che consentirà al
personale demansionato di «recuperare» il livello
professionale perduto, attraverso la mobilità volontaria. Si
stabilisce infatti che il personale demansionato e
ricollocato nell'ente che lo dichiara in esubero non ha
diritto all'indennità di cui all'articolo 33, comma 8, del
dlgs 165/2001, ma mantiene il diritto di essere
successivamente ricollocato nella propria originaria
qualifica e categoria di inquadramento, anche attraverso le
procedure di mobilità volontaria di cui all'articolo 30,
verso altri enti.
Nuovo slancio allo spoils system. Dopo l'abnorme estensione
della possibilità per gli enti locali di assumere dirigenti
esterni fino al 30% della dotazione organica, gli
emendamenti facilitano ulteriormente i reclutamenti a tempo
determinato.
Si prevede, infatti, di sostituire l'articolo 110, comma 5,
del dlgs 267/2000 prevedendo che per il periodo di durata
non solo degli incarichi a contratto in ed extra dotazione
organica, ma anche per gli incarichi di direttore generale i
dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in
aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell'anzianità
di servizio.
Indennizzi agli emotrasfusi. Intanto ieri il ministro della
salute Beatrice Lorenzin ha presentato un emendamento per
riconoscere ai pazienti danneggiati da emotrasfusioni
infette e da vaccinazioni obbligatorie un'equa riparazione
una tantum pari, rispettivamente, a 100 mila euro e 20 mila
euro per ciascun danneggiato. L'emendamento intende
sbloccare l'iter dei ristori economici per circa 6.500
cittadini che hanno presentato domanda entro il 19.01.2010
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2014). |
ENTI LOCALI: In arrivo la due diligence sui tagli alle province. Ma farà
capire che è insostenibile il trasferimento delle funzioni a
regioni e municipi.
I nodi dell'irrazionale riforma Delrio e delle altre manovre
di «accerchiamento» delle province stanno iniziando a venire
al pettine, come era facile prevedere.
Mentre ancora l'identificazione delle funzioni provinciali
da trasferire non è pervenuta (il termine previsto
inizialmente era l'8 luglio) si inizia a parlare di una
bizzarra «due diligence» delle province, per verificare la
sostenibilità dei tagli apportati dal dl 66/2014, convertito
in legge 89/2014.
A partire dal dl 95/2012, la spending review del governo
Monti, nel volgere di pochissimi anni, a ben vedere, sulle
province si sono abbattuti tagli per complessivi 2,5
miliardi, tanto che la spesa di tali enti, è passata dai
circa 13 miliardi del 2011 ai 10 miliardi circa attuali.
Un ridimensionamento della spesa quasi del 30%, che non
conosce il suo pari in nessun altro ente locale o nello
stato.
È evidente che in queste condizioni, la «due diligence»
avrebbe dovuto essere fatta ben prima dell'emanazione del dl
66/2014.
Basti pensare che ai tagli poderosissimi già previsti, il
decreto ha imposto ulteriori contenimenti alla spesa per
beni e servizi (attraverso corrispondenti diminuzioni delle
entrate) per 444,5 milioni su una spesa, sempre di beni e
servizi di 3,3 miliardi, con un'incidenza del 13,5%. Nei
confronti dei comuni, gli analoghi tagli alle spese e
servizi ammontano a 360 milioni a fronte, però, di 28
miliardi di spesa complessiva a tale titolo, con
un'incidenza dell'1,28%.
Altrettanto evidente è che i tagli effettuati risultano
sicuramente eccessivi ed ora pongono problemi non secondari
per l'assegnazione delle funzioni oggi provinciali ad altri
enti.
La questione è semplice, nella sua delicatezza: se
l'ammontare complessivo della spesa sostenuta dalle province
per svolgere le loro funzioni è all'evidenza insufficiente
per garantire che tali funzioni siano svolte tutte ed
efficacemente, già in partenza si sa che l'assegnazione di
dette funzioni a comuni o regioni avverrà in deficit. Non
saranno, cioè, sufficientemente «accompagnate» dalle
dotazioni finanziarie occorrenti.
Regioni e comuni stano iniziando ad accorgersi che la
coperta è corta e che il subentro nelle province rischia di
rivelarsi tutt'altro che un buon affare per i già disastrati
loro bilanci.
E si brancola totalmente nel buio anche sul merito delle
funzioni provinciali da trasferire e a chi. Uno tra i nodi
più complicati è comprendere che fine farà la funzione
connessa col mercato del lavoro. Per un verso, non c'è
accordo tra stato e regioni sulla titolarità della funzione.
Infatti, ai sensi dell'articolo 117, comma 3, della
Costituzione spetta alle regioni la potestà legislativa
concorrente in tema di «tutela e sicurezza del lavoro»,
nella quale si fa ricadere la competenza sulle politiche
attive. Per altro verso, tuttavia, lo stato ha già abbozzato
la legge delega di riforma del mercato del lavoro, all'esame
del senato, la creazione di un'Agenzia nazionale per il
lavoro, nella quale dovrebbero confluire i dipendenti
provinciali operanti nei servizi per il lavoro. Si tratta di
circa 7.000 sui 56.000 dipendenti provinciali, il 12,5% del
totale.
L'incertezza sulle funzioni connesse al lavoro (l'Agenzia
verrebbe costituita non prima dei sei mesi che la legge
delega concede per l'emanazione del decreto legislativo
attuativo) è, dato l'elevato numero dei dipendenti
interessati, un elemento che condiziona di molto
l'attuazione della legge Delrio, ma non il solo.
Il legislatore si dimostra particolarmente incoerente col
disegno di riduzione delle funzioni provinciali, perché la
stessa legge Delrio attribuisce alle province
sostanzialmente il ruolo potenziale di autorità di gestione
dei servizi pubblici locali di rilievo economico; il dl
66/2014, convertito in legge 89/2014 ha enfatizzato, a sua
volta, proprio il ruolo delle province come possibili
centrali per gli appalti dei comuni non capoluogo.
Ovviamente, l'incrocio delle incertezze su quali siano
effettivamente le funzioni provinciali da trasferire, la
sorte delle funzioni connesse al mercato del lavoro, le
conseguenze delle nuove competenze accentuano non poco il
caos annunciato della riforma Delrio
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Statali, mobilità soft per chi ha figli piccoli.
Decreto Pa. I criteri per spostare i lavoratori pubblici in
un raggio di 50 km andranno concordati con i sindacati.
La mobilità per i
dipendenti pubblici diventa un po' meno obbligatoria. Almeno
per i genitori con figli sotto i 3 anni o afflitti da
disabilità. E per tutti gli altri statali servirà comunque
un accordo con i sindacati.
A prevederlo sono due modifiche
che la commissione Affari costituzionali della Camera ha
apportato ieri sera al decreto Pa. Un provvedimento che si
avvia, lentamente e senza grandi stravolgimenti, al
traguardo. Salvo sorprese dell'ultim'ora, l'ok in sede
referente è previsto per oggi così da confermare l'approdo
in aula del testo per lunedì 28 quando molto probabilmente
sarà posta la fiducia. E, per un nodo che si avvicina alla
soluzione (le Camere di commercio), ce n'è un altro che
resta da sciogliere (il pensionamento dei magistrati).
Il tema dell'inclusione dei giudici e dei pm tra le
categorie di dipendenti pubblici che non potranno più
restare in servizio oltre i limiti d'età è stato rilanciato
ieri dal Csm. In una delibera della Sesta commissione, che
sarà martedì 30 al vaglio del plenum, Palazzo dei
Marescialli sottolinea come l'aver spostato di un anno
l'uscita delle toghe (dal 31.10.2014 al 31.12.2015) non risolva il problema.
Serve «almeno un ulteriore
anno –sostiene l'organo di autogoverno della magistratura–
altrimenti si rischia la paralisi». Sarebbero infatti «ben
374» le toghe in uscita, di cui 252 ai vertici degli uffici
giudiziari (87 dei quali in Cassazione). Per rimpiazzarli –a detta del Csm– ci vorranno due anni e non ci saranno più
concorsi tra la fine del 2015 e del 2017.
Un appello che sembra destinato a cadere nel vuoto. A
differenza di quello delle Camere di commercio che viaggia
verso l'accoglimento. Al posto del dimezzamento secco dal
prossimo anno dei diritti camerali versati dalle imprese
dovrebbe arrivare una spalmatura su tre esercizi. Un
emendamento riformulato dalla I commissione prevede infatti
una sforbiciata così graduata: il 35% nel 2015, il 40% nel
2016 e il 50% nel 2017. Nel frattempo le Camere di commercio
–che la delega Pa giunta ieri al Senato punta a riformare
nel profondo- provano a giocare d'anticipo. Con
un'autoriforma da deliberare entro l'autunno, che le farà
scendere dalle attuali 105 a non più di 50-60. Gli
accorpamenti tenderanno a creare realtà locali con un bacino
pari ad almeno 80mila imprese per «coniugare sostenibilità
economica e valorizzazione», come sottolineato in una nota
Unioncamere.
Tra le altre novità di ieri spiccano quelle in materia di
mobilità obbligatoria entro i 50 chilometri. Da un lato, i
criteri per attivarla andranno fissati con un decreto
ministeriale da emanare previa «consultazione con le
confederazioni rappresentative»; dall'altro, arrivano le
deroghe già annunciate dal ministro della Pa, Maria Anna
Madia, per i genitori con bambini di età inferiore ai 3 anni
oppure colpiti da disabilità ai sensi della legge 104/1992 e
formalizzati in una proposta di modifica a firma Irene Tinagli (Sc). In entrambi i casi potranno essere spostati
solo con il loro consenso.
Tra gli altri emendamenti depositati dal relatore Fiano
spiccano le nuove assunzioni tra le forze di polizia «al
fine di incrementare i servizi di prevenzione e di controllo
del territorio» per Expo 2015. A tal fine i poliziotti sono
autorizzati allo «scorrimento delle graduatorie dei concorsi
indetti per il 2013 e approvate entro il 31.10.2014,
ferme restando le assunzioni dei volontari in ferma
prefissata quadriennale».
E se il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha
annunciato di aver presentato un emendamento al Dl Pa, per
riconoscere ai pazienti danneggiati da emotrasfusioni
infette e da vaccinazioni obbligatorie un'equa riparazione
una tantum pari, rispettivamente, a 100mila euro e 20mila
euro per ciascun danneggiato, la sua collega agli Affari
regionali, Maria Carmela Lanzetta, ha depositato un'altra
proposta di modifica per far decadere dalle funzioni
commissariali un presidente di Regione che ha cessato
l'incarico «per qualsiasi causa». Una norma che potrebbe
riguardare l'ex governatore dell'Emilia Romagna, Vasco
Errani, dimessosi nei giorni scorsi dopo una condanna
giudiziaria in appello a un anno per falso ideologico.
A sperare in una ciambella di salvataggio in extremis
restano i circa 4mila docenti di "quota 96". L'intenzione
del governo è quella consentire il loro pensionamento a
settembre con i requisiti pre-Fornero. Ma resta ancora da
sciogliere il nodo delle coperture su cui l'ultima parola
spetterà alla commissione Bilancio (articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti a tempo senza restrizioni negli enti locali.
Pa. I correttivi al decreto 90/2014.
Addio ai tetti di spesa
per il personale a tempo determinato e per gli altri
contratti flessibili nei Comuni che rispettano i vincoli
generali sulle uscite per stipendi, deroghe aggiuntive per i
contratti a termine della polizia locale nei piccoli Comuni
(ma solo quelli con popolazione compresa fra mille e 5mila
abitanti) turistici e regole di favore per gli enti colpiti
dal terremoto del 2012 in Emilia-Romagna e Lombardia.
Gli emendamenti all'articolo 11 del decreto sulla Pubblica
amministrazione approvati dalla commissione Affari
costituzionali della Camera (su cui si veda anche l'articolo
a pagina 2) allargano ancora gli spazi di manovra sul
personale dei Comuni. Il più importante (primo firmatario
Mauro Guerra, del Pd) risolve i problemi di coordinamento
fra le varie regole fissando un principio semplice: la legge
fissa un tetto generale, che impone ai Comuni soggetti al
Patto di stabilità di ridurre progressivamente il peso delle
uscite di personale sul totale delle spese correnti (comma
557 della legge 296/2006) e a quelli più piccoli di non
superare le spese registrate nel 2008 (comma 562), e per chi
rispetta questi parametri non c'è bisogno di altri vincoli.
Per i Comuni in regola con i vincoli generali, quindi, salta
l'obbligo di tenere la spesa per contratti a termine,
contratti di formazione-lavoro, somministrazione e lavoro
accessorio entro il 50% delle uscite registrate alle stesse
voci nel 2009. Per i Comuni terremotati nel 2012 il via
libera è retroattivo a partire dal 2013 e il riferimento per
i vincoli generali si sposta alla spesa di personale del
2011: un altro aiuto elimina il divieto di assunzioni per
chi dedica agli stipendi più del 50% della spesa corrente,
ma questo limite è già stato abolito per tutti dalla
versione originaria del decreto legge sulla Pa.
Un correttivo all'articolo 16 (firmato da Andrea Giorgis e
Giovanni Sanga, entrambi del Pd) cancella il pasticcio
creato dalla versione originaria del decreto sui consigli di
amministrazione delle società controllate e delle
strumentali della Pa. La nuova formulazione chiarisce che i
consiglieri (tre nelle strumentali, tre o cinque nelle
controllate a seconda dell'attività svolta) possono essere
nominati anche senza attingere agli organici
dell'amministrazione controllante, senza perdersi a
specificare chi li deve nominare (c'è già il Codice civile).
Dall'anno prossimo i compensi complessivi non potranno
superare l'80% del costo registrato nel 2013.
Sempre in
ambito societario, un altro emendamento (prima firma dell'ex
ministro della Pa Giampiero D'Alia, del gruppo Per l'Italia)
introduce nel decreto un nuovo articolo 24-bis, in cui si
chiarisce che il piano triennale della trasparenza e
l'obbligo di individuare un dirigente responsabile, previsto
dal Dlgs 33/2013 attuativo della legge anti-corruzione, si
applicano anche alle partecipate.
Lo stesso D'Alia, da
titolare della Funzione pubblica, aveva firmato una
circolare per indicare gli stessi principi ora fissati nella
legge (articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2014). |
APPALTI: Un'accelerazione negli appalti. Antimafia, in casi urgenti
contratti conclusi subito. Il
consiglio dei ministri ha approvato lo schema di dlgs che
snellisce le pratiche.
In caso di urgenza, le stazioni appaltanti potranno
concludere immediatamente i contratti (attualmente ciò è
possibile dopo un lasso di 15 giorni), fermo restando i
controlli ex post delle Prefetture.
Il Consiglio dei
ministri ha approvato ieri lo schema di decreto di modifica
del libro II del codice antimafia che snellisce le procedure
e gli adempimenti per il rilascio della documentazione
antimafia, “senza pregiudicare”, spiega una nota del
ministero dell'interno, “l'efficacia dei controlli
effettuati dalle Prefetture”.
Le misure previste dal Governo
(che ha anche approvato il il decreto presidenziale che
modifica i criteri per l'utilizzazione dell'otto per mille
devoluto allo Stato, che aggiungerà la categoria edilizia
scolastica pubblica alle voci finanziate con questi fondi)
“consentiranno”, secondo il Viminale, “di semplificare una
serie di oneri amministrativi a carico delle imprese
valutabili nell'ordine di 20 milioni di euro; un ulteriore
abbattimento dei costi per le imprese, per altri 20 milioni
di euro, sarà conseguito con l'attivazione della Banca dati
antimafia, il cui regolamento è di prossima adozione”.
Le
pubbliche amministrazioni potranno rilasciare il
provvedimento o stipulare il contratto trascorsi 30 giorni
dalla richiesta di rilascio per la documentazione antimafia
(mentre prima il termine era di 45 giorni), fermo restando
la possibilità per le Prefetture di proseguire ex post i
controlli. E ancora, per effetto del decreto con “Ulteriori
disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo
06.09.2011, n. 159, recante Codice delle leggi
antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove
disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma
degli articoli 1 e 2 della legge n. 136 del 2010”, non sarà
più necessario per le imprese comunicare i dati irrilevanti,
come quelli dei familiari minorenni, per il rilascio
dell'informazione antimafia, mentre si prevede, per
eliminare ogni margine di elusione o di aggiramento della
normativa antimafia, la possibilità di verifiche sulle
imprese a rischio di infiltrazione mafiosa, a prescindere
dal valore o dall'importo del contratto.
Le altre misure
Varato il decreto missioni, rinviato invece il provvedimento
sulla tassazione dei tabacchi: il consiglio dei ministri di
ha dato il via libera al rinnovo delle missioni italiane
all'estero e anche al provvedimento sui fabbisogni standard.
Le misure fiscali sui tabacchi sono state invece rimandate,
anche in considerazione dell'assenza del ministro
dell'economia e delle finanze Pier Carlo Padoan, in viaggio
in Cina
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2014). |
APPALTI: Appalti, limitate le varianti all'Anac.
Per gli appalti di lavori oltre i 5 milioni l'obbligo di
trasmissione delle varianti in corso d'opera all'Autorità
nazionale anti corruzione scatta a condizione che superino
il 10% del valore del contratto; nell'obbligo rientrano
anche le varianti dovute a errore o omissione della
progettazione; per appalti al di sotto della soglia
comunitaria le varianti dovranno comunicate all'Osservatorio
che effettuerà un primo screening e vi saranno sanzioni in
caso di inadempimento (di importo compreso fra 26.000 e
51.000 euro); l'unità speciale Anac su Expo 2015 si fermerà
a fine 2016.
È questo il contenuto di alcuni emendamenti
approvati dalla commissione affari costituzionali della
camera al disegno di legge di conversione del decreto-legge
n. 90 di riforma della p.a.
Le modifiche approvate
riguardano in particolare l'articolo 37 («trasmissione
varianti all'Anac»), norma che anche il presidente Anac,
Raffaele Cantone, aveva chiesto di modificare per evitare la
paralisi dell'Autorità. In particolare la riscrittura della
disposizione del decreto-legge si deve a due emendamenti
(primi firmatari Raffaella Mariani del Pd e Albrecht
Plangger del gruppo Misto) che, in primo luogo, limitano
l'obbligo, per gli appalti di lavori oltre la soglia di
applicazione delle norme europee (5,18 milioni), alle sole
varianti che comportino un aumento almeno del 10%.
In
secondo luogo la nuova norma elimina l'obbligo per le per le
varianti dovute a «rinvenimenti imprevisti o non prevedibili
nella fase progettuale», anche se lo introduce per quelle
dovute a errore o omissione progettuale, inizialmente non
previste dalla norma (per gli errori progettuali, se si
supera il 20%, la stazione appaltante deve risolvere il
contratto), rimane invece l'obbligo per le modifiche dovute
a cause impreviste, incrementi improvvisi del costo dei
materiali e «sorprese geologiche».
Nel caso di appalti di
valore inferiore alla soglia Ue tutte le varianti in corso
d'opera dovranno essere trasmesse entro 30 giorni tutte le
varianti in corso d'opera (senza alcuna distinzione), ma
all'Osservatorio, tramite le sezioni regionali. Dal punto di
vista degli adempimenti a carico della stazione appaltante
gli emendamenti chiariscono che sarà a carico della stazione
appaltante inviare, oltre alla variante e al progetto
esecutivo, anche l'atto di validazione e una apposita
relazione predisposta dal responsabile del procedimento.
Sarà poi l'Anac a stabilire quali provvedimenti adottare.
Va
precisato che la nuova norma varata in commissione prevede
anche un espresso riferimento all'applicazione di sanzioni
in caso di inadempimento dell'obbligo: il riferimento è alle
sanzioni di cui articolo 6, comma 11, del codice dei
contratti pubblici (variabili fra 25.822 e 51.545 euro),
anche se tale richiamo, inserito nel comma 2
dell'emendamento, sembra doversi applicare soltanto alle
varianti di appalti sotto la soglia comunitaria e non anche
a quelle oltre la soglia dei 5,18 milioni di euro. Un'altra
modifica viene poi apportata all'articolo 30 concernente
l'Unità operativa speciale istituita dall'Anac per Expo 2015
che ha il compito di alta sorveglianza e garanzia della
correttezza e trasparenza sulle procedure: si precisa che
l'unità dovrà operare fino alla completa esecuzione dei
contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, e
comunque non oltre il 31.12.2016 e senza che ciò
comporti maggiori oneri per la finanza pubblica (dovranno
essere utilizzate le risorse dell'Anac).
Infine si introduce l'obbligo di pubblicazione delle spese
relative ai compensi e incarichi concernenti le attività del
Commissario unico per Expo 2015 sul sito istituzionale
dell'evento Expo Milano 2015 in modo che siano accessibili e
periodicamente aggiornate
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Controlli antimafia rapidi.
I prefetti avranno 30 giorni per rilasciare i certificati
per i contratti.
Consiglio dei ministri. Primo via libera allo schema di
decreto legislativo che corregge il Codice.
Via libera in prima
lettura ieri in Consiglio dei ministri alle nuove norme
antimafia. È uno schema di decreto legislativo, che dovrà
avere il parere favorevole delle commissioni parlamentari –avranno 45 giorni di tempo– per poi ottenere il varo
definitivo del governo guidato da Matteo Renzi.
Il provvedimento, in sostanza, detta una serie di
semplificazioni nelle procedure di rilascio della
certificazione e di interdittiva antimafia nei contratti
pubblici da parte degli uffici delle prefetture sul
territorio.
Innanzitutto, si riducono intanto da 45 a 30 i giorni entro
i quali le pubbliche amministrazioni potranno stipulare i
contratti. In quel lasso di tempo, i prefetti dovranno
rilasciare le comunicazioni antimafia. Quest'accelerazione
non pregiudica le possibilità, da parte degli uffici
dell'Interno, di fare controlli ex post.
Ciò significa che, quando le prefetture non sono state in
grado di emanare tempestivamente la certificazione, il
contratto, dopo i 30 giorni, può comunque essere stipulato.
Se poi dai controlli effettuati ex post emergono «situazioni
ostative», come le definisce il Viminale, la stazione
appaltante risolve il contratto.
Non solo: nei casi di urgenza, le norme introdotte
consentono alla stazione appaltante di procedere subito alla
stipula del contratto anziché attendere –com'è invece
previsto attualmente– 15 giorni.
In una nota ufficiale del ministero guidato da Angelino
Alfano, si sottolinea come «le misure previste consentiranno
di semplificare una serie di oneri amministrativi a carico
delle imprese valutabili nell'ordine di 20 milioni di euro».
Il comunicato mette in evidenza anche che «un ulteriore
abbattimento dei costi per le imprese, per altri 20 milioni
di euro, sarà conseguito con l'attivazione della Banca dati
antimafia» di cui si attende ormai il regolamento –«di
prossima adozione» dice il Viminale– che farà decollare un
sistema informativo decisivo. Tanto decisivo da essere più
volte richiamato nelle nuove disposizioni del decreto
legislativo approvato ieri in prima lettura.
Il varo definitivo della Banca dati antimafia attende ora
l'ok del ministero dell'Economia. Fino all'attivazione della
Banca dati, le pubbliche amministrazioni potranno utilizzare
la documentazione antimafia che hanno già acquisito ed è
ancora in corso di validità, senza reiterare la richiesta
per ogni procedimento amministrativo.
Tra le altre misure di semplificazione previste –seguite a
più riprese anche dal viceministro all'Interno, Filippo Bubbico–, lo schema di decreto legislativo prevede che le
verifiche antimafia riguardino soltanto i familiari
maggiorenni dei soggetti titolari degli incarichi rilevanti
nell'impresa (e quindi non più anche i minorenni). Vengono
esclusi dai controlli anche i familiari residenti all'estero
(sempre ferma restando, da parte degli uffici antimafia
delle prefetture, la possibilità di fare successivamente, se
necessario, verifiche anche in questi casi).
Inoltre, è eliminata la possibilità per le amministrazioni
di richiedere la documentazione antimafia indifferentemente
alla prefettura della loro sede o dove invece ha sede
l'impresa: lo schema di decreto fissa in via definitiva la
scelta nella prefettura della sede legale dell'impresa. Un
indirizzo, quello assunto dal Viminale, che semplifica e
dovrebbe rendere più efficaci i controlli sulle eventuali
infiltrazioni della criminalità organizzata.
Ma forse una delle novità più rilevanti introdotte riguarda
la facoltà delle prefetture di fare controlli sulle imprese
anche al di sotto delle soglie minime del valore o
dell'importo del contratto.
Il senso di questa innovazione è
chiaro: poter controllare le aziende in odore di mafia, come
si dice in gergo, qualunque sia la dimensione economica in
ballo. E, fatto non secondario, risolvere le scelte di
elusione e di aggiramento delle norme, con quelle imprese
cioè che operano a bella posta sotto le soglie previste
dalla normativa antimafia per evitare o eludere i controlli
del ministero dell'Interno.
Lo schema di decreto legislativo non potrà attendere molto
per essere approvato in tempo utile: il governo ha tempo per
esercitare la delega fino al 13 ottobre prossimo (articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2014). |
APPALTI: Fatture elettroniche integrabili. Codice di gara e di
progetto per l'emissione verso la p.a..
I chiarimenti operativi emanati dalla fondazione Accademia
romana di ragioneria.
Fatture elettroniche emesse a carico delle pubbliche
amministrazioni da integrare obbligatoriamente con il Codice
identificativo di gara (Cig) e con il Codice unico di
progetto (Cup), ai fini della tracciabilità dei pagamenti.
Così le disposizioni dell'art. 25, comma 2, del dl 66/2014
inserite dal legislatore al fine di assicurare l'effettiva
tracciabilità dei pagamenti da parte della p.a., commentate,
nella nota operativa n. 10/2014, dalla fondazione Accademia
romana di ragioneria Giorgio Di Giuliomaria, avente a
oggetto la fatturazione elettronica nella p.a.
La nota ricorda che la fatturazione elettronica è stata
introdotta, per recepimento della direttiva 2010/45/Ue, dai
commi da 325 a 328, dell'art. 1, della legge 228/2012
(Stabilità 2013) e che l'Agenzia delle entrate ha fornito le
proprie precisazioni sul tema, con un recente documento di
prassi (circ. 18/E/2014).
Dal documento in commento si evince che la fattura
elettronica, in base ai contenuti dell'art. 21, del dpr
633/1972, può essere emessa e ricevuta in qualunque formato
elettronico, che il ricorso a tale documento è subordinato
all'accettazione da parte del destinatario e che non possono
essere considerate tali quelle fatture che, sebbene create
in formato elettronico, siano successivamente inviate e
ricevute su supporto cartaceo.
Di conseguenza, la nota operativa evidenzia che, l'art. 21
del decreto Iva, non prevede più il preventivo accordo con
il destinatario per la relativa emissione ma solo una mera
accettazione della controparte, con l'ulteriore possibilità
che il documento informatico possa essere messo a
disposizione del destinatario tramite l'accesso al web, a un
server o altro supporto informatico, nonché tramite e-mail
contenente un protocollo di comunicazione e un link di
collegamento che permetta il download della fattura stessa.
L'art. 25 del dl 66 ha anticipato al 31.03.2015, il
termine dal quale decorrono gli obblighi di fatturazione
elettronica, con riferimento alle amministrazioni locali
(regioni, province, comuni, comunità montane, unione di
comuni, Asl, Cciaa e quant'altro) e con riferimento a tutte
le amministrazioni pubbliche, con l'eccezione dei ministeri,
delle agenzie fiscali e degli enti nazionali di previdenza e
assistenza sociale, per i quali l'obbligo è entrato in
vigore dal 06.06.2014. Inoltre, l'art. 6, comma 4, del dm
55/2013 ha esteso l'applicazione anche alle fatture emesse
da parte di soggetti non residenti in Italia e alle fatture
relative al servizio di pagamento delle entrate, di cui al dlgs 241/1997.
Il documento in commento, inoltre, affronta le problematiche
inerenti alla ricezione mediante il sistema informativo di
contabilità (Sicoge) e al riconoscimento o rifiuto, per il
tramite del sistema di interscambio (Sdi). La nota operativa
ricorda che a partire dai tre mesi successivi dalle date
indicate, le amministrazioni pubbliche non potranno eseguire
alcun pagamento delle forniture e delle prestazioni di
servizi ottenute, fino all'invio del documento in formato
elettronico, tenendo ulteriormente conto che, al fine di
garantire la tracciabilità dei relativi pagamenti, i
documenti, oltre a contenere i dati indicati dall'art. 21
del decreto Iva, dovranno contenere il Codice identificativo
di gara (Cig) e il Codice unico di progetto (Cup).
Si ricorda, infine, che l'Agenzia delle entrate (circ.
18/E/2014) ha precisato che il soggetto passivo (colui che è
obbligato all'emissione della fattura elettronica) deve
assicurare l'autenticità dell'origine, l'integrità del
contenuto e la leggibilità dei documenti, dal momento
dell'emissione fino al termine di decadenza del periodo di
conservazione, ai sensi delle disposizioni contenute
nell'art. 21, comma 3, dpr 633/1972. Di fatto, quindi,
devono essere garantite, la certa identità del
cedente/prestatore, l'inalterabilità del contenuto e la
visualizzazione adeguata e affidabile del formato
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2014). |
APPALTI: Appalti, sospensive anche gratis. I giudici potranno
esonerare le imprese dalla cauzione.
RIFORMA P.A./ Un emendamento del relatore rende facoltativa
la misura del dl 90.
Le imprese non saranno più obbligatoriamente tenute a pagare
una cauzione per ottenere la sospensiva nei giudizi in
materia di appalti. Salta infatti il vincolo che imponeva ai
giudici amministrativi di subordinare l'efficacia della
misura cautelare al pagamento di una somma di denaro. Ora la
decisione è rimessa alla discrezionalità del collegio
giudicante che potrà richiedere la prestazione della
cauzione, ma potrà anche esonerare l'impresa da un esborso
economico immediato che spesso costringe gli operatori a
chiedere una fideiussione alle banche.
Il parziale
dietrofront sulla misura del dl 90/2014 che allo scopo di
accelerare i giudizi in materia di appalti rischiava però di
prestare il fianco a forti dubbi di costituzionalità (per
evidente compressione dei diritti di difesa) è contenuto tra
le pieghe dei primi emendamenti depositati in commissione
affari costituzionali dal relatore Emanuele Fiano (Pd).
La proposta di modifica non solo rende facoltativa quella
che era una prestazione obbligatoria a carico delle imprese,
ma ne circoscrive l'importo stabilendo che non possa
superare lo 0,5% del valore dell'appalto. Una misura,
evidentemente dissuasiva, che si affianca all'altra che
consente di condannare la parte soccombente al pagamento
dell'1% del valore dell'appalto qualora il giudice ravvisi
che si è trattato di una lite temeraria.
Nel pacchetto di emendamenti presentati da Fiano si segnala
anche una più chiara formulazione dell'art. 1, comma 5 sulla
risoluzione del rapporto di lavoro che tutte le p.a.
(centrali e locali, incluse le Autorità indipendenti)
potranno chiedere al personale, dirigenziale e non, che
abbia maturato i requisiti di anzianità contributiva (42
anni e 3 mesi). La risoluzione dovrà essere preceduta da un
preavviso di sei mesi e potrà essere fatta valere anche nei
confronti di dirigenti medici, sanitari, professori e
ricercatori universitari.
Infine, è stata notevolmente addolcita la spending review
sulle Authority (Autorità di regolazione dei trasporti,
Autorità per l'energia elettrica, e il gas, Agcom,
Commissione di vigilanza sui fondi pensione e Commissione di
garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei
servizi pubblici essenziali) che non saranno più costrette a
trasferirsi in una sede unica a condizione che rispettino un
lungo elenco di parametri di virtuosità. La sede di ciascuna
Authority dovrà essere ospitata in un edificio pubblico.
Tutti gli uffici dovranno essere concentrati nella sede
principale dove dovrà trovare posto l'80% del personale. La
spesa per le sedi secondarie non dovrà superare il 20% della
spesa complessiva, mentre la spesa per consulenze non potrà
superare il 2%.
I lavori in commissione sono ripartiti ieri in tarda serata
con la presentazione di ulteriori emendamenti del relatore
tra cui quello che dovrebbe addolcire la soppressione delle
sezioni distaccate dei Tar
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Incentivi ai progettisti, pasticcio alla camera.
Novità in vista per la norma sull'incentivo del 2% del
valore dell'opera pubblica per i progettisti della pubblica
amministrazione, dopo l'approvazione in commissione affari
costituzionali della camera dell'emendamento Pdl che lo ha
abrogato. Le modifiche potrebbero essere apportate in aula
con un sempre più probabile maxi-emendamento, considerando
anche i tempi di discussione del provvedimento, oggetto di
numerosi emendamenti da parte di tutti i gruppi
parlamentari.
Giovedì scorso la commissione ha esaminato i
diversi emendamenti all'articolo 13 del decreto-legge
90/2014 che, nella versione pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale, prevede un comma aggiuntivo all'articolo 92 del
decreto legislativo 163/2006 (il codice dei contratti
pubblici) con il quale si stabilisce che al personale con
qualifica dirigenziale non spetti l' incentivo previsto dai
precedenti commi 5 e 6 della stessa norma (il due per cento
del valore dell'opera per progettazione, direzione lavori e
collaudo e il 30% della tariffa professionale per atti di
pianificazione).
Le proposte emendative prevedevano
dall'abrogazione della limitazione al personale
dirigenziale, alla trasformazione in incentivo
all'efficienza per i controlli sull'esecuzione del
contratto, fino alla riproposizione dell'abrogazione
dell'incentivo stesso che era stata peraltro inserita nel
testo del governo entrato in consiglio dei ministri, ma
successivamente modificato.
Nella scarsa attenzione dei commissari è passato, con parere
favorevole del governo e del relatore, l'emendamento 13.1,
firmato da Basilio Catanoso (Pdl) che elimina l'incentivo
per tutti i tecnici delle amministrazioni. In commissione,
subito dopo la votazione, diversi deputati del partito
democratico hanno chiesto lumi sugli effetti della norma i
cui contenuti (abrogativi della norma vigente) sono stati
prontamente chiariti dal ministro Marianna Madia. Compreso
l'accaduto più di un deputato ha affermato che «se avesse
compreso la portata della proposta emendativa in
discussione, non avrebbe votato a favore della stessa».
Le richieste di riaffrontare la questione per individuare
una soluzione di compromesso che tuteli i tecnici della
pubblica amministrazione sono scattate immediatamente e,
stando alle indiscrezioni filtrate in queste ore, sarebbe
l'aula della camera la sede nella quale con tutta
probabilità, forse con un maxi emendamento, si potrà
correggere il «misfatto» compiuto, non senza qualche
mancanza di attenzione, dai parlamentari, peraltro
immediatamente pentiti di quanto accaduto (articolo ItaliaOggi del 23.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Centrale unica di committenza, il rinvio non sblocca le gare.
Approvata la proroga. Ma si attende la conversione del
decreto legge n. 90.
Rinvio a inizio 2015 dell'obbligo di ricorso a centrali di
committenza per i comuni non capoluogo di provincia che
intendono acquisire beni e servizi (a metà 2015 per gli
appalti di lavori); ammessi gli affidamenti fino a 40 mila
euro, senza ricorrere alla centrale di committenza, nei
comuni con oltre 10 mila abitanti; obbligo per gli avvocati
dello stato di segnalare all'Anac (Autorità anti corruzione)
le violazioni al codice degli appalti.
Sono queste alcune delle principali novità approvate in
queste ultime 48 ore dalla commissione affari costituzionali
della camera nell'ambito della discussione del decreto-legge
90/2014 sulla riforma della p.a. Sembra quindi scongiurato
il rischio di un blocco degli appalti da parte dei comuni
non capoluogo di provincia che dal primo luglio si trovano
nell'impossibilità di bandire le gare laddove non abbiano
provveduto ad unirsi con altri comuni o provveduto ad
organizzarsi facendo ricorso a centrali di committenza
regionali o alla Consip.
Il problema (derivante dal divieto per l'Anac di concedere
ai comuni il Cig (Codice identificativo gara) era stato
segnalato anche con l'intesa siglata il 10 luglio fra
ministero dell'interno e Conferenza Stato-città-enti locali,
ma prontamente il presidente dell'Autorità, Raffaele Cantone
aveva chiarito che in vigenza della norma non avrebbe
provveduto al rilascio dei Cig ai comuni.
Nella seduta della commissione affari costituzionali di
lunedì è stata però approvata una norma che dovrebbe
risolvere la questione stabilendo che l'obbligo per i comuni
non capoluogo scatterà dal primo gennaio del 2015 per gli
acquisiti di beni e servizi e dal 01.07.2015 per
l'acquisizione di lavori. Fino all'entrata in vigore della
norma, però, il problema resterà e quindi, se non vi saranno
ulteriori novità, soltanto con i primi di agosto potranno
ripartire gli appalti dei piccoli comuni.
La Commissione ha poi dato un maggiore tempo per il ricorso
alle centrali di committenza ai comuni istituiti a seguito
di fusione per i quali l'obbligo di ricorso alla centrale di
committenza si applicherà «dal terzo anno successivo a
quello di istituzione», con possibilità quindi, se la
fusione è recente, di andare ben oltre ai termini di fine
2014 o metà 2015. Per gli appalti per la ricostruzione post
terremoto in Emilia-Romagna e in Abruzzo vengono esentati
gli enti locali dall'applicazione dell'obbligo di ricorrere
alle centrali di committenza.
Un ulteriore problema riguardava poi l'abrogazione, disposta
sempre con la legge 89 di conversione del decreto 66/2014,
della possibilità di affidamento in amministrazione diretta
e in economia da parte dei comuni. Con un altro emendamento
approvato dalla commissione si stabilisce, mediando fra
diverse proposte di modifica, che per i comuni con
popolazione superiore a 10 mila abitanti sia possibile
«procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e
lavori di valore inferiore ai 40 mila euro».
Diversi gli emendamenti approvati all'articolo 19 sull'Anac;
fra tutti l'obbligo per gli avvocati dello stato di
segnalare all'Authority le violazioni al codice dei
contratti pubblici e l'istituzione di un ruolo unico dei
dipendenti della soppressa Avcp e dell'Anac
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Regolamento edilizio unico per i comuni.
Decreto sblocca-Italia il 31 luglio al Cdm ma c'è l'ipotesi
slittamento - Delega per la riforma appalti.
Il Governo marcia a tappe
forzate verso il varo dei due provvedimenti per l'edilizia e
le infrastrutture. Si tratta del disegno di legge delega per
la riforma degli appalti, che potrebbe addirittura andare a
sorpresa oggi in Consiglio dei ministri, ma che più
probabilmente andrà al Cdm di fine mese, e il decreto legge
«sblocca-Italia» pure previsto per il 31 luglio (era stato
il premier Renzi ad annunciarlo) ma suscettibile di un
piccolo slittamento, soprattutto per recuperare qualche
giorno di dibattito parlamentare post-estivo. Certo è che il
Governo sta lavorando a tutta macchina e il provvedimento
comincia a prendere una sua fisionomia.
La novità più importante è la conferma che nel decreto legge
entra il regolamento edilizio standard unico per tutti gli
8mila comuni, salva la possibilità di adattarlo poi alle
esigenze territoriali specifiche. È una rivoluzione che
nasce da una proposta del Consiglio nazionale degli
architetti, che è andata via via conquistando consensi. Ieri
il viceministro alle Infrastrutture, Riccardo Nencini, ha
confermato all'assemblea dell'Ance che la norma è già nelle
bozze di decreto. Il regolamento standard sarà un atto
concreto per superare la frammentazione normativa da comune
a comune. La versione lanciata dal Cna aveva altre
importanti caratteristiche: raccoglieva al proprio interno
anche una serie di regolamentazioni ambientali e di igiene,
tant'è che gli veniva dato il nome di «regolamento edilizio
sostenibile».
Un altro pezzo del decreto legge che prende forma è quello
relativo ai finanziamenti delle infrastrutture. Il ministero
di Porta Pia propone esplicitamente (ma qui non è chiaro se
sia arrivato o meno il via libera del ministero
dell'Economia) un fondo unico destinato al finanziamento di
infrastrutture grandi e piccole alimentato dal Tesoro in una
misura fissa del 3% del Pil. Stiamo ragionando di cifre
dell'ordine dei cinque miliardi annui. La questione era
stata oggetto dell'incontro Padoan-Lupi di dieci giorni fa.
Terzo capitolo del decreto legge che prende forma è la lista
delle grandi opere da rifinanziare con una quota rilevante
dei 2-3 miliardi che dovrebbero sostenere il decreto legge.
Una quota di quelle risorse andrà alle piccole opere
suggerite dai comuni al premier direttamente per mail e
un'altra quota dovrebbe andare a sbloccare una quota delle
671 opere di ogni taglia bloccate e censite dal ministero
delle Infrastrutture. Ma la fetta maggiore dovrebbe andare
alle grandi opere.
Ecco la lista che comincia a prendere
forma: alta velocità Brescia-Padova, ferrovia Napoli-Bari,
completamento del Quadrilatero stradale Marche-Umbria,
sblocco dell'autostrada tirrenica, finanziamento delle opere
collegate all'Expo, passante ferroviario di Torino, asse
viario Lecco-Bergamo, ferrovia Firenze-Pistoia-Lucca,
sistema idrico abruzzese. Una decina di opere cui se ne
potrebbero forse aggiungere ancora altre ma che non
dovrebbero crescere troppo, visto che la strategia del
governo è di finanziare interventi effettivamente strategici
per il territorio. Sempre in tema di grandi opere, ormai
scontata una profonda revisione della legge obiettivo del
2001, con l'introduzione di nuove semplificazioni
procedurali per le infrastrutture strategiche.
Il ministero delle Infrastrutture vuole comunque mantenere
un equilibrio fra grandi e piccole opere e per questo
rilancerà anche una seconda edizione, riveduta e corretta,
del «piano dei 6mila campanili». Rispetto alla prima
edizione, saranno individuati criteri per l'accesso ai
finanziamenti che siano maggiormente strategici in termini
di crescita e sviluppo del territorio.
Infine, le città. Anche qui l'obiettivo è rilanciare il
«piano città» che fu lanciato dal viceministro Mario Ciaccia
ai tempi del governo Monti. Qui forse il lavoro è un po' più
indietro. Anche in questo capitolo si pensa a una seconda
edizione ma qui i limiti da superare sono più importanti
(anche perché il vecchio piano città di fatto non è partito
mai) e soprattutto le richieste avanzate da imprese,
professionisti e sindaci sul rilancio di una politica della
riqualificazione urbana molto ambiziose.
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Sblocca-Italia e riforma degli appalti
URBANISTICA
Regolamento edilizio standard
anti-frammentazione
Il Governo vuole
inserire nel decreto legge Sblocca-Italia di fine mese un
regolamento edilizio standard per tutti gli 8mila comuni. I
sindaci potranno comunque adattarlo parzialmente alle loro
esigenze. Una norma nata da una proposta del Consiglio
nazionale degli architetti, e che sarà la chiave di volta
per superare la frammentazione normativa da comune a comune
GRANDI OPERE
Prende forma la lista
dei cantieri da rifinanziare
Altro capitolo del Dl la lista delle grandi opere da
rifinanziare con una quota rilevante dei 2-3 miliardi che
dovrebbero sostenere il provvedimento. Tra queste anche
l'alta velocità Brescia-Padova, ferrovia Napoli-Bari,
completamento del Quadrilatero stradale Marche-Umbria,
sblocco dell'autostrada tirrenica, le opere collegate
all'Expo, il passante ferroviario di Torino
APPALTI
Il nuovo Codice semplificato
passa da 600 a 200 articoli
Cambia il codice degli appalti. Il Governo potrebbe
approvare già oggi, per iniziare poi rapidamente l'iter
parlamentare, un disegno di legge delega per recepire le
direttive Ue e semplificare le norme. Si dovrebbe passare
dai 600 articoli che attualmente compongono Codice degli
appalti e regolamento attuativo
a circa 200
CITTÀ
Nuovo slancio per le politiche
di riqualificazione
Obiettivo del Governo è rilanciare il «piano città», avviato
dal viceministro Mario Ciaccia ai tempi del governo Monti.
Qui forse il lavoro è un po' più indietro. Anche in questo
capitolo si pensa a una seconda edizione ma qui i limiti da
superare sono importanti e le richieste avanzate da imprese,
professionisti e sindaci sul rilancio di una politica di
riqualificazione urbana molto ambiziose
SEMPLIFICAZIONI
Legge obiettivo da riscrivere
e nuove norme sulle lobby
Con la semplificazione del Ddl delega arriverà la
riscrittura della legge obiettivo sulle grandi opere
affiancata da una nuova normativa sulle lobby. Con
l'istituzione di un registro dei «portatori di interessi» e
soprattutto di una disciplina organica del débat public
sulle grandi opere. Un modo per tenere conto delle istanze
del territorio garantendo però che la decisione finale
spetta sempre all'organo di rappresentanza di riferimento
FONDI
Fondo unico del Tesoro:
alle infrastrutture il 3% del Pil
Un fondo statale destinato
al finanziamento delle opere con il 3% del Pil, per un
importo dell'ordine di 5 miliardi all'anno. Il decreto legge sblocca-Italia dovrebbe prevedere la sua costituzione per il
finanziamento di infrastrutture grandi e piccole alimentato
dal Tesoro. La questione era stata oggetto dell'incontro
Padoan-Lupi di dieci giorni fa
LA LISTA DELLE OPERE
Prima lista dei grandi e piccoli interventi
Alta velocità Brescia-Padova
Ferrovia Napoli-Bari
Completamento Quadrilatero stradale Marche-Umbria
Sblocco dell'autostrada tirrenica
Finanziamento delle opere collegate all'Expo
Passante ferroviario di Torino
Asse viario Lecco-Bergamo
Ferrovia Firenze-Pistoia-Lucca
Sistema idrico abruzzese
Seconda edizione del piano dei 6mila campanili
Seconda edizione del piano città per la riqualificazione
urbana (articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Termoregolazione d'obbligo entro il 2016.
Consumi energetici. Recepito il piano europeo per la
riduzione.
Scatta anche in Italia
(l'obbligo era già normato a livello europeo) il termine del
31.12.2016 entro il quale tutti gli edifici dovranno
essere adeguati con sistemi per la termoregolazione e
contabilizzazione del calore.
Lo stabilisce il decreto
legislativo 04.07.2014, n. 102, che a sua volta attua la
direttiva europea 2012/27/Ue sull'efficienza energetica. La
norma, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» di venerdì 18.07.2014, è entrata in vigore dal giorno successivo.
Il nuovo atto, per ciò che riguarda l'introduzione delle
valvole e la misurazione dei consumi, va a disciplinare
materie che, in parte, sono già oggetto di legislazione
regionale, ad esempio in Lombardia e in Piemonte. Nelle due
Regioni, rispettivamente, l'obbligo è in vigore dall'agosto
del 2012 con alcune deroghe al 2014 o diventerà operativo
dal 01.09.2014. Tuttavia, l'amministrazione guidata
da Maroni ha già chiarito, nella legge di assestamento di
bilancio, che le sanzioni per chi non è in regola non
scatteranno fino al 31.12.2016. Una linea che, con
ogni probabilità, potrebbe essere adottata anche in
Piemonte, dove sono moltissimi i fabbricati che devono
procedere agli adeguamenti.
Il principio che sta alla base della direttiva e del Dlgs è
comunque il diritto per ciascun utente di poter calcolare,
con precisione, il consumo effettivo, grazie a contatori
intelligenti, pagando solo per le relative quote di
spettanza e ottenendo anche informazioni importanti
sull'efficienza del proprio impianto. Ovviamente lo stesso
decreto norma anche i casi in cui, per ragioni tecniche, non
sia possibile o efficiente inserire sistemi di
termoregolazione.
L'introduzione delle valvole è solo uno degli aspetti che
caratterizza un decreto ben più ampio e articolato. Tutto
rivolto all'obiettivo della riduzione del 20% del consumo di
energia primaria dell'Unione entro il 2020. Fra le novità
introdotte spicca l'obbligo per le grandi imprese e per le
aziende "energivore" di eseguire una diagnosi di efficienza
energetica nei siti ubicati sul territorio nazionale, da
ripetersi ogni quattro anni. La data entro cui occorre
mettersi in regola è il 05.12.2015.
Ampio è il programma per la riqualificazione degli immobili
della pubblica amministrazione su un periodo che va dal 2014
al 2020. È inoltre prevista l'attivazione di un Fondo
nazionale per l'efficienza energetica per la concessione di
garanzie o l'erogazione di finanziamenti. Per ciò che
riguarda il campo dell'edilizia, sono inseriti anche
scomputi sulle volumetrie per chi ristruttura facendo
efficienza.
In particolare, nei fabbricati che possono
dimostrare una riduzione del 20% dell'indice di prestazione
fissato come limite nel Dlgs 192/2005, lo spessore delle
murature esterne, delle tamponature o dei muri portanti, dei
solai intermedi e di chiusura superiori ed inferiori,
eccedente ai 30 centimetri (fino a un massimo di ulteriori
30 centimetri per tutte le strutture che racchiudono il
volume riscaldato e ad un massimo di 15 centimetri per
quelli orizzontali intermedi) non sono considerati nei
computi per la determinazione di volumi, altezze, superfici
e rapporti di copertura.
Deroghe sono inoltre previste sul fronte del rispetto delle
distanze minime e delle altezze massime degli edifici (articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2014). |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettisti, meno vincoli di fatturato nelle gare.
Anac. Le linee guida.
Limitare, per quanto
possibile nella cornice della legge, i requisiti di
fatturato e di dipendenti per la partecipazione alle gare di
progettazione.
È questa la novità più interessante contenuta
nella revisione della determinazione n. 5 del 07.07.2010,
appena mandata in consultazione dall'Anac fino al prossimo
15 settembre: sono le attesissime nuove linee guida
sull'architettura e l'ingegneria (il testo è scaricabile
dal sito di «Edilizia e Territorio»), rimaste per mesi allo
studio della vecchia Authority dei contratti pubblici, ora
passata sotto la guida di Raffaele Cantone. Nel
provvedimento si affronta peraltro anche un secondo grande
tema: quello della corrispondenza delle classi e categorie
di servizi di progettazione nel passaggio tra il vecchio e
il nuovo assetto normativo, provando a risolvere le
difficoltà nate dopo l'approvazione del Dm parametri.
Sul fronte dei requisiti di fatturato, l'Authority ricorda
che «il consolidato orientamento giurisprudenziale, in linea
con le espressioni di parere dell'Avcp», considera «congruo
e proporzionato un requisito non superiore al doppio
dell'importo a base di gara», mentre il regolamento
prevede una forbice tra due e quattro volte. Sempre in
chiave di apertura del mercato, poi, il testo spiega che il
requisiti di fatturato non può essere limitato ai soli
servizi oggetto di gara ma va esteso a tutte le attività
svolte dal concorrente purché compatibili e di importo pari
a quello richiesto (articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Più cubature grazie all'energia. Volumi e
spessori aumentano se si riducono i consumi.
Il decreto 102/2014 sull'efficienza prevede anche fatture
basate sull'utilizzo effettivo.
L'efficienza energetica fa guadagnare sulla cubatura e sulle
distanze; e le fatture devono basarsi sugli effettivi
consumi individuali, senza ricarico del costo di spedizione.
Il decreto legislativo 102/2014 (attuazione della direttiva
2012/27/UE sull'efficienza energetica), pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 165 del 18.7.2014 (si veda ItaliaOggi
del 19 luglio scorso), vigente dal 19.07.2014, tratta sia di
benefici edilizi sia di garanzie nel sistema di misurazione
dell'energia fruita.
Vediamo di illustrare il contenuto del decreto.
EDILIZIA
Partiamo dagli incentivi edilizi.
Innanzi tutto si tratta di benefici nel conteggio della
cubatura per gli edifici di nuova costruzione, con una
riduzione minima del 20 per cento dell'indice di prestazione
energetica.
In questi casi lo spessore delle murature esterne, delle
tamponature o dei muri portanti, dei solai intermedi e di
chiusura superiori ed inferiori, eccedente ai 30 centimetri,
fino ad un massimo di ulteriori 30 centimetri per tutte le
strutture che racchiudono il volume riscaldato, e fino ad un
massimo di 15 centimetri per quelli orizzontali intermedi,
non sono considerati nei computi per la determinazione dei
volumi, delle altezze, delle superfici e nei rapporti di
copertura.
Rispettare l'efficienza energetica significa beneficiare
anche quanto a distanze tra edifici, da confine e fascia di
rispetto stradale e ferroviario e altezze massime
dell'edificio. Nel rilascio dei titoli abitativi, nei limiti
descritti, si può, infatti, andare in deroga alla normativa
edilizia e urbanistica.
Le deroghe vanno esercitate, però, nel rispetto delle
distanze minime riportate nel codice civile.
I benefici riguardano, oltre agli interventi di nuova
costruzione, anche gli interventi su immobili esistenti. In
particolare gli interventi di riqualificazione energetica
che comportino maggiori spessori delle murature esterne e
degli elementi di chiusura superiori e inferiori necessari a
ottenere una riduzione minima del 10% dei limiti di
trasmittanza.
In questa ipotesi è possibile derogare alla normativa sulle
distanze minime tra edifici, dai confini di proprietà e
sulle distanze minime di protezione del nastro stradale.
Il decreto legislativo in esame prevede una deroga dalle
distanze, nella misura massima di 25 centimetri per il
maggiore spessore delle pareti verticali esterne, alle
altezze massime degli edifici, nella misura massima di 30
centimetri, per il maggior spessore degli elementi di
copertura. La deroga potrà essere esercitata nella misura
massima da entrambi gli edifici confinanti. Anche qui le
deroghe andranno esercitate nel rispetto delle distanze
minime riportate nel codice civile.
CONSUMI
Il decreto prevede contatori individuali per i clienti
finali di energia elettrica e gas naturale,
teleriscaldamento, teleraffreddamento e acqua calda per uso
domestico. I contatori individuali devono misurare con
precisione il consumo effettivo e fornire informazioni sul
tempo effettivo di utilizzo dell'energia.
Quanto ai sistemi di misurazione, il decreto legislativo in
commento rafforza la scelta di sistemi di misurazione
intelligenti, che forniscano ai clienti finali informazioni
sul tempo effettivo di utilizzo, siano sicuri e rispettosi
della privacy nella fase della raccolta dei dati di consumo.
Nel dettaglio viene fissata la data del 31.12.2016 per
l'installazione di contatori individuali nei condomini
riforniti fonte di riscaldamento o raffreddamento
centralizzata o da una rete di teleriscaldamento o da un
sistema di fornitura centralizzato che alimenta una
pluralità di edifici: deve essere misurato l'effettivo
consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per
ciascuna unità immobiliare.
Nei casi in cui l'uso di contatori individuali non sia
tecnicamente possibile o non sia efficiente in termini di
costi, per la misura del riscaldamento si ricorre
all'installazione di sistemi di termoregolazione e
contabilizzazione del calore individuali per misurare il
consumo di calore in corrispondenza a ciascun radiatore
posto all'interno delle unità immobiliari dei condomini o
degli edifici polifunzionali.
Inoltre nei condomini l'importo dei costi del
teleriscaldamento deve essere suddiviso in relazione agli
effettivi prelievi volontari di energia termica utile e ai
costi generali per la manutenzione dell'impianto. Anche se
il decreto fa salva la possibilità, per la prima stagione
termica successiva all'installazione dei dispositivi, che la
suddivisione si determini in base ai soli millesimi di
proprietà.
Ancora le imprese, entro il 31.12.2014, nelle fatture
devono dare informazioni sul consumo effettivo di energia e
la fatturazione deve avvenire sulla base del consumo
effettivo almeno con cadenza annuale; mentre le fatturazione
intermedie possono basarsi anche su un sistema di autolettura da parte del consumatore.
Infine il decreto sottolinea che non devono applicarsi costi
ai clienti finali per la ricezione delle fatture, delle
informazioni sulla fatturazione e per l'accesso ai dati sui
consumi
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti nei Comuni, rischio di stop fino a settembre.
Enti locali. Il «caso» delle centrali uniche.
Un giro di riunioni
tecniche per esplorare le possibili soluzioni tampone,
compresa quella, estrema, di un nuovo decreto correttivo "a
perdere" per sbloccare la situazione in attesa che i
provvedimenti oggi all'esame del Parlamento facciano il loro
corso.
È questo l'effetto prodotto dal nuovo intreccio di regole su
acquisti e progetti nella Pubblica amministrazione che
stanno incagliando il sistema.
Il primo corno del problema è
quello degli acquisti nei quasi 8mila Comuni italiani che
non sono capoluogo di Provincia. Come annunciato per lettera
al Governo (si veda «Il Sole 24 Ore» del 19 luglio),
l'autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele
Cantone ha ripreso a negare i codici identificativi di gara
(Cig) per gli acquisti dei Comuni non capoluogo che non
seguono le nuove strade "centralizzate", in molti casi
inattuabili perché i «soggetti aggregatori» chiamati a
sostituire i singoli enti non sono pronti.
La ragione, ovvia
nella sua semplicità, è che l'Anac non può che rispettare le
norme in vigore, e l'accordo raggiunto in Conferenza
Stato-Città tra Governo ed enti locali sul rinvio dei nuovi
obblighi al 2015 (1° gennaio per beni e servizi, 1° luglio
per i lavori) non ha ancora cambiato le regole. Il Governo
ha preparato un emendamento che traduce in legge l'intesa,
ma il decreto «competitività» che dovrebbe ospitarlo procede
a rilento nel suo esame al Senato (si veda l'articolo a
pagina 8), e la legge di conversione rischia di arrivare in
«Gazzetta Ufficiale» intorno alla metà di agosto. La
conseguenza è un blocco generalizzato degli acquisti fino a
settembre, che naturalmente danneggia le amministrazioni
locali ma anche le imprese fornitrici.
L'altro problema è invece quello esploso con l'emendamento
al Dl 90/2014 approvato in commissione Affari costituzionali
alla Camera che ha cancellato del tutto gli incentivi ai
progettisti interni alla pubblica amministrazione, mentre il
testo originario varato dal Governo li negava solo ai
dirigenti. La nuova regola riprende l'ipotesi delle prime
bozze del provvedimento, poi scartata dal Governo, e viene
considerata una vittoria da ingegneri e architetti che
possono così aspirare a nuove occasioni di lavoro.
Visto con
gli occhi delle amministrazioni, però, il rischio è quello
di un aumento dei costi, che potrebbe inciampare già nei
rilievi della commissione Bilancio imponendo un nuovo
correttivo. In ogni caso, si porrebbe il problema
dell'applicazione della nuova regola ai progetti già
avviati, come sempre accaduto nei molti tentativi (finora
abortiti) di rivedere la materia (articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sino all'entrata in vigore della l.r. 12/2005, nell'ambito
del titolo edilizio riguardante la costruzione di
autorimesse connesse ad un edificio di nuova costruzione la
loro superficie doveva essere computata ai fini della
determinazione della superficie non residenziale.
Secondo la ricorrente sussisterebbe un
principio generale secondo il quale i parcheggi e le
autorimesse mai potrebbero influire ai fini della
determinazione del contributo concessorio. In applicazione
di tale principio essi non dovrebbero neppure rilevare ai
fini dell’individuazione della classe giacché, come visto,
la classe incide sull’entità del contributo.
In proposito si deve osservare che la giurisprudenza non
offre soluzioni univoche.
Talune pronunce affermano che, ai sensi del coordinato
disposto dell'art. 11, comma 1, della legge n. 122 del 1989
e dell'art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977
(ora, art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del
2001), la realizzazione dei parcheggi obbligatori è
esonerata dall'onere di pagamento del contributo di
costruzione.
Tuttavia di recente la Sezione si è uniformata
all’orientamento opposto che afferma che, nel caso di
realizzazione di edifici nuovi, le autorimesse rilevano ai
fini dell’individuazione della classe.
Si è in particolare osservato che, per costante orientamento
giurisprudenziale, il citato art. 9 della legge n. 122 del
1989 si riferisce solo alle autorimesse realizzate in
edifici già esistenti, e che quindi anche il successivo art.
11 dello stesso decreto (che, come detto, equipara le
autorimesse alle opere di urbanizzazione) non può che
riferirsi a tale tipologia di autorimesse.
Si è peraltro precisato che a conclusioni diverse non può
condurre né il richiamato art. 2 della l.r. n. 22 del 1999
né l’art. 69 della l.r. n. 12 del 2005.
Il primo in quanto inserito in un contesto normativo che
induce ad armonizzarne la portata alle disposizioni
contenute nella legge n. 122 del 1989; il secondo in quanto
norma sopravvenuta che non può trovare applicazione nelle
fattispecie concretizzatesi prima della sua entrata in
vigore.
Ciò premesso, va rilevato che il titolo edilizio riguardante
le autorimesse realizzate dalla ricorrente si è perfezionato
prima dell’entrata in vigore dell’art. 69 della l.r. n. 12
del 2005, e che le medesime autorimesse sono connesse ad un
edificio di nuova costruzione. La loro superficie doveva
dunque essere computata ai fini della determinazione della
superficie non residenziale.
13. Come noto, il rilascio di titoli edilizi è correlato al
pagamento di un contributo, il cui ammontare è commisurato
alle spese che il Comune sostiene per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione e al costo di costruzione.
14. Con riferimento a quest’ultimo, l’art. 16, comma 9, del
d.P.R. 06.06.2001 n. 327 stabilisce che il suo ammontare sia
determinato dalle regioni, le quali a tal fine debbono,
innanzitutto, determinare i costi di costruzione degli
edifici facendo riferimento ai valori massimi previsti per
l’edilizia agevolata; devono poi individuare delle classi
cui ascrivere gli edifici stessi determinate in base al
pregio di questi, ed in relazione alle diverse classi
stabilire maggiorazioni al costo di costruzione come sopra
determinato; devono infine stabilire l’aliquota da applicare
al costo di costruzione (aliquota che può variare dal 5 al
20 per cento) ai fini del calcolo del contributo.
In Regione Lombardia il provvedimento di riferimento è la
delibera di Giunta Regionale n. V/53844 del 31.05.1994.
15. Prevede fra l’altro tale delibera che, per quanto
riguarda l’individuazione delle classi, si debba far
riferimento a quanto stabilito dal d.m. 10.05.1977 (emanato
in esecuzione dell’art. 6 della legge n. 10 del 1977).
Stabilisce inoltre che le aliquote da applicare al costo di
costruzione, ai fini del calcolo del contributo, varino in
relazione alla classe cui è ascritto l’edificio.
16. Come si vede, le classi incidono doppiamente sul calcolo
del contributo commisurato al costo di costruzione: in prima
battuta in quanto al loro variare varia anche il costo di
costruzione; in seconda battuta in quanto l’aliquota da
applicare a quest’ultimo per la determinazione del
contributo aumenta con il variare della classe.
17. Ciò premesso, si deve osservare che, in base all’art. 6
del d.m 10.05.1977, la classe cui ascrivere il singolo
edificio si determina anche sulla base del rapporto fra
superficie non residenziale e superficie residenziale:
maggiore è il rapporto e quindi maggiore è la superficie non
residenziale) più alta sarà la classe cui ricondurre il
fabbricato.
18. E’ per questa ragione che i ricorrenti hanno interesse a
dedurre che, per il calcolo della superficie non
residenziale, non si debba tenere conto delle autorimesse.
19. Sostiene in particolare l’interessata che le autorimesse
non sono computabili ai fini di cui sopra in virtù del
combinato disposto degli artt. 9, comma primo, lett. f),
della legge n. 10 del 1977 e 11 della legge 24.03.1989 n.
122 (nonché dell’art. 2 della l.r. n. 22 del 1999 che
contiene norma analoga a quella contenuta nel citato art.
11): l’art. 9, comma primo, lett. f), della legge n. 10 del
1977 stabilisce la gratuità delle concessioni edilizie
relative ad opere di urbanizzazione, mentre l’art. 11 della
legge 24.03.1989 n. 122 assimila i parcheggi e le
autorimesse alle opere di urbanizzazione, e ciò proprio al
fine di sancire la gratuità delle relative concessioni.
20. Secondo la ricorrente tali norme sarebbero espressione
di un principio generale secondo il quale i parcheggi e le
autorimesse mai potrebbero influire ai fini della
determinazione del contributo concessorio. In applicazione
di tale principio essi non dovrebbero neppure rilevare ai
fini dell’individuazione della classe giacché, come visto,
la classe incide sull’entità del contributo.
21. In proposito si deve osservare che la giurisprudenza non
offre soluzioni univoche.
22. Talune pronunce affermano che, ai sensi del coordinato
disposto dell'art. 11, comma 1, della legge n. 122 del 1989
e dell'art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977
(ora, art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del
2001), la realizzazione dei parcheggi obbligatori è
esonerata dall'onere di pagamento del contributo di
costruzione (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez.
II, 04.12.2012, n. 4896).
23. Tuttavia di recente la Sezione si è uniformata
all’orientamento opposto che afferma che, nel caso di
realizzazione di edifici nuovi, le autorimesse rilevano ai
fini dell’individuazione della classe (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 21.05.2013, n. 2771; id. 18.12.2012, n. 6509;
TAR Lombardia Milano, sez. II, 20.03.2014, n 722).
24. Si è in particolare osservato che, per costante
orientamento giurisprudenziale, il citato art. 9 della legge
n. 122 del 1989 si riferisce solo alle autorimesse
realizzate in edifici già esistenti (cfr. ex multis
Consiglio di Stato, sez. V, 24.10.2000 n. 5676), e che
quindi anche il successivo art. 11 dello stesso decreto
(che, come detto, equipara le autorimesse alle opere di
urbanizzazione) non può che riferirsi a tale tipologia di
autorimesse.
25. Si è peraltro precisato che a conclusioni diverse non
può condurre né il richiamato art. 2 della l.r. n. 22 del
1999 né l’art. 69 della l.r. n. 12 del 2005.
26. Il primo in quanto inserito in un contesto normativo che
induce ad armonizzarne la portata alle disposizioni
contenute nella legge n. 122 del 1989 (si rinvia alle
esaustive motivazioni contenute nella citata sentenza del
Consiglio di Stato n. 6509 del 2012); il secondo in quanto
norma sopravvenuta che non può trovare applicazione nelle
fattispecie concretizzatesi prima della sua entrata in
vigore.
27. Ciò premesso, va rilevato che il titolo edilizio
riguardante le autorimesse realizzate dalla ricorrente si è
perfezionato prima dell’entrata in vigore dell’art. 69 della
l.r. n. 12 del 2005, e che le medesime autorimesse sono
connesse ad un edificio di nuova costruzione. La loro
superficie doveva dunque essere computata ai fini della
determinazione della superficie non residenziale.
28. Il motivo in esame è, pertanto, infondato. Di
conseguenza il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2151 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte di pianificazione territoriale
costituiscono espressione di ampia discrezionalità
dell’amministrazione, discrezionalità che può essere
sindacata dal giudice amministrativo entro limiti alquanto
ristretti.
La giurisprudenza sostiene in particolare che le scelte
urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla
pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito,
che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo
salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od
irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si afferma
altresì che l’amministrazione non è tenuta a motivare
specificamente le scelte riguardanti le singole zone,
effettuate con lo strumento di pianificazione territoriale,
essendo all’uopo sufficiente il richiamo ai criteri generali
seguiti nell’impostazione come risultanti dall’apposita
relazione di accompagnamento al piano.
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto
interessato dall’atto di pianificazione versi in situazione
di particolare affidamento derivante da una convenzione di
lottizzazione, stipulata con il Comune, che riservi alla sua
area un trattamento più favorevole rispetto a quello
introdotto con il piano sopravvenuto ovvero derivante da una
sentenza di annullamento di un provvedimento di diniego al
rilascio un titolo edilizio. Altra eccezione si ha poi nel
caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione
agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente
edificati.
Per quanto riguarda più specificamente la decisione di
imprimere ai suoli destinazione agricola, la giurisprudenza
afferma che tale decisione può ritenersi giustificata anche
quando, pur non possedendo l’area effettiva destinazione
agricola, si intenda con essa soddisfare l’esigenza di
contenimento del consumo di suolo e, quindi, di porre argine
all’edificazione del territorio al fine preservarne il
valore ambientale.
Costituisce principio consolidato
quello secondo il quale le scelte di pianificazione
territoriale costituiscono espressione di ampia
discrezionalità dell’amministrazione, discrezionalità che
può essere sindacata dal giudice amministrativo entro limiti
alquanto ristretti.
La giurisprudenza sostiene in particolare che le scelte
urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla
pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito,
che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo
salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od
irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si
afferma altresì che l’amministrazione non è tenuta a
motivare specificamente le scelte riguardanti le singole
zone, effettuate con lo strumento di pianificazione
territoriale, essendo all’uopo sufficiente il richiamo ai
criteri generali seguiti nell’impostazione come risultanti
dall’apposita relazione di accompagnamento al piano (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 07.04.2008 n. 1476; id. 13.03.2008 n. 1095; id. 27.12.2007 n. 6686).
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il
soggetto interessato dall’atto di pianificazione versi in
situazione di particolare affidamento derivante da una
convenzione di lottizzazione, stipulata con il Comune, che
riservi alla sua area un trattamento più favorevole rispetto
a quello introdotto con il piano sopravvenuto ovvero
derivante da una sentenza di annullamento di un
provvedimento di diniego al rilascio un titolo edilizio.
Altra eccezione si ha poi nel caso in cui l’autorità intenda
imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da
fondi legittimamente edificati (cfr. Consiglio di Stato,
sez. IV, 01.10.2004 n. 6401; id. 04.03.2003 n. 1197).
