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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MAGGIO 2014

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aggiornamento al 27.05.2014

aggiornamento al 21.05.2014

aggiornamento al 18.05.2014

aggiornamento al 14.05.2014

aggiornamento al 05.05.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.05.2014

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dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: R. Lasca, L'ESATTO AMBITO SOGGETTIVO ED OGGETTIVO D'APPLICAZIONE DELLE REGOLE SULLA TRASPARENZA (L. 190/2012 e D.Lgs. 33/2013) agli enti-extra PP.AA. in senso stretto - Orientamento di sintesi coordinata (e creativa) secondo la Circolare DFP n. 1/2014 (26.05.2014).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Capannoni industriali, ecco il nuovo modello unico.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.M. 18.04.2014 finalizzato alla semplificazione della trasmissione agli organi di vigilanza delle informazioni relative alla sicurezza dei lavoratori in caso di costruzione di edifici o locali adibiti a lavorazioni industriali.
Nello specifico, il provvedimento individua le informazioni richieste dall'articolo 67 del Testo Unico (D.Lgs. 81/2008), introducendo un modello unico valido su tutto il territorio nazionale da utilizzare nei luoghi di lavoro con la presenza di più di tre lavoratori, in caso di interventi di nuova costruzione, ampliamento o ristrutturazione di edifici da adibire a lavorazioni industriali.
Da sottolineare che in precedenza non era previsto un modello unico, per cui il cittadino o l’impresa doveva utilizzare, di volta in volta, la modulistica prevista dal singolo organo di vigilanza.
In allegato all’articolo, il Decreto e il modello unico di trasmissione dei dati in formato editabile (22.05.2014 - link a www.acca.it).

LAVORI PUBBLICI: LINEE GUIDA PER LA PREDISPOSIZIONE DELLE CONVENZIONI DI CONCESSIONE E GESTIONE (ANCE, maggio 2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 27.05.2014, "Approvazione definitiva dei criteri e dei parametri per l’individuazione e la classificazione dei piccoli comuni non montani, ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 05.05.2004, n. 11" (deliberazione G.R. 23.05.2014 n. 1865).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 26.05.2014, "Aggiornamento Albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008, art. 57)" (decreto D.S. 22.05.2014 n. 4282).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 23.05.2014, "Terzo aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 19.05.2014 n. 4179).

EDILIZIA PRIVATA: MODELLO UNICO NAZIONALE PER LA NOTIFICA AI SENSI DELL’ARTICOLO 67 DEL D. LGS. N. 81/2008 A SEGUITO DI INTERVENTO EDILIZIO (esclusi i cantieri temporanei e mobili – Titolo IV del d.lgs. n. 81/2008) (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Ministero per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, decreto 18.04.2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Questioni interpretative in materia di IRPEF prospettate dal Coordinamento Nazionale dei Centri di Assistenza Fiscale e da altri soggetti (Agenzia delle Entrate, circolare 21.05.2014 n. 11/E).
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INDICE
1. QUESTIONI IN MATERIA DI REDDITI
1.1 IMU-IRPEF – Applicazione dell’effetto di sostituzione per il 2013 - 1.2 IMU-IRPEF – Immobili situati nel medesimo comune dell’abitazione principale - 1.3 Canoni di locazione non riscossi - 1.4 Sisma Emilia-Romagna – Contributo autonoma sistemazione - 1.5 Redditi esteri ed applicazione delle retribuzioni convenzionali
2. SPESE SANITARIE
2.1 Detraibilità spese per osteopata - 2.2 Detraibilità spese per biologo nutrizionista
3. INTERESSI PASSIVI PER MUTUI
3.1 Acquisto di immobili da accorpare catastalmente - 3.2 Mutuo per la costruzione abitazione principale – Coniuge a carico - 3.3 Immobili inagibili per il sisma dell’Abruzzo
4. RECUPERO DEL PATRIMONIO EDILIZIO
4.1 Familiare convivente e documentazione - 4.2 Lavori di ristrutturazione su parti comuni ed immobile di proprietà del coniuge incapiente - 4.3 Ripartizione delle spese in assenza di condominio - 4.4 Spese sostenute mediante finanziamento - 4.5 Bonifico con causale errata - 4.6 Acquisto box pertinenziale
5. ACQUISTO MOBILI ED ELETTRODOMESTICI
5.1 Interventi che consentono la fruizione del bonus - 5.2 Bonus mobili e acquisto box pertinenziale - 5.3 Bonus mobili e pagamento mediante bonifico - 5.4 Pagamento mediante bancomat e carta di credito - 5.5 Acquisto mobili all’estero - 5.6 Data di acquisto mobili e grandi elettrodomestici - 5.7 Importo complessivo ammissibile alla detrazione
6. RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA
6.1 Interventi eseguiti da ditte individuali o società su immobili strumentali presso i quali è svolta l'attività
7. ALTRE QUESTIONI
7.1 Compatibilità tra deduzione per abitazione principale e detrazione “inquilini” - 7.2 Detraibilità spese per diverse forme di asili nido - 7.3 Detrazioni e deduzioni per erogazioni liberali a ONLUS - 7.5 Agevolazioni per disabili – Furto del veicolo - 7.6 Agevolazioni per i disabili – Acquisto di veicoli

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Realizzazione di edifici industriali: individuate le informazioni da inviare all’organo di vigilanza (ANCE Bergamo, circolare 23.05.2014 n. 108).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Controllo tecnico in corso d’opera (ANCE Bergamo, circolare 23.05.2014 n. 107).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità di cui al decreto del Presidente della Repubblica 09.07.2010, n. 139 (art. 4 "Semplificazioni procedurali") - Natura obbligatoria e non vincolante del parere del Soprintendente (MIBAC Veneto, circolare 22.05.2014 n. 31/2014).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Articolo 2, comma 3, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito con modificazioni nella legge 30.10.2013, n. 125 – Disposizioni applicative in materia di pensionamenti per posizioni soprannumerarie o eccedentarie (INPS, Direzione Centrale Previdenza Gestione ex Inpdap, messaggio 21.05.2014 n. 4834 - link a www.inps.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Nuovo codice deontologico ingegneri (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 14.05.2014 n. 375).

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: Competenze dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali in materia di Pianificazione e studi propedeutici - Note di indirizzo (Consiglio dell'Ordine Nazionale dei Dottori Agronomi ed ei Dottori Forestali, circolare 01.12.2010 n. 31/2010).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

CONDOMINIO: D. de Paolis, Assemblee condominiali. Tabella completa ed aggiornata delle maggioranze per deliberare (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 5/2014).

ENTI LOCALI: M. Gerardo, Corollari della società in house: esclusione dal fallimento ed applicazione della normativa organizzatoria relativa al socio pubblico. In specie, ove l’ente ausiliato sia una P.A., patrocinio dell’Avvocatura dello Stato - TRIBUNALE DI NAPOLI, VII SEZ. CIV., DECRETO 09.01.2014, N.R.R.FALL. 1097/13 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2014).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. Esclusione dal fallimento delle società in house. - 3. Ulteriori corollari della qualificazione della società in house, quale mero patrimonio separato dell'ente pubblico e non distinto soggetto giuridico. - 4. (segue) In specie: rappresentanza e difesa in giudizio delle società in house aventi quale azionista un Amministrazione Statale.

APPALTI: M. Romeo, Indirizzi giurisprudenziali in tema di revoca della gara d’appalto e responsabilità precontrattuale della P.A. - CONSIGLIO DI STATO, SEZIONE V, SENTENZA 15.07.2013 N. 3831 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2014).
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SOMMARIO: 1. La revoca della gara d’appalto. - 2. Legittimità della revoca e responsabilità dell’amministrazione. - 3. Elementi distintivi della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione. - 4. Considerazioni conclusive.

APPALTI: G. Guccione, Azione generale di arricchimento nei confronti della P.A. e problematiche sulla determinazione del quantum indennizzabile - CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, SENTENZA 07.06.2013 N. 3133 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2014).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Inquadramento generale dell'istituto - 3. L’accertamento della misura dell’arricchimento dovuto

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Contaldo e M. Gorga, Le notifiche nel processo civile telematico alla luce dei più recenti decreti ministeriali (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2014).
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SOMMARIO: 1. Le notifiche nel processo civile telematico: le prime previsioni normative. - 2. Il regime delle comunicazioni e delle notifiche telematiche nel processo civile. - 3. Le notifiche a mezzo posta elettronica ex art. 149-bis c.p.c. - 3.1 Le notifiche tramite PEC alla luce del Decreto ministeriale 03.04.2013 n. 48. - 3.2 Gli indirizzi PEC utilizzabili per le notifiche. - 4. Le pronunce di merito e di legittimità in tema di notifiche telematiche nel processo civile.

CONSIGLIERI COMUNALI: A. Cordasco e R. Gai , L’ACCESSO AGLI ATTI DEI CONSIGLIERI COMUNALI: L’ART. 43 DEL D.LGS. 18.08.2000, N. 267 (TESTO UNICO DEGLI ENTI LOCALI) E LA TUTELA DELLA RISERVATEZZA (Gazzetta Amministrativa n. 3/2013).
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E’ illegittimo il diniego espresso da un Comune in ordine ad una istanza ostensiva avanzata da alcuni Consiglieri comunali avente ad oggetto la richiesta di copia di alcune deliberazioni della Giunta municipale, che sia motivato con riferimento alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti in tali deliberazioni e il diritto alla privacy dei terzi.
Infatti, in sede di accesso di cui dispongono i Consiglieri comunali e provinciali, tale esigenza è salvaguardata dall’art. 43, co. 2, del d.lgs. 18.8.2000 n. 267, laddove viene previsto che i Consiglieri stessi sono tenuti al segreto in caso accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi; il diritto del Consigliere comunale o provinciale ad avere dall’Ente tutte le informazioni che siano utili all’espletamento del mandato non incontra, conseguentemente, alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto il Consigliere è vincolato all’osservanza del segreto (Cds, V, 11.12.2013, n. 5931).

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Sommario: 1. L’accesso agli atti del Consigliere comunale quale diritto speciale e differenziato. - 2. Le modalità ed i limiti all’esercizio dell’accesso, con particolare riferimento alla tutela della riservatezza.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Rossi, LA MEDIAZIONE CIVILE DOPO IL DECRETO “DEL FARE” NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (Gazzetta Amministrativa n. 3/2013).
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Con il decreto “del fare” (d.l. n. 69/2013 convertito in l. n. 98/2013) l’obbligatorietà della mediazione civile e commerciale torna a essere condizione di procedibilità in relazione a numerose controversie. Riflessioni sulla mediazione nella Pubblica Amministrazione.
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Sommario: 1. Il d.lgs. del 04.03.2010 n. 28 come modificato dalla l. n. 98/2013 di conversione del d.l. n. 69/2013. - 2. La mediazione nella Pubblica Amministrazione. Il testo della circolare n. 9/2012. - 3. Riflessioni sulla mediazione nella Pubblica Amministrazione dopo il Decreto “del Fare”.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. C. Agnello, LA RESPONSABILITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE DA PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO (Gazzetta Amministrativa n. 3/2013).
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La natura della responsabilità, il requisito soggettivo: rimproverabilità dell’amministrazione, la gravità del vizio, la quantificazione del risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale e la perdita di chance.
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Sommario: 1. Aspetti generali. - 2. Le questioni di diritto: la natura della responsabilità della pubblica amministrazione verso un tertium genus. - 3. La rimproverabilità dell’amministrazione e l'individuazione dell'errore scusabile. - 4. I profili risarcitori e probatori.

EDILIZIA PRIVATA: M. Asprone e A. Magliulo, LE AZIONI ESPERIBILI DAI TERZI CONTROINTERESSATI IN MATERIA DI SCIA ALLA LUCE DEGLI ULTIMI APPRODI NORMATIVI E GIURISPRUDENZIALI (Gazzetta Amministrativa n. 3/2013).
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Segnalazione certificata di inizio attività, SCIA. Il delicato aspetto controverso, connesso alla questione relativa alla natura giuridica e i termini entro cui proporre tale azione.
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Sommario: 1. Il dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, sulla sanatoria giurisprudenziale. - 2. Considerazioni conclusive.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: M. Dell'Unto, LINEE GUIDA SU PROGRAMMAZIONE, PROGETTAZIONE ED ESECUZIONE DEL CONTRATTO NEI SERVIZI E NELLE FORNITURE (Gazzetta Amministrativa n. 3/2013).
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Determinazione n. 5 del 6.11.2013 dell’Autorità per la vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture: Indicazioni sulla programmazione, progettazione ed esecuzione dei contratti pubblici.
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Sommario: Sommario: 1. Premessa. - 2. Programmazione. - 2.1. Contenuto della programmazione. - 2.2. Iter procedurale. - 3. Progettazione. - 3.1. Contenuto della progettazione. - 3.2. Soggetti incaricati. - 3.3. Garanzie e verifiche. - 4. Esecuzione del contratto. - 4.1. Responsabile del procedimento e Direttore dell’esecuzione. - 4.2. Compiti del Direttore dell’esecuzione. - 4.3. La corretta esecuzione della prestazione e le penali. - 4.4 Immodificabilità del contratto. Le varianti. - 5. Modifiche soggettive del raggruppamento in corso di esecuzione.

LAVORI PUBBLICI: S. Napolitano, QUALE GIURISDIZIONE PER LE CONTROVERSIE INERENTI LE CONCESSIONI DI COSTRUZIONE DI OPERE PUBBLICHE? (Gazzetta Amministrativa n. 3/2013).
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Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e devoluzione al giudice ordinario. Sulla compromettibilità in arbitri delle controversie in materia di concessioni di costruzione e gestione di opere pubbliche.
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Sommario: 1. Introduzione. - 2. Considerazione conclusive.

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

EDILIZIA PRIVATAIn gara nonostante il concordato. Avcp: in assenza del decreto di ammissione.
Le imprese di costruzioni che hanno fatto domanda di concordato preventivo con continuità aziendale, ma ancora non hanno ricevuto il decreto di ammissione, possono partecipare alle gare, autorizzate dal tribunale, eseguire i contratti e conseguire attestati Soa.

È quanto precisa l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la determinazione 23.04.2014 n. 3 che segue il comunicato n. 68 del 29.11.2011.
In particolare l'Autorità precisa che al di fuori dei confini indicati dal citato articolo 186-bis, le imprese sottoposte a concordato preventivo «ordinario» rientrano nell'operatività della causa ostativa prevista dall'art. 38, comma 1, lett. a), del Codice, con conseguente incapacità di conseguire l'attestazione in forza del rinvio contenuto nell'art. 78 del dpr n. 207/2010 ai requisiti di carattere generale previsti per la partecipazione alle gare.
Invece per le imprese già qualificate, sottoposte a concordato preventivo «ordinario», l'Autorità chiarisce che sono soggette ai procedimenti di decadenza dell'attestazione per sopravvenuta perdita del requisito di ammissione alla gara di ordine generale. Inoltre la causa ostativa in caso di concordato preventivo «ordinario» si precisa che decorre dalla domanda di ammissione al concordato, e cessa con il decreto di omologazione del concordato preventivo ai sensi dell'articolo 180 della legge fallimentare.
La determina afferma inoltre che la presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo con le caratteristiche proprie del concordato «con continuità aziendale», non comporta la decadenza dell'attestazione di qualificazione, perché impedisce la risoluzione dei contratti in corso e consente, previa autorizzazione del Tribunale, la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici. Inoltre la domanda di ammissione non impedisce la verifica triennale o il rinnovo (per le imprese attestate) o il conseguimento dell'attestazione di qualificazione (per le imprese non attestate).
Occorre però che la Soa proceda a monitorare lo svolgimento della procedura concorsuale in atto e a verificare il mantenimento del requisito con l'intervenuta ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale. Dopo l'emissione del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo con continuità aziendale, le imprese, dice la determina, possono dimostrare il possesso del requisito di ordine generale precisando chele prescrizioni di cui all'art. 186-bis, comma 5 l.f. sono espressamente riferite alla sola fase di gara (articolo ItaliaOggi del 20.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).
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Criteri interpretativi in ordine alle disposizioni contenute nell’art. 38, comma 1, lett. a), del D. Lgs. n. 163/2006 afferenti alle procedure di concordato preventivo a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 186-bis della legge fallimentare (concordato con continuità aziendale).
L’art. 186-bis della legge fallimentare, che disciplina il concordato preventivo con continuità aziendale, prevede, tra l’altro, al ricorrere di determinate condizioni, la prosecuzione dei contratti stipulati con pubbliche amministrazioni. L’introduzione di tale fattispecie ha comportato la modifica dell’articolo 38, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 163/2006, confermando tra le cause di esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento l’assoggettamento dell’impresa ad una procedura di concordato preventivo, ma facendo salvo il caso del concordato preventivo con continuità aziendale.
Al di fuori dei confini indicati dall’articolo 186-bis, della legge fallimentare, le imprese sottoposte a concordato preventivo “ordinario” rientrano nell’operatività della causa ostativa prevista dall’art. 38, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 163/2006, e non possono partecipare alle gare né conseguire l’attestazione di qualificazione e, ove già qualificate, sono soggette ai procedimenti ex art. 40, comma 9-ter del D.Lgs. n. 163/2006, di decadenza dell’attestazione per sopravvenuta perdita del requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del medesimo D.Lgs. La causa ostativa decorre dalla domanda di ammissione al concordato preventivo “ordinario”, e cessa con il decreto di omologazione del concordato preventivo ai sensi dell’articolo 180 della legge fallimentare.
Il cd. “concordato in bianco”, riconosce al debitore la facoltà di depositare, presso la cancelleria del Tribunale competente, un ricorso per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo, riservandosi di produrre successivamente, nel termine fissato con decreto dal giudice, la proposta e il piano concordatario e i documenti previsti dall'articolo 161, della legge fallimentare.
Detta fattispecie non risulta idonea a permettere la prosecuzione dell’attività e costituisce causa ostativa per la qualificazione nonché presupposto per la soggezione dell’impresa al procedimento ex art. 40, comma 9-ter del D.Lgs. n. 163/2006, per perdita del corrispondente requisito. La presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, consente, previa autorizzazione del Tribunale, la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici e non comporta la decadenza dell’attestazione di qualificazione.
In tale ipotesi, la domanda di ammissione non costituisce elemento ostativo ai fini della verifica triennale o del rinnovo (per le imprese attestate) o del conseguimento dell’attestazione di qualificazione (per le imprese non attestate), fermo restando l’obbligo della SOA di monitorare lo svolgimento della procedura concorsuale in atto e di verificare il mantenimento del requisito con l’intervenuta ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale. Successivamente al decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo con continuità aziendale, le imprese possono dimostrare il possesso del requisito di cui all’art. 38, c. 1, lett. a), in sede di rilascio dell’attestazione di qualificazione, con la precisazione che le prescrizioni di cui all’art. 186-bis, comma 5, della L.F. sono espressamente riferite alla sola fase di gara.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigliere e socio liquidatore.
Quesito
Sussiste la causa di incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, n. 6), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nei confronti di un consigliere comunale che svolge l'incarico di socio liquidatore di una società a responsabilità limitata, debitrice dell'ente per mancato pagamento di oneri di urbanizzazione primaria?
Risposta
Come precisato dalla giurisprudenza, le cause d'incompatibilità di cui alla norma citata, ascrivibili al novero delle c.d. incompatibilità d'interessi, hanno la finalità di impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di interessi configgenti con quelli del comune o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità (cfr. Corte costituzionale, sentenza 20.02.1997, n. 44; Id, sentenza 24.06.2003, n. 220).
Nel caso di specie potrebbe sorgere il dubbio che possa configurarsi una situazione di conflitto d'interessi riconducibile alla prima delle due ipotesi contemplate nel menzionato art. 63, comma 1, n. 6), i cui presupposti sono l'esistenza di un debito liquido ed esigibile nei confronti dell'ente da parte di colui che intende candidarsi o è stato eletto consigliere comunale e la formale messa in mora di quest'ultimo.
In merito, la normativa vigente in materia di società a responsabilità limitata, con specifico riferimento ai profili della responsabilità per debiti e della fase di liquidazione, dispone quanto segue. In relazione al primo profilo, rileva quanto previsto dall'art. 2462 del codice civile, ai sensi del quale «nella società a responsabilità limitata per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio. In caso di insolvenza della società, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui l'intera partecipazione è appartenuta a una sola persona, questa risponde illimitatamente quando i conferimenti non siano stati effettuati secondo quanto previsto dall'art. 2464, o fin quando non sia stata attuata la pubblicità prescritta dall'art. 2470».
Tale tipo di società si configura, quindi, come un soggetto a sé stante, dotato di autonomia patrimoniale perfetta e con i soci che rispondono delle obbligazioni sociali limitatamente alla propria quota. Durante la fase della liquidazione, la normale attività societaria entra in uno stato di sospensione e si provvede precipuamente a commutare in denaro gli elementi patrimoniali esistenti, ad estinguere le passività e a ripartire l'eventuale attivo residuo tra i soci.
Il dominus di tale fase è appunto il liquidatore, il quale è tenuto a porre in essere le operazioni puntualmente indicate dalla disciplina di settore, nel rispetto dei criteri stabiliti dai soci nella delibera di nomina o, in difetto, dal Tribunale. In particolare, il liquidatore deve adempiere ai propri doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell'incarico ed è responsabile per i danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri secondo le norme dettate in tema di responsabilità degli amministratori (cfr. artt. 2487 seguenti del codice civile).
Il delineato regime patrimoniale e liquidatorio applicabile alle società a responsabilità limitata induce a ritenere che, nell'ipotesi in esame, non sussista la causa d'incompatibilità di che trattasi, in quanto debitrice dell'ente è una persona giuridica autonoma e distinta dal socio liquidatore, che riveste la carica di consigliere comunale (cfr., per un'ipotesi analoga, Corte di cassazione, sezione I, sentenza 29.05.1972, n. 1685, che ha escluso l'esistenza d'incompatibilità nei confronti dei soci e amministratori di una cassa rurale avente natura di società operativa a responsabilità limitata ne caso di lite pendente tra il comune e la società medesima) (articolo ItaliaOggi del 23.05.2014).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Incentivi per la progettazione e la realizzazione di lavori pubblici.
Secondo il prevalente orientamento delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, gli incentivi per la progettazione e la realizzazione di lavori pubblici non potrebbero essere riconosciuti per le attività assimilabili ai lavori svolti in economia (quali la sostituzione di infissi e i lavori di tinteggiatura presso gli edifici comunali), mentre parrebbero incentivabili tutti i lavori di manutenzione che richiedono la predisposizione di elaborati progettuali, redatti ai sensi della normativa vigente.
Il Comune, alla luce dei pareri resi dalla Corte dei conti ed, in particolare, dalle Sezioni regionali di controllo per la Toscana (deliberazione n. 293/2012) e per la Lombardia (deliberazione n. 442/2013), in materia di incentivi per la progettazione e la realizzazione di lavori pubblici, richiede chiarimenti in ordine alla corretta applicazione delle previsioni contenute nell'art. 11, comma 1, della legge regionale 31.05.2002, n. 14 e della propria disciplina regolamentare in materia
[1].
Nello specifico, l'Ente intende conoscere se il predetto incentivo possa essere riconosciuto con riferimento alle seguenti fattispecie:
a) per le attività assimilabili ai lavori svolti in economia, quali la sostituzione di infissi e i lavori di tinteggiatura presso gli edifici comunali;
b) per le opere di straordinaria manutenzione che non richiedono la redazione del progetto esecutivo;
c) per le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade e dei marciapiedi, che richiedono l'approvazione del progetto.
Sentito il Servizio lavori pubblici della Direzione centrale infrastrutture, mobilità, pianificazione territoriale, lavori pubblici, università, si esprimono le seguenti considerazioni.
Occorre, anzitutto, chiarire che esula dai compiti istituzionali di questo Ufficio valutare la legittimità delle norme di cui l'Ente si è dotato e/o fornirne un'interpretazione, che rimane, ovviamente, di esclusiva competenza dell'amministrazione che le ha elaborate.
Pertanto, le problematiche esposte nel quesito verranno affrontate esaminando le indicazioni interpretative reperite al riguardo, ancorché esse facciano riferimento alla disciplina nazionale, recata dall'art. 92, comma 5
[2], del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, che risulta -per i profili che qui rilevano- non dissimile da quanto previsto dall'art. 11, comma 1 [3], della L.R. 14/2002, che disciplina l'istituto degli incentivi per la progettazione e la realizzazione di lavori pubblici in questo territorio regionale.
I pareri della Corte dei conti citati dal Comune si inseriscono in un filone interpretativo, ormai consolidato, che prende le mosse dalla considerazione che l'art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (come l'art. 11, comma 1, della L.R. 14/2002) deroga ai generali princìpi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un'eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di applicazione analogica.
Ciò posto, la Corte dei conti osserva che l'art. 90 del D.Lgs. 163/2006, sia alla rubrica che al comma 1
[4], «fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici» e l'art. 92, comma 1 [5], «presuppone l'attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell'opera pubblica progettata» [6].
Di conseguenza, secondo la Sezione regionale di controllo per la Toscana, dovrebbero ritenersi esclusi dal novero delle attività incentivabili:
- gli interventi, quali la sostituzione di infissi, che non appaiono riconducibili alla materia dei lavori pubblici, ai fini dell'applicazione dell'istituto incentivo, ma assimilabili a lavori svolti in economia
[7];
- i lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria di immobili comunali e di sistemazione della segnaletica stradale
[8].
La Sezione regionale per la Liguria sostiene, invece, che il riconoscimento dell'incentivo per la progettazione «presuppone necessariamente la presenza di lavori ed opere di manutenzione straordinaria e non di semplice manutenzione ordinaria, né di lavori in economia»
[9], ammettendo pertanto l'incentivo anche per la manutenzione straordinaria.
Si è altresì affermato che il beneficio in argomento non potrebbe essere riconosciuto per «qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell'ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un'opera pubblica, alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione»
[10]. [11]
Da quanto fin qui rilevato, si evince che l'orientamento della Corte dei conti non risulta univoco.
Appare, pertanto, necessario svolgere alcune considerazioni e segnalare ulteriori interventi interpretativi, che possano essere d'ausilio per valutare se, nelle fattispecie indicate nel quesito, l'incentivo per la progettazione possa essere attribuito.
L'affermazione della Corte, secondo la quale l'incentivo di cui trattasi riguarderebbe solo l'attività di progettazione «finalizzata alla costruzione dell'opera pubblica progettata», non appare considerare che la norma di riferimento (l'art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 e l'art. 11, comma 1, della L.R. 14/2002) prevede, invece, che l'entità della somma incentiva da accantonare, per il successivo riparto tra il personale, è stabilita in relazione all'importo posto a base di gara di un'opera 'o di un lavoro'.
Va, inoltre, evidenziato che, con riferimento alla previsione recata dall'art. 2
[12], comma 1, primo periodo [13], della legge 11.02.1994, n. 109 -ora contenuta nell'art. 3 [14], comma 8 [15], del D.Lgs. n. 163/2006- il Consiglio di Stato ha rilevato che «Se il legislatore, con la l. 109/1994, ha eletto ad oggetto del proprio intervento la più ampia categoria dei 'lavori pubblici', in luogo di quella dell' 'opera pubblica', è proprio perché non viene presa tanto in considerazione l'opera realizzata, bensì viene riqualificato il lavoro che sull'opera è compiuto, cosicché, in definitiva, vengono ad essere ricompresi nell'ottica legislativa non solo i lavori che hanno dato luogo, mediante un'opera di costruzione, ad un'opera o ad un impianto, ma anche i lavori che si limitano ad avere l'opera o l'impianto come oggetto dell'attività[16].
Occorre, poi, segnalare che l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp), con deliberazione n. 76 del 19.10.2006, ha osservato che, ai sensi del predetto art. 3, comma 8, del D.Lgs. n. 163/2006, «il termine 'lavori' comprende le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione di opere, laddove per 'opera' si intende il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica», mentre la 'manutenzione', come definita dall'art. 3, comma 1, lett. n), del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207
[17], «consiste nella combinazione di tutte le azioni tecniche, specialistiche ed amministrative, incluse le azioni di supervisione, volte a mantenere o a riportare un'opera o un impianto nella condizione di svolgere la funzione prevista dal provvedimento di approvazione del progetto».
Ciò posto -e con riferimento al secondo quesito formulato dall'Ente
[18]- si ricorda che l'art. 105 («Lavori di manutenzione»), comma 1, del D.P.R. 207/2010, dispone che l'esecuzione dei lavori «può prescindere dall'avvenuta redazione ed approvazione del progetto esecutivo qualora si tratti di lavori di manutenzione, ad esclusione degli interventi di manutenzione che prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle opere» [19].
Facendo riferimento all'analoga disciplina previgente
[20], l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ha osservato che «Ciò significa che i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, programmabili o di pronto intervento, possono essere eseguiti sulla base del progetto definitivo» [21], rilevando che la norma conferma la «derogabilità della disposizione relativa ai tre livelli progettuali (preliminare, definitivo ed esecutivo) ogni qual volta la differenza di definizione tecnica fra il progetto definitivo e quello esecutivo, nella sostanza, non sussiste».
Però, puntualizza la predetta Autorità, «La disposizione [...] non può essere intesa nel senso che nel caso dei lavori di manutenzione non è mai obbligatorio redigere il progetto esecutivo. Qualora, infatti, si tratta di lavori di manutenzione straordinaria di un'opera, nella quale va compresa anche la ristrutturazione, il recupero o la trasformazione dell'opera, non si può prescindere dall'obbligo di redigere il progetto esecutivo in quanto sussiste certamente una differenza di livello di definizione tecnica fra il progetto definitivo e quello esecutivo».
Per quanto fin qui rappresentato, sembrano incentivabili tutti i lavori di manutenzione che richiedono la predisposizione di elaborati progettuali, redatti ai sensi della normativa vigente
[22].
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[1] Segnalando, in particolare, gli artt. 2, 7 e 8.
[2] «5. Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.».
[3] «1. Una somma non superiore all'1 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 8, comma 6, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile unico del procedimento, gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra quanti, tecnici e amministrativi, hanno collaborato alla realizzazione dell'opera. La percentuale effettiva, nel limite massimo dell'1 per cento, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, da ripartirsi esclusivamente tra i dipendenti, e le relative modalità di erogazione sono stabilite dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. Il regolamento dell'amministrazione può stabilire un ulteriore incentivo nella misura massima dell'1 per cento, qualora le attività di responsabile unico del procedimento, le prestazioni relative alla progettazione, al coordinamento della sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione, nonché alla direzione dei lavori siano tutte espletate dagli uffici di cui all'articolo 9, comma 1, lettere a), b) e c). Limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo.».
[4] In ambito regionale, v. l'art. 9, comma 1, della L.R. 14/2002.
[5] V. l'analoga disposizione contenuta nell'art. 9, comma 12, della L.R. 14/2002.
[6] Sez. reg. di controllo per la Toscana, pareri 18.10.2011, n. 213, 13.11.2012, n. 293, 12.12.2012, n. 459 e 19.03.2013, n. 15, cui fanno riferimento, condividendo l'assunto, la Sez. reg. di controllo per la Lombardia, con pareri 72/2013, cit. e 442/2013, cit., la Sez. reg. di controllo per la Liguria, con parere 10.05.2013, n. 24 e la Sez. reg. di controllo per il Piemonte, con parere 16.01.2014, n. 8.
[7] Parere 293/2012, cit..
[8] Parere 459/2012, cit..
[9] Parere 24/2013, cit., nel quale si specifica che, per lavori ed opere di manutenzione straordinaria, spetta al regolamento dell'amministrazione procedente stabilire se la corresponsione del beneficio debba essere, o meno, necessariamente condizionata alla sussistenza di tutti i vari gradi di progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva).
[10] Corte dei conti -Sez. reg. di controllo per la Lombardia, pareri 72/2013, cit. (concernente opere di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli immobili - di carattere edile e relative agli impianti - e sulle strade comunali) e 442/2013, cit. (concernente interventi di manutenzione ordinaria delle strade pubbliche e loro pertinenze, della segnaletica, ecc.); Sez. reg. di controllo per il Piemonte, parere 8/2014, cit. (concernente i lavori di manutenzione, eccettuati gli interventi che prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle opere).
[11] Si ricorda che la medesima conclusione era già stata delineata dall'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici con determinazione n. 43 del 25.09.2000 che, con riferimento alla questione della «sussistenza del diritto ai compensi in caso di lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria che non comportino la predisposizione di elaborati progettuali, quali per esempio i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria fatti eseguire su semplice richiesta di preventivo e con determina di assegnazione e impegno di spesa adottata dal responsabile del servizio», ha chiarito che «l'assenza di qualsiasi elaborato progettuale contrasterebbe con il principio che collega necessariamente il diritto agli incentivi all'espletamento di un'attività di progettazione».
[12] «Àmbito oggettivo e soggettivo di applicazione della legge».
[13] «1. Ai sensi e per gli effetti della presente legge e del regolamento di cui all'articolo 3, comma 2, si intendono per lavori pubblici, se affidati dai soggetti di cui al comma 2 del presente articolo, le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione di opere ed impianti, anche di presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica. [...]».
[14] «Definizioni».
[15] «8. I 'lavori' di cui all'allegato I comprendono le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione, di opere. Per 'opera' si intende il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. Le opere comprendono sia quelle che sono il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile, sia quelle di presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica.».
[16] Sez. V, sentenza 04.05.2001, n. 2518.
[17] Corrispondente a quella fornita, in precedenza, dall'art. 2, comma 2, lett. l), del decreto del Presidente della Repubblica 21.12.1999, n. 554.
[18] Volto a stabilire se risultino incentivabili le opere di straordinaria manutenzione che non richiedono la redazione del progetto 'esecutivo'.
[19] Ferma restando la necessità di predisporre il piano di sicurezza e di coordinamento, con l'individuazione analitica dei costi della sicurezza, non soggetti a ribasso.
[20] L'art. 19, comma 5-bis, della L. 109/1994.
[21] Determinazione n. 13/2004, cit..
[22] Corre peraltro l'obbligo di segnalare alcuni pareri della Corte dei conti (Sez. regionale di controllo per la Toscana, n. 15/2013, cit. e Sez. regionale di controllo per la Lombardia, n. 442/2013, cit.) che sembrano «escludere dal novero delle attività retribuibili con l'incentivo in questione i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte corrente del bilancio»
(14.05.2014 - link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIOPermuta di un’area di proprietà statale con area di proprietà comunale (parere 04.03.2014 n. 98221 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2014).