Per quanto riguarda più specificamente la decisione di
imprimere ai suoli destinazione agricola, la giurisprudenza
afferma che tale decisione può ritenersi giustificata anche
quando, pur non possedendo l’area effettiva destinazione
agricola, si intenda con essa soddisfare l’esigenza di
contenimento del consumo di suolo e, quindi, di porre argine
all’edificazione del territorio al fine preservarne il
valore ambientale (cfr. ex multis TAR Sicilia Palermo
sez. I, 05.07.2012 n. 1407)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2149 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 22,
comma 6, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 l’esecuzione di
lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela
storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque
subordinata, nonostante l’avvenuta presentazione di una DIA,
al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione
richiesti dalle relative previsioni normative.
In assenza di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica la
DIA non ha, dunque, effetto e l’intervento deve considerarsi
eseguito in assenza di titolo.
Va invero osservato che, ai sensi
dell’art. 22, comma 6, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
l’esecuzione di lavori che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è
comunque subordinata, nonostante l’avvenuta presentazione di
una DIA, al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative.
In assenza di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica la DIA non ha, dunque, effetto e l’intervento
deve considerarsi eseguito in assenza di titolo (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 05.04.2007, n. 1550; TAR
Campania Napoli, sez. III, 15.01.2013, n. 295; id.,
sez. VI, 10.01.2011, n. 35)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2148 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di impugnazioni riguardanti titoli
edilizi, la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile
collegamento giuridico con il terreno interessato
dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la
sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a
ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche
allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per
effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo
limitrofo.
Va invero evidenziato che secondo la
tesi prevalente in giurisprudenza, nel caso di impugnazioni
riguardanti titoli edilizi, la mera vicinitas, ossia
l'esistenza di uno stabile collegamento giuridico con il
terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente
a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che
dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al
ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico
pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria
intrapresa sul suolo limitrofo (cfr. fra le tante, Consiglio
di Stato, Consiglio di Stato sez. IV 18.12.2013 n.
6082)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte di pianificazione territoriale
costituiscono espressione di ampia discrezionalità
dell’amministrazione, discrezionalità che può essere
sindacata dal giudice amministrativo entro limiti alquanto
ristretti.
La giurisprudenza sostiene in particolare che le scelte
urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla
pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito,
che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo
salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od
irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si afferma
altresì che l’amministrazione non è tenuta a motivare
specificamente le scelte riguardanti le singole zone,
effettuate con lo strumento di pianificazione territoriale,
essendo all’uopo sufficiente il richiamo ai criteri generali
seguiti nell’impostazione come risultanti dall’apposita
relazione di accompagnamento al piano.
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto
interessato dall’atto di pianificazione versi in situazioni
di particolare affidamento, derivanti da una convenzione di
lottizzazione stipulata con il Comune, che riservi alla sua
area un trattamento più favorevole rispetto a quello
introdotto con il piano sopravvenuto, da una sentenza
dichiarativa dell'obbligo di disporre la convenzione
urbanistica dopo che questa sia stata autorizzata, da un
giudicato di annullamento di un provvedimento di diniego al
rilascio un titolo edilizio, dalla decadenza di un vincolo
preordinato all'espropriazione. Altra eccezione si ha poi
nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione
agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente
edificati.
Per quanto concerne specificamente il caso in cui lo
strumento sopravvenuto introduca una disciplina peggiorativa
rispetto a quella previgente, la giurisprudenza afferma che
va considerato affidamento generico quello alla non
“reformatio in peius” delle precedenti previsioni
urbanistiche, con la conseguenza che in tali casi non
sussiste la necessità di una motivazione specifica delle
nuove previsioni rispetto a quella che può evincersi dai
criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la
redazione dello strumento stesso.
Per principio consolidato, le
scelte di pianificazione territoriale costituiscono
espressione di ampia discrezionalità dell’amministrazione,
discrezionalità che può essere sindacata dal giudice
amministrativo entro limiti alquanto ristretti.
La giurisprudenza sostiene in particolare che le scelte
urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla
pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito,
che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo
salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od
irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si
afferma altresì che l’amministrazione non è tenuta a
motivare specificamente le scelte riguardanti le singole
zone, effettuate con lo strumento di pianificazione
territoriale, essendo all’uopo sufficiente il richiamo ai
criteri generali seguiti nell’impostazione come risultanti
dall’apposita relazione di accompagnamento al piano (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 07.04.2008 n. 1476; id. 13.03.2008 n. 1095; id. 27.12.2007 n. 6686).
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il
soggetto interessato dall’atto di pianificazione versi in
situazioni di particolare affidamento, derivanti da una
convenzione di lottizzazione stipulata con il Comune, che
riservi alla sua area un trattamento più favorevole rispetto
a quello introdotto con il piano sopravvenuto, da una
sentenza dichiarativa dell'obbligo di disporre la
convenzione urbanistica dopo che questa sia stata
autorizzata, da un giudicato di annullamento di un
provvedimento di diniego al rilascio un titolo edilizio,
dalla decadenza di un vincolo preordinato
all'espropriazione. Altra eccezione si ha poi nel caso in
cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un
lotto intercluso da fondi legittimamente edificati (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.2004 n. 6401; id. 04.03.2003 n. 1197).
Per quanto concerne specificamente il caso in cui lo
strumento sopravvenuto introduca una disciplina peggiorativa
rispetto a quella previgente, la giurisprudenza afferma che
va considerato affidamento generico quello alla non
“reformatio in peius” delle precedenti previsioni
urbanistiche, con la conseguenza che in tali casi non
sussiste la necessità di una motivazione specifica delle
nuove previsioni rispetto a quella che può evincersi dai
criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la
redazione dello strumento stesso (cfr. Consiglio di Stato,
sez. IV, 28.02.2005, n. 719; id. 26.05.2003 n. 2827) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2144 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le osservazioni presentate dai privati nel
procedimento di approvazione dello strumento urbanistico
hanno natura di mero apporto collaborativo.
Pertanto, per il loro rigetto, non occorre una approfondita
motivazione ed una specifica ed analitica confutazione delle
argomentazioni dedotte dal privato, essendo invece
sufficiente che le controdeduzioni dell'amministrazione,
ancorché sintetiche, siano idonee a dimostrare che le
osservazioni sono state esaminate e ragionevolmente ritenute
in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione dello strumento urbanistico.
In proposito si deve
preliminarmente osservare che, per consolidato insegnamento
giurisprudenziale, le osservazioni presentate dai privati
nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico
hanno natura di mero apporto collaborativo; pertanto, per il
loro rigetto, non occorre una approfondita motivazione ed
una specifica ed analitica confutazione delle argomentazioni
dedotte dal privato, essendo invece sufficiente che le
controdeduzioni dell'amministrazione, ancorché sintetiche,
siano idonee a dimostrare che le osservazioni sono state
esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli
interessi e le considerazioni generali poste a base della
formazione dello strumento urbanistico (cfr. fra le tante,
TAR Emilia-Romagna Bologna, sez. I, 21.03.2014, n.
314) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2144 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
In area sottoposta a
vincolo ambientale ai sensi degli artt. 136 e 142 del d.lgs.
n. 42/2004, si sono effettuati svariati interventi
nell’ambito di un’operazione di riqualificazione del parco,
fra i quali il taglio di alcune specie arboree nel demanio
lacuale, senza aver preventivamente richiesto
l’autorizzazione paesaggistica.
Ebbene, nel caso de quo la sanzione è stata determinata con
riferimento ad una accurata relazione di stima, versata in
atti, redatta secondo il metodo cosiddetto “svizzero”,
condiviso dal perito agronomo di parte ricorrente, mediante,
cioè, un’operazione aritmetica che considera le singole
variabili del prezzo base, dell’indice estetico, dello stato
sanitario, dell’indice di posizione e di dimensione per la
commisurazione del valore ambientale delle piante e tenendo
conto, altresì, di quanto accertato dal Corpo Forestale
dello Stato nonché previa acquisizione dei pareri resi dalla
Sovrintendenza e dalla Commissione per il paesaggio
provinciale.
In concreto, l’unico parametro che poteva essere utilizzato
per la determinazione della sanzione pecuniaria da versare
consisteva nel danno ambientale provocato, non potendosi in
alcun modo determinare il profitto ricevuto dal danneggiante
a causa dell’azione posta in essere in violazione del codice
dei beni culturali e del paesaggio.
La società ricorrente, proprietaria di un
immobile sito in Mandello del Lario in area sottoposta a
vincolo ambientale ai sensi degli artt. 136 e 142 del d.lgs.
n. 42/2004, effettuava svariati interventi nell’ambito di
un’operazione di riqualificazione del parco, fra i quali il
taglio di alcune specie arboree nel demanio lacuale, senza
aver preventivamente richiesto l’autorizzazione
paesaggistica.
Con il presente ricorso l’istante ha impugnato il
provvedimento indicato in epigrafe, con il quale il
Dirigente del settore territorio, patrimonio e demanio della
Provincia di Lecco, in seguito alla presentazione di
apposita domanda finalizzata all’accertamento della
compatibilità paesaggistica degli interventi ai sensi
dell’art. 181 del d.lgs. n. 42/2004, ha irrogato alla stessa
una sanzione pecuniaria di euro 9.578,02 per danno
ambientale, ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004,
per aver tagliato alcune specie arboree anche di pregio nel
demanio lacuale, senza aver preventivamente richiesto
l’autorizzazione paesaggistica.
A sostegno del proprio ricorso l’istante ha dedotto
l’eccesso di potere per carenza di motivazione e la
violazione dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 con
riferimento all’assunta errata determinazione della sanzione
pecuniaria irrogata.
...
Il ricorso è infondato.
Le censure della società istante si incentrano
esclusivamente sul quantum della sanzione, presupponendo,
dunque, la piena legittimità dell’an dell’irrogazione della
sanzione medesima, atteso che il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria richiesto
dalla società ricorrente è subordinato al pagamento della
sanzione pecuniaria irrogata.
Ai sensi dell’art. 167, commi 1, 4 e 5, del d.lgs. n.
42/2004, infatti:
“1. In caso di violazione degli obblighi e degli ordini
previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è
sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese,
fatto salvo quanto previsto al comma 4.
4. L'autorità amministrativa competente accerta la
compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al
comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380.
5. Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi
titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli
interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda
all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli
interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni.
Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione. L'importo della
sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima.
In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione
demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento
della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi
dell'articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata
anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma”.
Nella fattispecie all’esame del collegio, la sanzione è
stata determinata con riferimento ad una accurata relazione
di stima, versata in atti, redatta secondo il metodo
cosiddetto “svizzero”, condiviso dal perito agronomo di
parte ricorrente, mediante, cioè, un’operazione aritmetica
che considera le singole variabili del prezzo base,
dell’indice estetico, dello stato sanitario, dell’indice di
posizione e di dimensione per la commisurazione del valore
ambientale delle piante e tenendo conto, altresì, di quanto
accertato dal Corpo Forestale dello Stato, come risulta dal
rapporto del 24.02.2010, nonché previa acquisizione
dei pareri resi dalla Sovrintendenza e dalla Commissione per
il paesaggio provinciale, tutti allegati al provvedimento
impugnato.
In concreto, l’unico parametro che poteva essere utilizzato
per la determinazione della sanzione pecuniaria da versare
consisteva nel danno ambientale provocato, non potendosi in
alcun modo determinare il profitto ricevuto dal danneggiante
a causa dell’azione posta in essere in violazione del codice
dei beni culturali e del paesaggio.
Risultano, dunque, infondate le censure dedotte
dall’istante, in considerazione della piena legittimità del
provvedimento impugnato, che risulta idoneamente e
congruamente motivato soprattutto per relationem, con
riferimento alla relazione di stima al medesimo allegata,
che ne costituisce il fondamento.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.07.2014 n. 2138 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Riguardo all’estraneità
dagli obblighi di rimozione, bonifica e messa in sicurezza
del proprietario incolpevole del sito contaminato, il
collegio ritiene di confermare l’orientamento già più volte
espresso in proposito nonché condiviso da altri Tribunali
che si ricava dalla complessiva lettura delle norme che
concernono la bonifica dei siti inquinati.
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Il combinato disposto delle disposizioni di legge in materia
non può che essere interpretato nel senso che l'obbligo di
adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a
fronteggiare la situazione di inquinamento incombe solamente
a carico di colui che di tale situazione sia responsabile,
per avervi dato causa (cfr., nello stesso senso, le
disposizioni in tema di siti di interesse nazionale, o di
preminente interesse pubblico per la riconversione
industriale, artt. 252 e 252-bis dlgs 152/2006).
La norma individua, perciò, dal punto di vista soggettivo,
nella responsabilità dell'autore del deposito dei rifiuti e,
quindi, dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la
fonte dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza quasi univoca, condivisa dal
Collegio, deduce la mancanza di responsabilità, e quindi di
obbligo a bonificare o di mettere in sicurezza, del
proprietario incolpevole.
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre ai privati
che non hanno responsabilità diretta sull'origine del
fenomeno contestato, ma che vengono individuati solo in
quanto proprietari del bene, lo svolgimento di attività di
recupero e di risanamento.
L'enunciato è d'altronde conforme al principio a cui si
ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art.
174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa correre
un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento
di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata non
responsabile della contaminazione, invero, non grava alcun
obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in
argomento, ma solo la facoltà di eseguirli al fine di
evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato da
onere reale, al pari delle spese sostenute per gli
interventi di recupero ambientale, assistite anche da
privilegio speciale immobiliare (art. 253 d.lgs. n.
152/2006).
La normativa citata prevede, infatti, che, "in caso di
mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte
del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata
individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale
vanno eseguite dall'amministrazione competente la quale
potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del
valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in
cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti
sul terreno oggetto dei suddetti interventi”.
Deve, inoltre, darsi atto del recente intervento, sul punto,
del Consiglio di Stato in adunanza plenaria (n. 21/2013),
che ha interpretato la normativa nazionale nel senso che:
“L’Amministrazione non può imporre al proprietario di
un’area inquinata, che non sia anche l’autore
dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di
messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art.
240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. n. 152/2006, in quanto
gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano
limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253,
stesso d.lgs., in tema di oneri reali e privilegio speciale
immobiliare. Le disposizioni contenute nel Titolo V della
Parte IV, del d.lgs. n. 152/2006 (artt. da 239 a 253)
operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la
figura del responsabile dell’inquinamento e quella del
proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a
causare la contaminazione”.
Ed invero, riguardo all’estraneità
dagli obblighi di rimozione, bonifica e messa in sicurezza
del proprietario incolpevole del sito contaminato, il
collegio ritiene di confermare l’orientamento già più volte
espresso in proposito (cfr., ad esempio, TAR Lombardia, sez. IV, 31.01.2012, n. 332;
09.01.2014, n. 57; 11.07.2014, n. 1835), nonché condiviso da altri Tribunali
(cfr., ad esempio, TAR Toscana, sez. II, 06.05.2009, n.
762) che si ricava dalla complessiva lettura delle norme che
concernono la bonifica dei siti inquinati.
Il nuovo codice dell'ambiente riprende in tema
l'impostazione già seguita dal d.lgs. n. 22/1997, il cui
art. 17 stabiliva che "Chiunque cagiona, anche in maniera
accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1,
lettera a), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale
di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a
proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e
degli impianti dai quali deriva il pericolo di
inquinamento".
Con riferimento alla fattispecie del deposito incontrollato
di rifiuti sul suolo e nel suolo, l’art. 192 del codice
dell’ambiente prevede la responsabilità di chi ha effettuato
il deposito e, solo nel caso di imputabilità a titolo di
dolo o colpa grave, del proprietario e dei titolari di
diritti reali o personali di godimento sull’area in base
agli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al
controllo, in contraddittorio con i soggetti interessati.
Per quanto attiene ai procedimenti di bonifica, l'art. 242
del d.lgs. n. 152/2006, ai primi tre commi, dispone che: “1.
Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado
di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento
mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie
di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e
con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2. La
medesima procedura si applica all'atto di individuazione di
contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi
di aggravamento della situazione di contaminazione.
2. Il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie
misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla
contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri
oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello
delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia
stato superato, provvede al ripristino della zona
contaminata, dandone notizia, con apposita
autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti
per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione.
L'autocertificazione conclude il procedimento di notifica di
cui al presente articolo, ferme restando le attività di
verifica e di controllo da parte dell'autorità competente da
effettuarsi nei successivi quindici giorni. Nel caso in cui
l'inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i
parametri da valutare devono essere individuati, caso per
caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi
svolte nel tempo.
3. Qualora l'indagine preliminare di cui al comma 2 accerti
l'avvenuto superamento delle CSC anche per un solo
parametro, il responsabile dell'inquinamento ne dà immediata
notizia al comune ed alle province competenti per territorio
con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in
sicurezza di emergenza adottate. Nei successivi trenta
giorni, presenta alle predette amministrazioni, nonché alla
regione territorialmente competente il piano di
caratterizzazione con i requisiti di cui all'Allegato 2 alla
parte quarta del presente decreto. Entro i trenta giorni
successivi la regione, convocata la conferenza di servizi,
autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali
prescrizioni integrative. L'autorizzazione regionale
costituisce assenso per tutte le opere connesse alla
caratterizzazione, sostituendosi ad ogni altra
autorizzazione, concessione, concerto, intesa, nulla osta da
parte della pubblica amministrazione”.
Secondo le disposizioni normative dell’art. 250, inoltre,
"Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non
provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal
presente titolo ovvero non siano individuabili e non
provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti
interessati, le procedure e gli interventi di cui
all'articolo 242 sono realizzati d'ufficio dal comune
territorialmente competente e, ove questo non provveda,
dalla regione, secondo l'ordine di priorità fissato dal
piano regionale per la bonifica delle aree inquinate,
avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati,
individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza
pubblica. Al fine di anticipare le somme per i predetti
interventi le regioni possono istituire appositi fondi
nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio”.
Il combinato disposto delle disposizioni appena citate non
può che essere interpretato nel senso che l'obbligo di
adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a
fronteggiare la situazione di inquinamento incombe solamente
a carico di colui che di tale situazione sia responsabile,
per avervi dato causa (cfr., nello stesso senso, le
disposizioni in tema di siti di interesse nazionale, o di
preminente interesse pubblico per la riconversione
industriale, artt. 252 e 252-bis).
La norma individua, perciò, dal punto di vista soggettivo,
nella responsabilità dell'autore del deposito dei rifiuti e,
quindi, dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la
fonte dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza quasi univoca, condivisa dal
Collegio, deduce la mancanza di responsabilità, e quindi di
obbligo a bonificare o di mettere in sicurezza, del
proprietario incolpevole (cfr., TAR Toscana, sez. II, 06.05.2009, n. 762; 17.04.2009, n. 665; TAR Veneto,
sez. III, 25.05.2005, n. 2174; TAR Lombardia,
Milano, sez. I, 08.10.2004, n. 5473; TAR Campania,
sez. V, 28.09.1998, n. 2988).
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre ai privati
che non hanno responsabilità diretta sull'origine del
fenomeno contestato, ma che vengono individuati solo in
quanto proprietari del bene, lo svolgimento di attività di
recupero e di risanamento (TAR Veneto, sez. III, 02.02.2002, n. 320).
L'enunciato è d'altronde conforme al principio a cui si
ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art.
174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa correre
un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento
di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata non
responsabile della contaminazione, invero, non grava alcun
obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in
argomento, ma solo la facoltà di eseguirli al fine di
evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato da
onere reale, al pari delle spese sostenute per gli
interventi di recupero ambientale, assistite anche da
privilegio speciale immobiliare (art. 253 d.lgs. n.
152/2006).
La normativa citata prevede, infatti, che, "in caso di
mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte
del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata
individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale
vanno eseguite dall'amministrazione competente la quale
potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del
valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in
cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti
sul terreno oggetto dei suddetti interventi (TAR
Lombardia, Brescia, 16.03.2006, n. 291; TAR Lombardia
Milano, sez. II, 10.07.2007, n. 5355)”.
Deve, inoltre, darsi atto del recente intervento, sul punto,
del Consiglio di Stato in adunanza plenaria (n. 21/2013), che
ha interpretato la normativa nazionale nel senso che:
“L’Amministrazione non può imporre al proprietario di
un’area inquinata, che non sia anche l’autore
dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di
messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art.
240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. n. 152/2006, in quanto
gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano
limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253,
stesso d.lgs., in tema di oneri reali e privilegio speciale
immobiliare. Le disposizioni contenute nel Titolo V della
Parte IV, del d.lgs. n. 152/2006 (artt. da 239 a 253)
operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la
figura del responsabile dell’inquinamento e quella del
proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a
causare la contaminazione” (cfr., nello stesso senso, Cons.
Stato, A.P., 13.11.2013, n. 25).
Nella fattispecie all’esame del collegio, dall’esame del
provvedimento impugnato non emerge una adeguata motivazione
che consenta di comprendere le concrete ragioni che hanno
condotto l’amministrazione a ritenere responsabile la
società ricorrente della condotta contestata.
Nonostante, invero, l’Amministrazione comunale dia atto
della situazione di accumulo di rifiuti sul sito della
società istante, non fornisce, tuttavia, alcuna indicazione
circa la responsabilità di quest’ultima, né il titolo in
base al quale la proprietà sarebbe tenuta ad intervenire.
In alcuna porzione del provvedimento impugnato risulta,
dunque, dimostrata l’imputabilità a titolo di dolo o di
colpa del proprietario del sito per la violazione anche di
meri obblighi di controllo e di manutenzione, condizione
alla quale è subordinata, invece, come visto, la possibilità
di configurazione in capo allo stesso di un obbligo di
provvedere alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti ivi
abbandonati.
Ne risulta l’attuale illegittimità dell’ordine di rimozione
a carico della società ricorrente.
Ne consegue, altresì, che il Comune potrà legittimamente
continuare a porre in essere l’intervento di ufficio di
risanamento delle aree di via Salvanesco, ai fini della
bonifica del sito e a tutela della salute pubblica, fatta
salva la possibilità di rivalersi delle spese sostenute una
volta accertata la responsabilità dei soggetti obbligati.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
accolto, nei limiti di cui in motivazione, e per l’effetto
va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato nella
parte in cui pone l’obbligo di rimozione a carico della
società istante
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.07.2014 n. 2137 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle aggiudicazioni, il principio generale è
sempre quello della gara e l’affidamento diretto è sempre
una deroga a tale principio, deroga consentita in casi di
stretta interpretazione.
A tale proposito, la società mista si giustifica quale forma
di partenariato pubblico-privato costituito per la gestione
di uno specifico servizio per un tempo determinato. In
questi casi non si ha una esenzione dal principio della
gara, ma muta l’oggetto della gara, che deve sempre essere
esperita ma non più per trovare il terzo gestore del
servizio, bensì il partner privato con cui gestire il
servizio.
È evidente quindi che le società miste cosiddette aperte,
costituite cioè per finalità specifiche ma indifferenziate,
non possono essere affidatarie dirette in quanto non
soddisfano le condizioni a cui è ancorata la deroga.
Pertanto, l’acquisizione di una partecipazione azionaria di
una società costituita in precedenza, ancorché avente ad
oggetto la gestione dei rifiuti, non è sufficiente a
legittimare l’affidamento diretto e ad escludere la
necessità della gara.
Il ricorso era, comunque, infondato anche
nel merito, atteso che, come affermato dal Consiglio di
Stato (sez. V, 15.10.2010, n. 7533), “Nelle
aggiudicazioni, il principio generale è sempre quello della
gara e l’affidamento diretto è sempre una deroga a tale
principio, deroga consentita in casi di stretta
interpretazione. A tale proposito, la società mista si
giustifica quale forma di partenariato pubblico-privato
costituito per la gestione di uno specifico servizio per un
tempo determinato. In questi casi non si ha una esenzione
dal principio della gara, ma muta l’oggetto della gara, che
deve sempre essere esperita ma non più per trovare il terzo
gestore del servizio, bensì il partner privato con cui
gestire il servizio. È evidente quindi che le società miste
cosiddette aperte, costituite cioè per finalità specifiche
ma indifferenziate, non possono essere affidatarie dirette
in quanto non soddisfano le condizioni a cui è ancorata la
deroga. Pertanto, l’acquisizione di una partecipazione
azionaria di una società costituita in precedenza, ancorché
avente ad oggetto la gestione dei rifiuti, non è sufficiente
a legittimare l’affidamento diretto e ad escludere la
necessità della gara”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.07.2014 n. 2120 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le misure di salvaguardia si applicano anche ai
piani attuativi e non solo al rilascio dei titoli edilizi.
La giurisprudenza in merito ha riconosciuto che l’art. 12,
comma 3, del d.p.r. n. 380 del 2001, che costituisce la
normativa statale di riferimento, applicabile anche al caso
in decisione, è “norma, invero, avente valenza mista:
edilizia, da un lato, in quanto volta ad incidere sui
tempi dell’attività edificatoria; urbanistica,
dall’altro, in quanto finalizzata alla salvaguardia, in
definiti ambiti temporali, degli assetti urbanistici in
itinere e, medio tempore, dell’ordinato assetto del
territorio”.
Proprio per tale ragione si è affermato che le misure di
salvaguardia riguardano l’intera attività pianificatoria e
non sono limitate all’attività edilizia in senso stretto.
Venendo all’esame del ricorso, esso
è fondato nel primo motivo.
Dall’esame degli atti risulta che l’amministrazione comunale
ha applicato le misure di salvaguardia previste dall’art. 36,
comma 4, della L.R. 12/2005 che, nel testo vigente al momento
dell’adozione della variante, avevano durata quinquennale.
Le misure di salvaguardia si applicano anche ai piani
attuativi e non solo al rilascio dei titoli edilizi.
La giurisprudenza in merito ha riconosciuto che l’art. 12,
comma 3, del d.p.r. n. 380 del 2001, che costituisce la
normativa statale di riferimento, applicabile anche al caso
in decisione, è “norma, invero, avente valenza mista:
edilizia, da un lato, in quanto volta ad incidere sui tempi
dell’attività edificatoria; urbanistica, dall’altro, in
quanto finalizzata alla salvaguardia, in definiti ambiti
temporali, degli assetti urbanistici in itinere e, medio
tempore, dell’ordinato assetto del territorio” (Cons. Stato,
Ad. Plen. 07/04/2008 n. 2). Proprio per tale ragione si è
affermato che le misure di salvaguardia riguardano l’intera
attività pianificatoria e non sono limitate all’attività
edilizia in senso stretto (Cons. Stato, VI, 20.11.1986
n. 865).
Venendo al problema della durata di tali misure occorre
rammentare che con la L.R. 14.07.2006 n. 12, entrata in
vigore il 19.07.2006, l’art. 36, comma 4, della L.R. 12/2005
è stato modificato nel senso che la misura di salvaguardia
non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione
dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi
in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto
all'amministrazione competente per la approvazione entro un
anno dalla conclusione della fase di pubblicazione.
Nel caso in questione è pacifico che lo strumento
urbanistico non sia stato sottoposto all'amministrazione
competente per l’approvazione entro un anno dalla
conclusione della fase di pubblicazione, con la conseguenza
che nel vigore della nuova norma il termine applicabile alla
domanda di lottizzazione della ricorrente è stato ridotto da
cinque a tre anni.
Circa la contestata applicazione retroattiva della nuova
disposizione occorre rilevare che la L.R. 14.07.2006 n.
12 ha operato la riconduzione della disciplina delle misure
di salvaguardia nell’alveo dei principi della normativa
statale.
In merito la Corte costituzionale (sentenza 30.11.2007
n. 402) ha chiarito che “fino al momento di adozione degli
atti di PGT, il legislatore regionale ha inteso modificare
il termine massimo di efficacia delle misure di salvaguardia
che aveva previsto in sede di prima approvazione,
adeguandolo a quello previsto dal legislatore statale (tre
anni dall'adozione dello strumento urbanistico, ovvero
cinque anni nell'ipotesi in cui questo sia stato sottoposto
all'amministrazione competente per la approvazione entro un
anno dalla conclusione della fase di pubblicazione)”.
In merito a tale termine la citata Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato ha chiarito che “l’art. 12, comma 3, del
testo unico per l’edilizia ha inteso, invero, nel riprendere
i contenuti sostanziali dell’articolo unico della legge n.
1902 del 1952, dettare, pur con norma apparentemente di
dettaglio, una disposizione che ben può essere riguardata
quale norma di principio -espressiva dell’esigenza di
riordino del sistema che permea il testo unico- che, in
armonia con i criteri della trasparenza, efficacia, celerità
ed economicità dell’azione amministrativa e, in generale,
con gli ordinari canoni di buona amministrazione e
nell’ottica dei principi di semplificazione e di non
aggravamento del procedimento, vale ad indurre le
amministrazioni locali a definire tempestivamente l’iter
procedimentale conseguente all’adozione degli strumenti
urbanistici generali con il loro tempestivo invio agli
organi deputati alla loro approvazione, correlando agli
eventuali ritardi burocratici un regime di minor favore,
volto, essenzialmente, ad evitare le strumentalizzazioni che
un non sollecito esercizio dell’azione amministrativa
renderebbe possibile e (con contenuti in certo modo
sanzionatori delle spesso defatiganti lungaggini
amministrative) a favorire una maggiore responsabilizzazione
degli amministratori locali, in funzione anche, come cennato
nella decisione di rimessione, dell’esigenza di tutelare il
valore costituzionale della proprietà e delle connesse
facoltà edificatorie”.
In considerazione dell’avvenuta conformazione della Regione
alla normativa statale di principio con la L.R. 14.07.2006 n. 12, deve escludersi che il testo originario
dell’art. 36, c. 4, della L.R. 12/2005 abbia carattere ultrattivo.
Il primo motivo di ricorso va quindi accolto con
accertamento dell’illegittimità degli atti che hanno
applicato le misure di salvaguardia.
L’accertamento dell’avvenuta scadenza delle misure di
salvaguardia esime dall’esame degli altri motivi in quanto
attinenti a profili procedurali (motivo 2), per violazione
del giudicato (motivo 3) ed all’applicazione delle misure di
salvaguardia agli atti urbanistici (motivo 4) in quanto già
risolto nell’esame del primo motivo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’amministrazione non può
opporre la sussistenza del vincolo cimiteriale dopo che ha
autorizzato, in deroga, la destinazione della medesima area
ad attività in contrasto con il vincolo.
Sebbene la giurisprudenza abbia da
sempre ritenuto che è necessario un titolo edilizio per
qualsiasi manufatto che possa costituire, oltre che nuova
costruzione od ampliamento di costruzione esistente,
modificazione della struttura di una costruzione
preesistente senza alcuna distinzione tra opera esterna ed
opera interna del fabbricato, tra lavoro di notevole entità
e lavoro di modeste dimensioni, giacché qualunque
modificazione dello stato di fatto preesistente relativo ad
opere edilizie già precedentemente realizzate è subordinata
alla valutazione dell’amministrazione, occorre rilevare che
lo stesso non può dirsi ai fini dell’accertamento della
violazione di un vincolo di inedificabilità, anche assoluta.
Infatti la realizzazione in deroga al vincolo cimiteriale di
un manufatto, quale, nel caso in questione, di uno
stabilimento comprensivo di un cortile interno, comporta la
destinazione dell’area interna a servizio della medesima
attività, con evidente sottrazione al regime proprio del
vincolo di inedificabilità costituito sull’area.
Ne consegue che l’autorizzazione prefettizia rilasciata a
suo tempo per la realizzazione del capannone in deroga al
vincolo cimiteriale produce effetti anche nei confronti
dell’area cortilizia interna, successivamente parzialmente
chiusa per ampliamento del capannone medesimo.
Il ricorso è fondato.
Sebbene la giurisprudenza abbia da sempre ritenuto che è
necessario un titolo edilizio per qualsiasi manufatto che
possa costituire, oltre che nuova costruzione od ampliamento
di costruzione esistente, modificazione della struttura di
una costruzione preesistente senza alcuna distinzione tra
opera esterna ed opera interna del fabbricato, tra lavoro di
notevole entità e lavoro di modeste dimensioni, giacché
qualunque modificazione dello stato di fatto preesistente
relativo ad opere edilizie già precedentemente realizzate è
subordinata alla valutazione dell’amministrazione, occorre
rilevare che lo stesso non può dirsi ai fini
dell’accertamento della violazione di un vincolo di
inedificabilità, anche assoluta.
Infatti la realizzazione in deroga al vincolo cimiteriale di
un manufatto, quale, nel caso in questione, di uno
stabilimento comprensivo di un cortile interno, comporta la
destinazione dell’area interna a servizio della medesima
attività, con evidente sottrazione al regime proprio del
vincolo di inedificabilità costituito sull’area.
Ne consegue che l’autorizzazione prefettizia rilasciata sul
mappale n. 226 con decreto 09.02.1956 per la realizzazione del
capannone in deroga al vincolo cimiteriale produce effetti
anche nei confronti dell’area cortilizia interna,
successivamente parzialmente chiusa per ampliamento del
capannone medesimo.
Da ciò consegue che l’amministrazione non poteva opporre al
ricorrente la sussistenza del vincolo cimiteriale dopo che
aveva autorizzato, in deroga, la destinazione della medesima
area ad attività in contrasto con il vincolo.
In definitiva quindi il ricorso va accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2115 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti di repressione degli abusi
edilizi e di demolizione costituiscono atti vincolati per i
quali non è necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento.
---------------
E' irrilevante il decorso del tempo dalla realizzazione
degli abusi, visto che il potere/dovere di vigilanza
edilizia e urbanistica non è soggetto a limiti temporali,
soprattutto in caso di abusi di vastità e rilevanza come
quelli indicati, posti in essere dagli stessi destinatari
del provvedimento demolitorio, che non possono invocare
alcun affidamento.
Nel secondo motivo, si rileva che la
comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio ex
art. 7 della legge 241/1990 non farebbe riferimento ad un
elemento costruttivo, in particolare al serbatoio del
carburante.
La doglianza è priva di pregio, visto che –per diffusa
giurisprudenza– i provvedimenti di repressione degli abusi
edilizi e di demolizione costituiscono atti vincolati (cfr.,
fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 28.04.2014, n.
2196), per i quali non è necessaria la comunicazione di
avvio del procedimento; senza contare che, nella presente
fattispecie, i ricorrenti hanno potuto esporre al Comune le
proprie osservazioni anche con riguardo al suindicato
serbatoio di carburante, per cui il contraddittorio sul
punto è stato in ogni caso garantito
---------------
Da ultimo, è irrilevante
il decorso del tempo dalla realizzazione degli abusi, visto
che il potere/dovere di vigilanza edilizia e urbanistica non
è soggetto a limiti temporali, soprattutto in caso di abusi
di vastità e rilevanza come quelli indicati, posti in essere
dagli stessi destinatari del provvedimento demolitorio, che
non possono invocare alcun affidamento (cfr. da ultimo, fra
le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 11.07.2014, n. 3568) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2114 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La zona interessata dagli abusi di cui è causa ha
–pacificamente– destinazione agricola, trattandosi di “Zona
E”, disciplinata dall’art. 19 delle Norme Tecniche (NTA) del
Piano delle Regole del PGT.
Nella zona “E2” sono ammesse le sole attività agricole, nel
rispetto degli obiettivi di tutela ambientale e
paesaggistica, oltre agli interventi per le zone agricole di
cui all’art. 59 della LR 12/2005 (si tratta dei soli
interventi per l’esercizio dell’impresa agricola di cui
all’art. 2135 c.c.).
Le opere realizzate dai ricorrenti hanno determinato uno
stravolgimento dell’area, che da zona per la sola attività
agricola è stata -di fatto e senza alcun idoneo titolo
giuridico- trasformata in area per lo svolgimento
dell’attività industriale dei ricorrenti; in particolare si
tratta di attività di autotrasporto, mai peraltro
autorizzata sull’area di cui è causa.
E’ escluso, pertanto, qualsivoglia esercizio di impresa
agricola avendo l’attività di trasporto carattere di impresa
commerciale e non agricola (cfr. l’art. 2195 del codice
civile).
Ai fini della valutazione della trasformazione urbanistica
dell’area occorre avere riguardo agli interventi edilizi nel
loro complesso –essendo tutti finalizzati a consentire
l’attività di autotrasporto– e non appare possibile, come
vorrebbero invece i ricorrenti, parcellizzare gli
interventi, come se ciascuno di essi avesse una autonoma e
distinta rilevanza sul piano urbanistico ed edilizio.
Nel terzo motivo, si
sostiene che gli interventi edilizi posti in essere
sull’area avrebbero carattere tutto sommato precario e
limitato e non sarebbero idonei a determinare alcuna
trasformazione urbanistica ed edilizia del fondo, come
invece indicato dal Comune.
La doglianza è infondata.
La zona interessata dagli abusi di cui è causa ha –pacificamente– destinazione agricola, trattandosi di “Zona
E”, disciplinata dall’art. 19 delle Norme Tecniche (NTA) del
Piano delle Regole, vale a dire uno dei tre atti che
compongono il Piano di Governo del Territorio (PGT),
strumento urbanistico generale comunale ai sensi della legge
regionale della Lombardia n. 12/2005 (cfr. il doc. 9 dei
ricorrenti per il testo delle citate NTA).
Nella zona “E2” sono ammesse le sole attività agricole, nel
rispetto degli obiettivi di tutela ambientale e
paesaggistica, oltre agli interventi per le zone agricole di
cui all’art. 59 della LR 12/2005 (si tratta dei soli
interventi per l’esercizio dell’impresa agricola di cui
all’art. 2135 c.c.).
Le opere realizzate dai ricorrenti –descritte
analiticamente non solo nel provvedimento impugnato (doc. 1
dei ricorrenti), ma anche nei verbali di sopralluogo del
Comune, in specie quello del 20.06.2014, cfr. i docc. 14, 17
e 18 del resistente, questi ultimi costituenti le fotografie
scattate nel corso dei sopralluoghi– hanno, infatti,
determinato uno stravolgimento dell’area, che da zona per la
sola attività agricola è stata -di fatto e senza alcun
idoneo titolo giuridico- trasformata in area per lo
svolgimento dell’attività industriale dei ricorrenti; in
particolare si tratta di attività di autotrasporto, mai
peraltro autorizzata sull’area di cui è causa (cfr. il doc.
5 dei ricorrenti, copia delle visure della Camera di
Commercio, da cui si desume che la Cooperativa CTL svolge
attività di autotrasporto per conto terzi con autoveicoli
dotati di notevole massa).
E’ escluso, pertanto, qualsivoglia esercizio di impresa
agricola –del resto neppure sostenuto dagli esponenti–
avendo l’attività di trasporto carattere di impresa
commerciale e non agricola (cfr. l’art. 2195 del codice
civile).
Ai fini della valutazione della trasformazione urbanistica
dell’area occorre avere riguardo agli interventi edilizi nel
loro complesso –essendo tutti finalizzati a consentire
l’attività di autotrasporto– e non appare possibile, come
vorrebbero invece i ricorrenti, parcellizzare gli
interventi, come se ciascuno di essi avesse una autonoma e
distinta rilevanza sul piano urbanistico ed edilizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2114 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La precarietà deve escludersi quando l’opera
assolve esigenze durature (come nel caso di specie, dove le
strutture sono tutte finalizzate a garantire un’attività di
impresa svolta da anni) e ciò a prescindere dalla eventuale
facile amovibilità dell’opera sul piano strettamente
materiale.
---------------
La nozione urbanistica di “pertinenza” si differenzia
profondamente da quella del diritto privato ed è
circoscritta ad opere non aventi rilievo sul piano
urbanistico e prive di autonomia e valore di mercato.
---------------
Il serbatoio del gasolio, coperto da una tettoia appoggiata
su un basamento in cemento, oltre ad essere incompatibile
con la destinazione agricola dell’area –il serbatoio serve
per il rifornimento degli automezzi aziendali– ha carattere
di stabilità, essendo la tettoia stabilmente collocata su
una base di cemento e pertanto necessitante di titolo
edilizio.
---------------
La pavimentazione in ghiaia rullata e cemento di vasta parte
del compendio, in zona agricola, è soggetta al rilascio di
titolo edilizio, trattandosi di attività di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio; parimenti soggetta a
titolo deve reputarsi la buca in calcestruzzo per la
riparazione dei mezzi di trasporto, avente profondità di
circa 1,5 metri.
Ad ogni buon conto, e fermo restando quanto sopra esposto,
non è neppure possibile ritenere che le singole opere
indicate in ricorso abbiano carattere precario e non siano
soggette a titolo edilizio.
La precarietà, infatti, deve escludersi quando l’opera
assolve esigenze durature (come nel caso di specie, dove le
strutture sono tutte finalizzate a garantire un’attività di
impresa svolta da anni) e ciò a prescindere dalla eventuale
facile amovibilità dell’opera sul piano strettamente
materiale (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V,
07.07.2014, n. 3438 e TAR Lombardia, Milano, sez. II,
26.09.2013, n. 2210).
Così, con riguardo alle singole opere descritte nel terzo
motivo e tutte prive di titolo edilizio, si può osservare
che:
- il fabbricato condonato nel 1985 quale “deposito” (cfr. il
doc. 19 del resistente), è stato modificato mediante
realizzazione di una veranda chiusa con vetri, utilizzata
quale ufficio (cfr. il doc. 14 del resistente e le
fotografie docc. 17 e 18); dunque è un’opera stabile, non
compatibile con la destinazione agricola (peraltro nessuna
attività agricola è svolta nel fondo) e neppure avente
carattere pertinenziale, visto che la nozione urbanistica di
“pertinenza” si differenzia profondamente da quella del
diritto privato ed è circoscritta ad opere non aventi
rilievo sul piano urbanistico e prive di autonomia e valore
di mercato (così, Consiglio di Stato, sez. V, 17.06.2014, n.
3074);
- il prefabbricato in pannelli di alluminio coibentati, con
porta e finestra ad uso spogliatoio e ricreativo, appoggiato
su traversine in cemento, costituisce un’opera avente
stabilità e continuità, necessaria all’esercizio
dell’impresa dei ricorrenti;
- analoga considerazione per quattro box (per il Comune,
sarebbero in realtà cinque), in lamiera e legno, appoggiati
su una platea in calcestruzzo, assolutamente incompatibili
con la destinazione di zona e per tre contanier in lamiera,
usati come deposito e appoggiati anch’essi ad una platea in
calcestruzzo, quindi con carattere di stabilità
nell’utilizzo;
- il serbatoio del gasolio, coperto da una tettoia
appoggiata su un basamento in cemento, oltre ad essere
incompatibile con la destinazione agricola dell’area –il
serbatoio serve per il rifornimento degli automezzi
aziendali– ha carattere di stabilità, essendo la tettoia
stabilmente collocata su una base di cemento e pertanto
necessitante di titolo edilizio (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, 11.04.2012, n. 3258 e Corte d’Appello di Napoli,
sez. III penale, 11.12.2012, n. 5577);
- la pavimentazione in ghiaia rullata e cemento di vasta
parte del compendio, in zona agricola, è soggetta al
rilascio di titolo edilizio, trattandosi di attività di
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio (cfr.
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 19.03.2014, n. 709);
parimenti soggetta a titolo deve reputarsi la buca in
calcestruzzo per la riparazione dei mezzi di trasporto,
avente profondità di circa 1,5 metri.
Ancora in ordine al terzo mezzo di ricorso, si ricordi che,
secondo l’art. 3 del DPR 380/2001, costituiscono “nuove
costruzioni”, necessitanti pertanto di titolo edilizio:
<<e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee e salvo che siano
installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno
di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla
normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno
di turisti; (…) e.7) la realizzazione di depositi di merci o
di materiali, la realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente del suolo in
edificato>>.
Si conferma, pertanto, il rigetto del terzo motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2114 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'area oggetto degli abusi ha destinazione
urbanistica per attività agricole e complementari (mobilità
e viabilità locale, viabilità di quartiere e tracciati
ciclopedonali), oltre ad essere in parte collocata
all’interno di un PLIS - Parco locale di interesse sovra
comunale).
Su tale compendio immobiliare sono state realizzate, senza
titolo edilizio, una imponente serie di opere e manufatti
posti a servizio dell’attività di impresa edile.
Si tratta di opere permanenti, dotate di stabilità, la cui
realizzazione richiede senza dubbio titolo edilizio, ai
sensi dell’art. 3 del DPR 380/2001, per il quale
costituiscono “nuove costruzioni”: <<e.5) l'installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee
e salvo che siano installati, con temporaneo ancoraggio al
suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in
conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta
ed il soggiorno di turisti; … e.7) la realizzazione di
depositi di merci o di materiali, la realizzazione di
impianti per attività produttive all'aperto ove comportino
l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione
permanente del suolo in edificato>>.
L’attività d’impresa edile ed i connessi e consistenti
manufatti, privi di titolo edilizio, sono altresì
incompatibili con la disciplina dettata dalla legge
regionale 12/2005 per l’attività edilizia nelle zone
agricole (cfr. gli artt. 59 e seguenti della citata legge
regionale).
---------------
E' dominante e
condiviso l'indirizzo giurisprudenziale per il quale il
potere/dovere di repressione degli abusi edilizi non è
soggetto a limiti temporali, né i provvedimenti demolitori e
sanzionatori richiedono una specifica motivazione
sull’interesse pubblico alla rimozione degli abusi, essendo
tale interesse in re ipsa.
Il ricorso non merita accoglimento, per le
ragioni che seguono.
Nel primo motivo si sostiene l’illegittimità
dell’ingiunzione di demolizione alla luce del lungo tempo
intercorso dalla commissione degli abusi ed in mancanza di
un interesse pubblico effettivo ed attuale all’applicazione
della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 del DPR
380/2001.
Sul punto occorre premettere che l’area oggetto degli abusi
ha destinazione urbanistica per attività agricole e
complementari (mobilità e viabilità locale, viabilità di
quartiere e tracciati ciclopedonali), oltre ad essere in
parte collocata all’interno di un PLIS - Parco locale di
interesse sovra comunale (cfr. il doc. 6 del resistente,
copia del certificato di destinazione urbanistica).
Su tale compendio immobiliare sono state realizzate, senza
titolo edilizio, una imponente serie di opere e manufatti
(descritti sia nel provvedimento impugnato, doc. 1 dei
ricorrenti, sia nel rapporto di servizio della Polizia
Locale, doc. 1 del resistente), posti a servizio
dell’attività di impresa della Agos Ponteggi Srl, vale a
dire quella di impresa edile (cfr. il doc. 2 dei ricorrenti,
copia della visura della Camera di Commercio).
Si tratta di opere permanenti, dotate di stabilità, la cui
realizzazione richiede senza dubbio titolo edilizio, ai
sensi dell’art. 3 del DPR 380/2001, per il quale
costituiscono “nuove costruzioni”:
<<e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee e salvo che siano
installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno
di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla
normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno
di turisti; … e.7) la realizzazione di depositi di merci o
di materiali, la realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente del suolo in
edificato>>; si veda anche sulla nozione di “precarietà”, da
intendersi in senso restrittivo in materia edilizia,
Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2014, n. 2842.
L’attività d’impresa edile ed i connessi e consistenti
manufatti, privi di titolo edilizio, sono altresì
incompatibili con la disciplina dettata dalla legge
regionale 12/2005 per l’attività edilizia nelle zone
agricole (cfr. gli artt. 59 e seguenti della citata legge
regionale).
A nulla rileva –poi– la circostanza che il tecnico della
società abbia chiesto varianti al PGT, in quanto la proposta
di variante non è mai stata approvata, senza contare che
l’ipotetica approvazione di una variante non potrebbe mai
costituire di per sé sanatoria di abusi edilizi posti in
essere antecedentemente alla sua approvazione.
Ciò premesso, il richiamo -contenuto nel primo motivo- al
presunto affidamento degli autori dell’abuso o al presunto
interesse pubblico alla non demolizione, appare totalmente
privo di pregio, alla luce del dominante e condiviso
indirizzo giurisprudenziale per il quale il potere/dovere
di repressione degli abusi edilizi non è soggetto a limiti
temporali, né i provvedimenti demolitori e sanzionatori
richiedono una specifica motivazione sull’interesse pubblico
alla rimozione degli abusi, essendo tale interesse in re ipsa (cfr. da ultimo, fra le tante, Consiglio di Stato, sez.
V, 11.07.2014, n. 3568 e 28.04.2014, n. 2196)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2113 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come chiarito dalla giurisprudenza "costituisce
ampliamento ovvero modifica del volume di un immobile, ai
sensi dell'art. 10, comma l, lettera c), del d.P.R.
380/2001, la realizzazione di una veranda che,
indipendentemente dalla natura dei materiali usati ... sia
preordinata, sul piano funzionale, a soddisfare esigenze
stabilite”.
Ugualmente la giurisprudenza ha affermato che la
collocazione di una vetrata a chiusura di un terrazzo, in
mancanza della concessione, crea un vano autonomo ed integra
gli estremi del reato di costruzione abusiva; tale opera non
rientra, difatti, né tra quelle di manutenzione
straordinaria (regolate dall'art. 31 della legge n.
457/1978) e che mai possono consistere nell'esecuzione di
manufatti idonei ad alterare i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari, né tra le pertinenze assoggettate
ad autorizzazione gratuita (dall'art. 7 del d.l. n.
633/1981) e che consistono nella realizzazione di un vano
accessorio o a servizio di un'abitazione e non nella
creazione di un ambiente nuovo.
---------------
Accertato che la chiusura del balcone con la veranda
richiedeva il rilascio di un titolo edilizio, deve
escludersi la rilevanza sia dell’interesse pubblico che
dell’affidamento.
Infatti la motivazione dell’ordinanza di demolizione non
deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in
ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico a disporre
la sanzione della demolizione, poiché l’abuso non può
giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore
a veder conservata una situazione di fatto che il semplice
trascorrere del tempo non può legittimare.
Per quanto attiene, invece, la
chiusura del terrazzo il ricorso è infondato.
Come chiarito dalla giurisprudenza "costituisce ampliamento
ovvero modifica del volume di un immobile, ai sensi
dell'art. 10, comma l, lettera c), del d.P.R. 380/2001, la
realizzazione di una veranda che, indipendentemente dalla
natura dei materiali usati ... sia preordinata, sul piano
funzionale, a
soddisfare esigenze stabilite” (TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, 16.05.2007, n. 4458; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 08.06.2007, n. 6038).
Ugualmente la giurisprudenza ha affermato che la
collocazione di una vetrata a chiusura
di un terrazzo, in mancanza della concessione, crea un vano
autonomo ed integra gli estremi del reato di costruzione
abusiva; tale opera non rientra, difatti, né tra quelle di
manutenzione straordinaria (regolate dall'art. 31 della
legge n. 457/1978) e che mai possono consistere
nell'esecuzione di manufatti idonei ad alterare i volumi e
le superfici delle singole unità immobiliari, né tra le
pertinenze assoggettate ad autorizzazione gratuita
(dall'art. 7 del d.l. n. 633/1981) e che consistono nella
realizzazione di un vano accessorio o a servizio di
un'abitazione e non nella creazione di un ambiente nuovo
(Corte di Cassazione, sentenza del 07.02.1983).
Accertato che la chiusura del balcone con la veranda
richiedeva il rilascio di un titolo edilizio, deve
escludersi la rilevanza sia dell’interesse pubblico che
dell’affidamento.
Infatti la motivazione dell’ordinanza di demolizione non
deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in
ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico a disporre
la sanzione della demolizione, poiché l’abuso non può
giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore
a veder conservata una situazione di fatto che il semplice
trascorrere del tempo non può legittimare (TAR Campania,
Napoli, sez. VI, 30.07.2007 n. 7130).
Deve inoltre escludersi che la veranda sia stata realizzata
prima del 1967 in considerazione dei risultati della
verificazione effettuata dal Comune, che data la sua
realizzazione ad un periodo di molto successivo.
In definitiva quindi il ricorso va parzialmente accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 2108 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'impugnativa
dell’acquisizione gratuita non preceduta dal ricorso avverso
l’ordinanza di demolizione relativa ad un’opera abusiva,
consolida gli effetti dell’atto presupposto, attraverso la
sua inoppugnabilità, facendo sì che non possano essere
denunciati eventuali vizi di tale atto in sede di gravame
avverso l’atto applicativo che lo richiami, non essendo
consentita al giudice amministrativo la disapplicazione
incidentale di un atto presupposto non avente natura
normativa.
È dunque inammissibile il ricorso proposto avverso il
provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine
di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale
della costruzione abusiva e dell’area di sedime nel caso di
mancata impugnazione dell’ingiunzione a demolire, a meno che
non si facciano valere vizi propri degli atti in questione.
---------------
L’omessa tempestiva impugnazione del provvedimento
demolitorio preclude la traslazione delle doglianze, che
avrebbero potuto formularsi avverso di esso, nei confronti
del successivo e consequenziale verbale di constatazione
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, atto privo di
autonoma attitudine lesiva.
Infatti, l’atto con cui il Comune accerta l’inottemperanza
ad un ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva ha
efficacia meramente dichiarativa, limitandosi ad esternare e
formalizzare effetti già verificatisi in base allo stesso
ordine, ai sensi dell’art. 7, comma 3, l. n. 47 del 1985
(acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale),
essendo a quest’ultimo e al decorso del termine ivi fissato
che vanno ricondotti effetti costitutivi.
Pertanto, è questo l’atto che va ritenuto immediatamente
lesivo e con la cui impugnazione l’interessato deve tutelare
le proprie ragioni, mentre il verbale con cui viene
accertata la mancata ottemperanza all’ordinanza di
demolizione rappresenta un mero atto endoprocedimentale
avente contenuto conoscitivo e di accertamento di un fatto
storico, inidoneo, di per sé, a ledere situazioni
giuridiche.
---------------
La mancata impugnazione in sede giurisdizionale e il
conseguente consolidamento degli effetti dell’ordinanza di
demolizione, che muove proprio dal presupposto
dell’abusività delle opere contestate in quanto realizzate
in assenza del prescritto titolo abilitativo, rende
inammissibile la pretesa del ricorrente di contestazione dei
conseguenti provvedimenti di irrogazione della sanzione e di
acquisizione dei beni e delle aree al patrimonio comunale.
Detti provvedimenti, a seguito della definitività e
vincolatività dell’ordinanza di demolizione, presentano
limitati margini di discrezionalità (nel quantum) e assumono
contenuto predeterminato per legge una volta verificata
l’inottemperanza all’ordine di demolizione e rimessione in
pristino.
---------------
Il provvedimento di acquisizione non deve essere
necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto
è costituito unicamente dalla constatata mancata
ottemperanza al precedente ordine di demolizione.
---------------
La configurazione del procedimento sanzionatorio risulta
compiutamente tipizzata dall’ordinamento e prevede
l’acquisizione automatica o ex lege al patrimonio comunale
delle opere abusivamente eseguite e dell’area di sedime una
volta accertata l’inottemperanza nei termini di legge
all’ordinanza di demolizione.
L’effetto acquisitivo ex lege comporta quanto all’an
l’esclusione di qualsivoglia discrezionalità in capo
all’Amministrazione e porta a configurare l’acquisizione
come atto dovuto. Unico discrimine rilevante consiste nella
considerazione dell’esatta individuazione dell’area di
sedime, atteso che se tale esatta individuazione risulta
preventivamente effettuata da parte del Comune in sede di
ordinanza di demolizione, il successivo provvedimento di
acquisizione al patrimonio comunale va considerato come atto
meramente dichiarativo e ricognitivo di un effetto maturato
ex lege con conseguente possibilità di procedere
direttamente alla trascrizione in favore del Comune. Mentre,
viceversa, qualora tale esatta individuazione della
superficie dell’area di sedime da acquisire non sia stata
effettuata dal Comune in sede di ordinanza di demolizione,
tale accertamento dovrà essere eseguito successivamente e/o
contestualmente all’ordinanza di acquisizione al patrimonio
comunale, la quale in tal caso –e a tali limitati fini– avrà
natura di provvedimento costitutivo, con conseguente
possibilità di contestazione limitatamente alla
quantificazione della superficie dell’area di sedime, atteso
che la legge consente sul punto di procedere
all’acquisizione dell’area di sedime nel limite massimo di
dieci volte l’area interessata dall’abuso, residuando
pertanto sotto tale profilo uno spazio di discrezionalità in
capo all’Amministrazione tale da precludere la
configurazione del provvedimento acquisitivo come atto
meramente ricognitivo e dichiarativo (e in quanto tale
altresì privo di autonomi profili di lesività).
---------------
In caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, la
sanzione dell’acquisizione al patrimonio comunale dell’area
di sedime, oltre quella necessaria all’edificazione di opere
analoghe a quelle abusive, si verifica “ex lege” una volta
decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla
notificazione dell’ordinanza: ma mentre per l’area di sedime
l’automatismo dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni
motivazione sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore
da acquisire deve essere giustificata dalla ricorrenza di
una esplicitazione delle opere necessarie ai fini
urbanistico–edilizi che siano destinate ad occupare l’intera
zona di terreno che il comune intende acquisire.
---------------
L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’immobile
abusivo, del sedime e della relativa area di pertinenza
costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza
alla ordinanza di ingiunzione della demolizione, ha natura
meramente dichiarativa e non implica scelte di tipo
discrezionale, con la conseguenza che, ai fini della sua
adozione, una volta avveratisi i suddetti presupposti, non
incombe alla P.A. un peculiare obbligo di motivazione in
ordine alla misura della acquisizione.
Va preliminarmente esaminata l’eccezione
d’inammissibilità del ricorso, formulata dalla difesa
dell’Amministrazione Comunale di Eboli.
La stessa è fondata, ma non conduce –diversamente da quanto
affermato dall’ente– alla declaratoria d’inammissibilità
dell’intero gravame, bensì soltanto delle sue due prime
censure, fondate sulla contestazione dei contenuti della
presupposta ordinanza di demolizione, rimasta orfana
d’impugnativa in sede giurisdizionale amministrativa, i cui
effetti si sono, pertanto, definitivamente consolidati,
conformemente all’orientamento, costantemente espresso in
materia dalla giurisprudenza amministrativa, per il quale si
tenga presente, “ex multis”, la massima seguente:
“L'impugnativa dell’acquisizione gratuita non preceduta dal
ricorso avverso l’ordinanza di demolizione relativa ad
un’opera abusiva, consolida gli effetti dell’atto
presupposto, attraverso la sua inoppugnabilità, facendo sì
che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale
atto in sede di gravame avverso l’atto applicativo che lo
richiami, non essendo consentita al giudice amministrativo
la disapplicazione incidentale di un atto presupposto non
avente natura normativa. È dunque inammissibile il ricorso
proposto avverso il provvedimento di accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di
acquisizione al patrimonio comunale della costruzione
abusiva e dell’area di sedime nel caso di mancata
impugnazione dell’ingiunzione a demolire, a meno che non si
facciano valere vizi propri degli atti in questione” (TAR Sicilia–Palermo – Sez. II,
08/10/2013, n. 1754).
Né tale conclusione può essere revocata in dubbio, perché –come sostenuto dai ricorrenti nell’ultima memoria difensiva,
prodotta in giudizio in data 16.05.2014– con l’atto
introduttivo del giudizio, non sarebbe stata contestata
l’ordinanza di demolizione, bensì ne sarebbe stato “recepito
il relativo contenuto”: la regola della definitività
dell’atto presupposto non impugnato impedisce infatti,
all’evidenza, un’operazione ermeneutica, del genere di
quella prospettata dai ricorrenti: si legga, in tema,
l’ulteriore decisione che segue: “L’omessa tempestiva
impugnazione del provvedimento demolitorio preclude la
traslazione delle doglianze, che avrebbero potuto formularsi
avverso di esso, nei confronti del successivo e
consequenziale verbale di constatazione dell’inottemperanza
all’ordine di demolizione, atto privo di autonoma attitudine
lesiva. Infatti, l’atto con cui il Comune accerta
l’inottemperanza ad un ordine di demolizione di un’opera
edilizia abusiva ha efficacia meramente dichiarativa,
limitandosi ad esternare e formalizzare effetti già
verificatisi in base allo stesso ordine, ai sensi dell’art.
7, comma 3, l. n. 47 del 1985 (acquisizione gratuita del bene
al patrimonio comunale), essendo a quest’ultimo e al decorso
del termine ivi fissato che vanno ricondotti effetti
costitutivi; pertanto, è questo l’atto che va ritenuto
immediatamente lesivo e con la cui impugnazione
l’interessato deve tutelare le proprie ragioni, mentre il
verbale con cui viene accertata la mancata ottemperanza
all’ordinanza di demolizione rappresenta un mero atto endoprocedimentale avente contenuto conoscitivo e di
accertamento di un fatto storico, inidoneo, di per sé, a
ledere situazioni giuridiche” (TAR Campania–Napoli –
Sez. III, 01/06/2012, n. 2615).
La massima, da ultimo segnalata, pone, oltre tutto, il
problema di cosa possa essere contestato, dai ricorrenti,
gravando in sede giurisdizionale amministrativa il
provvedimento di acquisizione gratuita e di diritto al
patrimonio comunale, attesa la sua natura non direttamente
lesiva: la risposta si rinviene, a parere del Tribunale,
nell’ulteriore decisione, che di seguito si riporta: “La
mancata impugnazione in sede giurisdizionale e il
conseguente consolidamento degli effetti dell’ordinanza di
demolizione, che muove proprio dal presupposto
dell’abusività delle opere contestate in quanto realizzate
in assenza del prescritto titolo abilitativo, rende
inammissibile la pretesa del ricorrente di contestazione dei
conseguenti provvedimenti di irrogazione della sanzione e di
acquisizione dei beni e delle aree al patrimonio comunale.
Detti provvedimenti, a seguito della definitività e
vincolatività dell’ordinanza di demolizione, presentano
limitati margini di discrezionalità (nel quantum) e assumono
contenuto predeterminato per legge una volta verificata
l’inottemperanza all’ordine di demolizione e rimessione in
pristino” (TAR Lazio–Roma, Sez. I, 09/01/2014, n.
217).
È, quindi, solo l’aspetto quantitativo dell’acquisizione
che, presentando margini di discrezionalità, può essere
censurato in sede di ricorso, proposto (esclusivamente)
avverso l’acquisizione al patrimonio indisponibile dell’ente
dell’immobile abusivo, in conseguenza dell’ordine di
demolizione non opposto in sede giurisdizionale
amministrativa.
Ciò posto, può passarsi all’esame delle ulteriori doglianze
(dalla terza alla sesta), sollevate dai ricorrenti.
Iniziando dalla sesta, ed ultima, censura, è anzitutto
pacifico che –proprio in virtù della sua evidenziata natura
giuridica– l’acquisizione al patrimonio comunale
dell’immobile abusivo non debba essere preceduta da alcuna
comunicazione d’avvio del procedimento (“Il provvedimento di
acquisizione non deve essere necessariamente preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto
dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale
non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed
il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata
mancata ottemperanza al precedente ordine di demolizione” –
TAR Campania–Napoli – Sez. II, 11/10/2013, n. 4573).
---------------
In giurisprudenza, si
legga, in argomento, la massima seguente: “La configurazione
del procedimento sanzionatorio risulta compiutamente
tipizzata dall’ordinamento e prevede l’acquisizione
automatica o ex lege al patrimonio comunale delle opere
abusivamente eseguite e dell’area di sedime una volta
accertata l’inottemperanza nei termini di legge
all’ordinanza di demolizione. L’effetto acquisitivo ex lege
comporta quanto all’an l’esclusione di qualsivoglia
discrezionalità in capo all’Amministrazione e porta a
configurare l’acquisizione come atto dovuto. Unico
discrimine rilevante consiste nella considerazione
dell’esatta individuazione dell’area di sedime, atteso che
se tale esatta individuazione risulta preventivamente
effettuata da parte del Comune in sede di ordinanza di
demolizione, il successivo provvedimento di acquisizione al
patrimonio comunale va considerato come atto meramente
dichiarativo e ricognitivo di un effetto maturato ex lege
con conseguente possibilità di procedere direttamente alla
trascrizione in favore del Comune. Mentre, viceversa,
qualora tale esatta individuazione della superficie
dell’area di sedime da acquisire non sia stata effettuata
dal Comune in sede di ordinanza di demolizione, tale
accertamento dovrà essere eseguito successivamente e/o
contestualmente all’ordinanza di acquisizione al patrimonio
comunale, la quale in tal caso – e a tali limitati fini –
avrà natura di provvedimento costitutivo, con conseguente
possibilità di contestazione limitatamente alla
quantificazione della superficie dell’area di sedime, atteso
che la legge consente sul punto di procedere
all’acquisizione dell’area di sedime nel limite massimo di
dieci volte l’area interessata dall’abuso, residuando
pertanto sotto tale profilo uno spazio di discrezionalità in
capo all’Amministrazione tale da precludere la
configurazione del provvedimento acquisitivo come atto
meramente ricognitivo e dichiarativo (e in quanto tale
altresì privo di autonomi profili di lesività)” (TAR
Puglia–Bari – Sez. III, 16/09/2013, n. 1325).
---------------
È altresì fondata la
censura sub 5), nella parte in cui, con la stessa, è stato
denunziato che il Comune avrebbe acquisito, al patrimonio
comunale, anche l’area su cui insiste il viale d’accesso
(ubicato sulla particella 753) che conduce all’abitazione
dei ricorrenti, legittimamente edificata (ubicata sulla
particella 754).
Infatti, riferendosi l’acquisizione, ordinata nella specie
dal Comune di Campagna, indistintamente ad “un’area di sedime pari a mq. 950, costituita da quella in cui insiste
l’opera e quella comunque non superiore a dieci volte la
complessiva superficie abusivamente costruita, identificata
in Catasto Terreni al foglio 4, mappale n. 753 – classe 5 –
R.D. € 1,72 – R.A. € 4,58”, è mancata ogni specificazione
circa le ragioni per cui era necessario acquisire, al
patrimonio comunale, anche la porzione della particella 753,
su cui insiste il viale d’accesso all’abitazione
(legittimamente edificata) dei ricorrenti, giusta
l’indirizzo giurisprudenziale, espresso nella seguente
decisione: “In caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione, la sanzione dell’acquisizione al patrimonio
comunale dell’area di sedime, oltre quella necessaria
all’edificazione di opere analoghe a quelle abusive, si
verifica “ex lege” una volta decorso infruttuosamente il
termine di novanta giorni dalla notificazione
dell’ordinanza: ma mentre per l’area di sedime l’automatismo
dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione
sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore da
acquisire deve essere giustificata dalla ricorrenza di una
esplicitazione delle opere necessarie ai fini urbanistico–edilizi che siano destinate ad occupare l’intera zona di
terreno che il comune intende acquisire” (TAR Campania–Napoli – Sez. VI, 20/04/2005, n. 4336).
Entro tali limiti, il ricorso si presta, quindi, ad essere
accolto: la censura di difetto di motivazione assoluta
dell’ordine di acquisizione impugnato, sollevata sub 3),
resta infatti assorbita, secondo il Tribunale, dalla
fondatezza delle doglianze, esposte sub 4) e 5) del ricorso,
giusta quanto testé rilevato, apparendo per il resto il
provvedimento impugnato sufficientemente motivato, anche in
considerazione dell’orientamento restrittivo della
giurisprudenza, formatasi sull’argomento (per la quale cfr.,
“ex multis”, la massima che segue: “L’acquisizione gratuita
al patrimonio comunale dell’immobile abusivo, del sedime e
della relativa area di pertinenza costituisce effetto
automatico della mancata ottemperanza alla ordinanza di
ingiunzione della demolizione, ha natura meramente
dichiarativa e non implica scelte di tipo discrezionale, con
la conseguenza che, ai fini della sua adozione, una volta
avveratisi i suddetti presupposti, non incombe alla P.A. un
peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura della
acquisizione” (TAR Campania–Napoli – Sez. II,
11/10/2013, n. 4573) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 29.07.2014 n. 1419 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: L’art.
108 (direttore generale) d.lgs. n. 267 del 2000 –t.u. delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali– configura
certamente il direttore generale come funzionario di vertice
destinato a fare da tramite tra organi di governo
(competenti alla determinazione degli indirizzi ed
obiettivi) e organi burocratici dell’ente (competenti per la
gestione).
Nondimeno, deve sicuramente escludersi che il direttore
generale possa ascriversi alla prima delle categorie di
organi, siccome, nei comuni, gli organi politici di governo
sono tassativamente elencati dall’art. 36 del citato decreto
(il consiglio, la giunta e il sindaco), tutti strettamente
legati da rapporto politico–rappresentativo alla
collettività di cui l’ente è esponenziale e titolari delle
funzioni di indirizzo politico–amministrativo (secondo le
determinazioni riservate alla legislazione statale, ai sensi
dell’art. 117, comma 1, lett. p), cost., esclusa, quindi, la
competenza delle fonti statutarie e regolamentari di cui
agli art. 6 e 7 d.lgs. n. 267 del 2000).
Pertanto, il direttore generale, pur essendo investito di
compiti e funzioni che valgono a conferirgli una posizione
differenziata rispetto a quella degli altri dirigenti, è
esso stesso un dirigente.
Talché, la censura d’incompetenza del direttore generale a
licenziare il provvedimento impugnato (concessione edilizia
in sanatoria) deve concludersi nel senso che non si presta
ad essere accolta, posto che l’affermazione dell’attuale
dirigente del Settore Tecnico, circa il cumulo di funzioni
in capo al direttore generale, pur orfana di riscontro
documentale, promana da un pubblico ufficiale,
nell’esercizio delle sue funzioni, e pur non godendo (in
ragione della sua natura di dichiarazione di scienza,
relativa a fatti non avvenuti in sua presenza o da lui
compiuti), di alcuna fede privilegiata, pur tuttavia, per
essere superata, avrebbe richiesto di essere adeguatamente
contrastata, mercé l’allegazione di circostanze,
incompatibili con tale asserito cumulo di funzioni, il che
non è avvenuto.
Va, anzitutto, esaminata la censura
d’incompetenza del direttore generale del Comune di Ascea, a
licenziare il provvedimento impugnato (concessione edilizia
in sanatoria, prot. n. 123 del 28.02.2003).
L’art. 107 del d.l.vo 267/2000, comma 2, stabilisce:
“Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione
degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi
espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di
indirizzo e controllo politico–amministrativo degli organi
di governo dell’ente <o non rientranti tra le funzioni del
segretario o del direttore generale>, di cui rispettivamente
agli articoli 97 e 108”.
Il successivo art. 108 dello stesso d.l.vo, dedicato
appunto alla figura del direttore generale, prevede, al
comma 1, quanto segue: “Il sindaco nei comuni con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti e il presidente
della provincia, previa deliberazione della giunta comunale
o provinciale, possono nominare un direttore generale, al di
fuori della dotazione organica e con contratto a tempo
determinato, e secondo criteri stabiliti dal regolamento di
organizzazione degli uffici e dei servizi, che provvede ad
attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi
di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal
sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende
alla gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di
efficacia ed efficienza. Compete in particolare al direttore
generale la predisposizione del piano dettagliato di
obiettivi previsto dall’articolo 197, comma 2 lettera a),
nonché la proposta di piano esecutivo di gestione previsto
dall’articolo 169. A tali fini, al direttore generale
rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i
dirigenti dell’ente, ad eccezione del segretario del comune
e della provincia”.
In ricorso, s’è posta in risalto la connotazione politica
del direttore generale, dai cui compiti esulerebbe, del
tutto, la materia edilizia.
La tesi pare trovare conferma nella massima seguente:
“L’art. 107, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000 prevede che
spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione
di atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l’Amministrazione verso l’esterno, non ricompresi
espressamente dalla legge o dallo statuto fra le funzioni di
indirizzo e controllo politico–amministrativo degli organi
di governo dell’ente <o non rientranti tra le funzioni del
segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente
agli art. 97 e 108>. Per cui l’adozione del provvedimento di
acquisizione al patrimonio comunale dell’opera abusiva, pur
recante l’indicazione del Sindaco, è legittima, ove
sottoscritta da <dirigenti tecnici comunali>” (TAR
Campania–Napoli, Sez. VI, 06/06/2013, n. 2980).
Detta tesi è stata tuttavia contrastata dalla difesa della
controinteressata, la quale ha evidenziato come, all’epoca
dell’adozione del provvedimento gravato, il direttore
generale del Comune di Ascea assommasse, in sé, anche le
funzioni di Responsabile del Settore Tecnico, quindi con sua
piena competenza all’adozione di provvedimenti in materia di
condono edilizio.
Inoltre, la stessa difesa ha posto in risalto la natura, in
ogni caso, di dirigente, anziché di organo politico
dell’ente, propria della figura in esame.
Anche tale tesi trova, del resto, addentellati in
giurisprudenza, precisamente nella massima seguente: “L’art.
108 (direttore generale) d.lgs. n. 267 del 2000 –t.u.
delle leggi sull’ordinamento degli enti locali– configura
certamente il direttore generale come funzionario di vertice
destinato a fare da tramite tra organi di governo
(competenti alla determinazione degli indirizzi ed
obiettivi) e organi burocratici dell’ente (competenti per la
gestione); nondimeno, deve sicuramente escludersi che il
direttore generale possa ascriversi alla prima delle
categorie di organi, siccome, nei comuni, gli organi
politici di governo sono tassativamente elencati dall’art.
36 del citato decreto (il consiglio, la giunta e il
sindaco), tutti strettamente legati da rapporto politico–rappresentativo alla collettività di cui l’ente è
esponenziale e titolari delle funzioni di indirizzo politico–amministrativo (secondo le determinazioni riservate alla
legislazione statale, ai sensi dell’art. 117, comma 1, lett.
p), cost., esclusa, quindi, la competenza delle fonti
statutarie e regolamentari di cui agli art. 6 e 7 d.lgs. n.
267 del 2000). Pertanto, il direttore generale, pur essendo
investito di compiti e funzioni che valgono a conferirgli
una posizione differenziata rispetto a quella degli altri
dirigenti, è esso stesso un dirigente” (Cassazione civile –
Sez. un., 12/06/2006, n. 13538).
Per di più, la circostanza dello svolgimento, da parte del
direttore generale del Comune, anche dell’incarico di
Responsabile del Settore Tecnico, asserita dalla difesa di
D’Acquisto Anna, è stata oggetto di richiesta istruttoria,
da parte del Collegio, evasa dal Comune con la nota di
chiarimenti, prodotta in giudizio il 25.11.2013, nella quale
l’attuale Responsabile del Settore Tecnico di Ascea ha
confermato la circostanza in questione, vale a dire che,
all’epoca dei fatti per cui è causa, il d.g. dell’ente
ricopriva anche il ruolo di Responsabile di detto Settore.
Tale asserzione è stata, peraltro, contestata dalla difesa
del ricorrente, il quale ha rilevato come la stessa non
fosse supportata da alcuna specifica delibera di
conferimento, allo stesso direttore generale, dell’incarico
in questione.
Tali essendo gli elementi ricavabili dagli atti, a
disposizione del Tribunale, deve concludersi nel senso che
la censura in oggetto non si presta ad essere accolta, posto
che l’affermazione dell’attuale dirigente del Settore
Tecnico, circa il cumulo di funzioni in capo al direttore
generale, pur orfana di riscontro documentale, promana da un
pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, e pur
non godendo (in ragione della sua natura di dichiarazione di
scienza, relativa a fatti non avvenuti in sua presenza o da
lui compiuti), di alcuna fede privilegiata, pur tuttavia,
per essere superata, avrebbe richiesto di essere
adeguatamente contrastata, mercé l’allegazione di
circostanze, incompatibili con tale asserito cumulo di
funzioni, il che non è avvenuto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 29.07.2014 n. 1418 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Le
opere interne abusive, per essere complete a fini di
condonabilità, debbono risultare tali da permettere l’uso in
relazione alla funzione cui sono destinate e quindi
contenere tutti gli elementi essenziali alla loro
destinazione d’uso.
In particolare, tra gli elementi necessari e sufficienti per
assolvere alla destinazione d’uso abitativa rientrano quelli
relativi all’altezza minima interna e ad una superficie
minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art.
3, d.m. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218,
r.d. 27.07.1934 n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie).
---------------
Per costante giurisprudenza, le opere interne abusive, per
essere complete, debbono risultare tali da permettere l’uso
in relazione alla funzione cui sono destinate e quindi
contenere tutti gli elementi essenziali alla loro
destinazione d’uso.
Nel caso di specie, non è contestabile che il manufatto in
questione non presenti le caratteristiche necessarie e
sufficienti per assolvere alla destinazione d’uso abitativa,
difettando dell’altezza minima interna e di una superficie
minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art.
3 del D.M. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218
del R. D. 27.07.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi
sanitarie).
Del resto, le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975
integrano una normativa di rango primario in virtù del
rinvio disposto dall’art. 218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265,
e pertanto, diversamente dalle disposizioni integrative e
supplementari portate dai regolamenti comunali di igiene
(espressione di esigenze locali e comunque non attuative di
norme di legge gerarchicamente sovraordinate), sono
inderogabili –ex art. 35, comma 20, l. n. 47/1985– anche in
sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito
del condono.
---------------
E' sufficiente a denegare il condono anche soltanto la
mancanza del requisito dell’altezza minima interna dei
locali, conforme a quanto stabilito dal D.M. del 05.07.1975
ed inderogabile, perché discendente dalla legge (il D.M. in
questione è stato, infatti, emanato “visti gli articoli 218,
344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie approvato
con regio decreto 27.07.1934, n. 1265”).
Invero, “Ai sensi dell’art. 35, comma 20, l. 28.02.1985, n.
47 il rilascio del certificato di abitabilità di un
fabbricato conseguente al condono edilizio può
legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari
e non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità
richieste da fonti normative di livello primario, in quanto
la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere
eccezionale e derogatorio, non è suscettibile di
interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere
sul fondamentale principio della tutela della salute con
evidenti riflessi sul piano della legittimità
costituzionale”.
La questione che si pone
è, dunque, se il Comune di Ascea poteva rilasciare il
condono richiesto dalla controinteressata, pur in assenza
dell’altezza minima interna dei locali.
La risposta, con il conforto di recente giurisprudenza di
merito, è senz’altro negativa: “Le opere interne abusive,
per essere complete a fini di condonabilità, debbono
risultare tali da permettere l’uso in relazione alla
funzione cui sono destinate e quindi contenere tutti gli
elementi essenziali alla loro destinazione d’uso; in
particolare, tra gli elementi necessari e sufficienti per
assolvere alla destinazione d’uso abitativa rientrano quelli
relativi all’altezza minima interna e ad una superficie
minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art.
3, d.m. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218,
r.d. 27.07.1934 n. 1265 (testo unico delle leggi
sanitarie)” (TAR Liguria – Sez. I, 27/01/2012, n. 194).
---------------
In parte motiva, la
suddetta sentenza osservava quanto segue: “Quanto al secondo
ed al terzo motivo di ricorso, che possono essere trattati
congiuntamente attesa la loro connessione logica, giova
richiamare l’art. 31, comma 2, della legge 28.02.1985, n. 47
(applicabile anche all’ultimo condono edilizio), a mente del
quale, ai fini del conseguimento della sanatoria, “si
intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito
il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle
opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non
destinate alla residenza, quando esse siano state completate
funzionalmente”.
Ciò posto, si osserva che, per costante giurisprudenza, le
opere interne abusive, per essere complete, debbono
risultare tali da permettere l’uso in relazione alla
funzione cui sono destinate e quindi contenere tutti gli
elementi essenziali alla loro destinazione d’uso (cfr. Cons.
di St., V, 21.06.2007, n. 3315; id., 08.05.2007, n. 2120;
TAR Campania–Napoli, IV, 06.04.2011, n. 1928).
Nel caso di specie, non è contestabile che il manufatto in
questione non presenti le caratteristiche necessarie e
sufficienti per assolvere alla destinazione d’uso abitativa,
difettando dell’altezza minima interna e di una superficie
minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art.
3 del D.M. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218
del R. D. 27.07.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi
sanitarie).
Del resto, le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975
integrano una normativa di rango primario in virtù del
rinvio disposto dall’art. 218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265,
e pertanto, diversamente dalle disposizioni integrative e
supplementari portate dai regolamenti comunali di igiene
(espressione di esigenze locali e comunque non attuative di
norme di legge gerarchicamente sovraordinate), sono
inderogabili –ex art. 35, comma 20, l. n. 47/1985– anche in
sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito
del condono (cfr. Cons. di St., IV, 03.05.2011, n. 2620).
Sicché, nel caso di specie, qualora il comune avesse
concesso la sanatoria straordinaria, avrebbe comunque dovuto
successivamente negare l’abitabilità del manufatto”.
Ne deriva che giammai il Comune avrebbe potuto rilasciare il
provvedimento di condono.
---------------
L’argomento è
irrilevante, essendo, come s’è visto, sufficiente a denegare
il condono anche soltanto la mancanza del requisito
dell’altezza minima interna dei locali, conforme a quanto
stabilito dal D.M. del 05.07.1975 ed inderogabile, perché
discendente dalla legge (il D.M. in questione è stato,
infatti, emanato “visti gli articoli 218, 344 e 345 del
testo unico delle leggi sanitarie approvato con regio
decreto 27.07.1934, n. 1265”).
Cfr., al riguardo, da ultimo, la massima seguente,
espressione di un orientamento pacifico della giurisprudenza
amministrativa: “Ai sensi dell’art. 35, comma 20, l. 28.02.1985, n. 47 il rilascio del certificato di
abitabilità di un fabbricato conseguente al condono edilizio
può legittimamente avvenire in deroga solo a norme
regolamentari e non anche quando siano carenti le condizioni
di salubrità richieste da fonti normative di livello
primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per
il suo carattere eccezionale e derogatorio, non è
suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto,
tali da incidere sul fondamentale principio della tutela
della salute con evidenti riflessi sul piano della
legittimità costituzionale” (Consiglio di Stato – Sez. V,
03/06/2013, n. 3034) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 29.07.2014 n. 1418 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sì alle ristrutturazioni che riducono i volumi.
Tar Napoli. L'ingombro originario incide solo sul massimo
edificabile.
È possibile
ristrutturare un edificio realizzando volumi inferiori a
quelli preesistenti: lo sottolinea il TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII, nella
sentenza 25.07.2014 n. 4265.
L'affermazione sembra banale, ma consente una rilevante
elasticità nelle operazioni di riordino urbanistico, in
particolare nei centri cittadini: appunto nel caso deciso si
discuteva di una ristrutturazione di un edificio
residenziale ubicato nel centro urbano di Caserta, in area
con preesistenze storico ambientali.
Il principio è coerente alle linee di rinnovo urbano che si
leggono nel disegno di legge in materia di politiche
pubbliche territoriali e trasformazione urbana a firma del
ministro Maurizio Lupi, che appunto parla (all'articolo 16)
di innalzamento complessivo della qualità urbana e
dell'abitare, con valorizzazione e rigenerazione del tessuto
economico sociale e produttivo.
Dalla volumetria alla qualità
Fino ad oggi i principali problemi delle ristrutturazioni
riguardavano gli aumenti di volumetria e i cambi di
destinazione, tenendo presente che -ad esempio- per il
contenimento dei consumi energetici (Dlgs 30.05.2008 n.
115) si discuteva dell'aumento delle sagome per poche decine
di centimetri, al fine di evitare conflitti tra vicini in
tema di distanze.
Secondo la stessa logica, la ristrutturazione è stata quasi
sempre interpretata come anelastica, considerando la
preesistenza come una gabbia rigida. Ora invece si ritiene
che la volumetria preesistente costituisca solo uno standard
massimo di edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso
che sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente
volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione,
essendone precluso soltanto un aumento.
La progressiva evoluzione parte dall'articolo 3 del Dpr
380/2001 (Testo unico edilizia) e cioè dalla fedele
ricostruzione, ivi prevista «con la stessa volumetria e
sagoma di quello preesistente», giungendo oggi alla
«demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica».
È quindi evidente –sottolinea il Tar- l'intento del
legislatore di impedire soltanto aumenti della complessiva
cubatura degli edifici esistenti, ma non diminuzioni della
stessa.
Il paradosso della diminutio
Fino ad oggi, chi costruiva meno dei volumi preesistenti si
esponeva a una pluralità di critiche: sotto l'aspetto
edilizio, costruire in meno esprimeva comunque una
difformità, cioè un'opera diversa e, di fatto, un abuso
edilizio. Abuso che, peraltro, era di difficile
quantificazione sotto l'aspetto economico, poiché di sicuro
una costruzione più piccola non può ritenersi di valore
maggiore rispetto a una costruzione di volume superiore.
La soluzione consisteva in una sanzione pecuniaria di
modesta entità, con successivo rilascio di un titolo
edilizio in sanatoria. Questo ragionamento, tuttavia, era
valido solo per le aree non vincolate ed in particolare per
le aree esterne ai centri storici, dove un intervento con
materiali e forme innovative, deve comunque superare il
vaglio del parere ambientale ed essere conforme alle norme
previste dal piano.
Nella città di Caserta, il piano in
questione non prevedeva espressamente la possibilità di
volumetrie inferiori e quindi si è dovuto aspettare il Tar
per inserire questo elemento di elasticità. Sembra poi
opportuno sottolineare che la contestazione circa il volume
inferiore a quello preesistente veniva dai vicini di casa,
che probabilmente non vedevano di buon grado l'innovazione
rappresentata da un volume e da tipologia difformi dalla
situazione preesistente (articolo Il Sole 24 Ore del 31.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
costituisce pertinenza un garage, comportante nuova
volumetria, costruito a ridosso di una abitazione, qualsiasi
siano le sue modalità di realizzazione (nella fattispecie
montato su ruote non portanti).
Nella materia edilizia, la nozione di
pertinenza ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da
quella civilistica.
Si deve infatti trattare di un'opera preordinata ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale,
funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello
stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata
di un volume minimo; inoltre la nozione di pertinenza,
rilevante ai fini dell'autorizzazione, deve essere
interpretata in modo compatibile con i principi della
materia, di talché non è, quindi, possibile consentire la
realizzazione di opere di rilevante consistenza solo perché
destinate, dal proprietario, al servizio ed ornamento del
bene principale.
La qualifica di pertinenza urbanistica è quindi applicabile
soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad
un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti
per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma
non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e
della funzione, si connotino per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano
coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti
possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Nel condividere tali orientamenti, il Collegio ritiene di
precisare che nell’ordinamento statale vi è il principio
generale per il quale -per ogni nuova volumetria– occorreva
ratione temporis il rilascio della concessione edilizia così
come ora occorre il rilascio del permesso di costruire (o
del titolo avente efficacia equivalente), quando di tratti
di una ‘nuova costruzione’.
Manca la natura pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia
realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore
rispetto a quella già occupata dal precedente edificio.
A tali fini, la natura pertinenziale è ravvisabile solo
quando si tratti di opere che:
- non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un
porticato aperto da tre lati;
- comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico’ (così come
definito ai fini urbanistici, fermo restando che anche i
volumi tecnici, per la consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio, mantengono rilievo ai fini paesaggistici,
dovendosi essi considerare ai fini dell’applicazione del
divieto di rilascio di autorizzazioni in sanatoria, ai sensi
dell’art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004);
- siano in ogni caso sfornite di un ‘autonomo valore di
mercato’ e non comportino alcun consumo di suolo o carico
urbanistico.
... per la riforma della sentenza del TAR Veneto–Venezia,
Sezione II, n. 696/2003, resa tra le parti, di accoglimento
del ricorso proposto per l’annullamento della ordinanza n.
74 del 16.03.1998, di ripristino dello stato dei luoghi,
mediante rimozione delle opere consistenti in un garage
prefabbricato di circa mq. 33 realizzato in assenza di
concessione edilizia, prevista dall’art. 4, punto a), del
Regolamento Edilizio comunale;
...
A seguito di accertamento dei tecnici dell’Ufficio controllo
edilizio del Comune di Piove di Sacco è stata rilavata la
realizzazione, da parte dei signori Adriano Benettello e
Maria Boaretto, di un manufatto di circa mq. 33 realizzato,
in assenza di concessione edilizia, sulla loro proprietà, ad
uso garage con struttura in lamiera e montato su ruote non
portanti.
Il dirigente del VI Settore - Edilizia privata- Controllo
edilizio ha quindi adottato la ordinanza n. 74 del
16.03.1998, di ripristino dello stato dei luoghi, con cui è
stata ordinata la rimozione del manufatto perché realizzato
in assenza di concessione edilizia, prevista dall’art. 4,
punto a), del Regolamento Edilizio comunale, e senza
rispettare le distanze minime dai confini ai sensi dell’art.
24 delle vigenti N.T.A..
I suddetti proprietari hanno proposto il ricorso
giurisdizionale n. 1457 del 1998 per l’annullamento di detto
provvedimento presso il TAR Veneto, che lo ha accolto con la
sentenza in epigrafe indicata.
...
Va rilevato in proposito che l’art. 7, comma 2, lettera a),
del d.l. n. 9 del 1982, conv. in l. n. 94 del 1982,
all’epoca vigente, stabiliva che erano “soggette ad
autorizzazione gratuita, purché conformi alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici vigenti, e non sottoposte ai
vincoli previsti dalle leggi 01.06.1939, n. 1089, e
29.06.1939, n. 1497: a) le opere costituenti pertinenze od
impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti…”.
A sua volta l’art. 76, comma 1, lettera a), della l.r.
Veneto n. 61 del 1985 stabiliva che “L'esecuzione degli
interventi di trasformazione urbanistica e/o edilizia degli
immobili è soggetta al rilascio di: 1) un' autorizzazione
gratuita per: a) le opere, costituenti pertinenze non
autonomamente utilizzabili o impianti tecnologici per
edifici già esistenti, la cui cubatura non superi comunque
un terzo di quella dell'edificio principale…”.
E stata quindi introdotta dalla legge regionale un ulteriore
presupposto per la qualificazione di un manufatto come
pertinenza, atteso che esso, oltre che non essere
autonomamente utilizzabile ovvero costituire un impianto
tecnologico al servizio di manufatti già realizzati,
comunque non può essere considerato tale nell’ipotesi in cui
la sua cubatura superi di un terzo quella dell’edificio
principale.
La tesi fatta propria dal TAR, secondo il quale l’opera in
questione andrebbe considerabile come pertinenza in quanto
aveva una cubatura non superiore ad un terzo di quella
dell’edificio principale, era limitrofa all’opera principale
e destinata durevolmente al suo servizio, è ad avviso del
Collegio erronea, come dedotto dal Comune appellante.
Il criterio del mancato superamento di un terzo della
volumetria rispetto a quella dell’edificio principale va
considerato aggiuntivo rispetto ai criteri fissati dalla
legge statale.
Contrariamente a quanto rilevato dal TAR, nella specie
rileva il fatto che il manufatto in questione, per le sue
caratteristiche, non presenta le caratteristiche che la
giurisprudenza ha precisato per qualificare un manufatto
come pertinenza edilizia.
Nella materia edilizia, la nozione di pertinenza ha
peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella
civilistica.
Si deve infatti trattare di un'opera preordinata ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale,
funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello
stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata
di un volume minimo; inoltre la nozione di pertinenza,
rilevante ai fini dell'autorizzazione, deve essere
interpretata in modo compatibile con i principi della
materia, di talché non è, quindi, possibile consentire la
realizzazione di opere di rilevante consistenza solo perché
destinate, dal proprietario, al servizio ed ornamento del
bene principale (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
16.04.2014, n. 1953).
La qualifica di pertinenza urbanistica è quindi applicabile
soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad
un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti
per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”,
ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni
e della funzione, si connotino per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano
coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti
possibile alcuna diversa utilizzazione economica (Cons. St.,
Sez. V, 12.02.2013, n. 817; Sez. IV, 02.02.2012, n. 615).
Nel condividere tali orientamenti, il Collegio ritiene di
precisare che nell’ordinamento statale vi è il principio
generale per il quale -per ogni nuova volumetria– occorreva
ratione temporis il rilascio della concessione
edilizia così come ora occorre il rilascio del permesso di
costruire (o del titolo avente efficacia equivalente),
quando di tratti di una ‘nuova costruzione’.
Manca la natura pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia
realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore
rispetto a quella già occupata dal precedente edificio.
A tali fini, la natura pertinenziale è ravvisabile solo
quando si tratti di opere che:
- non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un
porticato aperto da tre lati;
- comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico’
(così come definito ai fini urbanistici, fermo restando che
anche i volumi tecnici, per la consolidata giurisprudenza di
questo Consiglio, mantengono rilievo ai fini paesaggistici,
dovendosi essi considerare ai fini dell’applicazione del
divieto di rilascio di autorizzazioni in sanatoria, ai sensi
dell’art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004: cfr. Sez.
VI, 26.03.2013, n. 1671; Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578);
- siano in ogni caso sfornite di un ‘autonomo valore di
mercato’ e non comportino alcun consumo di suolo o
carico urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n.
1953; Cons. St., Sez. V, 31.12.2008, n. 6756; Sez. V,
13.06.2006, n. 3490).
In conclusione può ritenersi che non costituisca pertinenza
un garage, comportante nuova volumetria, costruito a ridosso
di una abitazione, qualsiasi siano le sue modalità di
realizzazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.07.2014 n. 3952 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La certificazione di qualità afferendo alla
capacità tecnica dell'imprenditore è coerente con l'istituto
dell'avvalimento.
Nelle gare pubbliche, la certificazione di qualità, essendo
connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di
eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da
considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico
organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi
idonei a dimostrare la capacità tecnico professionale di
un'impresa, assicurando che l'impresa cui sarà affidato il
servizio o la fornitura sarà in grado di effettuare la
prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità
accertato da un organismo a ciò predisposto.
Afferendo la certificazione di qualità alla capacità tecnica
dell'imprenditore, essa è coerente con l'istituto dell'avvalimento
quale disciplinato con l'art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.07.2014 n. 3949 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
TRIBUTI:
Sui criteri di assimilazione dei rifiuti speciali
agli urbani.
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Sull'attività di trattamento dei rifiuti speciali e sulla
riduzione tariffaria per il confèrimento di rifiuti urbani
assimilati destinati al recupero.
Non avendo lo Stato ancora emanato alcun regolamento per la
determinazione dei criteri di assimilazione dei rifiuti
speciali agli urbani (art. 195, c. 2, lett. e), del d.lgs.
n. 152-2006), si applicano i criteri per l'assimilazione
previsti nella deliberazione 27.07.1984 del Comitato
interministeriale recante "Disposizioni per la prima
applicazione dell'art.4 del d.P.R. 10.09.1982, n. 915,
concernente lo smaltimento dei rifiuti".
L'attività di trattamento dei rifiuti speciali conferiti al
servizio pubblico di raccolta, previa convenzione con il
gestore, costituisce essa stessa per qualificazione di legge
(artt. 188, c. 3, lett. a) e 189, c. 3, lett. b), del d.lgs.
n. 152-2006) un servizio pubblico e dunque deve essere
considerata come attività svolta a favore del territorio di
riferimento e cioè come attività prevalente per conto degli
locali soci.
Per una società in house, avente per oggetto la
gestione di servizi pubblici, l'attività che deve essere
prevalente è quella da svolgere in attuazione di tale
incarico di servizio pubblico attribuito dagli enti locali.
La riduzione tariffaria per il confèrimento di rifiuti
urbani assimilati destinati al recupero non spetta soltanto
all'utente che consegna tali rifiuti al gestore del servizio
pubblico, ma anche all'utente che conferisce tali rifiuti ad
un'impresa autorizzata diversa dal gestore del servizio, non
determinando alcuna disparità di trattamento tariffario tra
i diversi utenti (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.07.2014 n. 3941 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
TRIBUTI: Illegittima l'addizionale adottata dopo il bilancio.
Consiglio di stato respinge il ricorso di un comune
calabrese.
Il consiglio di stato dichiara illegittima la deliberazione
dell'addizionale comunale Irpef adottata dopo il termine per
l'approvazione del bilancio di previsione.
Con la
sentenza 17.07.2014 n. 3817,
Sez. V, palazzo Spada ha,
infatti, respinto l'appello proposto da un comune calabrese
avverso la sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, n.
471 del 21.03.2014, con la quale era stata annullata la
deliberazione del consiglio comunale che aveva approvato le
misure dell'addizionale comunale all'Irpef oltre il 30.11.2013, e cioè oltre termine stabilito per l'anno
2013 per l'approvazione del bilancio di previsione. A
differenza degli altri tre comuni che si erano visti
notificare sentenze di identico tenore (e precisamente la n.
470, 472 e 473), il comune in questione ha deciso di
interporre appello lamentando, in sostanza:
1) la carenza di interesse del Mef all'impugnazione della
delibera del consiglio comunale;
2) la mancata impugnazione della delibera del bilancio di
previsione del 2013;
3) la natura ordinatoria del termine del 30.11.2013;
Tutte le eccezioni, però, sono state dichiarate infondate
dai giudici che hanno controbattuto precisando che:
a) è l'art. 52 del dlgs n. 446 del 1977 ad attribuire al
ministero una sorta di legittimazione straordinaria a
ricorrere alla giustizia amministrativa per l'annullamento
dei regolamenti e degli atti in materia di tributi adottati
dall'ente locale, per motivi di legittimità. Per cui tale
legittimazione prescinde dall'esistenza di una lesione di
una situazione giuridica tutelabile in capo allo stesso
dicastero;
b) nessun rilievo ha la mancata impugnazione della
deliberazione del bilancio di previsione che ha natura di
atto ricognitivo di atti e di provvedimenti impositivi già
adottati dall'amministrazione, sicché non incide sulla
validità degli stessi. Detta delibera, del resto, non è mai
stata trasmessa al Mef, visto che l'unica delibera
pubblicata sul sito è quella impugnata dallo stesso Mef per
motivi di legittimità;
c) la perentorietà del termine per deliberare, prescritta
dall'art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006 n. 296,
è desumibile dal dato testuale di detta norma che impone
agli enti locali di fissare le tariffe e le aliquote
relative ai tributi di competenza degli stessi entro la data
fissata dalla norme statali per la deliberazione del
bilancio di previsione e stabilisce che in caso di mancata
approvazione entro il termine per la deliberazione del
bilancio di previsione, le tariffe e le aliquote si
intendono prorogate di anno in anno.
Infine, non ha trovato accoglimento neanche la
considerazione in base alla quale il comune avendo
pubblicato la delibera il 17.12.2013, avrebbe
rispettato il termine del 20 dicembre stabilito dall'art.
14, comma 8, del dlgs n. 23 del 2011 il quale prevede che a
decorrere dall'anno 2011, le delibere di variazione
dell'addizionale comunale all'Irpe hanno effetto dal 1°
gennaio dell'anno di pubblicazione sul sito informatico
www.ministerofinanze.gov.it «a condizione che detta
pubblicazione avvenga entro il 20 dicembre dell'anno a cui
la delibera afferisce». Ciò perché la norma citata si
riferisce solamente alle modalità di pubblicazione della
delibera consiliare che modifichi le aliquote
dell'addizionale Irpef, fermo restando che la delibera, ai
fini della validità, deve essere approvata entro il termine
del 30 novembre
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Comuni, per i servizi legali serve la gara.
Tar Salerno. Appalto non richiesto quando non si deve
affidare il patrocinio in una causa.
Quando un Comune affida
servizi legali, l'incarico non si esaurisce nel patrocinio
legale a favore dell'ente, ma si configura quale modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato.
Lo sottolinea il TAR Campania-Salerno, Sez. II, nella
sentenza 16.07.2014 n. 1383, per la
quale i servizi legali possono anche comprendere la difesa
giudiziale ma non si esauriscono in tale difesa.
Per affidare i servizi legali, quindi, occorre rispettare le
regole delle procedure concorsuali, effettuare una
selezione, adottare un procedimento diverso dal contratto di
conferimento del singolo incarico legale. In particolare,
hanno rilevanza l'aleatorietà dell'iter del giudizio, la non
predeterminabilità dei tempi, costi ed entità della
prestazione. Questi elementi rendono infatti oggettivamente
impossibile fissare criteri di valutazione così come
previsto dal Codice dei contratti pubblici. In conseguenza,
un Comune non può affidare una serie di servizi legali a
professionisti privati senza una procedura comparativa di
tipo concorsuale per la scelta, una procedura cioè aperta
alla partecipazione di tutti coloro che, in possesso dei
titoli e requisiti richiesti, potrebbero aspirare al
conseguimento dell'incarico.
La norma che regola la materia è l'articolo 7, comma 6, del dlgs n. 165/2001, per il quale le amministrazioni pubbliche
disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri
ordinamenti, le procedure comparative per il conferimento
degli incarichi di collaborazione a professionisti esterni,
potendo procedere al conferimento di incarichi individuali
solo per soddisfare esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, e alle condizioni e con i presupposti
individuati dal legislatore.
Nel caso esaminato al Tar Salerno, l'incarico affidato ai
legali esterni consisteva nella complessiva attività di
assistenza e consulenza legale a favore del Comune, ovvero
nella gestione di tutto il servizio di attività legale
dell'amministrazione, comprensivo, come specificato nello
schema di convenzione, di attività di consultazioni orali,
scritte, e di redazione di pareri. In sostanza, non si
trattava dell'affidamento di un singolo incarico o di una
singola attività afferente a una specifica vertenza legale,
ma della organizzazione di una complessiva attività di
assistenza in favore dell'ente locale, da farsi rientrare, a
pieno titolo, nella nozione ampia di consulenza legale.
La sentenza è conforme all'orientamento della Corte dei
conti (Sezione regionale controllo Basilicata, parere n.
8/09) che distingue il servizio legale dal singolo incarico
difensivo: il primo ha più marcati profili di
organizzazione, continuità e complessità, rispetto al
singolo contratto d'opera intellettuale.
Mentre il patrocinio legale -il cui contratto è volto a
soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa
giudiziale del cliente- va inquadrato nell'ambito della
prestazione d'opera intellettuale, il servizio legale
presenta qualcosa in più, per prestazione o modalità
organizzativa, che giustifica il suo assoggettamento alla
disciplina concorsuale (articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sulla legittimità della richiesta di un utente di
una società fornitrice di gas di accedere agli atti inerenti
la propria posizione contrattuale per comprendere i motivi
della richiesta di pagamento di una fattura eccessiva.
E' legittima la richiesta di una cliente di ottenere copia
di taluni atti inerenti la propria posizione contrattuale
alla società fornitrice di gas ed energia elettrica, in
quanto sussiste in capo alla ricorrente l'"interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso", atto a giustificare la
richiesta ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241 del 1990. Al
fine di valutare la sussistenza di tale interesse occorre
avere riguardo alle finalità che l'istante dichiara di
perseguire, richiedendo la norma in parola un "legame tra
finalità dichiarata ed il documento richiesto".
L'interesse enunciato dalla ricorrente ("comprendere quali
siano state le ragioni che, in concreto, hanno condotto alla
esorbitante richiesta di pagamento contenuta nella fattura
onde attivare -all'esito dell'esame della documentazione e
se del caso- gli idonei strumenti giudiziari a tutela della
propria posizione giuridica"), è idoneo a supportare
adeguatamente la pretesa dell'istante di ottenere in
ostensione gli atti innanzi indicati. La richiesta di
accesso è poi sufficientemente supportata dalla necessità
della difesa degli interessi giuridici della ricorrente (ex
art. 24, c. 7, l. 241/1990).
La valutazione che la P.A. in prima battuta e, quindi, il
giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva
sono chiamati a compiere va effettuata in astratto e, per
dir così, "ab externo", senza che nell'esercizio di
quest'ultima funzione vi sia spazio per compiere
apprezzamenti diretti (e indebiti) sulla documentazione
richiesta quale strumento di prova diretta, o di mancata
prova, della lesione sofferta dalla parte in sede di
giudizio civile e sulla fondatezza della domanda giudiziale
civile, ossia della pretesa sottostante.
---------------
La natura formale di società di capitali non impedisce
l'esercizio del diritto di accesso, non ponendosi il
perseguimento di uno scopo pubblico in contraddizione con il
fine societario lucrativo. Ed invero, a norma dell'art. 22
l. n. 241/1990, nella definizione di p.a. rientrano tutti i
soggetti di diritto pubblico, anche quelli privati, seppur
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, mentre nel
novero dei documenti amministrativi rientrano tutti gli atti
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale.
Orbene, la progressiva liberalizzazione dei settori gas ed
energia elettrica, la costituzione sotto forma di società
per azioni dei soggetti operanti in tali settori e l'intento
lucrativo che tipicamente permea un'attività industriale o
commerciale esercitata sul libero mercato non contraddicono,
per ciò solo, le finalità anche pubblicistiche tese al
soddisfacimento di bisogni generali della collettività che
gli operatori del settore perseguono, anche in relazione
alla sola fase della vendita al consumatore finale. Prova ne
sia il mantenimento di poteri pubblici di regolazione,
vigilanza, controllo e sanzione sui settori gas ed energia,
nonché l'adozione di un codice di condotta commerciale per
gli operatori dei settori in parola, adottato dall'Autorità
per l'energia elettrica e il gas con deliberazione
08.07.2010 n. 104 proprio a tutela del cliente finale.
D'altronde la direttiva 03/55/CE introduce obblighi di
servizio pubblico espliciti per la tutela dei consumatori
(specificati in un apposito allegato alla Direttiva) nel
settore vendita del gas e il Consiglio di Stato ha affermato
che "l'obiettivo delle istituzioni comunitarie di
liberalizzazione della vendita del gas non è incompatibile
con misure di regolazione di salvaguardia dei consumatori,
da ricondursi alla nozione di "oneri di servizio pubblico"
di cui all'art. 106 del TFUE. Le predette circostanze
persuadono ulteriormente della ricorrenza di un "pubblico
interesse" rilevante ai fini dell'applicazione della
normativa innanzi richiamata in tema di accesso (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 15.07.2014 n. 908 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sul c.d. potere di soccorso istruttorio nelle
procedure di gara.
La norma sul soccorso istruttorio (art. 46 del d.lgs. n. 163
del 2006) deve essere intesa, alla luce di quanto affermato
con la sentenza n. 9 del 2014 dall'Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, nel senso che occorre tenere separati i
concetti di regolarizzazione documentale e di integrazione
documentale: la prima, consistendo nel "completare
dichiarazioni o documenti già presentati" dall'operatore
economico, è ammessa, per i soli requisiti generali, al fine
assicurare, evitando inutili formalismi, il principio della
massima partecipazione; la seconda, consistendo
nell'introdurre nel procedimento nuovi documenti, è vietata
per garantire il principio della parità di trattamento.
La distinzione è superabile, si afferma sempre nella citata
sentenza, in presenza di "clausole ambigue" che
autorizzano il soccorso istruttorio anche mediante
integrazione documentale.
Pertanto, le prescrizioni contenute nel bando di gara che
contengono clausole contrarie alla suddetta norma
imperativa, così come interpretata, devono ritenersi nulle.
Esse, infatti, si risolverebbero nella previsione di una
causa di esclusione non consentita dalla legge (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 14.07.2014 n. 3663 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Documenti e gare: regolarizzazione ma non integrazione.
Consiglio di Stato. «Anticipato» il Dl 90/2014.
Novità per gli appalti
pubblici, applicando il "principio di soccorso": lo
sottolinea il Consiglio di Stato -Sez. VI- nella
sentenza
14.07.2014 n. 3663, anticipando le innovazioni al decreto
legislativo 163/2006 contenute nel Dl 90 del 24.06.2014
(articolo 39).
Le nuove norme in tema di irregolarità
essenziali e dichiarazioni non indispensabili, si
applicheranno infatti alle procedure di affidamento indette
successivamente al 25.06.2014: per le procedure
antecedenti, valgono i principi di clemenza posti dal
Consiglio di Stato in questa sentenza 3663 del 2014 e, poco
prima, dall'Adunanza plenaria 9/2014.
Il caso deciso al luglio riguarda presunte irregolarità
nella documentazione di concorrenti alla gara di
realizzazione delle cancellate di chiusura dei fornici del
Colosseo. In quella gara sono emerse irregolarità formali,
generando un contenzioso simile a quello che da anni invano
l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici cercava di
risolvere con determinazione n. 4 del 16.10.2012,
elencando 90 cause di insanabile esclusione. Oggi la
sentenza 3663/2014 chiarisce due concetti: da un lato
l'altro vi è la «regolarizzazione documentale», dall'altro,
l'«integrazione documentale».
Si può "regolarizzare", quando
si intenda completare dichiarazioni o documenti già
presentati dal concorrente, e ciò, in particolare, per i
soli requisiti generali previsti dall'articolo 38 del
decreto legislativo 163/2006. Invece, l'integrazione
documentale (non consentita) consiste nell'introdurre nel
procedimento nuovi documenti, ed è vietata per il principio
della parità di trattamento tra concorrenti. La distinzione
tra regolarizzazione e integrazione è a sua volta resa
comprensibile dall'articolo 46 del dlgs 163/2006, secondo il
quale sono nulle le clausole del bando di gara che aggravino
le ipotesi di esclusione di concorrenti, oltrepassando le
strette esigenze del preservare la segretezza delle offerte
o mantenere certo il contenuto e la provenienza
dell'offerta.
Si completano in questo modo i principi posti dall'Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato 9/2014, secondo la quale la
stazione appaltante deve consentire di regolarizzare
certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti,
prevedendo una procedura di richiesta di chiarimenti,
funzionale alla rettifica di errori materiali o refusi,
eliminando clausole ambigue nel rispetto della par condicio
dei concorrenti.
Secondo questi principi, non è quindi
possibile consentire la produzione tardiva di documenti o
dichiarazioni mancanti, né è possibile sanare le omissioni
di forme, se tali forme siano previste a pena di esclusione
dal Codice dei contratti pubblici, dal regolamento di
esecuzione e dalle leggi statali. Nel caso del Colosseo, uno
dei concorrenti aveva genericamente dichiarato di non aver
subito «condanne con il beneficio della non menzione»,
invece di dichiarare «tutte le condanne penali riportate,
comprese quelle per le quali avesse beneficiato del
beneficio della non menzione»: come si vede, si trattava di
un problema di forma, ritenuto superabile attraverso una
regolarizzazione.
Per le gare bandite dalla 26.06.2014, l'articolo 39 del dl
90 prevede che anche le irregolarità essenziali saranno
sanabili entro 10 giorni, previa sanzione pecuniaria
dell'1/1000 del valore della gara e comunque non superiore a
50.000 euro. Se si può sanare, l'irregolarità scompare; se
l'errore non è sanato, il concorrente viene escluso e perde
la cauzione: i problemi sorgono quando occorre calcolare la
media delle offerte, poiché la norma del 2014 cristallizza
tutte le offerte che hanno superato la fase di ammissione,
comprese quelle con irregolarità insanabili (articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BOSCO - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Attività di
rimboschimento - Terreni boschivi vincolati - Bosco
artificiale e bosco naturale - Individuazione e nozione -
Artt. 142, lett. g), 146, 147, 149, 159 e 181 del D.Lgs.
42/2004 – Art. 2 D.Lgs. n. 227/2001.
La nozione di bosco comprende, in coerenza con l'art. 2 del
D.Lgs. 227/2001 tanto il bosco latu senso inteso, sia
di origine naturale che artificiale, e che, laddove il
terreno su cui quel bosco sorge non sia destinato in via
esclusiva alla produzione del legno, esso è assoggettato
alla disciplina penalistica prevista dall'art. 181 del D.
L.vo 42/2004.
Va, ancora, sottolineato che l'attività di rimboschimento
costituisce indice inequivocabile della non esclusività
della destinazione a produzione del legno per la particolare
ampiezza dell'intervento, di guisa che un intervento di
taglio indiscriminato degli alberi seguito dal dissodamento
del terreno laddove non specificamente autorizzato, incide
sull'assetto territoriale e paesaggistico integrando la
fattispecie tipica dell'art. 181 D.Lgs. 42/04 come
richiamata dagli artt. 142, lett. g), del medesimo D.Lgs. e
2, commi 5° e 6° del D.Lgs. 227/2001.
BOSCO - BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Terreni boschivi protetti da vincolo - Individuazione -
Tutela del paesaggio e nozione di bosco in senso normativo e
non naturalistico.
In tema di tutela del paesaggio ed al fine di individuare i
terreni boschivi protetti da vincolo va qualificato come
bosco, alla luce della speciale normativa di settore (art. 2
del richiamato D.Lgs. 227/2001) qualsiasi terreno coperto da
vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella
arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia
mediterranea, con il limite spaziale di una estensione non
inferiore a 2000 mq., con larghezza media non inferiore a mt.
20 e con copertura per l'intera superficie non inferiore al
20% (Cass., Sez. 3^ 16.11.2006 n. 1874, Monni, Rv. 235869;
Cass. Sez. 3^ 18.05.2011 n. 28928, Sardu, Rv. 250968 in cui
si specifica che la nozione di bosco va intesa in senso
normativo e non naturalistico; Sez. 3^ 20.06.2007 n. 24258;
Sez. 3^ 10.03.2011 n. 9690).
BOSCO - BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Nozione di "territorio coperto da bosco” ai fini del vincolo
paesaggistico - Bosco naturale e artificiale -
Giurisprudenza.
La nozione di "territorio coperto da bosco ai fini della
sottoposizione a vincolo paesaggistico ai sensi dell'art.
146, comma 1, lett g), del D.Lgs. 29.10.1999 n. 490, [come
successivamente sostituito dall'art. 142, lett. G), del
D.Lgs. 42/2004] include tanto il bosco di origine naturale
quanto quello di natura artificiale" (Cass. Sez. 3^
17.05.2002 n. 26601, P.G. in proc. Varvara V.; Cass. Sez. 1^
01.10.1987 n. 742, Carta).
E per una definizione "allargata" di bosco va
menzionata la recente decisione di questa Sezione n. 32807
del 23.04.2013, P.M. in proc. Timori, Rv. 255904, secondo la
quale in piena sintonia con il detto normativo rientra nel
concetto di bosco "ogni terreno coperto da vegetazione
forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, da
castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, purché
aventi un'estensione non inferiore a mq. duemila, con
larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non
inferiore al 20 per cento".
BOSCO - BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Tutela del paesaggio e vincolo di rimboschimento –
Disciplina applicabile - Art. 2, 6 c., D.Lgs. 18/05/2001 n.
227.
In tema di tutela del paesaggio, i requisiti fissati
dall'art. 2, comma sesto, del D.Lgs. 18.05.2001 n. 227, per
qualificare una formazione vegetale quale bosco non sono
richiesti per i fondi gravati dall'obbligo di
rimboschimento, per la cui assimilazione ai boschi è
sufficiente la presenza del provvedimento amministrativo o
della disposizione normativa che abbia imposto il vincolo di
rimboschimento (Sez. 3^ 07.06.2006 n. 32542, De Nardis, Rv.
234941) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2014 n. 30303 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, responsabilità in chiaro.
Gestione illecita: sanzioni anche a enti e imprese di fatto.
La Corte di cassazione definisce il campo d'applicazione del
Codice ambientale.
Il reato di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento,
commercio o intermediazione illecita di rifiuti è
contestabile sono a chi riveste, anche di fatto, la
qualifica di imprenditore o titolare di ente.
A chiarirlo è
la
sentenza 09.07.2014 n. 29992 con la quale la Corte di
Cassazione, Sez. III penale, chiamata a esprimersi in relazione a una
fattispecie di commercio ambulante di rifiuti, ha delimitato
i confini della «gestione di rifiuti non autorizzata»
prevista e punita dal Codice ambientale.
L'autore della gestione illecita di rifiuti.
L'interpretazione restrittiva del Giudice di legittimità
ruota intorno al corretto significato da dare al pronome
utilizzato dal Legislatore per individuare il potenziale
soggetto attivo del reato in parola, laddove l'articolo 256,
comma 1, del dlgs 152/2006 testualmente punisce «chiunque
effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti in
mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o
comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212,
214, 215 e 216» dello stesso Codice ambientale.
Per la
Cassazione il termine «chiunque» ivi contenuto deve essere
letto non in modo isolato, ma insieme alle disposizioni
recate dagli articoli richiamati dalla stessa disposizione,
articoli che espressamente individuano in imprese ed enti i
soggetti tenuti a procurarsi i necessari titoli abilitativi
per poter lecitamente gestire rifiuti (il 208, comma 17-ter
sull'autorizzazione per impianti e attività di gestione
rifiuti, il 209, commi 1 e 2, sul rinnovo della stessa, il
212, commi 7, 8, 9 ed 11 sull'obbligo di iscrizione all'Albo
gestori ambientali, il 214, comma 9, il 215 e il 216, comma
3, sulle procedure semplificate per recupero e smaltimento).
Dal tenore della sentenza si evince dunque come l'illecito
previsto dall'articolo 256, comma 1, dlgs 152/2006 sia un
«reato proprio» (dunque integrabile solo dai citati
soggetti, riconducibili ai titolari di imprese o enti) e non
un «reato comune» (commissibile da qualsiasi soggetto).
Questo, ricorda la pronuncia, fermo restando che a
identificare come titolare di impresa o ente un soggetto è
comunque la funzione in concreto svolta, non essendo
necessaria l'esistenza di una formale investitura. Ben può
dunque ritenersi tale qualunque soggetto che, in base
all'attività svolta, assuma «di fatto» tali qualifiche (come
ha già chiarito, ricorda il Giudice, la stessa Corte con
precedenti pronunce, tra cui la 38364/2013). In base alla
nuova sentenza della Cassazione non appaiono dunque
sanzionabili come «gestione di rifiuti non autorizzata» (ex
comma 1, articolo 256, dlgs 152/2006) quelle condotte
caratterizzate da assoluta occasionalità poste in essere da
soggetti non inquadrabili (sia dal punto di vista formale
che materiale) come imprese o enti.
Così come, al contrario,
appaiono sanzionabili per lo stesso illecito le analoghe
condotte poste in essere da quei soggetti anche solo «di
fatto» riconducibili nelle citate categorie, pur se adottate
in modo secondario o solo consequenziale all'attività
principale.
Il commercio ambulante di rifiuti. Effettuata la
ricognizione generale sulla portata del reato di «gestione
di rifiuti non autorizzata», la Corte di cassazione ha di
conseguenza (e sulla scia della pregressa e consolidata
giurisprudenza di legittimità) inquadrato nello stesso
l'attività di commercio in forma ambulante di rifiuti (nella
fattispecie, rottami ferrosi) realizzata senza alcun titolo
abilitativo.
Il Giudice ha infatti ricordato come in materia lo stesso
«Codice ambientale» preveda sì delle deroghe agli obblighi
autorizzatori ambientali (iscrizione all'Albo gestori,
tenuta dei registri di carico/scarico, formulario di
trasporto, denuncia annuale rifiuti), ma (secondo il tenore
dell'articolo 266, comma 5, dlgs 152/2006) solo per le
«attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai
soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime
in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano
oggetto del loro commercio».
Indefettibili ai fini della validità della deroga,
sottolinea la Corte, sono quindi sia la sussistenza di un
valido titolo per lo svolgimento della attività d'impresa
(da rintracciarsi nella più generale e vigente disciplina
sul commercio) sia la riconducibilità merceologica dei
residui raccolti e trasportati all'attività autorizzata.
Sulla più generale portata della citata deroga il Giudice di
legittimità ha invece ricordato la precedente e illuminate
sentenza 19111/2013, con la quale la stessa Corte ha fissato
precisi paletti al regime di eccezione, confinandolo alla
sola raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti
da terzi da parte di «commercianti al dettaglio». E in
assenza dei citati elementi, non operando la deroga ex
articolo 266, comma 5 descritta, l'attività condotta senza
il supporto dei titoli abilitativi ambientali previsti dallo
stesso dlgs 152/2006 integra dunque il reato di «gestione di
rifiuti non autorizzata» ex articolo 256, comma 1, dlgs
152/2006, essendo posta in essere da soggetto titolare di
impresa (seppur «di fatto»).
Il contesto sanzionatorio del «Codice ambientale». La
ricognizione effettuata dalla Cassazione sul campo di
applicazione del reato di «gestione di rifiuti non
autorizzata» appare ad avviso dello scrivente utile anche
per chiarire le conseguenza legate ad altre azioni aventi ad
oggetto rifiuti residui.
È il caso della combustione di
«rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini,
parchi e aree cimiteriali» (definiti ex articolo 184, comma
2, lettera e) del dlgs 152/2006 come rifiuti «urbani»): ai
sensi del combinato disposto degli articoli 255 e 256-bis
dello stesso Codice ambientale, se effettuata da soggetto
privato (dunque, non inquadrabile in attività d'impresa) e
avente ad oggetto residui «abbandonati ovvero depositati in
maniera incontrollata», essa combustione (definita come
«illecita») è punita con una sanzione amministrativa
pecuniaria.
Ma nel caso il caso il fuoco sia appiccato dallo stesso
soggetto ad analoghi residui che tuttavia non versino nelle
suddette condizioni di abbandono o stoccaggio illecito non
apparirebbe rintracciabile nello stesso dlgs 152/2006 altra
fattispecie punitiva cui ricondurre la condotta, essendo
stato chiarito che il diverso illecito di «gestione di
rifiuti non autorizzata» ex articolo 256, comma 1, del dlgs
152/2006 (che tra l'altro prevede sanzioni ben più gravi) è
riservato alle sole condotte poste in essere da titolari,
anche «di fatto», di enti o imprese
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.07.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Natura del reato di illecita gestione e
trasporto in forma ambulante.
1. La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs.
152/2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del
prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra
quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210,
211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche
di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio
di una attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità;
2. La deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs.
152/2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti
prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera
qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in
possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività
commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs.
31.03.1998, n. 114 e, dall'altro, che si tratti di rifiuti
che formano oggetto del suo commercio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.07.2014 n. 29992
- tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Sul ritardo nel pagamento di retribuzioni o
contributi ai lavoratori dipendenti dell'appaltatore o
subappaltatore negli appalti pubblici.
Per i contratti pubblici di appalto relativi a lavori,
servizi e forniture, in caso di ritardo nel pagamento delle
retribuzioni o dei contributi dovuti al personale dipendente
dell'esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari
di subappalti e cottimi di cui all'art. 118, comma 8, ultimo
periodo, del relativo codice, di cui al D.Lgs. 12.04.2006,
n. 163, i lavoratori devono avvalersi degli speciali
strumenti di tutela previsti dal codice citato, le cui
modalità di utilizzazione sono determinate, in particolare,
dagli artt. 4 (per i contributi) e 5 (per le retribuzioni)
del il D.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante il Regolamento di
esecuzione ed attuazione del suddetto codice).
Tale disciplina che, peraltro, consente agli interessati di
recuperare -anche in corso d'opera- quanto dovuto, è
articolata in modo tale da dimostrare che, nell'ambito degli
appalti pubblici, il legislatore attribuisce allo scorretto
comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti dei
propri dipendenti un disvalore maggiorato dal fatto di
considerarlo anche lesivo degli interessi pubblici al cui
migliore perseguimento è preordinata la complessiva
disciplina regolatrice degli appalti pubblici.
Ne consegue che alla suindicata fattispecie non è
applicabile il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2,
come peraltro stabilisce il precedente art. 1, comma 2, che
esclude che il decreto stesso sia applicabile "per le
pubbliche amministrazioni e per il loro personale" e
come, di recente ha confermato dal D.L. 28.06.2013, n. 76,
art. 9, comma, (convertito dalla L. 09.08.2013, n. 99).
Viceversa nel caso di mancata utilizzazione da parte dei
lavoratori degli strumenti previsti dalla suindicata
normativa speciale, è possibile fare ricorso, in via
residuale, alla tutela di cui all'art. 1676 cod. civ., che
in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, è
applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le
pubbliche amministrazioni" (Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 07.07.2014 n. 15432 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA:
Reato di lottizzazione abusiva - Cd. reato
progressivo nell'evento – Presupposti - Art. 44, lett. c),
d.P.R. n. 380/2001, Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Il reato di lottizzazione è inquadrabile nel cd. reato
progressivo nell'evento (che è cosa ben diversa dal ritenere
che la lottizzazione rientri nello schema del reato
progressivo) in cui possono concorrere, nell'unicità della
fattispecie incriminatrice, il momento negoziale, quello
programmatorio mediante l'esecuzione di opere di
urbanizzazione e quello attuativo con la costruzione degli
edifici.
Pertanto, la condotta illegittima, pur nella sua unitarietà,
può essere attuata in forme (il reato è a forma libera) e
momenti diversi e da una pluralità di soggetti, in concorso
fra loro (proprietari, costruttori, geometri, architetti,
mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, ecc.) di
conseguenza, correttamente si può configurare la figura del
reato progressivo nell'evento lesivo dell'interesse
urbanistico protetto.
Reato di lottizzazione abusiva - Reato
progressivo nell'evento - Criteri per la configurabilità -
Gravità dell'offesa - Reato a consumazione prolungata o
frazionata - Artt. 30, c.7 e 29, d.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica, la contravvenzione di lottizzazione
abusiva configura un reato progressivo nell'evento, che
sussiste anche quando l'attività posta in essere sia
successiva agli atti di frazionamento o ad opere già
eseguite, atteso che tali iniziali attività, pur integrando
la configurazione del reato, non esauriscono il percorso
criminoso che si protrae con gli interventi successivi che
incidono sull'assetto urbanistico, in quanto l'esecuzione di
opere di urbanizzazione primaria e secondaria compromette
ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del
territorio riservate alla competenza pubblica (Cass. S.U.,
n. 4708 del 24.04.1992, Fogliani; Sez. 3, n. 36940 del
11/05/2005, Stiffi ed altrine, da ultimo, Sez. 3, n. 12772
del 28/02/2012 Tallarini, nonché Sez. 3, n. 5105 del
13/02/2013 dep. 03/02/2014).
Ne consegue che l'illecito lottizzatorio si realizza (in
altri termini, la consumazione ha inizio) allorquando sia al
completo dei requisiti necessari e sufficienti per
l'integrazione della fattispecie incriminatrice ed il
momento consumativo perdura nel tempo sino a quando l'offesa
tipica raggiunge, attraverso un passaggio graduale da uno
stadio determinato ad un altro ad esso successivo, una
sempre maggiore gravità, ed in ciò la lottizzazione, quale
reato progressivo nell'evento, partecipa alla medesima
disciplina del reato permanente, anche mutuandone ricadute
giuridiche, e del quale ha in comune la struttura unitaria,
l'instaurazione di uno stato antigiuridico ed il suo
mantenimento ma ha in aggiunta un progressivo
approfondimento dell'illecito attraverso condotte successive
dirette ad aggravare l'evento del reato, atteso che gli
interventi susseguenti incidono sull'assetto urbanistico,
compromettendo ulteriormente le scelte di destinazione e di
uso del territorio riservate alla competenza pubblica.
La gravità dell'offesa può invero spostare il tempo del
reato ed il diritto vivente, oltre al reato progressivo
nell'evento, tipico dell'illecito lottizzatorio, ha
enunciato le categorie del reato a duplice schema (Sez. 2,
n. 38812 del 01/10/2008, Barreca, Rv. 241452) e del reato a
consumazione prolungata o frazionata (Sez. 4, n. 17036 del
15/01/2009, Palermo, Rv. 243959) che rispondono alla
medesima ratio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.06.2014 n. 25182
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ossequio ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, inaugurato da Cons. Stato, sez. VI, n.
5851/2000 con riguardo agli artt. 7 e 15 della l. n. 1497
del 1939, deve ritenersi ammissibile il rilascio di
un'autorizzazione paesistica in un momento successivo alla
realizzazione dell'intervento edilizio in area vincolata.
Il Consiglio di Stato ha nell’occasione osservato che “la
possibilità di un'autorizzazione successiva, oltre a non
essere contraddetta dalle caratteristiche precipue dell'atto
di assenso di cui si discorre, è implicitamente ammessa
dallo stesso legislatore. La tesi della non assentibilità a
posteriori dell'intervento avrebbe avuto in ipotesi una
reale consistenza sul piano positivo laddove la procedura
sanzionatoria ex art. 15 della legge n. 1497/1939,
prevedendo l'esito vincolato della demolizione anche in
ordine a violazioni di carattere formale, non avesse posto
l'alternativa tra la demolizione a spese del trasgressore
delle opere abusivamente eseguite ed il pagamento di
un'indennità equivalente alla maggior somma tra il danno
arrecato e il profitto conseguito.
La previsione di questa alternativa affida invece alla
valutazione discrezionale dell'amministrazione, basata
sull'esistenza e sulla consistenza del pregiudizio
ambientale, la scelta tra la misura ripristinatoria e quella
pecuniaria. Ne deriva che la via della demolizione sarà
interdetta -lasciando residuare, come si vedrà la strada
della sanzione pecuniaria- nell'ipotesi in cui l'opera si
armonizzi con il contesto ambientale, dovendosi in tal caso
escludere un qualsiasi profilo di vulnus sostanziale, così
come nel caso in cui il pregiudizio si presenti marginale al
punto da rendere sovradimensionata la drastica misura della
demolizione.
Ebbene, fermandoci alla prima delle due ipotesi, non è chi
non veda come la decisione di non procedere alla demolizione
per effetto della ritenuta compatibilità dell'opera con il
contesto paesaggistico oggetto di tutela implichi, sulla
base di una precisa opzione del legislatore, un'implicita
autorizzazione al mantenimento in vita dell'opera, ossia una
verifica che nella sostanza replica, sia pure ai fini della
scelta della sanzione da applicare, lo stesso apprezzamento
previsto in via preventiva dall'art. 7 della legge in
parola.
In definitiva la circostanza che il legislatore non preveda
la necessità di un provvedimento formale in sanatoria,
reputando sufficiente al fine di salvaguardare l'esistenza
in vita dell'immobile la scelta di non accedere alla
sanzione della demolizione, non esclude la possibilità che
detta valutazione di compatibilità paesistica, alla base
dell'esito del procedimento sanzionatorio, venga esplicitata
attraverso una determinazione sostanzialmente riconducibile,
con le differenze di cui si dirà, al paradigma di cui
all'art. 7.
In sintesi un tale modus procedendi innesca una non preclusa
inversione nella sequenza procedimentale di cui all'art. 15,
facendo sì che la verifica di compatibilità, piuttosto che
essere desumibile dalla non adozione della misura
ripristinatoria, condizioni a monte l'esito del procedimento
sanzionatorio nel senso di rendere non più praticabile la
soluzione radicale dell'abbattimento delle opere abusive”.
Va soggiunto, a confutazione dei rilievi
critici al riguardo articolati dal Primo Giudice, che, in
ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
inaugurato da Cons. Stato, sez. VI, n. 5851/2000 con
riguardo agli artt. 7 e 15 della l. n. 1497 del 1939, deve
ritenersi ammissibile il rilascio di un'autorizzazione
paesistica in un momento successivo alla realizzazione
dell'intervento edilizio in area vincolata.
Il Consiglio di Stato ha nell’occasione osservato che “la
possibilità di un'autorizzazione successiva, oltre a non
essere contraddetta dalle caratteristiche precipue dell'atto
di assenso di cui si discorre, è implicitamente ammessa
dallo stesso legislatore. La tesi della non assentibilità a
posteriori dell'intervento avrebbe avuto in ipotesi una
reale consistenza sul piano positivo laddove la procedura
sanzionatoria ex art. 15 della legge n. 1497/1939, prevedendo
l'esito vincolato della demolizione anche in ordine a
violazioni di carattere formale, non avesse posto
l'alternativa tra la demolizione a spese del trasgressore
delle opere abusivamente eseguite ed il pagamento di
un'indennità equivalente alla maggior somma tra il danno
arrecato e il profitto conseguito.
La previsione di questa alternativa affida invece alla
valutazione discrezionale dell'amministrazione, basata
sull'esistenza e sulla consistenza del pregiudizio
ambientale, la scelta tra la misura ripristinatoria e quella
pecuniaria. Ne deriva che la via della demolizione sarà
interdetta -lasciando residuare, come si vedrà la strada
della sanzione pecuniaria- nell'ipotesi in cui l'opera si
armonizzi con il contesto ambientale, dovendosi in tal caso
escludere un qualsiasi profilo di vulnus sostanziale, così
come nel caso in cui il pregiudizio si presenti marginale al
punto da rendere sovradimensionata la drastica misura della
demolizione. Ebbene, fermandoci alla prima delle due
ipotesi, non è chi non veda come la decisione di non
procedere alla demolizione per effetto della ritenuta
compatibilità dell'opera con il contesto paesaggistico
oggetto di tutela implichi, sulla base di una precisa
opzione del legislatore, un'implicita autorizzazione al
mantenimento in vita dell'opera, ossia una verifica che
nella sostanza replica, sia pure ai fini della scelta della
sanzione da applicare, lo stesso apprezzamento previsto in
via preventiva dall'art. 7 della legge in parola (cfr., sia
pure in un'ottica propensa ad escludere la possibilità di
applicare anche la sola sanzione pecuniaria in caso di
assenza di danno ambientale, Cons. Stato, Commiss. Spec., 09.05.1977, parere n. 5/1977; parere 15.02.1989,
n. 28/89).
In definitiva la circostanza che il legislatore
non preveda la necessità di un provvedimento formale in
sanatoria, reputando sufficiente al fine di salvaguardare
l'esistenza in vita dell'immobile la scelta di non accedere
alla sanzione della demolizione, non esclude la possibilità
che detta valutazione di compatibilità paesistica, alla base
dell'esito del procedimento sanzionatorio, venga esplicitata
attraverso una determinazione sostanzialmente riconducibile,
con le differenze di cui si dirà, al paradigma di cui
all'art. 7. In sintesi un tale modus procedendi innesca una
non preclusa inversione nella sequenza procedimentale di cui
all'art. 15, facendo sì che la verifica di compatibilità,
piuttosto che essere desumibile dalla non adozione della
misura ripristinatoria, condizioni a monte l'esito del
procedimento sanzionatorio nel senso di rendere non più
praticabile la soluzione radicale dell'abbattimento delle
opere abusive (vedi in conformità, da ultimo, Cons. Stato,
sez. VI, 28.01.2000, n. 421)”.
Va per completezza puntualizzato che la tematica è ora
disciplinata espressamente dal sopravvenuto art. 167, comma
4, lett. a), del decreto legislativo n. 42 del 2004, che
limita l’ammissibilità dell’autorizzazione postuma proprio
al caso, corrispondente alla fattispecie oggetto di
giudizio, di lavori “realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2739 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia in area sottoposta a
vincolo paesaggistico.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, sia se
eseguibili mediante "semplice" denuncia di inizio
attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in base alla
cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata
disposizione, necessitano del preventivo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo.
Solo per gli interventi di restauro e risanamento
conservativo e per quelli di manutenzione straordinaria non
comportanti alterazione dello stato dei luoghi o
dell'aspetto esteriore degli edifici, la D.I.A. non deve
essere preceduta dall'autorizzazione paesaggistica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.04.2014 n. 16687 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Trasporto illecito, confisca del mezzo e
terzo proprietario estraneo al reato.
In caso di trasporto illecito di rifiuti, il terzo
proprietario del mezzo estraneo al reato (da intendersi come
persona che non ha partecipato alla commissione dello stesso
o ai profitti che ne sono derivati) può evitare la confisca
se provi la sua buona fede, ossia, che l'uso illecito della
res gli sia stato ignoto e non collegabile ad un suo
comportamento negligente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.04.2014 n. 16665 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Esclusione dalla disciplina dei rifiuti
delle materie fecali.
L'esclusione dalla disciplina dei rifiuti delle materie
fecali opera a condizione che dette materie provengano da
attività agricola e che siano riutilizzate nella stessa
attività agricola L'esclusione è applicabile solo al letame
agricolo, poiché quello non agricolo è sicuramente un
rifiuto e l'effettiva riutilizzazione nell'attività agricola
deve essere dimostrata dall'interessato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.04.2014 n. 16200
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Stoccaggio provvisorio.
Lo stoccaggio provvisorio, inteso come accantonamento di
rifiuti in attesa del loro riutilizzo o smaltimento, è stato
equiparato, sul piano sanzionatorio, alla fattispecie
criminosa del deposito incontrollato o abbandono di rifiuti
in via definitiva, costituendo anche lo stoccaggio un reato
ove esso venga effettuato senza le prescritte autorizzazione
di legge, che non ammettono equipollenti, non sono
implicitamente ravvisabili e devono essere espressamente,
formalmente, rilasciate prima dell'inizio dell'attività (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.04.2014 n. 15659 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Materiali residuanti dalla attività di
demolizione edilizia.
I materiali residuanti dalla attività di demolizione
edilizia conservano la natura di rifiuti sino al
completamento delle attività di separazione e cernita, in
quanto la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si
applica sino al completamento delle operazioni di recupero,
tra le quali l'art. 183, lett. h), d.lgs. 03.04.2006 n. 152
indica la cernita o la selezione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.04.2014 n. 14952 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Dalla L. 28.01.1977 n.
10, la comunicazione del parere favorevole della Commissione
edilizia -atto tipicamente endoprocedimentale del tutto
privo di una propria autonomia funzionale e strutturale- non
ha più né formalmente, né sostanzialmente valore
provvedimentale di atto di assentimento della concessione
edilizia richiesta.
Il parere della C.E. e gli atti endoprocedimentali non
possono essere considerati equivalenti e non possono avere,
anche implicitamente, un rilievo autorizzatorio in quanto
solo il perfezionamento dell'iter normativo avrebbe
consentito l'edificazione legittima.
----------------
Quanto al periodo antecedente, si evidenzia che la
giurisprudenza aveva effettivamente affermato il principio
per cui “prima di annullare una concessione edilizia il
sindaco deve verificare se non possa essere rimosso il vizio
di legittimità che la inficiava: pertanto, nel caso di
illegittimità della concessione per mancanza del nulla-osta
dei vigili del fuoco, il sindaco deve verificare se sia
possibile sanare il vizio, mediante l'acquisizione tardiva
del nulla-osta medesimo. Solo nel caso che, integrata
l'istruttoria, risultino elementi in contrasto con il
provvedimento già formato, il sindaco può dar corso
all'annullamento d'ufficio”.
Ciò però riguardava il caso di una concessione edilizia già
rilasciata, e non appare traslabile alla fattispecie in
esame, in cui, effettivamente, per quanto si è prima
chiarito, nessuna concessione era stata in realtà emessa e
comunque il parere favorevole era subordinato alla
intrapresa di prescrizioni in realtà mai positivamente
adempiute.
1. L’appello è parzialmente fondato e deve essere
parzialmente accolto, nei termini di cui alla motivazione
che segue.
2. Rammenta in primo luogo il Collegio che per giurisprudenza
consolidata (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 22.02.2013, n.
1111) ”dalla L. 28.01.1977 n. 10, la comunicazione del
parere favorevole della Commissione edilizia -atto
tipicamente endoprocedimentale del tutto privo di una
propria autonomia funzionale e strutturale- non ha più né
formalmente, né sostanzialmente valore provvedimentale di
atto di assentimento della concessione edilizia richiesta.
Il parere della C.E. e gli atti endoprocedimentali non
possono essere considerati equivalenti e non possono avere,
anche implicitamente, un rilievo autorizzatorio in quanto
solo il perfezionamento dell'iter normativo avrebbe
consentito l'edificazione legittima” (ex aliis, si vedano
anche Consiglio Stato, sez. IV, n. 811/2013; 30.06.2005, n. 3608; TAR Campania Salerno, sez. II, 27.05.2010,
n. 8154).