PUBBLICO IMPIEGORimborso spese legali ex art. 18 d.l. 67/1997 in relazione a procedimento penale (parere 22.02.2014 n. 83052 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2014).

PUBBLICO IMPIEGOProcedimento disciplinare: termini e segreto istruttorio in pendenza di procedimento penale per medesimi fatti illeciti (parere 14.02.2014 n. 68988 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2014).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEL’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, dunque, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.
Al contrario, l’incentivo si ritiene erogabile qualora nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda necessario redigere, da parte del personale dipendente dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione delle varianti determinate da errori di progettazione, con la specificazione che l’incentivo stesso deve essere correlato all’importo della perizia di variante.
Inoltre, “
l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse”.
Si consideri, inoltre, che
l’attività di progettazione, rilevante ai fini del comma 5 dell’articolo 92, “si articola, nel rispetto dei vincoli esistenti, preventivamente accertati, laddove possibile fin dal documento preliminare, e dei limiti di spesa prestabiliti, secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva, in modo da assicurare:
a) la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità relative;
b) la conformità alle norme ambientali e urbanistiche;
c) il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario”.
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Con riferimento, infine, all’articolo 92, comma 6, del decreto 163/2006, è sufficiente ricordare la recente deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione delle Autonomie, a mente della quale risulta “di palmare evidenza il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici”, ritenendo di conseguenza “l’ambito applicativo della stessa, apparentemente ampio ed indefinito, in realtà, limitato esclusivamente all’attività progettuale e tecnico amministrativa direttamente collegata alla realizzazione di opere e lavori pubblici”.
La Sezione, pertanto, conclude affermando che “
ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo”.
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Il sindaco del comune di Poirino, con nota n. 4278 del 18.03.2014, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in ordine alla corretta interpretazione dell’articolo 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo n. 163/2006.
In particolare, il Sindaco del comune di Poirino formulava i seguenti quesiti:
- se sia riconoscibile l’incentivo previsto dalla citata normativa per il caso di “esecuzione di lavori pubblici da effettuarsi per il mero mantenimento e funzionamento del patrimonio e demanio comunale e non si sia in presenza di un’opera pubblica (ad esempio, la gestione del verde pubblico);
- se l’incentivo nei casi sopra indicati (esecuzione lavori pubblici manutentivi) sia o meno riconoscibile anche alla figura del R.U.P., “indipendentemente dalla natura dell’intervento manutentivo, ordinaria e/o straordinaria, e indipendentemente dalla presenza o meno di una effettiva fase di progettazione;
- se per “progettazione” sia da intendersi esclusivamente la realizzazione del progetto tecnico (preliminare, definitivo, esecutivo) oppure se siano assimilabili alla “progettazione” anche quegli atti che comunemente vengono definiti “elaborati progettuali”, quali la stima sommaria delle opere, l’elenco dei prezzi, il capitolato speciale d’appalto, la bozza del contratto, il piano di sicurezza, collaudi e certificati di regolare esecuzione.
...
La questione posta dal comune di Poirino è già stata affrontata dalla giurisprudenza contabile in modo esauriente in numerosi precedenti:
l’orientamento consolidato, pertanto, è nel senso di ritenere indefettibile il collegamento degli incentivi in esame ad un’attività progettuale riferita alla realizzazione di un’opera pubblica e non allo svolgimento di semplici lavori di manutenzione.
La norma riportata è stata oggetto di numerose pronunce della Corte (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57, parere 30.05.2012 n. 259, parere 06.03.2013 n. 72; inoltre, parere 30.08.2012 n. 290 di questa Sezione), segnalandosi da ultimo, di questa stessa Sezione,
parere 16.01.2014 n. 8 e parere 17.03.2014 n. 44.
La giurisprudenza citata, dopo aver ricordato la preferenza per l’attività di progettazione svolta all’interno dell’amministrazione ed il principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente, ha rilevato come l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroghi ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisca un’eccezione di stretta interpretazione per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008, Sezione Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119, Sezione Marche, parere 04.10.2013 n. 67).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone alcuni limiti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione Lombardia) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi);
- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori).
Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, deliberazione 13.12.2007 n. 315
, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alla deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150 dell’Autorità di vigilanza).
Pertanto,
l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, dunque, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.
Al contrario, l’incentivo si ritiene erogabile qualora nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda necessario redigere, da parte del personale dipendente dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione delle varianti determinate da errori di progettazione, con la specificazione che l’incentivo stesso deve essere correlato all’importo della perizia di variante.
Inoltre, come è stato messo in luce dal parere 13.11.2012 n. 293 della Sezione regionale di Controllo per la Toscana, “
l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse”.
Si consideri, inoltre, che come previsto dall’articolo 93, cod. contr.,
l’attività di progettazione, rilevante ai fini del comma 5 dell’articolo 92, “si articola, nel rispetto dei vincoli esistenti, preventivamente accertati, laddove possibile fin dal documento preliminare, e dei limiti di spesa prestabiliti, secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva, in modo da assicurare:
a) la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità relative;
b) la conformità alle norme ambientali e urbanistiche;
c) il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario
”.

Con riferimento, infine, all’articolo 92, comma 6, del decreto 163/2006, è sufficiente ricordare la recente
deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione delle Autonomie, a mente della quale risulta “di palmare evidenza il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici”, ritenendo di conseguenza “l’ambito applicativo della stessa, apparentemente ampio ed indefinito, in realtà, limitato esclusivamente all’attività progettuale e tecnico amministrativa direttamente collegata alla realizzazione di opere e lavori pubblici.
La Sezione, pertanto, conclude affermando che “
ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo”.
D’altra parte, le conclusioni esposte risultano coerenti con quanto esposto nella delibera 13.11.2009 n. 16/2009 in ordine alle modalità di copertura degli oneri derivanti dall’attribuzione degli incentivi alla progettazione: essi, infatti, sono qualificati spese di investimento e finanziabili, alla luce di quanto disposto dall’art. 93, comma 7, del Codice dei contratti, nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa e nei bilanci delle stazioni appaltanti (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 21.05.2014 n. 97).

INCENTIVO PROGETTAZIONEGli incentivi possono essere corrisposti solo per remunerare la redazione di un atto di pianificazione che, oltre ad essere affidato in via esclusiva ai dipendenti dell’ente, risulti strettamente connesso alla progettazione di un’opera pubblica.
Spetta naturalmente all’ente istante stabilire se, nel caso concreto, l’atto di pianificazione soddisfi il predetto requisito.
Quantunque la redazione del Piano di Governo del Territorio possa comportare attività ulteriori rispetto a quelle ordinariamente richieste dalla predisposizione di un generico atto di pianificazione, solo nel caso in cui tali attività si estrinsechino nella progettazione di un’opera pubblica potrà farsi applicazione dell’art. 92, comma 6, del codice dei contratti, riconoscendo l’incentivo previsto al personale interno.

Con la nota sopra citata, a firma del Sindaco del comune di Cantù (CO), si richiede un parere sull’applicazione dell’art. 92, comma 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, riguardante il riconoscimento di incentivi ai dipendenti dell’ente per la redazione di atti di pianificazione.
Si chiede, in particolare, se sussistano i presupposti di legge per l’applicazione dell’istituto previsto dalla disposizione sopra richiamata al personale interno che abbia direttamente redatto il Piano di Governo del Territorio.
Nella medesima nota si è ritenuto di evidenziare e puntualizzare la specifica situazione riguardante la redazione del PGT condotta dall’ente, ravvisandovi una sostanziale differenza rispetto ad altri casi concernenti la medesima questione già trattati in precedenti pareri resi dalla Sezione.
A tal fine si rappresenta quanto di seguito riportato.
La redazione degli atti di pianificazione costituenti il PGT, unitamente alla VAS, è stata svolta direttamente ed esclusivamente da personale interno dell'Amministrazione, in forza dello specifico incarico conferito dalla Giunta Comunale.
Sul piano sostanziale, il PGT, così come redatto e sviluppato, oltre a definire e disciplinare l'assetto urbanistico ed edilizio dell'intero territorio comunale mediante la puntuale elaborazione degli atti che lo costituiscono, per come previsti dalla legge, è stato redatto anche allo scopo di sviluppare in particolare la dotazione di aree per la localizzazione di opere ed attrezzature pubbliche e d'interesse generale, al fine di sviluppare e riqualificare la "città pubblica" e quindi i servizi d'interesse generale. A tale scopo il progetto urbanistico non si è limitato a pianificare il territorio mediante la sola classificazione urbanistica ma, altresì, è stato sviluppato ed approfondito, individuando e localizzando puntualmente ed analiticamente le opere d'interesse pubblico e generale, finalizzate a riqualificare e sviluppare la dotazione delle attrezzature pubbliche, e pertanto il relativo contenuto specifico è totalmente rivolto allo sviluppo della città pubblica, come già sopra detto.
Oltre alla puntuale localizzazione delle opere ed attrezzature pubbliche, l'atto di pianificazione:
- ha altresì individuato con precisione la destinazione specifica per ogni area interessata dalla realizzazione delle opere d'interesse pubblico e ne ha prefigurato la modalità d'intervento; ha delineato, definito e declinato gli obiettivi fondamentali, tutti orientati alla valorizzazione e riqualificazione della città pubblica, mediante la puntuale previsione e precisa localizzazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale per la realizzazione delle opere d'interesse generale in particolare per la realizzazione del dei parchi pubblici (in attuazione della Legge n. 10 del 14/01/2013) e delle relative connessioni infrastrutturali attrezzate;
- per ogni ambito di trasformazione urbanistica è stato sviluppato un livello di approfondimento e di dettaglio, individuando puntualmente l'ubicazione dell'area per servizi ed attrezzature pubbliche e la relativa destinazione, sulla base degli obiettivi fondamentali di sviluppo della città e sulla base delle precise peculiarità individuate a seguito dell'analisi urbanistica condotta per ogni ambito;
- è stato inoltre sviluppato il piano economico-finanziario con l'analisi della sostenibilità economica e della quantificazione economica, non per mera valutazione generale, ma per ogni opera ed attrezzatura d'interesse pubblico prevista, individuata e localizzata negli atti di pianificazione costituenti il PGT, anche con riferimento alla programmazione delle opere pubbliche.
...
Il quesito proposto richiede di fornire la corretta interpretazione dell’art. 92, comma 6, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici) ove si dispone che “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Si tratta di chiarire, in particolare, la natura delle attività riconducibili alla nozione di “atto di pianificazione comunque denominato” agli effetti del riconoscimento al personale interno dell’ente dei c.d. “incentivi per la progettazione”.
Questa Sezione, nei diversi pareri forniti in materia, ha sempre ritenuto di circoscrivere tale nozione ai soli atti di pianificazione che siano strettamente connessi alla progettazione di opere pubbliche, escludendo la possibilità di corrispondere gli incentivi previsti dalla legge per la redazione di atti di pianificazione di carattere generale, privi dei predetti caratteri e rientranti, come tali, nelle ordinarie mansioni richieste al personale dipendente (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 06.03.2012 n. 57
, parere 30.05.2012 n. 259, parere 23.10.2012 n. 440, parere 06.03.2013 n. 72 e parere 10.02.2014 n. 62).
Un’interpretazione restrittiva della disposizione in esame, per la cui completa disamina si rinvia ai precedenti citati, porta a sostenere che “
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ossia a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante” (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 06.03.2013 n. 72).
Il predetto orientamento, condiviso dalla maggioranza delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti (tra le varie: Sezione regionale di controllo per la Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15; Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290) si contrappone al diverso avviso, recentemente ribadito in seno alla giurisprudenza contabile, volto, viceversa, ad ammettere il diritto all’incentivo per la sola attività di pianificazione a prescindere dall’eventuale collegamento con la progettazione di un’opera pubblica (Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 22.11.2013 n. 361 e parere 03.12.2013 n. 381).
La questione è stata recentemente sottoposta all’esame della Sezione Autonomie della Corte dei conti, chiamata a stabilire, a fronte del citato contrasto interpretativo, se il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussista solo nel caso in cui l’atto medesimo sia collegato direttamente ed in modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica, oppure se tale diritto sussista anche nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione generale ancorché non puntualmente connessi alla realizzazione di un’opera pubblica.
La Sezione Autonomie, nel risolvere la questione di massima, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha ritenuto di aderire all’orientamento maggioritario che riconosce di “palmare evidenza” il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici, reputando l’ambito applicativo della disposizione di legge, apparentemente ampio ed indefinito, limitato esclusivamente all’attività progettuale e tecnico amministrativa direttamente collegata alla realizzazione di opere e lavori pubblici.
Si riportano di seguito le argomentazioni poste a fondamento della predetta interpretazione rinviando al testo della deliberazione citata per la completa disamina della questione.
Si considera dirimente, innanzitutto, l’argomento che attiene all’interpretazione sistematica delle disposizioni in esame e che ha riguardo alla collocazione delle stesse (sedes materiae) all’interno del Capo IV “Servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria”- Sez. I “Progettazione interna ed esterna e livelli di progettazione”- del Codice dei Contratti ed al fatto che le stesse siano immediatamente precedute dall’art. 90 rubricato “progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici“.
Disposizione quest’ultima che affida la progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori agli Uffici tecnici delle stazioni appaltanti o, in alternativa, a liberi professionisti e che, al comma 6, limita la possibilità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere a professionalità esterne ai soli casi di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori, o, infine, nell’ipotesi di lavori di speciale complessità. Il successivo art. 91 disciplina le procedure di affidamento.
L’art. 92 rubricato “corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti" completa quanto disposto dai precedenti articoli, mantenendosi nell’alveo della disciplina della progettazione dei lavori pubblici.
Decisivo appare, nondimeno, l’argomento basato sull’interpretazione funzionale della norma in esame.
Il citato art. 92 del codice dei contratti pubblici, ai commi 5 e 6, esprime, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale.
Pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego il cui sistema retributivo è basato, come è noto, sui principi cardine di onnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nonché di definizione contrattuale delle componenti economiche, fissato dal successivo art. 45, comma 1. In base a tali principi nulla è dovuto oltre il trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio.
Il legislatore, con le disposizioni in parola, ha voluto riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando agli anzidetti principi.
In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92, ai commi 5 e 6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato, da ripartire fra i dipendenti dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto, entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche.
La norma deve essere considerata, dunque, di stretta interpretazione, non suscettibile di applicazione in via analogica, alla luce del divieto posto dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, e neppure appare possibile una lettura della definizione in essa contenuta che attribuisca alla volontà del legislatore quanto dallo stesso non esplicitato.
La funzione “incentivante” riconosciuta all’art. 92, comma 6, oltre a limitarne l’ambito di applicazione oggettivo nei termini sopra riferiti, ne circoscrive l’applicazione soggettiva al solo personale interno dell’ente, escludendo implicitamente, come confermato nei precedenti pareri resi dalla Sezione, che possano essere erogati speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di un atto di pianificazione che sia affidato ad un professionista esterno.
Tutto ciò premesso, questa Sezione, con riferimento alla richiesta formulata, non può che ribadire il proprio precedente e consolidato orientamento, confermato anche dalla Sezione Autonomie, per cui
gli incentivi possono essere corrisposti solo per remunerare la redazione di un atto di pianificazione che, oltre ad essere affidato in via esclusiva ai dipendenti dell’ente, risulti strettamente connesso alla progettazione di un’opera pubblica.
Spetta naturalmente all’ente istante stabilire se, nel caso concreto, l’atto di pianificazione soddisfi il predetto requisito che tuttavia non sembra emergere dalla descrizione fornita contestualmente alla richiesta del presente parere.

Quantunque la redazione del Piano di Governo del Territorio possa comportare, come nel caso di specie, attività ulteriori rispetto a quelle ordinariamente richieste dalla predisposizione di un generico atto di pianificazione, solo nel caso in cui tali attività si estrinsechino nella progettazione di un’opera pubblica potrà farsi applicazione dell’art. 92, comma 6, del codice dei contratti, riconoscendo l’incentivo previsto al personale interno (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 20.05.2014 n. 180).

INCENTIVO PROGETTAZIONERitiene il Collegio che la richiesta di parere in ordine alla possibilità di riconoscere l’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti ai dipendenti che abbiano collaborato alla redazione di un piano regolatore generale, non strettamente collegato alla realizzazione nell’immediato di opere pubbliche, debba avere risposta negativa.
Il Sindaco del comune di Formello (RM) ha inoltrato a questa Sezione, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge 05.06.003 n. 131, richiesta di parere riguardante la possibilità di riconoscere l’incentivo alla progettazione di cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (in seguito Codice dei contratti o Codice) ai dipendenti comunali coinvolti nell’attività di redazione del Piano Urbanistico Comunale Generale, in quanto attività strumentale rispetto ai lavori pubblici “che il Comune dovrà progettare e affidare nei prossimi anni”, e cioè anche in relazione a procedure di aggiudicazione “ancora da attivare.
Il Sindaco richiedente ha ricordato al riguardo quella parte della giurisprudenza della Corte dei conti in sede consultiva che propende per il riconoscimento suddetto a fronte di “procedure finalizzate alla realizzazione di opere di pubblico interesse”.
Ha chiesto, altresì, di dare indicazioni sui criteri da adottare per la quantificazione dell’incentivo evidenziando le problematicità che emergerebbero se a tal fine si dovesse far riferimento alla stima degli onorari relativi alle opere pubbliche progettate con il piano urbanistico.
In particolare, le difficoltà di calcolo deriverebbero dal fatto che l’attività di pianificazione urbanistica ha carattere generale rispetto alle singole opere pubbliche previste con lo strumento urbanistico; può essere svolta anche molti anni prima della effettiva realizzazione delle medesime opere pubbliche; non tiene conto delle varianti al piano che potranno rendersi necessarie in sede di effettiva realizzazione di opere pubbliche.
In pendenza della richiesta di parere presentata dal Comune di Formello è intervenuta la deliberazione della Sezione regionale di controllo per la Liguria n. 6/2014 del 21.01.2014 di remissione alla Sezione delle Autonomie di questione di massima avente ad oggetto proprio l’interpretazione del succitato art. 92, comma 6, del Codice dei contratti.
Per tale ragione la Sezione regionale di controllo per il Lazio nella camera di consiglio del 04.03.2014 ha deliberato di attendere la pronuncia della Sezione delle Autonomie al fine di avere un quadro interpretativo di riferimento chiaro per poter rendere il parere richiesto.
...
Come accennato, la Sezione delle Autonomie è stata di recente investita della questione di massima relativa all’interpretazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (in seguito Codice degli appalti pubblici o Codice), in considerazione nella presente richiesta di parere, a causa di un contrasto che si era delineato a tale riguardo in sede di attività consultiva della Corte dei conti, e si è pronunciata con
deliberazione 15.04.2014 n. 7.
La norma esaminata prevede la corresponsione di un incentivo economico pari al trenta per cento delle tariffe professionali ai dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici che abbiano redatto atti di pianificazione “comunque denominati”.
Detto incentivo, pacificamente, nella giurisprudenza formatasi in sede di attività consultiva della Corte dei conti è stato inteso come deroga al principio di onnicomprensività delle retribuzioni e a quello di definizione contrattuale delle relative componenti economiche.
Tale deroga trova la sua ragion d’essere, da un lato, nella valorizzazione del singolo dipendente, chiamato ad assumersi responsabilità particolari connesse all’attività di progettazione, e, dall’altro lato, nel risparmio economico garantito all’amministrazione dal ricorso alle professionalità già presenti al suo interno, invece che al reclutamento sul mercato.
A fronte di tali particolari responsabilità del dipendente e del menzionato risparmio dell’Amministrazione, il legislatore ha ritenuto giustificato il riconoscimento ai componenti degli uffici tecnici coinvolti di “una voce straordinaria non riconducibile alla dinamica retributiva” (Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, delibera 13.11.2009 n. 16/2009) in misura percentuale minima rispetto al suo valore sul mercato esterno (come accennato si tratta di una somma pari a 30% della tariffa professionale per la redazione di un “atto di pianificazione comunque denominato”).
Peraltro, la costruzione giuridica si pone in coerenza con il divieto per le Amministrazioni dotate di personale dipendente tecnicamente competente, di conferire incarichi esterni, come codificato all’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Stante la natura eccezionale delle disposizioni in tema di incentivo di progettazione, la Corte dei conti, chiamata spesso in sede consultiva a dirimere dubbi interpretativi sulla disciplina della fattispecie, ha indicato un principio generale di interpretazione in senso stretto delle norme di riferimento, con divieto di interpretazione analogica, ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile .
Tuttavia, come accennato in premessa, nonostante questo punto di partenza condiviso, in sede di definizione dell’esatto ambito di applicazione della disciplina con specifico riguardo al tema degli “atti di pianificazione comunque denominati” di cui all’art. 92, comma 6, del Codice, chiamato in causa dal Comune di Formello nella richiesta di parere, si erano delineati due orientamenti interpretativi diversi, tali da giustificare la remissione alla Sezione delle Autonomie di questione di massima ad opera della Sezione di controllo per la Liguria, al fine di ottenere una delibera di orientamento.
Infatti, a fronte di un’interpretazione maggioritaria che ha inteso l’incentivo in considerazione come attribuibile ai dipendenti pubblici nei soli casi di elaborazione di piani urbanistici, o di varianti di piani, finalizzati alla realizzazione di lavori pubblici ben definiti, si è profilato una diversa interpretazione, secondo cui l’incentivo sarebbe stato giustificato anche in presenza della mera elaborazione di piani regolatori generali, rispetto ai quali la progettazione delle opere pubbliche pur presa in considerazione, si ponesse come successiva nel tempo e non ancora definita in modalità e costi
Sul punto
la Sezione delle Autonomie ha risolto la questione di massima sottopostale in senso conforme all’orientamento giurisprudenziale maggioritario già descritto sopra.
Infatti, afferma la Sezione delle Autonomie che
depongono a favore di detta soluzione sia la collocazione sistematica della disposizione, sia il dato storico relativo all’evoluzione della disciplina degli incentivi di progettazione, sia l’esame dei lavori preparatori in Commissione parlamentare.
Quanto alla collocazione sistematica, osserva la Sezione delle Autonomie che la norma si colloca nel Codice nella parte II, Titolo I, Capo IV, dedicato ai “Servizi attinenti all’architettura all’ingegneria”, alla Sezione I, intitolata “Progettazione interna ed esterna. Livelli della progettazione”. Si deve, quindi, ritenere sistematicamente collocata nella sede della disciplina della progettazione di lavori pubblici. Pertanto, conclude che la norma non include tra le attività coperte da incentivo anche quelle di pianificazione non attinenti (in via diretta) alla progettazione di opere pubbliche.
Quanto al dato storico e ai lavori preparatori del testo, osserva la Sezione delle Autonomie che la norma riproduce disposizioni già contenute nella legge Merloni del 1994 in materia di incentivi e spese di progettazione, ritenuta riferibile alla progettazione di lavori pubblici in senso stretto.
Alla luce delle conclusioni così raggiunte,
ritiene il Collegio che la richiesta di parere del Comune di Formello in ordine alla possibilità di riconoscere l’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti ai dipendenti che abbiano collaborato alla redazione di un piano regolatore generale, non strettamente collegato alla realizzazione nell’immediato di opere pubbliche, debba avere risposta negativa.
In via consequenziale viene meno la seconda delle questioni sottoposte ad esame, relativa alle modalità di calcolo di detto incentivo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, parere 19.05.2014 n. 56).

ATTI AMMINISTRATIVI: I pareri (che l’art. 49 TUEL richiede espressamente per l’adozione delle deliberazioni comunali che non siano <mero atto di indirizzo>) non costituiscono requisiti di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati all’individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse.
Analogo indirizzo è stato seguito, in particolare, nel caso di mancata acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori, la cui omissione non incide sulla validità della deliberazione stessa, rappresentando al più una mera irregolarità.
Chiarito il perimetro e la funzione dei pareri di regolarità tecnica e contabile nel contesto dell’attività deliberativa degli organi di indirizzo politico e di governo dell’Ente, ne consegue che il mancato rilascio dei pareri prescritti dall’art 49 del TUEL non avrebbe riflessi, comunque, sul piano della legittimità della delibera.

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Sono inammissibili i quesiti sulla modalità che deve essere prevista e rispettata nelle deliberazioni aventi carattere politico-programmatorio e sulle conseguenze giuridiche cui è esposta l’Amministrazione nel caso in cui le delibere di Giunta o di Consiglio non esplicitino i motivi di immediata eseguibilità, in quanto, da un lato, nel regolare l’attività deliberativa degli organi dell’Ente, essi attengono a questioni che non sono finalizzate alla sana gestione finanziaria dell’Ente, né al mantenimento degli equilibri di bilancio, dall’altro, implicano valutazioni sulle conseguenze di una non corretta applicazione delle norme di legge in materia, che potrebbero formare oggetto di eventuali iniziative dinanzi a questo o ad altro plesso giudiziario.

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1. Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Montalbano Jonico espone quanto segue.
1.1 L’Amministrazione comunale ha manifestato la volontà di portare a compimento, nell’interesse della collettività amministrata, una serie di lavori pubblici. A tale scopo ha conferito al Responsabile di Posizione Organizzativa dell’Area tecnica l’incarico di predisporre, in base a obiettivi strategici prefissati, una Piano di lavoro o <Piano degli Obiettivi strategici> da far realizzare al personale tecnico in servizio presso la struttura comunale. Il predetto responsabile, in esecuzione dell’incarico, ha predisposto il piano indicando il personale da utilizzare, i tempi, gli adempimenti da effettuare per la realizzazione degli obiettivi prestabiliti e la presumibile spesa occorrente.
1.2 Per avviare l’iter amministrativo e tecnico, l’Amministrazione è intenzionata a far proprio, sotto il profilo politico e programmatico, il <Piano degli Obiettivi strategici> come sopra predisposto, prendendo preliminarmente atto dello stesso e successivamente ponendo in essere le fasi procedimentali con l’adozione degli atti presupposti e autorizzativi per la copertura della spesa prevista.
1.3 A tal proposito, l’Amministrazione pone i seguenti quesiti:
a) se la delibera di Giunta di semplice “presa d’atto”, avendo natura politico-programmatoria e non già provvedimentale di approvazione del <Piano>, e neppure di impegno della relativa spesa, richieda l’acquisizione dei pareri di regolarità tecnica e contabile di cui all’art. 49, comma 1, del TUEL;
b) posto che per la dichiarazione di immediata eseguibilità di una delibera di Giunta o di Consiglio occorre indicare, anche sinteticamente, i motivi contingenti a corredo della qualificazione del livello di necessità e di urgenza attribuito dall’organo deliberante e attesi i presupposti richiesti dall’art. 134, comma 4, del TUEL, si chiede: se tale modalità deve essere anche prevista e rispettata nelle deliberazioni aventi carattere politico-programmatorio, di cui al precedente punto; a quali conseguenze giuridiche è esposta l’Amministrazione nel caso in cui le delibere di Giunta o di Consiglio non esplicitino i motivi di immediata eseguibilità;
c) se per il finanziamento della spesa necessaria per attivare il <Piano> in argomento è possibile utilizzare economie di bilancio non vincolate e rivenienti da spese per il personale non sostenute, in aggiunta alle risorse dell’art. 14, CCNL 01.04.1999 per la retribuzione di lavoro svolto al di fuori del normale orario di servizio.
...
... sono ammissibili i quesiti subb. a) e c), in quanto miranti a ottenere chiarimenti in ordine ad aspetti dell’azione amministrativa preordinati al corretto utilizzo delle risorse pubbliche, mentre il quesito sub. b) è da dichiararsi inammissibile in quanto, da un lato, nel regolare l’attività deliberativa degli organi dell’Ente, attiene a questioni che non sono finalizzate alla sana gestione finanziaria dell’Ente, né al mantenimento degli equilibri di bilancio, dall’altro, implica valutazioni sulle conseguenze di una non corretta applicazione delle norme di legge in materia, che potrebbero formare oggetto di eventuali iniziative dinanzi a questo o ad altro plesso giudiziario.
...
4. L’art. 49 del TUEL, come modificato dall’art. 3 del D.L. n. 174/2012, prescrive che “Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione. Nel caso in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere è espresso dal segretario dell'ente, in relazione alle sue competenze. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione”.
5. Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale del Giudice Amministrativo (da ultimo, Cons. St. sez. V, n. 1663/2014), i pareri (che l’art. 49 TUEL richiede espressamente per l’adozione delle deliberazioni comunali che non siano <mero atto di indirizzo>) non costituiscono requisiti di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati all’individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse (Cons. St., sez. V, n. 5012/2009; sez. IV, n. 3888/2008).
6. Analogo indirizzo è stato seguito, in particolare, nel caso di mancata acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori, la cui omissione non incide sulla validità della deliberazione stessa, rappresentando al più una mera irregolarità (Cons. St., sez. IV, n. 351/2012).
7. Chiarito il perimetro e la funzione dei pareri di regolarità tecnica e contabile nel contesto dell’attività deliberativa degli organi di indirizzo politico e di governo dell’Ente, ne consegue che –senza entrare nel merito della natura della delibera di Giunta alla quale si riferisce il Sindaco istante– il mancato rilascio dei pareri prescritti dall’art 49 del TUEL non avrebbe riflessi, comunque, sul piano della legittimità della delibera (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 15.05.2014 n. 79).

ATTI AMMINISTRATIVI: Con specifico riferimento al parere in merito alle proposte di transazione, l’elemento da considerare al fine di individuare i casi nei quali l’Organo di revisione deve esprimere il proprio avviso è la competenza consiliare a deliberare in merito alla conclusione della transazione, e non la natura di quest’ultima.
In altri termini, non è rilevante se l’Ente intenda procedere alla definizione di un contenzioso giudiziale o stragiudiziale, quanto se, in ordine all’atto conclusivo del procedimento, debba pronunciarsi o meno il Consiglio, considerato che, come si è visto sopra, il parere deve essere reso all’Organo consiliare, il quale "è tenuto ad adottare i provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la mancata adozione delle misure proposte dall’organo di revisione.
La natura del parere, funzionale allo svolgimento delle competenze consiliari, evidenzia che l’obbligo riguarda principalmente le proposte di transazione riferite a:
- passività in relazione alle quali non è stato assunto uno specifico impegno di spesa, vale a dire quelle che possono generare un debito fuori bilancio nei casi previsti dalle lettere a), d) ed e) dell’art. 194, comma 1, del TUEL; accordi che comportano variazioni di bilancio;
- accordi che comportano l’assunzione di impegni per gli esercizi successivi (art. 42, comma 2, lett. i del TUEL);
- accordi che incidono su acquisti, alienazioni immobiliari e relative permute (art. 42, comma 2, lett. l del TUEL).
Da ultimo occorre osservare che il TUEL all’art. 239, comma 6, prevede la possibilità che lo Statuto dell’Ente possa prevedere “ampliamenti delle funzioni affidate ai Revisori”.
Ferma restando la specifica funzione di ausilio al Consiglio che si estrinseca con la resa dei pareri nelle materie indicate sopra, l’Ente può ampliare le competenze dell’Organo di revisione, anche prevedendo attività ulteriori, ivi compresa la resa di pareri in altre materie. In conclusione, i pareri dell’Organo di revisione sono funzionali allo svolgimento dei compiti del Consiglio e devono essere resi a quest’ultimo nelle materie indicate nell’art. 239, comma 1, lett. b), del TUEL, fra le quali è compresa quella riferita alle “proposte di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni”.

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La delimitazione, ad opera del legislatore, dell’esplicazione dell’attività consultiva di ausilio al Consiglio nelle materie di cui alla lett. b) dell’art 239 TUEL non esclude, tuttavia, che l’ente possa ampliare le competenze dell’Organo di revisione, anche prevedendo attività ulteriori, ivi compresa la resa di pareri in altre materie (tra cui le proposte di transazioni nelle materie di competenza della Giunta e nelle determinazioni dirigenziali), atteso che il comma 6 dell’art 239 prevede la possibilità che lo Statuto dell’ente possa prevedere ampliamenti delle funzioni affidate ai Revisori.
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Il compenso dei revisori deve essere determinato entro i limiti massimi indicati dall’art. 241, comma 1, d.lgs. 267/2000 e che, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, può essere aumentato dall’ente locale fino al limite massimo del 20 per cento solo in relazione alle ulteriori funzioni assegnate rispetto a quelle indicate nell’articolo 239 TUEL.