Nel caso di specie, poi, la circostanza che il rilascio
della concessione fosse subordinato ad adempimenti (mai
posti in essere dal destinatario della stessa) impedisce
ogni possibile equipollenza.
2.2. Quanto al periodo antecedente, si evidenzia che la
giurisprudenza (Cons. Stato Sez. V, 08.10.1992, n. 977)
aveva effettivamente affermato il principio per cui “prima
di annullare una concessione edilizia il sindaco deve
verificare se non possa essere rimosso il vizio di
legittimità che la inficiava: pertanto, nel caso di
illegittimità della concessione per mancanza del nulla-osta dei vigili del fuoco, il sindaco deve verificare se
sia possibile sanare il vizio, mediante l'acquisizione
tardiva del nulla-osta medesimo. Solo nel caso che,
integrata l'istruttoria, risultino elementi in contrasto con
il provvedimento già formato, il sindaco può dar corso
all'annullamento d'ufficio”.
Ciò però riguardava il caso di una concessione edilizia già
rilasciata, e non appare traslabile alla fattispecie in
esame, in cui, effettivamente, per quanto si è prima
chiarito, nessuna concessione era stata in realtà emessa e
comunque il parere favorevole era subordinato alla
intrapresa di prescrizioni in realtà mai positivamente
adempiute.
Tali articolazioni dell’appello meritano la reiezione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.03.2014 n. 1016 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Anche la giurisprudenza
di merito maggiormente rigorosa. nell’affermare che
l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo
riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico), fa presente che
tale obbligo motivo sussiste “nel caso di un lungo lasso di
tempo trascorso dalla conoscenza della commissione
dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da
evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo
affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso
tale approdo affermando che “l'ingiunzione di demolizione,
in quanto atto dovuto in presenza della constatata
realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o
in totale difformità da esso, è in linea di principio
sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata
abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva
l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso
dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi
questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di
congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.”.
---------------
L'abusività dell’opera, in se e per sé legittima il
successivo, conseguente provvedimento di rimozione
dell’abuso.
Esso è, di regola, atto dovuto e prescinde dall’attuale
possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con
il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale:
“segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti del
medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione
dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione
dell’abuso, per rendere frustranee le esigenze di tutela
dell’ordinato sviluppo urbanistico, del “governo del
territorio”, dell’ambiente etc., che sono sottese all’ordine
di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile
orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si
ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il
quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente
adottate nei confronti dei proprietari attuali degli
immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è
stato consumato.
In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni
parzialmente difformi; ciò può avvenire in casi in cui sia
pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del
manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è
responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta
al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri
repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il
successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte
dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso
temporale ampio.
Tutti i detti requisiti si manifestano con evidenza nel caso
di specie: in simile evenienza, nel palese stato di buona
fede del privato, l’amministrazione deve motivare in ordine
alla sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche,
tali da far ritenere recessivo lo stato di buona fede
dell’attuale proprietario dell’ abuso.
2.3. L’appello, invece, merita di essere accolto, quanto al
lasso di tempo trascorso, ed all’affidamento riposto
dall’interessato, proprietario subentrante in quanto
acquirente, sotto il profilo della circostanza che
l’ordinanza ingiuntiva gravata appare indirizzata ad un
soggetto che non è il diretto autore dell’opera, attinge un
bene di realizzazione assai risalente, e non fa riferimento
in alcun modo alle esigenze di pubblico interesse sottese
alla emanazione del provvedimento gravato in primo grado,
tanto più se finalizzato ad attingere la posizione di un
soggetto che, pacificamente, non era il medesimo che l’opera
aveva realizzato.
Rammenta in proposito il Collegio che anche la
giurisprudenza di merito maggiormente rigorosa (ex aliis
TAR Napoli sez. II 22/11/2013, n. 5317) nell’affermare
che l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo
riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico)” fa presente che
tale obbligo motivo sussiste “nel caso di un lungo lasso di
tempo trascorso dalla conoscenza della commissione
dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da
evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo
affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso
tale approdo (Consiglio di Stato sez. V
15/07/2013 n. 3847) affermando che “l'ingiunzione di
demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della
constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo
abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di
principio sufficientemente motivata con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi
fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi
dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza,
si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato;
ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere
di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.”.
3.1. Il Collegio non ritiene che sul punto sia opportuno che
residuino margini di incertezza od equivoci,e ritiene di
meglio delineare il proprio convincimento: la abusività
dell’opera, in se e per se legittima il successivo,
conseguente provvedimento di rimozione dell’abuso.
Esso è, di regola, atto dovuto e prescinde dall’attuale
possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con
il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale:
“segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti del
medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione
dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione
dell’abuso, per rendere frustranee le esigenze di tutela
dell’ordinato sviluppo urbanistico, del “governo del
territorio”, dell’ambiente etc., che sono sottese all’ordine
di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile
orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si
ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il
quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente
adottate nei confronti dei proprietari attuali degli
immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è
stato consumato (tra tante, C. Stato, V, 05.05.1998, n. 278
Sez. IV n. 6554/2008).
In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni
parzialmente difformi; ciò può avvenire in casi in cui sia
pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del
manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è
responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta
al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri
repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il
successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte
dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso
temporale ampio.
Tutti i detti requisiti si manifestano con evidenza nel caso
di specie: in simile evenienza, nel palese stato di buona
fede del privato, l’amministrazione deve motivare in ordine
alla sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche,
tali da far ritenere recessivo lo stato di buona fede
dell’attuale proprietario dell’ abuso.
E’ pacifico che ciò non sia avvenuto nel caso di specie, il
che, con portata assorbente milita per l’accoglimento
dell’appello, e, in riforma della gravata decisione, per
l’accoglimento del mezzo di primo grado e l’annullamento
degli atti gravati, salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.03.2014 n. 1016 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per ristrutturazione
edilizia si intendono quegli «interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti».
4.1. La seconda censura, relativa alle opere sub 1
(realizzazione di un diverso manufatto in luogo del
precedente), poggia sulle medesime ragioni giuridiche ossia
sulla non sanzionabilità dell’opera con la demolizione
perché si sarebbe trattato di una mera ristrutturazione,
tale da non “portare a un organismo diverso dal precedente”,
e per questo autorizzabile con mera D.I.A..
4.2. Sul punto, va detto che per ristrutturazione edilizia
si intendono quegli «interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il
ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento
di nuovi elementi ed impianti».
4.3. Orbene, nel caso di specie, il manufatto originario,
secondo quanto rilevato nel provvedimento impugnato, è stato
“sostituito” da quello di nuova edificazione e parte
ricorrente, pur essendo a ciò tenuto in ragione
dell’applicazione del principio dispositivo, non ha
dimostrato in senso contrario che, invece, si sia trattato
di un intervento di sola ristrutturazione. Peraltro, neppure
è dimostrata l’originaria legittimità del fabbricato qui
sostituito. È evidente, in proposito, che giammai potrebbero
essere considerati assentibili con D.I.A. interventi di
completamento e di ampliamento relativi a un fabbricato
illegittimamente edificato.
4.4. Esclusa, quindi, la sufficienza della mera D.I.A. al
fine di “sostituire” il fabbricato, la censura va
disattesa seguendo il medesimo percorso argomentativo
condotto in relazione alla prima censura (par. 3)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanzione pecuniaria va disposta, in via
alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia “oggettivamente
impossibile” procedere alla demolizione e, quindi,
“soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca
che la demolizione, per le sue conseguenze materiali,
inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso
senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti
relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”.
Inoltre, “la possibilità di non procedere alla rimozione
delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti
legittime costituisce solo un'eventualità della fase
esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità
del ripristino dello stato dei luoghi”.
5.1. Analogamente, va rigettata la terza censura, secondo la
quale si sarebbe dovuto far applicazione dell’art. 33 del
D.P.R. 380/2001 nella parte in cui esclude la rimessione in
pristino quando la stessa “non sia possibile”; escluso,
infatti, che gli interventi in questione possano essere
consentiti con mera D.I.A., non può trovare applicazione
tale norma.
5.2. Ad abundantiam, vanno aggiunte alcune considerazioni
convergenti nel senso dell’infondatezza della censura in
esame.
5.3. In primo luogo, per gli immobili in area vincolata,
l’art. 33, co. 3, D.P.R. 380/2001 prevede pur sempre la
rimessione in pristino sia pur «indicando criteri e modalità
diretti a ricostituire l'originario organismo edilizio».
5.4. In secondo luogo, come si è detto, non è in alcun modo
dimostrata l’originaria legittimità del fabbricato
originario che le opere in esame (sub 1 e 2) hanno
sostituito o a cui sono accessorie e, pertanto, neppure è
apprezzabile un’esigenza di tutela della parte
“legittimamente edificata del fabbricato” così come invocata
dal ricorrente.
5.5. In terzo luogo, l’affermazione sul pregiudizio del
preesistente non è supportata da elementi tecnici atti a
dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui
l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico: il che
preclude l’ingresso all’accoglimento di tale profilo di
denuncia alla stregua del condiviso orientamento
giurisprudenziale secondo cui la sanzione pecuniaria va
disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia
“oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e,
quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze
materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo
complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo
aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”
(cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sezione quinta, sentenze
09.04.2013, n. 1912, 29.11.2012, n. 6071 e 05.09.2011, n. 4982).
5.6. In quarto luogo “la possibilità di non procedere alla
rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio
alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della
fase esecutiva, subordinata alla circostanza
dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi”
(cfr., ex multis, Tar Campania Napoli, questa sesta sezione,
24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012, n. 2291, 02.05.2012, n. 2006,
08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n.
16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sez. II, 13.04.2011,
n. 702)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va negato il fatto che che l’edificazione di un
muro esterno e di un parapetto accessorio a un balcone
aggettante siano privi di rilievo paesistico, trattandosi,
invece di opere che chiaramente alterano i prospetti e che
sono suscettibili di incidere sui valori paesistici
dell’area; la visibile alterazione del prospetto
dell’edificio, conseguente all’intervento in esame, infatti,
impone che il medesimo debba essere autorizzato mediante
permesso di costruire preceduto dall’autorizzazione
paesistica.
Ebbene, in ragione della mancanza del permesso di costruire
e della conseguente abusività dell’opera, l’applicazione
della sanzione demolitoria è doverosa ai sensi dell’art. 31
del D.P.R. 380/2001 (T.U. edilizia) in quanto, come disposto
dal successivo art. 32, co. 3, del medesimo T.U., qualunque
intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo
paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione
essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser
demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art.
32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1,
effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico,
artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed
ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in
aree protette nazionali e regionali, sono considerati in
totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti
degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui
medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
Va detto, peraltro, che il Comune, più correttamente,
avrebbe dovuto applicare l’art. 27 del medesimo testo unico
che sanziona tutte le opere abusivamente eseguite in zona
vincolata a prescindere dalla natura del titolo edilizio che
ne consentirebbe la costruzione.
In tal senso, come ripetutamente affermato dalla sezione, in
presenza di opere edificate senza titolo edilizio, e a
maggior ragione in zona vincolata, l’ordinanza di
demolizione, sia essa ai sensi dell’art. 31, di cui è stata
fatta applicazione nel provvedimento impugnato, che
dell’art. 27 D.P.R. 280/2001 (più correttamente applicabile
alla fattispecie in esame), è da ritenersi provvedimento
rigidamente vincolato.
2.1. I provvedimenti impugnati sono
relativi alla realizzazione:
1) di un fabbricato, ad uso abitativo, avente superficie di
circa mq. 50,17 e volume di ca. mq. 130,94, con annesso
terrazzo di superficie di mq. 39,59, in luogo del manufatto
indicato al primo punto dell'ingiunzione prot. 14205 del
2.10.02;
2) di ulteriore muratura in elevazione a delimitazione del
lato valle del manufatto indicato al punto 3 della citata
ingiunzione prot. 14205 dei 2.10.2002 e della creazione di
un parapetto in muratura a delimitazione dell'antistante
balcone aggettante.
3.1. Il ricorrente, con la prima censura, contesta che la
muratura e il parapetto possano essere interventi
sanzionabili con la demolizione (bensì con la sanzione
pecuniaria ai sensi dell’art. 37 D.P.R. 380/2001) in quanto,
avendo una natura meramente manutentiva, sarebbero
subordinati a una mera denuncia di inizio attività; neppure
sarebbe necessaria l’autorizzazione paesistica ai sensi
dell’art. 146 D.lgs. 42/2004 perché sarebbero interventi
tali da non alterare lo stato dei luoghi.
3.2. Il mezzo non ha pregio. Va, infatti, negato che
l’edificazione di un muro esterno e di un parapetto
accessorio a un balcone aggettante siano privi di rilievo
paesistico, trattandosi, invece di opere che chiaramente
alterano i prospetti e che sono suscettibili di incidere sui
valori paesistici dell’area; la visibile alterazione del
prospetto dell’edificio, conseguente all’intervento in
esame, infatti, impone che il medesimo debba essere
autorizzato mediante permesso di costruire preceduto
dall’autorizzazione paesistica (Consiglio di Stato sez. V,
23/07/2013, n. 3952; TAR Napoli sez. VI, 05/06/2013, n.
2912).
3.3. Ebbene, in ragione della mancanza del permesso di
costruire e della conseguente abusività dell’opera,
l’applicazione della sanzione demolitoria è doverosa ai
sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 (T.U. edilizia) in
quanto, come disposto dal successivo art. 32, co. 3, del
medesimo T.U., qualunque intervento effettuato su immobili
sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno
come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è
suscettibile di esser demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1,
T.U. ed. cit. (art. 32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di
cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo
storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico
ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in
aree protette nazionali e regionali, sono considerati in
totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti
degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui
medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
3.4. Va detto, peraltro, che il Comune, più correttamente,
avrebbe dovuto applicare l’art. 27 del medesimo testo unico
che sanziona tutte le opere abusivamente eseguite in zona
vincolata a prescindere dalla natura del titolo edilizio che
ne consentirebbe la costruzione.
3.5. In tal senso, come ripetutamente affermato dalla
sezione (cfr., da ultimo, sentenza 01.08.2013, n. 4037), in
presenza di opere edificate senza titolo edilizio, e a
maggior ragione in zona vincolata, l’ordinanza di
demolizione, sia essa ai sensi dell’art. 31, di cui è stata
fatta applicazione nel provvedimento impugnato, che
dell’art. 27 D.P.R. 280/2001 (più correttamente applicabile
alla fattispecie in esame), è da ritenersi provvedimento
rigidamente vincolato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'01.08.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA:
La proroga triennale dei piani attuativi prevista dall’art.
30, c. 3-bis, della legge 09.08.2013 n. 98 di conversione
del D.L. 21.06.2013 n. 69 c.d. “del fare” riguarda i
soli piani attuativi non ancora scaduti alla data di entrata
in vigore (21.08.2013) della legge.
Nell'ambito di un piano attuativo,
presupposto per il rilascio dei permessi a costruire è dato
dal fatto che lo stesso sia valido ed efficace.
---------------
La proroga triennale dei piani attuativi prevista dall’art.
30, c. 3-bis, della legge 09.08.2013 n. 98 di conversione
del D.L. 21.06.2013 n. 69 c.d. “del fare” riguarda i soli
piani attuativi non ancora scaduti alla data di entrata in
vigore (21.08.2013) della legge, con conseguente negazione
nel caso di specie di qualsiasi pretesa ultrattività dei
piani già irrimediabilmente decaduti a tal data.
Infatti, costituisce un principio pacifico che la proroga
dei termini di efficacia stabiliti da un atto
amministrativo, in generale, non è ammissibile qualora
l’atto la cui efficacia si intenda prolungare sia già
scaduto, richiedendosi cioè che il provvedimento da
prorogare sia ad "efficacia durevole", cioè che gli effetti
del provvedimento originario non siano definitivamente
esauriti, essendo altrimenti possibile la "rinnovazione" del
provvedimento originario, caratterizzata dalla necessaria
ripetizione di tutte le fasi procedimentali e dalla completa
rivalutazione di tutte le circostanze di fatto e di diritto
rilevanti, attuata mediante un'adeguata ponderazione dei
diversi interessi pubblici e privati coinvolti.
Tali considerazioni ermeneutiche, di valenza generale,
risultano a volte espressamente codificate anche dal
legislatore, ad esempio quanto alla proroga dei termini di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità o
nell’ultimo capoverso del comma 5 dell’art. 13 del d.p.r. n.
327/2001 il quale richiede coerentemente la necessità, ai
fini della proroga, della perdurante efficacia del termine.
Prive di pregio sono anche le doglianze di cui al III
motivo.
Presupposto per il rilascio dei permessi a costruire
richiesti dalla società ricorrente è dato dall’esistenza di
un piano attuativo valido ed efficace.
Il piano attuativo approvato il 16.10.2002 risulta decaduto
per decorso del termine di efficacia decennale il
16.10.2012, termine che non può certo dirsi sospeso o
interrotto per effetto del solo avvio dell’istruttoria e del
conseguimento dei pareri favorevoli della Commissione
edilizia e della locale Soprintendenza, o tantomeno per la
scelta effettuata dalla ricorrente di procastinare
l’attuazione degli interventi all’ottenimento del contributo
post sisma.
Non merita condivisione neppure la doglianza di mancata
applicazione dell’art. 30, c. 3-bis, della legge 09.08.2013
n. 98 di conversione del D.L. 21.06.2013 n. 69 “Disposizioni
urgenti per il rilancio dell'economia” c.d. “del fare”
a norma del quale “Il termine di validità nonché i
termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle
convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della
legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari
comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati
sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre anni.”
Sostiene la difesa della ricorrente che non operandosi
secondo la “littera legis” alcuna distinzione tra
piani validi e piani scaduti, la sopra citata norma dovrebbe
dirsi applicabile anche ai piani scaduti -diversi dai piani
di lottizzazione ma comunque assimilabili- e non ancora
sostituiti da nuove disposizioni di attuazione del P.R.G.,
con conseguente ultrattività del piano attuativo.
Ritiene invece il Collegio l’inapplicabilità della norma al
caso di specie, sotto un duplice profilo.
Anzitutto, perché secondo il quieto principio “tempus
regit actum”, al momento dell’emanazione degli impugnati
provvedimenti di archiviazione del 25.07.2013, il citato
art. 30, c. 3-bis, non era ancora vigente; in secondo luogo,
per l’inapplicabilità della disposta proroga triennale ai
piani attuativi come quello di specie già scaduti.
Infatti, costituisce un principio pacifico (ex multis
Consiglio di Stato sez V 18.09.2008, n. 4498; TAR
Puglia-Bari sez. III, 29.09.2011, n. 1413) che la proroga
dei termini di efficacia stabiliti da un atto
amministrativo, in generale, non è ammissibile qualora
l’atto la cui efficacia si intenda prolungare sia già
scaduto, richiedendosi cioè che il provvedimento da
prorogare sia ad "efficacia durevole", cioè che gli
effetti del provvedimento originario non siano
definitivamente esauriti, essendo altrimenti possibile la "rinnovazione"
del provvedimento originario, caratterizzata dalla
necessaria ripetizione di tutte le fasi procedimentali e
dalla completa rivalutazione di tutte le circostanze di
fatto e di diritto rilevanti, attuata mediante un'adeguata
ponderazione dei diversi interessi pubblici e privati
coinvolti.
Tali considerazioni ermeneutiche, di valenza generale,
risultano a volte espressamente codificate anche dal
legislatore, ad esempio quanto alla proroga dei termini di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (in questo
senso con riferimento ai termini di cui all'art. 13, l.
25.06.1865 n. 2359, Consiglio Stato, sez. IV, 22.12.2003, n.
8462, id. sez IV, 22.05.2006 n. 302) o nell’ultimo capoverso
del comma 5 dell’art. 13 del d.p.r. n. 327/2001 il quale
richiede coerentemente la necessità, ai fini della proroga,
della perdurante efficacia del termine.
Tanto premesso, la proroga triennale dei piani attuativi
prevista dall’art. 30, c. 3-bis, della legge 09.08.2013 n.
98 di conversione del D.L. 21.06.2013 n. 69 c.d. “del
fare” riguarda i soli piani attuativi non ancora scaduti
alla data di entrata in vigore (21.08.2013) della legge, con
conseguente negazione nel caso di specie di qualsiasi
pretesa ultrattività dei piani già irrimediabilmente
decaduti a tal data
(TAR Umbria,
sentenza 10.07.2014 n. 381 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sono
incarichi di consulenza quelli volti ad acquisire da
un soggetto esperto un giudizio su una determinata
questione, sono incarichi di studio quelli volti a
ricercare soluzioni su questioni inerenti alla attività di
competenza della amministrazione conferente e sono
incarichi di ricerca (in base ad un programma definito
dalla amministrazione) quelli volti ad individuare norme o
documenti e/o a ricostruire eventi o situazioni.
Tali incarichi sono tutti riconducibili al più ampio
contesto degli incarichi di collaborazione esterna.
---------------
In merito alla possibilità di affidare incarichi di
consulenza, studio e ricerca nell’anno
2014, in assenza di spesa a tale titolo nell’anno 2009, il
limite per gli incarichi di studio e
consulenza (sono esclusi gli incarichi di ricerca
per le ragioni già espresse) deve essere individuato non
nella misura di una percentuale della spesa sostenuta a tale
titolo nel 2009 (disposizione applicabile solo in via
indiretta), circostanza questa che rende irrilevante la
presenza o l’assenza di spese sostenute a tale titolo nel
2009, ma in rapporto alla spesa complessivamente sostenuta
nel 2009 per le varie voci previste dalla norma indicata
(es. acquisto autovetture, missioni, ecc.), con le riduzioni
da apportare sempre in termini complessivi.
A tale limite complessivo, come già indicato, si aggiunge
quello previsto dall’art. 14 del D.L. 66/2014 rapportato
alle spese di personale (applicabile anche agli incarichi
di ricerca).
Per il conferimento degli incarichi in argomento (ivi
compresi gli incarichi di ricerca) rimane ferma,
inoltre, la necessità della sussistenza dei numerosi
presupposti richiesti dalla vigente normativa (es. art. 7
del D.Lgs. 165/2011) e del rispetto dei vari adempimenti
previsti.
---------------
Con la nota indicata, il Sindaco del Comune di
Bitonto (BA), dopo aver richiamato l’art. 6, co. 7, del D.L.
78/2010, l’art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013 e l’art. 14, co.
1, del D.L. 66/2014, ha chiesto il parere di questa
Sezione in merito alla possibilità di affidare incarichi di
consulenza, studio e ricerca nell’anno 2014, in assenza di
spesa a tale titolo nell’anno 2009, ferma restando la
necessità della sussistenza di tutti gli altri presupposti
richiesti dalla vigente normativa in materia.
...
Il quesito posto dalla amministrazione richiedente riguarda
essenzialmente la possibilità, per un ente locale, di
affidare incarichi di consulenza, studio e
ricerca nell’anno 2014 se il medesimo ente non ha
sostenuto alcuna spesa a tale titolo nell’anno 2009.
Negli ultimi anni il legislatore si è occupato più volte e
per vari aspetti della possibilità, per gli enti locali, di
affidare incarichi di consulenza, studio e
ricerca. Le varie norme che si sono susseguite nel
tempo, fondamentalmente, hanno riguardato sia i limiti di
spesa che i presupposti necessari per il conferimento di
tali incarichi. Non sempre le norme in argomento hanno
riguardato testualmente tutte le tre diverse tipologie di
incarico elencate, infatti, in molti casi, come di seguito
riportato, il legislatore ha formulato disposizioni solo
sugli incarichi di studio e sulle consulenze
senza occuparsi, quindi, degli incarichi di ricerca.
I vari interventi legislativi che si sono susseguiti nel
corso degli ultimi anni sono stati tutti caratterizzati
dalla evidente volontà di arginare il conferimento di tali
incarichi, non solo in attuazione di una generale politica
di contenimento della spesa pubblica, ma anche per evitare
(o almeno ridurre) un fenomeno che ha spesso originato una
spesa inutile ed aggiuntiva rispetto a quella che gli enti
interessati avrebbero potuto e dovuto sostenere mediante un
adeguato ed efficiente utilizzo del proprio personale.
In varie occasioni, peraltro, gli enti hanno fatto ricorso a
tali incarichi sostanzialmente per aggirare la normativa in
materia di assunzioni o, comunque, per celare rapporti di
vero e proprio lavoro subordinato. Per la realizzazione di
tali obiettivi, il legislatore ha operato su più piani
prevedendo, per il conferimento degli incarichi in
argomento, rigidi limiti di spesa, precisi presupposti, una
elevata procedimentalizzazione, varie forme di controllo e
pubblicità e un articolato e severo apparato sanzionatorio.
Prima di procedere alla soluzione del quesito proposto,
risulta necessario definire il contenuto di tali
incarichi, tutti riconducibili al più ampio contesto degli
incarichi di collaborazione esterna.
Anche alla luce delle indicazioni offerte dalla Corte dei
conti, Sezioni riunite in sede di controllo, con la
deliberazione 15.02.2005 n. 6,
può ritenersi che sono incarichi di
consulenza quelli volti ad acquisire da un soggetto
esperto un giudizio su una determinata questione, sono
incarichi di studio quelli volti a ricercare soluzioni
su questioni inerenti alla attività di competenza della
amministrazione conferente (in tal senso anche il D.P.R.
338/1994) e sono incarichi di ricerca (in base ad un
programma definito dalla amministrazione) quelli volti ad
individuare norme o documenti e/o a ricostruire eventi o
situazioni.
La Corte dei conti, sia a livello centrale che a livello
regionale, sia in sede di controllo che in sede
giurisdizionale, con numerose deliberazioni e sentenze, ha
dedicato particolare attenzione agli incarichi di studio,
ricerca e consulenza in virtù degli evidenti e rilevanti
riflessi sulla spesa pubblica degli stessi. Pur essendo
state approvate in un quadro normativo diverso da quello
attuale, rivestono tuttora una particolare utilità per una
adeguata conoscenza della fattispecie in esame la già
richiamata
deliberazione 15.02.2005 n. 6 delle Sezioni
riunite in sede di controllo (con la quale sono state
approvate le linee di indirizzo e i criteri interpretativi
sulle disposizioni della legge 311/2004 in materia di
affidamento di incarichi di studio, ricerca o
consulenza) e la
deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008
della Sezione delle Autonomie (con la quale sono state
approvate le linee di indirizzo e i criteri interpretativi
dell’art. 3, co. 54-57, della legge 244/2007 in materia di
regolamenti degli enti locali per l’affidamento di
incarichi di collaborazione, studio, ricerca
e consulenza).
Ciò premesso, al fine di dare risposta al
quesito proposto, appare necessario procedere alla
individuazione della vigente normativa in materia di limiti
di spesa per l’affidamento di incarichi di studio,
ricerca e consulenza, con particolare riferimento
ai limiti posti dalla legge in rapporto alla spesa
sostenuta, a tale titolo, nell’anno 2009.
L’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010, con l’espresso fine di
valorizzare le professionalità interne, seguendo una linea
ormai consolidata (es. art. 1, co. 11, legge 311/2004),
anche per i Comuni, prevede che, a
decorrere dall’anno 2011, la spesa annua per studi ed
incarichi di consulenza (anche conferiti a dipendenti
pubblici) non può essere superiore al 20% di quella
sostenuta nell’anno 2009. Con riferimento a tale norma, la
Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, con
deliberazione n. 7/CONTR/2011, ha chiarito che il concetto
di “spesa sostenuta nell’anno 2009” deve riferirsi
alla spesa programmata per la suddetta annualità e che le
spese alimentate con risorse provenienti da enti pubblici o
privati estranei all’ente devono essere escluse dal computo.
Successivamente, con sentenza n. 139/2012, nel dichiarare
non fondate le questioni di legittimità costituzionale
sollevate in relazione all’art. 6 del D.L. 78/2010 (e,
quindi, anche della norma in argomento), la Corte
costituzionale ha affermato che i tagli disposti dal
legislatore non operano per gli enti locali in via diretta,
ma solo come disposizioni di principio.
Quindi, una volta determinato il volume complessivo delle
riduzioni da effettuare (tra le spese da ridurre ai sensi
del citato art. 6 figurano anche quelle per relazioni
pubbliche, convegni, mostre, pubblicità, rappresentanza,
sponsorizzazioni, missioni, formazione e acquisto,
manutenzione, noleggio ed esercizio di autovetture), ogni
ente ha la possibilità di decidere su quali voci
effettuarle, senza sottostare ai vincoli specifici stabiliti
dal menzionato art. 6.
La normativa descritta successivamente è
stata implicitamente modificata. L’art. 1, co. 5, del D.L.
101/2013, infatti, anche per gli enti locali, ha stabilito
che la spesa annua per studi ed incarichi di
consulenza (anche conferiti a dipendenti pubblici) non
può essere superiore, per l’anno 2014, all’80% del limite di
spesa per l’anno 2013 e, per l’anno 2015, al 75% dell’anno
2014, così come determinati dalla applicazione dell’art. 6,
co. 7, del D.L. 78/2010 sopra riportato. In sostanza, il
legislatore ha ulteriormente ridotto il limite di spesa
precedentemente previsto dal citato art. 6, co. 7: in
rapporto alla spesa sostenuta nell’anno 2009, infatti, il
nuovo limite è pari al 16% (80% del 20%) per l’anno 2014 e
al 15% (75% del 20%) per l’anno 2015.
Appare doveroso evidenziare sin d’ora che anche all’art. 1,
co. 5, del D.L. 101/2013 occorre dare una lettura conforme a
quanto espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza
n. 139/2012. Pertanto, anche tale taglio disposto dal
legislatore non opera per gli enti locali in via diretta, ma
solo come disposizione di principio. Quindi, ancora una
volta, determinato il volume complessivo delle riduzioni da
effettuare, ogni ente ha la possibilità di decidere su quali
voci effettuarle, senza sottostare a vincoli specifici. La
necessità di leggere l’art. 1, co. 5, del D.L. 101/2013 alla
luce della sentenza della Corte costituzionale n. 139/2012
deriva non solo dalla evidente omogeneità esistente tra le
due norme, ma anche dall’espresso rinvio operato dallo
stesso art. 1, nel quantificare il limite di spesa,
all’applicazione dell’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010.
Una nuova modifica alla disciplina relativa
al conferimento degli incarichi in esame è stata disposta
dall’art. 14 del D.L. 66/2014 (in attesa di conversione in
legge) il quale ha previsto, anche per gli enti locali,
confermando espressamente i limiti derivanti dalle vigenti
disposizioni e, in particolare, le disposizioni prima
riportate (art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010 e art. 1, co. 5,
del D.L. 101/2013), a decorrere dall’anno
2014, un ulteriore limite di spesa rapportato non più alla
spesa precedentemente sostenuta per la medesima ragione ma
alla spesa per il personale dell’ente che conferisce
l’incarico (1,4% se la spesa del personale è superiore a 5
milioni di euro, 4,2% se la spesa è pari o inferiore).
In pratica, consolidando l’orientamento restrittivo seguito
costantemente negli ultimi anni, il legislatore ha ritenuto
di limitare, sempre sotto il profilo della spesa ma in modo
diverso dal passato, la possibilità di conferire
incarichi di consulenza, studio e ricerca:
ai limiti basati sulla spesa storica si affiancano quelli
derivanti dal rapporto delle relative spese con le spese del
personale. Tale ultimo limite di spesa risulta non
interessato dalla sentenza della Corte costituzionale n.
139/2012 e può considerarsi aggiuntivo e non sostitutivo
rispetto a quelli precedentemente stabiliti.
Appare necessario evidenziare che mentre
l’art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010 e l’art. 1, co. 5, del
D.L. 101/2013 riguardano “la spesa annua per studi
ed incarichi di consulenza” (senza comprendere,
quindi, gli incarichi di ricerca), l’art. 14 del D.L.
66/2014 limita gli “incarichi di consulenza,
studio e ricerca”. Si tratta di una
osservazione non irrilevante: nel caso in cui l’incarico non
sia sussumibile nelle due categorie degli incarichi per
studi e consulenza (ad esempio perché riconducibile
nell’ambito degli incarichi di ricerca) non si applicano i
limiti previsti in materia dal D.L. 78/2010 e dal D.L.
101/2013.
Appare infatti preferibile, anche in virtù del rigoroso
apparato sanzionatorio previsto dalle due norme citate, la
valorizzazione di una interpretazione letterale (Sez.
Lombardia
parere 07.02.2011 n. 68).
Tale conclusione risulta confermata da un altro aspetto:
laddove il legislatore ha voluto porre dei freni anche agli
incarichi di ricerca lo ha espressamente previsto.
Indicativo in tal senso è il secondo periodo del comma 9
dell’art. 1 del D.L. 168/2004 (non più vigente in quanto
abrogato dall’art. 46 del D.L. 112/2008) il quale,
contrariamente al primo periodo (formalmente non abrogato)
che prevedeva un taglio lineare di spesa nei confronti dei
soli incarichi di studio e consulenza, stabiliva precisi
presupposti per “l’affidamento
di incarichi di studio o di ricerca ovvero di
consulenza”.
Analoga conclusione si ricava dall’art. 1, co. 11, della
legge 311/2004. Ciò conduce a ritenere che il limite di
spesa recentemente stabilito dal D.L. 66/2014, di contenuto
diverso dai precedenti in quanto rapportato non alle spese
precedentemente sostenute al medesimo titolo ma alla spesa
per il personale, si aggiunge (non si sostituisce) a quelli
già precedentemente previsti dal D.L. 78/2010 e dal D.L.
101/2013 solo per gli incarichi di studio e di
consulenza in quanto, per gli incarichi di ricerca
(ai quali i limiti previsti dal D.L. 66/2014 certamente si
applicano), i limiti indicati non si applicavano e non si
applicano.
In base, quindi, alla ricostruzione normativa effettuata,
con particolare riferimento agli enti che (come il Comune
richiedente) non hanno sostenuto alcuna spesa nell’anno 2009
per incarichi di studio, ricerca e/o
consulenza, i dubbi interpretativi, eventualmente, si
pongono per gli incarichi di studio e di
consulenza e non per gli incarichi di ricerca i
quali non erano disciplinati dall’art. 6, co. 7, del D.L.
78/2010 e per i quali non valgono i relativi limiti di
spesa.
La questione relativa alla individuazione dei limiti di
spesa per il conferimento di incarichi di consulenza
e di studio nei confronti degli enti che non hanno
sostenuto a tale titolo spese nell’anno 2009 è stata già
affrontata dalla Corte dei conti in sede consultiva (Sez.
Lombardia,
parere 29.04.2011 n. 227). In tale occasione è
stato osservato che la ratio sottesa
alla legge statale in esame è quella di rendere operante, a
regime, una riduzione della spesa per gli incarichi di
consulenza e di studio e non di vietare agli enti
locali la possibilità di conferire incarichi esterni quando
ne ricorrono i presupposti di legge.
In questo senso, infatti, verrebbe disattesa la finalità
perseguita dal legislatore per quegli enti locali che, nel
corso dell’anno 2009, non hanno sostenuto alcuna spesa a
titolo di incarichi per studi e consulenze;
infatti, se si adottasse una interpretazione letterale, si
finirebbe per ritenere che la norma de qua fissa per
essi un divieto assoluto alla stipula di questa tipologia di
contratti. In base a tale considerazione, la Sez. Lombardia,
con la deliberazione menzionata, è giunta alla conclusione
che la norma de qua, per gli enti
locali che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto
alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e
consulenze, va applicata individuando un diverso
parametro di riferimento.
D’altra parte, se non si adottasse questa interpretazione,
la riduzione lineare prevista finirebbe per premiare gli
enti meno virtuosi che, nel corso dell’anno 2009, hanno
sostenuto una spesa per consulenze eventualmente rilevante;
al contrario, si tradurrebbe in un divieto assoluto per gli
enti più virtuosi che, quello stesso anno, hanno sostenuto
una spesa pari a zero. Non essendoci un
parametro finanziario precostituito (in quanto la spesa per
l’anno 2009 è stata pari a zero), il limite individuato
dalla Sez. Lombardia è stato quello della spesa strettamente
necessaria nell’anno in cui si verifica l’assoluta necessità
di conferire un incarico di consulenza o di studio
(limite di spesa che, a sua volta, sarebbe il parametro
finanziario per gli anni successivi).
La soluzione prospettata nel
parere 29.04.2011 n. 227
della Sez. Lombardia (che poteva essere sostenuta anche in
base all’art. 3, co. 56, della legge 244/2007, come
modificato dall’art. 46 del D.L. 112/2008, secondo il quale
“il limite massimo della spesa annua per incarichi di
collaborazione è fissato nel bilancio preventivo degli
enti territoriali”), come già sostenuto da questa
Sezione in occasione dell’esame di un rendiconto
(deliberazione n. 15/PRSP/2014), deve essere rivista alla
luce della successiva sentenza della Corte costituzionale n.
139/2012. Con quest’ultima sentenza, nel dichiarare non
fondate le questioni di legittimità costituzionale
prospettate in relazione anche al comma 7 dell’art. 6 del
D.L. 78/2010, è stato ribadito che il legislatore statale
può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle
politiche di bilancio ma che questi vincoli possono
considerarsi rispettosi della autonomia delle Regioni e
degli enti locali solo quando stabiliscono un limite
complessivo che lascia agli enti stessi ampia libertà di
allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi
di spesa.
In altre parole, con riferimento agli enti
locali, l’art. 6 in argomento prevede un limite complessivo
nell’ambito del quale gli enti interessati restano liberi di
allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di
spesa. Una volta, quindi, determinato il volume complessivo
delle riduzioni da apportare in base all’art. 6 citato, ogni
ente ha la possibilità di decidere su quali voci effettuare
le riduzioni, senza sottostare ai vincoli specifici
previsti. E’ possibile, in sostanza, non rispettare un
vincolo specifico ma tale sforamento dovrà essere compensato
da una corrispondente maggiore riduzione della spesa
rispetto ad un altro vincolo specifico previsto.
La Corte dei conti ha tenuto conto immediatamente
dell’orientamento espresso in materia da parte della Corte
costituzionale (Sezione delle Autonomie, deliberazione n.
10/2012). A tale orientamento, come già riferito, non poteva
non adeguarsi anche questa Sezione che ha pure avuto modo di
evidenziare che “l’assenza di spese per consulenze
nell’esercizio 2009, in considerazione della necessità di
individuare un obiettivo complessivo di risparmio secondo le
indicazioni ermeneutiche contenute nella sentenza n.
139/2012 cit., non giustifica l’individuazione di un “nuovo”
tetto di spesa” (deliberazione n. 14/PRSP/2014). La
distribuzione degli interventi riduttivi tra le singole voci
previste dalla norma, tuttavia, non comporta la libera ed
incondizionata derogabilità delle misure di contenimento,
trattandosi pur sempre di norma assistita da sanzioni
specifiche in caso di inosservanza (Sez. Veneto, n.
189/2013/PAR).
In considerazione, quindi, della lettura data all’art. 6 del
D.L. 78/2010 dalla Corte costituzionale dalla quale questa
Sezione non ha motivo di discostarsi, lettura che deve
essere estesa anche all’analogo art. 1, co. 5, del D.L.
101/2013, sia per non incorrere in interpretazioni
censurabili sul piano della legittimità costituzionale, sia
per l’espresso rinvio disposto dal legislatore all’art. 6,
co. 7, del D.L. 78/2010, il limite per gli
incarichi di studio e consulenza (sono
esclusi gli incarichi di ricerca per le ragioni già
espresse) deve essere individuato non nella misura di una
percentuale della spesa sostenuta a tale titolo nel 2009
(disposizione applicabile solo in via indiretta),
circostanza questa che rende irrilevante la presenza o
l’assenza di spese sostenute a tale titolo nel 2009, ma in
rapporto alla spesa complessivamente sostenuta nel 2009 per
le varie voci previste dalla norma indicata (es. acquisto
autovetture, missioni, ecc.), con le riduzioni da apportare
sempre in termini complessivi.
A tale limite complessivo, come già indicato, si aggiunge
quello previsto dall’art. 14 del D.L. 66/2014 rapportato
alle spese di personale (applicabile anche agli incarichi
di ricerca).
Per il conferimento degli incarichi in argomento (ivi
compresi gli incarichi di ricerca) rimane ferma,
inoltre, la necessità della sussistenza dei numerosi
presupposti richiesti dalla vigente normativa (es. art. 7
del D.Lgs. 165/2011) e del rispetto dei vari adempimenti
previsti (es.
obblighi di pubblicazione) (Corte dei Conti, Sez. controllo
Puglia,
parere 07.07.2014 n. 131). |
UTILITA' |
URBANISTICA:
Consultazione pubblica on-line del disegno di
legge: Principi in materia di politiche pubbliche
territoriali e trasformazione urbana.
Il giorno 24.07.2014 il Ministro Lupi ha presentato alle
Amministrazioni e ai principali stakeholders il
testo del disegno di legge "Principi
in materia di politiche pubbliche territoriali e
trasformazione urbana".
La proposta è il risultato del lavoro coordinato dalla
Segreteria tecnica del Ministro Lupi e svolto da un gruppo
di esperti esterni, nominati dal Ministro, di diritto,
urbanistica, politiche territoriali e fiscalità immobiliare.
Obiettivo del provvedimento è quello di predisporre un
quadro normativo unitario in grado di rinnovare le norme
urbanistiche di valenza nazionale, risalenti al 1942.
La bozza di ddl si compone di 20 articoli, non ha carattere
meramente procedurale, ma intende integrare procedure e
politiche pubbliche territoriali. Inoltre, una seconda
finalità è quella di fornire una strumentazione aggiornata
per il coordinamento delle politiche settoriali che incidono
sugli usi e le trasformazioni del territorio.
Partendo dalle nuove finalità di un'urbanistica del rinnovo
e non più dell'espansione della città, il disegno di legge
ha lo scopo di fornire alla ricchissima esperienza
legislativa regionale un quadro omogeneo di norme di
principio sui temi della proprietà immobiliare, sia
pubblico/collettiva che privata, dell'uso razionale della
risorsa suolo, della qualificazione del servizio di edilizia
residenziale sociale e degli strumenti più idonei alla sua
promozione.
Fuori da ogni logica competitiva -o peggio conflittuale- fra
i diversi livelli di governo, la legge nazionale è concepita
come strumento a disposizione degli enti territoriali per
cogliere meglio le opportunità offerte dalle strategie
europee in materia di sviluppo urbano e territoriale.
La bozza del testo è oggetto di consultazione pubblica
on-line, che resterà aperta fino al 15 settembre per la
raccolta di proposte e spunti critici.
Tali contributi, in forma mirata come emendamento al testo,
o sotto forma di riflessioni sulla materia, potranno essere
inviate al seguente indirizzo e-mail:
lecittavivibili@mit.gov.it utilizzando possibilmente
la scheda allegata.
Il provvedimento arricchito dai vostri contributi nel mese
di settembre sarà presentato al Consiglio dei Ministri è
inizierà il suo iter formale (24.07.2014 - tratto da
e link a www.mit.gov.it). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
ENTE PROVINCIA – chiarezza sui conti e sui tagli
per evitare il caos
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 25.07.2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Utilizzo piscine come riserva idrica
antincendio. Riscontro
(Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco,
del Soccorso Pubblico ed ella Difesa Civile,
nota 14.07.2014 n. 9102 di prot.).
---------------
Reti idriche e alimentazione attraverso
piscine.
I Vigili del Fuoco con nota del 14.07.2014 n. 9102
chiariscono che la norma UNI 10779 "Impianti di
estinzione incendi - Reti di idranti - Progettazione,
installazione ed esercizi" non prevede l'utilizzo
dell'acqua di una piscina natatoria per uso antincendio.
Secondo il Dipartimento, l'organo competente dell'UNI ha
confermato che la norma UNI 10779 non prevede l'utilizzo
dell'acqua di una piscina natatoria per uso antincendio;
ogni eventuale utilizzo dovrà avvenire in conformità ai
requisiti tecnici e legislativi di sicurezza ed
affidabilità.
Il dubbio era sorto da un quesito in cui si chiedeva se era
consentito alimentare le reti idriche antincendio con
l'acqua presente nelle piscine, una soluzione auspicata dai
titolari delle attività turistico-ricettive per abbattere i
costi dell'impianto antincendio. Nel punto 5.2.3. si
stabilisce come "Le reti idranti devono avere
alimentazioni idriche adibite a loro esclusivo servizio, con
eccezione per gli acquedotti e le riserve virtualmente
inesauribili".
Secondo la Direzione VVF dell'Umbria, investita del quesito
per "esclusivo servizio" della riserva idrica si
intende che non siano presenti altre utenze che, emungendo
acqua dalla riserva idrica, potrebbero rendere non
efficiente la rete antincendio.
La Direzione regionale riteneva pertanto, che fosse
praticabile l'ipotesi dell'alimentazione di una rete idrica
antincendio con l'acqua contenuta in una piscina a servizio
dell'attività nella quale deve essere installata la rete
idrica (commento
tratto da www.insic.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 30.07.2014 n. 175 "Testo
del decreto-legge 31.05.2014, n. 83 coordinato con la legge
di conversione 29.07.2014, n. 106, recante:
“Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio
culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del
turismo".
---------------
Di particolare interesse si leggano:
►
Art. 4 -
Disposizioni urgenti per la tutela del decoro dei siti
culturali
►
Art. 12
- Misure urgenti per la semplificazione, la trasparenza,
l’imparzialità e il buon andamento dei procedimenti in
materia di beni culturali e paesaggistici
---------------
Per una
migliore leggibilità del testo integrale e, soprattutto,
della ratio degli articoli di legge sopra evidenziati si
legga anche il "Dossier
n. 182/2 - Elementi per l'esame in Assemblea - 03.07.2014". |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2014, "Quarto
aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 25.07.2014 n. 7177). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 29.07.2014,
"Approvazione iniziativa anno 2014 per l’accesso ai
contributi in conto capitale a fondo perduto per la
riqualificazione degli impianti sportivi di proprietà
pubblica" (decreto
D.S. 24.07.2014 n. 7145). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
29.07.2014 n. 174 "Regola tecnica di prevenzione incendi
per la progettazione, costruzione ed esercizio degli asili
nido" (Ministero dell'Interno,
decreto 16.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
28.07.2014 n. 173 "Regola tecnica di prevenzione incendi
per la progettazione, la costruzione e l’esercizio degli
interporti, con superficie superiore a 20.000 m², e alle
relative attività affidatarie" (decreto
interministeriale 18.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
28.07.2014 n. 173 "Regola tecnica di prevenzione incendi
per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle
attività di aerostazioni con superficie coperta accessibile
al pubblico superiore a 5.000 m²" (Ministero
dell'Interno,
decreto 17.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 24.07.2014 n. 170 "Comunicato relativo al decreto
legislativo 04.07.2014, n. 102, recante: «Attuazione della
direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica, che
modifica le direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le
direttive 2004/8/CE e 2006/32/CE» - (Decreto legislativo
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – serie generale - n.
165 del 18.07.2014)" (avviso
di rettifica). |
ENTI LOCALI:
G.U. 23.07.2014 n. 169 "Ulteriore differimento al
30.09.2014 del termine per la deliberazione del bilancio di
previsione 2014 degli enti locali" (Ministero
dell'Interno,
decreto 18.07.2014). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 30 del 23.07.2014, "Parco
regionale Adda Nord - Trezzo sull’Adda (MI) - approvazione
Statuto" (deliberazione
G.R. 11.07.2014 n. 2125). |
APPALTI: G.U.
21.07.2014 n. 167 "Saggio degli interessi da applicare a
favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle
transazioni commerciali" (Ministero dell'Economia e
delle Finanze,
comunicato).
---------------
Interessi di mora: tasso all’8,15%.
E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il comunicato del
MEF relativo al saggio degli interessi legali moratori da
applicare in favore dei creditori nel caso di ritardo dei
pagamenti nelle transazioni commerciali.
Ai sensi dell’art. 5, D.Lgs. n. 231/2002, “per il periodo
1° luglio-31.12.2014 il tasso di riferimento per il calcolo
degli interessi moratori sui ritardati pagamenti da parte
della PA è pari allo 0,15 per cento”.
Al fine di dare pieno recepimento alla direttiva n.
2011/7/UE, il D.Lgs. n. 192/2012 ha modificato il D.Lgs. n.
231/2002, in materia di lotta ai ritardi nei pagamenti nelle
transazioni commerciali.
In conseguenza del recepimento dei dettami comunitari, per
tutte le transazioni in essere dal 01.01.2013 la PA è tenuta
pagare i fornitori nel termine di 30 giorni dal ricevimento
della fattura da parte dell’ente debitore ovvero, quando non
risulti certa la data di arrivo della fattura, dalla
consegna della merce o dalla data di prestazione dei
servizi.
Le uniche deroghe previste (termine esteso a 60 giorni)
riguardano le imprese pubbliche e gli enti (quali ASL e
strutture ospedaliere) che forniscono assistenza sanitaria.
Per le altre amministrazioni pubbliche, invece, la proroga è
possibile esclusivamente se giustificata “dalla natura o
dall’oggetto del contratto”.
In caso di mancato rispetto dei termini, scatta in
automatico -e senza necessità di messa in mora- il computo
degli interessi legali moratori, i quali sono calcolati
aggiungendo 8 punti percentuali al tasso fissato dalla BCE
per le operazioni di rifinanziamento.
Nelle transazioni commerciali tra imprese, si ricorda, è
consentito alle parti concordare un tasso di interesse
diverso, nei limiti previsti dall’art. 7, D.Lgs. n.
231/2002.
Conseguentemente, gli interessi legali moratori complessivi,
al ricorrere dei presupposti individuati nel D.Lgs. n. 231
sono determinati in misura pari all’8,15% (commento tratto
da www.ipsoa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Lombardia, Linee guida "Uso delle piattaforme di lavoro
elevabili" (cantieri temporanei e mobili) (Regione
Lombardia, Direzione Generale Salute,
decreto 08.07.2014 n. 6551). |
A.N.AC. - AUTORITA'
NAZIONALE ANTICORRUZIONE (già A.V.C.P.) |
APPALTI:
Codice Identificativo di Gara (CIG) - L’Autorità Nazionale
Anticorruzione rilascerà il CIG ai comuni non capoluogo di
provincia.
Nelle more della conversione in legge del decreto legge n.
90/2014, che prevede il rinvio dei termini dell’entrata in
vigore delle disposizioni introdotte dall’art. 9 comma 4,
del decreto legge 24.04.2014, convertito con modificazioni
dalla legge 23.06.2014, n. 89, si comunica che l’Autorità
Nazionale Anticorruzione, rilascerà il Codice Identificativo
di Gara (CIG) ai comuni non capoluogo di provincia (30.07.2014
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: L.
Oliveri,
Appalti: l’illusione delle centrali-bacchetta magica -
Troppo spesso la stampa si ferma a dare per buone le veline
ministeriali, forse anche nella convinzione in buona fede
che esse riportino notizie o indicazioni corrette e complete
(31.07.2014 - link a www.leggioggi.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L. Oliveri,
Nomine dei dirigenti a contratto, a tirare troppo la corda
pericolo abuso d’ufficio? - Le assunzioni a dirigente di
funzionari interni possono costare l’iscrizione nel registro
degli indagati per abuso d’ufficio, al dirigente che le
attiva (22.07.2014 - link a www.leggioggi.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
C. Sabbatini,
Il ruolo del sindaco nella gestione dei rifiuti (nota a
Cass. pen. n. 37544/2013)
(Ambiente & Sviluppo n. 5/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Muratori,
Scarico di acque meteoriche di dilavamento: non più
equiparabile a quello dei reflui industriali (nota a Cass.
pen. n. 2867/2014)
(Ambiente & Sviluppo n. 3/2014). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Dipendenti neoassunti e ferie.
L'ARAN ha chiarito che il periodo di
servizio di tre anni, di cui all'art. 18, comma 4, del CCNL
del 07.07.1995, deve intendersi esclusivamente quale
servizio di ruolo a tempo indeterminato, non rilevando
precedenti rapporti di lavoro a tempo determinato.
Il Comune ha chiesto se, ai fini del conteggio dei tre anni
di servizio previsti dall'art. 18, comma 4, del CCNL del
07.07.1995, debbano essere considerati esclusivamente i
periodi di servizio in ruolo, oppure se possano essere
sommati anche precedenti periodi di assunzione a tempo
determinato.
La citata norma contrattuale [1]
dispone che, ai neo assunti nella pubblica amministrazione,
spettino i giorni di ferie previsti nel comma 2 (32 giorni
lavorativi), 'dopo tre anni di servizio'.
Preliminarmente, si osserva che l'art. 22 del CCRL del
07.12.2006 ha aumentato il numero delle giornate di ferie
spettanti al personale degli enti locali del comparto unico,
con decorrenza 01.01.2006 e 01.01.2007.
A prescindere, comunque, dal numero delle giornate di ferie,
la questione, non trovando soluzione nel contesto
contrattuale, va esaminata sulla scorta degli orientamenti
espressi in materia dall'ARAN, considerato che, nella
particolare fattispecie, la disciplina contrattuale
nazionale di riferimento non è stata modificata dalla
contrattazione collettiva regionale.
A tal proposito, si evidenzia che la predetta Agenzia ha
affermato, ai fini della determinazione del numero dei
giorni di ferie, l'interpretazione secondo cui il termine 'neo
assunto' deve essere riferito al lavoratore che non
abbia avuto precedenti rapporti di lavoro a tempo
indeterminato.
Non hanno, pertanto, alcuna influenza, ai fini della
disciplina in questione, i rapporti a termine,
precedentemente costituiti, anche con il medesimo ente
[2]. Si è,
infatti, precisato che, se si tratta di personale con
rapporto a termine, vige la specifica disciplina
contrattuale [3],
per cui al dipendente competono solo i giorni maturati in
relazione alla durata del rapporto di lavoro.
Pertanto, l'art. 18 in esame si riferisce al periodo di
servizio in ruolo.
----------------
[1] Sull'applicabilità di detta norma del contratto
nazionale al personale degli enti locali del comparto unico,
cfr. Commento e prime note interpretative relativi al CCRL
del 07.12.2006, a cura dell'Areran, pagg. 45-46.
[2] Cfr. RAL 472, RAL 473 e RAL 1068.
[3] Cfr. art. 7, comma 10, del CCRL del 25.07.2001
(24.07.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Convenzione ex art. 7 del CCRL
del 26.11.2004.
Si ritiene che le convenzioni stipulate
ex art. 7 del CCRL del 26.11.2004 possano essere prorogate,
con il consenso delle parti interessate, per un periodo
comunque definito, in relazione alle motivate esigenze
organizzative degli enti locali.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
'prorogare ulteriormente' una convenzione in essere
ai sensi dell'art. 7 del CCRL del 26.11.2004 e gradirebbe
sapere se, alternativamente, possa essere nominato titolare
di posizione organizzativa del settore interessato un
assessore comunale, ai sensi delle vigenti disposizioni.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione
e relazioni sindacali della Direzione generale, si esprimono
le seguenti considerazioni.
Il citato art. 7 del CCRL del 26.11.2004 contempla una
disposizione speciale che disciplina l'utilizzazione di
personale presso altri enti e servizi in convenzione,
nell'ambito del comparto unico del pubblico impiego
regionale e locale.
Il comma 1 di detto articolo stabilisce, infatti, che, al
fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi
istituzionali e di conseguire una economica gestione delle
risorse, gli enti locali possono utilizzare, con il consenso
dei lavoratori interessati, personale assegnato da altri
enti cui si applica il medesimo CCRL, per periodi
predeterminati e per una parte del tempo di lavoro
d'obbligo, mediante convenzione e previo assenso dell'ente
di appartenenza. Si precisa altresì che la convenzione, atto
di gestione di diritto privato del rapporto di lavoro e come
tale non assimilabile alle convenzioni di cui all'art. 30
del d.lgs. n. 267/2000 [1],
definisce, tra l'altro, il tempo di lavoro in assegnazione,
nel rispetto del vincolo dell'orario settimanale d'obbligo,
la ripartizione degli oneri finanziari e tutti gli altri
aspetti utili per regolare il corretto utilizzo del
lavoratore.
Pertanto, previo accordo fra tutte le parti interessate, non
è da escludere la possibilità che la convenzione in essere
sia prorogata, in relazione alle esigenze concrete, per un
periodo comunque definito.
E' ovvio che l'istituto in argomento non può comunque essere
utilizzato sine die in quanto, pur con la finalità di
contribuire al miglioramento dell'erogazione dei servizi
istituzionali e al conseguimento di un risparmio di spesa,
si configura quale soluzione temporanea (e non definitiva)
per ovviare ad esigenze organizzative degli enti locali, che
devono in ogni caso trovare una stabile soluzione.
In tale ottica va letta pertanto la locuzione contrattuale 'per
periodi predeterminati', che prevede una durata
prestabilita e non eccessivamente protratta nel tempo per la
forma collaborativa in argomento.
In relazione al secondo quesito prospettato, si osserva che
l'art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000 prevede che gli
enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti,
fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4,
lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali, approvato con decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento
della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari
organizzative, se necessario anche in deroga a quanto
disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni
[2], e
all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai
componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli
uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di
natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve
essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in
sede di approvazione del bilancio.
La predetta norma, pertanto, ha espressamente introdotto la
possibilità di deroga al generale principio di separazione
dei poteri, nei piccoli enti, al fine di favorire anche il
contenimento della spesa e consentire, comunque, soluzioni
di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle
realtà di modeste dimensioni demografiche.
Si ritiene utile precisare, a tal proposito, che la
giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l'art. 53,
comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta
applicazione, richieda che l'attribuzione di responsabilità
degli uffici e dei servizi comunali agli organi politici, ed
il conseguente potere degli stessi di adottare atti di
natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da
specifiche norme regolamentari organizzative
[3].
L'adozione della richiesta norma organizzativa si pone,
pertanto, quale condizione necessaria per l'applicazione
dell'articolo in esame, con la conseguenza che, in mancanza
di detto preliminare adempimento, si renderebbe, di fatto,
inapplicabile la norma stessa [4].
In conclusione, l'Amministrazione istante può valutare
discrezionalmente quale sia la scelta organizzativa più
consona a soddisfare le reali esigenze operative del settore
interessato.
----------------
[1] Vedasi anche l'art. 21 della L.R. n. 1/2006.
[2] Vedasi ora l'art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, sentenza n. 9545
del 29.07.2008.
[4] Si sottolinea, altresì, come il giudice amministrativo
abbia individuato proprio nella determinazione di carattere
organizzativo la fonte legittimante del potere esercitato
(nella fattispecie esaminata) dal Sindaco cui erano state
attribuite le funzioni di responsabile del Servizio tecnico
(cfr. TAR Emilia Romagna, sez. staccata di Parma, sentenza
n. 160 del 2009)
(23.07.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L’Amministrazione che intende coprire un nuovo
posto di cat. D3, ha chiesto se sia possibile, ai sensi
dell’art. 91, 4° comma, del D.L.gs n. 267/2000 e s.m.i.,
utilizzare una graduatoria tuttora efficace per effetto
delle successive proroghe legislative, alla luce del fatto
che la stessa approvata in data 12.06.2008, si riferisce ad
una procedura concorsuale indetta in data 02.05.2007 quando
i posti in dotazione organica erano 2, successivamente
variati in 3 in data 09.04.2008 e riportati a 2 in data
24.04.2013, posti attualmente coperti.
Una Amministrazione nel richiamare la pronuncia del Tar ha
formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta
interpretazione della norma recata dall’art. 91, 4° comma,
del D.Lgs. n. 267/2000 e s.m.i., ovvero alla possibilità di
utilizzare una graduatoria, tuttora efficace per effetto
delle successive proroghe legislative, la quale è stata
approvata in data 12.6.2008 e relativa ad una procedura
concorsuale indetta in data 02.05.2007 per il conferimento
di n. 1 posto (cat. D3). A tal fine, fa presente che in data
09.04.2008 è stata variata la dotazione organica portando da
n. 2 a n. 3 i posti previsti in dotazione organica per il
citato profilo per poi riportarli a n. 2 in data 24.04.2013,
posti attualmente coperti. Poiché l’attuale Amministrazione,
insediatasi nel giugno 2013, avrebbe intenzione di riportare
a n. 3 i posti in questione, si pone la questione relativa
alla possibilità di utilizzare la precitata graduatoria.
Al riguardo, com’è noto l’art. 91, comma 4, del D.Lgs. n.
267/2000 e s.m.i., stabilisce la durata delle graduatorie
concorsuali degli enti locali in tre anni e prevede la
possibilità della loro utilizzazione, per l’eventuale
copertura dei posti che si venissero a rendere
successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione per i
posti istituiti o trasformati successivamente all’indizione
del concorso. Come rilevato dal Tar con la richiamata
pronuncia n. 552/2013, “la ratio della previsione è
quella di evitare che le amministrazioni possano essere
indotte a modificare la pianta organica al fine di assumere
uno dei candidati inseriti in graduatoria”.
Relativamente, quindi, al caso rappresentato, per quanto è
dato desumere dalle notizie fornite, pare che al momento
dell’indizione del concorso, avvenuta in data 02.05.2007, i
posti in dotazione organica per il predetto profilo fossero
2, considerato che solo in data 09.04.2008 è intervenuta la
modifica della dotazione organica che li ha portati a tre.
Quindi, sembra di poter sostenere che già al momento
dell’assunzione del primo e secondo classificato della
graduatoria in esame, avvenute rispettivamente nell’agosto e
nell’ottobre 2008, si è contravvenuto al limite stabilito
dalla norma in commento, a nulla rilevando poi che, in
quell’occasione, si sia effettivamente proceduto alla
copertura di un solo posto, a causa della rinuncia
all’assunzione comunicata dal primo classificato.
Alla luce di quanto sopra, nell’ipotesi di una nuova
variazione della dotazione organica per i posti in discorso,
eventualmente deliberata dall’attuale Amministrazione, si è
dell’avviso che la predetta graduatoria, seppure efficace,
non possa essere utilizzata. Si deve ritenere, infatti, che
il vincolo stabilito dall’art. 91, comma 4 del D.Lgs. n.
267/2000 sia ancora pienamente valido e preponderante
rispetto all’estensione della validità delle graduatorie
(Ministero dell'Interno,
parere 29.05.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative - Interpretazione art. 15
C.C.N.L. del 22.01.2004, e art. 53, comma 23, L. n. 388 del
23.12.2000.
Si fa riferimento ad una nota, con la quale
un’Amministrazione ha chiesto dei chiarimenti in merito
all’interpretazione della norma contrattuale prevista
dall’art. 15 del C.C.N.L. del 22.1.2004, nonché
relativamente alla disposizione di cui all’art. 53, comma
23, della legge 23.12.2000, n. 388, ed in particolare:
- se il citato art. 15, che disciplina le posizioni
organizzative apicali negli enti privi di personale con
qualifica dirigenziale, sia applicabile a tutti gli enti
locali ovvero si riferisca esclusivamente alle unioni di
comuni e ai servizi attivati in convenzione;
- se detta nuova disposizione comporti l’automatica
attribuzione della posizione organizzativa agli apicali di
cat. D e C presenti nella varie aree dell’Ente, con relativa
corresponsione delle previste indennità, oppure se sia
necessario un atto formale di individuazione delle posizioni
organizzative stesse, nonché il provvedimento sindacale per
l’attribuzione delle funzioni di cui all’art. 107, commi 2 e
3, del d.lgs. 267/2000;
- se, alla luce del richiamato art. 15, sia ancora
applicabile, per i comuni inferiori a tremila abitanti, la
normativa di cui all’art. 53, comma 23, della legge 388/2000
che consente di attribuire agli organi politici la
responsabilità di uffici e di servizi con il conseguente
potere di adottare atti di natura tecnico-gestionale.
Al riguardo, nell’evidenziare che l’art. 15 del C.C.N.L. del
22.01.2004 prevede testualmente che: “Negli enti privi di
personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle
strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo
dell’ente, sono titolari delle posizioni organizzative
disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del C.C.N.L. del
31.03.1999”, si rappresenta che detta disciplina ha come
destinatari tutti gli enti del comparto delle regioni e
delle autonomie locali che non abbiano personale con
qualifica dirigenziale, così come specificato nella
dichiarazione congiunta n. 12, allegata al contratto
medesimo.
In merito al secondo quesito, occorre chiarire prima di
tutto che ai sensi dell’art. 11 del c.c.n.l. del 31.03.1999
è possibile attribuire le posizioni organizzative al
personale di categoria C solo nel caso in cui l’Ente sia
sprovvisto di posti di categoria D, pertanto qualora risulti
presente nella struttura organica di codesta Amministrazione
anche un solo posto di categoria D, solo ad esso può farsi
riferimento ai fini dell’attribuzione della posizione
organizzativa.
Per quel che concerne la ratio della disposizione
contrattuale di cui all’art. 15 del c.c.n.l. del 22.01.2004,
si ritiene che la stessa non debba considerarsi volta al
riconoscimento automatico della posizione organizzativa alle
figure apicali presenti nella struttura dell’Ente, bensì,
più propriamente, finalizzata a garantire l’attribuzione
della posizione organizzativa (in base ai criteri di cui
agli artt. 8 e seg. c.c.n.l. del 31.03.1999) a quei
dipendenti di categoria D responsabili di servizio (o cat. C
nei comuni privi di figure di cat. D), cui è stato
attribuito, con atto formale, il conferimento dell’incarico
allo svolgimento delle funzioni previste dall’art. 107,
comma 2, del d.lgs. 267/2000, pertanto destinatari della
peculiare funzione di adottare atti e provvedimenti che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno.
L’art. 15 in commento peraltro, non interferisce con la
disposizione di cui all’art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000 (come integrato dall’art. 29, comma 4, della legge
448/2001), talché gli enti locali continuano ad avere la
facoltà di attribuire ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti di natura gestionale, in presenza dei seguenti
presupposti: 1) avere una popolazione inferiore ai 5.000
abitanti, 2) non avere affidato le relative funzioni al
segretario comunale ai sensi dell’art. 97, c. 4, lett. d),
del d.lgs. 267/2000, 3) poter conseguire risparmi di spesa
(Ministero dell'Interno,
parere 27.05.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Diritto di accesso agli atti amministrativi da
parte dei consiglieri comunali. – Fascicolo contribuenti.
Richiesta chiarimenti.
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto esercizio
del diritto di accesso agli atti riservato ai consiglieri
comunali.
In particolare, il Responsabile del Servizio Tributi
comunali del Comune ha chiesto se occorra dare seguito alla
richiesta di un consigliere comunale di accedere ai
fascicoli personali di 154 contribuenti fisici e giuridici
-iscritti a ruolo per il tributo sui rifiuti Tarsu/Tares-
che hanno ricevuto l’avviso di accertamento per
omessa/infedele denuncia.
Al riguardo, si osserva che il diritto d’accesso agli atti
amministrativi dell’ente locale è disciplinato dall’art. 43,
comma 2, del decreto legislativo n. 267 del 18.08.2000, il
quale prevede in capo ai consiglieri comunali e provinciali
il diritto di ottenere dagli uffici comunali tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del loro mandato (ribadito anche dalla
Commissione per l’Accesso ai Documenti Amministrativi, nel
Plenum del 02.02.2010 e del 23.02.2010 e nel parere del
05.10.2010).
Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato (cfr.
C.d.S. Sez. V. n. 929/2007), il diritto di accesso da parte
del consigliere “non può subire compressioni per pretese
esigenze di natura burocratica dell’ente con l’unico limite
di potere esaudire la richiesta (qualora sia di una certa
gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare
interruzione delle altre attività di tipo corrente …”
(limite della proporzionalità e ragionevolezza delle
richieste), restando ferma la “necessità di contemperare
nel modo più ragionevole e adeguato possibile dette
richieste, finalizzate all’espletamento del mandato, con le
esigenze di funzionamento degli uffici” (C.d.S., Sezione
V, del 17.09.2010, n. 6963).
Dal contenuto del citato art. 43 si desume il riconoscimento
in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini
più ampi sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del
comune di residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia, più in
generale, nei confronti della pubblica amministrazione,
genericamente intesa, come disciplinato dalla legge n.
241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in
ragione del particolare munus espletato dal
consigliere comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, al fine di poter
esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo
di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la
propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente
opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di
sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (art. 4
e art. 14 del d.lgs. n. 165/2001) sancita per gli enti
locali dall’art. 107 del T.U.O.E.L. n. 267/2000 che richiama
il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo,
essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato si è orientata nel
senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti
un’ampia prerogativa a ottenere informazioni, senza che
possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in
cui la richiesta riguardi l’esercizio del mandato
istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi di
tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati
personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza,
secondo la quale, ai sensi del più volte richiamato art. 43,
comma 2, i consiglieri comunali e provinciali “sono
tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla
legge”.
In ogni caso, ad avviso di questa Direzione Centrale, appare
necessaria una regolamentazione della materia da parte del
Consiglio comunale nell’ambito anche degli strumenti di
autorganizzazione dello stesso Consiglio.
Anche il TAR Toscana, Sez. I, con sentenza 11.11.2009, n.
1607 ha ritenuto opportuno sottolineare (concordando, in
questo, con l'indicazione fornita dal Ministero dell'Interno
in fattispecie analoghe) l'opportunità che l'ente locale,
nell’ambito della propria autonomia, si doti, da un lato, di
apposita regolamentazione, utile a disciplinare il corretto
esercizio del diritto di accesso agli atti e alle
informazioni sancito dall’art. 43, comma 2, del T.U.O.E.L.,
dall'altro, di strumenti organizzativi adeguati a soddisfare
le esigenze connesse con l'esercizio del diritto in
questione.