Il Sindaco del Comune di Statte chiede a questa Sezione un parere in merito all’ambito applicativo del nuovo art. 239, comma 1, lett. b), n. 6, TUEL, come mod. dal d.l. 174/2012, che prevede che l’organo di revisione dell’ente locale esprima un parere sulle proposte di transazione.
Per una migliore comprensione del quesito, il Sindaco precisa che:
- il revisore unico dei conti in attività presso l’ente assolve i compiti di cui al d.lgs. 267/2000 art. 239;
- il dettato di quest’ultimo articolo è stato novellato dal DL n. 174/2012 che prevede “per quel che qui interessa, al comma 1 lett. b) n. 6, il compito di formulare, con le modalità stabilite dal regolamento relativo, proposte di transazione”;
- l’ente intende avvalersi dell’intervento del revisore anche nelle proposte di transazione alla Giunta Comunale e nelle determinazioni dirigenziali, poiché, a parere del richiedente “l’innovazione ampia de jure, in ragione della genericità della sua lettera, lo spettro operativo dell’organo di revisione, in quanto rimanda al regolamento solo la definizione delle modalità”.
Ciò posto, il Sindaco chiede:
1) se la lettura che l’ente propone della novella in questione sia corretta;
2) se il compenso che attualmente si riconosce al Revisore unico dei conti includa questa nuova funzione, poiché derivante da una norma di legge e non da una scelta discrezionale dell’ente.
...
Passando al merito della richiesta, il quesito n. 1 attiene all’ampiezza delle materie in cui l’organo di revisione è tenuto a rendere il parere obbligatorio sulle transazioni ai sensi dell’art. 239, comma 1, lett. b, n. 6, TUEL mod. 174/2012.
Sul punto questa Sezione si è già pronunciata con deliberazioni n. 181 del 28.11.2013 e n. 35 del 06.02.2014, osservando: “
Con specifico riferimento al parere in merito alle proposte di transazione, l’elemento da considerare al fine di individuare i casi nei quali l’Organo di revisione deve esprimere il proprio avviso è la competenza consiliare a deliberare in merito alla conclusione della transazione, e non la natura di quest’ultima. In altri termini, non è rilevante se l’Ente intenda procedere alla definizione di un contenzioso giudiziale o stragiudiziale, quanto se, in ordine all’atto conclusivo del procedimento, debba pronunciarsi o meno il Consiglio, considerato che, come si è visto sopra, il parere deve essere reso all’Organo consiliare, il quale "è tenuto ad adottare i provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la mancata adozione delle misure proposte dall’organo di revisione”.
La natura del parere, funzionale allo svolgimento delle competenze consiliari, evidenzia che l’obbligo riguarda principalmente le proposte di transazione riferite a: passività in relazione alle quali non è stato assunto uno specifico impegno di spesa, vale a dire quelle che possono generare un debito fuori bilancio nei casi previsti dalle lettere a), d) ed e) dell’art. 194, comma 1, del TUEL; accordi che comportano variazioni di bilancio; accordi che comportano l’assunzione di impegni per gli esercizi successivi (art. 42, comma 2, lett. i del TUEL); accordi che incidono su acquisti, alienazioni immobiliari e relative permute (art. 42, comma 2, lett. l del TUEL). Da ultimo occorre osservare che il TUEL all’art. 239, comma 6, prevede la possibilità che lo Statuto dell’Ente possa prevedere “ampliamenti delle funzioni affidate ai Revisori”.
Ferma restando la specifica funzione di ausilio al Consiglio che si estrinseca con la resa dei pareri nelle materie indicate sopra, l’Ente può ampliare le competenze dell’Organo di revisione, anche prevedendo attività ulteriori, ivi compresa la resa di pareri in altre materie. In conclusione, i pareri dell’Organo di revisione sono funzionali allo svolgimento dei compiti del Consiglio e devono essere resi a quest’ultimo nelle materie indicate nell’art. 239, comma 1, lett. b), del TUEL, fra le quali è compresa quella riferita alle “proposte di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni” (n. 6).
Al fine di individuare, in concreto, se l’atto debba essere preceduto dal parere dell’Organo di revisione, non è rilevante la natura della transazione (giudiziale o stragiudiziale) ma se si tratti di atto di procedimento che deve concludersi con delibera del Consiglio, rientrando fra le sue attribuzioni funzionali
” (deliberazione n. 181/2013/PAR).
Alle medesime conclusioni sono pervenute la Sezione controllo per il Piemonte, nella delibera citata dal richiedente (delibera n. 345/2013/SRCPE/PAR), e la Sezione controllo per la Liguria nella delibera n. 5/2014 (SRCLIG/4/2014/PAR). Entrambe le Sezioni regionali hanno condiviso l’interpretazione che, con specifico riferimento alle transazioni di cui all’art. 239, comma 1, lett. b), n. 6, TUEL, circoscrive l’ambito nel quale l’Organo di revisione è chiamato a rendere obbligatoriamente i pareri alle sole transazioni che involgono profili di competenza del Consiglio comunale.
La delimitazione, ad opera del legislatore, dell’esplicazione dell’attività consultiva di ausilio al Consiglio nelle materie di cui alla lett. b) dell’art 239 TUEL non esclude, tuttavia, che l’ente possa ampliare le competenze dell’Organo di revisione, anche prevedendo attività ulteriori, ivi compresa la resa di pareri in altre materie (tra cui le proposte di transazioni nelle materie di competenza della Giunta e nelle determinazioni dirigenziali), atteso che il comma 6 dell’art 239 prevede la possibilità che lo Statuto dell’ente possa prevedere ampliamenti delle funzioni affidate ai Revisori.
Passando al quesito n. 2, relativo all’inclusione nel compenso spettante al revisore anche della nuova funzione in materia di pareri su transazioni, si osserva che
il compenso dei revisori deve essere determinato entro i limiti massimi indicati dall’art. 241, comma 1, d.lgs. 267/2000 e che, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, può essere aumentato dall’ente locale fino al limite massimo del 20 per cento solo in relazione alle ulteriori funzioni assegnate rispetto a quelle indicate nell’articolo 239 TUEL (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 17.04.2014 n. 88).

NEWS

LAVORI PUBBLICILavori specialistici più liberi. Qualificazione per le verifiche facilitata per due anni. APPALTI/ Le novità in materia di gare contenute nel Piano casa convertito in legge.
Meno vincoli per gli appalti di lavori specialistici, anche se fra un anno verranno nuovamente riscritte le norme di qualificazione; fatti salvi i bandi di gara approvati da ottobre 2013 a fine aprile 2014; requisiti minimi per le mandanti e le mandatarie anche negli appalti di forniture e servizi; qualificazione per le verifiche dei progetti più facile ancora per due anni.

Sono queste alcune delle principali novità contenute nel dl 47/2014 (Piano casa) convertito in legge, che è in attesa di pubblicazione in G.U.. Per la disciplina dei lavori specialistici il testo dell'articolo 12 del decreto convertito in legge dal parlamento riformula le due disposizioni regolamentari che disciplinano la materia e che il Consiglio di Stato aveva bocciato e il dpr 30.10.2013 aveva annullato.
La disciplina che viene delineata, che riprende integralmente il contenuto del dm infrastrutture del 24.04.2013, avrà valore per dodici mesi, periodo nel quale si dovranno riscrivere i commi 2 degli articoli 107 e 109 del regolamento del Codice (Dpr 207/2010).
Per adesso quindi le strutture, gli impianti e le opere speciali ai sensi dell'articolo 37, comma 11, del Codice dei contratti pubblici (cioè a qualificazione obbligatoria) sono le seguenti: OG 11, OS 2-A, OS 2-B, OS 4, OS 11, OS 12-A, OS 13, OS 14, OS 18-A, OS 18-B, OS 21, OS 25, OS 30, OS 32.
Invece sono considerate opere “superspecialistiche” (cioè con obbligo di subappalto o di costituzione di ATI verticale fra impresa generale e impresa specializzata) le lavorazioni relative alle categorie di opere generali individuate nell'allegato A del dpr 207/2010, nonché le seguenti categorie individuate nel medesimo allegato A: OS 2-A, OS 2-B, OS 3. OS 4, OS 5, OS 8, OS 10, OS 11, OS 12-A, OS 13, OS 14, OS 18-A, OS 18-B, OS 20-A, OS 20-B, OS 21, OS 24, OS 25, OS 28, OS 30, OS 33, OS 34, OS 35. Queste lavorazioni sono comunque subappaltabili ad imprese in possesso delle relative qualificazione.
Importante è la norma che fa salvi i bandi e gli avvisi di gara pubblicati dal 29.11.2013 (entrata in vigore del dpr 30.10.2013) e al 26.04.2014 (vigenza del dm infrastrutture del 24.04.2014), nonché gli atti, i provvedimenti e i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi bandi e avvisi. La norma, molto opportuna visto che nelle varie versioni dei decreti “Salva Roma” i regimi applicabili erano diversi da quello attuale, precisa che la salvezza riguarda i profili concernenti la qualificazione richiesta per la partecipazione alle procedure di affidamento.
Un importante intervento riguarda poi la disciplina dei requisiti in caso di raggruppamento temporaneo di imprese, o di consorzio: viene infatti abrogato il comma 13 dell'articolo 37 del codice dei contratti pubblici che, soltanto per il settore dei lavori, prevedeva l'obbligo per i concorrenti riuniti di eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondenti alla quota di partecipazione al raggruppamento stesso.
La norma modifica anche l'art. 92 del regolamento del codice, rendendo applicabile anche al settore delle forniture e dei servizi la previsione per cui la mandataria o capogruppo del raggruppamento temporaneo (e una delle imprese consorziate, in caso di consorzio ordinario) dovrà possedere almeno il 40% dei requisiti previsti dal bando di gara, mentre le mandanti (e le altre consorziate) dovranno documentare il possesso di almeno il 10% dei requisiti. Si ammette inoltre che le quote di partecipazione al raggruppamento o consorzio, indicate in sede di offerta, possano essere liberamente stabilite entro i limiti consentiti dai requisiti di qualificazione posseduti dall'associato o dal consorziato, logica conseguenza dell'abrogazione del comma 13 dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici.
Infine l'articolo 12 del decreto convertito in legge stabilisce che per gli affidamenti di incarichi di verifica dei progetti si possa per altri due anni (fino a giugno 2016) qualificarsi anche con i requisiti maturati nel settore della progettazione e direzione dei lavori (la norma toccata è l'articolo 357, comma 19, del dpr 207/2010 (articolo ItaliaOggi del 23.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il governo verso la stretta a case mobili e roulotte.
Il governo si impegna a rivedere la norma (articolo 10-ter) del decreto casa (diventata ora legge) che cancella l'obbligo del permesso di costruire per case mobili, prefabbricati, camper o roulotte all'interno di strutture ricettive all'aperto. Nonostante alcune sentenze del Tar, del Consiglio di stato e della Cassazione abbiano stabilito che, se l'insediamento è stabile e ha concreta incidenza sul territorio, non si possa prescindere dal rilascio di autorizzazioni urbanistico-edilizie e paesaggistiche.

Con l'articolo 10-ter del provvedimento «casa», si allargano ulteriormente le maglie del Testo unico in materia edilizia, con il rischio che sia favorita in tal modo l'installazione di case mobili anche in aree vincolate senza l'obbligo del permesso di costruire. Questo è quanto si legge nell'ordine del giorno accolto il 20 maggio alla camera (quando si discuteva dell'approvazione del decreto casa) e sottoscritto da tutti i deputati del Partito democratico.
L'articolo 3, comma 1, del dpr n. 380 del 2001 (come integrato dall'articolo 41, comma 4, decreto del «fare»), prevede che tra gli «interventi di nuova costruzione» siano comunque da considerarsi anche «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee ancorché siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta e il soggiorno di turisti» previsti dalla lettera e.5).
L'articolo 10-ter del decreto legge casa, interviene a modificare l'articolo 41, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013, al fine di escludere, dal novero degli interventi di nuova costruzione, i manufatti installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta e il soggiorno di turisti (articolo ItaliaOggi del 23.05.2014).

VARILe spese per i lavori edilizi non incidono sul bonus mobili. Decreto casa. Eliminato il vincolo di importo.
La definitiva approvazione della legge di conversione del decreto "casa-Expo" (Dl 47/14) ha consentito (dopo diversi tentativi andati a vuoto) l'abrogazione di uno dei vincoli che limitava, dal 1° gennaio scorso, la fruizione integrale del "bonus mobili", consistente in una detrazione Irpef, in 10 quote annuali, del 50% dell'ammontare speso fino a 10mila euro per l'acquisto di mobili, grandi elettrodomestici e apparecchiature con etichetta energetica.
Il testo del decreto convertito, infatti, abroga il comma 2 dell'articolo 16 del Dl 63/2013, secondo cui le spese agevolabili per questi acquisti non potevano essere d'importo superiore a quelle sostenute per il lavoro di recupero edilizio, che costituisce una delle condizioni necessarie per accedere all'agevolazione.
La disposizione appena approvata aggiunge, esplicitamente, che per tutto il periodo di applicazione (dal 06.06.2013 al 31.12.2014), le spese sostenute per gli arredi e gli elettrodomestici sono computate «ai fini della fruizione della detrazione di imposta, indipendentemente dall'importo delle spese sostenute per i lavori di ristrutturazione».
In tal modo, l'abrogazione del vincolo introdotto dall'articolo 1, comma 139, lettera d), n. 3), della legge di stabilità per il 2014 (Legge 147/2013) è esplicitamente retroattiva, così da non ingenerare dubbi sulla assenza del "paletto" dal 01.01.2014 ad oggi. Si ricorda che il limite era stato una prima volta abrogato dall'articolo 1, comma 2, del Dl 151/13, ma era "resuscitato" a seguito della mancata conversione in legge del provvedimento. Grazie alla definitiva approvazione del decreto "casa-Expo", la situazione aggiornata riguardante la fruizione del bonus si può così sintetizzare:
- è possibile per il contribuente effettuare spese agevolate per l'acquisto dei mobili e degli elettrodomestici anche in misura superiore a quelle sostenute (o da sostenere) per il lavoro di recupero edilizio di cui all'articolo 16-bis Tuir, purché entro il limite di 10mila euro;
- anche chi ha acquistato l'arredo in questi primi mesi del 2014, spendendo cifre superiori a quelle che ha sostenuto (o intende sostenere) per il "bonus del 50%" in edilizia, potrà fruire in Unico 2015 dell'intera detrazione sui mobili.
Il venir meno del limite per il 2014 aumenta le possibilità anche per chi ha effettuato un primo acquisto di mobili e/o elettrodomestici nel 2013, senza raggiungere il limite massimo di 10mila euro. Attualmente, infatti, qualunque sia l'importo dei lavori edili agevolati posto in essere, risulta possibile incrementare l'acquisto degli arredi sino al predetto importo massimo, senza ulteriori vincoli.
In proposito non bisogna dimenticare che l'ampiamento al 2014 della detrazione per i mobili (operato dalla legge di stabilità) si pone in diretta continuità con la detrazione vigente nel 2013, poiché spetta «nella misura del 50 per cento delle spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2014» sempre entro i 10mila euro di plafond totale.
Va, tuttavia, ricordato che il collegamento tra "bonus mobili" e "bonus 50%" sui lavori edili non si limitava al vincolo ora abrogato, poiché il contribuente deve tuttora fare attenzione a queste prescrizioni (Circolare 29/E/2013):
- i mobili acquistati devono essere "
finalizzati all'arredo dell'immobile oggetto di ristrutturazione";
- può fruire del bonus per gli arredi solo chi effettua sull'immobile spese agevolabili ai sensi dell'articolo 16-bis Tuir (a partire dal 26.06.2012), collegamento che l'Agenzia, nel corso di Telefisco (e nella recente Circolare 10/E/2014, paragrafo 7) ha ulteriormente ristretto (obliterando il dato normativo) ai soli interventi edili di livello non inferiore alla manutenzione straordinaria (tranne che nei condomini).
È importante, infine, ricordare che gli acquisti dei mobili/elettrodomestici non devono necessariamente seguire le spese per il recupero edilizio, essendo invece indispensabile che essi siano successivi alla data d'inizio lavori di queste ultime, come risultante dalle eventuali abilitazioni amministrative o comunicazioni richieste dalla vigente legislazione edilizia o sanitaria ovvero, in mancanza, dalla autocertificazione prodotta dal contribuente
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.05.2014).

INCARICHI PROGETTUALI: Gare «aperte» per i progettisti. Appalti. L'annuncio dell'Autorità.
Il presidente dell'Autorità di vigilanza sugli appalti, Sergio Santoro, conferma il no a requisiti di gara troppo restrittivi per i progettisti.
Rispondendo all'invito rivolto dal presidente della commissione Lavori pubblici della Camera, Ermete Realacci (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), Santoro anticipa che il chiarimento arriverà a breve con la determinazione sulle procedure di affidamento degli incarichi professionali, cui l'Autorità lavora da mesi.
Il nodo da sciogliere è la contraddizione tra il Codice degli appalti (articolo 41, comma 2), che vieta di richiedere senza motivo requisiti di fatturato capaci di limitare la concorrenza, e l'articolo 263 del regolamento appalti (Dpr 207/2010) che al contrario impone alle stazioni appaltanti di restringere l'accesso alle gare ai professionisti capaci di esibire particolari requisiti di fatturato (compreso tra due e quattro volte l'importo del progetto) e organico.
Paletti che di fatto si tramutano in una barriera di ingresso al mercato pubblico per i giovani professionisti e gli studi meno strutturati. Per Santoro è la norma del Codice ad avere la preminenza. Nella determinazione, scrive il presidente dell'Autorità, «verrà messo in rilievo che le stazioni appaltanti dovranno applicare l'articolo 41, comma 2 del Codice, secondo cui sono illegittimi i criteri che fissano senza congrua motivazione limiti di accesso connessi al fatturato aziendale». Dunque, stop alla richiesta di requisiti di fatturato in modo automatico.
Soddisfatti architetti e ingegneri. «È un paradosso che una norma capace di avere effetti così restrittivi sia discesa dalla legge Merloni che aveva l'obiettivo di facilitare un mercato della progettazione aperto e concorrenziale», commenta il presidente del Cni e della Rete delle professioni tecniche, Armando Zambrano. «Apprezziamo l'impegno: è un primo passo importante –dice Rino La Mendola, vicepresidente del Consiglio nazionale architetti–. Voglio sottolineare che questi princìpi vanno trasferiti nella riforma degli appalti che scaturirà dall'obbligo di recepire le direttive europee»
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATARistrutturazioni con appoggio. Comunque necessario il codice fiscale del condominio. Una circolare dell'Agenzia delle entrate sulle principali novità in materia di Irpef.
Per beneficiare della detrazione per i lavori di ristrutturazione, in assenza di condominio costituito e di amministratore designato, è necessario comunque il possesso del codice fiscale del condominio, da indicare nel bonifico di pagamento.

Questa una delle numerose risposte fornite dall'Agenzia delle Entrate, con la circolare 21.05.2014 n. 11/E di ieri in materia di Irpef.
Imu. L'effetto sostitutivo del tributo locale (Imu-Irpef) trova applicazione ogniqualvolta il contribuente abbia provveduto al pagamento della prima e/o seconda rata o della mini Imu, ma anche nel caso il tributo sia giuridicamente dovuto ma non versato per effetto del riconoscimento di detrazioni o perché di ammontare inferiore al minimo dovuto. Nel caso in cui il contribuente risieda in un'unità a destinazione abitativa di proprietà e nello stesso comune possieda altra unità abitativa non locata, lo stesso dovrà assoggettare a Irpef e addizionale tale ultimo immobile nella misura del 50%, ancorché la propria dimora sia costituita da un fabbricato rurale abitativo.
Locazioni. Nel caso in cui il contribuente possieda un immobile locato, il canone assume rilevanza fino a quando il contratto resta in vita e, solo a seguito di cessazione della locazione, per scadenza naturale o per morosità del conduttore, il reddito può essere determinato su base catastale. In presenza di canoni non percepiti, gli stessi non concorrono alla formazione del reddito complessivo del proprietario ma solo da quando interviene una causa di risoluzione del medesimo contratto, giacché gli stessi devono essere comunque dichiarati fino alla realizzazione di dette cause, con l'impossibilità di recuperare le imposte assolte.
Spese sanitarie. La figura dell'osteopata non è annoverabile tra le figure riconosciute dal dicastero della salute e, di conseguenza, le prestazioni dagli stessi rese non consentono la detrazione, ai sensi della lett. c), comma 1, art. 15, dpr 917/1986 (Tuir). Al contrario, sono detraibili le spese sostenute per le prestazioni rese dal biologo nutrizionista perché, ancorché lo stesso non si qualifichi come medico o sia inquadrabile tra le professioni sanitarie, di cui al dm 29/03/2001, la professione è stata inserita nel ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale (SSN).
Interessi passivi su mutuo. Il contribuente che stipula un mutuo per l'acquisto di un'unità immobiliare adiacente alla propria abitazione principale con l'obiettivo di accorparle, può detrarre gli interessi passivi sostenuti, dopo la realizzazione dell'accorpamento, ai sensi della lett. b), comma 1, art. 15 del Tuir. In presenza di un contratto di mutuo, contratto per la costruzione dell'abitazione principale, la quota di interessi sostenuti dal coniuge fiscalmente a carico non può essere detratta dall'altro coniuge.
Ristrutturazione. In assenza di un condominio costituito e di un amministratore e in presenza di un “condominio minimo” (edificio con un numero non superiore a otto condomini) si rende necessario, al fine di fruire del bonus per le parti a comune, di cui all'art. 16-bis del Tuir, richiedere il codice fiscale ed eseguire i relativi adempimenti previsti, eseguendo i bonifici di pagamento con indicazione dello stesso (circ. 57/E/1998). In presenza di bonifici eseguiti con causale errata (riferimenti di natura tributaria), il contribuente può beneficiare della detrazione, se rispetta tutti gli altri adempimenti obbligatori; tale situazione è confermata anche quando, in luogo dei riferimenti per le spese di ristrutturazione sono stati indicati quelli per il risparmio energetico o viceversa.
Bonus mobili. Nessuna detrazione se la spesa è stata collegata all'acquisto di un box pertinenziale (circ. 35/E/2009), se il pagamento avviene tramite bonifico lo stesso deve essere conforme a quello richiesto per la ristrutturazione (bonifico tracciato) ma è possibile eseguire il pagamento con carte di credito e/o di debito, con conservazione dello scontrino “parlante” in luogo della fattura, se lo stesso contiene la descrizione dei beni acquistati (articolo ItaliaOggi del 22.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOMessaggio inps. Esuberi p.a. in pensione anticipata.
Semaforo verde dell'Inps all'accesso al pensionamento per gli esuberi della pubblica amministrazione.

Con il messaggio 21.05.2014 n. 4234 l'Istituto di previdenza spiega anzitutto che il dl 101/2013, così come convertito nella legge n. 125/2013, ha ampliato la platea dei destinatari dei prepensionamenti per posizioni soprannumerarie, nel senso di ricomprendere tutte le amministrazione pubbliche (ex art. 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001), quali, a titolo esemplificativo, le regioni i comuni, le province, le comunità montane, le aziende sanitarie locali, in tutti i casi di eccedenza dichiarata per ragioni funzionali o finanziarie dell'amministrazione.
Gli indirizzi applicativi sul ricorso all'istituto del prepensionamento sono contenuti nella circolare n. 4/2014 del ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione. Una volta individuate le posizioni soprannumerarie, l'amministrazione deve chiedere alla sede Inps, territorialmente competente in base alla sede di servizio degli interessati, la certificazione del diritto a pensione e la relativa decorrenza.
Considerato che le amministrazioni devono fissare preventivamente e motivatamente la tempistica di assorbimento delle eccedenze, dando priorità al pensionamento ordinario e applicando, senza necessità di motivazione, l'art. 72, comma 11, del dl 112/2008, che prevede la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro al raggiungimento dei requisiti contributivi ante riforma Fornero, la certificazione del diritto deve essere richiesta in tutti i casi di prepensionamento, ossia nei casi in cui, in virtù dell'esubero individuato, l'accesso al pensionamento è consentito con i precedenti requisiti e a condizione che la decorrenza del trattamento pensionistico sia entro il 31.12.2016.
L'Inps provvederà al rilascio delle relative certificazioni nel termine di 30 giorni dall'invio degli elenchi del personale da parte delle amministrazioni locali ovvero richiede, nel medesimo termine, agli Enti le informazioni utili per il completamento della posizione assicurativa degli interessati (articolo ItaliaOggi del 22.05.2014).

VARIBonus arredi, regime allargato. Il valore delle detrazioni potrà superare quello dei lavori. Il via libera definitivo della Camera al Piano casa. Cedolare secca al 10% in molti comuni.
Il bonus mobili dice addio alle restrizioni. È quindi possibile usufruire della detrazione per le spese sostenute per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici anche nel caso in cui queste spese superino quelle sostenute per i lavori di ristrutturazione. L'importo delle detrazioni andrà ora solo incontro al limite dei 10 mila euro.

A mettere un punto su una questione che aveva già provato a trovare spazio nel testo del dl salva-Roma bis (dl 151/2013 mai convertito), il via libera definitivo al Piano casa (dl 47/2014) arrivato ieri da Montecitorio, in tempo per la dead-line di conversione fissata il 27 maggio, dopo che lunedì l'Aula aveva votato la fiducia al testo.
Nel dettaglio, la disposizione ha trovato accoglimento nel corso dei lavori al testo che si sono svolti nella Commissioni lavori pubblici e territorio del Senato con un emendamento ad hoc presentato dai relatori Franco Mirabelli (Pd) e Stefano Esposito (Pd).
Il nuovo meccanismo, instaurato attraverso l'aggiunta di un comma all'art. 7 del dl, rubricato «Detrazioni fiscali Irpef per il conduttore di alloggi sociali», prevede ora che, fermo restando la possibilità di usufruire delle detrazioni solo per chi ha effettuato la richiesta per ottenere le agevolazioni previste per le ristrutturazioni edilizie, nel caso in cui vengano acquistati mobili e grandi elettrodomestici sia possibile portare in detrazione fino a 10 mila spalmati in 10 anni, attraverso quote costanti da indicare in dichiarazione dei redditi (si veda ItaliaOggi del 3, 5, 9 e 14.05.2014). Il tutto, a prescindere dall'importo della ristrutturazione e per il periodo compreso tra il 06.06.2013 al 31.12.2014.
Nel caso, quindi, in cui un soggetto decida di effettuare una ristrutturazione dell'importo complessivo di 4 mila euro e acquisti mobili o elettrodomestici ad alta efficienza energetica per 6 mila euro, le detrazioni concesse saranno 2 mila euro sul fronte delle spese per la ristrutturazione (50% dei 4 mila) e 3 mila euro per il comparto dei mobili e degli elettrodomestici.
Novità per la cedolare secca. Per il quadriennio 2014-2017, nei maggiori comuni d'Italia, nei comuni ad emergenza abitativa e nei comuni colpiti da calamità naturali negli ultimi cinque anni, l'aliquota della cedolare secca passa dal 15 al 10% per i contratti a canone concordato. Il regime della cedolare, inoltre, viene esteso anche alle abitazioni locate a cooperative edilizie per la locazione o a enti senza scopo di lucro, purché sublocate a studenti universitari e date a disposizione dei comuni con rinuncia all'aggiornamento del canone di locazione o assegnazione.
Tra le novità introdotte dal piano casa, arriva, inoltre, la possibilità, a partire dal 29.03.2014, di inserire la clausola di riscatto dell'unità immobiliare e le relative condizioni economiche, nelle convenzioni che disciplinano le modalità di locazione degli alloggi sociali. Il conduttore, quindi, potrà imputare i corrispettivi pagati al locatore in parte in conto del prezzo di acquisto futuro dell'alloggio e in parte in conto affitto. In questi casi, ai fini Irap e delle imposte sui redditi, i corrispettivi si considereranno come canoni di locazione e, nei casi in cui questo sia possibile, tali corrispettivi saranno parzialmente esentati dalle imposte sui redditi e da Irap.
Ai fini fiscali, inoltre, in caso di riscatto dell'unità immobiliare, l'esercizio di competenza in cui si considerano conseguiti i corrispettivi derivanti dalla cessione è quello in cui avviene l'effetto traslativo della proprietà del bene mentre, le eventuali imposte correlate agli acconti costituiscono un credito di imposta (si veda ItaliaOggi del 15.05.2014).
L'esercizio del diritto di riscatto dell'immobile necessita, però, del rispetto di alcune condizioni, la prime della quali, pone il vincolo temporale dei sette anni. L'opzione, infatti, non può essere esercitata prima di sette anni dall'inizio della locazione e, solo ed esclusivamente, da parte dei conduttori privi di altra abitazione di proprietà adeguata alle esigenze del nucleo familiare. L'art. 8 rubricato «Riscatto a termine dell'alloggio sociale», stabilisce, inoltre, il divieto di rivendere l'immobile prima dello scadere dei 5 anni.
Posto il rispetto di queste condizioni, il conduttore, fino alla data del riscatto dell'alloggio sociale, ha la facoltà di imputare i corrispettivi pagati al locatore: parte in conto del prezzo di acquisto futuro dell'alloggio, parte in conto affitto. Ai fini delle imposte sui redditi e dell'Irap, i corrispettivi si considerano canoni di locazione, anche se imputati in conto del prezzo di acquisto futuro dell'alloggio, ricevendo lo stesso trattamento fiscale.
Ai fini Irpef, infine, se ricorrono le condizioni, il conduttore potrà usufruire della detrazione per canoni di locazione prevista dall'art. 7. In quest'ultimo caso, invece, ai fini Irap, le società di persone e gli imprenditori individuali potranno portare in detrazione anche i costi dei canoni di locazione di beni strumentali (articolo ItaliaOggi del 21.05.2014).

APPALTIImprese, crediti e debiti compensabili con tutte le p.a..
Compensazione a tutto campo fra crediti commerciali verso le pubbliche amministrazioni e debiti fiscali delle imprese.

Fra gli emendamenti del Governo alla legge di conversione del dl 66/2014, infatti, è stato inserito un correttivo che estende tale possibilità all'intero settore pubblico, superando le limitazioni attualmente previste dagli artt. 28-quater e 28-quinquies del dpr 602/1073.
L'art. 28-quater prevede la possibilità di utilizzare i crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili per somministrazione, forniture e appalti, in compensazione con le somme dovute a seguito di iscrizione a ruolo. Il successivo art. 28-quinquies, invece, disciplina un analogo meccanismo di compensazione dei medesimi crediti con le somme dovute in base agli istituti definitori della pretesa tributaria e deflativi del contenzioso tributario. Attualmente, entrambi gli istituti sono utilizzabili esclusivamente per i crediti vantati nei confronti dello Stato, degli enti pubblici nazionali, delle regioni, degli enti locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale.
L'emendamento al dl 66, invece, ne estende il perimetro a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001. Per effetto di tale modifica, la compensazione si applicherà anche a tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, alle aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, alle istituzioni universitarie, agli Istituti autonomi case popolari, alle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, a tutti gli enti pubblici non economici regionali e locali ed alle agenzie ministeriali di cui al decreto legislativo 30.07.1999, n. 300.
Fino alla revisione organica della disciplina di settore, anche il Coni è considerato pubblica amministrazione e quindi rientra nel perimetro della compensazione. In pratica, quindi, tutti crediti per somministrazione, forniture e appalti vantati nei confronti di soggetti che utilizzano denaro pubblico potranno essere utilizzati per abbattere le pretese del fisco nei confronti delle imprese creditrici, ovviamente nei limiti consentiti e con le modalità previste dalle due citate disposizioni.
La novità passa attraverso la modifica dell'art. 30 del dl 66, che già nella versione attualmente vigente ha rafforzato il meccanismo della compensazione crediti commerciali/debiti fiscali, in particolare mettendo a regime il meccanismo previsto dall'art. 28-quinquies attraverso l'eliminazione dell'inciso che in precedenza lo circoscriveva ai sili crediti maturati al 31.12.2012. Nella stessa prospettiva, agisce l'art. 40, che ha differito al 30.09.2013 il termine di notifica delle cartelle esattoriali ai fini della compensabilità con i crediti certificati (articolo ItaliaOggi del 21.05.2014).

VARISpeciale immobili e fisco. Dal frigo ai mobili, bonus «semplificato». È legge il decreto casa - Sgravi anche oltre la spesa per ristrutturazione, ma entro i 10mila euro.
Bonus mobili operativo, dopo l'approvazione definitiva, ieri alla Camera del decreto casa, che ha fatto seguito al voto di fiducia di lunedì. A favore del decreto hanno votato 277 deputati della maggioranza, 92 i no di M5S e Sel, mentre Fi e Fdi non hanno partecipato al voto.
Molte novità –quelle più complesse sull'edilizia sociale e sullo stanziamento di fondi statali– richiedono misure attuative. Per dispiegare a pieno i suoi effetti, il Piano casa ha infatti bisogno di 9 decreti ministeriali (alcuni di concerto con il Mef) oltre a delibere del Cipe e intese in conferenza unificata. Altre misure –come la cedolare secca (si veda articolo a fianco) e il bonus mobili– hanno una ricaduta immediata, a partire dall'entrata in vigore della legge di conversione.
La novità più importante riguarda la semplificazione relativa al bonus mobili. La scadenza per lo sgravio è fissata alla fine di quest'anno, ma la norma consente di recuperare, entro i massimali consentiti, anche le spese sostenute a partire dal 06.06.2013. La detrazione Irpef del 50% per l'acquisto di arredi viene liberata da una serie di vincoli: in sintesi, all'indomani della pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» della legge di conversione, lo sconto non sarà più legato all'ammontare della ristrutturazione e potrà, eventualmente, anche superarlo.
Questo avviene per effetto dell'eliminazione di una modifica portata dall'ultima legge di stabilità. Un'eliminazione che, peraltro, recupera una misura già inserita nel decreto salva Roma (Dl n. 151/2013), decaduto senza essere stato convertito.
È utile, per fare ordine, riepilogare come funziona il bonus in questa nuova versione. La prima condizione è che sia in corso una ristrutturazione edilizia, per la quale siano state chieste detrazioni. Coloro che ne fruiscono potranno richiedere anche lo sconto del 50% per le ulteriori spese, documentate e sostenute appunto dal 06.06.2013 al 31.12.2014, per l'acquisto di mobili, grandi elettrodomestici, come frigoriferi e lavatrici, in classe non inferiore alla A+ e forni di classe A. Dovrà trattarsi di mobili nuovi.
Bisogna ricordare che per la ristrutturazione resta fermo il limite massimo di spesa di 96mila euro. Mentre per il bonus mobili il tetto massimo di spesa, ancora in vigore, è di 10mila euro. Inoltre, gli arredi dovranno servire l'unità immobiliare alla quale è collegata la ristrutturazione. Una nota importante: nei 10mila euro potranno essere conteggiate anche le spese di trasporto e montaggio. Lo sconto, comunque, andrà spalmato su più dichiarazioni dei redditi, ripartendolo in dieci quote annuali di pari importo. E dividendolo, eventualmente, tra tutti gli aventi diritto, ad esempio nel caso in cui ci siano più proprietari.
A completare il quadro del nuovo bonus, poi, c'è una precisazione significativa. L'articolo 7 del decreto appena convertito, infatti, stabilisce che le spese per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici «sono computate, ai fini della fruizione della detrazione di imposta, indipendentemente dall'importo delle spese sostenute per i lavori di ristrutturazione che fruiscono delle detrazioni». Si tratta di una formulazione piuttosto oscura che sembra, però, alludere a un chiarimento importante: le spese per gli arredi andranno conteggiate separatamente da quelle per le ristrutturazioni. E i relativi massimali (10mila e 96mila euro) andranno calcolati in maniera indipendente.
All'indomani dell'approvazione sono già arrivate richieste volte ad ampliare i benefici. «Rendere strutturale il bonus sugli arredi» chiede il sottosegretario allo Sviluppo economico, Simona Vicari. I costruttori dell'Ance vorrebbero estendere alle imprese i benefici della cedolare secca dell'affitto a riscatto». Legambiente lancia invece l'allarme di possibili speculazioni consentite dalla possibilità –anche questa immediatamente operativa– che consente di non considerare una nuova costruzione strutture abitative leggere collocate in strutture ricettive all'aperto come campeggi o villaggi
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2014).