In merito alla specifica fattispecie segnalata, appare utile
richiamare il parere in data 14.12.2010 con cui la
Commissione per l’Accesso ai documenti amministrativi,
ribadendo che “gli Uffici comunali non hanno il potere di
sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato”, ha riconosciuto il diritto ad accedere agli
atti relativi al pagamento dei tributi (per le concessioni
cimiteriali) in quanto le informazioni richieste attengono
formalmente all’esercizio del mandato consiliare, essendo
esse preordinate a verificare l’efficacia e l’imparzialità
dell’azione amministrativa in un settore particolarmente
nevralgico come quello dell'effettiva riscossione delle
imposte comunali da parte dell'amministrazione competente e
pertanto sono da ritenere accessibili dal consigliere
comunale.
Su quanto precede si prega codesta Prefettura di fare
analoga comunicazione all’Amministrazione comunale
interessata (Ministero dell'Interno,
parere 23.05.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
ENTI LOCALI:
DISSESTO FINANZIARIO - MANCATO RENDICONTO E
BILANCIO DI PREVISIONE - RICHIESTA PARERE ATTIVAZIONE
INTERVENTI SOSTITUTIVI DEL PREFETTO.
Oggetto: Comune di ... – dissesto finanziario – rendiconto
2012 e bilancio di previsione 2013. Richiesta parere
attivazione interventi sostitutivi.
Si fa riferimento alla nota n. 16420 in data 01.04.2014, con
la quale viene chiesto il parere di questo Dipartimento in
ordine alla sussistenza dei presupposti per l’avvio della
procedura di scioglimento del consiglio comunale di …, ai
sensi dell’art. 141 del TUOEL, a seguito della mancata
approvazione del rendiconto di gestione 2012 e del bilancio
2013.
In ordine agli aspetti procedurali relativi alla mancata
adozione del rendiconto nei termini di legge non si è ancora
formato un definitivo orientamento giurisprudenziale che
possa indirizzare l’operato dell’Amministrazione. Pur
tuttavia, in relazione ad alcune pronunce relative a
fattispecie inerenti adempimenti di natura finanziario
contabile, si ritiene di dover rappresentare quanto segue.
Come è noto, l’inosservanza del termine per l’approvazione
del rendiconto di gestione comporta l’applicazione delle
misure sanzionatorie di cui all’art. 227 del decreto
legislativo n. 267/2000, con il ricorso alla procedura di
cui al comma 2 dell’art. 141, relativa alla mancata
approvazione del bilancio.
Su tale materia è intervenuto il decreto legge n. 13/2002,
convertito, con modificazioni dalla legge n. 75/2002 che ha
attribuito al prefetto, in via transitoria, il controllo
formale sugli atti contabili, in sostituzione dell’organo
regionale di controllo, ai fini dell’eventuale intervento
sostitutivo.
Il potere del prefetto, subordinato all’assenza di
specifiche disposizioni statutarie, è stato prorogato con
provvedimenti successivi, emanati annualmente.
La procedura in questione prevede l’assegnazione di un
termine, non superiore a 20 giorni al consiglio comunale,
per l’adozione della delibera di approvazione del rendiconto
di gestione predisposto dalla giunta.
In caso di mancata approvazione dello schema da parte della
giunta, il prefetto nomina un commissario ad acta che
lo predispone d’ufficio, assegnando il termine all’organo
consiliare, decorso inutilmente il quale si provvederà in
via sostitutiva.
Verificatasi quest’ultima circostanza, il rendiconto verrà
deliberato dal commissario ad acta e si avvierà la
procedura di scioglimento del consiglio.
L’inerzia dell’ente sul fondamentale adempimento comporta,
quindi, l’intervento sostitutivo da parte del prefetto.
Secondo il Consiglio di Stato, che si è espresso in materia
di approvazione del bilancio, l’art. 1 del decreto legge n.
13/2002 citato “non collega all’inosservanza del termine
alcuna immediata e concreta conseguenza dissolutoria, ma la
semplice apertura di un procedimento sollecitatorio, che può
bensì condurre all’adozione della grave misura dello
scioglimento dell’organo, ma il cui presupposto non è la
mera inosservanza del termine suddetto, bensì la constatata
inadempienza ad un’intimazione puntuale ed ultimativa
dell’organo competente, che attesta l’impossibilità, o la
volontà del consiglio di non approvare il bilancio”
(Consiglio di Stato, sez V, 19.02.2007, n. 826).
In tal senso, le norme che incidono sull’autonomia delle
amministrazioni locali devono essere considerate di stretta
interpretazione ed appaiono giustificate solo a fronte di
gravi violazioni di legge (TAR Sicilia, 19.01.2006, n. 154).
Tale orientamento non appare innovato atteso che, anche
recentemente, a fronte di una mancata inerzia
dell’amministrazione comunale è stata esclusa la legittimità
dell’intervento sostitutivo (TAR Campania, Sez. I,
10.07.2013, n. 2792; TAR Molise 27.02.2014, n. 163).
Nel caso di specie, il comune di … ha avviato l’iter per
l’approvazione del rendiconto 2012 che, secondo le
previsioni di cui al decreto ministeriale dell’08.10.2013,
avrebbe dovuto essere concluso nel termine di 120 giorni
dalla notifica di detto provvedimento e quindi entro il
21.03.2014.
A seguito della delibera della giunta, con l’osservanza dei
tempi tecnici necessari per acquisire la relazione dei
revisori e per consentire l’esame da parte dei consiglieri
comunali dello schema, sono state fissate, per il 24 e il 25
aprile p.v., le due sedute dell’organo consiliare, in prima
e seconda convocazione, per l’esame ed approvazione del
conto consuntivo 2012.
Ciò premesso, pur non essendo configurabile una situazione
di inerzia dell’amministrazione comunale, l’ente non ha
rispettato i termini prescritti e, pertanto, il ricorso
all’istituto della diffida non può che perseguire la
finalità di richiamare l’attenzione dei consiglieri circa
l’esigenza non procrastinabile ulteriormente
dell’adempimento di legge di approvazione del rendiconto,
non essendo, al momento, ipotizzabile il ricorso alla misura
di cui all’art. 141 TUOEL.
Quanto all’adozione del bilancio previsionale del 2013, i
relativi adempimenti non sono collegati alle misure
richieste con il citato decreto ministeriale
dell’08.10.2013, ben potendo il comune, preso atto della
riconosciuta validità dei provvedimenti di risanamento
adottati, approvare il documento contabile entro il termine
del 30.11.2013, di cui all’art. 8 del decreto legge
31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.10.2013, n. 124.
Si richiama a tal proposito l’art. 172 del TUOEL che include
tra gli allegati del bilancio di previsione il rendiconto
deliberato del penultimo esercizio antecedente quello cui si
riferisce il bilancio di previsione stesso (quindi il
rendiconto 2011, già approvato dal comune di ...).
Ciò premesso, per quanto riguarda tale ultimo aspetto, si
ritiene che –previa diffida- debba essere avviata la
procedura di cui all’art. 141, comma 2, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, relativa alla mancata
approvazione nei termini del bilancio (Ministero
dell'Interno,
parere 07.04.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Albo pretorio on-line.
Si fa riferimento alla nota allegata in copia, con la quale
il ..., residente nel Comune di …, ha formulato un quesito
concernente la pubblicazione delle delibere di giunta
comunale e le determinazioni adottate dai responsabili di
settore.
Al riguardo, l’art. 32, comma 1, della legge 28.06.2009, n.
69, recante norme per l’eliminazione degli sprechi relativi
al mantenimento di documenti in forma cartacea, dispone che
“gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si
intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti
informatici da parte delle amministrazioni e degli enti
pubblici obbligati”; il successivo comma 5 prevede, altresì,
che a decorrere dall’01.01.2011 le pubblicità effettuate in
forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale”.
La disposizione in parola ha implicitamente modificato
l’art. 124 del decreto legislativo n. 267/2000 nella parte
in cui disponeva che la pubblicazione avvenisse “mediante
affissione all’albo pretorio nella sede dell’ente …”,
sostituita dalla pubblicazione sul sito istituzionale
dell’ente, fermo restando il termine di 15 giorni
consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge.
Il legislatore è successivamente intervenuto con l’articolo
9, comma 5-bis, del decreto legge n. 179, del 18.10.2012,
convertito dalla legge n. 221, del 17.12.2012, sostituendo
espressamente le parole “affissione”, contenute nel
citato articolo 124, con “pubblicazione”.
Il decreto legislativo n. 33, del 14.03.2013, disponendo il
riordino della disciplina degli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni, ha rafforzato, in particolare,
l’esigenza di pubblicità degli atti.
Si rileva, pertanto, che lo strumento informatico ha
sostituito il tradizionale albo pretorio, rimanendo
inalterati, sotto la nuova forma, gli obblighi di
pubblicazione.
Peraltro, giova richiamare la sentenza n. 1370 del
15.03.2006, con la quale il Consiglio di Stato ha stabilito
che “la pubblicazione all’albo pretorio del Comune è
prescritta dall’art. 124 T.U. n. 267/2000 per tutte le
deliberazioni del comune e della provincia ed essa riguarda
non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio
e giunta municipale) ma anche le determinazioni dirigenziali”.
Anche il TAR Campania, Sezione I, con sentenza n. 3090/2012
del 28.06.2012 ha ritenuto che la pubblicazione all’albo
pretorio del Comune è prescritta per tutte le deliberazioni
del Comune e della Provincia ed essa riguarda non solo le
deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta
municipale), ma anche le determinazioni dirigenziali,
esprimendo la parola "deliberazione" "ab antiquo"
sia risoluzioni adottate da organi collegiali che da organi
monocratici con l'intento di rendere pubblici tutti gli atti
degli enti locali di esercizio del potere deliberativo,
indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo
emanante.
Sempre secondo il citato Tribunale Amministrativo, la
pubblicazione nel caso in cui non si richieda una notifica
individuale, vale di per sé ad integrare la piena conoscenza
del provvedimento e il termine per impugnare le relative
determinazioni decorre al più tardi dall'ultimo giorno della
relativa pubblicazione.
Inoltre, si osserva che l’inclusione delle determinazioni
tra gli atti soggetti all’obbligo di pubblicazione è stata
sostenuta anche dall’Ente Nazionale per la Digitalizzazione
della Pubblica Amministrazione - DIGIT PA, nelle “Linee
guida per i siti web della Pubblica Amministrazione” ed
in particolare nel “Vademecum sulle Modalità di
pubblicazione dei documenti nell’albo on-line”,
predisposto sulla base della direttiva n. 8 del 26.11.2009
del Ministro per la Pubblica Amministrazione e
l’Innovazione. In particolare è stato ritenuto che “… per
gli enti locali …. l’attività dell’albo consiste nella
pubblicazione di tutti quegli atti sui quali viene apposto
il referto di pubblicazione”, includendo tra tali atti le
deliberazioni ed altri provvedimenti comunali tra cui anche
le determinazioni in argomento”.
Siffatte linee guida si aggiungono a quelle, adottate con
deliberazione in data 19.04.2007, “in materia di
trattamento dei dati personali per finalità di pubblicazione
e diffusione di atti e documenti di enti locali” che, al
punto 6, dedicano appositi chiarimenti sulla “pubblicità
assicurata mediante pubblicazione all’albo pretorio”.
Pertanto, si ritiene che le deliberazioni dell’Ente, ivi
comprese quelle di Giunta, e le determinazioni debbano
essere rese leggibili integralmente nei termini di legge.
Si soggiunge, per completezza, che qualora emergano esigenze
di riservatezza, gli atti devono essere pubblicati con i
limiti prescritti dall’articolo 4 del citato decreto
legislativo n. 33, del 14.03.2013 e con gli accorgimenti
individuati dal Garante per la protezione dei dati
personali.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione
all’esponente (Ministero dell'Interno,
parere 05.03.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Una Amministrazione ha chiesto il parere circa la
possibilità di accogliere la richiesta di un dipendente cat.
B7 di essere inquadrato nella cat. C1 mediante lo
scorrimento di una graduatoria relativa ad un procedura di
selezione interna per progressione verticale indetta nel
2007 e tuttora vigente ai sensi dell’art. 4 del D.L. n. 101
convertito della legge n. 125.
Con riferimento ad una mail una Amministrazione ha chiesto
il parere di questo Ufficio in ordine alla possibilità di
accogliere la richiesta di un dipendente di cat. B7, di
essere inquadrato nella cat. C1 mediante lo scorrimento di
una graduatoria relativa ad una procedura di selezione
interna per progressione verticale, indetta nel 2007 e
tuttora vigente ai sensi dell’art. 4, del D.L. n. 101
convertito dalla legge n. 125, tenuto conto che: nella
dotazione organica risultano vacanti posti di cat. C.; il
predetto dipendente è risultato idoneo essendosi
classificato al 2° posto; l’utilizzo della citata
graduatoria non garantirebbe il rispetto del principio
dell’adeguato accesso dall’esterno.
Al riguardo, si fa presente che il Dipartimento della
Funzione Pubblica con circolare n. 5/2013, ha impartito
direttive in merito all’applicazione delle disposizioni
contenute nell’art. 4, del richiamato D.L. n. 101/2013.
Sull’utilizzo delle graduatorie per assunzioni a tempo
indeterminato, il citato Dipartimento, al punto 3.1 di detta
circolare, ha chiarito che resta fermo il principio
affermato dall’art. 52, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 165/2001,
come modificato ed integrato dall’art. 62 del D.Lgs. n.
150/2009, secondo il quale l’utilizzo delle graduatorie
relative ai passaggi di area banditi anteriormente al
01.01.2010, in applicazione della previgente disciplina
normativa, è consentito al solo fine di assumere i candidati
vincitori e non anche gli idonei della procedura selettiva.
Ne consegue, quindi, che la proroga dell’efficacia delle
graduatorie dei concorsi pubblici, disposta dal comma 4
dello stesso art. 4 del D.L. n. 101/2013 in commento, non
può trovare applicazione per le graduatorie relative a
concorsi riservati al solo personale interno.
Per quanto sopra, si ritiene che la richiesta del dipendente
non possa trovare favorevole accoglimento (Ministero
dell'Interno,
parere 28.02.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Sedute di Consiglio comunale - Registrazione
audio-video da parte di un cittadino.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale
codesta Prefettura ha chiesto un parere in ordine al diritto
dei cittadini di filmare, per la conseguente diffusione, i
lavori del Consiglio comunale.
In particolare, è stata rappresentata la questione inerente
alle riprese video effettuate da un cittadino in costanza di
un regolamento (successivamente modificato) il quale
affidava al Presidente del Consiglio comunale il potere di
autorizzare l’ingresso in Aula dei fotografi e dei
teleoperatori e di emanare apposite direttive in merito
-sentita la Conferenza dei presidenti di gruppo- e di
decidere la diffusione radiofonica, televisiva e telematica
dei lavori, sentendo sempre la citata Conferenza ed
informando i consiglieri.
In merito, si osserva che ai sensi dell’art. 38, comma 7,
del T.U.O.E.L., le sedute del consiglio comunale sono
pubbliche, salvo i casi previsti dal regolamento. La
disposizione va letta nel senso che, in linea generale, deve
essere consentito al pubblico di assistere alle sedute
consiliari dalle apposite postazioni riservate.
A fronte di detto principio, il successivo art. 39, comma 1,
attribuisce al presidente del consiglio i poteri di
direzione dei lavori e delle attività del consiglio, ove è
compresa ogni facoltà strumentale alla garanzia del regolare
svolgimento delle sedute ed a tutela delle prerogative
dell’organo assembleare medesimo.
Peraltro, il consiglio, ai sensi del comma 3 del richiamato
articolo 38, ha potestà di disciplinare, con apposite norme
regolamentari, ogni aspetto attinente al funzionamento
dell’assemblea.
E’, pertanto, nell’ambito delle norme interne all’ente
locale, che dovrebbero rinvenirsi anche disposizioni sulla
possibilità di registrazione del dibattito e delle votazioni
con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto
all’attività di verbalizzazione del segretario comunale
(art. 97, comma 4, lett. a, del T.U.O.E.L.) che da parte dei
consiglieri comunali, nonché dei cittadini ammessi ad
assistere alla seduta e degli organi di informazione
radiotelevisiva.
In assenza di esplicita previsione regolamentare
l’ammissione alla registrazione potrebbe essere regolata
caso per caso dal presidente del consiglio proprio
nell’esercizio dei richiamati poteri di direzione dei lavori
dell’assemblea, in stretta correlazione alle esigenze di
ordinato svolgimento dell’attività consiliare.
Tuttavia, occorre osservare che il Tribunale Amministrativo
Regionale del Veneto, con la sentenza n. 826/2010, ha negato
il potere in parola in capo al Sindaco-Presidente del
Consiglio Comunale il quale in carenza di apposita fonte
regolamentare di competenza consiliare non può procedere ad
estemporanei assensi alla videoregistrazione.
A margine di tale potere regolamentare e, nell’ambito del
citato principio di pubblicità della seduta,
l’amministrazione può legittimamente riservarsi il compito
di registrazione con mezzi audiovisivi, anche escludendo che
altri soggetti e il pubblico in aula possano procedervi. In
questo senso, la pubblicità della seduta non implica la
facoltà di registrazione ma la libera presenza di chi abbia
interesse ad assistere alle sedute.
Tale posizione trova conforto nella giurisprudenza che non
ha rilevato profili di illegittimità in un regolamento che
poneva il divieto di introdurre nella sala del consiglio
apparecchi di riproduzione audiovisiva, se non previa
autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. I n. 5128/2001).
Di uguale tenore è la pronuncia n. 44094 del 17.03.2002 del
Garante per la protezione dei dati personali nella quale si
afferma la necessità di regolamentare la materia che
scaturisce dall’obbligo di informare i partecipanti alla
seduta dell’esistenza delle telecamere, della successiva
diffusione delle immagini e degli altri elementi previsti
dalla legge sulla tutela dei dati personali, o per impedire
la diffusione di dati sensibili che riguardino le persone.
Sempre il Garante, con nota del 03.01.2008 ha riaffermato
che l’ente, con apposita norma regolamentare, può porre
limiti al regime di pubblicità degli atti e delle sedute del
consiglio comunale. Tale regolamento può costituire fonte
idonea a disciplinare i limiti e le modalità di pubblicità
delle sedute consiliari, ivi compresi eventuali divieti di
registrazione e di diffusione di immagini relative alle
riunioni di consiglio da parte di terzi. Sono previsti,
altresì, a carico dell’amministrazione, l’onere della
preventiva informazione dei presenti in aula circa le
riprese con le telecamere e l’individuazione delle ipotesi
in cui eventualmente limitare le riprese stesse per
assicurare la riservatezza dei soggetti presenti o oggetto
del dibattito.
Peraltro, le limitazioni alle riprese potrebbero essere
correlate anche alla mancata attivazione, da parte
dell’amministrazione comunale di un autonomo sistema di
registrazione, stante l’esigenza di escludere che l’unico
supporto audiovisivo di documentazione dello svolgimento dei
lavori consiliari resti nella disponibilità esclusiva di
soggetti estranei all’amministrazione, fuori dalle
necessarie garanzie di autenticità.
Pertanto, tenendo presente che la normativa tende ormai ad
evolvere verso la più totale trasparenza della pubblica
amministrazione (decreto legislativo 14.03.2013, n. 33), nel
caso in esame, in presenza di apposita disciplina
regolamentare, alla luce dei sopra delineati principi e al
di fuori dei casi in cui il consiglio si riunisca in seduta
riservata ai sensi statutari e delle norme regolamentari, è
riservata al presidente del consiglio comunale la
possibilità di valutare di volta in volta se ammettere la
videoregistrazione, anche in relazione all’oggetto dei
lavori previsti all’ordine del giorno per la specifica
occasione (Ministero dell'Interno,
parere 23.05.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Ai “...fini della riconoscibilità del diritto al
compenso incentivante, la corretta interpretazione delle
disposizioni in esame considera determinante, non tanto il
nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il
suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente
connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero
quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un
mero atto di pianificazione generale”, che costituisce il
presupposto per l’erogazione dell’incentivo.
“Pertanto, ove tale presupposto manchi, non è possibile
giustificare la deroga ai principi cardine in materia di
pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione
contrattuale delle componenti del trattamento economico,
alla luce dei quali, nulla è dovuto oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabiliti dai contratti
collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione
rientrante nei suoi doveri d’ufficio….”.
---------------
Nella stesura di un documento di
pianificazione deve necessariamente attribuirsi “….alle
specifiche professionalità del personale tecnico la
elaborazione di una analisi che richiede una complessità
superiore, frutto del necessario, imprescindibile apporto di
una pluralità di professionalità”.
Va peraltro sottolineato che la redazione di un piano di
lottizzazione e, in genere, di uno strumento di
pianificazione urbanistica costituisce attività che richiede
una competenza specifica in tale settore attraverso una
visione di insieme e la capacità di affrontare e risolvere i
problemi di carattere programmatorio.
Il Collegio, conclusivamente, ritiene che una volta valutato
e verificato il collegamento tra l’attività di
pianificazione e la successiva realizzazione dell’opera
pubblica, i soggetti destinatari dell’incentivo di cui
trattasi siano i dipendenti dell’ente, in possesso dei
requisiti abilitanti (previsti dalla vigente normativa) per
eseguire prestazioni professionali, seppur in quota parte,
funzionali alla redazione dell’atto di pianificazione.
Dipendenti appositamente individuati ed incaricati dalla
stessa amministrazione con specifico provvedimento, mentre
tra i destinatari dell’incentivo non potrà essere tuttavia
annoverato, a mente del citato art. 13 del D.L. 90/2014, il
personale con qualifica dirigenziale, in ragione della
onnicomprensività del relativo trattamento economico.
---------------
Il Sindaco del Comune di Mirano, formula a questa Sezione
una richiesta di parere, in merito all’applicazione dei
compensi per atti di pianificazione ai sensi dell’art. 90,
commi 1 e 4, e dell’art. 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006
ovvero sulla possibilità di erogare i compensi richiesti
da alcuni dipendenti comunali per la redazione di atti di
pianificazione urbanistica-PAT, tenuto conto:
- “della normativa prevista agli artt. 90 e 92 del D.Lgs.
n. 163/2006;
- del parere della delibera n. 7 del 04.04.2014 della Corte
dei Conti - Sezione Autonomie,
- che l'attività di pianificazione Urbanistica - PAT,
oggetto della presente richiesta, è iniziata nell'anno 2011
ed è tuttora in corso, - che il Regolamento comunale sui
compensi della progettazione interna di atti di
pianificazione, approvato con delibera di C.C. n. 217 del
06.12.2007, era antecedente alle pronunce della Corte dei
Conti” e facendo “inoltre presente che il Piano di
Assetto del Territorio (PAT) è lo strumento di
pianificazione generale che individua preventivamente gli
interventi manutentivi e di realizzazione di nuove opere
pubbliche sul territorio che l'Amministrazione Comunale
intenderà attuare. Inoltre chiede “se, in tal senso, il
PAT è da intendersi come strumento di pianificazione
finalizzato alla realizzazione delle medesime opere
pubbliche”.
...
Venendo al merito, con il primo quesito il sindaco di Mirano
chiede se “il PAT è da intendersi come strumento di
pianificazione finalizzato alla realizzazione delle medesime
opere pubbliche" o possa rientrare nel novero degli atti
di pianificazione comunque denominati previsti dalla norma
di cui all’articolo 92, comma 6, del Codice appalti, atteso
che è lo strumento di pianificazione generale che individua
preventivamente gli interventi manutentivi e di
realizzazione di nuove opere pubbliche sul territorio che
l'Amministrazione Comunale intenderà attuare.
La disposizione citata prevede espressamente che “Il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
In questa sede giova evidenziare che la Sezione, con il
proprio
parere 26.07.2011 n. 337, nel dare risposta ad un
quesito sempre vertente sulla possibilità di corresponsione
del corrispettivo di cui trattasi in caso di pianificazione
urbanistica generale, aveva proceduto ad una attenta
ricostruzione dell’istituto contemplato dal richiamato comma
6. Si affermava, in detto parere che la pianificazione
urbanistica implica una complessa partecipazione
multispecialistica che porta ad allargare necessariamente le
figure professionali coinvolte (oltre a ingegneri,
architetti, urbanisti non possono mancare geologi,
economisti, esperti di mobilità e infrastrutture, ecc.).
La questione del rapporto tra la pianificazione comunque
denominata e l’attività di pianificazione contemplata
nell’articolo 92, comma 6, ha trovato, invece,
approfondimento nel recente
parere 22.11.2013 n. 361
della Sezione nella quale, tra l’altro e per quello che qui
interessa, si richiama anche la posizione assunta
dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (AVCP)
nell'atto
di segnalazione 25.09.2013 n. 4
sul significato che deve assumere la dizione letterale “atto
di pianificazione comunque denominato” utilizzata dal
legislatore nel richiamato comma 6.
In detto Atto si sottolineava come “….l’applicazione
della norma è particolarmente ampia al punto che possano
essere ritenuti assoggettati alla categoria di “atti di
pianificazione comunque denominati” i piani di
lottizzazione, i piani per insediamenti produttivi, i piani
di zona, i piani particolareggiati, i piani regolatori, i
piani urbani del traffico, e tutti quegli atti aventi
contenuto normativo e connessi alla pianificazione, quali i
regolamenti edilizi, le convenzioni, purché completi per
essere approvati dagli organi competenti, ribadendo la
considerazione, svolta nelle citate note precedenti, che
“tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla
progettazione di opere o impianti pubblici o di uso
pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto
urbano" (l’Autorità a tal fine richiamava anche le
seguenti pronunce rese in precedenza:
la
determinazione 25.09.2000 n. 43,
la
deliberazione 13.06.2000 ed il
parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10
e
parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12).
Il Collegio,
in relazione al quesito posto dal Sindaco del comune di
Mirano ed alla luce di quanto evidenziato nei richiamati
pareri della Sezione (ai contenuto dei quali si rinvia) e
nell’Atto di segnalazione n. 47/2013 dell’Autorità citato,
ritiene che il redigendo Piano di Assetto del
Territorio (PAT) è lo strumento di pianificazione generale
che individua preventivamente gli interventi manutentivi e
di realizzazione di nuove opere pubbliche sul territorio che
l'Amministrazione Comunale intenderà attuare, assumendo
valenza pianificatoria nel senso sopra richiamato, e possa
ben essere ritenuto quale “atto di pianificazione
comunque denominato”.
Il quesito proposto presuppone altresì la questione sulla
spettanza dell’incentivo in oggetto nelle ipotesi di
pianificazione “comunque denominata”.
Sul punto, giova richiamare la posizione interpretativa già
assunta dalla Sezione con proprio
parere 22.11.2013 n. 361
sopra richiamato.
In tale sede, questa Sezione, sul tema specifico relativo
alla possibilità offerta agli enti pubblici appaltanti
dall’articolo 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006, di
corrispondere quale incentivo il trenta per cento della
tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato ai dipendenti che lo
abbiano redatto (con le modalità ed i criteri previsti nel
regolamento in materia approvato dall’Amministrazione),
aveva riconosciuto tale possibilità indipendentemente dal
collegamento dell’attività di pianificazione alla successiva
realizzazione di un opera pubblica.
Il Collegio, affermando dapprima che le mansioni di
pianificazione generali richiedono una attività
multidisciplinare che non potrebbe trovare deroga alcuna
attese le tassatività delle competenze professionali
stabilite dalla legge, conclusivamente aveva ritenuto che la
stessa modalità di commisurazione del compenso (collegato ad
una percentuale delle tariffe professionali e fissato dalla
norma in modo sensibilmente diverso rispetto a quello
stabilito per l’attività di progettazione dell’opera
pubblica ove la commisurazione è legata ad una percentuale
del valore dell’opera), sia indice dell’intenzione del
legislatore di attribuire la giusta retribuzione
all’attività di pianificazione, anche mediata, a prescindere
dal suo collegamento con un’opera pubblica.
Tale posizione interpretativa, peraltro, consentiva di
attribuire piena effettività all’operatività della norma in
oggetto anche in considerazione del fatto che non
necessariamente all’attività di pianificazione consegue
nell’immediatezza una successiva attività di progettazione
prima e realizzazione poi, di un opera pubblica. L’assenza
di detti ultimi elementi renderebbe di fatto non operativa
la disposizione di cui trattasi nei casi, tutt’altro che
rari, di pianificazione generale ove la realizzazione
dell’opera pubblica può essere assente o procrastinata nel
tempo.
Sulla questione oggetto del parere di cui trattasi, si sono
espresse altre Sezioni regionali di controllo che hanno
assunto divergenti posizioni interpretative in
considerazione del fatto che la disposizione in oggetto
–riferendosi alle amministrazioni aggiudicatrici– avrebbe
ristretto la corresponsione dell’incentivo alle sole ipotesi
di pianificazione urbanistica direttamente collegata alla
realizzazione di opere pubbliche.
La Sezione di controllo della Liguria, alla luce degli
emersi contrasti interpretativi sollevava questione
interpretativa davanti alla Sezione delle Autonomie ai sensi
dell’articolo 6, comma 4, del D.L. 10.10.2012, n. 174. La
sezione ligure, infatti, con l
parere 21.01.2014 n. 6,
rimetteva al Presidente della Corte dei conti per il
successivo deferimento alla Sezione delle Autonomie una
questione di massima in relazione a cosa debba intendersi
per “atti di pianificazione comunque denominati”:
dizione, quest’ultima, contenuta nel citato comma 6,
dell’art. 92 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
In particolare si dibatteva se la stessa dizione dovesse
essere intesa nel senso che il diritto all’incentivo per la
redazione di un atto di pianificazione sussista solo nel
caso in cui l’atto medesimo sia collegato direttamente ed in
modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica,
ovvero se l’anzidetto diritto si configuri anche
nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione generale
(quali ad esempio la redazione di un piano urbanistico
generale o attuativo ovvero di una variante), ancorché non
puntualmente connessi alla realizzazione di un’opera
pubblica.
La Sezione delle Autonomie, con propria
deliberazione 15.04.2014 n. 7
di orientamento, dopo aver ricostruito le diverse e
contrastanti posizioni interpretative delle varie Sezioni
regionali ha preliminarmente affermato che
le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 “…..esprimono,
in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a
professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici
di incarichi consistenti in prestazioni d’opera
professionale e, pertanto, ove non ricorrano i presupposti
previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno
degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a
personale dipendente, al quale applicheranno le regole
generali previste per il pubblico impiego; il cui sistema
retributivo è basato sui due principi cardine di
onnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24,
comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nonché di
definizione contrattuale delle componenti economiche,
fissato dal successivo art. 45, comma 1. Principi alla luce
dei quali nulla è dovuto oltre il trattamento economico
fondamentale ed accessorio, stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione
rientrante nei suoi doveri d’ufficio….”.
Nel prosieguo, la Sezione delle Autonomie ha poi ritenuto
che il legislatore “……con le
disposizioni in esame, ha voluto riconoscere agli Uffici
tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso
ulteriore e speciale, derogando agli anzidetti principi. In
effetti, le previsioni contenute nell’art. 92 ai commi 5 e
6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di
incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati
principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni
singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento
e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga
riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque
denominato, da ripartire fra i dipendenti
dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto,
entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche. La
norma deve essere considerata, dunque, norma di stretta
interpretazione, non suscettibile di applicazione in via
analogica, alla luce del divieto posto dall’art.14 delle
disposizioni preliminari al codice civile, e neppure appare
possibile una lettura della definizione in essa contenuta
che attribuisca alla volontà del legislatore quanto dallo
stesso non esplicitato (lex minus dixit quam voluit)”.
In relazione a quanto sopra richiamato, i giudici della
nomofilachia hanno conclusivamente ritenuto che
ai “…...fini della riconoscibilità del diritto al
compenso incentivante, la corretta interpretazione delle
disposizioni in esame considera determinante, non tanto il
nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il
suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente
connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero
quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un
mero atto di pianificazione generale”, che costituisce il
presupposto per l’erogazione dell’incentivo. “Pertanto, ove
tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la
deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di
onnicomprensività e di definizione contrattuale delle
componenti del trattamento economico, alla luce dei quali,
nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale
ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al
dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei
suoi doveri d’ufficio….”.
Un siffatto principio, di natura assolutamente cogente e
valevole per tutte le fattispecie regolate dalla norma in
questione, affermato anche nella citato
parere 22.11.2013 n. 361
di questa Sezione, è stato vieppiù corroborato dalla
espressa previsione contenuta nell’art. 13 del D.L. 90/2014,
rubricato “Incentivi per la progettazione” che
all’articolo 92 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
aggiunge dopo il comma 6 il seguente comma 6-bis: "In
ragione della onnicomprensività del relativo trattamento
economico, al personale con qualifica dirigenziale non
possono essere corrisposte somme in base alle disposizioni
di cui ai commi 5 e 6.".
E, come sottolineato dalla citato
parere 22.11.2013 n. 361
di questa Sezione, la materia è demandata alle leggi ed ai
contratti collettivi nazionali, non derogabile a livello di
regolamento del singolo ente locale, che anzi dovrà
sottostare ai principi enunciati in chiave nomofilattica
dalla
deliberazione 15.04.2014 n. 7
Sez. Aut. citata, in relazione all’art. 6, comma 4, del
decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito con
modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213.
Alla luce di quanto sopra evidenziato deve
essere affrontata, dunque, la questione interpretativa
implicitamente posta dal quesito in merito all’ampiezza
della platea dei destinatari dell’incentivo di cui alla
norma in oggetto.
A tal fine, come si è accennato, l’amministrazione dovrà
preliminarmente (tenendo in debita evidenza il principio
interpretativo affermato dalla Sezione centrale), verificare
se il “contenuto specifico” del Piano di Assetto del
Territorio (PAT), sia “strettamente connesso alla
realizzazione di un’opera pubblica”, in quanto strumento
di pianificazione generale che individua preventivamente gli
interventi manutentivi e di realizzazione di nuove opere
pubbliche sul territorio che l'Amministrazione Comunale
intenderà attuare, e sia caratterizzato da “quel quid
pluris di progettualità interna”.
Una volta che l’amministrazione (la sola che detiene le
informazioni utili per detto accertamento), avrà confermato
l’esistenza di detto necessario presupposto legittimante
l’attribuzione dell’incentivo, si tratterebbe di verificare
l’ampiezza del novero dei destinatari dello stesso. Ciò, in
quanto il riferimento è ad una potenziale platea variegata
di dipendenti dell’ente (urbanisti, avvocati, agronomi,
geologi, informatici, geometri, periti, disegnatori) che, a
diverso titolo e con diversi apporti professionali,
potrebbero contribuire alla redazione dell’atto di
pianificazione cui si riferisce il comune di Mirano.
Proprio richiamando il dato testuale dell’articolo 92, comma
6, del D.lgs. n. 163/2006 emerge chiaramente come la platea
dei destinatari dell’incentivo (incentivo da ripartire con
criteri e modalità fissati ex ante da apposito
strumento regolamentare), possa essere ampia –con l’espressa
eccezione contenuta nel comma 6-bis- atteso che vi si
annoverano “….i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto…”.
Sul punto, tuttavia, in relazione all’esigenza di fissare
criteri idonei atti ad individuare detti dipendenti, appare
necessario preliminarmente richiamare il già citato
parere 22.11.2013 n. 361
di questa Sezione laddove si è affermato che
nella stesura di un documento di pianificazione
debba necessariamente attribuirsi “….alle specifiche
professionalità del personale tecnico la elaborazione di una
analisi che richiede una complessità superiore, frutto del
necessario, imprescindibile apporto di una pluralità di
professionalità”.
Va peraltro sottolineato che, secondo la prevalente
giurisprudenza (cfr. TAR Brescia, sez. I, 29.10.2008 n.
1466, Cons. St. Sez. IV 03.09.2001 n. 4620)
la redazione di un piano di lottizzazione e, in
genere, di uno strumento di pianificazione urbanistica
costituisce attività che richiede una competenza specifica
in tale settore attraverso una visione di insieme e la
capacità di affrontare e risolvere i problemi di carattere
programmatorio.
Il Collegio, conclusivamente, ritiene che
una volta valutato e verificato il collegamento tra
l’attività di pianificazione e la successiva realizzazione
dell’opera pubblica, i soggetti destinatari dell’incentivo
di cui trattasi siano i dipendenti dell’ente, in possesso
dei requisiti abilitanti (previsti dalla vigente normativa)
per eseguire prestazioni professionali, seppur in quota
parte, funzionali alla redazione dell’atto di
pianificazione.
Dipendenti appositamente individuati ed incaricati dalla
stessa amministrazione con specifico provvedimento, mentre
tra i destinatari dell’incentivo non potrà essere tuttavia
annoverato, a mente del citato art. 13 del D.L. 90/2014, il
personale con qualifica dirigenziale, in ragione della
onnicomprensività del relativo trattamento economico
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 24.07.2014 n. 403). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con
atto di regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto
modo di precisare come, nel caso della progettazione
interna, la prestazione dei dipendenti, in quanto riferita
direttamente all’amministrazione di appartenenza, è da
considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae",
risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di
pubblico impiego",
nell'ambito della cui disciplina, normativa e
contrattuale, vanno individuati i termini della relativa
retribuzione.
---------------
I punti fermi che il regolamento interno
(per la disciplina dell'incentivo) deve rispettare
paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti
espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori),
riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un
lavoro” (non, pertanto, per un appalto di
fornitura di beni o di servizi).
La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima
erogazione, il necessario espletamento interno di una o più
attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà
meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi
in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva
in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a
professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al
due per cento dell’importo a base di gara. Di
conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento
interno può essere stabilita in misura percentuale
inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante
alla base di gara (non all’importo oggetto del
contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei
lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione
e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter
dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla
fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle
lettere d’invito.
Quanto detto non esclude che, in sede di
regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione
dell’incentivo a più stringenti presupposti,
l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo
subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili
(responsabile del procedimento, progettista, direttore dei
lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle
quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni
non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che
impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno,
e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico
espletabile dal personale, in maniera tale da permettere,
nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a
professionisti esterni, la predetta devoluzione.
---------------
La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti”.
Nel caso in cui tale accertamento
sia invece negativo, la norma, adotta la medesima regola
della devoluzione in economia, prevista per il caso di
attività eseguita da professionisti esterni.
---------------
Circa il corretto significato da attribuire alla locuzione
“atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92,
comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il
condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale
di controllo per il Piemonte,
a tenore del quale, l’atto di pianificazione,
comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla
progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di
pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico
abilitato dipendente dell’amministrazione.
Si condivide l’argomentazione
secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento
del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla
circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione,
riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione
del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora
sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il
diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici
tecnici dell’Ente”.
---------------
L’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale
presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al
personale in servizio per la redazione di progetti, è
testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs.
163/2006, quale criterio da prendere in considerazione per
lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle
spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello
Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle
autonome locali.
In conclusione, ciò che rileva ai
fini della riconoscibilità del diritto al compenso
incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto
di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità
interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale
(piano regolatore o variante generale) che costituisce, al
contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale
dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante.
Salva la discrezionalità dell’amministrazione richiedente
nel determinare le scelte nel caso ipotizzato alla luce dei
principi sopra declinati, il collegio osserva che
la mera redazione di un progetto preliminare senza che si
sia ottenuto il finanziamento per appaltare l’opera pubblica
e in carenza di qualsivoglia titolo giuridico per l’impegno
della spesa di progettazione, non appare idonea a consentire
la corresponsione del compenso incentivante ai sensi
dell’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006.
---------------
Il sindaco del comune di Mezzanino (PV), mediante nota n.
961 del 15.05.2014, ha posto un quesito in merito alla
corretta interpretazione dell’art. 95, comma 5, del D.Lgs.
163/2006 .
Il sindaco riferisce che il comune, con deliberazione di
giunta comunale n. 16 del 22.10.2013 ha approvato il
progetto preliminare per la realizzazione di una scuola
dell'infanzia, finalizzato alla partecipazione del bando "6000
campanili" (di cui all'articolo 18, comma 9, del DL
69/2013, convertito con modificazioni dalla legge
09.08.2013, n. 98), dando atto che alla spesa necessaria per
la realizzazione dei lavori “si farà fronte con le
risorse rese disponibili dal Programma 6000 Campanili”.
Pertanto, non è stato assunto alcun impegno di spesa.
Il responsabile dell'area tecnica comunale (dipendente a
tempo indeterminato e titolare di posizione organizzativa) è
stato nominato RUP e ha predisposto il progetto preliminare
dell'opera.
Il comune di Mezzanino, all'esito del bando, non è risultato
utilmente collocato in graduatoria e pertanto non ha avuto
accesso alle risorse messe a disposizione dal citato
programma “6000 campanili”. In mancanza
dell'integrale finanziamento previsto, non è stata avviata
alcuna procedura per l'appalto e la realizzazione
dell'opera.
Il responsabile dell'area tecnica ha richiesto la
liquidazione dell'incentivo di cui all'art. 92, comma 5, del
D.Lgs. 163/2006 in relazione alla attività svolta in qualità
di RUP di progettista interno.
Ciò premesso il sindaco chiede se sia legittima la
corresponsione del compenso richiesto, anche in
considerazione dei seguenti aspetti:
• le risorse destinate all'incentivo ex art. 92, c. 5,
sono previste nel quadro economico dell'opera;
• l'opera è risultata non finanziata (mancato accesso ai
fondi del programma 6000 campanili);
• conseguentemente, non è stato possibile indire la
procedura di appalto;
• non risulta alcun impegno di spesa per la liquidazione
dell'incentivo;
• in caso di dovuta liquidazione dell'incentivo si
configurerebbe un debito fuori bilancio.
...
Con riferimento ai quesiti posti nel presente interpello, il
collegio evidenzia la sussistenza di un consolidato
orientamento consultivo, che può essere sintetizzato nelle
argomentazioni del precedente
parere 24.10.2012 n. 452 SRC Lombardia, in
relazione alla quale non si rilevano motivi idonei a mutarne
le conclusioni.
Si riporta in sintesi la citata deliberazione: “L’Autorità
di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di regolazione n.
6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di precisare come,
nel caso della progettazione interna, la prestazione dei
dipendenti, in quanto riferita direttamente
all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta
"ratione offici" e non "intuitu personae", risolvendosi "in
una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego"
(Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386),
nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale,
vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
Come evincibile dalla lettera del comma, la
legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto
incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri
e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa
contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno
deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione)
paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti
espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro”
(non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di
servizi).
La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima
erogazione, il necessario espletamento interno di una o più
attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà
meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi
in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva
in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a
professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al
due per cento dell’importo a base di gara. Di
conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento
interno può essere stabilita in misura percentuale
inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante
alla base di gara (non all’importo oggetto del
contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei
lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione
e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter
dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla
fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle
lettere d’invito
(cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture
n. 84 del 17/03/2008).
Quanto detto non esclude che, in sede di
regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione
dell’incentivo a più stringenti presupposti,
l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo
subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili
(responsabile del procedimento, progettista, direttore dei
lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote
del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non
svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di
prevedere analiticamente nel regolamento interno, e
graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico
espletabile dal personale, in maniera tale da permettere,
nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a
professionisti esterni, la predetta devoluzione
(si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18 e
deliberazione 02.05.2001 n. 150).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai
fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla
normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare,
dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 in base al
quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare
trattamenti economici accessori che non corrispondano alle
prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore
anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto
che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, nella
formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1
del d.l. n. 162/2008, dispone che “la
corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti”.
Nel caso in cui tale accertamento sia
invece negativo, la norma, adotta la medesima regola della
devoluzione in economia, prevista per il caso di attività
eseguita da professionisti esterni
(in proposito l’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici ha affermato, nella Deliberazione n. 69 del
22/06/2005, emessa nel previgente similare contesto
normativo, che l’incentivo assolve alla funzione di
compensare i progettisti dipendenti che abbiano in concreto
effettuato la redazione degli elaborati progettuali.
Pertanto, la previsione, da parte di un regolamento interno,
della corresponsione anche nell’ipotesi di progettazione
nella sostanza redatta da professionisti esterni, risulta in
contrasto con la ratio della disposizione
legislativa, concretando un’ipotesi di duplicazione di
spesa).
Per quanto concerne la prospettata questione
circa il corretto significato da attribuire alla
locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo
dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione
richiama il condivisibile orientamento espresso dalla
Sezione regionale di controllo per il Piemonte
(cfr.
parere 30.08.2012 n. 290), a
tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque
denominato, debba necessariamente riferirsi alla
progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di
pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico
abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi
alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la
ratio della disposizione (contenere i costi connessi
alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le
professionalità interne alla pubblica amministrazione),
si condivide l’argomentazione secondo cui “la
norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad
ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere
pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio,
sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun
compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici
dell’Ente” (in
termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr.
altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259,
parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che l’interesse
pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto
per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in
servizio per la redazione di progetti, è testualmente
previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs. 163/2006, quale
criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento
dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali
in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle
amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome
locali.
In conclusione, ciò che rileva ai fini
della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante
non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di
pianificazione, quanto il suo contenuto specifico
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità
interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale
(piano regolatore o variante generale) che costituisce, al
contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale
dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante.
Salva la discrezionalità dell’amministrazione richiedente
nel determinare le scelte nel caso ipotizzato alla luce dei
principi sopra declinati, il collegio osserva che
la mera redazione di un progetto preliminare senza che si
sia ottenuto il finanziamento per appaltare l’opera pubblica
e in carenza di qualsivoglia titolo giuridico per l’impegno
della spesa di progettazione, non appare idonea a consentire
la corresponsione del compenso incentivante ai sensi
dell’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.07.2014 n. 220). |
ENTI LOCALI: Sull'erogazioni
di contributi da parte dei comuni.
In
base alle norme e ai principi della contabilità pubblica,
non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente
locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove
queste siano necessarie per conseguire i propri fini
istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune il finanziamento, “anche se
apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un
depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo”.
---------------
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro
ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i
propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di
natura patrimoniale, le cautele debbono essere maggiori,
anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di
buon andamento, di parità di trattamento e di non
discriminazione che debbono caratterizzare l’attività
amministrativa.
Il finanziamento concesso a privati, in particolare, deve
essere tale da non incorrere nel divieto di spese per
sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del
decreto legge 31.05.2010, n. 78.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione
pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di
sponsorizzazione è la relativa funzione: la spesa di
sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di
segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così
da promuoverne l’immagine.
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno
d’iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini
istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente
locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti
privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che
(direttamente) da parte di Comuni e Province costituisce una
modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e
non una forma di promozione dell’immagine
dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la
concessione di contributi dal divieto di spese per
sponsorizzazioni, deve essere indicato dall’ente locale in
modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione è inoltre tenuta ad evidenziare i
presupposti di fatto e il percorso logico alla base
dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal
destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri
di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità
prescelte di resa del servizio.
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare
conforme al principio di congruità della spesa mediante una
valutazione comparativa degli interessi complessivi
dell’ente locale.
---------------
Con la nota sopra citata, a firma del vicesindaco del comune
di Asso (CO), si formulano i quesiti di seguito riportati.
- la Parrocchia, tramite l'Oratorio, intende organizzare un
campo estivo da svolgere durante la chiusura delle scuole a
favore di minori e di giovani.
Si chiede se è possibile erogare contributi comunali e di
quale entità a supporto delle spese che la stessa deve
sostenere per tale iniziativa, in considerazione della
funzione educativa e sociale svolta dalla Parrocchia
(tra l'altro riconosciuta dalla Legge Regionale 23.11.2001
n. 22).
- il Dirigente Scolastico dell'Istituto Comprensivo di Asso
ha manifestato la necessità di svolgere il servizio
dopo-scuola a favore di bambini e ragazzi.
Si chiede se il Comune può finanziare direttamente tale
iniziativa nell'ambito del Piano Diritto allo Studio,
affidando l'incarico alla Caritas locale.
...
L’esame del merito della questione, nei termini sopra
riferiti, richiede quindi di stabilire se ed entro quali
limiti un Comune possa finanziare soggetti privati per lo
svolgimento di determinate attività.
Si richiama, al riguardo, il consolidato orientamento
emergente dai pareri emessi sul punto da questa Sezione
(deliberazioni n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n.
26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n.
1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012)
nei quali è stato precisato che, in base
alle norme e ai principi della contabilità pubblica, non è
rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente
locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove
queste siano necessarie per conseguire i propri fini
istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine
di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle
finalità perseguite dal Comune il finanziamento, “anche
se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un
depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo”
(Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
deliberazione n. 262/2012/PAR).
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che la svolge e, in quanto
tale, riceve il contributo risulta indifferente, posto che
la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando,
per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici,
esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni
di ciascun ente), soggetti aventi natura privata.
Si consideri anche, sotto questo profilo, che l’art. 118
della Costituzione impone espressamente ai Comuni di
favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al
pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati
per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce
loro benefici di natura patrimoniale, le cautele debbono
essere maggiori, anche al fine di garantire l’applicazione
dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e
di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività
amministrativa.
Il finanziamento concesso a privati, in
particolare, deve essere tale da non incorrere nel divieto
di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6,
comma 9, del decreto legge 31.05.2010, n. 78.
Ciò che assume rilievo per qualificare una
contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale
spesa di sponsorizzazione è la relativa funzione: la spesa
di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di
segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così
da promuoverne l’immagine
(Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 23.12.2010 n. 1075).
Non si configura, invece, quale
sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di un soggetto
terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente
pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle
competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via
mediata, da soggetti privati destinatari di risorse
pubbliche piuttosto che (direttamente) da parte di Comuni e
Province costituisce una modalità alternativa di erogazione
del servizio pubblico e non una forma di promozione
dell’immagine dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad
escludere la concessione di contributi dal divieto di spese
per sponsorizzazioni, deve essere indicato dall’ente locale
in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione è inoltre tenuta ad
evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla
base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal
destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri
di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità
prescelte di resa del servizio.
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare
conforme al principio di congruità della spesa mediante una
valutazione comparativa degli interessi complessivi
dell’ente locale.
Il Comune potrà avvalersi delle predette indicazioni per
l’adozione degli atti di esclusiva competenza rispetto alle
fattispecie concrete descritte nella richiesta di parere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.07.2014 n. 218). |
ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
Chiarimenti sulla disciplina del riconoscimento dei debiti
fuori bilancio.
Il procedimento di riconoscimento del
debito fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare
un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente,
all’interno della sfera patrimoniale dell’ente,
ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano
dell’adempimento.
Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio
di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini
di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge
attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di
esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e
di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura
(procedura ex art. 194 TUEL).
La funzione di tale procedura è
quella di consentire a debiti sorti al di fuori della
legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare
nella contabilità dell’ente.
----------------
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori
bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o
arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano
debiti per cui si è proceduto a regolare impegno
(amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per
fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della
prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di
copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile
ai sensi dell’art. 191 TUEL).
Proprio perché le passività pregresse si pongono all’interno
di una regolare procedura di spesa, esulano dalla
fenomenologia del debito fuori bilancio e costituiscono,
invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile
all’esercizio di loro manifestazione.
In tali casi, lo strumento
procedimentale di spesa è costituito dalla procedura
ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla
eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le
risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
---------------
Quando nell’anno di competenza
finanziaria non è stata attivata la procedura di spesa
ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella
contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è
la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi
eccezionali ivi tipicamente indicati.
Nel caso di specie, invece, risulta
evidente che il debito in questione, è, per competenza
finanziaria, riferibile solo all’anno delle liquidazione
degli importi.
Anche in considerazione del dato che detta posta non rientra
tra i casi tassativamente elencati di riconoscimento fuori
bilancio, quindi, nel caso di specie, non paiono sussistere
i requisiti per il ricorso a tale procedura, atteso che il
comune ben poteva, e potrà, procedere a stanziare le somme
necessarie nella programmazione finanziaria di propria
competenza per il periodo interessato.
Resta invece salva la facoltà di un
riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti
limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dal
comune a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà
essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente
prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di
responsabilità connessi a esborsi illegittimi.
---------------
Il sindaco del comune in epigrafe richiede chiarimenti sulla
disciplina del riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
In particolare, espone che il comune, con atto consiliare,
ha approvato una convenzione per la cessione in proprietà di
un suolo da sistemare ad area verde e parcheggi;
successivamente la suddetta convenzione è stata sottoscritta
dalle parti.
Nella succitata convenzione era previsto l’impegno del
comune a versare ai proprietari la somma dell’area la somma
di euro 40.000, a seguito del collaudo finale delle opere.
Successivamente, i proprietari hanno eseguito le opere,
come da convenzione, e hanno comunicato l’intendimento di
cederle al comune previo pagamento del corrispettivo;
tuttavia è stato accertato che all’epoca nessuno
stanziamento era stato predisposto.
Il comune chiede quindi se possa procedere legittimamente
al riconoscimento del debito fuori bilancio, ai sensi
dell'art. 194 del T.U. n. 267/2000 e procedere al pagamento
di quanto convenuto.
...
La Sezione ha già avuto modo in diverse occasioni di
occuparsi della tematica dei debiti fuori bilancio (da
ultimo
parere 22.07.2013 n. 339; e
parere 05.02.2014 n. 41) con considerazioni da cui non sussiste motivo per
discostarsi.
Si deve ricordare che, il procedimento di
riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento
giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente
perfezionata ed esistente, all’interno della sfera
patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà
amministrativa sul piano dell’adempimento. Il procedimento
mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la
legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”,
cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente,
e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle
stesse in modo conforme all’ordinamento) e di
sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura
(procedura ex art. 194 TUEL). La funzione
di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al
di fuori della legittima procedura di spesa e di
stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
Al fine di evitare l’insorgere di situazioni debitorie non
assistite dai relativi impegni, il legislatore ha previsto
che solo in alcuni casi tassativi tali debiti possano essere
riconosciuti, attraverso il procedimento di riconoscimento
di legittimità di debiti fuori bilancio; ciò è infatti
possibile solo qualora tali debiti derivino da: “a)
sentenze esecutive; b) copertura di disavanzi di consorzi,
di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli
obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti
costitutivi, purché sia stato rispettato l’obbligo di
pareggio del bilancio di cui all’articolo 114 ed il
disavanzo derivi da fatti di gestione; c)
ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal
codice civile o da norme speciali, di società di capitali
costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali; d)
procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere
di pubblica utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in
violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3
dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito
dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza” (art. 194, comma 1, lett. a)-e), Tuel)”.
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti
fuori bilancio”, si collocano le c.d. “passività
pregresse” o arretrate, spese che, a differenze dei
primi, riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare
impegno
(amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL)
ma che, per fatti non prevedibili, di norma
collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad
un debito in assenza di copertura
(mancanza o insufficienza dell’impegno contabile ai sensi
dell’art. 191 TUEL). Proprio perché le
passività pregresse si pongono all’interno di una regolare
procedura di spesa, esulano dalla fenomenologia del debito
fuori bilancio
(cfr., in proposito, la recente deliberazione di questa
Sezione in merito al caso delle prestazioni professionali,
n. 441/2012/PAR) e costituiscono, invero,
debiti la cui competenza finanziaria è riferibile
all’esercizio di loro manifestazione.
In tali casi, lo strumento procedimentale
di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa
(art. 191 TUEL), accompagnata dalla eventuale variazione di
bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano
insufficienti (art. 193 TUEL).
Tanto premesso circa la funzione e l’effetto della procedura
di riconoscimento e alla distinzione della fenomenologia
delle passività pregresse e dei debiti fuori bilancio, per
rispondere al quesito qui posto è opportuno rammentare i
criteri attraverso cui, in contabilità finanziaria, i debiti
assumono rilevanza e vanno imputati ai bilanci degli enti
pubblici.
In base al principio dell’annualità, i documenti di bilancio
devono rappresentare, a cadenza annuale, fatti che
finanziariamente si riferiscano ad un periodo di gestione
coincidente con l’esercizio finanziario, in modo che siano
rese evidenti tutte le poste di entrata e di spesa che
afferiscono in termini sostanziali al corso dell’anno di
riferimento. Solo così il bilancio potrà servire
correttamente alla sua funzionalità di controllo, sia in
chiave autorizzatoria (bilancio di previsione) che ispettiva
(rendiconto).
Si deve rammentare, infatti, che in contabilità finanziaria,
un debito rileva nella misura in cui esso è certo, liquido e
esigibile. Detto in altri termini, è assai frequente che vi
sia un disallineamento tra esistenza giuridica e rilevanza
contabile di un debito. Un debito, infatti, assume rilevanza
contabile solo se sono venute a maturazione tutte le
condizioni per il suo adempimento pecuniario, in particolare
se il debito è “certo” (non contestato nell’an
e/o nel quantum), liquidato o di pronta liquidazione
(cioè è stato determinato nel suo ammontare) ed è esigibile
(scadenza del termine). Solo la concorrenza di queste
condizioni radica la “competenza finanziaria”.
In presenza di tali condizioni è possibile attivare
dell’ordinaria procedura di spesa (adozione del
provvedimento amministrativo; assunzione dell’impegno di
spesa; presenza e attestazione della copertura finanziaria;
cfr. l’art. 191 T.U.E.L.), nei limiti degli stanziamenti
autorizzati. Tale procedura di spesa consente non solo di
dare rilevanza nel bilancio al debito, ma costituisce il
titolo per l’imputazione istituzionale del debito.
Ciò comporta, altresì, che il tempo dell’esistenza giuridica
di una posta passiva, della manifestazione finanziaria
(competenza finanziaria) e quello della competenza economica
tendono a disallinearsi, vale a dire l’imputazione temporale
di un costo è di norma diversa da quella che caratterizza
l’esigibilità del credito da parte del creditore.
La competenza finanziaria, infatti, va tenuta radicalmente
distinta dalla competenza economica, secondo cui un debito
non è rilevante in base alla sua dimensione di “spesa”
(cioè l’essersi un debito manifestato finanziariamente, in
quanto liquidabile ed esigibile) ma di “costo”
(debito, anche di valore e non solo di valuta, sostenuto per
l’acquisto dei fattori produttivi che hanno sostenuto il
ciclo annuale di produzione). Detto in altri termini, a
livello contabile, un debito può avere una competenza
annuale (economica) disallineata rispetto alla sua
manifestazione finanziaria (competenza finanziaria), che può
essere anteriore o successiva.
Tanto premesso, quando nell’anno di
competenza finanziaria non è stata attivata la procedura di
spesa ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella
contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è
la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi
eccezionali ivi tipicamente indicati.
Nel caso di specie, invece, risulta
evidente che il debito in questione, è, per competenza
finanziaria, riferibile solo all’anno delle liquidazione
degli importi.
Anche in considerazione del dato che detta posta non rientra
tra i casi tassativamente elencati di riconoscimento fuori
bilancio, quindi, nel caso di specie, non paiono sussistere
i requisiti per il ricorso a tale procedura, atteso che il
comune ben poteva, e potrà, procedere a stanziare le somme
necessarie nella programmazione finanziaria di propria
competenza per il periodo interessato.
Resta invece salva la facoltà di un
riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti
limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dal
comune a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà
essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente
prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di
responsabilità connessi a esborsi illegittimi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.07.2014 n. 212). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Il
quesito posto dal comune volto a conoscere se, stante
l’obbligo previsto (all’atto della formulazione della
richiesta di parere) dall’articolo 33, comma 3-bis, del
Codice dei contratti pubblici, del ricorso ad una unica
centrale di committenza, la stessa centrale
(qualora costituita mediante accordo convenzionale, ai sensi
dell’articolo 30 del “d.p.r. 267/2000”)
potesse comunque far riferimento ad altri mercati
elettronici presenti nell’ambito della pubblica
amministrazione, senza costituirne uno proprio sembra, ad
oggi, avere trovato risposta attraverso la nuova
formulazione del comma 3-bis del sopra citato articolo 33,
come sostituito dall’articolo 9, comma 4, d.l. 66/2014,
convertito dalla l. n. 89 del 23.06.2014), il quale non
prevede più l’esclusivo affidamento ad una unica centrale di
committenza, da costituirsi obbligatoriamente tra i comuni
fino a cinquemila abitanti ricadenti nel territorio di
ciascuna provincia, potendo gli enti in oggetto, pur
continuando a procedere all’acquisizione nell’ambito delle
unioni di comuni di cui all’articolo 32 del TUEL, ove
esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile
tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici,
anche ricorrere ad altro soggetto aggregatore o alle
province stesse, ai sensi della l. 07.04.2014 n. 56, ferma
restando l’alternativa dell’acquisizione di beni e servizi
attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da
altre centrali di committenza di riferimento (che, con
questa ultima formulazione della norma, sono individuati
negli “strumenti elettronici gestiti da Consip spa o da
altro soggetto aggregatore di riferimento”).
Ciò che, in definitiva, sembra emergere dalla novella
legislativa ad ancor più chiare lettere, è
la rafforzata esigenza di tutela delle pubbliche risorse,
che ogni ente deve poter perseguire, anche attraverso forme
di acquisizione di beni e servizi basate su gestioni che
rispettino il più possibile il miglior rapporto
prezzo-qualità, attuate attraverso l’ampia gamma di
possibilità poste a loro disposizione dalla legge per la
gestione dei propri contratti.
---------------
Il Sindaco del comune di Atena Lucana chiede a questa Corte
un parere in merito alle esatte modalità di applicazione
dell’articolo 33, comma 3-bis, del decreto legislativo
163/2006 (codice degli appalti), nei termini che
seguono.
Il Comune istante, considerando che l’articolo
sopracitato obbliga i comuni con popolazione inferiore ai
cinquemila abitanti, ai fini dell’acquisto di beni e
servizi, al ricorso a una centrale di committenza, chiede se
la stessa, costituita mediante accordo convenzionale “ai
sensi dell’articolo 30 del d.p.r. n. 267/2000”, laddove
non voglia realizzare ad hoc un proprio mercato
elettronico, possa far riferimento al mercato elettronico
MEPA (mercato elettronico della pubblica amministrazione),
gestito da Consip o ad altri mercati elettronici realizzati
da altre centrali di committenza, istituite da altri enti
pubblici territoriali o organismi di diritto pubblico,
possibilità prevista dalla norma quale alternativa alla
costituzione di una centrale di committenza specificamente
dedicata.
...
La richiesta di parere in esame (formulata dall’ente in data
12.03.2014) si pone a valle delle numerose modifiche, fino
ad allora apportate all’art. 33 del d.lgs. n. 163/2006 ad
opera di susseguenti interventi legislativi dei quali si
intende, di seguito, dare conto.
Il comma 3-bis è stato inserito nell’art. 33 del d.lgs.
163/2006 ai sensi dell’art. 23, comma 4 e 5, del d.l.
06.12.2011 n. 201, convertito con modificazioni nella legge
22.12.2011, n. 214, nell’ambito di un complessivo programma
(poi proseguito con le statuizioni previste dall’articolo 1,
comma 4, del d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito dalla l.
07.08.2012 n. 135, e dall’articolo 1, comma 343, della l.
27.12.2013, n. 147), volto, tra l’altro, alla riduzione
della spesa e dei costi degli apparati pubblici.
La novella del 2011 introduce un regime
speciale per gli acquisti di lavori, servizi e forniture da
parte dei Comuni con popolazione non superiore a 5.000
abitanti (quale
quello di Atena Lucana), a norma del quale
i suddetti enti “... ricadenti nel territorio di ciascuna
Provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di
committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture
nell’ambito delle unioni dei comuni, di cui all’articolo 32
del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo
consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei
competenti uffici”.
La ratio sottesa al disposto in
questione, come emerge dalla relativa relazione tecnica, è “limitare
l’elevata frammentazione del sistema degli appalti pubblici
e la concentrazione delle procedure di evidenza pubblica, al
fine di ridurre i costi di gestione delle procedure e di far
ottenere risparmi di spesa, quantificabili a consuntivo, per
le conseguenti economie di scala”.
Il comma 5 dell’art. 23 del D.L. 201/2011 aveva
originariamente previsto che il comma 3-bis della norma in
questione, si applicasse alle “gare bandite”
successivamente al 31.03.2012. Detto termine è stato da
ultimo posticipato al 30.06.2014 (cfr. d.l. 30.12.2013 n.
150, convertito con modificazioni dalla l. 27.02.2014, n.
15).
Nel 2012, il legislatore, con il d.l. 95/2012 (“spending
review”) ha ulteriormente inciso su tale disposto,
concedendo ai suddetti comuni la possibilità di adempiere
all’obbligo di acquisto centralizzato ricorrendo anche agli
“strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre
centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le
convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999,
n. 488 e il mercato elettronico della pubblica
amministrazione di cui all'articolo 328 del decreto del
Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207”.
Nel 2013, con la legge di stabilità 2014 (l. 27.12.2013 n.
147, art. 1, comma 343), anche in considerazione dei dubbi
sorti in merito alla latitudine applicativa del complesso di
norme in questione, ne sono stati chiariti i connotati
precettivi, stabilendo che il regime di
acquisto centralizzato prescritto ai sensi del comma 3-bis
non si applica nel caso di acquisti in economia, mediante
amministrazione diretta e nei casi di affidamento diretto di
cui ai commi 8, seconda parte e 11, seconda parte dell’art.
125 del d.lgs. 163/2006.
Appare utile ricordare in che modo la disciplina sopra
descritta si integri con le coesistenti norme, previste e
più volte variate da interventi legislativi, in materia di
acquisto di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni,
norme tutte volte, a partire dalla citata l. 488/1999 (art.
26), alla centralizzazione degli acquisti in vista della
riduzione dei costi della pubblica amministrazione, ed in
particolare:
- il suddetto articolo 26 della l. 488/2009, nella prima
versione, nel prevedere l’adesione necessaria delle
amministrazioni statali alle convenzioni centralizzate,
lasciava nella disponibilità di quelle non statali, tra cui
quelle locali, la scelta di aderirvi o meno obbligandole,
però, a utilizzarne i parametri di qualità prezzo e, nella
seconda versione (riformulata con d. l. 168/2004), escludeva
i comuni con popolazione fino a mille abitanti e quelli
montani fino a 5000 abitanti;
- successivamente la materia veniva ridisciplinata dalla l.
27.12.2006 n. 296 (finanziaria 2007, art. 1, comma 449), sia
con riguardo agli appalti sopra soglia che quelli sotto
soglia stabilendo, per i primi, l’obbligo per le
amministrazioni statali di approvvigionarsi attraverso le
convenzioni-quadro Consip, limitatamente ad alcune categorie
di beni e servizi ben individuati, ribadendo la facoltà
delle restanti amministrazioni di ricorrere alle convenzioni
(quelle stipulate da Consip o da centrali di committenza
regionali – di cui al comma 456, dell’art. 1, stessa legge,
e il vincolo di utilizzarne alternativamente i parametri di
prezzo-qualità come limiti massimi negli acquisti) e, per i
secondi –comma 450- imponendo l’obbligo alle amministrazioni
dello Stato di ricorrere al mercato elettronico della
pubblica amministrazione, nulla disponendo riguardo alle
altre amministrazioni;
- i due commi (449 e 450) dell’articolo 1 della l. n. 296
del 2006 venivano poi modificati dall’articolo 7 del d. l.
07.05.2012 n. 52, convertito dalla l. 06.07.2012 n. 94, nel
senso (comma 449) di estendere l’obbligo di
approvvigionamento attraverso le convenzioni quadro Consip a
tutte le tipologie di beni e servizi acquistabili dalle
amministrazioni statali e innovando (comma 450) la
disciplina prevista per le amministrazioni diverse da quelle
statali, e quindi anche per le autonomie locali, cui è stato
imposto il ricorso al mercato della pubblica
amministrazione, analogamente alle amministrazioni dello
Stato, fatto salvo il rispetto del sistema delle convenzioni
previsto nel ridetto comma 449;
- si ricorda, da ultimo, il dpr 207/2010 - Regolamento di
esecuzione del codice dei contratti pubblici che,
all’articolo 328 prevede, fatti salvi i casi di ricorso
obbligatorio al mercato elettronico di cui alle norme in
vigore, che la stazione appaltante “può stabilire di
procedere all’acquisto di beni e servizi attraverso il
mercato elettronico della pubblica amministrazione
realizzato dal Ministero dell’economia e delle finanze sulle
proprie infrastrutture tecnologiche avvalendosi di Consip
s.p.a., ovvero attraverso il mercato elettronico realizzato
dalle centrali di committenza di riferimento di cui
all’articolo 33 del codice”.
Ebbene, il quesito posto dal comune istante,
come sopra rappresentato, volto a conoscere
se, stante l’obbligo previsto (all’atto della formulazione
della richiesta di parere) dall’articolo 33, comma 3-bis,
del Codice dei contratti pubblici, del ricorso ad una unica
centrale di committenza, la stessa centrale
(qualora costituita mediante accordo convenzionale, ai sensi
dell’articolo 30 del “d.p.r. 267/2000”)
potesse comunque far riferimento ad altri mercati
elettronici presenti nell’ambito della pubblica
amministrazione, senza costituirne uno proprio sembra, ad
oggi, avere trovato risposta attraverso la nuova
formulazione del comma 3-bis del sopra citato articolo 33,
come sostituito dall’articolo 9, comma 4, d.l. 66/2014,
convertito dalla l. n. 89 del 23.06.2014), il quale non
prevede più l’esclusivo affidamento ad una unica centrale di
committenza, da costituirsi obbligatoriamente tra i comuni
fino a cinquemila abitanti ricadenti nel territorio di
ciascuna provincia, potendo gli enti in oggetto, pur
continuando a procedere all’acquisizione nell’ambito delle
unioni di comuni di cui all’articolo 32 del TUEL, ove
esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile
tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici,
anche ricorrere ad altro soggetto aggregatore o alle
province stesse, ai sensi della l. 07.04.2014 n. 56, ferma
restando l’alternativa dell’acquisizione di beni e servizi
attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da
altre centrali di committenza di riferimento (che, con
questa ultima formulazione della norma, sono individuati
negli “strumenti elettronici gestiti da Consip spa o da
altro soggetto aggregatore di riferimento”).