PATRIMONIOL'Anas paga i danni anche se la nevicata è fortissima. Strade bloccate. In dicembre caso non eccezionale.
Una nevicata, anche se fortissima, non può essere considerata un evento eccezionale. Quindi, l'ente proprietario della strada non può invocare il caso fortuito e deve risarcire gli utenti rimasti bloccati.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Firenze, con la sentenza 14.05.2014 sul caso di un gruppo di persone rimaste bloccate (alcune anche per 36 ore) sulla statale Tosco-Romagnola, durante la nevicata di metà dicembre 2010 che mise in ginocchio l'area fiorentina.
Il Tribunale è partito dall'articolo 14 del Codice della strada, che enuncia poteri e compiti degli enti proprietari di strade, facendo loro carico di manutenzione, gestione, pulizia e controllo tecnico dell'efficienza. Una formulazione tanto generale da essere non di rado ritenuta più come indicazione che come vero e proprio obbligo. I giudici fiorentini, invece, l'hanno intesa come fonte di responsabilità del custode (articolo 2051 del Codice civile).
Ciò implica che all'utente basti dimostrare di aver subìto il danno dalla cosa in custodia e che il custode possa sottrarsi alla responsabilità solo se prova l'eccezionalità e l'imprevedibilità dell'evento. E infatti è ciò che ha fatto l'Anas, ma i giudici hanno ritenuto che a Firenze in dicembre nessuna nevicata può essere ritenuta eccezionale, tanto più che era stata prevista dalla Protezione civile.
Tutto ciò, secondo la sentenza, avrebbe dovuto quantomeno far scattare un coordinamento tra Anas e gestori dell'autostrada e della superstrada Firenze-Pisa, per garantire che chi era bloccato sulla Tosco-Romagnola potesse essere raggiunto tempestivamente. Ma così non è stato. Di qui i risarcimenti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2014).

INCARICHI PROFESSIONALIIncarichi nelle partecipate a rischio di danno erariale. La personalità giuridica della società decide la giurisdizione. Professionisti e responsabilità. I limiti fissati dalle decisioni della Corte dei conti.
Amministratori, dipendenti e sindaci di società ed enti pubblici possono rispondere davanti alla Corte dei conti di eventuali danni arrecati all'impresa. La giurisdizione della Corte contabile, con tutte le conseguenze che ne possono derivare, è spesso sottovalutata –se non del tutto ignorata– dai professionisti che assumono incarichi all'interno di tali società ed enti. La circostanza non è di poco conto anche ai fini di un'idonea copertura assicurativa professionale.
Nell'ultimo periodo, peraltro, la stessa giurisprudenza non si è espressa in modo concorde nell'individuazione dei limiti della giurisdizione contabile che è tuttora oggetto di dibattito. Si tratta, infatti, di questione spesso sollevata nei giudizi da parte dei difensori di amministratori, sindaci, revisori e dipendenti che, a vario titolo, vengono citati in giudizio dalle Procure erariali per danni causati a società aventi veste di diritto privato, che svolgono servizi pubblici e sono partecipate da soci-amministrazioni pubbliche.
La giurisdizione della Corte dei conti, in tema di responsabilità, si radica nel regio decreto n. 1214/1934, articolo 13, per i danni arrecati all'erario da pubblici funzionari nell'esercizio delle loro funzioni. Tali limiti sono stati poi ampliati dalla legge n. 20/1994, che ha esteso il giudizio contabile alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza.
Nel 2013 ci sono state varie pronunce della Corte di Cassazione a sezioni unite civili (sentenza 08.02.2013 n. 3038, n. 7374, n. 8352, n. 10299, n. 20075, n. 20696, n. 26283, n. 26936, n. 27489 e n. 27993) che hanno ritenuto determinante per l'individuazione della giurisdizione l'autonoma personalità giuridica della società. Ne consegue che non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l'agente danneggiatore e l'ente pubblico titolare della partecipazione, anche se totalitaria: il danno è da considerare inferto soltanto al patrimonio della società.
In questi casi la giurisdizione spetta al giudice ordinario, con possibile attivazione attraverso l'esercizio delle azioni previste dal Codice civile, ovviamente in dovrà essere la società a rivestire la parte di attore nel giudizio.
Le conclusioni cui giungono i giudici di legittimità si basa, in buona sostanza, sull'autonoma personalità giuridica della società e sull'assenza di un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, non sussistendo così alcun danno erariale. I patrimoni dei due soggetti restano distinti ed è quello della società –che rimane un soggetto privato– che viene colpito e non quello dei singoli soci, siano essi privati o pubblici. Questi ultimi sono unicamente titolari delle proprie quote di partecipazione e i loro conferimenti nella società sono confusi e assorbiti nel patrimonio sociale.
La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto poi di devolvere alla Corte dei conti anche i procedimenti sulla responsabilità del concessionario privato di un pubblico servizio, quando lo stesso sia investito di funzioni obiettivamente pubbliche; in sostanza, quindi, ciò avviene quando il concessionario può essere qualificato come un organo indiretto dell'amministrazione (Cassazione n. 4112/2007).
Particolarmente delicata è invece la questione sulle società in house. Le sezioni unite della Cassazione hanno confermato la giurisdizione della Corte dei conti sull'azione diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati al patrimonio di tali società, se sono presenti tre fondamentali requisiti:
e la natura esclusivamente pubblica dei soci, cioè società costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui non possono far parte soggetti privati;
- l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore dei soci stessi: è comunque possibile che vi sia un'attività ulteriore e accessoria, purché non comporti una significativa presenza della società quale concorrente con altre imprese sul mercato di beni o servizi della stessa specie;
- l'assoggettamento a un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici ("controllo analogo"): l'ente pubblico partecipante deve avere il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società "in house", i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2014).

CONDOMINIO: Cause con i vicini senza tribunale. Mediazione obbligatoria ma l'assemblea deve autorizzare l'amministratore. Giustizia alternativa. Il ricorso a strumenti diversi permette di saltare la trafila (e le spese) del contenzioso.
L'istituto della mediazione serve a raggiungere un accordo ed evitare la lite in Tribunale. È stato in via generale istituito in Italia con il decreto legislativo 28/2010. Questa norma ne aveva previsto l'obbligatorietà, prima di attivare un giudizio avanti l'autorità giudiziaria (condizione di procedibilità), per alcune materie, fra le quali le controversie relative al condominio; tuttavia la Corte costituzionale con la sentenza n. 272 del 2012 aveva dichiarato illegittimo tale obbligo preventivo. Ora, con la legge 98/2013, per la materia condominiale è stata reintrodotta l'obbligatorietà preventiva del ricorso al mediatore e quindi l'istituto diventa nuovamente essenziale per le divergenze condominiali. Tuttavia è stata anche stabilita e disposta la partecipazione obbligatoria di un avvocato che assista e affianchi le parti, superando anche questo ostacolo.
L'accordo sottoscritto dagli stessi avvocati, oltre alle parti, che ne garantiscono la regolarità formale, costituisce per legge titolo esecutivo per l'espropriazione forzata, l'esecuzione per consegna e rilascio, l'esecuzione degli obblighi di fare e non fare, e l'iscrizione di ipoteca giudiziale. Il procedimento si deve concludere in 3 mesi, a cui si contrapporrebbe come alternativa una vertenza giudiziaria dai tempi indefinibili e dai costi decisamente superiori.
L'obbligatorietà del tentativo di accordo bonario comporta nuovamente l'improcedibilità del giudizio se non viene concretamente attivato ed esperito, e interessante è la recente pronunzia del Tribunale di Firenze (sezione II, sentenza del 19/03/2014) che ha ritenuto come non verificata la condizione se le parti non abbiano realmente avviato la procedura di mediazione e almeno tentato di raggiungere concretamente un accordo, non considerando sufficiente, come talvolta avviene ed è previsto dal nuovo articolo 8 della norma, la mera comparsa avanti il mediare per dichiarare di non voler attivare il tentativo di accordo.
L'unico neo sta nel fatto che l'amministratore, non solo per proporre un ricorso al mediatore (diversi sono gli Organismi preposti: Consigli dell'Ordine Avvocati, Camere di Commercio, Associazioni di categoria, eccetera) ma anche solo per partecipare a un procedimento promosso contro il condominio senza assumere ancora alcuna decisione, si debba far autorizzare dall'assemblea (e sarebbe il minore dei mali), ma con l'approvazione di una maggioranza difficilmente raggiungibile (500 millesimi), che rischia di vanificare in molti casi l'utilizzo delle strumento.
L'inconveniente è nato da una svista tra la Riforma del condominio (articolo 71-quater del Codice civile, riformato dalla legge 220/2012) e la normativa specifica della mediazione obbligatoria (Dlgs 28/2010, modificato).
Peraltro la norma dell'articolo 71-quater prevede la maggioranza qualificata (500 millesimi) per l'approvazione di una proposta di mediazione, che è quella che solo il mediatore può fare, ma tace sulle maggioranze prescritte per approvare l'accordo spontaneamente raggiunto
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2014).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul risarcimento del danno dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo.
L’art. 2-bis l. 07.08.1990 n. 241, afferma (comma 1) che le pubbliche amministrazioni (e gli altri soggetti indicati) “sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto, cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Il successivo comma 1-bis, introdotto dall’art. 28 d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013, prevede, nei soli procedimenti ad istanza di parte, e con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, il riconoscimento di un indennizzo, nei modi e alle condizioni successivamente stabiliti, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento.
Come appare evidente, la norma di cui al comma 1 non collega l’ipotesi risarcitoria al mero superamento del termine di conclusione del procedimento amministrativo (senza che sia intervenuta l’emanazione del provvedimento finale), ma pone l’inosservanza del termine normativamente previsto come presupposto causale del danno ingiusto eventualmente cagionato “in conseguenza” dell’inosservanza dolosa o colposa di detto termine.
Tale interpretazione, chiaramente desumibile dal dettato normativo, è ulteriormente avvalorata dalla espressa previsione del successivo comma 1-bis, con il quale il legislatore ha voluto, per cassi determinati, prevedere (non già il risarcimento del danno ma) il riconoscimento di un indennizzo per i casi di inosservanza del termine di conclusione del procedimento. In definitiva, l’inosservanza del termine di conclusione procedimentale comporta:
- in generale, il risarcimento del danno ingiusto, qualora –con dimostrazione del nesso di causalità– questo consegua alla predetta inosservanza colposa o dolosa della pubblica amministrazione;
- nei casi espressamente previsti, il riconoscimento di un indennizzo, il titolo a ricevere il quale (nelle condizioni previste dalla legge) sorge per il solo fatto del superamento del termine e che –ove concorra con la distinta obbligazione risarcitoria– è detratto dalla somme complessivamente riconosciuta a tale ultimo titolo.

L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto (rendendosi in tal modo superfluo l’esame delle proposte eccezioni di inammissibilità), con conseguente conferma della sentenza impugnata, con le integrazioni di motivazione di seguito esposte.
L’art. 2-bis l. 07.08.1990 n. 241, afferma (comma 1) che le pubbliche amministrazioni (e gli altri soggetti indicati) “sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto, cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Il successivo comma 1-bis, introdotto dall’art. 28 d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013, prevede, nei soli procedimenti ad istanza di parte, e con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, il riconoscimento di un indennizzo, nei modi e alle condizioni successivamente stabiliti, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento.
Come appare evidente, la norma di cui al comma 1 non collega l’ipotesi risarcitoria al mero superamento del termine di conclusione del procedimento amministrativo (senza che sia intervenuta l’emanazione del provvedimento finale), ma pone l’inosservanza del termine normativamente previsto come presupposto causale del danno ingiusto eventualmente cagionato “in conseguenza” dell’inosservanza dolosa o colposa di detto termine.
Tale interpretazione, chiaramente desumibile dal dettato normativo, è ulteriormente avvalorata dalla espressa previsione del successivo comma 1-bis, con il quale il legislatore ha voluto, per cassi determinati, prevedere (non già il risarcimento del danno ma) il riconoscimento di un indennizzo per i casi di inosservanza del termine di conclusione del procedimento. In definitiva, l’inosservanza del termine di conclusione procedimentale comporta:
- in generale, il risarcimento del danno ingiusto, qualora –con dimostrazione del nesso di causalità– questo consegua alla predetta inosservanza colposa o dolosa della pubblica amministrazione;
- nei casi espressamente previsti, il riconoscimento di un indennizzo, il titolo a ricevere il quale (nelle condizioni previste dalla legge) sorge per il solo fatto del superamento del termine e che –ove concorra con la distinta obbligazione risarcitoria– è detratto dalla somme complessivamente riconosciuta a tale ultimo titolo.
Ambedue le ipotesi, e segnatamente (per quel che interessa nella presente sede) quella del risarcimento del danno ingiusto, nel considerare l’inosservanza di un termine per la conclusione di un procedimento, presuppongono appunto che si verta nell’ambito di un procedimento amministrativo, non potendo le norme applicarsi a casi di attività della pubblica amministrazione diversa da quella procedimentalizzata. Vale a dire a quella attività, costituente procedimento amministrativo, caratterizzata dalla presenza di un potere amministrativo da esercitare e (di norma) destinata a concludersi con l’emanazione di un provvedimento amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.05.2014 n. 2638 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragione in considerazione della sua ampia portata in relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione dare conto, sia pure con motivazione di carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti.
L'onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”, così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione.
Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare, con considerazioni che devono intendersi riconfermate nella presente sede: “le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.

L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata, anche alla luce delle ulteriori considerazioni esposte nella presente sede ed integranti la sua motivazione.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire, nella presente sede, principi già espressi dalla giurisprudenza in relazione all’esercizio del potere di pianificazione urbanistica ed alla natura della motivazione delle scelte in tal modo effettuate.
Il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragione in considerazione della sua ampia portata in relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione dare conto, sia pure con motivazione di carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti (Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012 n. 2710).
Tanto affermato sul piano generale, occorre ricordare che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478), così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione (Cons. Stato, n. 2710/2012 cit.).
Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. IV, 08.06.2011 n. 3497), con considerazioni che devono intendersi riconfermate nella presente sede: “le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute
” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.05.2014 n. 2636 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ai sensi e per gli effetti dell'art. 192 del D.Lgs. 152/2006, il proprietario del terreno sul quale insistono rifiuti abbandonati è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento degli stessi ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il responsabile dell'abbandono e con i titolari di diritti reali o personali di godimento dell'area, solo se ad esso tale abbandono sia imputabile a titolo di dolo o di colpa.
In ogni caso l'accertamento della responsabilità in merito alla violazione del divieto di abbandono spetta al Comune e deve essere effettuata in contraddittorio con i soggetti interessati.

... per l'annullamento dei provvedimenti di diffida a presentare un programma aggiornato per asporto e smaltimento del terreno contaminato del 18 maggio e 06.04.2009.
...
Nel merito il ricorso è fondato.
Con riferimento al primo motivo osserva il Collegio che deve ovviamente applicarsi la normativa in materia di abbandono di rifiuti, in quanto i provvedimenti impugnati sono stati emanati a conclusione di un procedimento avente per oggetto "presenza di rifiuti abbandonati in loc. Ca' Brusa'", per cui, ai sensi e per gli effetti dell'art. 192 del D.Lgs. 152/2006, il proprietario del terreno sul quale insistono rifiuti abbandonati è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento degli stessi ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il responsabile dell'abbandono e con i titolari di diritti reali o personali di godimento dell'area, solo se ad esso tale abbandono sia imputabile a titolo di dolo o di colpa. In ogni caso l'accertamento della responsabilità in merito alla violazione del divieto di abbandono spetta al Comune e deve essere effettuata in contraddittorio con i soggetti interessati (ex multis: Cons. St., sez. V, n. 935/2005 e 323/2005).
Nel caso di specie il comune non ha compiuto alcun accertamento volto ad identificare i responsabili dell'abbandono e tantomeno ha contestato la violazione in contraddittorio con i soggetti interessati. Tutto ciò emerge con chiarezza dalla semplice lettura dei provvedimenti impugnati. Nella parte motiva dei provvedimenti impugnati il dirigente del C.d.R. Ambiente parte dalla premessa di essere venuto a conoscenza del fatto che nell'area dell'ex cava denominata Ca' Brusa' vi era depositato un cumulo di mc. 761 di terre di fonderia solo con il deposito del progetto di bonifica ai sensi dell'art. 249 D.Lgs. 152/2006 depositato dall'arch. Scandola.
Risulta invece documentalmente provato che il Comune era a conoscenza dell'abbandono nella cava delle terre di fonderia ancora negli anni '90 e che il deposito del progetto di bonifica richiamato era inserito all'interno di un procedimento iniziato da anni e volto ad ottenere l'autorizzazione ad un intervento, dapprima di discarica e poi di recupero paesaggistico, interventi da sempre indicati come necessari per la sostenibilità economica di una bonifica dell'area.
Il Comune pertanto non solo non ha svolto alcuna istruttoria volta ad individuare i responsabili dell'abbandono, ma è giunto ad emettere i provvedimenti impugnati in assenza di contraddittorio con i diretti interessati, senza spendere sul punto due righe di motivazione, il tutto in palese violazione di quanto statuito dall'art. 192 sopracitato.
Nel caso di specie, risulta comunque anche documentalmente provato che nessuna responsabilità è addebitabile al sig. Carmagnani per l'abbandono di rifiuti contestato, abbandono che risale ad un periodo antecedente all'acquisto del terreno da parte dello stesso e che nessuna istruttoria ha svolto il Comune per ricercare i veri responsabili dell'abbandono.
Vanno pertanto annullate le diffide che sono dirette a costringere il ricorrente ad un "facere" e precisamente la presentazione di un piano programma aggiornato per l'asporto e lo smaltimento del terreno contaminato, presentazione evidentemente considerata come prima fase di un'operazione di smaltimento di rifiuti al quale egli, come proprietario non responsabile dell'abbandono, non è tenuto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.05.2014 n. 702 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 146 del d.lgs. 42/2004 delinea un sistema in cui, dopo la inutile scadenza del termine assegnato al soprintendente per l’emissione del parere, questo può ancora essere reso o conferito oralmente nell’ambito di una conferenza di servizi che l’amministrazione competente acquisisce il potere di indire, con le ivi previste regole specifiche ed evidentemente derogatorie rispetto al procedimento disciplinato dalla normativa generale ex artt. 14 e segg. della l. 241/1990.
La conferenza dei servizi ex art. 146, c. 9, succitato è infatti disciplinata dalla normativa speciale fissata da tale norma e caratterizzata dal termine perentorio di 15 giorni per la conclusione dei suoi lavori, palesemente inconciliabile con qualunque possibilità di applicazione delle norme riguardanti la conferenza di servizi per così dire “ordinaria”, caratterizzata da termini molto più “rilassati”; invece il termine perentorio di cui sopra, unito anche al termine ultimativo generale di 60 giorni ed al più lungo termine iniziale previsto per la emissione del parere del soprintendente dimostrano che nel caso di specie non è applicabile la disciplina generale della conferenza di servizi, il che deve valere, ovviamente, anche per l’ipotesi in cui il parere, che intervenga in tale sede, abbia contenuto negativo.
Se tale ipotesi si verifica non potrà quindi ad esso nemmeno riconoscersi alcun valore predominante e/o paralizzante e tale da far scattare il particolare meccanismo delineato dall’art. 14-quater, c. 3^; il parere soprintendentizio dovrà invece essere preso in esame dalla conferenza alla pari con gli altri pareri istruttori delle altre amministrazioni chiamate a parteciparvi ed avrà l’effetto di richiedere una specifica valutazione e motivazione in relazione al suo eventuale disattendimento, non diversamente da quanto dovrà accadere per altre manifestazioni di opinione, in ossequio alle generali regole di trasparenza dell’azione amministrativa.
Se quindi deve ritenersi indubbia la perdita della natura vincolante del parere espresso in sede di conferenza di servizi è evidente che sarebbe illogico e contraddittorio riconoscere perdurante natura di parere vincolante al parere tardivamente espresso, se la conferenza di servizi non viene convocata e anche quei termini vengono lasciati inutilmente scadere.
Invero, se una siffatta situazione si verifica, si deve riscontrare, anzitutto, che tutti i termini di legge risultano violati, non solo quello per l’emissione del parere del Soprintendente ma anche quello (ultimativo) di sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente dettato dall’art. 9 per l’adozione “in ogni caso" di una decisione da parte della competente amministrazione (..”, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione.“).
Per tutte le considerazioni sopra esplicitate il Collegio ritiene di dover necessariamente concludere che l’inutile decorso dei 45 giorni di cui al comma 8 comporta la perdita del potere della Soprintendenza di emettere un parere con natura vincolante.

Il Collegio rileva anzitutto che la precedente sentenza di questo TAR n. 1295/2013 si riferiva ad una situazione non identica in punto di fatto, dato che, in tal caso, era effettivamente intervenuta, dopo il tardivo parere soprintendentizio, una nota comunale di trasmissione dello stesso, che quindi implicava una volontà comunale di mancato autonomo pronunciamento e di adesione al parere della Soprintendenza.
Nel caso di specie, invece, si deve rilevare che, dopo l’emissione del parere di cui si dibatte, il Comune non si è ancora in alcun modo attivato, circostanza che il Collegio ritiene tutt’altro che irrilevante per le ragioni successivamente esposte.
Il Collegio non ignora la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 4914/2013 che ha affermato in buona sostanza che, non avendo il Codice determinato che dopo la scadenza del termine vi sia la perdita del potere di pronunciarsi da parte dell’amministrazione, né previsto alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo, la appellata sentenza del TAR Campania sezione di Salerno andava dichiarata nulla, perché si era limitata ad affermare la tardività del parere della Soprintendenza senza ulteriormente esplicitare le ragioni della decisione né esaminare il quadro normativo di riferimento.
Di fatto poi la sesta sezione ha proceduto a tale esame ed ha affermato che, anche dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 146, comma 5, e 167, comma 5, del d.lgs. 42/2004, il potere della Soprintendenza continua a sussistere. In particolare il Consiglio di Stato ha affermato, con inciso collocato tra parentesi, “tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante...” ed ha ulteriormente specificato che la perentorietà del termine andava intesa come riferita non alla sussistenza del potere o alla legittimità dello stesso ma all’obbligo di concludere la fase del procedimento.
E’ invero con riferimento a tale sviluppo del ragionamento che il Collegio ritiene che l’analisi della normativa possa invece condurre a differenti conclusioni e che quindi le conclusioni sopra riportate meritino di essere significativamente ripensate.
Nel caso di specie lo stesso atto impugnato richiama l’art. 146, c. 8, del d.lgs. 42/2004 ma, ad avviso del Collegio, l’art 146 deve essere letto nel suo insieme e, in particolare rileva il combinato disposto dei commi 5, 8 e 9 che, è bene ricordarlo, così dispongono: “5. Sull'istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge, ai sensi del comma 1, salvo quanto disposto all'articolo 143, commi 4 e 5. Il parere del soprintendente, all'esito dell'approvazione delle prescrizioni d'uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell'avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante ed e' reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, decorsi i quali l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione….
…8. Il soprintendente rende il parere di cui al comma 5, limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all'articolo 140, comma 2, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti. Il soprintendente, in caso di parere negativo, comunica agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell'articolo 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241. Entro venti giorni dalla ricezione del parere, l'amministrazione provvede in conformità .
9. Decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il soprintendente abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto. La conferenza si pronuncia entro il termine perentorio di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione. Con regolamento da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, entro il 31.12.2008, su proposta del Ministro d'intesa con la Conferenza unificata, salvo quanto previsto dall'articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, sono stabilite procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in relazione ad interventi di lieve entità in base a criteri di snellimento e concentrazione dei procedimenti, ferme, comunque, le esclusioni di cui agli articoli 19, comma 1 e 20, comma 4 della legge 07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni.

Pertanto la normativa delinea un sistema in cui, dopo la inutile scadenza del termine assegnato al soprintendente per l’emissione del parere, questo può ancora essere reso o conferito oralmente nell’ambito di una conferenza di servizi che l’amministrazione competente acquisisce il potere di indire, con le ivi previste regole specifiche ed evidentemente derogatorie rispetto al procedimento disciplinato dalla normativa generale ex artt. 14 e segg. della l. 241/1990; la conferenza dei servizi ex art. 146, c. 9, succitato è infatti disciplinata dalla normativa speciale fissata da tale norma e caratterizzata dal termine perentorio di 15 giorni per la conclusione dei suoi lavori, palesemente inconciliabile con qualunque possibilità di applicazione delle norme riguardanti la conferenza di servizi per così dire “ordinaria”, caratterizzata da termini molto più “rilassati”; invece il termine perentorio di cui sopra, unito anche al termine ultimativo generale di 60 giorni ed al più lungo termine iniziale previsto per la emissione del parere del soprintendente dimostrano che nel caso di specie non è applicabile la disciplina generale della conferenza di servizi, il che deve valere, ovviamente, anche per l’ipotesi in cui il parere, che intervenga in tale sede, abbia contenuto negativo.
Se tale ipotesi si verifica non potrà quindi ad esso nemmeno riconoscersi alcun valore predominante e/o paralizzante e tale da far scattare il particolare meccanismo delineato dall’art. 14-quater, c. 3^; il parere soprintendentizio dovrà invece essere preso in esame dalla conferenza alla pari con gli altri pareri istruttori delle altre amministrazioni chiamate a parteciparvi ed avrà l’effetto di richiedere una specifica valutazione e motivazione in relazione al suo eventuale disattendimento, non diversamente da quanto dovrà accadere per altre manifestazioni di opinione, in ossequio alle generali regole di trasparenza dell’azione amministrativa.
Se quindi deve ritenersi indubbia la perdita della natura vincolante del parere espresso in sede di conferenza di servizi è evidente che sarebbe illogico e contraddittorio riconoscere perdurante natura di parere vincolante al parere tardivamente espresso, se la conferenza di servizi non viene convocata e anche quei termini vengono lasciati inutilmente scadere. Invero, se una siffatta situazione si verifica, si deve riscontrare, anzitutto, che tutti i termini di legge risultano violati, non solo quello per l’emissione del parere del Soprintendente ma anche quello (ultimativo) di sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente dettato dall’art. 9 per l’adozione “in ogni caso" di una decisione da parte della competente amministrazione (..”, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione.“).
Ci si trova, pertanto, in una situazione contraddistinta da una palese violazione di termini perentori da parte di tutte le amministrazioni interessate e questo pare al Collegio non possa giustificare in alcun modo il “recupero”, da parte del parere soprintendentizio di quella natura vincolante che aveva già pacificamente perso se l’amministrazione competente avesse proceduto nei termini ad indire conferenza di servizi ed esso fosse stato reso in tale sede.
Per tutte le considerazioni sopra esplicitate il Collegio ritiene di dover necessariamente concludere che l’inutile decorso dei 45 giorni di cui al comma 8 comporta la perdita del potere della Soprintendenza di emettere un parere con natura vincolante.
Nel caso di specie non vi è alcuna possibilità di dubbio circa la tardività di tale parere, che è infatti intervenuto in data 17.12.2013 mentre gli atti erano stati ricevuti il 13.08.2013; anche tenendo conto della comunicazione dei motivi ostativi (ricevuta in data 16.09.2013) e non computando nei termini i dieci giorni concessi per la presentazione di osservazioni, è ictu oculi evidente che tutti i termini sono stati lasciati ampiamente scadere, sia quello a disposizione del Soprintendente per l’emissione del parere che quello fissato al Comune per indire una conferenza dei servizi e quello finale e conclusivo dei sessanta giorni per provvedere “in ogni caso”.
In tale contesto è pertanto evidente che il tardivo parere della Soprintendenza si colloca del tutto al di fuori del quadro normativo e non può più rivestire natura di parere vincolante (conforme la consolidata giurisprudenza del TAR Puglia Lecce di cui vedasi da ultimo TAR Lecce (Puglia) sez. I n. 252 del 24/01/2014 e anche TAR Trieste (Friuli-Venezia Giulia) N. 343 del 03/09/2012).
Il Collegio ritiene quindi che il parere soprintendentizio impugnato non abbia natura vincolante e che l’amministrazione competente (nel caso di specie Il Comune di San Michele al Tagliamento) abbia sicuramente l’obbligo di concludere il procedimento valutando tale parere istruttorio e la motivazione su cui lo stesso poggia alla stregua e unitamente agli altri pareri istruttori acquisiti nel corso del procedimento (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.05.2014 n. 698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: E' la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi.
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Sulla sussistenza della giurisdizione del G.O. relativamente ad una controversia inerente alla pretesa perdita di efficacia del contratto quale effetto dell'annullamento in sede giurisdizionale di atti legati al rapporto negoziale.

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Quando un operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui può affermarsi che è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi.
Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione.
Nel caso di specie, la remunerazione spettante alla società in conseguenza dell'affidamento consisteva unicamente nel corrispettivo stabilito in sede di lex specialis -al netto del ribasso di gara- a carico dell'amministrazione comunale e non si accompagnava in alcun modo con ulteriori forme di remunerazione direttamente o indirettamente ricadenti sui fruitori finali sei servizi. Ne consegue che l'affidamento operato dal Comune nei confronti della società deve qualificarsi (non come concessione di servizi, bensì) come appalto di servizi ai sensi del c. 10 dell'art. 3 del decreto legislativo n. 163 del 2006.
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Nell'ambito dell'attività negoziale della p.a. tutte le controversie che attengono alla fase preliminare -antecedente e prodromica alla stipulazione del contratto- inerente alla formazione della sua volontà ed alla scelta del contraente privato in base alle regole cd. dell'evidenza pubblica, appartengono al G.A., mentre quelle che radicano le loro ragioni nella fattispecie negoziale successiva che dalla stipulazione del contratto contempla le vicende del suo adempimento, e riguardano la disciplina dei rapporti che dal contratto scaturiscono, sono devolute al G.O..
Con la sottoscrizione del contratto, inoltre, si instaura tra le parti un vincolo negoziale iure privatorum comportante che tutte le controversie attinenti alla sua esecuzione devono ascriversi alla giurisdizione ordinaria -configurabile quando si discuta sia della esistenza giuridica delle obbligazioni gravanti su ciascuno dei contraenti sia del come il contratto vada eseguito tra le parti-; appartengono, invece, al G.A. tutte quelle controversie che attengono alla fase preliminare -antecedente e prodromica al contratto- inerente alla formazione della volontà di contrarre da parte dell'amministrazione (o del concessionario) ed alla scelta del contraente privato in base alle regole cd. dell'evidenza pubblica.
Pertanto, nel caso di specie, non può ritenersi attratta alla giurisdizione del G.A. la presente controversia, in cui non si fa questione della perdita di efficacia del contratto con la s.r.l. conseguente all'annullamento dell'aggiudicazione, bensì della diversa questione relativa alla pretesa perdita di efficacia dello stesso quale effetto dell'annullamento in sede giurisdizionale di atti legati al rapporto negoziale che qui viene in rilievo da un asserito vincolo di presupposizione (in particolare: si tratta dell'annullamento dei provvedimenti con cui il Comune aveva deciso di revocare l'affidamento in favore della 'Porto di Tropea', di internalizzare il servizio e di concedere a sé stesso l'area demaniale) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.05.2014 n. 2624 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina delle distanze tra i fabbricati va ricondotta alla materia dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Deve però essere precisato che «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, [sicché] la disciplina che li riguarda –ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
Dunque, se, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella competenza legislativa statale esclusiva, alle Regioni è comunque consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nella normativa statale, anche se unicamente a condizione che tale deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Ne consegue che la legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio». Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità, risultano invasive della materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza –statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»–, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile. Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 6, lettera g), della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013 non è fondata, nei sensi di seguito precisati.
La disciplina delle distanze tra i fabbricati va ricondotta alla materia dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 6 del 2013, n. 114 del 2012, n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Deve però essere precisato che «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, [sicché] la disciplina che li riguarda –ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
Dunque, se, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella competenza legislativa statale esclusiva, alle Regioni è comunque consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nella normativa statale, anche se unicamente a condizione che tale deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Ne consegue che la legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005). Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità, risultano invasive della materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza –statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»–, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013).
Tale principio è stato sostanzialmente recepito dal legislatore statale con l’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98, che ha inserito, dopo l’art. 2 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), l’art. 2-bis, a norma del quale «Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
La norma regionale impugnata dev’essere, dunque, scrutinata alla luce dei suesposti princìpi. Essa s’inserisce in un elenco di varianti ai piani vigenti alla data di entrata in vigore della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013, che, nel quadro di una normativa transitoria applicabile nelle aree industriali lucane, è previsto siano adottate e approvate dal consiglio di amministrazione del Consorzio territorialmente competente, in deroga alla normale procedura regolata dai commi precedenti dello stesso art. 29, «anche su istanza degli operatori economici insediati o che intendano insediarsi nell’area, […] previo espletamento delle procedure di partecipazione per osservazione di cui all’art. 9, comma 2, della legge regionale 11.08.1999, n. 23».
Le varianti di cui alla disposizione regionale denunciata attengono, dunque, a strumenti urbanistici mirati (come i piani di area di sviluppo industriale), i quali producono, a norma dell’art. 51, sesto comma, del d.P.R. 06.03.1978, n. 218 (Testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno), «gli stessi effetti giuridici del piano territoriale di coordinamento di cui alla legge 17.08.1942, n. 1150». Tanto determina, per i Comuni ricadenti nell’ambito del piano, l’obbligo di adeguare ad esso i propri strumenti urbanistici [art. 6 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica)].
Conseguentemente, ricorre nella specie quella finalizzazione urbanistica dell’intervento regionale, intesa alla costruzione di un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, che costituisce l’estrinsecazione della relativa competenza legislativa regionale.
Peraltro, venendo in rilievo una competenza concorrente riguardo ad una materia che, relativamente alla disciplina delle distanze, interferisce con altra di spettanza esclusiva dello Stato, non v’è dubbio che debbano essere comunque osservati i principi della legislazione statale quali «si ricavano dall’art. 873 cod. civ. e dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 230 del 2005).
Quindi, seppure il regime delle distanze ha la sua prima collocazione nel codice civile, la stessa disciplina ivi contenuta è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il d.m. n. 1444 del 1968, costituente un corpo unico con la regolazione codicistica.
Per tali ragioni d’ordine sistematico, l’esplicito richiamo al codice civile contenuto nell’art. 29, comma 6, lettera g), della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013 deve essere inteso come riferito all’intera disciplina civilistica di cui il citato decreto ministeriale è parte integrante e fondamentale.
Così interpretata, la disposizione regionale censurata risulta pienamente rispettosa della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia civilistica dei rapporti interprivati, appunto perché essa impone il rispetto del codice civile e di tutte le disposizioni integrative dettate in tema di distanze nell’ambito dell’ordinamento civile, comprese quelle di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 (Corte Costituzionale, sentenza 21.05.2014 n. 134).