Ciò che, in definitiva, sembra emergere dalla novella
legislativa ad ancor più chiare lettere, è
la rafforzata esigenza di tutela delle pubbliche risorse,
che ogni ente deve poter perseguire, anche attraverso forme
di acquisizione di beni e servizi basate su gestioni che
rispettino il più possibile il miglior rapporto
prezzo-qualità, attuate attraverso l’ampia gamma di
possibilità poste a loro disposizione dalla legge per la
gestione dei propri contratti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 10.07.2014 n. 180). |
GIURISPRUDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI: I
consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati
ad agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che
il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle
controversie tra organi o componenti di organi dello stesso
ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive;
pertanto, l'impugnativa di singoli consiglieri può
ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti
incidenti in via diretta sul diritto all'ufficio dei
medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona
investita della carica di consigliere.
Più in particolare si è affermato che le violazioni delle
regole procedurali che possono far sorgere la legittimazione
in capo al singolo consigliere comunale devono attenere ai
seguenti profili:
a) erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare;
b) violazione dell'ordine del giorno;
c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria
per poter liberamente e consapevolmente deliberare;
d) più in generale, preclusione in tutto o in parte
dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico
rivestito.
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, i consiglieri comunali, in quanto tali,
non sono legittimati ad agire contro l'amministrazione di
appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di
regola aperto alle controversie tra organi o componenti di
organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere
controversie intersoggettive; pertanto, l'impugnativa di
singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto allorché
vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto
all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante
alla persona investita della carica di consigliere (cfr. ex multis TAR Puglia Lecce, sez. II, 28.11.2013 n.
2388).
Più in particolare si è affermato che le violazioni delle
regole procedurali che possono far sorgere la legittimazione
in capo al singolo consigliere comunale devono attenere ai
seguenti profili: a) erronee modalità di convocazione
dell'organo consiliare; b) violazione dell'ordine del
giorno; c) inosservanza del deposito della documentazione
necessaria per poter liberamente e consapevolmente
deliberare; d) più in generale, preclusione in tutto o in
parte dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico
rivestito (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 24.03.2011 n.
1771; TAR Lombardia Milano, sez. II, 01.07.2013, n. 1683)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 1433 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Nell'ordinamento
contabile degli enti locali la delibera consiliare di
approvazione del bilancio di previsione rappresenta l'atto
attraverso cui il Consiglio Comunale autorizza
preventivamente, all'inizio dell'anno, le spese e le entrate
previste in termini valoristici nel bilancio, ovvero nel
documento contabile, predisposto dall'esecutivo, con
funzione programmatoria, in cui sono elencate tutte le spese
che saranno sostenute nel corso dell'esercizio di
riferimento e tutte le entrate che serviranno per
finanziarle, ovvero sono programmate tutte le attività e
sono destinate le risorse ai servizi che il comune eroga.
L’approvazione del bilancio consente, dunque, il preventivo
controllo democratico sulla gestione finanziaria,
indirizzandola verso il miglior utilizzo delle risorse, al
fine del soddisfacimento dei bisogni della collettività di
riferimento.
Ai sensi dell'art. 162 del D.lgs. n. 267 del 2000 “gli enti
locali deliberano annualmente il bilancio di previsione
finanziario redatto in termini di competenza, per l’anno
successivo, osservando i principi di unità, annualità,
universalità ed integrità, veridicità, pareggio finanziario
e pubblicità.”
Da tali principi, che sostanzialmente rispecchiano quelli
involgenti il bilancio dello Stato, si ricava, come
precisato dal Consiglio di Stato in una recente sentenza che
"Le previsioni dei bilanci che si susseguono anno dopo anno
e le poste dei bilanci annuali e di quelli pluriennali
devono, per il principio di unitarietà del bilancio trovare
corrispondenza fra loro. Ciò comporta che ogni atto di
bilancio debba trovare il suo fondamento in un atto
anteriore e presupposto, in modo che sia assicurata al
contempo l’unitarietà della finanza pubblica e la continuità
e coerenza delle scritturazioni".
Il bilancio di previsione, poi, presuppone le risultanze
contabili dell'esercizio precedente, che per i principi di
continuità ed universalità dei bilanci, si saldano a quelle
dell'anno immediatamente successivo, rappresentandone la
premessa imprescindibile delle nuove previsioni di entrata e
di spesa.
Ne deriva che sussiste un nesso di conseguenzialità tra il
rendiconto annuale e il bilancio di previsione dell’anno
successivo che trova il suo ineludibile presupposto nel
primo. Ne deriva che se i vizi fatti valere contro il
provvedimento che ha approvato il rendiconto annuale non
vengono reiterati nei confronti della delibera che approva
il bilancio di previsione, viene meno l’interesse ad agire
dei ricorrenti, in quanto l’annullamento della delibera che
ha approvato il rendiconto annuale non comporterebbe alcun
beneficio per i ricorrenti medesimi, perché la lesione per
gli stessi sarebbe reiterata dal bilancio di previsione non
impugnato.
Nell'ordinamento
contabile degli enti locali la delibera consiliare di
approvazione del bilancio di previsione rappresenta l'atto
attraverso cui il Consiglio Comunale autorizza
preventivamente, all'inizio dell'anno, le spese e le entrate
previste in termini valoristici nel bilancio, ovvero nel
documento contabile, predisposto dall'esecutivo, con
funzione programmatoria, in cui sono elencate tutte le spese
che saranno sostenute nel corso dell'esercizio di
riferimento e tutte le entrate che serviranno per
finanziarle, ovvero sono programmate tutte le attività e
sono destinate le risorse ai servizi che il comune eroga.
L’approvazione del bilancio consente, dunque, il preventivo
controllo democratico sulla gestione finanziaria,
indirizzandola verso il miglior utilizzo delle risorse, al
fine del soddisfacimento dei bisogni della collettività di
riferimento.
Ai sensi dell'art. 162 del D.lgs. n. 267 del 2000 “gli enti
locali deliberano annualmente il bilancio di previsione
finanziario redatto in termini di competenza, per l’anno
successivo, osservando i principi di unità, annualità,
universalità ed integrità, veridicità, pareggio finanziario
e pubblicità.”
Da tali principi, che sostanzialmente rispecchiano quelli
involgenti il bilancio dello Stato, si ricava, come
precisato dal Consiglio di Stato in una recente sentenza
(sez. V n. 2457/2010) che "Le previsioni dei bilanci che si
susseguono anno dopo anno e le poste dei bilanci annuali e
di quelli pluriennali devono, per il principio di unitarietà
del bilancio trovare corrispondenza fra loro. Ciò comporta
che ogni atto di bilancio debba trovare il suo fondamento in
un atto anteriore e presupposto, in modo che sia assicurata
al contempo l’unitarietà della finanza pubblica e la
continuità e coerenza delle scritturazioni".
Il bilancio di previsione, poi, presuppone le risultanze
contabili dell'esercizio precedente, che per i principi di
continuità ed universalità dei bilanci, si saldano a quelle
dell'anno immediatamente successivo, rappresentandone la
premessa imprescindibile delle nuove previsioni di entrata e
di spesa.
Ne deriva che sussiste un nesso di conseguenzialità tra il
rendiconto annuale e il bilancio di previsione dell’anno
successivo che trova il suo ineludibile presupposto nel
primo. Ne deriva che se i vizi fatti valere contro il
provvedimento che ha approvato il rendiconto annuale non
vengono reiterati nei confronti della delibera che approva
il bilancio di previsione, viene meno l’interesse ad agire
dei ricorrenti, in quanto l’annullamento della delibera che
ha approvato il rendiconto annuale non comporterebbe alcun
beneficio per i ricorrenti medesimi, perché la lesione per
gli stessi sarebbe reiterata dal bilancio di previsione non
impugnato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 1433 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la distinzione
del vincolo archeologico
diretto da
quello indiretto bisogna dire che il primo è connesso all'effettivo
ritrovamento, o alla certezza dell'esistenza di reperti
archeologici, mentre il vincolo cosiddetto indiretto può
essere imposto su beni ed aree circostanti a quelli oggetto
di vincolo diretto, per garantire la migliore visibilità o
fruizione di questi ultimi, ovvero migliori condizioni
ambientali o di decoro;
L'individuazione e le modalità di
tutela dei beni soggetti a vincolo costituisce espressione
di discrezionalità tecnica dell'Amministrazione,
insindacabile nel merito, ma soggetta a sindacato di
legittimità in rapporto ai consueti parametri di corretto
apprezzamento dei presupposti di fatto e congruità delle
valutazioni, con possibilità di riscontro di tali fattori -indice di completezza dell'istruttoria espletata e di
logicità delle conclusioni tratte- in base alla motivazione
del provvedimento conclusivo, da cui deve potersi desumere
l'adeguatezza del sacrificio imposto ai privati proprietari,
nel superiore interesse pubblico perseguito.
Va, peraltro, evidenziato che il vincolo archeologico poiché
comporta, comunque, un sacrificio per il proprietario deve
essere imposto solo laddove sia necessario. Sul punto la
giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, ha precisato
che per rendere legittimo il provvedimento di vincolo è
comunque necessario che la Soprintendenza dimostri, anche
solo in via indiziaria, la rilevanza archeologica della più
vasta area in cui non sono stati rilevati reperti né dati
sufficientemente univoci della letteratura scientifica di
riferimento.
L’Amministrazione dei beni culturali ed ambientali può
estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati
ruderi archeologici particolarmente importanti, ma in tal
caso è necessario che i ruderi stessi costituiscano un
complesso unitario ed inscindibile, tale da rendere
indispensabile il sacrificio totale degli interessi dei
proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni meno
radicali, evitandosi, in ogni caso, che l'imposizione della
limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità di
pubblico interesse cui è preordinata.
In via generale occorre evidenziare come
bisogna distinguere il vincolo archeologico diretto da
quello indiretto.
Il primo è connesso all'effettivo
ritrovamento, o alla certezza dell'esistenza di reperti
archeologici, mentre il vincolo cosiddetto indiretto può
essere imposto su beni ed aree circostanti a quelli oggetto
di vincolo diretto, per garantire la migliore visibilità o
fruizione di questi ultimi, ovvero migliori condizioni
ambientali o di decoro; l'individuazione e le modalità di
tutela dei beni soggetti a vincolo costituisce espressione
di discrezionalità tecnica dell'Amministrazione,
insindacabile nel merito, ma soggetta a sindacato di
legittimità in rapporto ai consueti parametri di corretto
apprezzamento dei presupposti di fatto e congruità delle
valutazioni, con possibilità di riscontro di tali fattori -indice di completezza dell'istruttoria espletata e di
logicità delle conclusioni tratte- in base alla motivazione
del provvedimento conclusivo, da cui deve potersi desumere
l'adeguatezza del sacrificio imposto ai privati proprietari,
nel superiore interesse pubblico perseguito (cfr. in tal
senso, TAR sez. I Campobasso , Molise, 11/04/2014, n.
240 e Cons. St., sez. VI, 04.08.2008, n. 3880).
Va, peraltro, evidenziato che il vincolo archeologico poiché
comporta, comunque, un sacrificio per il proprietario deve
essere imposto solo laddove sia necessario. Sul punto la
giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, ha precisato
che per rendere legittimo il provvedimento di vincolo è
comunque necessario che la Soprintendenza dimostri, anche
solo in via indiziaria, la rilevanza archeologica della più
vasta area in cui non sono stati rilevati reperti né dati
sufficientemente univoci della letteratura scientifica di
riferimento.
L’Amministrazione dei beni culturali ed
ambientali può estendere il vincolo ad intere aree in cui
siano disseminati ruderi archeologici particolarmente
importanti, ma in tal caso è necessario che i ruderi stessi
costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da
rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi
dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni
meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l'imposizione
della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità
di pubblico interesse cui è preordinata (cfr., TAR
Campobasso (Molise), cit.)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.07.2014 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’adozione
di un provvedimento esplicito (anche non satisfattivo
dell’interesse fatto valere) in risposta all’istanza
dell’interessato, rende il ricorso inammissibile per carenza
originaria dell’interesse ad agire, se il provvedimento
interviene prima della proposizione del ricorso.
Ciò in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale
mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di
inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell’obbligo
di concludere il procedimento con un provvedimento espresso
entro i termini all’uopo previsti; nel caso in cui il
provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, il
soggetto interessato è tutelato dalla normativa in materia
che consente di proporre contro di esso una nuova
impugnazione, anche ex art. 117 c. p. a., con motivi
aggiunti.
In giurisprudenza, si tenga presente, a sostegno
della decisione assunta dal Tribunale, la massima che segue:
“L’adozione di un provvedimento esplicito (anche non satisfattivo dell’interesse fatto valere) in risposta
all’istanza dell’interessato, rende il ricorso inammissibile
per carenza originaria dell’interesse ad agire, se il
provvedimento interviene prima della proposizione del
ricorso. Ciò in quanto il privato ha ottenuto il risultato
al quale mira il giudizio, ossia il superamento della
situazione di inerzia procedimentale e di
violazione/elusione dell’obbligo di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso entro i termini
all’uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento
sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, il soggetto
interessato è tutelato dalla normativa in materia che
consente di proporre contro di esso una nuova impugnazione,
anche ex art. 117 c. p. a., con motivi aggiunti” (Consiglio
di Stato – Sez. VI, 17/01/2014, n. 233)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 29.07.2014 n. 1420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ai
fini della sussistenza del presupposto legittimante per
l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un
interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede
l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse
legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque
giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il
generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon
andamento della attività amministrativa, ed un rapporto di
strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui
si chiede l’ostensione.
Tale nesso di strumentalità deve, peraltro, essere inteso in
senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve
essere, genericamente, mezzo utile per la difesa
dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di
prova diretta della lesione di tale interesse.
In sostanza, l’interesse all’accesso ai documenti va
valutato in astratto, senza che possa essere operata, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante.
---------------
Non può negarsi che la società ricorrente vanti un interesse
qualificato ed una certa legittimazione ad accedere alla
documentazione negata, posta l’inconfigurabilità di esigenze
di tutela di riservatezza ed essendo del tutto evidente la
propria posizione differenziata e la titolarità di una
posizione giuridica soggettiva, anche meramente potenziale,
in conformità al disposto dell’art. 24, comma 7, della l.
241/1990, dove è chiarito che <deve comunque essere
garantito l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici>, nonché tenuto presente che, per la
giurisprudenza: “Il contribuente vanta un interesse concreto
e attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle
fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui
conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali
tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della
pretesa impositiva (in tal senso l’art. 22 comma 1, lett.
b), 1. n. 241/1990)”.
Come opportunamente rilevato da parte
ricorrente, infatti, in materia deve trovare applicazione
l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa, compendiato
nella seguente massima: “Ai fini della sussistenza del
presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di
accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante
del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente
consistente in un interesse legittimo o in un diritto
soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, non potendo
identificarsi con il generico ed indistinto interesse di
ogni cittadino al buon andamento della attività
amministrativa, ed un rapporto di strumentalità tra tale
interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione.
Tale nesso di strumentalità deve, peraltro, essere inteso in
senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve
essere, genericamente, mezzo utile per la difesa
dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di
prova diretta della lesione di tale interesse. In sostanza,
l’interesse all’accesso ai documenti va valutato in
astratto, senza che possa essere operata, con riferimento al
caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla
fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli
interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei
documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante” (Consiglio di Stato – Sez. V,
10/01/2007, n. 55 – conferma TAR. Campania, Napoli, sez.
V, 15.02.2005, n. 1070).
Sotto tale profilo, non può negarsi che la società
ricorrente vanti un interesse qualificato ed una certa
legittimazione ad accedere alla documentazione negata, posta
l’inconfigurabilità di esigenze di tutela di riservatezza ed
essendo del tutto evidente la propria posizione
differenziata e la titolarità di una posizione giuridica
soggettiva, anche meramente potenziale, in conformità al
disposto dell’art. 24, comma 7, della l. 241/1990, dove è
chiarito che <deve comunque essere garantito l’accesso ai
documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o per
difendere i propri interessi giuridici>, nonché tenuto
presente che, per la giurisprudenza: “Il contribuente vanta
un interesse concreto e attuale all’ostensione di tutti gli
atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e
versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi
sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità
totale o parziale della pretesa impositiva (in tal senso
l’art. 22 comma 1, lett. b), 1. n. 241/1990)” (Consiglio di
Stato, Sez. VI, 15.02.2012, n. 766)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 29.07.2014 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'abusività
di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto
per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e,
per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti
abusivi è atto vincolato e come tale non necessita di una
puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né
di un bilanciamento di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, né, infine, è necessaria alcuna verifica
sull’astratta sanabilità dell’opera.
In particolare, in presenza di un abuso edilizio, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di
demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia).
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n.
380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del
competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva
iniziativa della parte interessata l'attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato.
Infondato è il primo motivo di ricorso
basato sul difetto di motivazione in ordine, anche sul
profilo dell’applicazione della misura demolitoria in luogo
di una misura pecuniaria, sul contrasto con l’interesse
pubblico tutelato dagli artt. 10 e 13 legge n. 47/1985 e
dall’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, nonché dal mancato
riferimento alla sanabilità delle opere.
Osserva in proposito il Collegio che l'abusività di un'opera
edilizia costituisce già di per sé presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria
(Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357) e, per
costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti
abusivi è atto vincolato (ex multis, C.d.S., VI, 28.06.2004, n. 4743; C.d.S., sez. V, 10.07.2003, n. 4107;
TAR Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e come tale non necessita di una
puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né
di un bilanciamento di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496;
Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702), né, infine, è
necessaria alcuna verifica sull’astratta sanabilità
dell’opera (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013,
n. 2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n.
8331; Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357).
In particolare, in presenza di un abuso edilizio, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di
demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia). Tanto si evince
chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che,
in tal caso, obbligano il responsabile del competente
ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna
valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36,
d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa
della parte interessata l'attivazione del procedimento di
accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato
(TAR Campania Napoli, Sez. III, 08.11.2013, n. 5023;
TAR Campania Napoli Sez. VI, 26.09.2012, n. 3950) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4323 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ragione del contenuto rigidamente vincolato
che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia
edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione
abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione
d'avvio del relativo procedimento.
In ogni caso il Collegio ritiene applicabile al caso in
esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n.
241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito
provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto
dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Nel terzo motivo di
ricorso parte ricorrente ha lamentato la violazione
dell’art. 7 della legge n. 241/1990 per aver l’amministrazione
omesso la comunicazione di avvio del procedimento che ha
portato al provvedimento gravato.
La censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto
rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo
procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010,
n. 7129).
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse
ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe
applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies
della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito
provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto
dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4323 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha chiarito che, nell'ambito delle opere
edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli
interventi abbiano interessato un edificio del quale,
all'esito degli stessi, rimangano inalterate le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la
ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano
venute meno, per evento naturale o per volontaria
demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduce
nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna
variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di
nuova costruzione, da considerare tale, anche ai fini del
computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come
previste dagli strumenti urbanistici locali.
---------------
Si è quindi precisato che il concetto di ristrutturazione
edilizia resta distinto dall'intervento di nuova costruzione
per la necessità che la ricostruzione corrisponda (nella
ristrutturazione), quanto meno nel volume e nella sagoma, al
fabbricato demolito. Con la conseguenza che l’opera si
palesa pertanto assoggettata al regime del permesso di
costruire, in quanto l’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R.
6-6-2001 n. 380, indica come interventi soggetti al permesso
di costruire quelli di ristrutturazione edilizia che portino
ad un organismo edilizio anche in parte diverso dal
precedente, che comportino, come nel caso di specie, aumento
modifiche del volume (oppure dei prospetti o delle
superfici).
La necessità di rispettare l’originaria volumetria risulta
viepiù rinforzata alla luce delle modifiche di recente
apportate al T.U. dell’edilizia dal decreto legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (cd decreto del fare), con cui il
legislatore (mediante la modifica della lettera d) del
citato comma 1 dell’art. 3 del T.U. dell’edilizia) ha
considerando fra gli interventi di ristrutturazione edilizia
anche gli interventi «consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quella
preesistente», senza fare più riferimento al rispetto della
sagoma precedente. Ed invero resta fermo che deve sempre
considerarsi nuova costruzione «la costruzione di manufatti
edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di
quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente»
(lettera e.1 del comma 1 dell’art. 3 del T.U.) e resta ferma
quindi la necessità del rilascio del permesso di costruire
quando l’immobile ricostruendo ha una diversa volumetria, in
disparte la concorrente circostanza relativa al mutamento
della destinazione d’uso.
Facendo applicazione di tali principi l’intervento edilizio
concernete il piano in sopraelevazione deve inevitabilmente
qualificarsi come di nuova costruzione.
1. Il ricorso non merita accoglimento.
2. Occorre premettere che a seguito di accertamenti da parte
dei vigili urbani si è constatato che la ricorrente, senza
alcun titolo edilizio, abbia proceduto alla edificazione in
sopraelevazione di un piano intero.
2.1. Portata dirimente rivesta la corretta qualificazione
dell’intervento effettuato in sopraelevazione della
ricorrente ed oggetto di demolizione.
In primo luogo vale considerare che l’aumento di volume,
pacificamente sussistente (mediante la sopraelevazione, la
modifica della sagoma e dei volumi con creazione di tre
appartamenti) non consente di annoverare l’intervento
nell’ambito della ristrutturazione edilizia assentibile con
Dia.
2.2. Al di là del tenore letterale dell’articolo 124 del
regolamento comunale, ai fini della distinzione fra nuova
costruzione e ristrutturazione edilizia debba farsi
riferimento alle disposizioni contenute nel T.U.
dell’edilizia che di tali nozioni danno la definizione e ne
individuano i limiti.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, nel testo precedente le modifiche apportate dal
D.L. 21.06.2013, n. 69 (e quindi all’epoca vigente),
sono «interventi di ristrutturazione edilizia, gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica».
Ai sensi della successiva lettera e) sono «interventi di
nuova costruzione, quelli di trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie
definite alle lettere precedenti. Sono comunque da
considerarsi tali: e.1) la costruzione di manufatti edilizi
fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli
esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo
restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto
alla lettera e.6) ….».
2.3. Sulla base di tali definizioni la giurisprudenza ha
chiarito che, nell'ambito delle opere edilizie, la semplice
ristrutturazione si verifica ove gli interventi abbiano
interessato un edificio del quale, all'esito degli stessi,
rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri
perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre
è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio
preesistente siano venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si
traduce nell'esatto ripristino delle stesse operato senza
alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti,
si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da
considerare tale, anche ai fini del computo delle distanze
rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti
urbanistici locali (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3221
dell’11.06.2013).
2.4. Si è quindi precisato che il concetto di
ristrutturazione edilizia resta distinto dall'intervento di
nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione
corrisponda (nella ristrutturazione), quanto meno nel volume
e nella sagoma, al fabbricato demolito (Consiglio di Stato,
Sez. IV, n. 3278 del 13.06.2013).
Con la conseguenza che l’opera si palesa pertanto
assoggettata al regime del permesso di costruire, in quanto
l’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 6-6-2001 n. 380, indica
come interventi soggetti al permesso di costruire quelli di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio anche in parte diverso dal precedente, che
comportino, come nel caso di specie, aumento modifiche del
volume (oppure dei prospetti o delle superfici).
2.5. La necessità di rispettare l’originaria volumetria
risulta viepiù rinforzata alla luce delle modifiche di
recente apportate al T.U. dell’edilizia dal decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (cd decreto del fare), con cui il
legislatore (mediante la modifica della lettera d) del
citato comma 1 dell’art. 3 del T.U. dell’edilizia) ha
considerando fra gli interventi di ristrutturazione edilizia
anche gli interventi «consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quella
preesistente», senza fare più riferimento al rispetto della
sagoma precedente. Ed invero resta fermo che deve sempre
considerarsi nuova costruzione «la costruzione di manufatti
edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di
quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente»
(lettera e.1 del comma 1 dell’art. 3 del T.U.) e resta ferma
quindi la necessità del rilascio del permesso di costruire
quando l’immobile ricostruendo ha una diversa volumetria, in
disparte la concorrente circostanza relativa al mutamento
della destinazione d’uso.
Facendo applicazione di tali principi l’intervento edilizio
concernete il piano in sopraelevazione deve inevitabilmente
qualificarsi come di nuova costruzione (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’art. 3 della legge n. 241/1990 consente l’uso
della motivazione per relationem con riferimento ad altri
atti dell’Amministrazione, che devono essere comunque
indicati e resi disponibili, fermo restando che questa
disponibilità dell’atto va intesa nel senso che
all’interessato deve essere consentito di prenderne visione,
di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul
diritto di accesso ai documenti amministrativi e di
chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste
l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato
tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto
l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a
disposizione su richiesta dell’interessato.
Per costante
giurisprudenza l’art. 3 della legge n. 241/1990 consente
l’uso della motivazione per relationem con riferimento ad
altri atti dell’Amministrazione, che devono essere comunque
indicati e resi disponibili, fermo restando che questa
disponibilità dell’atto va intesa nel senso che
all’interessato deve essere consentito di prenderne visione,
di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul
diritto di accesso ai documenti amministrativi e di
chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste
l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato
tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto
l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a
disposizione su richiesta dell’interessato (ex multis,
TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.05.2005, n. 6500;
18.01.2005, n. 178) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
3 della legge n. 241/1990 consente l’uso della motivazione
per relationem con riferimento ad altri atti
dell’Amministrazione, che devono essere comunque indicati e
resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità
dell’atto va intesa nel senso che all’interessato deve
essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed
ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di
accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la
produzione in giudizio, sicché non sussiste l’obbligo
dell’Amministrazione di notificare all’interessato tutti gli
atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l’obbligo di
indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su
richiesta dell’interessato.
--------------
Per la motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e
sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è
necessaria la descrizione precisa della superficie occupata
e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente
acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza
all'ordine di demolizione, potendo la specificazione
intervenire nella successiva fase dell'accertamento
dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione.
--------------
Risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata
dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e
vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
E seppure si aderisse all’orientamento che ritiene
necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di
demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui
dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento … qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in
presenza di opere realizzate in assenza del prescritto
titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata
data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
Secondo la giurisprudenza la natura interamente vincolata
del provvedimento di demolizione esclude la necessaria
ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici
tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla
dichiarata abusività.
---------------
Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n.
380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n.
47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza
dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi
dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio
della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si
svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in
assenza del prescritto permesso di costruire
l’Amministrazione comunale deve disporne senz’altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse.
----------------
L’ordinanza di demolizione non è certo illegittima ove sia
omessa la specifica indicazione delle norme urbanistiche
violate, essendo sufficiente la descrizione dell’abuso ed il
fatto che il tipo di intervento in questione necessitasse
del permesso di costruire.
Né può sostenersi che sia stato commesso un eccesso di
potere, atteso che la sanzione è fissata dalla legge e che
l’Amministrazione non gode di alcuna discrezionalità nella
graduazione della stessa.
La prima censura è infondata: l’art. 3
della legge n. 241/1990 consente l’uso della motivazione per relationem con riferimento ad altri atti
dell’Amministrazione, che devono essere comunque indicati e
resi disponibili, fermo restando che questa disponibilità
dell’atto va intesa nel senso che all’interessato deve
essere consentito di prenderne visione, di richiederne ed
ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di
accesso ai documenti amministrativi e di chiederne la
produzione in giudizio, sicché non sussiste l’obbligo
dell’Amministrazione di notificare all’interessato tutti gli
atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto l’obbligo di
indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su
richiesta dell’interessato (ex multis, TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 18.05.2005, n. 6500; 18.01.2005,
n. 178).
È infondata anche la seconda censura. Per giurisprudenza
costante, per la motivazione dell'ordine di demolizione è
necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
mentre non è necessaria la descrizione precisa della
superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad
essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in
caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, potendo la
specificazione intervenire nella successiva fase
dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine
di demolizione (tra le tante, Tar Campania, Napoli, VI, n.
2000/2012).
Risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata
dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché
trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle
medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che
ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui
dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento … qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di
demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in
assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame
risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata
ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso
se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio
del procedimento.
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato
sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con
l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente
vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato.
Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli,
Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del
provvedimento di demolizione esclude la necessaria
ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici
tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla
dichiarata abusività.
È irrilevante la pretesa conformità dell’opera alla
normativa urbanistica. Infatti dal chiaro tenore letterale
dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito
l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio
del permesso di costruire in sanatoria consegue
necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al
Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R.
n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio
comunale. Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di
opere in assenza del prescritto permesso di costruire
l’Amministrazione comunale deve disporne senz’altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania
Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
Infine, l’ordinanza di demolizione non è certo illegittima
ove sia omessa la specifica indicazione delle norme
urbanistiche violate, essendo sufficiente la descrizione
dell’abuso ed il fatto che il tipo di intervento in
questione necessitasse del permesso di costruire; né può
sostenersi che sia stato commesso un eccesso di potere,
atteso che la sanzione è fissata dalla legge e che
l’Amministrazione non gode di alcuna discrezionalità nella
graduazione della stessa
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a
vincolo paesistico si considerano eseguite in totale
difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47
del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono
suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”.
A tal proposito vale appena
rammentare che le opere edilizie abusive “realizzate in zona
sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in
totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della
legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono
suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”
(Tar Campania, questa sesta sezione, ancora n. 5835 del 18.12.2013 e n. 2245 del 30.04.2013, nel cui seno è
richiamata Cass. Penale, sezione terza, pronuncia n. 2733
del 31.01.1994); l’amministrazione comunale ha
verificato in radice l’inesistenza dei presupposti per
l’accoglimento della istanza di conformità, onde
l’interpello della Soprintendenza si sarebbe risolto in una
violazione del principio di non aggravamento, corollario del
principio di economicità ed efficienza dell’agire della
p.a., in un settore in cui la mole delle istanze da evadere
non consente sprechi di risorse organizzatorio.
Non a caso
la stessa Soprintendenza, con la circolare richiamata in
atti, ha emanato istruzioni, del tutto ragionevoli, intese
ad evitare un’inutile e defatigante attività istruttoria nei
confronti di richieste di compatibilità paesaggistica
chiaramente divergenti dalla fattispecie consentite
dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I procedimenti iniziati ad istanza di parte non
abbisognano di comunicazione di avvio del procedimento.
I procedimenti iniziati
ad istanza di parte non abbisognano di comunicazione di
avvio del procedimento, così che non è stato violato l’art.
7 L. 241/1990; mentre il ricorrente è stato regolarmente
invitato a controdedurre alla comunicazione ostativa dei
motivi di rigetto della sua domanda, formulata ex art. 10-bis L. 241/1990 dal Comune con nota prot. 1823/2007. In
quella sede l’amministrazione ha comunicato l’intenzione di
procedere alla sanzione demolitoria solo per le parti del
fabbricato non oggetto della domanda di condono, mentre in
sede di redazione del provvedimento finale tale limitazione
è venuta a mancare.
Come si è rilevato a più riprese, tali omissioni, non
inficiano la legittimità di siffatti provvedimenti proprio
per la loro assoluta vincolatezza, tenuto conto che il
Comune ha esitato sfavorevolmente la domanda di condono
delle opere originarie, con conseguente riespansione della
misura repressiva.
Infatti, alla stregua del disposto dell’art. 21-octies
della legge 241 del 1990 -di cui qui, nelle descritte
condizioni, va fatta indubbia applicazione- non può essere
utilmente lamentata la violazione delle diverse garanzie
partecipative previste dalla medesima legge sul procedimento
(sul punto, ex multis, TAR Campania, questa Sezione, n.
4873/2012, nonché Tar Campania, sez. ottava, 05.05.2011,
n. 2497 e cfr. ancora, più di recente, Cons. Stato, sez. IV,
06.07.2012, n. 3969)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla
impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica
del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per
gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace
tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione
stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il
riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di
verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta
istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di
rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Pertanto, il ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente
all'istanza di concessione in sanatoria, deve ritenersi
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse,
“spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso
edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato,
all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o
implicito) di rigetto; in tal caso, l’Amministrazione dovrà
emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, eventualmente
di demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere.
Il ricorso introduttivo va dichiarato improcedibile.
Infatti, secondo l’orientamento giurisprudenziale seguito da
questa Sezione, la presentazione dell'istanza di sanatoria
successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di
demolizione -o alla notifica del provvedimento di
irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi-
produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento
e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per
sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne
la eventuale sanabilità, provocato da detta istanza,
comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento,
esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.04.1997, n. 3563; sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; CGA 27.05.1997, n. 187; TAR Sicilia, sez. II,
05.10.2001, n. 1392; TAR Liguria, sez. II, 14.12.2000, n. 1310; TAR Toscana, sez. III, 18.12.2001,
n. 2024; TAR Puglia, Bari, sez. II, 11.01.2002, n.
154; TAR Campania, Sez. IV, 25.05.2001, n. 2340, 11.12.2002, n. 7994, 30.06.2003, n. 7902, 22.02.2004, n. 1239, 13.09.2004, n. 11983).
Pertanto, il ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente
all'istanza di concessione in sanatoria, deve ritenersi
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse,
“spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso
edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato,
all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o
implicito) di rigetto (TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 16.03.2004, n. 499;
TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310); in tal caso, l’Amministrazione dovrà
emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, eventualmente
di demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere (TAR Lazio, Latina, 28.11.2000, n. 826;
TAR Lazio, sez. II, 17.01.2001, n. 230; TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 12.12.2001, n. 2424; TAR
Puglia, Bari, sez. II, 11.01.2002, n. 154; TAR
Emilia Romagna, sez. II, 11.06.2002, n. 857; TAR
Campania, sez. IV, 26.07.2002, n. 4399)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio
del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati
e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
E, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene
necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di
demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui
dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento … qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in
presenza di opere realizzate in assenza del prescritto
titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata
data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
Dall’art. 8 della legge n. 241/1990 si desume chiaramente
che la comunicazione del nominativo del responsabile del
procedimento è parte integrante dell’avviso di cui all’art.
7 della stessa legge.
Pertanto, non essendo necessaria nei procedimenti ad istanza
di parte la comunicazione di avvio del procedimento, non
costituisce motivo di illegittimità neppure l’omessa
comunicazione del nominativo del responsabile del
procedimento, fermo restando che a tale è comunque possibile
supplire considerando responsabile il funzionario preposto
alla competente unità organizzativa. Né costituisce
violazione di legge la presunta violazione dell’ordine
cronologico di esame della domande.
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato
sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con
l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente
vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato.
Infatti, secondo la giurisprudenza la natura interamente
vincolata del provvedimento di demolizione esclude la
necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli
pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore
rispetto alla dichiarata abusività.
Quanto alla quarta censura, l’art. 3 della legge n. 241/1990
consente l’uso della motivazione per relationem con
riferimento ad altri atti dell’Amministrazione, che devono
essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando
che questa disponibilità dell’atto va intesa nel senso che
all’interessato deve essere consentito di prenderne visione,
di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul
diritto di accesso ai documenti amministrativi e di
chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste
l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato
tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto
l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a
disposizione su richiesta dell’interessato.
Il ricorso per motivi aggiunti è invece infondato.
Risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata
dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché
trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle
medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che
ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui
dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento … qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di
demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in
assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame
risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata
ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso
se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio
del procedimento.
Quanto alla seconda censura, dall’art. 8 della legge n.
241/1990 si desume chiaramente che la comunicazione del
nominativo del responsabile del procedimento è parte
integrante dell’avviso di cui all’art. 7 della stessa legge.
Pertanto, non essendo necessaria nei procedimenti ad istanza
di parte la comunicazione di avvio del procedimento, non
costituisce motivo di illegittimità neppure l’omessa
comunicazione del nominativo del responsabile del
procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV,
15.03.2006, n. 2987), fermo restando che a tale è
comunque possibile supplire considerando responsabile il
funzionario preposto alla competente unità organizzativa (ex multis, TAR Lazio Roma, sez. I, 30.08.2005, n.
6359). Né costituisce violazione di legge la presunta
violazione dell’ordine cronologico di esame della domande.
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato
sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con
l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente
vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato.
Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli,
Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del
provvedimento di demolizione esclude la necessaria
ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici
tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla
dichiarata abusività.
Quanto alla quarta censura, l’art. 3 della legge n. 241/1990
consente l’uso della motivazione per relationem con
riferimento ad altri atti dell’Amministrazione, che devono
essere comunque indicati e resi disponibili, fermo restando
che questa disponibilità dell’atto va intesa nel senso che
all’interessato deve essere consentito di prenderne visione,
di richiederne ed ottenerne copia in base alla normativa sul
diritto di accesso ai documenti amministrativi e di
chiederne la produzione in giudizio, sicché non sussiste
l’obbligo dell’Amministrazione di notificare all’interessato
tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto
l’obbligo di indicarne gli estremi e di metterli a
disposizione su richiesta dell’interessato (ex multis,
TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.05.2005, n. 6500;
18.01.2005, n. 178)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi del comma 4 dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 la notifica
dell’atto di accertamento dell’inottemperanza non
costituisce presupposto per l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, che si verifica ope legis, costituendo
detto accertamento solo presupposto per l’immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Invero, “l'ingiustificata inottemperanza all'ordine di
demolizione di una costruzione abusiva emesso dall'autorità
comunale, comporta l'automatica acquisizione gratuita
dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune,
indipendentemente dalla notifica all'interessato
dell'accertamento formale dell'inottemperanza che ha solo
funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del
diritto di proprietà”.
---------------
Nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e
sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è
necessaria la descrizione precisa della superficie occupata
e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente
acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono
all’eventuale successiva ordinanza di acquisizione al
patrimonio comunale.
---------------
Per consolidato orientamento giurisprudenziale
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce
effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di
demolizione, che, come detto, si verifica pertanto ope legis,
a seguito dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione
dopo il decorso del termine di novanta giorni dalla sua
notifica.
In tale prospettiva l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere abusive è atto dovuto ed è
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'abusività
e dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione,
essendo in re ipsa l'interesse pubblico all'adozione della
misura, senza l'obbligo di alcuna specifica argomentazione
in ordine all'acquisizione dell'area di sedime., venendo
nella specie in rilievo un atto vincolato al verificarsi
delle condizioni di legge.
Né alcuna rilevanza ha al riguardo la mancata specificazione
del tipo di catasto, terreni ovvero fabbricati, cui
ricondurre gli evidenziati dati catastali, in quanto l’area
di sedime oggetto di acquisizione risulta comunque
specificatamente individuata per relationem, in riferimento
alle opere abusive, potendo per contro la specificazione
esatta dei dati catastali essere contenuta in un atto
successivo, ai fini della sua trascrizione nei registri
immobiliari.
Va rilevato che ai sensi del comma 4 dell’art. 31 D.P.R.
380/2001 la notifica dell’atto di accertamento
dell’inottemperanza non costituisce presupposto per
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, che si
verifica ope legis, costituendo detto accertamento
solo presupposto per l’immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari (Cass. pen. Sez. III,
Sent. n. 1819 del 21.10.2008; in senso analogo Cass. pen.
Sez. III, sent. n. 39075 del 21.05.2009, secondo cui “L'ingiustificata
inottemperanza all'ordine di demolizione di una costruzione
abusiva emesso dall'autorità comunale, comporta l'automatica
acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio
disponibile del Comune, indipendentemente dalla notifica
all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza che ha solo funzione certificativa
dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà”).
---------------
Con altro ordine di censure
lamenta l’illegittimità dell’ordinanza di acquisizione in
mancanza del necessario presupposto, dato, secondo parte
ricorrente, dalla necessaria specificazione nell’ordinanza
di demolizione, dell’area che verrà acquisita di diritto al
patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza alla
medesima.
Nella motivazione dell’ordine di demolizione è
necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
mentre non è necessaria la descrizione precisa della
superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad
essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in
caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, perché
tali elementi afferiscono all’eventuale successiva ordinanza
di acquisizione al patrimonio comunale.
L’art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, al pari del
precedente disposto dell’art. 7, comma 3, l. 47/1985,
precisa al riguardo che “Se il responsabile dell'abuso
non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato
dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione,
il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune.
L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci
volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce
effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di
demolizione, che, come detto, si verifica pertanto ope
legis, a seguito dell’inottemperanza all’ingiunzione di
demolizione dopo il decorso del termine di novanta giorni
dalla sua notifica.
In tale prospettiva l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto ed è
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'abusività
e dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione,
essendo in re ipsa l'interesse pubblico all'adozione
della misura, senza l'obbligo di alcuna specifica
argomentazione in ordine all'acquisizione dell'area di
sedime., venendo nella specie in rilievo un atto vincolato
al verificarsi delle condizioni di legge.
Né alcuna rilevanza ha al riguardo la mancata
specificazione del tipo di catasto, terreni ovvero
fabbricati, cui ricondurre gli evidenziati dati catastali,
in quanto l’area di sedime oggetto di acquisizione risulta
comunque specificatamente individuata per relationem,
in riferimento alle opere abusive, potendo per contro la
specificazione esatta dei dati catastali essere contenuta in
un atto successivo, ai fini della sua trascrizione nei
registri immobiliari (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
orientamento costante di questo Collegio, l’ordine di
demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto
dovuto e rigorosamente vincolato, rispetto al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui
presupposto è costituto unicamente dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del
titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera, che il
protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe
ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la
lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario
titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che preserva il
potere-dovere dell'amministrazione di intervenire
nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che
il provvedimento demolitorio non richiede una congrua
motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
---------------
L'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé
sola presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria e non è necessaria una motivazione "ad
hoc" sulla non sanabilità dell'opera.
CONSIDERATO CHE:
- preliminarmente va escluso il rilievo delle censure di
natura formale attinenti la violazione dell’art. 7 della
legge n. 241/1990, il difetto di motivazione sull’interesse
pubblico attuale e l’assunta omessa comparazione degli
interessi coinvolti.
Al riguardo va rimarcato che, per orientamento costante di
questo Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere
necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, rispetto al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è
costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera
in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo;
- né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico
concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr., ex plurimis,
Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera, che il
protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe
ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la
lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario
titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che preserva il
potere-dovere dell'amministrazione di intervenire
nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che
il provvedimento demolitorio non richiede una congrua
motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa;
- quanto all’ulteriore doglianza secondo cui l’intervento
sarebbe assentibile in sanatoria (la cui istanza però non è
stata allegata) va osservato che l'abusività di un'opera
edilizia costituisce già di per sé sola presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e non è
necessaria una motivazione "ad hoc" sulla non
sanabilità dell'opera (TAR Campania Napoli Sez. VII,
27.05.2013, n. 2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n.
8331; Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.07.2014 n. 4267 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Appare,
infatti, corretta e conforme a legge l’affermazione che la
volumetria preesistente costituisce lo standard massimo di
edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso che
sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente
volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione,
essendone precluso soltanto un aumento; cosa desumibile
dalle modifiche della normativa di riferimento (l’art. 3 DPR
380/2001) intervenute nel tempo, posto che si è passati
dalla necessità di una “fedele ricostruzione” ad una
ricostruzione “con la stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente”, ed oggi alla “demolizione e ricostruzione con
la stessa volumetria…preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica”: è quindi evidente l’intento del legislatore di
impedire soltanto aumenti della complessiva cubatura degli
edifici esistenti, ma non diminuzioni della stessa.
Pertanto, la prevista diminuzione di volumetria non appare
ostativa alla riconducibilità dell’intervento alla
fattispecie della ristrutturazione edilizia.
Orbene, ritiene il Collegio che la tesi dei ricorrenti debba
essere disattesa, essendo da condividere quanto precisato
dal TAR Puglia-Bari nella sentenza n. 3210 del 22.07.2004 in
tema di limiti entro i quali è possibile inquadrare la
demolizione e ricostruzione di un immobile nella
ristrutturazione edilizia.
Appare, infatti, corretta e conforme a legge l’affermazione
che la volumetria preesistente costituisce lo standard
massimo di edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso
che sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente
volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione,
essendone precluso soltanto un aumento; cosa desumibile
dalle modifiche della normativa di riferimento (l’art. 3 DPR
380/2001) intervenute nel tempo, posto che si è passati
dalla necessità di una “fedele ricostruzione” ad una
ricostruzione “con la stessa volumetria e sagoma di
quello preesistente”, ed oggi alla “demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria…preesistente, fatte
salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla
normativa antisismica”: è quindi evidente l’intento del
legislatore di impedire soltanto aumenti della complessiva
cubatura degli edifici esistenti, ma non diminuzioni della
stessa.
Pertanto, la prevista diminuzione di volumetria non appare
ostativa alla riconducibilità dell’intervento alla
fattispecie della ristrutturazione edilizia (come invece
sostenuto dei ricorrenti), per cui, risultando rispettato il
disposto delle N.T.A. del PRG, il motivo in commento va
respinto, siccome infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.07.2014 n. 4265 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 11, co. 1, t.u.ed., il permesso di costruire
è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo.
Nel caso di specie, è pacifico che si tratti di rifacimento
del tetto, e dunque di un bene che non apparteneva in via
esclusiva al N., ma era condominiale. In caso di
comproprietà, per costante giurisprudenza si ritiene che il
singolo comproprietario sia legittimato a chiedere il
permesso di costruire solo laddove la situazione di fatto
consenta di supporre l'esistenza di un «pactum fiduciae»
intercorrente tra gli stessi comproprietari, mentre in caso
contrario occorre acquisire l'assenso espresso di tutti.
In particolare, in caso di parti condominiali, è facoltà del
singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su
parti comuni dell’edificio, siano strettamente pertinenti
alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e
spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come
soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio
l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a
tali opere; se tuttavia l’intervento edilizio coinvolge in
maniera diretta e rilevante anche parti comuni, occorre
acquisire e valutare l'assenso condominiale; in tal caso
l'assenso deve essere valutato alla luce della situazione
dei luoghi e delle ragioni espresse dal condominio
(giurisprudenza ha ritenuto legittimo il diniego del
permesso di costruire, subordinando il suo rilascio al
preventivo assenso dei comproprietari dell’immobile
interessato dalla richiesta di rilascio del titolo
abilitativo, nel caso in cui le opere oggetto del permesso
di costruire diano luogo ad una innovazione vietata ex art.
1120, comma 2, c.c., comportando una alterazione del decoro
architettonico del fabbricato).
È infatti fondata la censura basata sulla
violazione dell’art. 11 d.P.R. n. 380/2001 (seconda del
ricorso 3974/2013 e prima del ricorso 3975/2013) e cioè
sulla carenza di legittimazione del contro interessato
Napoletano ad ottenere il permesso di costruire.
Ai sensi dell’art. 11, co. 1, t.u.ed., il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi
abbia titolo per richiederlo. Nel caso di specie, è pacifico
che si tratti di rifacimento del tetto, e dunque di un bene
che non apparteneva in via esclusiva al N., ma era
condominiale. In caso di comproprietà, per costante
giurisprudenza si ritiene che il singolo comproprietario sia
legittimato a chiedere il permesso di costruire solo laddove
la situazione di fatto consenta di supporre l'esistenza di
un «pactum fiduciae» intercorrente tra gli stessi
comproprietari, mentre in caso contrario occorre acquisire
l'assenso espresso di tutti (Tar Lombardia, Brescia, I, n.
460/2007; Tar Campania, Salerno, II, n. 7921/2009).
In particolare, in caso di parti condominiali, è facoltà del
singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su
parti comuni dell’edificio, siano strettamente pertinenti
alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e
spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come
soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio
l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a
tali opere (CdS, sez. VI, n. 717/2009); se tuttavia
l’intervento edilizio coinvolge in maniera diretta e
rilevante anche parti comuni, occorre acquisire e valutare
l'assenso condominiale; in tal caso l'assenso deve essere
valutato alla luce della situazione dei luoghi e delle
ragioni espresse dal condominio (Tar Liguria, II, n.
43/2009; Tar Basilicata, I, n. 15/2008; Tar Lombardia,
Milano, II, n. 4414/2010, che ha ritenuto legittimo il
diniego del permesso di costruire, subordinando il suo
rilascio al preventivo assenso dei comproprietari
dell’immobile interessato dalla richiesta di rilascio del
titolo abilitativo, nel caso in cui le opere oggetto del
permesso di costruire diano luogo ad una innovazione vietata
ex art. 1120, comma 2, c.c., comportando una alterazione del
decoro architettonico del fabbricato).
Nel caso di specie, l’intervento edilizio coinvolgeva in
maniera diretta e rilevante anche parti comuni: sicché,
secondo la giurisprudenza sopra citata, occorreva acquisire
e valutare l'assenso condominiale (nel caso di specie,
senz’altro mancante)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.07.2014 n. 4256 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Sezione osserva come il principio di buon andamento impegni
la P.A. ad adottare gli atti il più possibile rispondenti ai
fini da conseguire ed autorizzi quindi anche il riesame
degli atti adottati, ove reso opportuno da circostanze
sopravvenute ovvero da un diverso apprezzamento della
situazione preesistente.
In particolare, mentre l’annullamento “guarda al
passato”, nel senso che costituisce un rimedio volto alla
rimozione di un errore commesso nell’esercizio della
funzione di primo grado e quindi opera in una logica
essenzialmente correttiva dell’azione pubblica, la revoca
assume una funzione più propriamente adeguatrice, intesa in
termini di attualizzazione delle modalità di perseguimento
dell’interesse pubblico specifico di cui occorre seguire la
costante dinamica evolutiva.
Pertanto entrambi gli istituti hanno come oggetto immediato
del provvedere l’eliminazione di un precedente atto o
provvedimento di primo grado cui coniugare l’esigenza di
un’azione amministrativa che si ponga pur sempre come cura
attuale dell’interesse pubblico: esigenza che, in termini
funzionali, nelle ipotesi di annullamento si caratterizza
come momento valutativo ulteriore rispetto al mero
accertamento dell’illegittimità del provvedimento di primo
grado, mentre nei casi di revoca discende proprio dalla
necessità di adeguare per il futuro scelte ormai non più
idonee ed efficaci, con inevitabile eliminazione dei
provvedimenti formali che le contenevano.
---------------
Costituisce ius receptum che l’acquisizione di cui all'art.
31 del D.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è
stata adottata l'ordinanza di demolizione, a sua volta
costituente il presupposto per l'irrogazione dell’ulteriore
sanzione acquisitiva, opera di diritto e automaticamente
allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che
l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo
valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari, cosicché la sua
notifica all'interessato ha una esclusiva funzione
certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di
proprietà.
Detto effetto acquisitivo di diritto è automatico per le
opere abusive e la loro area di sedime, mentre richiede una
specificazione, sulla base di adeguata motivazione, per
quanto riguarda le aree ulteriori.
... per l'annullamento previa
sospensione dell'efficacia,
della Determinazione dirigenziale del Comune di Cardito n. 2
del 03/08/2005 di annullamento del permesso di costruire n. 9
del 10/02/2005 per le opere da realizzare alla via Curiel n.
10.
...
Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce la
violazione della Legge n.127/1997, dell’art. 7 della Legge
n. 47/1985, della Legge n.15/2005, nonché l’incompetenza e
l’eccesso di potere.
La Sezione in via preliminare osserva come il principio
di buon andamento impegni la P.A. ad adottare gli atti il
più possibile rispondenti ai fini da conseguire ed autorizzi
quindi anche il riesame degli atti adottati, ove reso
opportuno da circostanze sopravvenute ovvero da un diverso
apprezzamento della situazione preesistente (TAR
Calabria, Reggio Calabria, 24.10.2007, n. 1077; Cons. Stato,
V, n. 508/1999; n. 1263/1996; VI, 29.03.1996, n. 518;
30.04.1994, n. 652).
In particolare, mentre l’annullamento
“guarda al passato”, nel senso che costituisce un rimedio
volto alla rimozione di un errore commesso nell’esercizio
della funzione di primo grado e quindi opera in una logica
essenzialmente correttiva dell’azione pubblica, la revoca
assume una funzione più propriamente adeguatrice, intesa in
termini di attualizzazione delle modalità di perseguimento
dell’interesse pubblico specifico di cui occorre seguire la
costante dinamica evolutiva.
Pertanto entrambi gli istituti
hanno come oggetto immediato del provvedere l’eliminazione
di un precedente atto o provvedimento di primo grado cui
coniugare l’esigenza di un’azione amministrativa che si
ponga pur sempre come cura attuale dell’interesse pubblico:
esigenza che, in termini funzionali, nelle ipotesi di
annullamento si caratterizza come momento valutativo
ulteriore rispetto al mero accertamento dell’illegittimità
del provvedimento di primo grado, mentre nei casi di revoca
discende proprio dalla necessità di adeguare per il futuro
scelte ormai non più idonee ed efficaci, con inevitabile
eliminazione dei provvedimenti formali che le contenevano.
Con riguardo a quanto reclamato da parte ricorrente, il
potere di autotutela decisoria in capo all'Amministrazione
non ha in verità come unica finalità il mero ripristino
della legalità, costituendo una potestà discrezionale che
deve contemplare la verifica di determinate condizioni,
previste dall'ordinamento e concernenti l'opportunità di
correggere l'azione amministrativa svoltasi
illegittimamente; l'annullamento è stato, pertanto,
connotato dall’art. 21-nonies, comma 1, in termini di
rinnovata manifestazione, entro un termine ragionevole,
della funzione amministrativa.
In tale ambito rilevano,
oltre all'attualità di un interesse pubblico distinto ed
ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità
violata, anche gli interessi di tutte le parti coinvolte e
il tempo trascorso dalla determinazione viziata. Per effetto
dell'art. 21-nonies, l'esercizio della potestà di autotutela
decisoria richiede non solo l'esistenza di un vizio
dell'atto da rimuovere, ma anche la sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione e
la sua comparazione con gli interessi privati sacrificati,
quando, per effetto del provvedimento reputato illegittimo,
siano sorte posizioni giuridiche qualificate e consolidate
nel tempo.
Ora, con riguardo alla fattispecie in esame, si ritiene
che –come peraltro anticipato in fase cautelare– il
ricorso non sia meritevole di accoglimento ove si consideri
che nessun affidamento poteva ritenersi maturato in capo a
parte ricorrente dopo che l’Amministrazione aveva disposto
l’acquisizione del bene prima di evadere positivamente
l’istanza di rilascio di concessione edilizia. Proprio per
effetto di detta acquisizione come disposta con ordinanza
n. 7 del 29/01/1998 e successiva nota di trascrizione del
20/02/2002 il ricorrente non era più proprietario del suolo e
del tutto legittimamente l’Amministrazione ha provveduto
all’annullamento in autotutela del Permesso di costruire,
tanto più che la stessa opera se realizzata da parte
ricorrente sarebbe rientrata nel patrimonio comunale.
I motivi di ricorso quali si prestano ad una trattazione
unitaria non sono fondati anche in considerazione del fatto
che con nota n. 8380 del 14/07/2005 era stata comunicata la
sospensione dell’efficacia del Permesso di costruire
diffidando parte ricorrente dall’iniziare i lavori; in ogni
caso costituisce ius receptum che l’acquisizione di cui
all'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del
quale è stata adottata l'ordinanza di demolizione, a sua
volta costituente il presupposto per l'irrogazione
dell’ulteriore sanzione acquisitiva, opera di diritto e
automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la
conseguenza che l'accertamento dell'inottemperanza
all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione
in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari,
cosicché la sua notifica all'interessato ha una esclusiva
funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del
diritto di proprietà (cfr. Cons. di Stato, V, n. 6174 del
12.12.2008; Cass. Pen. n. 22237 del 22.04.2010; Cass. Pen. n.
39075 del 21.05.2009; Cass. Pen. n. 2912 del 17.11. 2009;
TAR Lazio-Roma, n. 6326 del 30.06.2009; TAR Campania,
Napoli n. 3198 del 10.04.2007).
Detto effetto acquisitivo di diritto è automatico per le
opere abusive e la loro area di sedime, mentre richiede una
specificazione, sulla base di adeguata motivazione, per
quanto riguarda le aree ulteriori (cfr. TAR Lazio, Roma n.
2031 del 07.03.2011; TAR Campania, Napoli n. 536 del
28.01.2011; TAR Campania, Napoli n. 22291 del 03.11.2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 25.07.2014 n. 4243 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sul
tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380
(“la quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio
del permesso di costruire” e “la quota di contributo
relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del
rilascio...”), i contributi concessori devono essere
stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a
tale momento occorre dunque avere riguardo per la
determinazione della entità dell’onere facendo applicazione
della normativa vigente al momento del rilascio del titolo
edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario
della irretroattività delle determinazioni comunali a
carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri
generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli
oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del
principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed
ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto
al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che
dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano
trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto
deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca
anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la
determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di
parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via
retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale
appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile
esigere periodicamente la richiesta di integrazione del
pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga
modificato, posto che tale rideterminazione appare nella
specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni
successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in
conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato
da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la
determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle
tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta
che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio
senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità
successive al rilascio del titolo.
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa
dell’Amministrazione Comunale di addossare al titolare di un
permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico
finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto
che la determinazione degli oneri concessori al momento del
rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa-
correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti
all’epoca.
---------------
Per ragione di completezza, si precisa che, anche
qualificando come conseguenza del potere di autotutela la
richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa
risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente
in violazione dell’art. 21-nonies Legge 07.08.1990 n. 241 e
ss.mm. posto che:
- non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere,
limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e
le tabelle succedutesi nel tempo;
- non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico
con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'
affidamento ingeneratosi nel privato;
- in particolare non viene data alcuna motivazione in
relazione al tempo trascorso, quasi tre anni, tra la
determinazione originaria e la successiva rideterminazione,
tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della Legge n.
241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato
“entro un ragionevole termine”.
Il ricorrente impugna la nota dirigenziale in epigrafe
indicata, notificata in data 28.05.2013, con cui il Comune
di Castro gli ha richiesto il “conguaglio” (a seguito
della rideterminazione in base a nuovi parametri stabiliti
ex post) degli oneri concessori versati in relazione
al permesso di costruire n. 23 del 19.05.2008 (realizzazione
di n. 2 civili abitazioni in via ...) in misura pari ad €
4.224,85, nonché la delibera del Consiglio Comunale di
Castro n. 64 del 30.11.2012, e ogni altro atto comunque
connesso.
Chiede, altresì, l’accertamento del diritto a non
corrispondere al Comune di Copertino la predetta somma, con
declaratoria dell’illegittimità di ogni pretesa integrazione
dei costi precedentemente determinati con il permesso di
costruire n. 24 del 19.05.2008.
...
La doglianza merita di essere condivisa.
Osserva il Collegio che il provvedimento dirigenziale
impugnato -recante in oggetto “Richiesta conguaglio oneri
concessori”- accolla ex post al ricorrente, in
ragione del titolo edilizio rilasciato circa cinque anni
prima, ulteriori oneri concessori rinviando a quanto
stabilito nella deliberazione 30.11.2012 n. 64 del Consiglio
Comunale di Castro.
In tale deliberazione, preso atto che è operante un
meccanismo legislativo (cfr. art. 16 D.P.R. n. 380/2001,
art. 2 L.R. n. 1/2007) di adeguamento automatico del
contributo concessorio, il Consiglio Comunale di Castro ha
invitato l’Ufficio competente a porre in essere tutte le
necessarie attività tecnico-amministrative finalizzate al
recupero della differenza tra il contributo concessorio
riscosso e quello dovuto in relazione alle pratiche edilizie
pervenute a far data del 01.01.2007.
In base a tale direttiva, il Responsabile del Settore
Tecnico del Comune di Castro ha dunque richiesto il “conguaglio”
(a seguito della rideterminazione in base a nuovi parametri
stabiliti ex post) degli oneri concessori versati dal
ricorrente in relazione al permesso di costruire n. 23 del
19.05.2008, in misura pari ad € 4.224,85.
Il Tribunale, in seguito alla lettura dei provvedimenti
contestati, ritiene di escludere che si sia di fronte
all’esercizio di un potere di autotutela volto a correggere
eventuali errori di determinazione o calcolo, peraltro
nemmeno chiaramente evidenziati in atti, compiuti all’epoca
del rilascio del permesso di costruire.
L’attività comunale appare invece orientata ad addossare al
privato successivamente al rilascio del titolo edilizio
costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di
adeguamento degli oneri concessori.
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi
ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di
urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle
opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale”
(cfr. art. 16, sesto comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o, in
relazione alla voce relativa al costo di costruzione,
facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per
l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in
assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta
variazione dei costi di costruzione accertata dall'ISTAT”
(cfr. art. 16, nono comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare
l’importo degli oneri concessori a fenomeni di natura
sostanzialmente inflattiva -legati all’aumento generalizzato
dei costi di urbanizzazione o costruzione- in maniera da far
corrispondere a permessi edilizi rilasciati in epoche
diverse un impegno economico sostanzialmente uniforme sui
singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza,
fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo
relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al
Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire”
e “la quota di contributo relativa al costo di
costruzione, determinata all'atto del rilascio...”), i
contributi concessori devono essere stabiliti al momento del
rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre
dunque avere riguardo per la determinazione della entità
dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al
momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario
della irretroattività delle determinazioni comunali a
carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri
generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli
oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del
principio “tempus regit actum” e, quindi, la
irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie
sopravvenute rispetto al momento del rilascio della
concessione edilizia (Cfr. ex multis: TAR Puglia
Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che
dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano
trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto
deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca
anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la
determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di
parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via
retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale
appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile
esigere periodicamente la richiesta di integrazione del
pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga
modificato, posto che tale rideterminazione appare nella
specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni
successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in
conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato
da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la
determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle
tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta
che una tantum al momento del rilascio del permesso
edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per
annualità successive al rilascio del titolo (cfr. ex
multis: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n.
49).
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa
dell’Amministrazione Comunale intimata di addossare al
titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima
l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di
aggiornamento posto che la determinazione degli oneri
concessori al momento del rilascio era stata -a quanto
risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla
base delle tabelle vigenti all’epoca.
Per ragione di completezza, si precisa che, anche
qualificando come conseguenza del potere di autotutela la
richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa
risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente
in violazione dell’art. 21-nonies Legge 07.08.1990 n. 241 e
ss.mm. posto che:
- non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere,
limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e
le tabelle succedutesi nel tempo;
- non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico
con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'
affidamento ingeneratosi nel privato;
- in particolare non viene data alcuna motivazione in
relazione al tempo trascorso, quasi tre anni, tra la
determinazione originaria e la successiva rideterminazione,
tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della Legge n.
241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato
“entro un ragionevole termine”.
In conclusione, per le ragioni esposte, vista
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, il ricorso deve
essere accolto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 25.07.2014 n. 1981 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
fatto obbligo all’autorità comunale in sede di rilascio dei
titoli abilitativi, verificare la sussistenza della
titolarità del diritto di proprietà o altro diritto reale in
capo al soggetto istante.
---------------
Se è vero che i titoli edilizi siano rilasciati "con
salvezza dei diritti dei terzi" con la conseguenza che la
loro rilevanza si esaurisce nel rapporto pubblicistico tra
il richiedente e l'Amministrazione che, quindi, non è tenuta
a interessarsi di controversie esistenti tra il richiedente
e terzi né a svolgere particolari e approfondite indagini,
la legge -stabilendo che il titolo è rilasciato al
"proprietario o a chi abbia titolo per richiederlo"- impone
comunque all'Amministrazione di procedere a una verifica
circa l'esistenza del diritto di proprietà o di un altro
diverso e idoneo diritto di godimento.
Preliminarmente va respinta l’eccezione di giurisdizione.
Con il ricorso all’esame del Collegio la ricorrente lamenta
la illegittimità dell’esercizio di un potere indubbiamente
autoritativo quale la pianificazione urbanistica, lamentando
la lesione di posizione sostanziale di interesse legittimo,
secondo il criterio della “causa petendi” cioè
dell'intrinseca natura della controversia dedotta in
giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti
allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti sono
manifestazione (Cassazione Sez. Unite, 26.01.2011 n. 1767;
TAR Campania Napoli, sez. V, 01.04.2011, n. 1909).
Le questioni civilistiche intercorse tra la ricorrente ed il
controinteressato in materia di titolarità del diritto di
proprietà dell’area interessata dall’intervento oggetto
della adottata variante, pur effettivamente poste ad unico
motivo della deliberazione impugnata, costituiscono in linea
generale presupposto per l’esercizio dello ius
aedificandi, dal momento che è fatto obbligo
all’autorità comunale in sede di rilascio dei titoli
abilitativi, verificare la sussistenza della titolarità del
diritto di proprietà o altro diritto reale in capo al
soggetto istante (ex multis Consiglio di Stato, sez.
IV, 04.05.2010, n. 2546; TAR Lazio-Latina 23.09.2013, n.
725)
Va pertanto affermata la giurisdizione del giudice
amministrativo.
---------------
Questione dirimente per la
decisione della controversia va individuata nella
legittimità del disposto stralcio per effetto delle
contestazioni sorte in sede di osservazioni alla variante
adottata in merito alla titolarità del diritto di proprietà
sulle aree interessate dall’intervento richiesto dalla
ricorrente, si da consentire l’esame unitario delle
doglianze rubricate, da essa tutte dipendenti in senso
logico.
Ritiene la ricorrente, in buona sostanza, che tale unica
motivazione sia frutto di evidente sviamento, non potendo
l’Amministrazione sottrarsi dal compito di interpretare le
proprie norme urbanistiche, con particolare riferimento
all’art. 120 delle N.T.A., in luogo di una indebita
ingerenza nelle questioni interprivate sorte tra la
ricorrente ed il controinteressato.
Trascura la ricorrente che se è vero che i titoli edilizi
siano rilasciati "con salvezza dei diritti dei terzi"
con la conseguenza che la loro rilevanza si esaurisce nel
rapporto pubblicistico tra il richiedente e
l'Amministrazione che, quindi, non è tenuta a interessarsi
di controversie esistenti tra il richiedente e terzi né a
svolgere particolari e approfondite indagini, la legge
-stabilendo che il titolo è rilasciato al "proprietario o
a chi abbia titolo per richiederlo"- impone comunque
all'Amministrazione di procedere a una verifica circa
l'esistenza del diritto di proprietà o di un altro diverso e
idoneo diritto di godimento (ex multis Consiglio di
Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2546; TAR Lazio-Latina
23.09.2013, n. 725; TAR Umbria 29.08.2013, n.452).
L’incertezza della titolarità del diritto di proprietà, nel
caso di specie, è sorta fin dal rilascio del permesso di
costruire n. 15/2011 dal momento che da prima il Comune
resistente ne ha condizionato il rilascio alla previa
verifica della effettiva conformità del progetto presentato
con le disposizioni di P.R.G., mentre in seguito la stessa
ricorrente ha preferito sospendere l’esecuzione dei lavori
già assentiti, comportamento del tutto anomalo laddove fosse
invece certa la possibilità di edificare, come vorrebbe
invece far intendere la ricorrente.
In tal quadro di obiettiva incertezza ben noto all’odierna
istante, la scelta del Comune di procedere allo stralcio
della variante in riferimento all’area di proprietà della
sig.ra D., nella sostanza (Consiglio di Stato sez. IV,
03.10.2012, n. 3697) equivalente ad atto di diniego
dell’approvazione della variante stessa, appare senz’altro
riconducibile alle prerogative pubblicistiche comunali in
materia di gestione del territorio, per accertata
insussistenza dei presupposti normativi per realizzare
l’intervento richiesto.
Per le suesposte considerazioni la deliberazione consiliare
impugnata risulta immune da tutte le censure di violazione
di legge ed eccesso di potere dedotte
(TAR Umbria,
sentenza 25.07.2014 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, il
titolo per l'immissione in possesso del bene e per la
trascrizione nei registri immobiliari è costituito
dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a
demolire, “ma per tale atto deve intendersi non il mero
verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo
carattere endoprocedimentale, ma solo il formale
accertamento compiuto dall'organo dell'Ente dotato della
relativa potestà provvedimentale” con la conseguenza che “il
ricorso proposto contro il mero verbale è inammissibile, in
quanto incentrato su atto avente valore endoprocedimentale
ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni
effettuate durante l'accesso ai luoghi, occorrendo che la
competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito
attraverso un formale atto di accertamento. La potestà
lesiva è, quindi, ravvisabile soltanto nel cennato atto
formale di accertamento ex art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380
del 2001, con cui l'autorità amministrativa comunale
recepisce gli esiti del sopralluogo e forma, quindi, il
titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita
dell'immobile al proprio patrimonio”.
Giova osservare, in merito, che ai sensi
dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, il titolo per
l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei
registri immobiliari è costituito dall'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, “ma per tale
atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di
inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma
solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'Ente
dotato della relativa potestà provvedimentale” con la
conseguenza che “il ricorso proposto contro il mero verbale
è inammissibile, in quanto incentrato su atto avente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi,
occorrendo che la competente autorità amministrativa ne
faccia proprio l'esito attraverso un formale atto di
accertamento. La potestà lesiva è, quindi, ravvisabile
soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31,
comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità
amministrativa comunale recepisce gli esiti del sopralluogo
e forma, quindi, il titolo ricognitivo idoneo
all'acquisizione gratuita dell'immobile al proprio
patrimonio” (cfr. ex multis, Tar Valle d’Aosta, Aosta,
sezione prima, 24.07.2012, n. 74; Tar Campania, Napoli,
sezione ottava, 11.10.2011, n. 4645; sezione settima, 08.07.2011, n. 3647; sezione terza,
01.02.2011, n.
633)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.07.2014 n. 4211 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria che riguardi opere
abusive realizzate su un'area oggetto di vincolo
paesaggistico—ambientale, produce l'effetto, così come in
caso di proposizione di istanza di accertamento di
conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001
successivamente all'impugnazione dell'ordine di demolizione,
di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per carenza
di interesse.
Infatti, il riesame dell'abusività dell'opera provocato
dall'istanza di sanatoria determina la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto
(espresso o tacito), che vale comunque a rendere inefficace
il provvedimento sanzionatorio, oggetto dell'originario
ricorso, che deve conseguentemente essere dichiarato
improcedibile per carenza di interesse perché l'interesse
del responsabile dell'abuso si sposta, dall'annullamento del
provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto
inefficace, all'annullamento dell'eventuale provvedimento di
rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali
ulteriori provvedimenti sanzionatori.
---------------
Tali conclusioni valgono a condizione che si tratti di opere
che, prima facie, non hanno determinato la creazione di
superfici utili o volumi ovvero un aumento di quelli
legittimamente realizzati, e questo in quanto l'art. 146,
comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004 esclude dal
divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica, in
sanatoria (ossia successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi) i casi previsti dall'articolo
167, comma 4, del medesimo decreto legislativo, costituiti
-oltre che dall'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria- proprio dai “lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” (per
contro, per i lavori realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica che hanno determinato la
creazione di superfici utili o volumi ovvero un aumento di
quelli legittimamente realizzati, deve affermarsi
l'inidoneità della presentazione dell'istanza di
accertamento di conformità a determinare l'inefficacia
dell'ordine di demolizione relativo a tali lavori, posto che
tale istanza avrebbe un intento meramente dilatorio ed è
palese che il contenuto dispositivo del provvedimento
impugnato -ossia l'ordine di demolizione- non potrà essere
diverso a seguito della pronuncia dell'Amministrazione sulla
richiesta di sanatoria).
Al di là del contenuto del parere, il collegio
si riporta alla giurisprudenza consolidata, anche di questo
Tribunale, secondo la quale la presentazione dell'istanza di
sanatoria che riguardi opere abusive realizzate su un'area
oggetto di vincolo paesaggistico—ambientale, produce
l'effetto, così come in caso di proposizione di istanza di
accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001 successivamente all'impugnazione dell'ordine di
demolizione, di rendere improcedibile l'impugnazione stessa
per carenza di interesse. Infatti, il riesame dell'abusività
dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria determina la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto (espresso o tacito), che vale
comunque a rendere inefficace il provvedimento
sanzionatorio, oggetto dell'originario ricorso, che deve
conseguentemente essere dichiarato improcedibile per carenza
di interesse perché l'interesse del responsabile dell'abuso
si sposta, dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio
già adottato e divenuto inefficace, all'annullamento
dell'eventuale provvedimento di rigetto della domanda di
sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti
sanzionatori (ex multis TAR Napoli sez. VII, 07.10.2011 n. 4633).
Tali conclusioni valgono a condizione che si tratti di opere
che, prima facie, non hanno determinato la creazione di
superfici utili o volumi ovvero un aumento di quelli
legittimamente realizzati, e questo in quanto l'art. 146,
comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004 esclude dal
divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica, in
sanatoria (ossia successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi) i casi previsti dall'articolo
167, comma 4, del medesimo decreto legislativo, costituiti -oltre che dall'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria- proprio dai “lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” (per
contro, per i lavori realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica che hanno determinato la
creazione di superfici utili o volumi ovvero un aumento di
quelli legittimamente realizzati, deve affermarsi
l'inidoneità della presentazione dell'istanza di
accertamento di conformità a determinare l'inefficacia
dell'ordine di demolizione relativo a tali lavori, posto che
tale istanza avrebbe un intento meramente dilatorio ed è
palese che il contenuto dispositivo del provvedimento
impugnato -ossia l'ordine di demolizione- non potrà essere
diverso a seguito della pronuncia dell'Amministrazione sulla
richiesta di sanatoria)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
misura della demolizione per la realizzazione senza titolo
di nuove opere in zone vincolate è applicabile sia che venga
accertato l'inizio, sia nel caso di avvenuta completa
esecuzione di interventi abusivi.
In particolare, la corretta interpretazione dell'art. 27 del
D.P.R. n. 380/2001 -la cui formulazione differisce, tra
l'altro, dal precedente art. 4 della L. n. 47/1985 anche nel
riferimento espresso all'accertamento dell'esecuzione (e non
più soltanto dell'"inizio") delle opere- conduce a ritenere
innanzi tutto che l'inizio dell'esecuzione dell'opera
abusiva costituisca la condizione minima per l'adozione del
provvedimento di demolizione, ma né la lettera né lo scopo
della norma legittimano a ritenere che l'adozione di tale
provvedimento sia preclusa nel caso in cui l'opera sia
ultimata.
Da rigettare è altresì la censura, in
verità appena ventilata, contenuta nel primo motivo di
ricorso, basata sulla circostanza di fatto che al momento
dell’adozione del provvedimento sanzionatorio, le opere
sarebbero state terminate e, pertanto, non sarebbe
applicabile la procedura di demolizione d’ufficio, prevista
dall’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001.
Il testo del comma 2 dell’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001
prevede che il dirigente o il responsabile ordini la
demolizione, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di
opere eseguite” senza titolo in area vincolata.
Dal testo della norma in questione si evince chiaramente
come la misura della demolizione per la realizzazione senza
titolo di nuove opere in zone vincolate è applicabile sia
che venga accertato l'inizio, sia nel caso di avvenuta
completa esecuzione di interventi abusivi
In particolare, la corretta interpretazione dell'art. 27 del
D.P.R. n. 380/2001 -la cui formulazione differisce, tra
l'altro, dal precedente art. 4 della L. n. 47/1985 anche nel
riferimento espresso all'accertamento dell'esecuzione (e non
più soltanto dell'"inizio") delle opere- conduce a ritenere
innanzi tutto che l'inizio dell'esecuzione dell'opera
abusiva costituisca la condizione minima per l'adozione del
provvedimento di demolizione, ma né la lettera né lo scopo
della norma legittimano a ritenere che l'adozione di tale
provvedimento sia preclusa nel caso in cui l'opera sia
ultimata (TAR Lazio Roma Sez. I-quater Sent., 16.04.2008,
n. 3259; in termini Cons. Stato, Sez. IV Sent., 10.08.2007,
n. 4396, TAR Campania Napoli Sez. VI, 30.01.2007, n. 766)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.07.2014 n. 4197 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla
possibilità -o meno- di accedere alla documentazione
(segnalazione pervenuta al Comune e verbale di sopralluogo
esperito dall’UTC) che ha determinato
il Comune ad adottare nei confronti dei ricorrenti la
diffida ad eliminare ad horas pigne e rami secchi
dei pini che sorgono sul terreno di loro proprietà
suscettibili di determinare, secondo l’amministrazione,
pericoli per la pubblica e privata incolumità.
In linea generale, il Collegio rileva
che non può essere negato l’accesso ai documenti che
riguardano espressamente la posizione giuridica degli
instanti e che possono da questi essere utilizzati a fini di
tutela giurisdizionale.
Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, che è
condivisa da questo Collegio, rientrano nel novero di questi
atti, le diffide, le denunce, gli esposti presentati da un
privato ad una pubblica amministrazione, che abbiano
determinato l’attivazione di un potere di controllo,
ispettivo o di vigilanza; non vi osta, infatti, il diritto
alla riservatezza che non può essere invocato quando la
richiesta di accesso ha ad oggetto il contenuto di denunce o
rapporti informativi nell’ambito di un procedimento
ispettivo o di controllo, giacché la conoscenza integrale
dell’esposto rappresenta uno strumento indispensabile per la
tutela degli interessi giuridici del richiedente, in quanto
solo avendo accesso agli atti che lo riguardano egli può
eventualmente difendere in giudizio la propria posizione e i
propri interessi giuridici.
Ciò in quanto nell’attuale sistema di diritto positivo, la
tutela dell'accesso prevale sulla tutela della riservatezza
qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei
propri interessi giuridici, salvo che vengano in
considerazione dati sensibili o sensibilissimi, evenienza
che non risulta nel caso in questione.
... per l'annullamento
del silenzio serbato sull'istanza di accesso del 25.03.2014 e conseguente accertamento del diritto all’accesso e
ordine di esibizione dei documenti richiesti e precisamente
della segnalazione che ha dato origine al sopralluogo e al
verbale redatto in sede di sopralluogo e tutti gli atti
consequenziali;
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Come esposto in fatto i ricorrenti hanno chiesto di accedere
alla documentazione (segnalazione pervenuta al Comune e
verbale di sopralluogo esperito dall’UTC) che ha determinato
il Comune di Caserta ad adottare nei loro confronti la
diffida n. 13/2014 ad eliminare ad horas pigne e rami secchi
dei pini che sorgono sul terreno di loro proprietà
suscettibili di determinare, secondo l’amministrazione,
pericoli per la pubblica e privata incolumità.
In linea generale, il Collegio rileva che non può essere
negato l’accesso ai documenti che riguardano espressamente
la posizione giuridica degli instanti e che possono da
questi essere utilizzati a fini di tutela giurisdizionale.
Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, che è
condivisa da questo Collegio (ex multis, C.d.S. sez. V,
sentenze n. 5132 del 28.09.2012, sez. IV n. 4769/2011,
TAR Campania, Napoli, questa stessa sezione, 16.06.2010
n. 14859), rientrano nel novero di questi atti, le diffide,
le denunce, gli esposti presentati da un privato ad una
pubblica amministrazione, che abbiano determinato
l’attivazione di un potere di controllo, ispettivo o di
vigilanza; non vi osta, infatti, il diritto alla
riservatezza che non può essere invocato quando la richiesta
di accesso ha ad oggetto il contenuto di denunce o rapporti
informativi nell’ambito di un procedimento ispettivo o di
controllo, giacché la conoscenza integrale dell’esposto
rappresenta uno strumento indispensabile per la tutela degli
interessi giuridici del richiedente, in quanto solo avendo
accesso agli atti che lo riguardano egli può eventualmente
difendere in giudizio la propria posizione e i propri
interessi giuridici.
Ciò in quanto nell’attuale sistema di diritto positivo, la
tutela dell'accesso prevale sulla tutela della riservatezza
qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei
propri interessi giuridici, salvo che vengano in
considerazione dati sensibili o sensibilissimi (cfr. ex multis, Consiglio Stato, sez. VI, 23.10.2007, n.
5569), evenienza che non risulta nel caso in questione.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere accolto e, per
l’effetto, va dichiarato illegittimo l’impugnato
silenzio-rigetto e ordinato all’amministrazione di
consentire, ai sensi dell’art. 25 l. 241/1990 s.m.i, agli
interessati l’accesso ai documenti richiesti secondo le
modalità indicate in dispositivo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.07.2014 n. 4177 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Sulla qualificazione del certificato di
esecuzione dei lavori.
Con la
sentenza 21.07.2014 n. 32046
la V Sez. penale della Corte di Cassazione ha preso
posizione in ordine alla natura del certificato di
esecuzione dei lavori (cd. CEL) giungendo
ad escludere che possa essere ritenuto un atto pubblico e,
conseguentemente, che il direttore dei lavori dell’opera cui
si riferisce sia un pubblico ufficiale nel momento in cui lo
sottoscrive.
La nozione di atto pubblico -si legge in sentenza– comprende
un’ampia estensione tipologica di scritti, inclusi gli atti
non previsti tassativamente dalla legge come tali: ai fini
della configurabilità dell’atto pubblico, riveste carattere
essenziale la provenienza dell’atto da un pubblico
ufficiale, la formazione dello stesso per uno scopo inerente
alle funzioni svolte dal medesimo, ed il contributo fornito
dall’atto ad un procedimento della pubblica amministrazione.
Ciò posto –prosegue la Corte– i certificati di esecuzione
dei lavori rilasciati dai committenti privati e
controfirmati dal direttore dei lavori, sono espressamente
configurati dal D.Lgs. n. 163 del 2006, la cui allegazione
alla richiesta di attestazione per la qualificazione SOA ha
il fine di documentare il possesso da parte del richiedente,
di alcuni requisiti tecnici previsti dalla normativa per il
rilascio dell’anzidetta attestazione.
Ebbene, il fatto che tale documento sia disciplinato da
norma di diritto pubblico e che il suo rilascio si inserisce
in una procedura da esse disciplinata, non costituiscono
ragioni sufficienti per conferirgli dignità di atto pubblico
e per attribuire al professionista che lo sottoscrive la
qualifica di pubblico ufficiale (tratto da
www.giurisprudenzapenale.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
orientamento condiviso dal Collegio quello a mente del quale
ai sensi dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, è illegittimo
il diniego di rilascio della concessione edilizia che non
sia stato preceduto dalla previa comunicazione
all'interessato dei motivi che ostano all'accoglimento della
sua istanza.
La norma invocata assume carattere e natura di principio, le
cui eccezioni sono individuate ex lege e, in quanto tali,
non sono estensibili analogicamente.
In proposito, l'amministrazione deve adeguatamente valutare
le osservazioni formulate dal privato a seguito della
comunicazione ex art. 10-bis, dal momento che tale norma
sancisce espressamente che: "dell'eventuale mancato
accoglimento di tali ragioni è data motivazione nel
provvedimento finale”.
- atteso che, in linea di diritto, costituisce
orientamento condiviso dal Collegio quello a mente del quale
ai sensi dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, è illegittimo
il diniego di rilascio della concessione edilizia che non
sia stato preceduto dalla previa comunicazione
all'interessato dei motivi che ostano all'accoglimento della
sua istanza (cfr. ad es. Tar Campania 5940/2013);
- considerato che la norma invocata assume carattere e
natura di principio, le cui eccezioni sono individuate ex lege (senza che vi rientri il caso di specie) e, in quanto
tali, non sono estensibili analogicamente;
- atteso che, in proposito, l'amministrazione deve
adeguatamente valutare le osservazioni formulate dal privato
a seguito della comunicazione ex art. 10-bis, dal momento
che tale norma sancisce espressamente che: "dell'eventuale
mancato accoglimento di tali ragioni è data motivazione nel
provvedimento finale”
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1159 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
divisione ed il frazionamento di un immobile in due unità,
autonomamente utilizzabili e con distinti ingressi e
servizi, costituisce ristrutturazione edilizia che,
comportando mutamento di destinazione d'uso e comunque un
evidente maggiore carico urbanistico, giustifica il
pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Ad analoghe conclusioni è altresì giunta la giurisprudenza
penale (a conferma della qualificazione in termini di
principio della materia edilizio–urbanistica) laddove,
proprio in relazione a lavori finalizzati a suddividere un
preesistente fabbricato in due unità immobiliari, mediante
opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte
e finestre esterne, si è ritenuto integrato il reato di
costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b),
d.P.R. 06.06.2001 n. 380) l'esecuzione di interventi di
ristrutturazione edilizia incidenti sul carico urbanistico
realizzati mediante d.i.a. semplice, in quanto attività
edilizia eseguibile esclusivamente in base alla d.i.a.
alternativa al permesso di costruire.
In generale, per una corretta qualificazione dell’intervento
edilizio occorre guardare non solo alla mera opera materiale
bensì al complessivo risultato ottenuto mediante la stessa,
per cui anche semplici interventi edilizi interni che danno
vita ad un'unica vasta unità immobiliare ovvero a due nuove
unità in luogo dell’unica precedente provocano una diversa
utilizzazione dell'area interessata ed una sensibile
variazione quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
Sul secondo versante, la correttezza
della qualificazione posta a base della determinazione
comunale trova il proprio dirimente sostegno nella palese
sussistenza di un aumento del c.d. carico urbanistico, a
fronte della consistenza dell’intervento progettato.
In proposito, costituisce opinione prevalente, condivisa dal
Collegio ed integrante un’indicazione di principio tale da
fungere da ausilio ermeneutico anche per le discipline
regionali e locali, la considerazione in base alla quale la
divisione ed il frazionamento di un immobile in due unità,
autonomamente utilizzabili e con distinti ingressi e
servizi, costituisce ristrutturazione edilizia che,
comportando mutamento di destinazione d'uso e comunque un
evidente maggiore carico urbanistico, giustifica il
pagamento degli oneri di urbanizzazione (CdS 2838/2012).
Ad
analoghe conclusioni è altresì giunta la giurisprudenza
penale (a conferma della qualificazione in termini di
principio della materia edilizio–urbanistica) laddove,
proprio in relazione a lavori finalizzati a suddividere un
preesistente fabbricato in due unità immobiliari, mediante
opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte
e finestre esterne, si è ritenuto integrato il reato di
costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R.
06.06.2001 n. 380) l'esecuzione di interventi di
ristrutturazione edilizia incidenti sul carico urbanistico
realizzati mediante d.i.a. semplice, in quanto attività
edilizia eseguibile esclusivamente in base alla d.i.a.
alternativa al permesso di costruire (cfr. ad es. Cass. Pen.
20350/2010).
In generale, per una corretta qualificazione dell’intervento
edilizio occorre guardare non solo alla mera opera materiale
bensì al complessivo risultato ottenuto mediante la stessa,
per cui anche semplici interventi edilizi interni che danno
vita ad un'unica vasta unità immobiliare ovvero a due nuove
unità in luogo dell’unica precedente provocano una diversa
utilizzazione dell'area interessata ed una sensibile
variazione quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
Nel caso de quo, la suddivisione dell’unità immobiliare in
due immobili distinti appare pacifica, con la conseguenza
che il relativo impatto urbanistico ne impone una
qualificazione che, a norma della pianificazione comunale
vigente, comporta la necessaria presentazione di uno
strumento urbanistico attuativo, senza poter quindi seguire
la strada tentata da parte ricorrente della c.d. d.i.a.
semplice (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1155 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: La
norma di cui all’art. 10-bis l. 241/1990, nel disciplinare
l'istituto del cd. "preavviso di rigetto", ha lo scopo di
far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio
rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti
dell'istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e
giuridiche, dell'interessato che potrebbero contribuire a
far assumere agli organi competenti una diversa
determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando
una possibile riduzione del contenzioso fra le parti.
Tuttavia, l'obbligo di motivazione gravante sulla P.A. a
fronte delle osservazioni proposte a seguito del preavviso
di rigetto non impone ai fini della legittimità del
definitivo diniego dell'istanza dell'interessato, la
puntuale e analitica confutazione delle singole
argomentazioni svolte dall'interessato, essendo sufficiente
la motivazione complessivamente e logicamente resa a
sostegno del provvedimento finale.
Inoltre, avendo la norma lo scopo di far conoscere alle
amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle
motivazioni da queste assunte in base agli esiti
dell'istruttoria espletata, quelle ragioni (fattuali e
giuridiche) dell'interessato, che potrebbero contribuire a
far assumere agli organi competenti una diversa
determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo, è ben
possibile che la motivazione finale non coincida in toto,
negli esiti e negli ambiti, con quanto paventato in sede di
comunicazione.
In proposito, costituisce esito
fisiologico della stessa funzione della comunicazione di cui
all’art. 10-bis che la p.a. procedente possa giungere a
meglio definire e chiarire la posizione negativa proprio
sulla scorta delle osservazioni che il privato, posto in
condizione di conoscere preventivamente l’avviso negativo
della p.a., ha avuto modo di formulare partecipando.
In
linea di diritto, va ribadito che la norma di cui all’art.
10-bis l. 241 cit., nel disciplinare l'istituto del cd.
"preavviso di rigetto", ha lo scopo di far conoscere alle
amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle
motivazioni da esse assunte in base agli esiti
dell'istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e
giuridiche, dell'interessato che potrebbero contribuire a
far assumere agli organi competenti una diversa
determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando
una possibile riduzione del contenzioso fra le parti;
tuttavia, l'obbligo di motivazione gravante sulla P.A. a
fronte delle osservazioni proposte a seguito del preavviso
di rigetto non impone ai fini della legittimità del
definitivo diniego dell'istanza dell'interessato, la
puntuale e analitica confutazione delle singole
argomentazioni svolte dall'interessato, essendo sufficiente
la motivazione complessivamente e logicamente resa a
sostegno del provvedimento finale (Tar Lombardia n.
395/2014); inoltre, avendo la norma lo scopo di far
conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto
alle motivazioni da queste assunte in base agli esiti
dell'istruttoria espletata, quelle ragioni (fattuali e
giuridiche) dell'interessato, che potrebbero contribuire a
far assumere agli organi competenti una diversa
determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo, è ben
possibile che la motivazione finale non coincida in toto,
negli esiti e negli ambiti, con quanto paventato in sede di
comunicazione
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1154 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia edilizia la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno
stabile collegamento con il terreno interessato
dall'intervento edilizio è sufficiente a comprovare la
sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a
ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche
allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per
effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo
limitrofo.
In linea di diritto, va ulteriormente
ribadito che in materia edilizia la mera vicinitas, ossia
l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno
interessato dall'intervento edilizio è sufficiente a
comprovare la sussistenza sia della legittimazione che
dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al
ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico
pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria
intrapresa sul suolo limitrofo (cfr. ex multis Consiglio di
Stato n. 3094/2014 e Tar Liguria n. 1257/2013).
Nel caso di specie la vicinanza e l'identità del contesto
territoriale ed urbanistico fra immobile dei ricorrenti ed
immobile interessato dalle opere contestate è indiscussa,
come emerge dalla documentazione cartografica, fotografica e
anche progettuale versata in atti (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In relazione all’impugnativa di titoli in
sanatoria, la giurisprudenza prevalente, condivisa dal
Collegio, ritiene che nel caso d'impugnazione del titolo
edilizio in sanatoria il termine decorra dalla data in cui
sia portato a conoscenza che, per una determinata opera
abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione
edilizia in sanatoria.
In proposito, anche per evidenti ragioni connesse alla
natura delle opere, in materia occorre distinguere:
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "ordinario"
-salvo che non venga fornita la prova certa di una
conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il
termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori,
cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la
reale portata dell'intervento in precedenza assentito;
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "in
sanatoria" il termine decorre invece solamente dalla data in
cui sia portato a conoscenza che, per una determinata opera
abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione
edilizia in sanatoria.
In linea di diritto, in
relazione all’impugnativa di titoli in sanatoria, la
giurisprudenza prevalente, condivisa dal Collegio, ritiene
che nel caso d'impugnazione del titolo edilizio in sanatoria
il termine decorra dalla data in cui sia portato a
conoscenza che, per una determinata opera abusiva già
esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in
sanatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato n. 1699/2013 e
8017/2011).
In proposito, anche per evidenti ragioni
connesse alla natura delle opere, in materia occorre
distinguere: nel caso di impugnazione del titolo edilizio
"ordinario" -salvo che non venga fornita la prova certa di
una conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il
termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori,
cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la
reale portata dell'intervento in precedenza assentito (cfr.
ex multis Cons. St., Ad. Plen., 29.07.2011 n. 15; Cons.
St., sez. VI, 10.12.2010 n. 8705); nel caso di
impugnazione del titolo edilizio "in sanatoria" il termine
decorre invece solamente dalla data in cui sia portato a
conoscenza che, per una determinata opera abusiva già
esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in
sanatoria (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
jus receptum il principio a mente del quale in materia di
autotutela decisoria, stante la pacifica natura
discrezionale dell'atto di annullamento d'ufficio, occorre
dar corso alla comunicazione d'avvio del procedimento di
ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241,
trattandosi pur sempre di attività di secondo grado
incidente su situazioni giuridiche "medio tempore"
consolidatesi ed astretta pertanto a stringenti limiti
applicativi.
In proposito, costituisce jus receptum il
principio a mente del quale in materia di autotutela
decisoria, stante la pacifica natura discrezionale dell'atto
di annullamento d'ufficio, occorre dar corso alla
comunicazione d'avvio del procedimento di ritiro, ai sensi
dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi pur sempre
di attività di secondo grado incidente su situazioni
giuridiche "medio tempore" consolidatesi ed astretta
pertanto a stringenti limiti applicativi (cfr. ad es. CdS
4997/2012)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
affermato che per gli appalti di lavori le stazioni
appaltanti sono tenute a verificare gli oneri per la
sicurezza nella sola fase di verifica dell’anomalia
dell’offerta. Non è, pertanto, necessario indicare
nell’offerta i costi per la sicurezza aziendale.
---------------
L’art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che le
concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale
disciplina del diritto comunitario e del codice dei
contratti pubblici e che ad esse si applicano i principi
desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, i principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero
soggetti qualificati in relazione all’oggetto della
concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
I costi sostenuti per la sicurezza non possono farsi
rientrare tra i principi generali a tutela della
concorrenza, in quanto perseguono la diversa finalità di
tutela dei lavoratori e vengono in rilievo, come sopra
rilevato, nella fase di verifica dell’anomalia dell’offerta.
Del resto, se la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
escluso che sussiste finanche per i contratti di appalto di
lavori disciplinati dal Codice l’obbligo di indicare
nell’offerta gli oneri di sicurezza, non potrebbe
sostenersi, come ha fatto il primo giudice, che tale obbligo
trovi applicazione per le concessioni di servizi.
L’art. 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede
che: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella
valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di
affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di
forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che
il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al
costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il
quale deve essere specificamente indicato e risultare
congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei
lavori, dei servizi o delle forniture».
L’art. 87 dello stesso decreto legislativo dispone, al comma
4, che: «nella valutazione dell’anomalia la stazione
appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza,
che devono essere specificamente indicati nell’offerta e
risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche
dei servizi o delle forniture».
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che,
alla luce di quanto disposto dalle norme sopra riportate,
per gli appalti di lavori le stazioni appaltanti sono tenute
a verificare gli oneri per la sicurezza nella sola fase di
verifica dell’anomalia dell’offerta. Non è, pertanto,
necessario indicare nell’offerta i costi per la sicurezza
aziendale (in questo senso, da ultimo, Cons. Stato, V,
17.06.2014, n. 3056).
L’art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che le
concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale
disciplina del diritto comunitario e del codice dei
contratti pubblici e che ad esse si applicano i principi
desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, i principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero
soggetti qualificati in relazione all’oggetto della
concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
I costi sostenuti per la sicurezza non possono farsi
rientrare tra i principi generali a tutela della
concorrenza, in quanto perseguono la diversa finalità di
tutela dei lavoratori e vengono in rilievo, come sopra
rilevato, nella fase di verifica dell’anomalia dell’offerta.
Del resto, se la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
escluso che sussiste finanche per i contratti di appalto di
lavori disciplinati dal Codice l’obbligo di indicare
nell’offerta gli oneri di sicurezza, non potrebbe
sostenersi, come ha fatto il primo giudice, che tale obbligo
trovi applicazione per le concessioni di servizi (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.07.2014 n. 3864 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALI: L’art.
38 del d.lgs. n. 267/2000, dando seguito al principio di
pubblicità degli atti dell’amministrazione comunale sancito
dall’art. 10, dispone: “Quando lo statuto lo preveda, il
consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio
seno con criterio proporzionale. Il regolamento determina i
poteri delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e
le forme di pubblicità dei lavori. Le sedute del consiglio e
delle commissioni sono pubbliche salvi i casi previsti dal
regolamento”.
Ciò vuol dire che chiunque può assistere ai lavori delle
Commissioni senza doverne spiegare le ragioni.
Ne consegue che non può denegarsi al cittadino l’accesso ai
verbali che sono il resoconto delle sedute delle
Commissioni, sul presupposto che la relativa istanza sarebbe
preordinata ad esercitare un controllo generalizzato
sull’attività che esse svolgono.
Ammettere il contrario sarebbe come dire che le sedute delle
Commissioni sono pubbliche, ma non lo sono i relativi
verbali, in aperta violazione sia con il principio sancito
dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 -tutti gli atti
dell'amministrazione comunale e provinciale sono pubblici-
che con l’art. 1 del d.lgs. 33/2013 che dispone: “La
trasparenza è intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle
pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”.
La lettura coordinata delle diposizioni in rassegna consente
di affermare che non può opporsi il diniego alla ostensione
degli atti amministrativi, motivato dall’essere l’istanza
preordinata ad esercitare un controllo generalizzato laddove
gli atti richiesti, per giunta pubblici, afferiscano
all’attività istituzionale della pubblica amministrazione
–nel caso in esame proprio di questo di tratta- per la quale
il legislatore, lungi dal considerarle con sfavore, perfino
esige che siano promosse forme diffuse di controllo.
---------------
In generale l’onere di specificazione dei documenti
richiesti serve a consentire alla pubblica amministrazione
l’individuazione dei documenti, la valutazione
dell'interesse del richiedente rispetto al documento
richiesto e l'eventuale esistenza di controinteressati per
ragioni di riservatezza.
Nel caso in decisione poiché gli atti pubblici per
definizione escludono l’esistenza di soggetti
controinteressati alla loro divulgazione e, come detto, sono
accessibili senza necessità di allegare un interesse
qualificato, occorre avere riguardo solo alla prima di tali
finalità e quindi accertare se la richiesta di accedere a
tutti i verbali delle Commissioni abbia impedito al Comune
di identificare i documenti richiesti.
Il ricorso è fondato.
Occorre premettere, in linea di principio, che l’art. 38 del d.lgs. n. 267/2000, dando seguito al principio di pubblicità
degli atti dell’amministrazione comunale sancito dall’art.
10, dispone: “Quando lo statuto lo preveda, il consiglio si
avvale di commissioni costituite nel proprio seno con
criterio proporzionale. Il regolamento determina i poteri
delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e le
forme di pubblicità dei lavori. Le sedute del consiglio e
delle commissioni sono pubbliche salvi i casi previsti dal
regolamento”.
Ciò vuol dire che chiunque può assistere ai lavori delle
Commissioni senza doverne spiegare le ragioni.
Ne consegue che non può denegarsi al cittadino l’accesso ai
verbali che sono il resoconto delle sedute delle
Commissioni, sul presupposto che la relativa istanza sarebbe
preordinata ad esercitare un controllo generalizzato
sull’attività che esse svolgono.
Ammettere il contrario sarebbe come dire che le sedute delle
Commissioni sono pubbliche, ma non lo sono i relativi
verbali, in aperta violazione sia con il principio sancito
dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 -tutti gli atti
dell'amministrazione comunale e provinciale sono pubblici-
che con l’art. 1 del d.lgs. 33/2013 che dispone: “La
trasparenza è intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività
delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire
forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”.
La lettura coordinata delle diposizioni in rassegna consente
di affermare che non può opporsi il diniego alla ostensione
degli atti amministrativi, motivato dall’essere l’istanza
preordinata ad esercitare un controllo generalizzato laddove
gli atti richiesti, per giunta pubblici, afferiscano
all’attività istituzionale della pubblica amministrazione –nel caso in esame proprio di questo di tratta- per la quale
il legislatore, lungi dal considerarle con sfavore, perfino
esige che siano promosse forme diffuse di controllo.
Né può trovare accoglimento l’eccezione di genericità della
richiesta di accesso formulata in discussione dal Comune
perché avente ad oggetto indistintamente tutti i verbali
delle Commissioni.
In generale l’onere di specificazione dei documenti
richiesti serve a consentire alla pubblica amministrazione
l’individuazione dei documenti, la valutazione
dell'interesse del richiedente rispetto al documento
richiesto e l'eventuale esistenza di controinteressati per
ragioni di riservatezza.
Nel caso in decisione poiché gli atti pubblici per
definizione escludono l’esistenza di soggetti
controinteressati alla loro divulgazione e, come detto, sono
accessibili senza necessità di allegare un interesse
qualificato, occorre avere riguardo solo alla prima di tali
finalità e quindi accertare se la richiesta di accedere a
tutti i verbali delle Commissioni abbia impedito al Comune
di identificare i documenti richiesti.
E’ evidente che così non è perché il Comune non ha avuto
alcuna difficoltà ad individuare e consentire l’accesso a
“tutte” le determine di liquidazione dei gettoni di
presenza dei membri alle riunioni delle Commissioni
consiliari e, quindi, a fortiori avrebbe potuto
accogliere l’istanza di estrazione di copia dei relativi
verbali, fatta eccezione per i verbali delle sedute che il
Regolamento consiliare eventualmente escluda dal regime di
pubblicità dei lavori, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n.
267/2000
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza
18.07.2014 n. 958 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere
subordinato all'accertamento dei soli requisiti
igienico-sanitari, presuppone altresì la conformità
urbanistica ed edilizia dell'opera.
E’ stato anche
chiarito che il requisito dell'agibilità riflette non solo
la regolarità igienico-sanitaria dell'edificio, ma anche
alla sua conformità urbanistico-edilizia e paesaggistica.
Ciò premesso, secondo il dato normativo vigente, il rilascio
del certificato di agibilità presuppone la conformità del
fabbricato ai parametri normativi e regolamentari
urbanistici ed edilizi.
Invero, l'art. 24, comma 3, DPR n. 380 del 2001 dispone che
"il soggetto titolare del permesso di costruire" è tenuto "a
chiedere il certificato di agibilità".
L'art. 35, comma 20, L. 28.02.1985, n. 47 (norme in
materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia,
sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizia) prevede
che "a seguito della concessione o autorizzazione in
sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di
abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati
da norme regolamentari, qualora le opere sanate non
contrastino con le disposizioni vigenti in materia di
sicurezza statica".
I dati normativi sopra richiamati ed il principio di
ragionevolezza dell’azione amministrativa, nella valutazione
e nel bilanciamento degli interessi pubblici e privati in
campo, escludono l’utilizzo, per qualsivoglia destinazione,
di un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico
edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela
del fascio di interessi collettivi alla cui protezione
quella disciplina è preordinata.
Non a caso le sopra descritte precise indicazioni normative
sono seguite da univoca giurisprudenza, secondo cui il
rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere
subordinato all'accertamento dei soli requisiti
igienico-sanitari, presuppone altresì la conformità
urbanistica ed edilizia dell'opera (cfr. TAR Palermo,
sez. III, 20.12.2013, n. 2534). E’ stato anche
chiarito che il requisito dell'agibilità riflette non solo
la regolarità igienico-sanitaria dell'edificio, ma anche
alla sua conformità urbanistico-edilizia e paesaggistica (ex multis: Cons. Stato, sez. V, 16.05.2013, n. 2665; idem
30.04.2009, n. 2760; TAR Palermo, II, 24.05.2012, n.
1055).
Se quindi può censurarsi l’ordinanza impugnata per omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento, in applicazione
dell’art. 7 L. n. 241/1990, e per il fatto che
l’amministrazione abbia intimato la sospensione
dell’attività prima di avere concluso il procedimento
relativo alla richiesta di rilascio del certificato di
agibilità, il provvedimento impugnato si sottrae tuttavia
alle molteplici censure formulate col primo motivo di
ricorso, posto che, nella fattispecie in esame, erano del
tutto assenti i presupposti per ottenere tale rilascio (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 17.07.2014 n. 3992 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Deve, sul punto, premettersi la distinzione tra
il piano dei servizi e il piano delle regole
in relazione alla funzione dagli stessi perseguita.
Mentre, infatti, il piano dei servizi mira a
conseguire, sulla base della valutazione dei servizi
esistenti e delle risorse disponibili, una migliore politica
urbana per il benessere dei cittadini, individuando, di
conseguenza, gli spazi necessari per realizzare le nuove
infrastrutture, il piano delle regole mira a
disciplinare la migliore utilizzazione possibile del tessuto
urbano consolidato.
Inoltre, per l’opinione costante della dottrina e della
giurisprudenza amministrativa, ogni previsione
pianificatoria ha finalità ed effetti propri rispetto alle
precedenti, non sussistendo, quindi, alcun vincolo di
pregiudizialità fra piani.
Con l’approvazione della variante al PGT le previgenti
previsioni urbanistiche vengono sostituite, non potendo
sussistere alcuna ultrattività delle medesime. Ne scaturisce
un rinnovato interesse di coloro che sono danneggiati dalle
nuove determinazioni ad impugnarle.
E’ stato, in proposito, osservato che “in base al principio
della successione nel tempo delle norme, con l'approvazione
di un nuovo Piano Regolatore, le disposizioni
successivamente intervenute sostituiscono integralmente le
precedenti prescrizioni del vecchio Piano riguardanti la
zona medesima, che vengono del tutto meno per la
fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica, che
ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la finalità
di adeguare la disciplina del territorio alle sopravvenute
esigenze. Pertanto, essendo espressione di valutazione
all'attualità delle esigenze in ordine all'utilizzazione del
territorio, le nuove previsioni del Piano Regolatore: -
hanno un carattere di assoluta prevalenza; - non possono
essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività"
del precedente PRG; - si sostituiscono integralmente (salvo
il caso di una specifica norma transitoria ah hoc) alle
precedenti disposizioni le quali non possono comunque
conservare alcuna efficacia”.
---------------
Il ricorso è fondato per il primo motivo, con il quale gli
istanti hanno dedotto la carenza di istruttoria e di
motivazione alla base delle nuove previsioni urbanistiche in
relazione alla precedente vocazione edificatoria dell’area
di loro proprietà e al cospetto, dunque, di un indubbio
affidamento nei confronti dei medesimi ingenerato riguardo
alla possibilità di costruirvi una determinata volumetria.
Tale affidamento, peraltro, aveva formato oggetto di istanze
specifiche all’amministrazione comunale, ed era stato
opportunamente esternato anche mediante la presentazione di
analitiche osservazioni nel corso dell’iter di adozione e
approvazione della variante urbanistica, alle quali non si è
fornito, peraltro, specifico e adeguato riscontro.
Nonostante generalmente si ritenga, invero, sufficiente che
l’amministrazione fornisca una sommaria motivazione delle
proprie scelte pianificatorie e che non contenga, dunque,
un’analitica confutazione delle singole osservazioni svolte
dalla parte interessata, la scelta deve, pur sempre,
esternare le ragioni a supporto di una legittima e
ragionevole potestà pianificatoria.
La motivazione degli atti di pianificazione urbanistica
deve, infatti, trovare un concreto raffronto con la realtà
territoriale del comune cui si riferisce, evidenziandone le
peculiarità che ne giustificano la scelta anche in relazione
ai contrapposti interessi dei privati, eventualmente
contemperando le più varie esigenze, soprattutto quando si
va a modificare un assetto ormai consolidato e per gli
stessi molto più vantaggioso.
Deve, inoltre, osservarsi che, sebbene non sussista un
obbligo di previsione di un sistema urbanistico perequativo
o compensativo, la tendenza è in tal senso, in adesione a
politiche urbanistiche fondate su scelte operative volte a
rendere i proprietari delle aree coinvolte compartecipi
delle determinazioni, oltre che basate su una sempre più
equa ripartizione del peso derivante dai vincoli imposti ai
privati, anche di tipo conformativo.
Deve, sul punto, premettersi la distinzione tra il piano
dei servizi e il piano delle regole in relazione
alla funzione dagli stessi perseguita.
Mentre, infatti, il piano dei servizi mira a
conseguire, sulla base della valutazione dei servizi
esistenti e delle risorse disponibili, una migliore politica
urbana per il benessere dei cittadini, individuando, di
conseguenza, gli spazi necessari per realizzare le nuove
infrastrutture, il piano delle regole mira a
disciplinare la migliore utilizzazione possibile del tessuto
urbano consolidato.
Inoltre, per l’opinione costante della dottrina e della
giurisprudenza amministrativa, ogni previsione
pianificatoria ha finalità ed effetti propri rispetto alle
precedenti, non sussistendo, quindi, alcun vincolo di
pregiudizialità fra piani.
Con l’approvazione della variante al PGT le previgenti
previsioni urbanistiche vengono sostituite, non potendo
sussistere alcuna ultrattività delle medesime. Ne scaturisce
un rinnovato interesse di coloro che sono danneggiati dalle
nuove determinazioni ad impugnarle.
E’ stato, in proposito, osservato che “in base al
principio della successione nel tempo delle norme, con
l'approvazione di un nuovo Piano Regolatore, le disposizioni
successivamente intervenute sostituiscono integralmente le
precedenti prescrizioni del vecchio Piano riguardanti la
zona medesima, che vengono del tutto meno per la
fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica, che
ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la finalità
di adeguare la disciplina del territorio alle sopravvenute
esigenze. Pertanto, essendo espressione di valutazione
all'attualità delle esigenze in ordine all'utilizzazione del
territorio, le nuove previsioni del Piano Regolatore: -
hanno un carattere di assoluta prevalenza; - non possono
essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività"
del precedente PRG; - si sostituiscono integralmente (salvo
il caso di una specifica norma transitoria ah hoc) alle
precedenti disposizioni le quali non possono comunque
conservare alcuna efficacia” (Cons. Stato, sez. IV,
09.02.2012, n. 693).
Nel merito, il ricorso è fondato per il primo motivo, con il
quale gli istanti hanno dedotto la carenza di istruttoria e
di motivazione alla base delle nuove previsioni urbanistiche
in relazione alla precedente vocazione edificatoria
dell’area di loro proprietà e al cospetto, dunque, di un
indubbio affidamento nei confronti dei medesimi ingenerato
riguardo alla possibilità di costruirvi una determinata
volumetria. Tale affidamento, peraltro, aveva formato
oggetto di istanze specifiche all’amministrazione comunale,
ed era stato opportunamente esternato anche mediante la
presentazione di analitiche osservazioni nel corso dell’iter
di adozione e approvazione della variante urbanistica, alle
quali non si è fornito, peraltro, specifico e adeguato
riscontro.
Nonostante generalmente si ritenga, invero, sufficiente che
l’amministrazione fornisca una sommaria motivazione delle
proprie scelte pianificatorie e che non contenga, dunque,
un’analitica confutazione delle singole osservazioni svolte
dalla parte interessata, la scelta deve, pur sempre,
esternare le ragioni a supporto di una legittima e
ragionevole potestà pianificatoria.
La motivazione degli atti di pianificazione urbanistica
deve, infatti, trovare un concreto raffronto con la realtà
territoriale del comune cui si riferisce, evidenziandone le
peculiarità che ne giustificano la scelta anche in relazione
ai contrapposti interessi dei privati, eventualmente
contemperando le più varie esigenze, soprattutto quando si
va a modificare un assetto ormai consolidato e per gli
stessi molto più vantaggioso.
Deve, inoltre, osservarsi che, sebbene non sussista un
obbligo di previsione di un sistema urbanistico perequativo
o compensativo, la tendenza è in tal senso, in adesione a
politiche urbanistiche fondate su scelte operative volte a
rendere i proprietari delle aree coinvolte compartecipi
delle determinazioni, oltre che basate su una sempre più
equa ripartizione del peso derivante dai vincoli imposti ai
privati, anche di tipo conformativo.
Nella fattispecie in questione, invece, di tale tendenza non
si rinviene alcuna manifestazione, avendo il pianificatore
diminuito in maniera rilevante la capacità edificatoria di
un’area privata ed avendola assoggettata, per di più, a un
esclusivo vincolo a parcheggio che in precedenza era
suddiviso a carico di tutte le aree del piano attuativo. Il
tutto senza che possa evincersene a fondamento
un’approfondita istruttoria e a supporto un’adeguata
motivazione, soprattutto in corrispondenza dei contrapposti
interessi privati sussistenti.
Alla luce delle suesposte considerazioni e assorbendosi le
ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto, e, per
l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti
impugnati.
In relazione all’istanza di risarcimento del danno formulata
da parte ricorrente, allo stato non ne sussistono i
presupposti, dovendo l’amministrazione comunale
rideterminarsi in ordine alle proprie scelte pianificatorie
alla luce dei succitati principi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 11.07.2014 n. 1842 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: E'
illegittima la vendita di un immobile comunale laddove il
prezzo base è desunto (genericamente) dal piano triennale
delle alienazioni senza che sia stato determinato in
conformità a quanto previsto dal regolamento comunale per la
vendita.
Invero, il regolamento comunale stabilisce che “la
vendita non può in ogni caso avvenire ad un prezzo inferiore
a quello di mercato determinato ai sensi del precedente art.
5, posto a base delle offerte da presentare”.
Il richiamato art. 5 dispone che i beni da alienare vengono
preventivamente valutati al più probabile prezzo di mercato
a cura di un tecnico abilitato dipendente
dall’amministrazione comunale, o da commissioni tecniche, o
da professionisti esterni appositamente incaricati.
Inoltre, si stabilisce che la perizia deve espressamente
specificare: a) i criteri obiettivi e le motivazioni
tecniche che hanno portato alla determinazione del valore di
mercato dell’immobile; b) il grado di appetibilità del bene
ed il mercato potenzialmente interessato all’acquisizione,
configurato in relazione al territorio nazionale o
regionale, locale e particolare, al fine di individuare le
forme di pubblicità più efficaci per la vendita.
L’ultimo comma della norma in esame aggiunge che il prezzo a
base di vendita sarà costituito dal valore di stima
maggiorato del 2%, per compensare le spese tecniche e di
pubblicità sostenute dall’Ente.
E nel caso di specie l’amministrazione non ha effettuato una
stima del valore dell’immobile messo in vendita coerente con
i criteri regolamentari appena richiamati.
E’ fondata e presenta carattere assorbente, perché di natura
sostanziale, la censura con la quale si lamenta la
violazione degli artt. 5 e 11 del regolamento speciale per
la vendita di immobili, approvato con deliberazione del
Consiglio Comunale di Calolziocorte n. 44, del 02.07.2007.
Nel caso di specie l’amministrazione ha posto in essere una
procedura a trattativa privata, in coerenza con le
previsioni dell’art. 11 del regolamento n. 44.
Tale norma dispone che “la vendita non può in ogni caso
avvenire ad un prezzo inferiore a quello di mercato
determinato ai sensi del precedente art. 5, posto a base
delle offerte da presentare”.
Il richiamato art. 5 dispone che i beni da alienare vengono
preventivamente valutati al più probabile prezzo di mercato
a cura di un tecnico abilitato dipendente
dall’amministrazione comunale, o da commissioni tecniche, o
da professionisti esterni appositamente incaricati.
Inoltre, si stabilisce che la perizia deve espressamente
specificare: a) i criteri obiettivi e le motivazioni
tecniche che hanno portato alla determinazione del valore di
mercato dell’immobile; b) il grado di appetibilità del bene
ed il mercato potenzialmente interessato all’acquisizione,
configurato in relazione al territorio nazionale o
regionale, locale e particolare, al fine di individuare le
forme di pubblicità più efficaci per la vendita.
L’ultimo comma della norma in esame aggiunge che il prezzo a
base di vendita sarà costituito dal valore di stima
maggiorato del 2%, per compensare le spese tecniche e di
pubblicità sostenute dall’Ente.
Come condivisibilmente contestato dalla società ricorrente,
nel caso di specie l’amministrazione non ha effettuato una
stima del valore dell’immobile individuato al n. 11 del
bando coerente con i criteri regolamentari appena
richiamati.
L’amministrazione sostiene che la stima dei terreni è stata
effettuata e ciò emergerebbe dagli allegati alla delibera
consiliare n. 25 del 04.06.2012, recante l’approvazione del
piano delle alienazioni e delle acquisizioni per il triennio
2012–2014.
In particolare, la stima risulterebbe dall’allegato
denominato “elenco alienazioni anno 2012”. Tuttavia,
tale documento si limita ad individuare, al n. 11, tra i
terreni da alienare anche quelli situati in località Macorna,
rispetto ai quali evidenzia i dati catastali, la superficie
complessiva, la destinazione urbanistica ad “ambiti
agricoli di interesse strategico”, l’assenza di
possibilità edificatoria, nonché il valore fissato in
30.800,00 euro.
E’ evidente che la quantificazione del valore così operata
non integra la stima prevista dall’art. 5 del regolamento
speciale comunale.
Difatti, non vi è alcun riferimento al più probabile prezzo
di mercato e manca ogni indicazione in ordine ai criteri e
alle ragioni tecniche sottese alla determinazione;
parimenti, difetta ogni indicazione in ordine al grado di
appetibilità del bene e all’ambito territoriale del mercato
potenzialmente interessato all’acquisto.
Insomma, dall’allegato alla delibera n. 25 risulta solo la
fissazione di un valore monetario, mentre non vi sono
elementi dai quali inferire i criteri utilizzati per la sua
determinazione, né il rapporto in cui esso si colloca
rispetto al valore di mercato del bene.
Si badi, la violazione non è meramente formale, in quanto i
criteri posti dal citato art. 5 del regolamento comunale
sono evidentemente diretti ad assicurare la trasparenza
dell’azione amministrativa e a garantire che l’alienazione
degli immobili avvenga per valori coerenti con l’andamento
del mercato, così da evitare che possano verificarsi
indiretti e distorsivi fenomeni di preferenza di un
acquirente all’altro, in dipendenza di logiche del tutto
estranee all’esigenza di assegnare l’immobile a colui che ha
fatto l’offerta più vantaggiosa per l’amministrazione alla
luce dei valori di mercato
Nel caso di specie la ratio e il contenuto specifico
dell’art. 5 sono stati violati dall’amministrazione, in
quanto dalla documentazione prodotta e dagli atti impugnati
non emergono le ragioni tecniche e i criteri di
quantificazione utilizzati per la determinazione del prezzo
posto a base di gara.
Va, pertanto, ribadita la fondatezza della censura in esame,
che, presentando carattere sostanziale, ha portata
assorbente e consente di prescindere dall’analisi delle
ulteriori censure articolate nel ricorso.
In definitiva, il ricorso è fondato e deve essere accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 08.07.2014 n. 1762 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
consolidato orientamento, l'art. 167 D.Lgs. 42/2004 (già
art. 15 L. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.Lgs. 490/1999)
va interpretato nel senso che l'indennità prevista per abusi
edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce
vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di
risarcimento del danno) e prescinde dalla sussistenza
effettiva di un danno ambientale.
L'illecito ambientale ha carattere permanente e cessa solo
con la demolizione delle opere o con il pagamento della
indennità risarcitoria senza possibilità di far decorrere
alcuna prescrizione né dal rilascio del titolo edilizio in
sanatoria né dal parere favorevole ai fini della detta
concessione in sanatoria.
Ritenuto:
- che per consolidato orientamento, l'art. 167 D.Lgs.
42/2004 (già art. 15 L. 1497/1939, divenuto poi art. 164
D.Lgs. 490/1999) va interpretato nel senso che l'indennità
prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli
paesaggistici costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) e
prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale
(cfr. TAR Palermo Sicilia, sez. II 26.07.2012 n. 1663; Cons.
Stato, sez. IV, 16.04.2010 n. 2160, sez. VI, 28.07.2006, nr.
4690);
- che l'illecito ambientale ha carattere permanente e cessa
solo con la demolizione delle opere o con il pagamento della
indennità risarcitoria senza possibilità di far decorrere
alcuna prescrizione né dal rilascio del titolo edilizio in
sanatoria né dal parere favorevole ai fini della detta
concessione in sanatoria (Cons. giust. amm. Sicilia, sez.
giurisd. 22/01/2013 n. 21);
- che va accolta la tesi del Comune circa la decorrenza
della prescrizione dal momento in cui cessa la permanenza
dell'illecito paesaggistico, e dunque dalla concessione del
provvedimento di sanatoria edilizia, il quale presuppone, ai
sensi dell'art. 32, L. n. 47/1985, il parere di
compatibilità paesaggistica della Sovrintendenza;
- che va disatteso l’assunto del ricorrente circa la
decorrenza della prescrizione quinquennale ex art. 28, L. n.
689/1981 dalla commissione del fatto abusivo o illecito
(TAR Umbria,
sentenza 08.07.2014 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: a)
la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare
le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere
eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di
regola aperto alle controversie tra organi o componenti di
organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere
controversie intersoggettive, per cui essa rimane
circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera
giuridica, come per esempio lo scioglimento dell’organo o la
nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto
lesivo discende ab externo rispetto all’organo di cui fa
parte;
b) la legittimazione ad agire del consigliere non risiede
nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema
normativamente previsto, quando da essa non derivi la
compressione di una sua prerogativa inerente all’ufficio,
occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, “alla
natura e al contenuto della delibera impugnata” e non già
delle norme interne relative al funzionamento dell’organo;
c) la contestazione del componente di un organo collegiale
non può limitarsi a censurare l’oggetto o le modalità di
formazione della deliberazione del medesimo organo, senza
dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue
prerogative, giacché questa non discende automaticamente da
violazioni di forma o di sostanza nell’adozione di un atto
deliberativo;
d) l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri
dell’ente locale la copia di atti presupposti ad una
proposta di delibera non costituisce lesione delle
prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale,
rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito
esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fa
parte, affidata all’espressione a verbale del proprio
dissenso in quanto corollario del più generale principio
sopra affermato.
La Sezione osserva innanzitutto -anche in considerazione della mera riproposizione da parte
degli appellati di tutti i motivi proposti in primo grado,
diversi da quelli fatti oggetto di specifica impugnazione-
che va confermata la sentenza di primo grado nella parte in
cui ha esaminato solo le censure di cui ai punti c), d) ed
e) dei motivi aggiunti, ritenendo inammissibili tutte le
altre, essendo stato al riguardo anche di recente ribadito
(cons. Stato, sez. V, 19.04.2013, n. 2213) che:
a) la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad
impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha
carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo
non è di regola aperto alle controversie tra organi o
componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a
risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane
circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera
giuridica, come per esempio lo scioglimento dell’organo o la
nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto
lesivo discende ab externo rispetto all’organo di cui fa
parte (Cons. Stato, sez. V, 31.01.2001, n. 358 e più
recentemente 19.02.2007, n. 826; 09.10.2007, n.
5280; 29.04.2010, n. 2457; 24.03.2011, n. 1771; 21.03.2012, n. 1610);
b) la legittimazione ad agire del consigliere non risiede
nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema
normativamente previsto, quando da essa non derivi la
compressione di una sua prerogativa inerente all’ufficio,
occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, “alla
natura e al contenuto della delibera impugnata” e non già
delle norme interne relative al funzionamento dell’organo
(Cons. St., sez. V, 15.12.2005, n. 7122);
c) la contestazione del componente di un organo collegiale
non può limitarsi a censurare l’oggetto o le modalità di
formazione della deliberazione del medesimo organo, senza
dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue
prerogative, giacché questa non discende automaticamente da
violazioni di forma o di sostanza nell’adozione di un atto
deliberativo (Cons. Stato, sez. V, 29.04.2010, n. 2457);
d) l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri
dell’ente locale la copia di atti presupposti ad una
proposta di delibera non costituisce lesione delle
prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale,
rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito
esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fa
parte, affidata all’espressione a verbale del proprio
dissenso in quanto corollario del più generale principio
sopra affermato (Cons. Stato, 21.03.2012, n. 1610)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.07.2014 n. 3446 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione conseguente all’accertamento della natura
abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti
sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento
dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal
legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad
un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui
peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza,
rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.
---------------
E' jus receptum che il provvedimento con cui si ingiunge al
responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla
sua distruzione nel termine di 90 giorni (nel vigore della
legge n. 47 del 1985, vigente ratione temporis), non deve
necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di
sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del
Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di
ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono
l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente
ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed
eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece,
è necessario che sia puntualmente specificata la portata
delle sanzioni irrogate.
Innanzitutto non sussiste il dedotto vizio
di violazione dell’articolo 7 della legge 07.08.1990, n.
241, per la mancata comunicazione di avvio del procedimento
in relazione all’ordinanza di demolizione delle opere
abusive realizzate.
Secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale,
l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della
natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto:
l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non
deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per
l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni
urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata
precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di
fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può
non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua
sfera di controllo (tra le più recenti, Cons. stato, sez. IV,
28.04.2014, n. 2194; 26.08.2008, n. 4659).
---------------
Diversamente da quanto
sostenuto dagli appellanti con il terzo motivo di gravame,
la circostanza che l’ordine di demolizione non contenesse
l’indicazione dell’effetto acquisitivo e non descrivesse
l’area da acquisire non è causa di illegittimità dello
stesso.
Precisato che, quanto all’effetto acquisitivo, esso
costituisce una conseguenza fissata direttamente dalla
legge, senza la necessità dell’esercizio di alcun potere
(valutativo) a parte dell’autorità eccetto quello del mero
accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e
di ripristino dello stato dei luoghi, deve rilevarsi, quanto
alla pretesa necessità dell’indicazione dell’area da
acquisire, che è jus receptum che il provvedimento con cui
si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di
provvedere alla sua distruzione nel termine di 90 giorni
(nel vigore della legge n. 47 del 1985, vigente ratione
temporis), non deve necessariamente contenere l'esatta
indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita
gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia,
atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i
cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di
opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è
distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di
acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia
puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate
(Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659; sez. VI,
08.04.2004, n. 1998; 26.01.2000, n. 341).
Gli stessi appellanti del resto riconoscono sotto tale
ultimo profilo la infondatezza del loro stesso motivo,
ammettendo che solo con l’art. 31 del D.P.R n. 380 del 2001
è stato introdotta la necessità della esatta identificazione
dell’area da acquisire già nel provvedimento di demolizione
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 07.07.2014 n. 3438 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: L’Amministrazione,
invece di disporre l’aggiudicazione della gara in favore
delle ricorrenti, procedeva all’indizione di una nuova gara.
Di talché, non merita positiva valutazione il motivo di
ricorso con il quale si rivendica il danno emergente
rappresentato dalle spese sostenute per la partecipazione
alla gara, ostandovi il pacifico principio giurisprudenziale
alla stregua del quale trattasi di costo necessario per la
partecipazione alla gara, come tale non risarcibile, pena
un’indebita locupletazione, congiuntamente al valore
economico dell’aggiudicazione o della relativa chance.
Diversamente opinando, infatti, si giungerebbe infatti ad
arricchire il danneggiato attribuendo al concorrente un
beneficio maggiore di quello che ad esso sarebbe derivato
dall’aggiudicazione, in palese violazione della funzione
reintegratoria che permea il rimedio risarcitorio.
---------------
Va, invece, accolta in parte la domanda con la quale si
rivendica il lucro cessante commisurato all’utile economico
che sarebbe stato conseguito in caso di aggiudicazione.
Con la sentenza di accoglimento del ricorso per ottemperanza
il Primo Giudice ha accertato la spettanza, in capo alle
ricorrenti, del bene della vita dato dal diritto
all’aggiudicazione, rinviando ad una successiva fase la
quantificazione del danno.
Osserva la Sezione, in ordine appunto al quantum debeatur,
che la documentazione in atti, se non consente, in ossequio
ad una consolidata giurisprudenza, di accogliere la
richiesta di applicazione del criterio di liquidazione
forfettario equitativo del lucro cessante nella misura del
10 % (basato sull'art. 345, l. n. 2248 del 1865 All. F., poi
trasfuso nell’articolo 134 del codice dei contratti
pubblici), non suffraga neanche l’assunto, sostenuto dal
Primo Giudice, in merito disconoscimento integrale di tale
voce di danno.
Ad avviso del Collegio l’analisi del tipo di gara,
dell’oggetto del contratto e della media delle offerte
presentate congiuntamente all’utile presumibilmente
conseguibile, consente di quantificare il danno in esame, ex
artt. 1226 e 2056 c.c., in una misura che, attualizzata ad
oggi, è pari al 5% dell’offerta economica presentata dalle
ricorrenti.
---------------
Va, altresì, parzialmente accolta la domanda di risarcimento
del "danno curriculare", voce che ha già trovato
riconoscimento nella giurisprudenza amministrativa,
rapportato all’oggettivo mancato incremento dell'esperienza
dell'impresa e, conseguentemente, delle opportunità rispetto
alle gare future.
Ad escludere la ricorrenza di siffatta posta risarcitoria
non vale la dedotta violazione, ad opera delle parti
ricorrenti, del duty to mitigate ex art. 1227 c.c., in
quanto detta condotta omissiva, salvi casi eccezionali non
rinvenibili nel caso di specie, incide sulla consistenza e
non sull’esistenza del pregiudizio risarcibile.
Detto danno può allora essere equitativamente fissato in una
misura pari all’uno per cento dell’offerta economica.
1. Con sentenza n. 2912/2006 il TAR per la Lombardia accoglieva il
ricorso proposto da Impresa Costruzioni Edili Bianchi P.I.E.
Umberto S.r.l. e da Tecnoimpianti F.lli Capra di Capra
Fulvio & C. avverso gli atti relativi alla procedura di gara
indetta dal Comune di Ossuccio per l’affidamento dei lavori
di “recupero dell’edificio specialistico dell’Antico Hospitalis dell’Antiquarium”, per un importo a base d’asta
pari a € 372.657,17, procedura culminata nell’aggiudicazione
in favore della società Petazzi Costruzioni S.r.l.
All’esito del decisum di accoglimento l’Amministrazione,
invece di disporre l’aggiudicazione della gara in favore
delle ricorrenti, procedeva all’indizione di una nuova gara.
Con sentenza non definitiva n. 7591 del 18.12.2010, il
Primo Giudice accoglieva il ricorso volto a dedurre
l’inadempimento degli obblighi discendenti dal giudicato.
Con successiva ordinanza presidenziale il Tribunale
richiedeva all’amministrazione in via istruttoria: “1)
copia di tutti gli atti di gara al fine di poter accertare
quale fosse il margine di utile dichiarato o comunque
ricavabile dagli stessi atti da parte della ricorrente; 2)
una relazione da redigersi da parte del responsabile
dell’originario procedimento con ogni ulteriore elemento
utile al fine di rappresentare l’ammontare dello spettante
risarcimento del danno”.
L’Amministrazione, in esito alla descritta richiesta
istruttoria, rappresentava di non essere in possesso di
alcun documento dal quale ricavare l’utile d’impresa che la
ricorrente avrebbe ipoteticamente conseguito in caso di
esecuzione dell’appalto.
Con la sentenza appellata i Primi Giudici hanno respinto la
domanda risarcitoria in ragione del mancato assolvimento del
necessario onere probatorio ad opera delle parti ricorrenti.
Le parti appellanti contestano gli argomenti posti a
fondamento del decisum.
Resiste il Comune intimato.
2. Il gravame è parzialmente fondato.
2.1. Non merita positiva valutazione il motivo di ricorso con
il quale si rivendica il danno emergente rappresentato dalle
spese sostenute per la partecipazione alla gara, ostandovi
il pacifico principio giurisprudenziale alla stregua del
quale trattasi di costo necessario per la partecipazione
alla gara, come tale non risarcibile, pena un’indebita locupletazione, congiuntamente al valore economico
dell’aggiudicazione o della relativa chance. Diversamente
opinando, infatti, si giungerebbe infatti ad arricchire il
danneggiato attribuendo al concorrente un beneficio maggiore
di quello che ad esso sarebbe derivato dall’aggiudicazione,
in palese violazione della funzione reintegratoria che
permea il rimedio risarcitorio (v. recentemente Cons. di
Stato, sez. IV, n. 6000/2013; sez. V, n. 799/2013; sez. III,
n. 3437/2013; sez. V, n. 2967/2008).
2.2. Va, invece, accolta in parte la domanda con la quale si
rivendica il lucro cessante commisurato all’utile economico
che sarebbe stato conseguito in caso di aggiudicazione.
Con la sentenza di accoglimento del ricorso per ottemperanza
il Primo Giudice ha accertato la spettanza, in capo alle
ricorrenti, del bene della vita dato dal diritto
all’aggiudicazione, rinviando ad una successiva fase la
quantificazione del danno.
Osserva la Sezione, in ordine appunto al quantum debeatur,
che la documentazione in atti, se non consente, in ossequio
ad una consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V,
n. 5846/2012; 06.04.2009, n. 2143; 17.10.2008, n.
5098; 05.04.2005, n. 1563; VI, 04.04.2003, n. 478), di
accogliere la richiesta di applicazione del criterio di
liquidazione forfettario equitativo del lucro cessante nella
misura del 10 % (basato sull'art. 345, l. n. 2248 del
1865 All. F., poi trasfuso nell’articolo 134 del codice dei
contratti pubblici), non suffraga neanche l’assunto,
sostenuto dal Primo Giudice, in merito disconoscimento
integrale di tale voce di danno.
Ad avviso del Collegio l’analisi del tipo di gara,
dell’oggetto del contratto e della media delle offerte
presentate congiuntamente all’utile presumibilmente
conseguibile, consente di quantificare il danno in esame, ex
artt. 1226 e 2056 c.c., in una misura che, attualizzata ad
oggi, è pari al 5% dell’offerta economica presentata dalle
ricorrenti.
2.3. Va, altresì, parzialmente accolta la domanda di
risarcimento del "danno curriculare", voce che ha già
trovato riconoscimento nella giurisprudenza amministrativa
(v., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1323;
sez. IV, 12.02.2014. n. 674; sez. V, n. 5846/2012; sez. IV, n. 6000/2013), rapportato all’oggettivo mancato
incremento dell'esperienza dell'impresa e, conseguentemente,
delle opportunità rispetto alle gare future.
Ad escludere la ricorrenza di siffatta posta risarcitoria
non vale la dedotta violazione, ad opera delle parti
ricorrenti, del duty to mitigate ex art. 1227 c.c., in
quanto detta condotta omissiva, salvi casi eccezionali non
rinvenibili nel caso di specie, incide sulla consistenza e
non sull’esistenza del pregiudizio risarcibile.
Detto danno può allora essere equitativamente fissato in una
misura pari all’uno per cento dell’offerta economica (conf.
Cons. Stato, sez. III, n. 50081/2013).
3. Le considerazioni che precedono conducono
all’accoglimento parziale del ricorso nei termini fin qui
specificati
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.07.2014 n. 3432 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: A’
sensi dell’art. 152, comma 2, cod. proc. civ. –recante un
principio generale del nostro ordinamento– “i termini
stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge
stessa li dichiari espressamente perentori”: questo
principio è applicabile anche ai termini nei procedimenti
amministrativi.
---------------
Il comma 2 dell’art. 48 del D.L.vo 163 del 2006 di per sé
non ha fissato un termine perentorio per il deposito da
parte dell’aggiudicatario della documentazione a comprova
dei propri requisiti: la disciplina complessivamente
contenuta nel comma medesimo sanziona con l’esclusione dal
procedimento di scelta del contraente soltanto l’ipotesi
della mancata comprova del possesso dei requisiti
contemplati dalla legge e dalla lex specialis di gara, e non
già l’intempestiva produzione della documentazione richiesta
al riguardo.
Invero, il termine per comprovare il possesso dei requisiti
di cui all’art. 48, comma 2, del D.L.vo 163 del 2006 ha
carattere ordinatorio-sollecitatorio con riferimento alle
posizioni dell’aggiudicatario e del secondo graduato, nel
mentre è dichiaratamente perentorio il termine stabilito dal
comma 1 del medesimo art. 48, concernente la diversa ipotesi
della verifica a campione delle imprese offerenti
sorteggiate.
La giurisprudenza citata da ... afferma –per contro– che non
potrebbe ritenersi che la perentorietà del termine imposto
nel comma 1 dell’art. 48 si riferisca solo all’obbligo per
le imprese offerenti scelte mediante sorteggio prima
dell’apertura delle buste; e ciò in quanto il comma 2 dello
stesso articolo espressamente riferisce tale obbligo anche
all’aggiudicatario e al concorrente che segue in
graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi tra i
concorrenti sorteggiati, e prevede le medesime conseguenze
in caso di inottemperanza: dal che dovrebbe pertanto
ricavarsi la conseguenza che la perentorietà del termine si
estenda anche all’aggiudicatario provvisorio.
Il Collegio non condivide tale assunto, in quanto il comma 2
dell’art. 48 testualmente rinvia alla “richiesta” di cui al
comma 1, la quale deve essere “inoltrata, entro dieci giorni
dalla conclusione delle operazioni di gara, anche
all’aggiudicatario e al concorrente che segue in
graduatoria”, ma senza disporre che essa deve essere
riscontrata da tali concorrenti entro un termine perentorio;
né l’ulteriore previsione della medesima fonte di legge,
secondo la quale la “richiesta” medesima non va inoltrata
dalla stazione appaltante all’aggiudicatario e al
concorrente che lo segue in graduatoria nel caso in cui
costoro siano stati in precedenza sorteggiati per il
controllo di cui al comma 1, può -di per sé- implicare che
la perentorietà del termine di cui al comma 1 si estenda
pure al comma 2 dello stesso articolo.
A conforto di ciò va evidenziato che lo stesso comma 2
prevede la sanzione dell’esclusione dalla gara soltanto nei
casi in cui tali concorrenti “non forniscano la prova o non
confermino le loro dichiarazioni”, e non nei casi di
violazione del termine per il deposito della documentazione
richiesta dalla stazione appaltante; e che tale conclusione
è obbligata a fronte dell’anzidetto principio ermeneutico
che impone di qualificare come perentorio solo un termine
espressamente definito tale da una disposizione normativa.
A’ sensi dell’art. 152, comma 2, cod. proc. civ.
–recante un principio generale del nostro ordinamento– “i
termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la
legge stessa li dichiari espressamente perentori”: questo
principio è applicabile anche ai termini nei procedimenti
amministrativi (cfr. sul punto Cass., SS.UU., 22.03.1999,
n. 175).