CONSIGLIERI COMUNALILa giurisprudenza ricomprende costantemente, fra i soggetti tenuti all’ostensione dei documenti amministrativi, pure quelli con personalità giuridica di diritto privato che siano gestori di pubblici servizi; essi devono garantire l’accesso in relazione all’esercizio del pubblico servizio loro affidato (quale è senz’altro lo smaltimento e il trattamento dei rifiuti urbani svolto da Tecnocasic S.p.A.), che come tale è riconducibile ad un interesse della collettività.
Peraltro la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che l’attività nei cui confronti deve essere garantito il diritto di accesso non è solo quella di diritto amministrativo, ma anche quella di diritto privato, posta in essere dai soggetti gestori di pubblici servizi che, pur non costituendo direttamente gestione del servizio, sia collegata a quest’ultima da un nesso di strumentalità derivante anche, sul versante soggettivo, dalla intensa conformazione pubblicistica.
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Circa il diritto di accesso del consigliere comunale, di cui al vigente art. 43, comma 2 del D.Lgs. n. 267/2000, com’è noto, si tratta di un diritto che trova il suo presupposto non nella generale previsione degli articoli 22 e seguenti della L. n. 241/1990 relativa all’accesso del privato ai documenti amministrativi, bensì nello specifico potere di verifica e di sindacato che spetta ai membri del Consiglio, in funzione del proprio mandato elettivo, sulla correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale.
In particolare, il diritto di accesso riconosciuto ai componenti degli organi rappresentativi degli enti territoriali ha un’indole profondamente diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini, essendo sganciato dalla titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale correlato all’esigenza di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti: infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello riconosciuto ai consiglieri degli organi elettivi è strettamente funzionale all’esercizio del proprio mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell’ente territoriale, ai fini della tutela degli interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
In caso di diritto d’accesso azionato ai sensi dell’art. 43, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000 nei confronti del consigliere comunale non può essere opposto il limite della riservatezza dei terzi, essendo il consigliere comunque tenuto al vincolo del segreto.

Con la seconda eccezione si deduce l’inammissibilità del ricorso per non essere applicabile ai due soggetti intimati l’art. 43, comma 2 del D. Lgs. n. 267/2000.
Anche questa eccezione non può essere accolta.
Essa si fonda sul fatto che il consigliere comunale non potrebbe esercitare l’accesso nei confronti di Cacip e Tecnicasic S.p.A. (di cui il Consorzio Cacip è socio unico) perché il Comune di Capoterra detiene una limitata quota del patrimonio sociale, senza considerare che il diritto di accesso fatto valere dal Consigliere Magi si basa anche sul diverso aspetto della gestione di un pubblico servizio da parte di Tecnocasic S.p.A.
Al riguardo la giurisprudenza ricomprende costantemente, fra i soggetti tenuti all’ostensione dei documenti amministrativi, pure quelli con personalità giuridica di diritto privato che siano gestori di pubblici servizi; essi devono garantire l’accesso in relazione all’esercizio del pubblico servizio loro affidato (quale è senz’altro lo smaltimento e il trattamento dei rifiuti urbani svolto da Tecnocasic S.p.A.), che come tale è riconducibile ad un interesse della collettività (cfr. TAR Trentino Alto Adige, sez. I, 12.10.2012, n. 305; TAR Sardegna, sez. II, 29.11.2012, n. 1040).
Peraltro la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che l’attività nei cui confronti deve essere garantito il diritto di accesso non è solo quella di diritto amministrativo, ma anche quella di diritto privato, posta in essere dai soggetti gestori di pubblici servizi che, pur non costituendo direttamente gestione del servizio, sia collegata a quest’ultima da un nesso di strumentalità derivante anche, sul versante soggettivo, dalla intensa conformazione pubblicistica (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 24.06.1999, n. 16; Cons. Stato, Sez. VI, 30.12.2005, n. 7624; Cons. Stato, Sez. VI, 26.01.2006, n. 229; TAR Sardegna, Sez. II, 11.02.2014, n. 114; TAR Milano, Lombardia, Sez. IV, 28.06.2010, n. 2647; TAR Roma, Lazio, Sez. III, 15.05.2012, n. 4381).
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In termini generali il Collegio richiama la giurisprudenza sul diritto di accesso del consigliere comunale, di cui al vigente art. 43, comma 2 del D.Lgs. n. 267/2000, con riferimento ai profili attinenti alla vicenda in esame.
Com’è noto, si tratta di un diritto che trova il suo presupposto non nella generale previsione degli articoli 22 e seguenti della L. n. 241/1990 relativa all’accesso del privato ai documenti amministrativi, bensì nello specifico potere di verifica e di sindacato che spetta ai membri del Consiglio, in funzione del proprio mandato elettivo, sulla correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale.
In particolare, come precisato dalla Sezione con la sentenza n. 1040 del 29.11.2012, il diritto di accesso riconosciuto ai componenti degli organi rappresentativi degli enti territoriali ha un’indole profondamente diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini, essendo sganciato dalla titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale correlato all’esigenza di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti: infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello riconosciuto ai consiglieri degli organi elettivi è strettamente funzionale all’esercizio del proprio mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell’ente territoriale, ai fini della tutela degli interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
In caso di diritto d’accesso azionato ai sensi dell’art. 43, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000, come quello di cui si tratta, nei confronti del consigliere comunale non può essere opposto il limite della riservatezza dei terzi, essendo il consigliere comunque tenuto al vincolo del segreto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.10.2007, n. 5264; TAR Liguria, sez. II, 05.03.2009, n. 280; TAR Sardegna, sez. II, 29.11.2012, n. 1040).
In considerazione di tale orientamento, a cui il Collegio aderisce, sono prive di rilevanza le argomentazioni della difesa delle resistenti sulla necessità di differire l’accesso, posto che nessuna esigenza di tutela della riservatezza pare configurarsi, neppure astrattamente, né con riferimento all’elenco del personale in servizio presso la società, né con riferimento alle procedure selettive svolte per l’assunzione.
Oltre a quanto unanimemente sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa sull’inopponibilità al consigliere comunale del limite della riservatezza dei terzi, giova precisare che in base all’articolo 17 del D.Lgs. n. 33/2013, le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare annualmente “l'elenco dei titolari dei contratti a tempo determinato”. Sebbene ai sensi dell’art. 11, comma 2, del citato decreto dall’ambito soggettivo della sua applicazione risultino escluse le società partecipate e controllate, le quali, dunque, attualmente non sono destinatarie di tali obblighi informativi, non può negarsi che la previsione escluda in radice la sussistenza di un problema sulla tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti nelle pubblicazioni in parola e, segnatamente, di un diritto a non veder pubblicato il proprio nome
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 20.05.2014 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla natura del subappalto.
Il subappalto costituisce una peculiare modalità di esecuzione dell'appalto che, per poter operare, esige la previa dichiarazione all'atto della partecipazione alla gara senza condizionarne la legittima partecipazione.", operando l'istituto in ambito civilistico ed, in ogni caso solo eventuale.
E' proprio detta eventualità che impedisce al subappalto di poter avere una funzione compensativa dei requisiti speciali mancanti (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 19.05.2014 n. 5266 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAChi non sfrutta i volumi li perde. Il Comune può ridurre l'edificabilità concessa se il verde caratterizza la zona. Sentenza del Tar Milano sul caso di chi costruisce solo in parte o rinvia il completamento dell'opera.
Il Comune può ridurre la capacità edificatoria di un'area, facendola passare da intensiva a ville urbane e decongestionando così la zona.
Lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con la sentenza 15.05.2014 n. 1281, relativa a un Comune che ha ampliato le zone a verde privato dove prima si poteva edificare.
È una situazione diffusa: i proprietari di lotti edificabili non ritengono di utilizzarli integralmente o diluiscono nel tempo l'edificazione. Ciò può condurre ad una situazione di fatto che prevale su quella prevista dal piano urbanistico. Se la prevalenza di verde si consolida nel tempo, un successivo piano urbanistico può diminuire l'edificabilità lasciando il posto a costruzioni rade, che mantengano verde privato e giardini originariamente non previsti.
Questo è stato il caso di un proprietario milanese, che inizialmente avrebbe potuto realizzare oltre 5mila metri cubi di edifici ma che, per aver mantenuto l'area a verde privato (con un comportamento comune ad altri proprietari) se l'è vista riclassificare a villa urbana, perdendo l'edificabilità di circa 4mila metri cubi. Il ragionamento del giudice amministrativo parte dall'insindacabilità delle scelte di pianificazione territoriale: sono contestabili solo decisioni irrazionali o arbitrarie del Prg, che non riflettano esigenze pubbliche.
Per cambiare destinazione di zona, basta il richiamo a criteri generali di impostazione, desumibili dalla relazione che accompagna il piano urbanistico. Nel caso specifico, il Comune ha dato una spiegazione plausibile, partendo dall'esistenza di alcune zone caratterizzate da presenza di ville monofamiliari o bifamiliari con ampi spazi aperti di pertinenza ad uso giardino privato. Un impianto mantenuto, anche se non inizialmente voluto dai proprietari, che avevano lasciato aree a giardino contando su un'edificabilità già riconosciuta e sfruttabile in seguito. Ma, quando la zona si è stabilizzata con spazi aperti e giardini, ha acquisito prevalenza un certo pregio dei luoghi, che il Comune ha voluto preservare.
Una scelta ritenuta razionale dal Tar. Se quindi vi è un'utilizzabilità edificatoria solo parziale di un'area, è possibile che il Comune adotti scelte di minore edificabilità, tutte le volte che il privato dimostri disisnteresse all'edificazione e che vi sia un decremento generale di edificabilità. Diverso sarebbe il ragionamento se il Comune fosse intervenuto durante il periodo di validità di un piano urbanistico di dettaglio, la cui esecuzione si può protrarre per almeno dieci anni: durante tale periodo le destinazioni sono intoccabili, anche perché ancorate al calibro delle opere di urbanizzazione (strade, fogne, spazi comuni) nel frattempo realizzate.
In casi come quello deciso dal Tar milanese, il Comune non dovrebbe nemmeno restituire l'Ici già incassata, in quanto nelle precedenti previsioni di Prg esisteva la potenzialità edificatoria e quindi esisteva il presupposto dell'imposizione fiscale. Il Comune ha solo l'onere (articolo 31, comma 20, della legge 289/2002) di comunicare la nuova destinazione ed il nuovo valore ai fini della fiscalità locale
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2014).

APPALTI: Sul rispetto dei canoni di trasparenza e pubblicità con riferimento al cottimo fiduciario.
Devono sempre applicarsi le regole della Comunità europea sulla concorrenza e, in particolare, gli obblighi di parità di trattamento e di trasparenza. I principi generali del Trattato valgono anche per i contratti e le fattispecie diverse da quelle concretamente contemplate; quali -oltre alla concessione di servizi e beni pubblici- gli appalti sottosoglia e i contratti diversi dagli appalti tali da suscitare l'interesse concorrenziale delle imprese e dei professionisti.
Se la questione del rispetto dei canoni di trasparenza e pubblicità negli appalti sottosoglia è jus receptum analoghe considerazioni valgono con riguardo alla specifica procedura prescelta nel caso di specie: "il cottimo fiduciario costituisce procedura annoverabile tra gli appalti e, specificatamente, riconducibile -giusta disposizione contenuta nell'art. 3, c. 4, del 163/2006-, nell'ambito delle procedure negoziate. In quanto tale ad esso si devono applicare norme e principi classici della gara non potendosi escludere affatto l'applicazione dei principi generali contrattuali -legalità, trasparenza e parità di trattamento.
Analoghe espresse considerazioni sono state svolte dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato (Ad. Plen.), 31.07.2012, n. 31, secondo cui i principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici comportano che, qualora all'aggiudicazione debba procedersi col criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, l'apertura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti vadano effettuate in seduta pubblica anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di bando di gara, e di affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.05.2014 n. 2501 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Le stazioni appaltanti possono aggiudicare contratti pubblici mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara per ragioni di natura tecnica: presupposti.
Ai sensi dell'art. 57, II c., lett. b), del codice dei contratti, le stazioni appaltanti possono aggiudicare contratti pubblici mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara qualora "per ragioni di natura tecnica…..il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato": ma è altresì vero che di ciò esse devono dar conto con adeguata motivazione nella determina a contrarre e, altresì, individuano, se possibile, "gli operatori economici da consultare sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economico finanziaria e tecnico organizzativa desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e seleziona almeno tre operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei. Gli operatori economici selezionati vengono contemporaneamente invitati a presentare le offerte oggetto della negoziazione, con lettera contenente gli elementi essenziali della prestazione richiesta".
Trattasi, infatti, di procedura che, derogando all'ordinario obbligo dell'Amministrazione di individuare il privato contraente attraverso il confronto concorrenziale, riveste carattere di eccezionalità e richiede un particolare rigore nella individuazione ed apprezzamento dei presupposti che possono legittimarne il ricorso di cui, peraltro, deve essere data adeguata motivazione nella deliberazione o determinazione a contrarre (art. 57, I c.), in modo da "scongiurare ogni possibilità che l'amministrazione utilizzi situazioni genericamente affermate, come un "commodus discessus" dall'obbligo di esperire una pubblica procedura di selezione che è la sola con carattere di oggettività e trasparenza. In tali ambiti, l'obbligo motivazionale non deve atteggiarsi a mera estrinsecazione di un apparato preconfezionato al solo scopo di giustificare le scelte discrezionalmente operate dall'Amministrazione, ma deve oggettivamente offrire l'indicazione dei pertinenti presupposti legittimanti; e, con essi, della presenza di un nesso di necessaria implicazione causale, tale da imporre il ricorso all'affidamento diretto" (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 14.05.2014 n. 633 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAE' vero che per le emissioni odorigene in base alla normativa nazionale vigente non è prevista la fissazione di limiti di emissione né di metodi o di parametri idonei a misurarne la portata, tuttavia ciò non significa che in sede di rilascio delle autorizzazioni alle emissioni in atmosfera non possano essere oggetto di considerazione i profili attinenti alle molestie olfattive al fine di prevenire e contenere i pregiudizi dalle stesse causati.
Infatti l’art. 268, comma 1, alla lett. a), del Dlgs. 03.04.2006, n. 152 (che sul punto richiama l’art. 2 del DPR 24.05.1988, n. 203) fa proprio un concetto ampio di inquinamento atmosferico che è definito come “ogni modificazione dell'aria atmosferica, dovuta all'introduzione nella stessa di una o di più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell'ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell'ambiente”, e alla lett. b), definisce come emissione in atmosfera “qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell'atmosfera che possa causare inquinamento atmosferico e, per le attività di cui all'articolo 275, qualsiasi scarico, diretto o indiretto, di COV nell'ambiente”.
Pertanto anche se non è rinvenibile un riferimento espresso alle emissioni odorigene, le stesse debbono ritenersi ricomprese nella definizione di «inquinamento atmosferico» e di «emissioni in atmosfera», poiché la molestia olfattiva intollerabile è al contempo sia un possibile fattore di «pericolo per la salute umana o per la qualità dell'ambiente», che di compromissione degli «altri usi legittimi dell'ambiente», ed in sede di rilascio dell’autorizzazione, dovendo essere verificato il rispetto delle condizioni volte a minimizzare l’inquinamento atmosferico (infatti per l’art. 296, comma 2, lett. a, del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, il progetto deve indicare le tecniche adottate per limitare le emissioni e la loro quantità e qualità), possono pertanto essere oggetto di valutazione anche i profili che arrecano molestie olfattive facendo riferimento alle migliori tecniche disponibili.

E’ parimenti infondato il dedotto difetto di istruttoria atteso che dal parere emergono gli elementi posti a fondamento dell’atto impugnato, e la loro sufficienza a sorreggere la legittimità delle determinazioni assunte.
Infatti la limitazione imposta alla capacità produttiva non si fonda, come afferma la parte ricorrente con il terzo motivo, sul superamento dei limiti quantitativi delle emissioni, ma sulla presenza di gravi problematiche di carattere olfattivo.
Rispetto a queste va osservato che è vero che per le emissioni odorigene in base alla normativa nazionale vigente non è prevista la fissazione di limiti di emissione né di metodi o di parametri idonei a misurarne la portata, tuttavia ciò non significa che in sede di rilascio delle autorizzazioni alle emissioni in atmosfera non possano essere oggetto di considerazione i profili attinenti alle molestie olfattive al fine di prevenire e contenere i pregiudizi dalle stesse causati.
Infatti l’art. 268, comma 1, alla lett. a), del Dlgs. 03.04.2006, n. 152 (che sul punto richiama l’art. 2 del DPR 24.05.1988, n. 203) fa proprio un concetto ampio di inquinamento atmosferico che è definito come “ogni modificazione dell'aria atmosferica, dovuta all'introduzione nella stessa di una o di più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell'ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell'ambiente”, e alla lett. b), definisce come emissione in atmosfera “qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell'atmosfera che possa causare inquinamento atmosferico e, per le attività di cui all'articolo 275, qualsiasi scarico, diretto o indiretto, di COV nell'ambiente”.
Pertanto anche se non è rinvenibile un riferimento espresso alle emissioni odorigene, le stesse debbono ritenersi ricomprese nella definizione di «inquinamento atmosferico» e di «emissioni in atmosfera», poiché la molestia olfattiva intollerabile è al contempo sia un possibile fattore di «pericolo per la salute umana o per la qualità dell'ambiente», che di compromissione degli «altri usi legittimi dell'ambiente», ed in sede di rilascio dell’autorizzazione, dovendo essere verificato il rispetto delle condizioni volte a minimizzare l’inquinamento atmosferico (infatti per l’art. 296, comma 2, lett. a, del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, il progetto deve indicare le tecniche adottate per limitare le emissioni e la loro quantità e qualità), possono pertanto essere oggetto di valutazione anche i profili che arrecano molestie olfattive facendo riferimento alle migliori tecniche disponibili (cfr. Tar Friuli Venezia Giulia, 02.01.2013, n. 2; Tar Veneto, Sez. III, 03.05.2011, n. 741; Tar Umbria, 10.01.2003, n. 10).
Nel caso all’esame risulta che l’Amministrazione ha preso atto dei consistenti elementi offerti dal Comune (cfr. docc. da 1 a 4 depositati in giudizio dal Comune di Ceggia), dalla scuola media “G. Marconi” (cfr. doc. 3 depositato in giudizio dalla Provincia dal quale risulta che sono stati accusati sintomi quali il mal di testa, il mal di gola, il bruciore alle narici e difficoltà respiratorie), dalla cittadinanza (cfr. doc. 5 depositato in giudizio dal Comune di Ceggia), e dalla polizia locale (cfr. docc. 6 e 7 depositati in giudizio dal Comune di Ceggia) circa l’esistenza di numerose situazioni di disagio determinate dalle emissioni odorigene degli impianti già nella situazione preesistente, e ciò è sufficiente a dimostrarne il carattere molesto e potenzialmente pericoloso.
In ragione di tali segnalazioni risulta che la Provincia, quale primo atto istruttorio a seguito dell’istanza presentata, in contraddittorio con la parte ricorrente, ha dato avvio ad un monitoraggio delle emissioni odorigene, ad una campagna di campionamento e ad uno studio per l’ottimizzazione del sistema di abbattimento delle emissioni
Peraltro è stata la stessa Società ricorrente a farsi carico del problema in quanto già nell’istanza del 04.07.2005, ha affermato che “in linea di massima non è previsto il funzionamento contemporaneo di tutte le linee di processo, ma solamente di due delle tre linee in futuro presenti”.
In tale contesto con il provvedimento impugnato la Provincia non ha definitivamente vietato l’esercizio contemporaneo delle tre linee, ma ha disposto il temporaneo esercizio di due sole di esse fino all’entrata a regime del progetto per un nuovo impianto di abbattimento delle emissioni che avrebbe dovuto essere presentato dalla Società ricorrente dopo tre mesi dal rilascio dell’autorizzazione, ma che non risulta ancora realizzato per l’inerzia della Società (la Provincia infatti nelle proprie difese riferisce e documenta -cfr. doc. 14 depositato in giudizio dalla stessa- che solo in data 06.12.2011 è stata presentata un’istanza volta alla modifica dell’autorizzazione per l’inserimento di un sistema di deodorizzazione basato sul metodo ad assorbimento su carboni attivi a valle dell’impianto di abbattimento esistente).
Da quanto esposto emerge pertanto che vi è un fondamento normativo che giustifica l’imposizione di limitazioni o prescrizioni relative alle emissioni finalizzate alla prevenzione o al contenimento delle molestie olfattive alla luce della migliore tecnologia disponibile che non comporti costi eccessivi, che ai fini istruttori i dati raccolti circa il carattere molesto delle emissioni odorigene risultano sufficienti senza che siano necessari ulteriori accertamenti, e che la prescrizione di mettere in esercizio contemporaneamente solo due delle tre linee fino alla messa in opera di un adeguato sistema di abbattimento degli odori generati dal ciclo produttivo, avendo carattere temporaneo ed essendo in concreto esigibile dall’istante, non viola il principio di proporzionalità.
In definitiva pertanto i provvedimenti impugnati si sottraggono a tutte le censure proposte e il ricorso ed i motivi aggiunti devono essere respinti (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 573 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIA seguito dell’entrata in vigore della novella legislativa che ha introdotto nel Codice dei contratti pubblici il principio della tassatività delle cause di esclusione (comma 1-bis aggiunto dal D.L. n. 70/2011 all’art. 46 del Codice), il collegio ha abbandonato la tradizionale interpretazione, secondo cui la mancata produzione della cauzione provvisoria legittimerebbe l’esclusione dell’impresa concorrente dalla gara nonostante la mancanza di una esplicita disposizione di legge in tal senso, per aderire a una diversa lettura dell’art. 75 del Codice, la cui formulazione letterale –rendendo evidente l'intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario della cauzione definitiva, che garantisce l'impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica invece l'esclusione dalla gara– non soltanto impedisce alla stazione appaltante, alla luce della novella, di disporre l’esclusione dalla gara dell’impresa concorrente che abbia presentato la cauzione di importo inferiore a quello richiesto, ma impone la regolarizzazione degli atti, ovvero l'integrazione della cauzione insufficiente.
Poiché non vi sono ragioni per discostarsi da tale indirizzo, peraltro confermato in grado d’appello, tanto basta per accertare la legittimità dell’operato della commissione giudicatrice.
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La giurisprudenza ha chiarito come l'art. 38, co. 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163 del 2006, che richiede il possesso dei requisiti di moralità in capo agli “amministratori muniti di poteri di rappresentanza”, si riferisca a coloro che assommino la titolarità del munus di amministrazione e, in pari tempo, di poteri rappresentativi, ancorché settoriali.
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Questa Sezione ha di recente statuito come la gara divisa in lotti non possa considerarsi una gara unica, ma tante gare quanti sono i lotti oggetto di aggiudicazione (a ogni lotto corrisponde un diverso contratto e una diversa procedura.

3.2. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, le controinteressate deducono la violazione dell’art. 75 D.Lgs. n. 163/2006 e denunciano la scelta della commissione di gara di consentire alla ricorrente principale di integrare la cauzione provvisoria, prestata in misura dimezzata, attraverso il rinnovo della certificazione ISO 9001:2008 allegata all’offerta, ma scaduta sin dal 17.02.2012.
3.2.1. Il motivo è infondato.
A seguito dell’entrata in vigore della novella legislativa che ha introdotto nel Codice dei contratti pubblici il principio della tassatività delle cause di esclusione (comma 1-bis aggiunto dal D.L. n. 70/2011 all’art. 46 del Codice), il collegio ha abbandonato la tradizionale interpretazione, secondo cui la mancata produzione della cauzione provvisoria legittimerebbe l’esclusione dell’impresa concorrente dalla gara nonostante la mancanza di una esplicita disposizione di legge in tal senso, per aderire a una diversa lettura dell’art. 75 del Codice, la cui formulazione letterale –rendendo evidente l'intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario della cauzione definitiva, che garantisce l'impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica invece l'esclusione dalla gara– non soltanto impedisce alla stazione appaltante, alla luce della novella, di disporre l’esclusione dalla gara dell’impresa concorrente che abbia presentato la cauzione di importo inferiore a quello richiesto, ma impone la regolarizzazione degli atti, ovvero l'integrazione della cauzione insufficiente (si vedano TAR Toscana, sez. I, 28.01.2013, n. 141).
Poiché non vi sono ragioni per discostarsi da tale indirizzo, peraltro confermato in grado d’appello (cfr. Cons. Stato, sez. III, 05.12.2013, n. 5781), tanto basta per accertare la legittimità dell’operato della commissione giudicatrice.
4. Con il primo motivo di ricorso principale, Conform si duole della mancata esclusione del raggruppamento controinteressato, per non avere IAL Toscana e Maia reso le dichiarazioni ex art. 38, co. 1, lett. c), per il consigliere d’amministrazione Massimo Maria Amorosini, la prima, e per la vice presidente del consiglio d’amministrazione Alessandra Bartolini, la seconda.
Sul punto, IAL Toscana sostiene che il consigliere Amorosini non sarebbe titolare di alcun potere rappresentativo, da cui la radicale insussistenza del vizio; e anche Maia, dal canto suo, sottolinea come l’attribuzione statutaria al vice presidente del c.d.a. delle mansioni, e non dei poteri, del presidente equivalga ad escludere in capo alla signora Bartolini la rappresentanza della società.
4.1. Il motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.
La giurisprudenza ha chiarito come l'art. 38, co. 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163 del 2006, che richiede il possesso dei requisiti di moralità in capo agli “amministratori muniti di poteri di rappresentanza”, si riferisca a coloro che assommino la titolarità del munus di amministrazione e, in pari tempo, di poteri rappresentativi, ancorché settoriali (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 17.01.2014, n. 171; id., A.P., 16.10.2013, n. 23).
Lo statuto della società IAL Toscana, all’art. 23, co. 2, stabilisce che in caso di nomina del consiglio d’amministrazione, la rappresentanza dell’ente spetti al presidente del c.d.a. ove nominato, e, nell’ambito dei poteri loro conferiti, ai consiglieri delegati, ove nominati; e, dalla documentazione in atti, risulta in effetti che la forma amministrativa adottata dalla società sia quella del consiglio d’amministrazione munito di un presidente e di due consiglieri non titolari di deleghe, di modo che nessuna illegittimità può farsi discendere dall’assenza della dichiarazione sui requisiti di moralità del consigliere Amorosino, sprovvisto di poteri di rappresentanza (mentre la dichiarazione resa dall’altro consigliere, Alessandra Bianchi, è imposta in realtà dal ruolo di direttore tecnico rivestito da costei, e non dal suo ruolo di componente dell’organo gestorio).
4.1.1. Diversamente è a dirsi quanto alla vice presidente del c.d.a. della cooperativa Maia. Lo statuto della società stabilisce che, in caso di assenza o impedimento del presidente del consiglio di amministrazione, titolare dei poteri rappresentativi, “tutte le di lui mansioni spettano al vice presidente”, con riguardo al quale –alla stregua dell’orientamento costantemente seguito dalla Sezione– vanno dunque rese le dichiarazioni inerenti il possesso dei requisiti di moralità, senza che in contrario rilevi la circostanza che l’esercizio di tali poteri debba considerarsi potenziale e subordinato al verificarsi delle ipotesi previste dallo statuto. Quel che interessa ai fini della configurazione dell'obbligo di dichiarazione è la titolarità del potere, e non il suo concreto esercizio, e non vi è perciò dubbio che anche il vice presidente del consiglio di amministrazione del società rientri nel novero dei soggetti relativamente ai quali si pone l’onere dichiarativo (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.11.2012, n. 5693). Si è poi già detto dell’inoperatività dell’istituto del “falso innocuo”, a maggior ragione laddove la sanzione espulsiva sia espressamente prevista dal bando, oltre che dalla legge.
Non giova, per altro verso, appellarsi alla distinzione fra “mansioni” e “poteri” del presidente del c.d.a., prospettata dalle controinteressate con riguardo alla terminologia adoperata dallo statuto di Maia, posto che, a tacer d’altro, l’esercizio delle “mansioni” elencate dallo statuto medesimo (firma sociale di fronte a terzi e in giudizio, riscossione di pagamenti e al rilascio di quietanze, nomina di avvocati e procuratori nelle liti attive e passive) presuppone logicamente e giuridicamente l’attribuzione dei corrispondenti poteri rappresentativi.
4.2. Con il secondo motivo di cui all’atto introduttivo del giudizio, viene lamentata l’inadeguatezza dei requisiti di capacità tecnico-organizzativa offerti dalle controinteressate, le quali avrebbero indicato i medesimi ricavi da servizi analoghi nel triennio precedente alla gara quali requisito di partecipazione sia per il lotto n. 1, sia per il lotto n. 2, di fatto duplicando il requisito medesimo, anziché dimostrare di possederlo in misura pari alla sommatoria dei requisiti minimi richiesti per ciascuno dei lotti.
Replicano le controinteressate, nelle rispettive difese e con il quarto motivo di ricorso incidentale, che in realtà si sarebbe in presenza non di una gara unitaria suddivisa in due lotti, ma di due distinte procedure di gara, sia pure svolte in unico contesto: da ciò, l’inammissibilità della censura, per non avere Conform partecipato alla gara per l’affidamento del lotto n. 1, sulla quale essa non potrebbe pertanto interloquire; e, comunque, la sua infondatezza, appartenendo alla discrezionalità della stazione appaltante la scelta dei requisiti minimi di partecipazione, e non avendo la Provincia di Massa Carrara inteso stabilire il preteso “divieto di duplicazione”.
4.2.1. Questa Sezione ha di recente statuito come la gara divisa in lotti non possa considerarsi una gara unica, ma tante gare quanti sono i lotti oggetto di aggiudicazione (a ogni lotto corrisponde un diverso contratto e una diversa procedura: cfr. TAR Toscana, sez. I, 11.07.2013, n. 1159). Non può pertanto dubitarsi che la partecipazione alla gara fosse pertanto consentita anche per l’affidamento di un singolo lotto, e che, in tale evenienza, il requisito di capacità tecnico-professionale da possedere fosse quello stabilito per il lotto prescelto dall’impresa concorrente.
Il bando di gara, peraltro, ammette espressamente la partecipazione di uno stesso operatore economico alle procedure di gara di entrambi i lotti, senza chiarire se in questo caso la doppia partecipazione debba intendersi subordinata al possesso cumulativo dei requisiti richiesti per ciascun lotto. Tuttavia, un elemento dirimente vi è, ed è rappresentato dal diverso contenuto dei servizi oggetto dei due lotti, che implica l’impossibilità di spendere i medesimi servizi pregressi indifferentemente nell’una o nell’altra gara, l’“analogia” pretesa dal bando non potendo essere genericamente riferita all’aver già operato nel settore dei servizi per l’impiego, ma all’aver eseguito prestazioni assimilabili a quelle specificamente previste per ciascuno dei lotti, come si desume anche dai chiarimenti forniti dalla Provincia in corso di gara.
4.2.2. In altri termini, l’utilizzo dei medesimi requisiti di capacità tecnico-professionale è impedita dal non coincidente oggetto delle due gare, ciascuna delle quali esige il possesso di titoli autonomi e non sovrapponibili a quelli richiesti dall’altra (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn difetto della copia del documento di identità del sottoscrittore, la dichiarazione presentata manca dei requisiti formali previsti dagli artt. 38 e 47 del D.P.R. n. 445/2000, trattandosi di adempimento inderogabile atto a conferire legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Anche a volerne tralasciare le lacune contenutistiche, essa è pertanto inidonea a produrre gli effetti tipici della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, dovendosene dichiarare la giuridica inesistenza agli effetti previsti dal regolamento, senza che la mancanza della dichiarazione possa essere supplita attraverso l’esercizio dei poteri generali di soccorso istruttorio di cui l’amministrazione dispone a norma dell’art. 6 della legge n. 241/1990, a ciò ostando il necessario rispetto della par condicio tra gli aspiranti alla carica elettiva.