Il comma 2 dell’art. 48 del D.L.vo 163 del 2006 di per sé
non ha fissato un termine perentorio per il deposito da
parte dell’aggiudicatario della documentazione a comprova
dei propri requisiti: la disciplina complessivamente
contenuta nel comma medesimo sanziona con l’esclusione dal
procedimento di scelta del contraente soltanto l’ipotesi
della mancata comprova del possesso dei requisiti
contemplati dalla legge e dalla lex specialis di gara, e non
già l’intempestiva produzione della documentazione richiesta
al riguardo.
Va in proposito richiamata la decisione di Cons. Stato, Sez.
V, 07.07.2011, n. 4053, secondo la quale il termine per
comprovare il possesso dei requisiti di cui all’art. 48,
comma 2, del D.L.vo 163 del 2006 ha carattere ordinatorio-sollecitatorio con riferimento alle posizioni
dell’aggiudicatario e del secondo graduato, nel mentre è
dichiaratamente perentorio il termine stabilito dal comma 1
del medesimo art. 48, concernente la diversa ipotesi della
verifica a campione delle imprese offerenti sorteggiate
(cfr. al riguardo anche Cons. Stato, Sez. V, 27.10.2005, n. 6003, e 29.11.2004, n. 7758, relative
all’omologa disciplina già contenuta nell’art. 10, comma
1-quater della L. 11.02.1994, n. 109, poi, per
l’appunto, riprodotta nell’art. 48 del D.L.vo 163 del 2006).
La giurisprudenza citata da La Lucentezza afferma –per
contro– che non potrebbe ritenersi che la perentorietà del
termine imposto nel comma 1 dell’art. 48 si riferisca solo
all’obbligo per le imprese offerenti scelte mediante
sorteggio prima dell’apertura delle buste; e ciò in quanto
il comma 2 dello stesso articolo espressamente riferisce
tale obbligo anche all’aggiudicatario e al concorrente che
segue in graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi
tra i concorrenti sorteggiati, e prevede le medesime
conseguenze in caso di inottemperanza: dal che dovrebbe
pertanto ricavarsi la conseguenza che la perentorietà del
termine si estenda anche all’aggiudicatario provvisorio.
Il Collegio non condivide tale assunto, in quanto il comma 2
dell’art. 48 testualmente rinvia alla “richiesta” di cui al
comma 1, la quale deve essere “inoltrata, entro dieci giorni
dalla conclusione delle operazioni di gara, anche
all’aggiudicatario e al concorrente che segue in
graduatoria”, ma senza disporre che essa deve essere
riscontrata da tali concorrenti entro un termine perentorio;
né l’ulteriore previsione della medesima fonte di legge,
secondo la quale la “richiesta” medesima non va inoltrata
dalla stazione appaltante all’aggiudicatario e al
concorrente che lo segue in graduatoria nel caso in cui
costoro siano stati in precedenza sorteggiati per il
controllo di cui al comma 1, può -di per sé- implicare che
la perentorietà del termine di cui al comma 1 si estenda
pure al comma 2 dello stesso articolo.
A conforto di ciò va evidenziato che lo stesso comma 2
prevede la sanzione dell’esclusione dalla gara soltanto nei
casi in cui tali concorrenti “non forniscano la prova o
non confermino le loro dichiarazioni”, e non nei casi di
violazione del termine per il deposito della documentazione
richiesta dalla stazione appaltante; e che tale conclusione
è obbligata a fronte dell’anzidetto principio ermeneutico
che impone di qualificare come perentorio solo un termine
espressamente definito tale da una disposizione normativa
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.07.2014 n. 3431 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Affinché sia ravvisabile
un intervento di ristrutturazione edilizia, è sufficiente
che risultino modificati la distribuzione della superficie
interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui erano disposte
le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di
rendere più agevole la destinazione d'uso esistente. Ciò
determina il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere
che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie.
In questo ambito si pone senza ombra di dubbio il
frazionamento di immobile (nella specie da sei a tredici
unità) che, stante l’autonoma utilizzabilità, realizza anche
un aumento dell’impatto sul territorio incompatibile con il
semplice restauro.
Parimenti infondati sono i motivi, da
trattare congiuntamente data la loro connessione, con cui
parte appellante nega che le opere configurerebbero una
ristrutturazione.
In merito, basta richiamare consolidati principi per cui,
affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione
edilizia, è sufficiente che risultino modificati la
distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero
l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni
dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la
destinazione d'uso esistente. Ciò determina il rinnovo degli
elementi costitutivi dell'edificio ed un'alterazione
dell'originaria fisionomia e consistenza fisica
dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione
straordinaria e di risanamento conservativo, che
presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione
interna della sua superficie (Cons. Stato Sez. V,
17.03.2014, n. 1326).
In questo ambito si pone senza ombra di dubbio il
frazionamento di immobile (nella specie da sei a tredici
unità) che, stante l’autonoma utilizzabilità, realizza anche
un aumento dell’impatto sul territorio incompatibile con il
semplice restauro (Cons. St. Sez. IV, 17.05.2012, n. 2838)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.07.2014 n. 3417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di
accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e
quello successivo di acquisizione gratuita delle opere
abusive e dell'area di sedime al patrimonio comunale debbono
considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti
all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello
stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono
autonomamente impugnabili e che sono soggetti a caducazione
automatica in caso di annullamento dell’atto presupposto.
Da disattendere è anche l’eccezione di
improcedibilità, secondo cui l’intervenuto provvedimento di
acquisizione al patrimonio comunale dell’edificio e
dell’area di sedime a seguito dell’inottemperanza all’ordine
di rimessione in pristino, non impugnato, avrebbe
determinato la carenza sopravvenuta di interesse alla
decisione.
A riguardo, si osserva che il provvedimento di accertamento
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello
successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e
dell'area di sedime al patrimonio comunale debbono
considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti
all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello
stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono
autonomamente impugnabili e che sono soggetti a caducazione
automatica in caso di annullamento dell’atto presupposto
(Cons. Stato Sez. V, 10.01.2007, n. 40)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.07.2014 n. 3415 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa i criteri di determinazione e motivazione
dell’entità della sanzione pecuniaria ex art. 167 dlgs
42/2004, la commisurazione del danno
paesistico sfugge, per sua natura intrinseca, ad una
indagine dettagliata ed analitica, essendo ricollegato ad
una stima tecnica di carattere generale, mentre il profitto
conseguito dal trasgressore va commisurato anche alla
destinazione del manufatto oggetto di abuso.
Risulta, infine, generico il motivo
con il quale l’appellante lamenta l’omessa pronuncia in
ordine alla misura eccessiva dell’entità della sanzione.
Invero, l’appellante non fornisce alcuna concreta ragione di
contestazione dei criteri di determinazione e motivazione
sull’entità della sanzione pecuniaria comminata, che è stata
calcolata in base al criterio indicato dall’art. 167, tenuto
conto che la commisurazione del danno paesistico sfugge, per
sua natura intrinseca, ad una indagine dettagliata ed
analitica, essendo ricollegato ad una stima tecnica di
carattere generale (Cons. St. Sez. V, 26.09.2013, n. 4783),
mentre il profitto conseguito dal trasgressore va
commisurato anche alla destinazione del manufatto oggetto di
abuso, nella specie consistente nell’esercizio di attività
alberghiera
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.07.2014 n. 3414 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
“realizzazione sul lastrico solare
di un tetto termico …. necessario per favorire l’uso
dell’abitazione attualmente priva di isolamento termico” si
sostanzia in un'opera priva di autonomia strutturale e
funzionale in quanto destinata alla copertura termica del
sottostante fabbricato.
Invero, dal verbale di sopralluogo richiamato nel
provvedimento impugnato emerge la realizzazione di un
organismo edilizio radicalmente difforme, avente i caratteri
della ristrutturazione edilizia destinata alla fruizione
abitativa, con una evidente, notevole volumetria palesemente
estranea al tetto termico originariamente assentito.
---------------
Nessuna portata derogativa all’obbligo della previa
acquisizione del permesso di costruire può riconoscersi in
ragione della circostanza che l’usufruttario dell’immobile,
responsabile dell’abuso, sia affetto da handicap, dato che
in nessun modo l’opera realizzata può considerarsi
funzionale alla miglior fruizione da parte di persona non
vedente.
Il signor G.P. chiede
la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la
quale il Tribunale amministrativo della Campania ha respinto
il ricorso proposto avverso il provvedimento del Comune di
Napoli in data 10.05.2011 recante ordine di ripristino
dello stato dei luoghi per opere edilizie realizzate senza
permesso su un preesistente manufatto, abusivamente
realizzato e già oggetto di concessione edilizia in
sanatoria e di DIA per la realizzazione di un tetto termico.
Le opere considerate nel provvedimento oggetto del giudizio
di primo piano consistono nel mutamento di destinazione del
tetto termico a doppia falda, mutamento realizzato mediante
la posa in opera di impiantistica idroelettrica, di
condizionamento, di riscaldamento, di box doccia e
arredamento.
La sentenza impugnata, che ha rilevato come la DIA n.
238/2006, assentita per silentium dal Comune di Napoli fosse
relativa, per ammissione dello stesso interessato, alla “realizzazione sul lastrico solare di un tetto termico ….
necessario per favorire l’uso dell’abitazione attualmente
priva di isolamento termico”, quindi per opera priva di
autonomia strutturale e funzionale in quanto destinata alla
copertura termica del sottostante fabbricato, ha respinto il
ricorso poiché dal verbale di sopralluogo richiamato nel
provvedimento impugnato emerge la realizzazione di un
organismo edilizio radicalmente difforme, avente i caratteri
della ristrutturazione edilizia destinata alla fruizione
abitativa, con una evidente, notevole volumetria palesemente
estranea al tetto termico originariamente assentito.
---------------
La sentenza impugnata è del tutto condivisibile, essendo
infondate le doglianze che l’appellante ripropone in questo
secondo grado (perciò, può prescindersi dall’esaminare
l’eccezione di rito proposta dal Comune resistente).
Come ha ritenuto il Tar, nessuna portata derogativa
all’obbligo della previa acquisizione del permesso di
costruire può riconoscersi in ragione della circostanza che
l’usufruttario dell’immobile, responsabile dell’abuso, sia
affetto da handicap, dato che in nessun modo l’opera
realizzata può considerarsi funzionale alla miglior
fruizione da parte di persona non vedente.
La già rilevata diversità strutturale e funzionale
dell’intervento sanzionato rispetto a quello assentito dalla
precedente DIA consente di apprezzare l’inconsistenza anche
della censura di contraddittorietà tra i provvedimenti, del
quale quello impugnato si pone anzi, come ha rilevato il
Tar, in rapporto di rigorosa coerenza con l’oggetto
dell’assenso, limitato alla realizzazione del tetto di
copertura
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
03.07.2014 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Appalti: sui vizi progettuali rispondono in solido
appaltatore e direttore lavori.
In caso di vizi progettuali, l’impegno
dell’appaltatore all’eliminazione dei vizi comporta il
riconoscimento unilaterale degli stessi.
Così si è pronunciata la II Sez. civile del Tribunale di
Reggio Emilia, in persona del Giudice Istruttore Dott.
Gianluigi Morlini, con la sentenza in commento.
Nel caso in oggetto, gli attori, committenti di lavori di
progettazione ed installazione di un impianto termico presso
un edificio, denunciando il non corretto funzionamento dello
stesso e l’erroneità del progetto, hanno citato in giudizio
il progettista per ottenere il risarcimento dei danni
subiti. Costituitosi in giudizio, il convenuto ha chiamato
in garanzia per essere manlevato, sia la propria
assicurazione, sia l’appaltatore, nonchè il direttore dei
lavori ed il fornitore dei materiali, indicati come i veri
responsabili dei danni lamentati dagli attori.
Esperita la fase istruttoria, il Giudice adìto, condividendo
le conclusioni della CTU, ha ritenuto tutti i soggetti
processuali evocati in giudizio, direttamente o
indirettamente, responsabili dei vizi, a vario titolo ed in
misura diversa. Inoltre risponde in solido con il
progettista l’appaltatore, sia, qualora egli si sia accorto
degli errori e non li abbia denunciati prontamente al
committente; sia nel caso in cui, non essendosi accorto
degli stessi, avrebbe dovuto individuarli secondo gli
obblighi di diligenza ordinaria. Non sussiste tale
responsabilità solo se l’appaltatore dimostri che gli errori
non potevano essere riconosciuti con l’ordinaria diligenza
richiesta; ovvero nel caso in cui, pur essendo gli errori
stati chiaramente evidenziati al committente, questi’ultimo
ha comunque stabilito l’esecuzione del progetto (Cass. n.
8016/2012, Cass. n. 6202/2009, Cass. n. 28605/2008, Cass. n.
7755/2007, Cass. n. 6931/2007, Cass. n. 3752/2007, Cass. n.
15782/2006, Cass. n. 12995/2006, 7515/2005, Cass. n.
4361/2005).
Inoltre, secondo il Tribunale adito, deve rispondere in
solido con il progettista e l’appaltatore anche il direttore
dei lavori, il quale risponde nei confronti del committente
non solo nel caso in cui i vizi derivino dal mancato
rispetto del progetto,ma anche nel caso i vizi derivino da
carenze progettuali.
Tra l’altro, il fatto che l’appaltatore si sia impegnato
all’eliminazione dei vizi dell’opera, comporta il
riconoscimento unilaterale dell’esistenza dei vizi stessi e
ciò costituisce un’obbligazione nuova rispetto a quella
ordinaria, soggetta a prescrizione decennale (Cass. n.
19560/2009, Cass. n. 6670/2009); e tale impegno, può anche
essere assunto tramite comportamenti concludenti (Cass. n.
6670/2009).
Nel caso in oggetto, l’attore ha avanzato la propria domanda
risarcitoria solo nei confronti del progettista non
estendendola ai terzi, neanche dopo la loro chiamata in
giudizio effettuata dal convenuto. Quest’ultimo sarà
condannato a risarcire il danno ed avrà diritto di regresso
verso le altre parti processuali
(TRIBUNALE Reggio
Emilia, Sez. II civile,
sentenza 27.06.2014 n. 988 -
link a www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza di questo Consiglio ha ritenuto
che sia qualificabile pertinenza, dal punto di vista
urbanistico-edilizio, qualsiasi manufatto strumentale
rispetto ad uno principale di dimensioni modeste rispetto a
quest'ultimo.
La giurisprudenza ha già precisato che:
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo
nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole,
oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa cui esso inerisce;
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione
civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, e anche sfornito di
un ‘autonomo valore di mercato’ e non comporta un cosiddetto
carico urbanistico.
Nel condividere tali orientamenti, il Collegio ritiene di
precisare che nell’ordinamento statale vi è il principio
generale per il quale -per ogni nuova volumetria- occorre il
rilascio del permesso di costruire (o del titolo avente
efficacia equivalente): ai sensi dell’art. 10, primo comma,
lettera a), del testo unico approvato con il d.P.R. n. 380
del 2001 (in cui è stato trasfuso in parte qua e con
modificazioni l’art. 4 della legge n. 47 del 1985, rilevante
nel presente giudizio ratione temporis), occorre il rilascio
del permesso di costruire (così come in precedenza occorreva
il rilascio di una concessione edilizia) per la
realizzazione di una ‘nuova costruzione’.
Non può esservi alcun dubbio sulla assenza della natura
pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un
nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio.
A tali fini, la natura pertinenziale è ravvisabile solo
quando si tratti:
a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una
tettoia o un porticato aperto da tre lati;
b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume
‘tecnico’ (così come definito ai fini urbanistici, fermo
restando che anche i volumi tecnici, per la consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio, mantengono rilievo ai
fini paesaggistici, dovendosi essi considerare ai fini
dell’applicazione del divieto di rilascio di autorizzazioni
in sanatoria, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Codice n.
42 del 2004).
----------------
Nella fattispecie in esame, le opere realizzate consistono
in un pollaio di 40 mc., una concimaia ed una struttura con
cisterna per deposito di gasolio.
Esse non possono essere valutate come mere pertinenze,
avendo la nozione di “pertinenza” in ambito edilizio, come
sopra ricostruita, un significato assai circoscritto e
limitato alle sole ipotesi di manufatti privi di intrinseco
valore e non autonomamente utilizzabili e che non occupano
una superficie ulteriore rispetto al manufatto principale.
Tutte le opere in questione, infatti, presentano invece
un’autonoma utilità ai fini dell’esercizio della attività di
allevamento o di stoccaggio di carburante, occupano una
superficie diversa e ulteriore rispetto al manufatto che si
assume come principale e sono palesemente idonee a
modificare l’assetto territoriale, vista l’incidenza che le
correlate attività produttive hanno anche ai fini del carico
urbanistico.
Pertanto, poiché tutte le opere in questione non possono
essere valutate come mere opere pertinenziali le stesse
necessitano di titolo edilizio ed in sua assenza del tutto
legittimamente l’amministrazione ne dispone la demolizione.
La giurisprudenza di questo Consiglio, infatti,
ha ritenuto che sia qualificabile pertinenza, dal punto di
vista urbanistico-edilizio, qualsiasi manufatto strumentale
rispetto ad uno principale di dimensioni modeste rispetto a
quest'ultimo (Cons. St., Sez. V, 12.02.2013, n. 817).
La giurisprudenza ha già precisato che:
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo
nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole,
oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa cui esso inerisce (Cons. St., Sez. IV, 02.02.2012, n. 615);
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione
civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, e anche sfornito di
un ‘autonomo valore di mercato’ e non comporta un cosiddetto
carico urbanistico (Cons. St., Sez. V, 31.12.2008, n.
6756; Id., 13.06.2006, n. 3490).
Nel condividere tali orientamenti, il Collegio ritiene di
precisare che nell’ordinamento statale vi è il principio
generale per il quale -per ogni nuova volumetria- occorre
il rilascio del permesso di costruire (o del titolo avente
efficacia equivalente): ai sensi dell’art. 10, primo comma,
lettera a), del testo unico approvato con il d.P.R. n. 380
del 2001 (in cui è stato trasfuso in parte qua e con
modificazioni l’art. 4 della legge n. 47 del 1985, rilevante
nel presente giudizio ratione temporis), occorre il rilascio
del permesso di costruire (così come in precedenza occorreva
il rilascio di una concessione edilizia) per la
realizzazione di una ‘nuova costruzione’.
Non può esservi alcun dubbio sulla assenza della natura
pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un
nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio.
A tali fini, la natura pertinenziale è ravvisabile solo
quando si tratti:
a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una
tettoia o un porticato aperto da tre lati;
b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume
‘tecnico’ (così come definito ai fini urbanistici, fermo
restando che anche i volumi tecnici, per la consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio, mantengono rilievo ai
fini paesaggistici, dovendosi essi considerare ai fini
dell’applicazione del divieto di rilascio di autorizzazioni
in sanatoria, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Codice n.
42 del 2004: cfr. Sez. VI, 26.03.2013, n. 1671; Sez. VI,
20.06.2012, n. 3578).
Nella fattispecie in esame, le opere realizzate
consistono in un pollaio di 40 mc., una concimaia ed una
struttura con cisterna per deposito di gasolio.
Esse non possono essere valutate come mere pertinenze,
avendo la nozione di “pertinenza” in ambito edilizio, come
sopra ricostruita, un significato assai circoscritto e
limitato alle sole ipotesi di manufatti privi di intrinseco
valore e non autonomamente utilizzabili e che non occupano
una superficie ulteriore rispetto al manufatto principale.
Tutte le opere in questione, infatti, presentano invece
un’autonoma utilità ai fini dell’esercizio della attività di
allevamento o di stoccaggio di carburante, occupano una
superficie diversa e ulteriore rispetto al manufatto che si
assume come principale e sono palesemente idonee a
modificare l’assetto territoriale, vista l’incidenza che le
correlate attività produttive hanno anche ai fini del carico
urbanistico.
Pertanto, poiché tutte le opere in questione non possono
essere valutate come mere opere pertinenziali, va respinto
il terzo motivo di censura del ricorso di primo grado, sul
quale si è fondata la sentenza di accoglimento ricorso del
TAR.
I manufatti descritti negli impugnati provvedimenti
necessitavano, infatti, di titolo edilizio ed in sua assenza
del tutto legittimamente l’amministrazione ne ha disposta la
demolizione.
Per le ragioni che precedono, l’appello del Comune risulta
fondato e va accolto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2014 n. 3074 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Non licenziabile il dirigente di ente locale che
sporge denuncia nei confronti dei superiori.
La Sez. lavoro
della S.C. di Cassazione torna a soffermarsi sul tema dei
limiti di espressione critica riservati al dipendente nei
confronti dell'amministrazione nella veste di proprio datore
di lavoro.
La fattispecie scrutinata dai giudici di legittimità è
riferita invero ad un dirigente di un'amministrazione
provinciale sottoposto a procedimento disciplinare e
successivamente fatto segno di provvedimento di
licenziamento per giusta causa, “configurata nell’avere
presentato denunce all’Autorità giudiziaria penale nei
confronti della Giunta provinciale, del suo Presidente e del
Segretario generale, cui la stampa locale aveva dato ampio
rilievo, aventi ad oggetto fatti falsi e privi di riscontro,
tanto che il Tribunale aveva assolto gli imputati per
insussistenza del fatto”.
Le riflessioni ivi svolte sono però estensibili senz'altro
anche ai dipendenti di qualifica non dirigenziale, per cui
la pronuncia che si segnala appare vieppiù significativa (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 07.04.2014 n. 8077 - link a www.teleconsul.it).
----------------
STRALCIO SENTENZA
La rilevanza a fini disciplinari della
denuncia da parte del dipendente all’autorità giudiziaria di
fatti attributi ai propri superiori
è stata oggetto di numerose pronunce di questa Corte, che ha
sempre ritenuto che essa
non viola i doveri di diligenza, di subordinazione o di
fedeltà (artt. 2104 e 2105 c.c.), non potendosi ipotizzare
che rientri fra i doveri del prestatore di lavoro il tacere
fatti illeciti (da un punto di vista penale, civile od
amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in
azienda o che lo riguardino personalmente, e che la
legittimità del comportamento del lavoratore che denuncia al
giudice penale un fatto posto in essere dal datore di lavoro
nei suoi confronti deriva sia dal principio dettato
dall’art. 24, primo comma, della Costituzione, con il quale
viene garantita a tutti i cittadini, senza distinzioni di
sorta e verso chiunque, la tutela dei diritti e degli
interessi legittimi, sia dal più generale principio
contenuto nell'art. 21, primo comma, della stessa
Costituzione, che tutela il diritto alla libera
manifestazione del proprio pensiero "con la parola, lo
scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Cosa diversa è la precipua volontà di danneggiare il proprio
datore di lavoro mediante false accuse, od anche il
travalicare, con dolo o con colpa grave, la soglia del
rispetto della verità oggettiva nel riferire all’autorità
giudiziaria i fatti, nonché la condotta del dipendente che
con il propalare la notizia all'interno o all'esterno
dell'azienda abbia arrecato offesa all'onore ed alla
reputazione del datore di lavoro (in tal senso Cass. n. 1749
del 16/02/2000, n. 13738 del 16/10/2000, n. 6501 del
14/03/2013). Condotte, queste, ulteriori rispetto al mero
inoltro della denuncia, che devono essere dedotte e
dimostrate dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 legge
n. 604/1966.
In tal senso, l’accertamento compiuto dal giudice penale in
esito alla denuncia del dipendente costituisce uno degli
elementi della complessa valutazione che attiene alla
legittimità della condotta, ma non l’indispensabile
antecedente logico-giuridico di questa, sicché non sussiste
la pregiudizialità necessaria che ai sensi dell’art. 295
c.p.c. impone la sospensione del procedimento pregiudicato.
Nel caso in esame, la Corte ha fatto corretta applicazione
di tali principi, ed ha esaminato le risultanze processuali
concludendo che non risultava provato che il dipendente
avesse travalicato i limiti consentiti alla sua condotta,
con valutazione delle risultanze processuali che attiene al
merito della controversia, né tale passaggio motivazionale è
stato fatto oggetto di censura dal ricorrente principale.
La Provincia ricorrente valorizza poi l’accertamento
contenuto nella sentenza del Tribunale di Gorizia che ha
assolto gli imputati con la formula "perché il fatto non
sussiste" (gravata da appello del P.M. ritenuto
inammissibile). Non riporta però in alcun modo il contenuto
della sentenza assolutoria, né i passaggi della motivazione
che ritiene rilevanti al fine di comprovare la tesi secondo
la quale la valutazione del giudice penale avrebbe
manifestato la ricorrenza nel dipendente della situazione
soggettiva riprovevole sopra individuata, per cui il motivo
è sotto tale aspetto inammissibile in quanto non fornisce
gli elementi per valutare la decisività della censura al
fine di disattendere l’esito della sentenza gravata.
L’esistenza di un giudicato penale di assoluzione non è
infatti di per sé elemento univoco nel senso di prospettare
l’intento calunnioso o la denuncia esorbitante con colpa
grave dalla verità oggettiva, potendo l’accertamento di non
sussistenza dei fatti derivare da incertezze probatorie o
acquisizioni successive ai fatti stessi che ne mutano la
lettura ed il significato.
Il ricorso si pone sotto tale aspetto in insanabile
contrasto con il principio reiteratamente affermato da
questa Corte, secondo il quale "Il ricorrente che denunci
in sede di legittimità il difetto di motivazione sulla
valutazione di risultanze probatorie o processuali, ha
l'onere di indicare specificamente il contenuto
dell’elemento non adeguatamente valutato, provvedendo alla
sua trascrizione, al fine di consentire al giudice di
legittimità il controllo della decisività dei fatti da
provare e delle prove stesse, che, per il principio
dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C.
deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni
contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito
sopperire con indagini integrative" (Cass. Ord. n. 17915
del 30/07/2010, Sent. n. 13677 del 31/07/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di condono edilizio, gli oneri di concessione vanno
rapportati al momento di ultimazione dell’opera e della
presentazione della domanda di sanatoria, e non al momento
del rilascio del titolo concessorio.
Il ricorrente chiede l’accertamento dell’esatto ammontare
degli importi contributivi (costo di costruzione ed oneri di
urbanizzazione) effettivamente dovuti al Comune di
Melendugno in relazione alle sue quattro domande di condono
edilizio, ex artt. 31 e ss. Legge 28.02.1985 n. 47,
presentate in data 01.04.1986, aventi ad oggetto alcuni
edifici abusivamente realizzati in Melendugno, località
Torre Specchia, Villaggio Nettuno, (ove necessario) previo
annullamento della determinazione definitiva dei medesimi
importi contributivi da parte del Responsabile dell’U.T.C.
del Comune di Melendugno e delle eventuali deliberazioni
comunali di approvazione di tabelle parametriche sulla base
di criteri di calcolo contrastanti con la legislazione
statale e regionale di settore, nonché l’accertamento
dell’illegittimità della pretesa comunale di cessione a
titolo gratuito dell’area destinata a sede stradale
(abusivamente realizzata dall’Amministrazione Comunale
intimata su proprietà del ricorrente).
...
Il Tribunale ritiene, invece, fondato il ricorso nella parte
in cui il ricorrente lamenta l’erroneità dei conteggi
effettuati dal Comune resistente nel calcolo dei contributi
concessori (riferimento alle tariffe per il calcolo degli
oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione fissate
con sopravvenute deliberazioni consiliari vigenti nel 2008,
anziché a quelle vigenti il 01.04.1986 al momento della
presentazione delle domande di condono), posto che –alla
stregua dell’orientamento consolidato di questa Sezione, da
cui non si ravvisano motivi per discostarsi– nel caso di
condono edilizio, gli oneri di concessione vanno rapportati
al momento di ultimazione dell’opera e della presentazione
della domanda di sanatoria, e non al momento del rilascio
del titolo concessorio (TAR Puglia Lecce, III Sezione, 24.03.2006 n. 1725;
07.07.2005 n. 3803).
In conclusione, il Comune di Melendugno per il corretto
calcolo dei contributi concessori (oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione) dovuti dal ricorrente deve applicare
sugli immobili di che trattasi le tariffe vigenti
nell’Aprile 1986, al momento della presentazione delle
domande di condono in questione
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 27.08.2013 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
chiarito dalla giurisprudenza, nel caso di concessione in
sanatoria di cui alla legge n. 47 del 1985, diversamente che
nella concessione edilizia rilasciata prima della
costruzione, tenuta presente dalla legge n. 10 del 1977, la
costruzione precede e non segue il rilascio del titolo, e
quindi gli oneri di concessione devono essere rapportati al
momento della presentazione della domanda e non al momento
del rilascio del titolo.
È coerente con il principio di ragionevolezza individuare
una data, alla quale ricondurre il calcolo degli oneri, che
faccia riferimento più a quella di ultimazione dell'opera (è
tale è il termine ultimo di presentazione della domanda) che
a quella di rilascio del titolo.
Diversamente, in effetti, si creerebbe una violazione sia
del principio di uguaglianza - ben potendo due identiche
violazioni edilizie, contemporaneamente ultimate, essere
sanate con la corresponsione di oneri di diverso importo -
sia del principio di buon andamento della pubblica
Amministrazione (art. 97 Cost.), rimettendosi alle scelte
discrezionali in sede organizzativa del Comune la facoltà di
determinare la tariffa applicabile al caso concreto
Con nota prot. n. 19472-UT del 09.12.2005, l’Amministrazione
comunale di Galatone richiedeva al ricorrente, oltre al
deposito della documentazione mancante ai fini delle
definizione del procedimento, il pagamento degli oneri
concessori relativi all’istanza di sanatoria ai sensi
dell’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269 (conv. in l.
24.11.2003 n. 326) presentata in data 29.01.2004;
determinazione effettuata sulla base del parametro di
valutazione del costo di costruzione previsto nella delib.
G.M. 19.11.2004 n. 319.
La problematica è già stata affrontata dalla Sezione con la
sentenza 07.07.2005 n. 3803 e decisa nel senso prospettato da
parte ricorrente: <<come chiarito dalla giurisprudenza (cfr.
Consiglio di Stato, sentenza n. 4562/2002; Consiglio Stato
sentenza n. 4716/2002) ed evidenziato dal ricorrente, nel
caso di concessione in sanatoria di cui alla legge n. 47 del
1985, diversamente che nella concessione edilizia rilasciata
prima della costruzione, tenuta presente dalla legge n. 10
del 1977, la costruzione precede e non segue il rilascio del
titolo, e quindi gli oneri di concessione devono essere
rapportati al momento della presentazione della domanda e
non al momento del rilascio del titolo.
È coerente con il principio di ragionevolezza individuare
una data, alla quale ricondurre il calcolo degli oneri, che
faccia riferimento più a quella di ultimazione dell'opera (è
tale è il termine ultimo di presentazione della domanda) che
a quella di rilascio del titolo.
Diversamente, in effetti, si creerebbe una violazione sia
del principio di uguaglianza - ben potendo due identiche
violazioni edilizie, contemporaneamente ultimate, essere
sanate con la corresponsione di oneri di diverso importo -
sia del principio di buon andamento della pubblica
Amministrazione (art. 97 Cost.), rimettendosi alle scelte
discrezionali in sede organizzativa del Comune la facoltà di
determinare la tariffa applicabile al caso concreto>>.
Nel caso di specie, gli oneri concessori sono stati
determinati con riferimento ad un parametro relativo al
costo di costruzione previsto da una deliberazione (la delib.
G.M. 19.11.2004 n. 319) intervenuta in data successiva al
29.01.2004, data di presentazione dell’istanza di condono.
In definitiva, il ricorso deve essere accolto e deve essere
accertato l’obbligo, per l’amministrazione, di calcolare gli
oneri concessori sulla base dei parametri in vigore al
29.01.2004, data di presentazione dell’istanza di condono
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza
24.03.2006 n. 1725). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di concessione in sanatoria di cui alla legge n. 47 del
1985, diversamente che nella concessione edilizia rilasciata
prima della costruzione, tenuta presente dalla legge n. 10
del 1977, la costruzione precede e non segue il rilascio del
titolo, e quindi gli oneri di concessione devono essere
rapportati al momento della presentazione della domanda e
non al momento del rilascio del titolo.
È coerente con il principio di ragionevolezza individuare
una data, alla quale ricondurre il calcolo degli oneri, che
faccia riferimento più a quella di ultimazione dell'opera (è
tale è il termine ultimo di presentazione della domanda) che
a quella di rilascio del titolo.
Diversamente, in effetti, si creerebbe una violazione sia
del principio di uguaglianza -ben potendo due identiche
violazioni edilizie, contemporaneamente ultimate, essere
sanate con la corresponsione di oneri di diverso importo-
sia del principio di buon andamento della pubblica
Amministrazione (art. 97 Cost.), rimettendosi alle scelte
discrezionali in sede organizzativa del Comune la facoltà di
determinare la tariffa applicabile al caso concreto.
L’amministrazione ha altresì errato nel calcolare gli
oneri di concessione facendo riferimento alle tariffe
vigenti al tempo del rilascio del titolo e non invece al
momento della domanda di condono.
Come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato,
sentenza n. 4562/2002; Consiglio Stato sentenza n. 4716/2002)
ed evidenziato dal ricorrente, nel caso di concessione in
sanatoria di cui alla legge n. 47 del 1985, diversamente che
nella concessione edilizia rilasciata prima della
costruzione, tenuta presente dalla legge n. 10 del 1977, la
costruzione precede e non segue il rilascio del titolo, e
quindi gli oneri di concessione devono essere rapportati al
momento della presentazione della domanda e non al momento
del rilascio del titolo.
È coerente con il principio di ragionevolezza individuare
una data, alla quale ricondurre il calcolo degli oneri, che
faccia riferimento più a quella di ultimazione dell'opera (è
tale è il termine ultimo di presentazione della domanda) che
a quella di rilascio del titolo.
Diversamente, in effetti, si creerebbe una violazione sia
del principio di uguaglianza -ben potendo due identiche
violazioni edilizie, contemporaneamente ultimate, essere
sanate con la corresponsione di oneri di diverso importo-
sia del principio di buon andamento della pubblica
Amministrazione (art. 97 Cost.), rimettendosi alle scelte
discrezionali in sede organizzativa del Comune la facoltà di
determinare la tariffa applicabile al caso concreto.
E tali considerazione valgono sia per l’accoglimento
espresso sia per i casi di silenzio-assenso sulla domanda (TAR
Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza
22.07.2005 n. 3803). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’ambito della
previsione di cui all’art. 35 L. 47/1985, il termine
iniziale da cui decorre la prescrizione dell’eventuale
diritto al conguaglio od al rimborso spettanti per le somme
pagate è lo stesso termine previsto per la formazione del
silenzio-accoglimento, cioè la data di presentazione della
domanda di sanatoria o, nel caso di immobile sottoposto a
vincoli di inedificabilità , la data dell’emissione del
parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Peraltro, come è stato chiarito dalla giurisprudenza, deve
escludersi che qualunque inesattezza od omissione sia idonea
a produrre l’effetto de quo, dovendo trattarsi o di domanda
infedele o di omissioni che incidano sulla concreta
consistenza dell’immobile tanto da impedirne la sua
identificazione, non essendo rilevanti le omissioni che
incidano solo sull’entità dell’oblazione, potendo il Comune
avvalersi di poteri di accertamento successivo.
Tali considerazioni risultano suffragate dal dato testuale
consistente nel mancato richiamo da parte dell’art. 35, c.
9°, della L. n. 47/1985, vigente in materia di diritto al
conguaglio, dell’art. 40 succitato .
In particolare, tale ultima norma citata, che introduce il
principio del silenzio-assenso in materia di condono
edilizio, stabilisce che perché esso si formi è necessario
che sussistano comunque i presupposti di accoglibilità della
domanda e cioè che il manufatto abusivo sia stato realizzato
al momento della domanda stessa, che la medesima non sia
dolosamente infedele e che non sussistano sull’area su cui è
sorto il manufatto abusivo vincoli di inedificabilità.
Difatti, la medesima norma espressamente richiama non solo
l’art. 40 ma anche l’art. 33 (contrasto delle opere abusive
con vincoli di inedificabilità assoluta preesistenti
all’esecuzione delle opere), tanto che si ritiene che il
silenzio-accoglimento possa verificarsi in tutti gli altri
casi, compreso quello in cui non sia fornita la prova
dell'ultimazione delle opere entro il 01.10.1983, non
richiamati dal 12º comma dell’art. 35, in cui le opere
abusive non sarebbero suscettibili di sanatoria con
provvedimento espresso.
Invero, soltanto l’omessa presentazione della documentazione
prescritta per le domanda di condono edilizio non fa
decorrere, oltre che il termine di ventiquattro mesi per la
formazione di silenzio-assenso, quello collegato e già
citato, di trentasei mesi per la prescrizione del diritto al
conguaglio della oblazione previsto dall’art. 35 l.
28.02.1985 n. 47, come modificato dall’art. 4, 6º comma, l.
13.03.1988 n. 68.
---------------
Circa la prescrizione degli oneri concessori, in materia di
condono edilizio, va premessa la soggezione del credito in
questione all’ordinario termine decennale di prescrizione.
Con riferimento al dies a quo, lo stesso va fatto coincidere
con il rilascio della concessione cui si ricollega l’obbligo
contributivo in discorso (ciò sulla scorta dell’art. 11 l.
28.01.1977 n. 10, che ricollega l’esigibilità del credito
comunale “all’atto del rilascio della concessione”).
---------------
Il Collegio, aderendo ad una giurisprudenza pressoché
unanime, ritiene che l’entità del contributo debba essere
individuata con riferimento al momento in cui viene
rilasciata la concessione edilizia in sanatoria, poiché il
costo da considerare ai fini della commisurazione dei
relativi oneri non può essere che quello del momento in cui
sorge l'obbligazione, che è appunto quello del rilascio
della concessione.
Difatti, l’esercizio delle potestà pubbliche, che è
destinato a soddisfare interessi preminenti della
collettività, deve avvenire in conformità alla disciplina
che è prevista al momento dell’adozione dell’atto (tempus
regit actum) secondo principi di relazione e di stretta
connessione con le esigenze e le valutazioni correnti , in
quel preciso momento storico, nella società .
A questo riguardo è stato infatti acutamente osservato che
sarebbe quanto meno anomalo pretendere che l’Amministrazione
preposta alla cura dei pubblici interessi agisca, invece,
facendo ossequio a modelli che sono stati ritenuti superati
e non più rispondenti ed aderenti a reali bisogni
collettivi.
... per l’annullamento della nota del 25.02.2003 prot. n.
5243/CO del Dirigente dell’Ufficio Tecnico Ripartizione
Urbanistica ed assetto del territorio del Comune di Brindisi
notificata in data 03.03.2003, con la quale sono stati
determinati in via definitiva gli importi oblativi e
concessori per la sanatoria delle opere abusive richiesta
dal ricorrente con istanza del 29.04.1986 ed è stato
intimato al ricorrente il pagamento del relativo importo
quale condizione per il rilascio della concessione in
sanatoria;
...
Il ricorso deve ritenersi fondato limitatamente alla dedotta
prescrizione del diritto del conguaglio dell’oblazione ed
infondato per le restanti censure.
Invero, l’art. 35 della L. 47/1985, come modificato
dall’art. 4, comma 6, del D.L. n. 2 del 12.01.1988, prevede
la prescrizione , trascorsi trentasei mesi, dell’eventuale
diritto al conguaglio od al rimborso spettanti .
Vi è da precisare che il nuovo termine di prescrizione, come
introdotto dalla normativa citata, decorre dalla data di
entrata in vigore della legge che ne ha disposto
l’abbreviazione, purché, a norma della legge precedente non
rimanga a decorrere un termine minore (CDS 28.04.1999 n.
495).
Inoltre, è stato chiarito che, nell’ambito della previsione
di cui all’art. 35 L. 47/1985, il termine iniziale da cui
decorre la prescrizione dell’eventuale diritto al conguaglio
od al rimborso spettanti per le somme pagate è lo stesso
termine previsto per la formazione del
silenzio-accoglimento, cioè la data di presentazione della
domanda di sanatoria o, nel caso di immobile sottoposto a
vincoli di inedificabilità , la data dell’emissione del
parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Peraltro, come è stato chiarito dalla giurisprudenza, deve
escludersi che qualunque inesattezza od omissione sia idonea
a produrre l’effetto de quo, dovendo trattarsi o di domanda
infedele o di omissioni che incidano sulla concreta
consistenza dell’immobile tanto da impedirne la sua
identificazione, non essendo rilevanti le omissioni che
incidano solo sull’entità dell’oblazione, potendo il Comune
avvalersi di poteri di accertamento successivo.
Tali considerazioni risultano suffragate dal dato testuale
consistente nel mancato richiamo da parte dell’art. 35, c.
9°, della L. n. 47/1985, vigente in materia di diritto al
conguaglio, dell’art. 40 succitato .
In particolare, tale ultima norma citata, che introduce il
principio del silenzio-assenso in materia di condono
edilizio, stabilisce che perché esso si formi è necessario
che sussistano comunque i presupposti di accoglibilità della
domanda e cioè che il manufatto abusivo sia stato realizzato
al momento della domanda stessa, che la medesima non sia
dolosamente infedele e che non sussistano sull’area su cui è
sorto il manufatto abusivo vincoli di inedificabilità (Tar
Puglia, sez. II, 28.03.1998, n. 349).
Difatti, la medesima norma espressamente richiama non solo
l’art. 40 ma anche l’art. 33 (contrasto delle opere abusive
con vincoli di inedificabilità assoluta preesistenti
all’esecuzione delle opere), tanto che si ritiene (Tar
Piemonte, sez. I, 06.04.1995, n. 207) che il
silenzio-accoglimento possa verificarsi in tutti gli altri
casi, compreso quello in cui non sia fornita la prova
dell'ultimazione delle opere entro il 01.10.1983, non
richiamati dal 12º comma dell’art. 35, in cui le opere
abusive non sarebbero suscettibili di sanatoria con
provvedimento espresso.
Invero, soltanto l’omessa presentazione della documentazione
prescritta per le domanda di condono edilizio non fa
decorrere, oltre che il termine di ventiquattro mesi per la
formazione di silenzio-assenso, quello collegato e già
citato, di trentasei mesi per la prescrizione del diritto al
conguaglio della oblazione previsto dall’art. 35 l.
28.02.1985 n. 47, come modificato dall’art. 4, 6º comma, l.
13.03.1988 n. 68 (Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz.,
21.11.1997, n. 509).
---------------
Va invece respinta la censura
riguardante la prescrizione degli oneri concessori.
A tal fine, va necessariamente premessa la soggezione del
credito in questione all’ordinario termine decennale di
prescrizione (C. Stato, sez. V, 04.08.2000 n. 4302).
Con riferimento al dies a quo, lo stesso va fatto
coincidere con il rilascio della concessione cui si
ricollega l’obbligo contributivo in discorso (ciò sulla
scorta dell’art. 11 l. 28.01.1977 n. 10, che ricollega
l’esigibilità del credito comunale “all’atto del rilascio
della concessione”).
Nella fattispecie, il rilascio del titolo concessorio è
avvenuto in data 07.09.1996 in considerazione della
maturazione, da tale data, del silenzio-assenso.
Ne consegue che il termine di prescrizione, al momento della
adozione del provvedimento impugnato, non era ancora decorso
con la conseguente legittimità della richiesta del
contributo concessorio in esame.
---------------
Con il terzo motivo di ricorso, ed assorbite le censure
subordinate riguardanti la contestazione della somma
richiesta a titolo di conguaglio oblazione in considerazione
dell’accoglimento della richiesta principale riguardante la
prescrizione della stessa, il ricorrente censura il
provvedimento impugnato nella parte in cui non ha ancorato
il pagamento degli oneri ai parametri in vigore alla fine
degli anni 80, coincidenti con l’epoca di presentazione
della domanda di condono.
Il motivo è infondato.
In merito, il Collegio, aderendo ad una giurisprudenza
pressoché unanime, ritiene che l’entità del contributo debba
essere individuata con riferimento al momento in cui viene
rilasciata la concessione edilizia in sanatoria, poiché il
costo da considerare ai fini della commisurazione dei
relativi oneri non può essere che quello del momento in cui
sorge l'obbligazione, che è appunto quello del rilascio
della concessione (Cons. Stato, V Sez., 26.03.2003 n. 1564;
22.09.1999 n. 1113; 25.10.1993 n. 1071, 26.10.1987 n. 661,
12.05.1987 n. 278 e 04.08.1986 n. 40; TAR Lazio 13.11.2002
n. 9982).
Difatti, l’esercizio delle potestà pubbliche, che è
destinato a soddisfare interessi preminenti della
collettività, deve avvenire in conformità alla disciplina
che è prevista al momento dell’adozione dell’atto (tempus
regit actum) secondo principi di relazione e di stretta
connessione con le esigenze e le valutazioni correnti , in
quel preciso momento storico, nella società .
A questo riguardo è stato infatti acutamente osservato che
sarebbe quanto meno anomalo pretendere che l’Amministrazione
preposta alla cura dei pubblici interessi agisca, invece,
facendo ossequio a modelli che sono stati ritenuti superati
e non più rispondenti ed aderenti a reali bisogni collettivi
(Cons. Stato, V Sez., 04.08.1986 n. 40, cit.)
(TAR Puglia-Lecce, Sez.
III,
sentenza
05.06.2004 n. 3394). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ipotesi
di opere abusive realizzate in base a concessione annullata,
a seguito di pronuncia giurisdizionale, non costituisce
propriamente una tipologia di abuso, perché assentite da un
atto rilasciato dalla stessa amministrazione.
Infatti in colui che si vede annullare il titolo abilitativo
rilasciato dall'Amministrazione, a volte dopo diversi anni,
come nella fattispecie, si è ingenerato un affidamento
causato dal lungo lasso di tempo trascorso.
Ne consegue che, in seguito all'annullamento di un titolo
abilitativo edilizio, "l'Amministrazione non può dirsi
vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo, anzi,
tale scelta, tipicamente discrezionale, essere adeguatamente
motivata, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile,
la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi
riscontrati".
Il Collegio al riguardo non condivide l'assunto che la
rimozione dei vizi sarebbe possibile solo allorché essi
siano di carattere formale, dato che l’art. 38 nulla dice al
riguardo e che tale norma costituisce una normativa di
favore che differenzia sensibilmente la posizione di colui
che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di un titolo
annullato, rispetto a coloro che hanno realizzato opere
abusive senza alcun titolo, tutelando l'affidamento del
privato a poter conservare l'opera realizzata.
In tal senso si è espressa anche l'Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato con la sentenza 23.04.2009, n. 4,
laddove afferma che "l'ipotesi di opere abusive realizzate
in base a concessione annullata, a seguito di pronuncia
giurisdizionale, non costituisce propriamente una tipologia
di abuso", perché assentite da un atto rilasciato dalla
stessa amministrazione.
Infatti in colui che si vede annullare il titolo abilitativo
rilasciato dall'Amministrazione, a volte dopo diversi anni,
come nella fattispecie, si è ingenerato un affidamento
causato dal lungo lasso di tempo trascorso e, nel caso della
trattoria di parte controinteressata, anche dalla sentenza
favorevole del TAR Veneto nel 2004.
Ne consegue che, in seguito all'annullamento di un titolo
abilitativo edilizio, "l'Amministrazione non può dirsi
vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo, anzi,
tale scelta, tipicamente discrezionale, essere adeguatamente
motivata, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile,
la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi
riscontrati" (TAR Bari, Puglia, sez. III n. 187 del
13.01.2012; C.S., Sez. IV, sent. n. 7731 del 02.11.2010)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.06.2014 n. 761 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di sanatoria ambientale, ex art. 181
dlgs 42/2004,
il volume tecnico non può
avere alcuna rilevanza e la superficie utile a cui fa
riferimento l’art. 167, ad impedimento della
regolarizzazione postuma degli interventi edilizi in zone
sottoposte a vincolo paesaggistico, è soltanto quella che
muta l'assetto dei luoghi o meglio, come afferma la stessa
sentenza della Cassazione penale citata dalla ricorrente,
quella che determina "l'impatto dell'intervento
sull'originario assetto paesaggistico del territorio”, in
modo che questo sia idoneo a determinare una compromissione
ambientale.
Anche il quindicesimo
motivo è infondato.
L’intervento “sanato” ai sensi dell’art. 181 d.lgs. 42/2004
consiste infatti nella mera diversa realizzazione del porta
vivande, che non crea ovviamente superficie né volume di cui
all’art. 167, d.lgs. 42/2004.
Infatti il volume tecnico non può avere alcuna rilevanza e
la superficie utile a cui fa riferimento l’art. 167, ad
impedimento della regolarizzazione postuma degli interventi
edilizi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, è
soltanto quella che muta l'assetto dei luoghi o meglio, come
afferma la stessa sentenza della Cassazione penale citata
dalla ricorrente (sez. III, 29.11.2011, n. 889),
quella che determina "l'impatto dell'intervento
sull'originario assetto paesaggistico del territorio”, in
modo che questo sia idoneo a determinare una compromissione
ambientale.
---------------
Con il sedicesimo motivo
parte ricorrente illustra le ragioni di illegittimità del
decreto di accertamento di compatibilità paesaggistica del
montavivande sotto due profili:
1) sarebbe stato emesso in violazione dell'art. 146 del D.Lgs. 4272004 perché sottoscritto dal medesimo dirigente
comunale che ha rilasciato il permesso di costruire in
sanatoria;
2) sarebbe stato emesso senza preventiva acquisizione del
parere della commissione edilizia comunale integrata,
illegittimamente abrogata e neppure sostituita dalla
commissione locale di cui alla legge regionale 26.05.2011 n. 10.
Entrambi i profili di censura sono privi di fondamento.
Con riguardo al primo punto, va osservato che l'art.
146, comma 6, del Codice dei Beni Culturali prescrive che
gli enti ai quali la Regione delega l'esercizio delle
funzioni in materia di autorizzazione paesaggistica
"dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato
livello di competenze tecnico-scientifiche, nonché di
garantire la differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in
materia di urbanistica ed edilizia".
Se ne evince quindi la prescrizione di una duplice
organizzazione amministrativa, cioè una duplicazione o
separazione di strutture destinate all'emissione degli atti
di natura paesaggistica e di natura urbanistico-edilizia:
diversi devono essere i settori di gestione dei due
procedimenti e diverse le professionalità agli stessi
assegnate, mentre nulla vieta che il responsabile del
provvedimento finale sia unico, come nel caso del Comune di
Verona, il quale ha regolarmente attivato, con specifiche
delibere giuntali, la doppia struttura strutturandone
organizzazione e funzionamento con atti in nessun modo
contestati ed è quindi legittimato ad esercitare le funzioni
in materia di autorizzazione paesaggistica secondo le
modalità organizzative che si è dato.
Con riguardo al secondo profilo, premesso che l'art.
4, comma 2, del DPR 380/2001 ha reso facoltativa la nomina
della Commissione edilizia comunale, va ricordato che l'art.
49 della L.R. 11/2004, come modificato dall'art. 13 della
L.R. 10/2011, ha abrogato la L.R. 63/1994, che prevedeva
l'attivazione della Commissione edilizia integrata,
eliminandola definitivamente dall'ordinamento urbanistico
regionale. Contemporaneamente, la medesima L.R. 10/2011 ha
introdotto nella L.R. 11/2004, l'art. 45-nonies, il quale
non ha imposto l'obbligo ma ha meramente dato facoltà ai
Comuni ("possono") di istituire "preferibilmente in forma
associata, la Commissione locale per il paesaggio"
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.06.2014 n. 761 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza della Sezione è ferma nel
ritenere, per quanto attiene alla disciplina di carattere
generale, che l’entità del contributo dovuto per gli oneri
in questione debba essere riferita al momento in cui viene
rilasciata la concessione edilizia, giacché il costo delle
opere da prendere in considerazione ai fini della
commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello
del momento in cui sorge l’obbligazione, ossia, appunto,
quello del rilascio della concessione.
Ciò in quanto l’esercizio delle potestà pubbliche, che è
destinato a soddisfare interessi preminenti della
collettività, non può avvenire che in conformità della
disciplina che è prevista per l’epoca in cui l’Autorità
agisce e che è conformata dal legislatore, per l’appunto, in
stretta connessione con le esigenze e valutazioni correnti
nella società contemporanea; sicché costituirebbe, di
massima, un fuor d’opera pretendere che l’Amministrazione
preposta alla cura dei pubblici interessi agisca, invece,
facendo ossequio a modelli che sono stati ritenuti superati
e non più rispondenti ed aderenti a reali bisogni
collettivi.
---------------
Né a queste conclusioni possono essere sottratte le opere
oggetto di sanatoria edilizia, non avendo, il legislatore,
con riguardo alle stesse, introdotto alcuna specifica
disposizione di carattere derogatorio.
---------------
Riassunto il quadro normativo di settore per quanto attiene
specificamente alla Regione Lombardia, è da ritenere che,
richiamando ai fini della determinazione degli oneri di
urbanizzazione applicabili alla sanatoria edilizia la legge
regionale del 1977, la legge regionale del 1985 non abbia
inteso fare un rinvio di carattere statico, avente
riferimento a costi cristallizzati, determinati in sede di
prima applicazione della legge regionale n. 60 del 1977, ma
che abbia inteso, invece, logicamente riferirsi ai costi via
via, nel tempo, determinati in base a tale ultima legge e al
carattere dinamico della stessa, in quanto legati al
continuo variare degli elementi di cui ai citati artt. 1, 2
e 3.
Correttamente, quindi, il Comune ha determinato, nella
specie, gli oneri di urbanizzazione applicando i valori
definiti e aggiornati in base alla disciplina ivi vigente al
momento del rilascio del titolo in sanatoria.
Contrariamente, infine, a quanto ritenuto dai primi giudici,
non si vede il motivo per cui ragioni di “giustizia
sostanziale” dovrebbero indulgere a far ritenere operante,
in caso di sanatoria, una sorta di deroga implicita al
predetto principio di carattere generale, dal momento che la
relativa disciplina di favore già costituisce un’eccezione
destinata a privilegiare l’autore delle opere abusive;
sicché non è dato vedere la ragione per cui il medesimo, già
avvantaggiato dalla mancata sottoposizione alla norma penale
e dalla mancata rimozione o perdita dell’opera realizzata,
dovrebbe essere anche beneficiato dall’assoggettamento ad
oneri urbanistici ormai da molto tempo “storicamente”
superati.
Con l’appello in epigrafe è impugnata la sentenza con Cui il
TAR ha parzialmente accolto il ricorso proposto dalla
società qui appellata avverso le ordinanze sindacali
09.04.1990, nn. 6936 e 6937, recanti la determinazione degli
importi dovuti dalla detta società a titolo di conguaglio
oblazione ed oneri di urbanizzazione a fronte del rilascio
di concessione edilizia in sanatoria per la costruzione di
un capannone industriale e di tettoie ad uso deposito di
materiale.
...
La giurisprudenza della Sezione è ferma nel ritenere, per
quanto attiene alla disciplina di carattere generale, che
l’entità del contributo dovuto per gli oneri in questione
debba essere riferita al momento in cui viene rilasciata la
concessione edilizia, giacché il costo delle opere da
prendere in considerazione ai fini della commisurazione dei
relativi oneri non può essere che quello del momento in cui
sorge l’obbligazione, ossia, appunto, quello del rilascio
della concessione (cfr. 22.09.1999, n. 1113; 25.10.1993, n.
1071; 26.10.1987, n. 661, 12.05.1987, n. 278; 04.08.1986, n.
401).
Ciò in quanto l’esercizio delle potestà pubbliche, che è
destinato a soddisfare interessi preminenti della
collettività, non può avvenire che in conformità della
disciplina che è prevista per l’epoca in cui l’Autorità
agisce e che è conformata dal legislatore, per l’appunto, in
stretta connessione con le esigenze e valutazioni correnti
nella società contemporanea; sicché costituirebbe, di
massima, un fuor d’opera pretendere che l’Amministrazione
preposta alla cura dei pubblici interessi agisca, invece,
facendo ossequio a modelli che sono stati ritenuti superati
e non più rispondenti ed aderenti a reali bisogni collettivi
(cfr. la decisione n. 401/1986 cit.).
Né a queste conclusioni possono essere sottratte le opere
oggetto di sanatoria edilizia, non avendo, il legislatore,
con riguardo alle stesse, introdotto alcuna specifica
disposizione di carattere derogatorio.
L’art. 37 della citata legge n. 47/1985 prevede, invero
(primo comma), che “il versamento dell’oblazione non
esime i soggetti di cui all’art. 31, primo e terzo comma,
dalla corresponsione al comune, ai fini del rilascio della
concessione, del contributo previsto dall’art. 3 della L.
28.01.1977, n. 10, ove dovuto”, e che (comma 2) “le
regioni possono modificare, ai fini della sanatoria, le
norme di attuazione degli articoli 5, 6 e 10, L. 28.01.1977,
n. 10…….”; al terzo comma prevede, poi, che “le
regioni possono inoltre prevedere la corresponsione di un
contributo ai fini del rilascio della concessione in
sanatoria per opere realizzate dopo il 01.09.1967 e prima
del 30.01.1977, in misura non superiore, comunque, a quello
previsto per le opere di urbanizzazione; sempreché tali
opere non siano state già eseguite a cura e spese degli
interessati…….”.
La Regione Lombardia è intervenuta, in attuazione della
norma ora detta, con le legge regionale n. 77 del
20.06.1985.
All’art. 1, comma 2, tale legge prevede che “per le opere
realizzate dopo il 01.09.1967 e prima del 30.01.1977, il
rilascio della concessione in sanatoria è subordinato al
versamento di un contributo per opere di urbanizzazione in
misura pari a quella determinata dai comuni in applicazione
della legge regionale 05.12.1977, n. 60, sempreché tali
opere non siano state già eseguite a cura e spese degli
interessati.....”; al comma 4 prevede, poi, che “per
le opere realizzate dopo il 29.01.1977 ed entro il
01.10.1983, il rilascio di concessione in sanatoria
comporta, oltre al versamento dell’oblazione, la
corresponsione del contributo di concessione in misura pari
a quanto previsto, per il costo di costruzione, dall’art. 6,
terzo comma, della legge 28.01.1977, n. 10, così come
sostituito dal sesto comma dell’articolo 9 della legge
25.03.1982, n. 94, nonché per gli oneri di urbanizzazione,
dalla L.R. 05.12.1977, n. 60”.
A sua volta, la legge regionale 05.12.1977, n. 60, prevede,
all’art. 1, che “ai fini della determinazione da parte
dei consigli comunali della incidenza degli oneri di
urbanizzazione ai sensi degli artt. 5 e 10 della legge
28.01.1977, n. 10, il consiglio regionale, con deliberazione
da emanarsi su proposta della giunta regionale, approva:
a) tabelle di determinazione dei costi base regionali delle
opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di
smaltimento dei rifiuti;
b) tabelle di classificazione dei comuni e di coefficienti
per l’adeguamento dei costi base regionali alle diverse
classi di comuni, da applicarsi alle costruzioni destinate a
residenza;
c) tabelle parametriche di incidenza degli oneri di
urbanizzazione”.
All’art. 2 la stessa legge prevede che “le tabelle
approvate ai sensi dell’articolo precedente possono essere
aggiornate di anno in anno, con deliberazione del consiglio
……”.
All’art. 3, comma 1, è poi previsto che “i comuni, con
deliberazione consiliare, determinano l’incidenza degli
oneri di urbanizzazione applicando i parametri indicati
nelle tabelle di cui alla lettera C) del precedente art. 1
ai costi delle opere di urbanizzazione da stabilirsi,
secondo le disposizioni previste dal secondo, terzo e quarto
comma del presente articolo, con la stessa deliberazione del
consiglio comunale"; mentre, al comma 2, si prevede che:
“i comuni determinano i propri costi effettivi delle
opere di urbanizzazione in conformità ai criteri adottati
dalla regione per la determinazione dei costi base indicati
nelle tabelle di cui alla lettera A) del precedente art. 1,
tenendo conto inoltre:
1) del livello di urbanizzazione generale;
2) del livello di dotazione dei servizi pubblici comunali;
3) delle caratteristiche geomorfologiche del territorio;
4) dell’andamento demografico della popolazione;
5) del valore delle aree determinato secondo i valori medi
di espropriazione aumentati del cinquanta per cento”.
Così riassunto il quadro normativo di settore per quanto
attiene specificamente alla Regione Lombardia, è da ritenere
che, richiamando, ai fini della determinazione degli oneri
di urbanizzazione applicabili alla sanatoria edilizia la
legge regionale del 1977, la legge regionale del 1985 non
abbia inteso fare un rinvio di carattere statico, avente
riferimento a costi cristallizzati, determinati in sede di
prima applicazione della legge regionale n. 60 del 1977, ma
che abbia inteso, invece, logicamente riferirsi ai costi via
via, nel tempo, determinati in base a tale ultima legge e al
carattere dinamico della stessa, in quanto legati al
continuo variare degli elementi di cui ai citati artt. 1, 2
e 3.
Correttamente, quindi, il Comune ha determinato, nella
specie, gli oneri di urbanizzazione applicando i valori
definiti e aggiornati in base alla disciplina ivi vigente al
momento del rilascio del titolo in sanatoria.
Contrariamente, infine, a quanto ritenuto dai primi giudici,
non si vede il motivo per cui ragioni di “giustizia
sostanziale” dovrebbero indulgere a far ritenere
operante, in caso di sanatoria, una sorta di deroga
implicita al predetto principio di carattere generale, dal
momento che la relativa disciplina di favore già costituisce
un’eccezione destinata a privilegiare l’autore delle opere
abusive; sicché non è dato vedere la ragione per cui il
medesimo, già avvantaggiato dalla mancata sottoposizione
alla norma penale e dalla mancata rimozione o perdita
dell’opera realizzata, dovrebbe essere anche beneficiato
dall’assoggettamento ad oneri urbanistici ormai da molto
tempo “storicamente” superati (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.03.2003 n. 1564). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di
prescrizione del diritto al conguaglio dell’oblazione per
istanza di condono edilizio, il dies a
quo del termine di prescrizione va individuato, non già
nella data di presentazione della domanda di condono, ma in
quella di rilascio del provvedimento concessorio, sia essa
espresso o tacito, tenuto conto che, ai sensi dell’art. 3
della legge n. 10/1977, la concessione, e non la semplice
domanda, comporta “la corresponsione di un contributo
commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione,
nonché al costo di costruzione”.
In tal senso è del resto la giurisprudenza amministrativa,
secondo cui l’entità del contributo dovuto per oneri
concessori va individuato nel momento in cui viene
rilasciata la concessione edilizia, poiché il costo da
considerare ai fini della commisurazione dei relativi oneri
non può essere che quello del momento in cui sorge
l’obbligazione, che è appunto quello del rilascio della
concessione e a tale data occorre avere riguardo per
determinare l’entità del contributo con applicazione della
normativa vigente al momento del rilascio della concessione.
Il ricorso merita accoglimento nella parte in cui oppone la
prescrizione del diritto al conguaglio dell’oblazione,
atteso che la stessa A.ne ha riconosciuto fondata tale
eccezione.
L’ulteriore eccezione di prescrizione (ordinaria) degli
oneri concessori, dedotta col secondo motivo, va invece
disattesa.
Invero, il dies a quo del termine di prescrizione va
individuato, non già nella data di presentazione della
domanda di condono, ma in quella di rilascio del
provvedimento concessorio, sia essa espresso o tacito,
tenuto conto che, ai sensi dell’art. 3 della legge n.
10/1977, la concessione, e non la semplice domanda, comporta
“la corresponsione di un contributo commisurato
all’incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo
di costruzione”.
In tal senso è del resto la giurisprudenza amministrativa,
secondo cui l’entità del contributo dovuto per oneri
concessori va individuato nel momento in cui viene
rilasciata la concessione edilizia, poiché il costo da
considerare ai fini della commisurazione dei relativi oneri
non può essere che quello del momento in cui sorge
l’obbligazione, che è appunto quello del rilascio della
concessione e a tale data occorre avere riguardo per
determinare l’entità del contributo con applicazione della
normativa vigente al momento del rilascio della concessione
(cfr. in termini C.d.S., V, 22.09.1999, n. 1113 e
06.12.1999, n. 2056; cfr. anche C.d.S., V, 25.10.1993, n.
1071; 21.10.1998, n. 1512; 26.10.1987, n. 661; 12.05.1987,
n. 278; 04.08.1986, n. 401)
(TAR Lazio-Roma, Sez.
II-bis,
sentenza
13.11.2002 n. 9982). |
EDILIZIA PRIVATA:
A seguito del
frazionamento dell’originaria abitazione, questa è stata
suddivisa in tre appartamenti, di cui due a destinazione
abitativa ed uno con destinazione d’uso ad ufficio,
intervento che valutato nel suo complesso appare sicuramente
comportare un maggior carico urbanistico che giustifica la
richiesta dell’A.ne di pagamento degli oneri concessori in
contestazione.
----------------
La giurisprudenza in più occasioni ha affermato che, in sede
di rilascio della concessione edilizia, ai fini
dell’imposizione degli oneri di urbanizzazione, la richiesta
di pagamento dei medesimi risulta illegittima ogni qualvolta
non sia ravvisabile a seguito dell’intervento edilizio un
aumento del carico urbanistico e correlativamente legittima
qualora si sia verificata una variazione in aumento del
carico medesimo.
La giurisprudenza ha anche precisato che, ai fini
dell’esonero dal pagamento del contributo in questione, è
determinante il risultato complessivo, onde il giudizio deve
essere formulato non già scomponendo l’intervento nei suoi
singoli elementi, ma valutando se l’insieme delle
modificazioni, considerate in modo globale e contestuale,
con inclusione di quelle di carattere funzionale, determini
o meno una situazione riconducibile a quella che giustifica,
secondo la ratio della norma, la partecipazione agli oneri
in parola e cioè determini o meno un aumento del carico
urbanistico, ravvisato (nella specie considerata) proprio
nell’aumento di unità abitative.
Anzi è stato ritenuto che, poiché l’art. 9 della legge n. 10
del 1977 assoggetta a concessione gratuita soltanto le
modifiche interne necessarie per migliorare le condizioni
igieniche e statiche delle abitazioni, nonché per realizzare
volumi tecnici, tutti gli altri mutamenti interni, se
rivolti a realizzare opere e risultati diversi (e quindi un
maggior carico urbanistico) dal miglioramento igienico e
statico dell’edificio richiedono il rilascio della
concessione edilizia a titolo oneroso (cfr. C.d.S., V,
02.11.1998, n. 1557; cfr. anche TAR Marche 12.02.1998, n.
250, secondo cui la gratuità della concessione ex lettera d)
dell’art. 9 della legge n. 10/1977 presuppone la permanenza
della destinazione d’uso degli edifici oggetto degli
interventi ivi previsti).
Al riguardo, va osservato che
la giurisprudenza in più occasioni ha affermato che, in sede
di rilascio della concessione edilizia, ai fini
dell’imposizione degli oneri di urbanizzazione, la richiesta
di pagamento dei medesimi risulta illegittima ogni qualvolta
non sia ravvisabile a seguito dell’intervento edilizio un
aumento del carico urbanistico e correlativamente legittima
qualora si sia verificata una variazione in aumento del
carico medesimo (cfr. C.d.S., V, 15.09.1997, n. 959).
La giurisprudenza (cfr. C.d.S., V, 30.10.1995, n. 1494) ha
anche precisato che, ai fini dell’esonero dal pagamento del
contributo in questione, è determinante il risultato
complessivo, onde il giudizio deve essere formulato non già
scomponendo l’intervento nei suoi singoli elementi, ma
valutando se l’insieme delle modificazioni, considerate in
modo globale e contestuale, con inclusione di quelle di
carattere funzionale, determini o meno una situazione
riconducibile a quella che giustifica, secondo la ratio
della norma, la partecipazione agli oneri in parola e cioè
determini o meno un aumento del carico urbanistico,
ravvisato (nella specie considerata) proprio nell’aumento di
unità abitative.
Anzi è stato ritenuto che, poiché l’art. 9 della legge n. 10
del 1977 assoggetta a concessione gratuita soltanto le
modifiche interne necessarie per migliorare le condizioni
igieniche e statiche delle abitazioni, nonché per realizzare
volumi tecnici, tutti gli altri mutamenti interni, se
rivolti a realizzare opere e risultati diversi (e quindi un
maggior carico urbanistico) dal miglioramento igienico e
statico dell’edificio richiedono il rilascio della
concessione edilizia a titolo oneroso (cfr. C.d.S., V,
02.11.1998, n. 1557; cfr. anche TAR Marche 12.02.1998, n.
250, secondo cui la gratuità della concessione ex lettera d)
dell’art. 9 della legge n. 10/1977 presuppone la permanenza
della destinazione d’uso degli edifici oggetto degli
interventi ivi previsti).
In relazione ai suindicati criteri giurisprudenziali, appare
evidente che il ricorrente non può ritenersi esonerato dal
contributo di cui all’art. 3 della legge n. 10/1977, tenuto
conto che, a seguito del frazionamento dell’originaria
abitazione, questa è stata suddivisa in tre appartamenti, di
cui due a destinazione abitativa ed uno con destinazione
d’uso ad ufficio, intervento che valutato nel suo complesso
appare sicuramente comportare un maggior carico urbanistico
che giustifica la richiesta dell’A.ne di pagamento degli
oneri concessori in contestazione.
In conclusione, il ricorso merita accoglimento con riguardo
alla eccezione di prescrizione del diritto dell’A.ne al
conguaglio delle somme dovute a titolo di oblazione, mentre
esso va respinto per il resto (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-bis,
sentenza
13.11.2002 n. 9982). |
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