Ciò posto, risulta dalla relazione del Presidente del Conservatorio in data 08.06.2009, ed è pacifico, che alla domanda presentata dal prof. Vismara il 05.06.2009 –ultimo giorno utile ai sensi del sopra citato art. 3 del regolamento, essendo le elezioni stabilite per i giorni dal 25 al 27 giugno– era allegata una dichiarazione sostitutiva priva di autenticazione della firma, non accompagnata della fotocopia del documento del sottoscrittore, e contenente la generica affermazione del possesso dei non meglio precisati requisiti di eleggibilità.
Solo a seguito di segnalazione, ad opera dello stesso Presidente, dei vizi formali e sostanziali della domanda così presentata il prof. Vismara ha presentato una nuova dichiarazione sostitutiva in data 08.06.2009, questa volta riferita al possesso dei requisiti professionali ed all’assenza di precedenti disciplinari e penali, nonché di situazioni di incompatibilità rilevanti ai sensi del regolamento, e corredata di fotocopia del documento di identità dell’interessato.
In difetto della copia del documento di identità del sottoscrittore, la dichiarazione presentata dal prof. Vismara il 05.06.2009 manca dei requisiti formali previsti dagli artt. 38 e 47 del D.P.R. n. 445/2000, trattandosi di adempimento inderogabile atto a conferire legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione (giurisprudenza univoca, fra le molte cfr. Cons. Stato, sez. V, 26.03.2012, n. 1739; id., sez. VI, 02.05.2011, n. 2579).
Anche a volerne tralasciare le lacune contenutistiche, essa è pertanto inidonea a produrre gli effetti tipici della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, dovendosene dichiarare la giuridica inesistenza agli effetti previsti dal regolamento, senza che la mancanza della dichiarazione possa essere supplita attraverso l’esercizio dei poteri generali di soccorso istruttorio di cui l’amministrazione dispone a norma dell’art. 6 della legge n. 241/1990, a ciò ostando il necessario rispetto della par condicio tra gli aspiranti alla carica elettiva.
Nessuna giustificazione ha, di conseguenza, l’iniziativa del Presidente del Conservatorio, avallata dalla Commissione di gara, di ammettere alla competizione elettorale il prof. Vismara in virtù di una valutazione di stampo “politico”, pur essendo cosciente dell’incompletezza dell’originaria domanda di partecipazione, mancante di un elemento indefettibile, e della tardività delle successive integrazioni (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 740 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
E le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono rappresentate, pacificamente:
- dal superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968;
- dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato intercorsi con il Comune, o delle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione;
- dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Di contro, nessuna aspettativa deriva dalla diversa destinazione urbanistica pregressa della medesima area, rispetto alla quale l’amministrazione conserva ampia discrezionalità, ben potendo apportare modificazioni in peius rispetto agli interessi del proprietario.
Va inoltre ricordato che, per giurisprudenza costante, le osservazioni presentate dagli interessati all’interno del procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici assumono il valore di semplice apporto collaborativo, il cui rigetto non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.

È noto che, in forza dei principi da lungo tempo invalsi nella materia, le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni; e le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono rappresentate, pacificamente: dal superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968; dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato intercorsi con il Comune, o delle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione; dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Di contro, nessuna aspettativa deriva dalla diversa destinazione urbanistica pregressa della medesima area, rispetto alla quale l’amministrazione conserva ampia discrezionalità, ben potendo apportare modificazioni in peius rispetto agli interessi del proprietario.
Va inoltre ricordato che, per giurisprudenza costante, le osservazioni presentate dagli interessati all’interno del procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici assumono il valore di semplice apporto collaborativo, il cui rigetto non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2012, n. 854; id., sez. IV, 16.11.2011, n. 6049; id., sez. IV, 29.12.2009, n. 9006) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisdizione del tribunale superiore delle acque pubbliche, sancita dall'art. 143, comma 1, lett. a) e b), r.d. 11.12.1933 n. 1775, ha per oggetto, tra l'altro, i ricorsi (.....) avverso i provvedimenti amministrativi adottati in forza dell'art. 2 r.d. n. 523 del 1904 e che, pur se promananti da autorità diverse da quelle preposte al settore, sono caratterizzati dall'incidenza immediata e diretta sulla materia delle acque pubbliche e, pur se volti alla soddisfazione di interessi più generali o comunque diversi rispetto a quelli più specifici, sottesi all'uso delle acque pubbliche e all'autorizzazione delle opere idrauliche, interferiscono inevitabilmente con questi ultimi (nel caso di specie, la gravata ordinanza era volta ad inibire e a reprimere la realizzazione degli interventi contestati a distanza inferiore a dieci metri dalla sponda del canale demaniale...., e un simile profilo integra una situazione direttamente e immediatamente incidente sul regime delle acque pubbliche, con conseguente attrazione alla sfera di giurisdizione del tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela delle acque demaniali correnti nei fiumi, canali e scolatoi pubblici, basata sulla ragione pubblicistica di assicurarne lo sfruttamento e il libero deflusso).
La Corte di Cassazione ha affermato che i "canali di scolo, come disciplinati dal citato t.u., sono opere idrauliche riguardanti pur sempre l'utilizzazione delle acque e la risoluzione della relativa controversia coinvolge questioni, non solo giuridiche, ma anche tecniche, inerenti ad acque pubbliche".
Inoltre si è pure ritenuto che ai sensi dell'art. 143, lett. a), r.d. 11.12.1933 n. 1775, rientra nella competenza del tribunale superiore delle acque pubbliche l'impugnazione dell'ordine di ripristino di un canale di scolo.
Il fatto che il fosso in questione non risulti formalmente classificato tra le "acque pubbliche" non appare dirimente, giacché, in un caso fortemente affine a quello dedotto nel presente giudizio, il Tribunale superiore delle acque pubbliche ha affermato che "Sussiste la giurisdizione del tribunale superiore delle acque pubbliche, in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla l. n. 36 del 1994, ove si tratti di corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine pluviale, non possa considerarsi mera fognatura né raccolta di acque meteoriche non convogliate o non identificabili come corpo idrico, per cui, trattandosi di fosso (corso d'acqua minore) tombato in area di pertinenza privata, spetta ai proprietari frontisti (pur sotto la vigilanza, il controllo e la supervisione dell'Autorità regionale competente per le opere idrauliche), visto l'art. 12 r.d. n. 523 del 1904, intraprendere, anche consorziandosi, le necessarie misure di ripristino, tutela e difesa (innanzitutto delle rispettive proprietà)".

Il ricorrente è proprietario di un compendio immobiliare sul quale scorre un fosso demaniale denominato Fosso Bozzone.
Il dirigente del Comune di Massa, con determina n. 4129 del 18.11.2013, ravvisato un intenso rischio idraulico nel reticolo idraulico relativo al suddetto fosso, ha ordinato alla parte istante di adeguare la funzionalità del fosso stesso, tra cui l’eliminazione della tombinatura.
Avverso tale provvedimento e gli atti connessi l’interessato è insorto deducendo varie censure.
...
L’eccezione è fondata.
Ad avviso del Collegio la materia è devoluta alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a) e b), r.d. 11.12.1933 n. 1775.
In argomento la giurisprudenza ha costantemente affermato che "La giurisdizione del tribunale superiore delle acque pubbliche, sancita dall'art. 143, comma 1, lett. a) e b), r.d. 11.12.1933 n. 1775, ha per oggetto, tra l'altro, i ricorsi (.....) avverso i provvedimenti amministrativi adottati in forza dell'art. 2 r.d. n. 523 del 1904 e che, pur se promananti da autorità diverse da quelle preposte al settore, sono caratterizzati dall'incidenza immediata e diretta sulla materia delle acque pubbliche e, pur se volti alla soddisfazione di interessi più generali o comunque diversi rispetto a quelli più specifici, sottesi all'uso delle acque pubbliche e all'autorizzazione delle opere idrauliche, interferiscono inevitabilmente con questi ultimi (nel caso di specie, la gravata ordinanza era volta ad inibire e a reprimere la realizzazione degli interventi contestati a distanza inferiore a dieci metri dalla sponda del canale demaniale...., e un simile profilo integra una situazione direttamente e immediatamente incidente sul regime delle acque pubbliche, con conseguente attrazione alla sfera di giurisdizione del tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela delle acque demaniali correnti nei fiumi, canali e scolatoi pubblici, basata sulla ragione pubblicistica di assicurarne lo sfruttamento e il libero deflusso)" (TAR Campania Napoli, sez. VIII, sentenza 07.12.2009, n. 8602).
La Corte di Cassazione, sez. I civile, con sentenza 24.07.1981, n. 4787 ha affermato che i "canali di scolo, come disciplinati dal citato t.u., sono opere idrauliche riguardanti pur sempre l'utilizzazione delle acque e la risoluzione della relativa controversia coinvolge questioni, non solo giuridiche, ma anche tecniche, inerenti ad acque pubbliche".
Inoltre si è pure ritenuto che ai sensi dell'art. 143, lett. a), r.d. 11.12.1933 n. 1775, rientra nella competenza del tribunale superiore delle acque pubbliche l'impugnazione dell'ordine di ripristino di un canale di scolo (TAR Molise, 30.01.2005, n. 41).
Il fatto che il fosso in questione non risulti formalmente classificato tra le "acque pubbliche" non appare dirimente, giacché, in un caso fortemente affine a quello dedotto nel presente giudizio, il Tribunale superiore delle acque pubbliche, nella sentenza n. 97 del 02.07.2003, ha affermato che "Sussiste la giurisdizione del tribunale superiore delle acque pubbliche, in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla l. n. 36 del 1994, ove si tratti di corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine pluviale, non possa considerarsi mera fognatura né raccolta di acque meteoriche non convogliate o non identificabili come corpo idrico, per cui, trattandosi di fosso (corso d'acqua minore) tombato in area di pertinenza privata, spetta ai proprietari frontisti (pur sotto la vigilanza, il controllo e la supervisione dell'Autorità regionale competente per le opere idrauliche), visto l'art. 12 r.d. n. 523 del 1904, intraprendere, anche consorziandosi, le necessarie misure di ripristino, tutela e difesa (innanzitutto delle rispettive proprietà)" (TAR Sicilia, Palermo, I, 31.03.2011, n. 592).
In conclusione, deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, per essere competente il Tribunale superiore della acque pubbliche (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 720 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl procedimento di giustificazione dell'offerta anomala si propone di verificare la serietà di un'offerta già formulata ed immutabile, ma non può essere utilizzato per consentire aggiustamenti dell'offerta.
L’art. 87 del codice dei contratti pubblici stabilisce, in tema di verifica dell’anomalia dell’offerta, che “Le giustificazioni possono riguardare, a titolo esemplificativo:
a) l'economia del procedimento di costruzione, del processo di fabbricazione, del metodo di prestazione del servizio;
b) le soluzioni tecniche adottate;
c) le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l'offerente per eseguire i lavori, per fornire i prodotti, o per prestare i servizi;
d) l'originalità del progetto, dei lavori, delle forniture, dei servizi offerti;
f) l'eventualità che l'offerente ottenga un aiuto di Stato;
3. Non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge”.
Tuttavia, la verifica dell’anomalia di un’offerta di appalto, ai sensi degli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici, non può tradursi inammissibilmente in una sorta di soccorso istruttorio ex post, allargato al punto da consentire il completamento o la riformulazione dell’offerta stessa.
La rideterminazione dell’offerta, ove consentita, si tradurrebbe, infatti, in una oggettiva alterazione della parità di condizione dei concorrenti, nonché in violazione del principio di certezza delle situazioni giuridiche sotteso alla immodificabilità della "lex specialis", conseguendone che il bando di gara perderebbe la sua forza cogente per i soggetti partecipanti, ai quali non è dato interpretare e precisare il senso e la portata di quei parametri di gara la cui immutabilità è posta a garanzia di tutti indistintamente i partecipanti.
Solo nell’ipotesi in cui la commissione di gara riscontri l’esistenza di errori materiali nella compilazione dell'offerta, ictu oculi rilevabili e riconoscibili come tali è data la possibilità all’offerente di emendarli in una fase successiva del procedimento.
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Il principio di immodificabilità dell'offerta, teso a garantire, da un lato, la par condicio fra i concorrenti, e dall'altro, l'affidabilità del contraente, attiene non ad ogni aspetto della stessa, bensì ai profili economici e tecnici essenziali della medesima.
Tali devono indubbiamente reputarsi la modifica o l’aggiustamento delle giustificazioni delle singole voci di costo che non trovino il loro fondamento in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo.

Di tale problematica si è del resto resa conto la stessa amministrazione la quale, in sede di giustificazione dell'anomalia dell'offerta, ha instaurato con l'aggiudicataria provvisoria un complesso contraddittorio che ha determinato, tuttavia, un sostanziale mutamento dell'offerta originaria.
E’ ben noto che il procedimento di giustificazione dell'offerta anomala si propone di verificare la serietà di un'offerta già formulata ed immutabile, ma non può essere utilizzato per consentire aggiustamenti dell'offerta (Cons. Stato sez. VI, 07.02.2012, n. 636).
L’art. 87 del codice dei contratti pubblici stabilisce, in tema di verifica dell’anomalia dell’offerta, che “Le giustificazioni possono riguardare, a titolo esemplificativo:
a) l'economia del procedimento di costruzione, del processo di fabbricazione, del metodo di prestazione del servizio;
b) le soluzioni tecniche adottate;
c) le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l'offerente per eseguire i lavori, per fornire i prodotti, o per prestare i servizi;
d) l'originalità del progetto, dei lavori, delle forniture, dei servizi offerti;
f) l'eventualità che l'offerente ottenga un aiuto di Stato;
3. Non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge
”.
Osserva, tuttavia, il Collegio che la verifica dell’anomalia di un’offerta di appalto, ai sensi degli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici, non può tradursi inammissibilmente in una sorta di soccorso istruttorio ex post, allargato al punto da consentire il completamento o la riformulazione dell’offerta stessa.
La rideterminazione dell’offerta, ove consentita, si tradurrebbe, infatti, in una oggettiva alterazione della parità di condizione dei concorrenti, nonché in violazione del principio di certezza delle situazioni giuridiche sotteso alla immodificabilità della "lex specialis", conseguendone che il bando di gara perderebbe la sua forza cogente per i soggetti partecipanti, ai quali non è dato interpretare e precisare il senso e la portata di quei parametri di gara la cui immutabilità è posta a garanzia di tutti indistintamente i partecipanti (Cons. Stato, sez. V, 12.03.2009, n. 1451; TAR, Lazio, Latina, 29.07.2003, n. 660).
Solo nell’ipotesi in cui la commissione di gara riscontri l’esistenza di errori materiali nella compilazione dell'offerta, ictu oculi rilevabili e riconoscibili come tali è data la possibilità all’offerente di emendarli in una fase successiva del procedimento (Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2005 n. 7035; TAR Puglia, Bari, sez. I, 28.10.2009, n. 2504).
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Come più volte affermato dalla giurisprudenza, il principio di immodificabilità dell'offerta, teso a garantire, da un lato, la par condicio fra i concorrenti, e dall'altro, l'affidabilità del contraente, attiene non ad ogni aspetto della stessa, bensì ai profili economici e tecnici essenziali della medesima (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 07.02.2012, n. 636).
Tali devono indubbiamente reputarsi la modifica o l’aggiustamento delle giustificazioni delle singole voci di costo che non trovino il loro fondamento in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANel provvedimento amministrativo la motivazione per relationem corrisponde ad una tecnica motivazionale pienamente ammessa dall'art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, specie allorquando il provvedimento sia preceduto da atti istruttori o da pareri e purché l'interessato sia messo in grado di prenderne visione.
Inoltre, non è inutile rammentare il consolidato principio secondo cui le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante.
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In sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.

La tesi è priva di fondamento.
Nel provvedimento amministrativo la motivazione per relationem corrisponde ad una tecnica motivazionale pienamente ammessa dall'art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, specie allorquando il provvedimento sia preceduto da atti istruttori o da pareri e purché l'interessato sia messo in grado di prenderne visione (Cons. Stato sez. IV, 20.12.2013, n. 6169).
Inoltre, non è inutile rammentare il consolidato principio secondo cui le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante (ex multis, Cons. Stato sez. IV, 18.11.2013, n. 5453; id., 24.05.2013, n. 2836).
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La censura non ha pregio.
In primo luogo giova rammentare che, per pacifica giurisprudenza, in sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (tra tante, Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4150; id. 21.04.2010, n. 2264)
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICACostituisce principio interpretativo del tutto consolidato quello per cui “le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso”.
E ciò salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
Tuttavia, la lesione dell'affidamento qualificato del privato può derivare, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione, nonché dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
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L'illegittimità del provvedimento impugnato è condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per accordare il risarcimento del danno con la conseguenza che l'infondatezza della domanda di annullamento comporta, inevitabilmente, il rigetto di quella risarcitoria.

Il quarto motivo si appunta sulla carenza di motivazione dell'atto impugnato con riferimento alla mancata considerazione delle aspettative degli interessi dei privati proprietari degli immobili siti tale zona.
La doglianza non coglie nel segno.
Costituisce principio interpretativo del tutto consolidato quello per cui “le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso” (ex multis, Cons. Stato sez. IV, 18.11.2013, n. 5453; idem, 16.11.2011, n. 6049).
E ciò salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
Tuttavia, la lesione dell'affidamento qualificato del privato può derivare, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione, nonché dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Cons. Stato, sez. IV, 04.02.2014, n. 493; TAR Toscana, sez. I, 07.11.2013, n. 1497).
Nessuna di tali situazioni di affidamento qualificato è rinvenibile in capo alla ricorrente, conseguendone perciò che, a carico dell'Amministrazione comunale, non sussisteva alcun obbligo di motivare particolarmente la propria decisione.
In ordine alla domanda risarcitoria è sufficiente osservare che l'illegittimità del provvedimento impugnato è condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per accordare il risarcimento del danno con la conseguenza che l'infondatezza della domanda di annullamento comporta, inevitabilmente, il rigetto di quella risarcitoria (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4150).
Per le considerazioni che precedono il ricorso va, pertanto, rigettato (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante.
Nella formazione dello strumento urbanistico generale l'Amministrazione è titolare di un'ampia potestà discrezionale per quanto concerne la programmazione degli assetti del territorio, senza necessità di motivazione specifica sulle scelte adottate e senza che l'obbligo motivazionale venga imposto o mutato sulla base della mera presentazione di osservazioni da parte dei privati.
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Come è noto, in merito agli indirizzi di politica urbanistica espressi negli strumenti generali di pianificazione, le scelte dell'Amministrazione si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che essa soltanto è in grado di accertare.
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La tardività delle osservazioni avverso uno strumento urbanistico esclude ogni obbligo della p.a. di prenderle in esame e motivare sul punto.
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In sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.
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Lo strumento giuridico della "perequazione urbanistica" è finalizzato ad un'equa distribuzione dei diritti edificatori in zone soggette a trasformazione urbanistica, ma non muta in un diritto soggettivo del proprietario la sua aspettativa a vedere conferita al proprio bene attitudine edificatoria in forza della sua prossimità a talune altre zone dove la pianificazione realizzata la attribuisce ai proprietari di aree confinanti.
La soluzione perequativa tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un'effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, in coerenza con lo scopo della disciplina urbanistica che non è la massimizzazione dell'aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede.
Come già rilevato da questo TAR “L'essenza della perequazione urbanistica risiede nella contemporaneità tra riconoscimento della capacità edificatoria ed imposizione dell'onere di contribuire allo sviluppo della città pubblica in modo che, laddove la pianificazione generale venga attuata per comparti, sia indifferente per i proprietari la collocazione all'interno del comparto destinato ad infrastrutture pubbliche da cedere al Comune giacché tutti dispongono del medesimo indice di edificabilità da utilizzare nelle aree destinate a ricevere la cubatura stabilita. L'attribuzione del medesimo indice edificatorio alle proprietà inserite nel comparto implica che si tratti di fondi con caratteristiche analoghe, sicché la perequazione non può applicarsi fuori dalle aree soggette a trasformazione urbanistica”.

La censura non ha pregio.
Giova rammentare, preliminarmente, il consolidato principio secondo cui le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante (ex multis, Cons. Stato sez. IV, 18.11.2013, n. 5453; id., 24.05.2013, n. 2836).
Nella formazione dello strumento urbanistico generale l'Amministrazione è titolare di un'ampia potestà discrezionale per quanto concerne la programmazione degli assetti del territorio, senza necessità di motivazione specifica sulle scelte adottate e senza che l'obbligo motivazionale venga imposto o mutato sulla base della mera presentazione di osservazioni da parte dei privati.
Come rilevato in narrativa il Comune ha ritenuto di non assegnare vocazione edificatoria all’area dei ricorrenti in quanto il mantenimento della destinazione a verde privato era finalizzato a "consegnare al territorio comunale gli spazi pubblici più significativi per un equilibrato sviluppo del territorio comunale".
Neppure può ritenersi illegittima l'affermazione secondo cui, “pur possedendo tale area i requisiti necessari per una trasformazione” nel senso auspicato dai ricorrenti ne veniva sostanzialmente differita la sua destinazione edificatoria nell'ambito delle previsioni di valenza ventennale del Piano strutturale cui il vigente Regolamento urbanistico conferisce solo una parziale attuazione.
Come è noto, in merito agli indirizzi di politica urbanistica espressi negli strumenti generali di pianificazione, le scelte dell'Amministrazione si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che essa soltanto è in grado di accertare (TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.06.2008, n. 5222).
Quanto poi all’osservazione presentata il 10.11.2008 con cui si motivava in ordine alla necessità di rinvenire una nuova sede all’azienda dei ricorrenti va rilevato che essa è pervenuta ben oltre il termine stabilito per il loro inoltro, atteso che la pubblicazione sul BURT è avvenuta il 23.07.2008.
Recita, infatti, l’art. 17, co. 2, della l. reg. n. 1/2005: “Il provvedimento adottato è depositato presso l'amministrazione competente per sessanta giorni dalla data di pubblicazione del relativo avviso sul Bollettino ufficiale della Regione Toscana (BURT). Entro e non oltre tale termine, chiunque può prenderne visione, presentando le osservazioni che ritenga opportune”.
Come già rilevato da questo TAR "La tardività delle osservazioni avverso uno strumento urbanistico esclude ogni obbligo della p.a. di prenderle in esame e motivare sul punto" (TAR Toscana, sez. I, 30.04.2009, n. 740).
Né può essere taciuto che le disposizioni della l.r. Toscana n. 1/2005 in tema di rapporti fra piano strutturale e regolamento urbanistico non sono poste a tutela delle posizioni sostanziali dei privati e la loro ratio è quella di meglio garantire l'ordinato sviluppo del territorio stesso. Esse non prendono in esame le posizioni dei soggetti privati con cui il potere pianificatorio entra in contatto e tutelano quindi il generale, e non individualizzato, interesse alla maggior efficienza della pianificazione urbanistica, che è proprio dell'intera collettività, senza essere riferibile a singoli soggetti (TAR Toscana, sez. I, 20.06.2013, n. 992).
Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione del principio di perequazione urbanistica, nonché della disparità di trattamento realizzata attraverso la possibilità di trasformazione urbanistica accordata dal Regolamento impugnato ai proprietari di terreni limitrofi.
La censura è infondata.
Giova ricordare, in primo luogo, che in sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4150; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 20.12.2013, n. 3103).
Quanto alla perequazione urbanistica, l'art. 60 della l.reg. n. 1 del 2005, pur senza darne una definizione, stabilisce che "La perequazione urbanistica è finalizzata al perseguimento degli obiettivi individuati dagli strumenti della pianificazione territoriale ed alla equa distribuzione dei diritti edificatori per tutte le proprietà immobiliari ricomprese in ambiti oggetto di trasformazione urbanistica”.
Lo strumento giuridico è dunque finalizzato ad un'equa distribuzione dei diritti edificatori in zone soggette a trasformazione urbanistica, ma non muta in un diritto soggettivo del proprietario la sua aspettativa a vedere conferita al proprio bene attitudine edificatoria in forza della sua prossimità a talune altre zone dove la pianificazione realizzata la attribuisce ai proprietari di aree confinanti.
La soluzione perequativa tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un'effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, in coerenza con lo scopo della disciplina urbanistica che non è la massimizzazione dell'aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede (Cons. Stato sez. IV, 10.02.2014, n. 616).
Come già rilevato da questo TAR “L'essenza della perequazione urbanistica risiede nella contemporaneità tra riconoscimento della capacità edificatoria ed imposizione dell'onere di contribuire allo sviluppo della città pubblica in modo che, laddove la pianificazione generale venga attuata per comparti, sia indifferente per i proprietari la collocazione all'interno del comparto destinato ad infrastrutture pubbliche da cedere al Comune giacché tutti dispongono del medesimo indice di edificabilità da utilizzare nelle aree destinate a ricevere la cubatura stabilita. L'attribuzione del medesimo indice edificatorio alle proprietà inserite nel comparto implica che si tratti di fondi con caratteristiche analoghe, sicché la perequazione non può applicarsi fuori dalle aree soggette a trasformazione urbanistica” (TAR Toscana, sez. I, 31.10.2012, n. 1752) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: I "BINS" SONO BENI E NON IMBALLAGGI. Una recente Sentenza del Tribunale di Roma, conferma le tesi del PolieCo.
Con la recentissima sentenza 08.04.2014 n. 8131 il TRIBUNALE di Roma, Sez. X, ha stabilito che detti prodotti [“bins” o “grandi contenitori” in polietilene] … hanno caratteristiche costruttive che non sono compatibili con l’utilizzo di detti prodotti come mero imballaggio.
Va osservato, quindi, come dall’analisi della struttura di detto prodotto lo stesso è destinato come ausilio duraturo all’attività dell’impresa all’interno del ciclo produttivo e non al fine di garantire un idoneo trasporto della merce nel circuito produttore/utilizzatore/consumatore. Per quanto detto, considerato che i contenitori in oggetto non costituiscono imballaggi.
Per tale ragione detti contenitori devono essere assoggettati alla disciplina ambientale del Consorzio PolieCo (art. 234 D.lgs. 152/2006) e non a quella del Consorzio CONAI (art. 224 D.lgs. 152/2006), analogamente, sotto il profilo contabile/fiscale devono essere considerati quali beni strumentali (tratto da www.polieco.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se a séguito del versamento del contributo di costruzione (a mezzo di assegni bancari privi di intestazione) nelle mani di funzionario (infedele) che si è poi appropriato della relativa somma di denaro il cittadino (richiedente il permesso di costruire) sia o meno tenuto a corrispondere all’Amministrazione comunale quanto gli viene imputato di non avere a suo tempo versato in tesoreria comunale.
La norma deroga al principio generale stabilito dall’art. 1188 cod. civ., secondo cui il pagamento è liberatorio solo se effettuato al creditore o al suo rappresentante, ed è collegata all’istituto dell’apparenza giuridica, configurabile solo se l’apparenza risulti giustificata da circostanze univoche e concludenti riferibili al creditore, sì da far sorgere nel debitore un ragionevole affidamento, esente da colpa, sull’effettiva sussistenza della facoltà apparente dell’accipiens di ricevere il pagamento; in presenza di tale prova –a carico del debitore–, incombe sul creditore l’onere di provare a sua volta che il solvens non ignorasse la reale situazione ovvero che l’affidamento dello stesso fosse determinato da colpa.
Orbene, la peculiare situazione determinatasi nel caso di specie –con il Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Zocca che ha incassato, senza averne titolo, quanto dovuto dai ricorrenti per il contributo di costruzione e ha poi distratto quella somma a proprio profitto– integra un’ipotesi riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 1189 cod. civ. (“Il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede. Chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione verso il vero creditore, secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito”), posto che i ricorrenti adducono la loro buona fede circa le modalità di versamento della somma di denaro spettante all’Amministrazione comunale, e imputano alla stessa di avere omesso di vigilare sulla condotta del funzionario, colpevolmente favorendo la formazione di un legittimo affidamento del privato in ordine alla regolarità di detta condotta, oltretutto contraddistinta da numerosi episodi analoghi.
La buona fede, in particolare, appare agevolmente rinvenibile in un caso in cui il debitore, proprio per la natura pubblica del soggetto che funge da controparte, ha valide ragioni per ritenere che il comportamento di quest’ultimo sia improntato a correttezza e al rispetto della legalità, tenuto anche conto della circostanza che, a norma dell’art. 180, comma 1, del «testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (d.lgs. n. 267/2000), la “riscossione costituisce la successiva fase del procedimento dell’entrata, che consiste nel materiale introito da parte del tesoriere o di altri eventuali incaricati della riscossione delle somme dovute all’ente”, sicché non appare ragionevolmente esigibile dal cittadino comune la conoscenza analitica dei soggetti di volta in volta autorizzati in tal senso dall’Amministrazione comunale, e non è dunque ascrivibile ai ricorrenti una insufficiente diligenza o comunque un affidamento “colpevole” se essi hanno accolto la richiesta di pagamento diretto rivolta loro da funzionario che non aveva in realtà titolo all’incasso del denaro; né, poi, è significativo che i due assegni bancari siano stati consegnati al funzionario infedele senza l’indicazione dell’intestatario –nel dichiarato presupposto che l’ufficio comunale avrebbe in séguito provveduto ad integrarli in parte qua–, in quanto la contestuale restituzione della c.d. “scheda oneri” con il timbro “pagato” (situazione richiamata anche dal giudice penale quale prassi osservata dal funzionario infedele per ingannare gli interessati) rappresentava circostanza in sé convincente, secondo un parametro di diligenza media, della correttezza della procedura in atto e dell’incasso della somma da parte dell’ente, in un contesto ambientale riconducibile alla medesima Amministrazione ed in relazione ad un funzionario investito della funzione di Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia, quindi in condizioni che ragionevolmente escludevano la sussistenza di motivi per dubitare della liceità della condotta dell’interlocutore pubblico.
Quanto, poi, alla responsabilità del creditore nel determinarsi delle circostanze univoche e concludenti che hanno dato luogo all’insorgere della situazione apparente per il privato, si presenta decisiva la circostanza che il comportamento illecito del funzionario si sia svolta all’interno della sfera di sorveglianza dell’Amministrazione e in occasione dell’esercizio dei compiti a lui assegnati, con la conseguenza che l’omessa adozione di misure organizzative adeguate, e quindi l’insufficienza dei controlli, ha favorito la condotta ingannevole del funzionario nonché il legittimo convincimento del privato, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchiasse la realtà giuridica.
Di qui la fondatezza della pretesa dei ricorrenti a vedersi dichiarare liberati dall’obbligo di pagamento di una somma di denaro che l’Amministrazione comunale assume ancora dovuta, posto che il pregresso pagamento nelle mani del funzionario infedele –in virtù del principio dell’apparenza giuridica– aveva determinato l’estinzione dell’obbligazione e la necessità che l’ente locale si rivalesse a quel punto sul proprio dipendente.

Con permessi di costruire n. 22 del 15.07.2005 e n. 6 del 29.03.2006 il Comune di Zocca assentiva ai ricorrenti la realizzazione di opere di “costruzione di nuovo fabbricato ad uso civile abitazione”. Successivamente, avendo accertato che il relativo contributo di costruzione era stato solo in parte versato in tesoreria comunale (per l’importo di € 7.555,17) e che residuava la somma complessiva di € 48.362,96 (comprensiva anche degli interessi legali e dei diritti di segreteria), l’Amministrazione disponeva di provvedere al recupero di quanto ancora dovuto (v. determinazione n. 5.047 del 05.06.2013, a firma della Responsabile del Servizio Autonomo di Verifica delle pratiche edilizie pregresse) e richiedeva quindi ai ricorrenti il pagamento di detta somma (v. nota prot. n. 4816/2013 del 05.06.2013).
Avverso tali atti hanno proposto impugnativa gli interessati.
Assumono non dovuta la somma richiesta loro, in quanto a suo tempo versata a mezzo di assegni bancari consegnati al Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia, secondo le modalità da questi indicate, e pertanto entrata nella disponibilità del Comune di Zocca, mentre la circostanza –accertata in sede penale con la qualificazione del fatto come “peculato”– che il funzionario avesse distratto il denaro a proprio favore non poteva farne ricadere le conseguenze su chi era da ritenersi estraneo a fatti interni all’ente locale; denunciano, ancora, l’omessa considerazione che, in virtù del vincolo di immedesimazione organica che lega l’Amministrazione ai propri dipendenti, l’operato illecito di questi è imputabile all’ente da cui dipendono, sicché il Comune di Zocca deve rispondere anche della condotta del funzionario che, in presenza del rapporto di “necessaria occasionalità” tra le sue incombenze e l’attività compiuta, si è appropriato di denaro destinato alle casse comunali; invocano, ancora, il principio per cui il terzo può essere chiamato a subire le conseguenze dell’operato illecito del funzionario infedele solo nel caso di accordo fraudolento con il funzionario medesimo o di sua condotta negligente, mentre nel caso di specie essi hanno legittimamente confidato nella regolarità dei versamenti effettuati, a fronte delle circostanze di fatto in cui si è svolta la vicenda e della stessa astratta possibilità che la riscossione fosse eseguita da soggetti diversi dal tesoriere, così come previsto dalla normativa in materia; lamentano, infine, che non si sia tenuto conto dell’omessa vigilanza del Comune di Zocca sulla condotta del funzionario infedele –responsabile di numerosi ammanchi–, tanto da consolidarsi legittimamente nei cittadini l’incolpevole affidamento circa la regolarità del modus operandi poi rivelatosi illecito e da risultare l’ente locale corresponsabile dei danni subiti dall’illecito comportamento del proprio dipendente.
Di qui la richiesta di annullamento degli atti impugnati, nonché di condanna dell’Amministrazione comunale al risarcimento dei danni e alla restituzione dell’importo versato in eccedenza (€ 6.381,14), con interessi legali e rivalutazione monetaria.
...
Il Collegio è chiamato ad accertare se, a séguito del versamento del contributo di costruzione (a mezzo di assegni bancari privi di intestazione) nelle mani di funzionario che si è poi appropriato della relativa somma di denaro –sì da patteggiare successivamente in sede penale per il reato di “peculato”–, i ricorrenti siano o meno tenuti a corrispondere all’Amministrazione quanto viene loro imputato di non avere a suo tempo versato in tesoreria comunale.
Come è noto, l’art. 1189 cod.civ., che riconosce efficacia liberatoria al pagamento effettuato dal debitore in buona fede a chi appare legittimato a riceverlo, si applica, per identità di ratio, sia all’ipotesi di pagamento effettuato al creditore apparente, sia all’ipotesi in cui il pagamento viene effettuato a persona che appaia autorizzata a riceverlo per conto del creditore effettivo, ove quest’ultimo abbia determinato o concorso a determinare l’errore del solvens, facendo sorgere nel soggetto in buona fede una ragionevole presunzione circa la rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens (v. tra le altre, Cass. civ., Sez. II, 13.09.2012 n. 15339).
La norma deroga al principio generale stabilito dall’art. 1188 cod. civ., secondo cui il pagamento è liberatorio solo se effettuato al creditore o al suo rappresentante, ed è collegata all’istituto dell’apparenza giuridica, configurabile solo se l’apparenza risulti giustificata da circostanze univoche e concludenti riferibili al creditore, sì da far sorgere nel debitore un ragionevole affidamento, esente da colpa, sull’effettiva sussistenza della facoltà apparente dell’accipiens di ricevere il pagamento; in presenza di tale prova –a carico del debitore–, incombe sul creditore l’onere di provare a sua volta che il solvens non ignorasse la reale situazione ovvero che l’affidamento dello stesso fosse determinato da colpa.
Orbene, la peculiare situazione determinatasi nel caso di specie –con il Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Zocca che ha incassato, senza averne titolo, quanto dovuto dai ricorrenti per il contributo di costruzione e ha poi distratto quella somma a proprio profitto– integra un’ipotesi riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 1189 cod. civ. (“Il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede. Chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione verso il vero creditore, secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito”), posto che i ricorrenti adducono la loro buona fede circa le modalità di versamento della somma di denaro spettante all’Amministrazione comunale, e imputano alla stessa di avere omesso di vigilare sulla condotta del funzionario, colpevolmente favorendo la formazione di un legittimo affidamento del privato in ordine alla regolarità di detta condotta, oltretutto contraddistinta da numerosi episodi analoghi.
La buona fede, in particolare, appare agevolmente rinvenibile in un caso in cui il debitore, proprio per la natura pubblica del soggetto che funge da controparte, ha valide ragioni per ritenere che il comportamento di quest’ultimo sia improntato a correttezza e al rispetto della legalità, tenuto anche conto della circostanza che, a norma dell’art. 180, comma 1, del «testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (d.lgs. n. 267/2000), la “riscossione costituisce la successiva fase del procedimento dell’entrata, che consiste nel materiale introito da parte del tesoriere o di altri eventuali incaricati della riscossione delle somme dovute all’ente”, sicché non appare ragionevolmente esigibile dal cittadino comune la conoscenza analitica dei soggetti di volta in volta autorizzati in tal senso dall’Amministrazione comunale, e non è dunque ascrivibile ai ricorrenti una insufficiente diligenza o comunque un affidamento “colpevole” se essi hanno accolto la richiesta di pagamento diretto rivolta loro da funzionario che non aveva in realtà titolo all’incasso del denaro; né, poi, è significativo che i due assegni bancari siano stati consegnati al funzionario infedele senza l’indicazione dell’intestatario –nel dichiarato presupposto che l’ufficio comunale avrebbe in séguito provveduto ad integrarli in parte qua–, in quanto la contestuale restituzione della c.d. “scheda oneri” con il timbro “pagato” (situazione richiamata anche dal giudice penale quale prassi osservata dal funzionario infedele per ingannare gli interessati) rappresentava circostanza in sé convincente, secondo un parametro di diligenza media, della correttezza della procedura in atto e dell’incasso della somma da parte dell’ente, in un contesto ambientale riconducibile alla medesima Amministrazione ed in relazione ad un funzionario investito della funzione di Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia, quindi in condizioni che ragionevolmente escludevano la sussistenza di motivi per dubitare della liceità della condotta dell’interlocutore pubblico.
Quanto, poi, alla responsabilità del creditore nel determinarsi delle circostanze univoche e concludenti che hanno dato luogo all’insorgere della situazione apparente per il privato, si presenta decisiva la circostanza che il comportamento illecito del funzionario si sia svolta all’interno della sfera di sorveglianza dell’Amministrazione e in occasione dell’esercizio dei compiti a lui assegnati, con la conseguenza che l’omessa adozione di misure organizzative adeguate, e quindi l’insufficienza dei controlli, ha favorito la condotta ingannevole del funzionario nonché il legittimo convincimento del privato, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchiasse la realtà giuridica.
Di qui la fondatezza della pretesa dei ricorrenti a vedersi dichiarare liberati dall’obbligo di pagamento di una somma di denaro che l’Amministrazione comunale assume ancora dovuta, posto che il pregresso pagamento nelle mani del funzionario infedele –in virtù del principio dell’apparenza giuridica– aveva determinato l’estinzione dell’obbligazione e la necessità che l’ente locale si rivalesse a quel punto sul proprio dipendente.
Pertanto, nei termini indicati il ricorso va accolto, con conseguente annullamento degli atti impugnati; in ragione di ciò, va anche condannata l’Amministrazione comunale alla restituzione della somma a suo tempo versata in eccedenza dagli interessati, avendo i permessi di costruire n. 22/2005 e n. 6/2006 allora quantificato in € 54.369,12 l’importo complessivo dovuto e avendo ora il Comune di Zocca rideterminato quell’importo in € 48.028,67, con l’effetto di dover essere resa ai ricorrenti la somma di € 6.340,45, con l’aggiunta degli interessi legali dalla domanda giudiziale (data di notificazione del ricorso) al saldo –dovendosi presumere per il calcolo erroneo la buona fede dell’accipiens in assenza di prova contraria–, mentre non compete la rivalutazione monetaria trattandosi di pagamento di indebito oggettivo ex art. 2033 cod.civ. (v., ex multis, TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 28.06.2013 n. 1921) e difettando d’altronde la dimostrazione dell’eventuale maggior danno subito. Va respinta, infine, la domanda di risarcimento dei danni, nessuna prova essendo stata fornita in tal senso dai ricorrenti.
Un’ultima questione è legata all’invocata declaratoria di inammissibilità in parte qua del ricorso, eccezione sollevata da tre funzionari comunali che lamentano di essere stati indebitamente evocati in giudizio e che in ragione di ciò chiedono la condanna dei ricorrenti per responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ. e per avere agito temerariamente in giudizio ex art. 26 cod. proc. amm.
In realtà, se è vero che la persona fisica autrice del provvedimento amministrativo impugnato non è un controinteressato perché carente del requisito sostanziale della titolarità di una posizione giuridica di vantaggio scaturente da quel provvedimento (v., ex multis, TAR Basilicata 26.10.2007 n. 650), non si ravvisa tuttavia la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 96 cod. proc. civ. e dell’art. 26 cod. proc. amm., in quanto nessuna domanda giudiziale è stata proposta nei confronti dei tre funzionari comunali, sicché la mera notificazione del ricorso –evidentemente fatta ad abundantiam e in via prudenziale– ben avrebbe potuto essere ignorata da chi era consapevole di vantare al più un interesse di fatto al rigetto del ricorso
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 04.04.2014 n. 380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Le ordinanze sindacali contingibili e d'urgenza in materia di igiene e sanità pubblica, ex art. 54 d.lgs. 267/2000, sono atti pacificamente rientranti nella competenza del sindaco e sottratti, in ragione del loro carattere cautelare e urgente, all’obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7, l. n. 241 del 1990.
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E' legittima l'adottata ordinanza sindacale (per la rimozione di una copertura in eternit) poiché sussistono in concreto i presupposti della contingibilità e urgenza, posto che l'accertato (da parte dell'Azienda Sanitaria) rischio di dispersione delle fibre di amianto nell'ambiente, eziologicamente riconducibile allo stato di conservazione, alla friabilità e all'estensione dei pannelli, per di più collocati in area aperta al pubblico, assumeva i requisiti di imprevedibilità, eccezionalità nonché di urgenza (intesa come impellente necessità di provvedere al fine di non pregiudicare l'interesse pubblico, che può essere definitivamente danneggiato con il trascorrere del tempo) richiesti dalla legge e dalla giurisprudenza per la legittima adozione del provvedimento contingibile e urgente.
Alla luce dei citati presupposti e di un'urgenza da considerare quindi, ad avviso del collegio, sufficientemente qualificata (come pure evincibile dalla valutazione specificamente resa dal Sindaco, sul punto, nell'atto impugnato) legittimamente si è ritenuto di prescindere dall'effettuazione delle modalità partecipative tipiche dell'azione amministrativa ordinaria, secondo i canoni di cui alla legge n. 241/1990 (art. 7).
D’altra parte, la censurata omissione deve essere valutata alla luce del principio ormai costantemente accolto dalla giurisprudenza, per cui le norme in materia di partecipazione procedimentale vanno interpretate non in senso formalistico, ma coerentemente con l'effettivo e oggettivo vulnus che la parte possa subire in relazione al rapporto controverso; dal che consegue che il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali che non abbiano inciso sulla sua legittimità sostanziale e, quindi, allorché il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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Appare condivisibile, in termini più generali, l’indirizzo operativo fatto proprio dall’amministrazione, in sintonia con l'attuale quadro legislativo e giurisprudenziale chiaramente orientato all'obiettivo primario della progressiva eliminazione del materiale amianto, secondo il quale la conservazione di alcuni tipi di copertura in eternit è da ritenersi tollerabile, sia pure alla luce di accurate valutazioni tecnico-scientifiche, unicamente laddove sussista una contenuta esposizione ad agenti atmosferici esterni aggressivi e/o uno stato di buona manutenzione del manufatto.

Sul piano formale il provvedimento si sottrae a tutti i rilievi contenuti in ricorso inerenti la legittimità dell’iter procedimentale che ha condotto all’adozione dell’ordinanza contingibile.
Innanzitutto, vanno respinte le tre censure (a, d, e) riferite alla qualificazione giuridica dell’atto impugnato, alle garanzie partecipative che ad esso si correlano e alla competenza ad adottarlo da parte del sindaco.
Le deduzioni svolte sul punto dai ricorrenti, infatti, si pongono in termini dissonanti rispetto al pacifico orientamento giurisprudenziale che ascrive tale tipologia di provvedimenti alla categoria delle ordinanze sindacali contingibili e d'urgenza in materia di igiene e sanità pubblica, ex art. 54 d.lgs. 267/2000. Si tratta di atti pacificamente rientranti nella competenza del sindaco e sottratti, in ragione del loro carattere cautelare e urgente, all’obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7, l. n. 241 del 1990 (Cons. St, sez. II, 28.04.2004, n. 3444; TAR Pescara sez. I, 13.04.2010, n. 433; TAR Basilicata sez. I, 21.06.2012, n. 296; Cons. St., sez. V, 19.09.2012, n. 4968; TAR Bari sez. I, 01.08.2013, n. 1217).
Con specifico riguardo al caso in esame, la sussistenza in concreto del presupposto del danno grave e imminente per l’incolumità pubblica risulta esplicitata nel provvedimento, sia attraverso un diretto riferimento allo scadente stato di conservazione delle lastre, e quindi al livello medio di esposizione alla fibre di amianto; sia per relationem agli accertamenti tecnici condotti dall’ARPA.
Essa non è contraddetta, peraltro, dal fatto che siano stati concessi 12 mesi per l’esecuzione dell’intervento di rimozione. Nel calibrare i tempi di esecuzione, l’amministrazione ha infatti dovuto contemperare l’urgenza dell’opera di messa in sicurezza con la necessità di concedere un termine congruo e tecnicamente proporzionato ai tempi dell’autorizzazione e della realizzazione dell’intervento, tenuto anche conto dell’entità della superficie da bonificare (4500 mq) e dei necessari protocolli procedurali imposti dalla normativa vigente in materia.
Diversamente da quanto sostenuto in ricorso, inoltre, sussistevano in concreto i presupposti della contingibilità e urgenza, posto che l'accertato (da parte dell'Azienda Sanitaria) rischio di dispersione delle fibre di amianto nell'ambiente, eziologicamente riconducibile allo stato di conservazione, alla friabilità e all'estensione dei pannelli, per di più collocati in area aperta al pubblico, assumeva i requisiti di imprevedibilità, eccezionalità nonché di urgenza (intesa come impellente necessità di provvedere al fine di non pregiudicare l'interesse pubblico, che può essere definitivamente danneggiato con il trascorrere del tempo) richiesti dalla legge e dalla giurisprudenza per la legittima adozione del provvedimento contingibile e urgente.
Alla luce dei citati presupposti e di un'urgenza da considerare quindi, ad avviso del collegio, sufficientemente qualificata (come pure evincibile dalla valutazione specificamente resa dal Sindaco, sul punto, nell'atto impugnato) legittimamente si è ritenuto di prescindere dall'effettuazione delle modalità partecipative tipiche dell'azione amministrativa ordinaria, secondo i canoni di cui alla legge n. 241/1990 (art. 7).
A questo riguardo trova adeguati margini applicativi al caso di specie anche la disposizione di cui all'art. 21-octies della legge 241/1990, se solo si considera, per un verso, che le parti resistenti hanno fornito adeguata dimostrazione che il tenore dell’atto impugnato non sarebbe mutato in caso di regolare comunicazione dell'inizio del procedimento, stante l’inconferenza dei rilievi critici sollevati sul punto dei ricorrenti.
Per altro verso, l’affermazione secondo cui il contraddittorio con la parte privata avrebbe consentito di selezionare meglio la soluzione operativa da adottare, è contraddetta dal fatto che neppure in sede processuale i ricorrenti hanno allegato concreti elementi -inerenti il grado di efficacia e di onerosità dei diversi interventi contemplati dalla letteratura scientifica- dai quali possa desumersi l’effettiva maggiore vantaggiosità delle misure di bonifica tralasciate rispetto a quelle prescelte dall’amministrazione.
Pertanto, anche sotto il profilo della scelta (certamente connotata da margini di discrezionalità) dei rimedi da adottare al fine di scongiurare il temuto danno alla salute, la parte ricorrente non ha provato di aver risentito un concreto pregiudizio dall’omesso esercizio delle facoltà partecipative.
D’altra parte, la censurata omissione deve essere valutata alla luce del principio ormai costantemente accolto dalla giurisprudenza, per cui le norme in materia di partecipazione procedimentale vanno interpretate non in senso formalistico, ma coerentemente con l'effettivo e oggettivo vulnus che la parte possa subire in relazione al rapporto controverso; dal che consegue che il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali che non abbiano inciso sulla sua legittimità sostanziale e, quindi, allorché il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Cons. Stato Sez. IV, 29.01.2014, n. 449; 31.01.2012, n. 480).
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I ricorrenti assumono, ancora, la presunta violazione del principio di proporzionalità nella scelta dell'amministrazione di imporre l'intervento di bonifica "più oneroso" -la rimozione della copertura- "esistendo tecnicamente altre modalità di intervento egualmente idonee, in astratto, a tutelare l'interesse pubblico".
Tuttavia -al di là del fatto che, come già esposto, non è stato allegato alcun elemento di stima dei costi di interventi alternativi, in comparazione con quello qui contestato, dal quale possa desumersi l’effettiva maggiore gravosità della bonifica imposta- appare condivisibile, in termini più generali, l’indirizzo operativo fatto proprio dall’amministrazione, in sintonia con l'attuale quadro legislativo e giurisprudenziale chiaramente orientato all'obiettivo primario della progressiva eliminazione del materiale amianto, secondo il quale la conservazione di alcuni tipi di copertura in eternit è da ritenersi tollerabile, sia pure alla luce di accurate valutazioni tecnico-scientifiche, unicamente laddove sussista una contenuta esposizione ad agenti atmosferici esterni aggressivi e/o uno stato di buona manutenzione del manufatto.
Ebbene, nessuna di dette circostanze è stata riscontrata nel caso di specie, tenuto conto dell’accentuata condizione di danneggiamento della copertura e della sua considerevole superficie, fattori ai quali corrisponde -in misura proporzionale– un altrettanto elevato rischio di esposizione agli agenti atmosferici e di conseguente dispersione del materiale pernicioso per la salute.
In conclusione, tutte le considerazioni sin qui esposte denotano l’assenza di profili di irragionevolezza o illogicità nelle valutazioni espresse dagli organi consultivi compulsati ai fini dell'accertamento della sussistenza del pericolo per la salute pubblica e della conseguente individuazione degli opportuni rimedi.
Il ricorso non può pertanto trovare accoglimento
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 20.03.2014 n. 480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuanto al concetto di “sagoma”, essa è da intendersi, secondo l’insegnamento giurisprudenziale, come la conformazione planivolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti.
Risulta quindi rilevante, alla luce della normativa applicabile nel presente giudizio, il concetto di “sagoma”, giacché la sua modificazione comporta, con riferimento agli interventi di demolizione e ricostruzione, il passaggio dall’istituto della <ristrutturazione edilizia> a quello della <sostituzione edilizia>.
Quanto al concetto di “sagoma”, essa è da intendersi, secondo l’insegnamento giurisprudenziale, come la conformazione planivolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (cfr. Cons. Stato, Sez. 6^, 15.03.2013, n. 1564; Corte cost. 23.11.2011, n. 309; Cass. Pen., sez. 3^, 09.10.2008, 38408 e 06.02.2001, n. 9427).
Avendo riguardo a tale concetto non par dubbio che nella specie l’edificio progettato e autorizzato con il provvedimento gravato comporti, rispetto a quello demolito, una modificazione di sagoma, risultando ciò dagli elaborati progettuali versati in atti e dagli stessi rilievi delle parti negli atti di giudizio. In particolare è evidente il diverso disegno e le diverse caratteristiche che il nuovo edificio assume rispetto al vecchio se si tiene conto del passaggio da una copertura tradizionale a falde inclinate ad una copertura del nuovo edificio con andamento semicircolare, delle modifiche degli aggetti e dei prospetti e scale di accesso (ammesse anche dalla controinteressata), del rialzamento del colmo della copertura di 80 cm misurati esternamente (ammesso dalla controinteressata).
La diversità di sagoma, con riferimento al primo piano, è stata accertata anche nella svolta verificazione (pagg. 16 e 19 della relazione finale; il verificatore, con riferimento al primo piano, afferma che è stato totalmente reimpostato “cambiandone completamente perimetro e sagoma”), il che conforta le svolte considerazioni. Ne discende che la “sagoma” del nuovo progettato edificio, da valutarsi come intervento unitario, è sicuramente variata, il che esclude la sua riconducibilità alla <ristrutturazione edilizia> e il suo qualificarsi come <sostituzione edilizia>, il che comporta la configurazione dell’intervento stesso come nuova costruzione e non già come intervento sostanzialmente conservativo della pregressa edificazione, con le conseguenze che ne discendono (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.01.2014 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEdifici fatti a tappe comunque demoliti. Stop ai lavori che impediscono la vista mare.
Stop ai lavori del vicino di casa che «impallano» la veduta sul mare, anche se l'intervento di demolizione e successiva riedificazione avviene con la tecnica del «cuci e scuci», che comporta tappe progressive: si tratta comunque di una nuova costruzione. Soltanto il decreto del fare ha cancellato il vincolo del rispetto della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, ma non si applica alle opere preesistenti.
È quanto emerge dalla sentenza 23.01.2014 n. 156, pubblicata dal TAR Toscana, Sez. III.
Tecnica irrilevante.
Accolto il ricorso del confinante secondo cui è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificio che gli ha tolto la vista sul panorama marino. E in effetti la sagoma del fabbricato risulta cambiata e, nella specie, non si applicano le novità introdotte dal decreto legge 69/2013: non può essere retroattiva la disposizione con cui il legislatore ha espunto il riferimento alla sagoma dall'articolo 3, comma 1, lettera d), del Testo unico sull'edilizia.
La demolizione e riedificazione del fabbricato deve comunque essere considerata una nuova costruzione ai fini del titolo abilitativo, al di là della tecnica utilizzata, che pure non prevede un abbattimento integrale ma solo parziale del manufatto.
Orecchia galeotta.
Nella specie che l'edificio in costruzione è più alto di ben due metri e mezzo rispetto a quello demolito. In particolare risultano evidenti il diverso disegno e le differenti caratteristiche che il nuovo fabbricato assume rispetto al vecchio. E ciò specie se si tiene conto del passaggio dalla copertura tradizionale a falde inclinate a una copertura del nuovo manufatto con andamento semicircolare; senza dimenticare le modifiche ad aggetti, prospetti e scale di accesso.
Nessun dubbio, dunque, che sia cambiata la sagoma: nella nozione ai fini normativi rientrano la conformazione della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, vale a dire il contorno che viene a assumere l'edificio, comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti. Galeotta in particolare fu l'«orecchia», cioè le opere dalla forma ondulata realizzate sulla terrazza fronte mare al piano sopraelevato. Insomma: il permesso di costruire è annullato. Spese compensate (articolo ItaliaOggi del 20.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha ben ritenuto compatibile l’utilizzo del metodo <cuci e scuci> con la sussistenza, in termini giuridici, all’esito della progressiva sostituzione delle pareti dell’edificio preesistente, di un intervento di nuova costruzione.
Deve solo essere aggiunto, in punto di qualificazione dell’intervento edilizio de quo, che il Collegio non ritiene che le conclusioni raggiunte al precedente punto 14 debbano essere modificate ove anche si prenda in considerazione, secondo le prospettazioni delle parti resistenti, che la tecnica utilizzata per la demolizione e ricostruzione è stata quella del c.d. <cuci e scuci>, consistente non già ad una integrale demolizione dell’esistente seguita da successiva ricostruzione ma da una progressiva demolizione e contestuale ricostruzione, per parti, dell’edificio medesimo; a prescindere dal rilievo se la demolizione sia in effetti avvenuta in modo integrale unitario (come la svolta verificazione sembra suggerire) o per parti progressive, non pare comunque che la tecnica utilizzata possa venire ad incidere sulla tipologia di intervento effettivamente realizzato e sulla sua conseguente qualificazione giuridico-edilizia, avendo la giurisprudenza ben ritenuto compatibile l’utilizzo del metodo <cuci e scuci> con la sussistenza, in termini giuridici, all’esito della progressiva sostituzione delle pareti dell’edificio preesistente, di un intervento di nuova costruzione (TAR Veneto, sez. 2^, 27.07.2009, n. 2226) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.01.2014 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa diversa oggettiva localizzazione del fabbricato su una porzione dell’area di sedime diversa da quella individuata in occasione del rilascio del titolo autorizzatorio non può essere semplicemente ricondotta ad una difformità parziale, bensì deve essere qualificata come variazione essenziale, così come definita dall’art. 8, lettera c), della legge n. 47/1985 e dall’art. 92, comma 3, lettera c), della legge regionale 61/1985.
Va, quindi, condiviso e confermato l’orientamento interpretativo richiamato dalla difesa del Comune, già manifestato da questo Tribunale, per cui la modifica della localizzazione dell’edificio, tale da comportare lo spostamento del fabbricato in un’area pressoché diversa da quella prevista all’atto del rilascio del titolo edilizio, costituisce una variante essenziale, in quanto profilo che può condizionare la compatibilità dell’intervento con i parametri urbanistici e le connotazioni dell’area.
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E' costante l’orientamento giurisprudenziale in base al quale in sede di sanatoria o di condono di un manufatto abusivo risulta ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso.
Invero, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria, la valutazione della compatibilità dell’intervento con il vincolo deve essere effettuata in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.
Atteso che la richiesta di sanatoria è stata presentata nel 2006 e quindi in un’epoca in cui il vincolo già era esistente, trattandosi di opera implicante incremento di superficie e di volume e quindi non rientrante nell’ambito delle ipotesi in cui è eccezionalmente consentito -in base ai commi 4 e 5 dell’art. 167 D.lgs. 42/2004- il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, il diniego del comune è legittimo.

... per l'annullamento del provvedimento comunale 24/07/1997 n. 16/1997 di demolizione opere edili;
...
Invero, come è dato rilevare dai riscontri effettuati dall’amministrazione e soprattutto dalla visione delle planimetrie, l’edificio realizzato sulla base della concessione n. 783/1984 doveva essere localizzato in una posizione più arretrata rispetto a quella rilevata, mentre risulta sopravanzato in direzione nord di ben 60 ml.
In tal modo, benché, come riportato testualmente nella concessione edilizia 783/1984 (cfr. doc. 6 del Comune), la costruzione avrebbe dovuto interessare unicamente il mappale n. 27, nella realtà il suddetto mappale è stato coinvolto nell’intervento in minima parte, risultando la quasi totalità del fabbricato posizionata sui diversi mappali 300 e 25, entrambi proiettati in direzione nord verso il cimitero (cfr. doc. 5 Comune).
Ne consegue che, anche tenendo conto delle diverse e maggiori dimensioni del fabbricato in termini di superficie e volumetria rispetto a quanto autorizzato (in tal senso le stesse misurazioni contenute nella domanda di sanatoria dimostrano tali incrementi), la diversa oggettiva localizzazione del fabbricato su una porzione dell’area di sedime diversa da quella individuata in occasione del rilascio del titolo autorizzatorio, non può, come auspicato da parte ricorrente, essere semplicemente ricondotta ad una difformità parziale, bensì deve essere qualificata come variazione essenziale, così come definita dall’art. 8, lettera c), della legge n. 47/1985 e dall’art. 92, comma 3, lettera c), della legge regionale 61/1985.
Va, quindi, condiviso e confermato l’orientamento interpretativo richiamato dalla difesa del Comune, già manifestato da questo Tribunale, per cui la modifica della localizzazione dell’edificio, tale da comportare lo spostamento del fabbricato in un’area –come nel caso in esame– pressoché diversa da quella prevista all’atto del rilascio del titolo edilizio, costituisce una variante essenziale, in quanto profilo che può condizionare la compatibilità dell’intervento con i parametri urbanistici e le connotazioni dell’area: ed il caso in esame è la prova della rilevanza del rispetto di tali parametri, proprio in considerazione della necessità di rispettare il vincolo cimiteriale, di modo che lo spostamento in avanti e verso nord, in direzione del cimitero, avrebbe evidentemente costituito, laddove correttamente rappresentato, una causa di impedimento al conseguimento della concessione edilizia.
Invero, nonostante che nella planimetria allegata al permesso di costruire il fabbricato venisse posizionato al di fuori del limite della fascia di rispetto cimiteriale, in realtà questo è stato poi localizzato in un’area che all’epoca della sua realizzazione era pacificamente considerata rientrante nella fascia di inedificabilità per la presenza nelle vicinanze del cimitero.
Sul punto –passando così ad affrontare la questione relativa alla sanabilità dell’abuso- è agevole desumere dall’esame del documento n. 7 del Comune i diversi momenti storici nei quali è stata prevista la diversa estensione del vincolo cimiteriale.
Orbene, sicuramente sino al 1998 (anche fosse il 1997 la questione non muterebbe, dovendosi fare riferimento all’epoca di costruzione del capannone ed in base all’accatastamento del 1989 l’edificio “G” risulta già esistente) il fabbricato insisteva in area coperta dal vincolo di rispetto cimiteriale, solo successivamente eliminato.
Ne consegue che al momento della realizzazione del fabbricato “G” l’area di sedime realmente interessata dall’intervento era compresa nell’ambito della fascia di rispetto cimiteriale.
Sulla base di questo dato oggettivo, il quale conferma che al momento della realizzazione dell’opera questa risultava illegittimamente posizionata in una area non edificabile, non è possibile il conseguimento della sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 380/2001 per mancanza della cd. “doppia conformità”, ossia la conformità alle prescrizioni urbanistico-edilizie vigenti al momento della realizzazione dell’opera e quelle vigenti al momento in cui è stata richiesta la sanatoria.
Il dato così rilevato assume rilevanza dirimente rispetto ad ogni altra considerazione circa la pretesa illegittimità del provvedimento che ha denegato la sanatoria, in quanto, come correttamente ritenuto nel provvedimento di diniego, le variazioni apportate all’originaria licenza costituiscono variazione essenziale rispetto all’originaria licenza e mancano del requisito della doppia conformità sia al momento della realizzazione che al momento dell’istanza.
A tale, si ripete, dirimente profilo, che è sufficiente a sorreggere il provvedimento di diniego, si aggiunge l’ulteriore aspetto evidenziato nel provvedimento impugnato e cioè l’impossibilità del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Sul punto va ricordato che dal 1999 tutto il territorio di Monfumo è soggetto a vincolo paesaggistico, per cui, in base alla normativa oggi vigente in materia di rilascio delle autorizzazioni per interventi da eseguirsi in ambiti protetti, comunque non sarebbe consentito ottenere un’autorizzazione a sanatoria.
A tale riguardo è costante l’orientamento giurisprudenziale in base al quale in sede di sanatoria o di condono di un manufatto abusivo risulta ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso (Cons. Stato, sez. IV, 18.09.2012, n. 4945; sez. VI, 27.11.2012, n. 5984).
Invero, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria, la valutazione della compatibilità dell’intervento con il vincolo deve essere effettuata in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.
Atteso che la richiesta di sanatoria è stata presentata nel 2006 e quindi in un’epoca in cui il vincolo già era esistente, trattandosi di opera implicante incremento di superficie e di volume e quindi non rientrante nell’ambito delle ipotesi in cui è eccezionalmente consentito -in base ai commi 4 e 5 dell’art. 167 D.lgs. 42/2004- il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inciso contenuto nel provvedimento impugnato risulta corretto.
Né sussistono gli ulteriori profili di illegittimità denunciati per quanto riguarda il preteso contrasto fra quanto anticipato in sede di comunicazione dei motivi ostativi e quanto poi concluso nel provvedimento finale.
Invero, anche alla luce delle osservazioni rese dalla ricorrente a seguito della comunicazione ex art. 10-bis, si evince che la stessa è stata posta nelle condizioni di comprendere appieno i motivi ostativi al rilascio del tiolo a sanatoria, in ordine alla doppia conformità ed alla sussistenza del vincolo, essendo le problematiche relative all’intervento argomento ben conosciuto e ampiamente dibattuto fra privato ed amministrazione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.12.2013 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 21.05.2014

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L'INTERROGATIVO DELLA SETTIMANA: può il tecnico comunale "diplomato" redigere il Regolamento Edilizio??

     Sgombriamo subito dal campo ogni possibile equivoco su false aspettative: ancorché sia stato equiparato, il regolamento edilizio, a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale, l'incentivo alla progettazione (interna) non spetta giusta la recentissima pronuncia della Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 15.04.2014 n. 7, con la quale è stata posta la parola "FINE" al contrasto interpretativo della norma di specie tra le varie Sezioni regionali di controllo.
     Ciò premesso, ci è pervenuto un quesito circa la legittimità -o meno- della deliberazione consiliare di approvazione del Regolamento Edilizio redatto a firma del tecnico comunale diplomato e non laureato. Ebbene, abbiamo cercato qua e là e di giurisprudenza/dottrina sull'argomento non abbiamo trovato nulla, se non alcuni quesiti cui ha risposto la Regione Friuli Venezia Giulia, dai cui riscontri emerge chiaramente l'invocata risposta e cioè:
     Atteso che la stesura del regolamento edilizio comunale si configura quale attività finalizzata alla redazione di atto regolamentare caratterizzato da rilevante complessità (per la cui realizzazione sono richieste conoscenze di natura giuridico-normativa, nonché tecnico-specialistica), si ritiene che tale attività rientri tra le mansioni e competenze riconducibili alla declaratoria peculiare della categoria D.
     Inoltre, essendo stato equiparato, il regolamento edilizio, a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale, pare che
la redazione dello stesso debba essere riservata a soggetti muniti di idoneo titolo di laurea tecnica e che abbiano superato l'esame di abilitazione professionale
.
     Se qualcuno è a conoscenza di qualche contributo giurisprudenziale/dottrinario sull'argomento è cortesemente invitato di inviarcelo (all'indirizzo info.ptpl@tiscali.it) che sarà prontamente pubblicato a vantaggio di tutti.
     Qui sotto è riportato tutto ciò che -al momento- abbiamo reperito sull'argomento.
21.05.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Personale degli enti locali. Regolamento edilizio comunale e incentivo.
Ritenendo equiparato, il regolamento edilizio, a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale, l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ha ritenuto possibile, anche per la redazione del medesimo, il riconoscimento, ai dipendenti interessati, del compenso previsto dalla legislazione vigente per la redazione degli atti di pianificazione.
Vanno tuttavia tenute presenti le precisazioni desumibili dai pareri della Corte dei Conti (sez. Reg. controllo Lombardia 57/2012 e 259/2012).

Il Comune chiede se sia ammissibile attribuire il compenso incentivante previsto dall'art. 92, comma 6
[1], del d.lgs. n. 163/2006 (codice contratti), per la revisione del regolamento edilizio, in relazione ad alcune recenti pronunce della Corte dei conti Lombardia [2].
L'Ente ritiene, infatti, che la revisione del regolamento edilizio non possa essere assimilata ad una attività diretta alla 'redazione di un atto di pianificazione', ma bensì sia qualificabile come attività variamente sussidiaria, rientrante tra le competenze proprie del personale dipendente appartenente all'area tecnica. Conseguentemente, non sembrerebbe possibile attribuire alcun compenso per lo svolgimento di detta attività, in quanto, violando il dettato normativo e il principio di onnicomprensività del trattamento economico del pubblico dipendente, si potrebbe configurare una responsabilità di natura contabile/amministrativa in capo a chi disponesse in tal senso.
Occorre, anzitutto, ricordare che lo scrivente si è già espresso sulla questione prospettata con un precedente parere
[3], in cui si osservava che il regolamento edilizio comunale è stato in alcune occasioni equiparato per natura, funzione e grado di incidenza, a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale, come il programma di fabbricazione o il piano regolatore generale «in considerazione dell'idoneità di tale strumento a disciplinare l'attività costruttiva in tutto il territorio comunale, al pari dei suddetti atti di pianificazione urbanistica». [4]
Ancorché il regolamento edilizio comunale trovi la propria disciplina nel contesto delle disposizioni concernenti la materia edilizia
[5] e possieda contenuti e caratteristiche distinte da quelle riconducibili allo strumento urbanistico [6], in tale sede si era preso atto dell'equiparazione sopra riportata.
Inoltre, con riferimento alla questione specifica della possibilità di riconoscere l'incentivo di cui all'art. 11, comma 3, della L.R. n. 14/2002 per la redazione del regolamento edilizio, si era, in detto contesto, rappresentato che l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, con la determinazione n. 43/2000, nell'interpretare la dizione 'atto di pianificazione comunque denominato', contenuta nell'art. 18, comma 2, della legge 11.02.1994, n. 109, ha ritenuto che, in detta fattispecie, «possano ricomprendersi, oltre che i vari tipi di atti di pianificazione, anche quegli atti a contenuto normativo, quali per esempio i regolamenti edilizi, che accedono alla pianificazione, purché completi e idonei alla successiva approvazione da parte degli organi competenti».
Considerato che la formulazione dell'art. 11, comma 3, della l.r. 14/2002, è identica a quella utilizzata dal legislatore nazionale, si era pervenuti pertanto ad una conclusione positiva in merito alla erogazione del relativo incentivo, reputando valide anche nell'ambito degli enti territoriali della nostra Regione le predette considerazioni.
Premesso un tanto, preliminarmente si ritiene doveroso richiamare l'attenzione dell'Ente sul fatto che, nel frattempo, sono intervenute sia disposizioni a livello legislativo, che orientamenti giurisprudenziali, improntati a regolamentare un severo contenimento della spesa pubblica. In particolare, si osserva che l'art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010 ha imposto un 'congelamento' delle risorse decentrate dei pubblici dipendenti, impedendone l'incremento oltre i limiti già stabiliti per l'anno 2010, a decorrere dal 2011 e fino al 2013. La riduzione di tale tipologia di spesa rappresenta uno specifico obiettivo vincolato di finanza pubblica al cui rispetto devono concorrere sia gli enti sottoposti al patto di stabilità che quelli esclusi. La ratio del citato art. 9, comma 2-bis, del d.l n. 78/2010, convertito, con modificazioni, nella l. n. 122 del 2010 è dunque quella di cristallizzare al 2010 il tetto di spesa relativo all'ammontare complessivo delle risorse presenti nei fondi unici che sono destinati al trattamento accessorio del personale di ciascuna amministrazione di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001.
Alla luce del quadro normativo di riferimento, la Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo
[7], ha rimarcato come la citata norma sia di stretta interpretazione, sicché, in via di principio essa non possa ammettere deroghe o esclusioni, in quanto la regola generale voluta dal legislatore è quella di porre un limite alla crescita dei fondi della contrattazione integrativa destinati alla generalità dei dipendenti pubblici.
In tale sede la Corte dei conti ha osservato che le sole risorse di alimentazione dei fondi da ritenere non ricomprese nell'ambito applicativo della norma in argomento, sono solo quelle destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili, che peraltro potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all'esterno dell'amministrazione pubblica con possibili oneri aggiuntivi per il bilancio degli enti.
Al riguardo, si è precisato che detta caratteristica ricorre per quelle risorse finalizzate a incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche, in quanto in tal caso si tratta di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l'amministrazione pubblica.
Pertanto, ad avviso della Corte dei conti, Sezioni riunite, fra le altre fattispecie, le sole risorse che affluiscono al fondo, che siano destinate a compensare le attività poste in essere per la progettazione di opere pubbliche e quelle riservate all'erogazione dei compensi legati agli incentivi per la progettazione devono ritenersi escluse dall'ambito applicativo della norma in esame.
Inoltre, con specifico riferimento al contenuto delle sentenze della corte dei conti Lombardia, richiamate dall'Ente istante, si osserva che le medesime contengono comunque puntualizzazioni e argomentazioni degne di considerazione, ai fini di una corretta erogazione del compenso di cui si discute, pur non riferendosi in concreto alla fattispecie specifica della redazione del regolamento edilizio.
La citata sezione della Corte dei conti
[8] ribadisce innanzitutto che, nel rispetto del principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente, nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d'ufficio, anche se di particolare complessità e più lautamente retribuita sul mercato professionistico.
Per contro, la legge si riserva la possibilità di disciplinare in modo diretto, qualitativamente o quantitativamente, la struttura del trattamento economico, nonché ulteriori specifici compensi, come nel caso dell'art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici.
In particolare, il Giudice contabile riconduce la predetta norma ad uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio dell'onnicomprensività del trattamento economico, stabilisce speciali compensi, eventualmente rinviando alla disciplina contrattuale e regolamentare la definizione dei criteri di riparto.
Conseguentemente, si deve escludere che un ente locale, con un proprio regolamento, possa fissare unilateralmente specifici compensi, al di fuori di previsione di legge che a ciò espressamente l'autorizzino, ovvero al di fuori della disciplina fissata dalla contrattazione collettiva.
In special modo, la Corte dei conti sottolinea che gli interventi del legislatore, in quanto derogatori, costituiscono eccezioni e si prestano a stretta interpretazione e per i quali sussiste il divieto di analogia di cui all'art. 12 delle preleggi.
Alla luce di tali affermazioni, e nell'ambito dell'attuale contesto normativo in cui si collocano, volto, in linea generale, al contenimento della spesa pubblica, è opportuno valutare, nel caso di specie, in cui è in programma la revisione del regolamento edilizio, se tale attività (che si è appreso, dalla documentazione inviata, consistere nell'adeguamento del regolamento alle sopravvenute disposizioni normative), per i suoi contenuti, e per l'impegno qualitativo e quantitativo richiesto e per la professionalità specifica necessaria, possa essere ricondotta alla nozione di 'redazione' di un atto di pianificazione (inteso come redazione di un progetto di lavori
[9]) come definito da dottrina e giurisprudenza.
Sulla base delle considerazioni riportate, per la Corte dei conti, sezione regionale per la Lombardia, ne consegue che comunque l'art. 92, comma 6, del codice contratti non potrebbe costituire titolo per l'erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni.
Tale disposizione, infatti abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell'oggetto, che la prestazione consista nella diretta 'redazione di un atto di pianificazione', e non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d'ufficio dei dipendenti, nel contesto dell'attività di governo del territorio;
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno.
In sostanza, la Corte dei conti esclude il diritto al compenso di cui si discute nel caso in cui non si tratti di redazione dell'atto di pianificazione, ma di 'specifici compiti e funzioni assolti dal personale dipendente dell'Ente in qualità di componenti del C.d. Ufficio di Piano', quindi di compiti strumentali e comunque svolti nell'ambito della specifica competenza istituzionale dell'ente di governo del territorio, vale a dire in attività rientranti nei doveri d'ufficio.
Parimenti, la citata sezione ritiene che l'estensione dei compensi per la redazione di atti di pianificazione non possa essere conseguita tramite l'esercizio della potestà regolamentare, cui viene affidata, esclusivamente, la fissazione di 'criteri e modalità' di ripartizione.
In conclusione, si ritiene che la possibilità di riconoscere l'incentivo di cui trattasi, anche per la revisione del regolamento edilizio, vada valutata ala luce dei parametri esposti dalla Corte dei conti, ferme restando le specifiche limitazioni di ordine finanziario sopra illustrate, tenendo conto, nel caso di specie, dell'effettivo contenuto dell'attività necessaria richiesta a tal fine.
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[1] La norma, peraltro identica nella formulazione all'art. 11, comma 3, della l.r. n. 14/2002, prevede che il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e dei criteri previsti in regolamento, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.
[2] Cfr. sez. reg. di controllo per la Lombardia, pareri n. 57/2012 e n. 259/2012.
[3] Cfr. nota n. 15416 del 22.09.2010, consultabile sul sito http://autonomielocali.regione.fvg.it.
[4] Così parere A.N.C.I. del 02.12.1997, che si esprime in relazione a quesito concernente la possibilità di qualificare come atto di pianificazione il regolamento edilizio comunale, ai fini del riconoscimento degli incentivi per la progettazione.
Si segnala che il predetto parere richiama Consiglio di Stato, sez. V, sentenze 04.11.1977, n. 969 e 21.02.1994, n. 104 e Corte di cassazione 12.11.1975, n. 3810, il cui testo non è risultato reperibile.
[5] Vale a dire l'art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, per il quale il regolamento edilizio «deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi» e l'art. 7 della legge regionale 11.11.2009, n. 9, secondo cui «Il regolamento edilizio disciplina, salvi gli ulteriori contenuti prescritti dalle altre leggi di settore aventi incidenza sulla materia edilizia e igienico-sanitaria, le attività di costruzione e di trasformazione fisica e funzionale delle opere edilizie [...]».
[6] In quanto, mentre lo strumento urbanistico effettua la suddivisione in 'zone' del territorio comunale, il regolamento edilizio disciplina le 'modalità costruttive' (disponendo, in particolare, in ordine alle altezze, alle distanze dei fabbricati, all'ampiezza dei cortili e degli spazi interni, all'aspetto dei fabbricati, ecc.) e possiede carattere normativo.
[7] Cfr. n. 51/CONTR/11.
[8] Vedasi, in particolare, il parere n. 259/2012.
[9] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Toscana, del. n. 213/2011/PAR
(31.07.2012 - link a www.regione.fvg.it).

COMPETENZE PROGETTUALI - URBANISTICA: Personale degli enti locali. Regolamento edilizio.
Atteso che la stesura del regolamento edilizio comunale si configura quale attività finalizzata alla redazione di atto regolamentare caratterizzato da rilevante complessità (per la cui realizzazione sono richieste conoscenze di natura giuridico-normativa, nonché tecnico-specialistica), si ritiene che tale attività rientri tra le mansioni e competenze riconducibili alla declaratoria peculiare della categoria D.
Inoltre, essendo stato equiparato, il regolamento edilizio, a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale, pare che la redazione dello stesso debba essere riservata a soggetti muniti di idoneo titolo di laurea tecnica e che abbiano superato l'esame di abilitazione professionale.

Il Comune chiede se sia ammissibile attribuire ad un proprio dipendente, sprovvisto di titolo di studio universitario (trattasi di geometra), l'incarico di procedere alla revisione del regolamento edilizio comunale, nonché se, per lo svolgimento di tale attività, sia possibile riconoscere l'incentivo di cui all'art. 11, comma 3, della legge regionale 31.05.2002, n. 14, stante le indicazioni contenute nella determinazione dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici n. 43 del 25.09.2000
[1].
Occorre, anzitutto, ricordare che il regolamento edilizio comunale è stato in alcune occasioni equiparato per natura, funzione e grado di incidenza, a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale, come il programma di fabbricazione o il piano regolatore generale «in considerazione dell'idoneità di tale strumento a disciplinare l'attività costruttiva in tutto il territorio comunale, al pari dei suddetti atti di pianificazione urbanistica».
[2]
Ancorché il regolamento edilizio comunale trovi la propria disciplina nel contesto delle disposizioni concernenti la materia edilizia
[3] e possieda contenuti e caratteristiche distinte da quelle riconducibili allo strumento urbanistico [4], in considerazione dell'equiparazione sopra riportata, appare necessario svolgere le seguenti, ulteriori, considerazioni.
Dalla lettura della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, della circolare del Ministero dei lavori pubblici 07.07.1954
[5], n. 2495 [6] e della direttiva del Ministro dei lavori pubblici del febbraio 1998 [7] si evince che l'attività di pianificazione urbanistica si avvale di competenze specializzate, tanto nell'ipotesi in cui queste siano presenti all'interno dell'ufficio tecnico, quanto ove si debba procedere all'affidamento dell'incarico a liberi professionisti.
Anche se la legge 1150/1942 non individua una specifica figura professionale alla quale affidare gli incarichi in argomento, la circolare n. 2945/1954 chiarisce che gli elaborati di progetto devono essere debitamente firmati da un ingegnere o un architetto, iscritto all'Albo professionale.
Successivamente, è stata istituita la laurea in urbanistica ed è stato individuato l'ambito di attività del laureato in tale disciplina, il quale opera nel settore pubblico e privato anche attraverso l'elaborazione di piani urbanistici e territoriali con relativi strumenti attuativi.
Più recentemente, con decreto del Presidente della Repubblica 05.06.2001, n. 328, sono state apportate modifiche ed integrazioni alla disciplina dei requisiti per l'ammissione all'esame di Stato e delle relative prove per l'esercizio di talune professioni (quali quelle di architetto, di ingegnere e di geometra), nonché alla disciplina dei relativi ordinamenti ed è stata istituita -tra le altre- la figura professionale del pianificatore, con conseguente individuazione delle relative competenze, elencate all'art. 16, comma 2 e comma 5, lett. b)
[8].
Pertanto, pare doversi ritenere che la redazione di strumenti urbanistici costituisca attività riservata a soggetti muniti di idoneo titolo di laurea e che abbiano superato l'esame di abilitazione professionale
[9].
Ciò posto, va anche evidenziato che la giurisprudenza, in generale, ha delimitato la competenza del geometra, affermando, ad esempio, che: 'è pacifico che la redazione di un piano di lottizzazione costituisce attività che chiaramente richiede una competenza programmatoria in tale settore, anche se si limita l'attività a opere di modesta entità, e nonostante che la stessa sia posta in attuazione delle previsioni dello strumento urbanistico generale. [...] La redazione di un tale strumento concerne indubbiamente la realizzazione di un complesso di opere che richiede una visione d'insieme e pone problemi di carattere programmatorio che indubbiamente postulano valutazioni complessive che non rientrano nella competenza professionale del geometra, così come definita dall'art. 16 del r.d. 11.02.1929 n. 274'
[10].
Occorre, inoltre, considerare la questione posta anche sotto un profilo di inquadramento professionale/contrattuale.
A tal proposito, infatti, si osserva che il comma 4 dell'art. 35 del CCRL del 07.12.2006 precisa che le categorie di classificazione del personale degli enti locali sono individuate mediante le declaratorie riportate nell'allegato A al contratto medesimo, ove è descritto l'insieme dei requisiti professionali necessari per lo svolgimento delle mansioni pertinenti a ciascuna di esse.
Esaminando la declaratoria relativa alla categoria D, emerge che i lavoratori inquadrati nella stessa svolgono attività caratterizzate da 'elevate conoscenze pluri-specialistiche (la base teorica di conoscenze è acquisibile con il diploma di laurea o con il diploma di laurea specialistico) ed un grado di esperienza pluriennale'.
Atteso che la stesura del nuovo regolamento edilizio si configura quale attività finalizzata alla redazione di atto regolamentare caratterizzato da rilevante complessità (per la cui realizzazione sono richieste conoscenze di natura giuridico-normativa, nonché tecnico-specialistica), tale compito è riconducibile alle mansioni e competenze proprie della declaratoria riferita alla categoria D.
Si ritiene opportuno, inoltre, riportare anche le ulteriori considerazioni espresse dalla Regione Piemonte, in sede consultiva
[11].
In un parere la citata regione, infatti, ha rilevato come, sulla base di quanto previsto dalla legislazione, dalla contrattazione e dalla giurisprudenza, sia ormai consolidato che gli enti locali, nel caso scegliessero di reclutare personale idoneo a redigere strumenti urbanistici generali, debbano prevedere nella pianta organica il profilo di funzionario direttivo categoria D) e richiedere, per l'accesso a tale profilo, il possesso di una delle seguenti lauree:
- ingegneria;
- architettura;
- urbanistica;
- pianificazione territoriale e urbanistica;
- pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale,
oltre all'iscrizione negli appositi albi che ne consentano l'esercizio della professione.
Pertanto, il personale assunto nella categoria C), pur se in possesso del diploma di laurea specialistico, può svolgere solo i compiti e le funzioni della categoria per la quale è stato selezionato.
Per quanto concerne poi la seconda questione posta, si rappresenta che l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, con la citata determinazione n. 43/2000, nell'interpretare la dizione 'atto di pianificazione comunque denominato', contenuta nell'art. 18, comma 2, della legge 11.02.1994, n. 109, ha ritenuto che, in detta fattispecie, «possano ricomprendersi, oltre che i vari tipi di atti di pianificazione, anche quegli atti a contenuto normativo, quali per esempio i regolamenti edilizi, che accedono alla pianificazione, purché completi e idonei alla successiva approvazione da parte degli organi competenti».
Considerato che la formulazione dall'art. 11, comma 3, della l.r. 14/2002, è identica a quella utilizzata dal legislatore nazionale, le predette considerazioni si reputano valide anche nell'ambito degli enti territoriali della nostra Regione, ferma restando la competenza del soggetto deputato a redigere tale atto.
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[1] «Incentivo per la progettazione ex art. 18 L. 109/1994 e successive modificazioni».
[2] Così parere A.N.C.I. del 02.12.1997, che si esprime in relazione a quesito concernente la possibilità di qualificare come atto di pianificazione il regolamento edilizio comunale, ai fini del riconoscimento degli incentivi per la progettazione.
Si segnala che il predetto parere richiama Consiglio di Stato, sez. V, sentenze 04.11.1977, n. 969 e 21.02.1994, n. 104 e Corte di cassazione 12.11.1975, n. 3810, il cui testo non è risultato reperibile.
[3] Vale a dire l'art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, per il quale il regolamento edilizio «deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi» e l'art. 7 della legge regionale 11.11.2009, n. 9, secondo cui «Il regolamento edilizio disciplina, salvi gli ulteriori contenuti prescritti dalle altre leggi di settore aventi incidenza sulla materia edilizia e igienico-sanitaria, le attività di costruzione e di trasformazione fisica e funzionale delle opere edilizie [...]».
[4] In quanto, mentre lo strumento urbanistico effettua la suddivisione in 'zone' del territorio comunale, il regolamento edilizio disciplina le 'modalità costruttive' (disponendo, in particolare, in ordine alle altezze, alle distanze dei fabbricati, all'ampiezza dei cortili e degli spazi interni, all'aspetto dei fabbricati, ecc.) e possiede carattere normativo.
[5] In alcuni documenti recanti, invece, la data del 07.07.1957.
[6] «Formazione dei piani regolatori generali e particolari. Istruzioni ministeriali».
[7] «Indirizzi operativi e chiarimenti di alcune norme della Legge quadro dei Lavori pubblici e in merito al decreto legislativo 17.03.1995, n. 157. Affidamento di incarichi professionali in materia di urbanistica e paesaggistica (categoria 12 della classificazione comune dei prodotti n. 867 contenuta nell'allegato 1 del Dlgs 157/1995)».
[8] Per tale nuova figura è comunque richiesta la laurea e l'iscrizione all'albo professionale.
[9] Da una ricerca effettuata in merito ai requisiti prescritti per l'affidamento esterno dell'incarico di redazione del regolamento edilizio comunale, è emerso come i relativi bandi di gara o gli schemi di incarico professionale prevedano il possesso della laurea tecnica specifica in architettura o ingegneria, unitamente alla relativa abilitazione professionale ed iscrizione all'albo.
[10] Cons. di Stato, sez. IV, sentenza n. 4620 del 2001 e TAR Piemonte-Torino, sez. I, sentenza 15.06.2010, n. 2839. Si è inoltre sancito che, ad esempio, laddove un piano di recupero presenti, nella sostanza, contenuti esclusivamente edilizi senza coinvolgere aspetti pianificatori tipici della programmazione urbanistica, lo stesso è identificabile come uno strumento attuativo costituito attraverso valutazioni ed elaborati tipici di un permesso di costruire ed avente ad oggetto un'opera di modesta entità, che rientra senz'altro nella competenza professionale del geometra
[11] Cfr. parere n. 137/2008, consultabile sul sito: www.regionepiemonte.it/autonomie/consulenza/htm
(22.09.2010 - link a www.regione.fvg.it).

COMPETENZE PROGETTUALI - URBANISTICA: Personale degli enti locali. Variante urbanistica e regolamento edilizio.
Si ritiene che la redazione di varianti urbanistiche possa essere redatta esclusivamente da dipendenti laureati, in possesso della relativa abilitazione, in relazione a quanto disposto dall'art. 32-bis della L.R. 52/1991 e dall'art. 9, c. 2, della L.R.14/2002.
Inoltre, si reputa che l'attività di stesura del regolamento edilizio rientri tra le mansioni e competenze ascrivibili alla declaratoria della categoria professionale D.

Il Comune ha chiesto di conoscere il parere del Servizio in ordine ad alcune problematiche concernenti la redazione delle varianti urbanistiche e del regolamento edilizio comunale. In particolare, l'ente si è posto la questione se tali atti possano essere redatti e sottoscritti da personale tecnico/diplomato e/o da personale laureato in architettura, ma non in possesso dell'abilitazione professionale.
Sentito, per le vie brevi, il Servizio Affari generali, amministrativi e consulenza-pianificazione della Direzione centrale pianificazione territoriale, energia, mobilità e infrastrutture di trasporto, si espongono le seguenti considerazioni.
Per quanto concerne la stesura di una variante urbanistica, si osserva che l'art. 32-bis della legge regionale 19.11.1991, n. 52 fa espresso riferimento al 'professionista incaricato della redazione della variante' e, pertanto, tale attività, per la sua natura e complessità, appare assimilabile all'attività di progettazione. A tal proposito, l'art. 9, comma 2, della legge regionale 31.05.2002, n. 14 prescrive che i progetti redatti, tra gli altri, dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti siano firmati da dipendenti in possesso del titolo di abilitazione o equipollente, ai sensi della normativa vigente in materia.
L'abilitazione cui fa riferimento la norma consiste nel superamento dell'esame di Stato, che conferisce titolo all'eventuale esercizio di una determinata libera professione
[1].
Dall'esame, inoltre, di quanto disposto all'art. 5, lett. c), della legge 02.03.1949, n. 143
[2], emerge come lo 'studio di piani regolatori di viabilità ed edilizia urbana' rientri fra le prestazioni peculiari riconducibili alla specifica competenza della professionalità di ingegneri ed architetti.
Pertanto, non pare possibile prescindere dal possesso dei su richiamati requisiti (personale laureato ed abilitato
[3]), anche per la redazione delle varianti urbanistiche.
Per quanto concerne, poi, la competenza alla stesura del regolamento edilizio, si ritiene opportuno fare riferimento, al di là del titolo di studio posseduto, alla categoria professionale di appartenenza del dipendente.
In particolare, il comma 4 dell'art. 25 del CCRL del 01.08.2002 precisa che le categorie dell'ordinamento professionale del personale degli enti locali sono individuate mediante le declaratorie riportate nell'allegato E) al contratto medesimo, ove è descritto l'insieme dei requisiti professionali necessari per lo svolgimento delle mansioni pertinenti a ciascuna di esse.
Esaminando la declaratoria relativa alla categoria D, emerge che i lavoratori inquadrati nella medesima svolgono attività caratterizzate da 'elevate conoscenze plurispecialistiche (la base teorica di conoscenze è acquisibile con il diploma di laurea o con il diploma di laurea specialistico) ed un grado di esperienza pluriennale, con frequente necessità di aggiornamento'. Tra le mansioni caratteristiche di tale categoria è indicata, inoltre, 'la predisposizione di schemi di atti e lo sviluppo di elaborazioni amministrativo-contabili di rilevante complessità ed ampiezza'.
Con riferimento alla natura del regolamento edilizio comunale, tale atto è stato equiparato, per funzione e grado di incidenza, a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale, come il programma di fabbricazione o il piano regolatore generale
[4], in considerazione dell'idoneità di tale strumento a disciplinare l'attività costruttiva in tutto il territorio comunale, al pari dei suddetti atti di pianificazione urbanistica.
Atteso che la redazione del regolamento edilizio si configura, quindi, quale attività finalizzata alla stesura di atto regolamentare caratterizzato da rilevante complessità (per la cui realizzazione sono richieste conoscenze di natura giuridico-normativa, nonché tecnico specialistica), si reputa che tale attività rientri tra le mansioni e competenze ascrivibili alla declaratoria peculiare della categoria D.
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[1] Vedasi, da ultimo, la disciplina introdotta dal D.P.R. 05.06.2001, n. 328.
[2] 'Approvazione della tariffa professionale degli ingegneri ed architetti'.
[3] Cfr. anche nota del 02.02.2005 del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori (che si allega in copia), per quanto concerne l'ordinamento della professione di architetto.
[4] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 104 del 21.02.1994 e parere ANCI del 02.12.1997
(25.08.2005 - link a www.regione.fvg.it).


     Pubblichiamo altri tre quesiti di cui due, di fatto, risultano -ad oggi- superati in termini di spettanza dell'incentivo alla progettazione e che, invece, sono utili al fine dell'inquadramento urbanistico del Regolamento Edilizio.
 

COMPETENZE PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO: Competenze Istruttore tecnico - geometra.
Il Comune di XXX dispone alle proprie dipendenze di n. 1 unità di personale, assunta con contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato stipulato il 14.12.2007 nel profilo professionale di "ISTRUTTORE TECNICO", categoria C., assegnata al Servizio Urbanistica–Edilizia Privata, attualmente non iscritta all’Ordine degli Ingegneri ed in possesso dei seguenti titoli di studio:
- diploma di Geometra;
- diploma di Laurea in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio.
Il Comune chiede, ai sensi dell’art. 79 della L.R. 05/12/1977, n. 56:
1) se detto personale possa progettare per il Comune gli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, relative revisioni, varianti (strutturali, parziali) e loro modifiche, come contemplati dalla vigente Legge Regionale Urbanistica;
2) se per lo svolgimento di dette o talune di dette prestazioni il dipendente debba necessariamente essere iscritto all’Albo degli Ingegneri;
3) quali siano gli elaborati, previsti dall’art. 14, comma 1, della Legge Regionale 56/1977 e s.m.i., che eventualmente detto lavoratore NON è legittimato a formare (Regione Piemonte, parere n. 137/2008 - tratto da www.regione.piemonte.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE - URBANISTICA: Se i dipendenti che abbiano predisposto e redatto un regolamento edilizio possano concorrere alla ripartizione della percentuale di legge quale incentivo alla progettazione (interna).
Quesito
Il n. 2, c. 4, art. 13 della l. 17.05.1999 n. 144 afferma che "il 30% della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al c. 1, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
Ciò premesso, si chiede di sapere se i dipendenti che abbiano predisposto e redatto un regolamento edilizio possano concorrere alla ripartizione della percentuale di cui sopra.
Risposta
Il comma 2 dell'art. 18 della l. n. 109/1994, come sostituito dall'art. 13 della l. 15.05.1999 n. 144, dispone che "il 30% della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 1, tra i dipendenti dell'amministrazione che lo abbiano redatto". Il regolamento edilizio è stato peraltro più volte equiparato, per natura e funzione e grado di incidenza a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale come il programma di fabbricazione o il piano regolatore generale (Cfr. CDS V, 04.11.1977 n. 969, Cass. 12.11.1975 n. 3810. Cass. III 02.12.1987, CDS V, 21.02.1994 n. 104) in considerazione della idoneità di tale strumento a disciplinare l'attività costruttiva in tutto il territorio comunale al pari dei suddetti atti di pianificazione.
In base ad una interpretazione lata della norma si potrebbe quindi ritenere ammissibile l'utilizzazione del fondo incentivo a favore dei dipendenti che hanno redatto il regolamento edilizio evidenziandosi come tale strumento sia espressione anch'esso del potere di "pianificazione" che compete alla PA in materia urbanistica anche se tale normativa non contenga direttamente documenti di carattere strettamente grafico progettuale ma potendosi tuttavia assimilare a questi regolamentando in via generale ed organica intere situazioni.
Va infatti comunque rilevato che, in generale, la parte progettuale e quella tecnico-normativa di cui si compongono gli strumenti di pianificazione urbanistica siano da ritenersi, in via di principio, del tutto equiparabili e di pari efficacia prescrittiva
(07.09.1999 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE - URBANISTICA: Se è possibile qualificare come atto di pianificazione il regolamento edilizio comunale al fine di percepire un importo previsto fino al 50 per cento della tariffa professionale di un pari incarico a professionista esterno.
Quesito
Al fine della costituzione del fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici tecnici di cui all'art. 6, comma 13, Legge n. 127/1997, è possibile qualificare come atto di pianificazione il regolamento edilizio comunale al fine di percepire un importo previsto fino al 50 per cento della tariffa professionale di un pari incarico a professionista esterno?
Risposta
Il comma 1 dell'art. 18 della l. n. 109/1994, come sostituito dal comma 13 dell'art. 6 della l. n. 127/1997, prevede che "l'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa ad un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono destinati alla costituzione di un fondo interno e da ripartire tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'art. 7, il responsabile del procedimento, e i loro collaboratori".
Lo scopo della disposizione va, peraltro, individuato nell'esigenza di incentivare lo sviluppo della "progettualità" interna alle PA sia per quanto attiene l'esecuzione delle oo.pp. sia, più in generale, per quanto riguarda l'attività di "pianificazione" nei vari settori pubblici (come quello urbanistico-edilizio) in cui la stessa risulta necessaria.
Per quanto concerne, in particolare, il regolamento edilizio comunale, si rileva che tale normativa è stata più volte equiparata, per natura, funzione e grado di incidenza a strumenti urbanistici a carattere pianificatorio generale come il programma di fabbricazione o il piano regolatore generale (Cfr. CDS V, 04.11.1977 n. 969; Cass. 12.11.1975 n. 3810; Cass. III 02.12.1987; CDS V, 21.02.1994 n. 104) in considerazione della idoneità di tale strumento a disciplinare l'attività costruttiva in tutto il territorio comunale al pari dei suddetti atti di pianificazione urbanistica.
Si potrebbe quindi ritenere che anche il regolamento edilizio sia espressione del potere di "pianificazione" che compete alle PA in materia urbanistica anche se tale normativa può non contenere documenti di carattere strettamente grafico-progettuale ma potendo assimilarsi a questi tutti quegli elaborati che regolamentino in via generale ed organica intere situazioni. Va infatti comunque considerato che, in generale, la parte progettuale e quella tecnico-normativa di cui si compongono gli strumenti di pianificazione urbanistica sono da ritenersi, in via di principio, del tutto equiparabili e di pari efficacia prescrittiva
(02.12.1997 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 20.05.2014, "Indirizzi regionali in merito all’applicazione del regolamento inerente l’autorizzazione unica ambientale (AUA)" (deliberazione G.R. 16.05.2014 n. 1840).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 19.05.2014 n. 114 "Testo del decreto-legge 20.03.2014, n. 34, coordinato con la legge di conversione 16.05.2014, n. 78, recante: “Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”.".
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Di interesse si legga:
Art. 4. - Semplificazioni in materia di documento unico di regolarità contributiva

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: accesso dei Laureati Triennali ai Concorsi Pubblici (Ordine degli Ingegneri di Bergamo, nota 06.05.2014 n. 440 di prot.).

DOTTRINA  E CONTRIBUTI

CONSIGLIERI COMUNALI: L. Spallino, Note sulla parità di genere nelle giunte comunali alla luce della legge n. 56/2014 (20.05.2014 - link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Mariano, La cessione di cubatura  (02.07.2010 - link a www.diritto.it).
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Sommario: 1. Introduzione. - 2. La posizione della giurisprudenza. - 3 Le principali posizioni della dottrina. - 3.1 Teoria della servitù. - 3.2 Teoria del diritto di superficie. - 3.3 Teoria della rinunzia abdicativa. - 3.4 Teoria del negozio traslativo di un diritto reale. - 3.5 Teoria del negozio con effetti meramente obbligatori. - 4. L’opponibilità della cessione ai terzi. - 5. La necessaria correlazione tra atto privato e atto amministrativo nella cessione di volumetria. Considerazioni conclusive.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Relazione, niente sconti. Sul fine mandato coinvolti tutti gli enti. Nessuna esclusione per le situazioni antecedenti al dlgs 149/2011.
L'obbligo di redigere, secondo le modalità di cui al decreto interministeriale del 26.04.2013, la relazione di fine mandato, sussiste anche per i comuni i cui mandati siano iniziati antecedentemente all'entrata in vigore dell'art. 4 decreto legislativo 06.09.2011, n. 149?

Nelle more dell'adozione del decreto interministeriale con il quale sono stati approvati gli schemi tipo di relazione, nelle diverse forme previste, l'art. 4 del decreto legislativo n. 149/20111 è stato modificato, con dl n. 174/2012, proprio al fine di rendere immediatamente applicabile la disposizione normativa, anche in caso di mancata adozione del provvedimento interministeriale.
Peraltro, il comma 6 dell'art. 4 citato prevede rilevanti sanzioni a carico degli amministratori, del responsabile del servizio finanziario e del segretario generale, in caso di inadempimento e di mancata pubblicazione nel sito istituzionale dell'ente del documento. Ciò premesso, si ritiene che l'obbligo si estenda anche alle amministrazioni il cui mandato è iniziato prima dell'08.12.2012, data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui si sta trattando (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Amministratori e spese in giudizio.
È possibile rimborsare le spese e le competenze legali ad amministratori comunali assolti in sede penale con sentenza passata in giudicato «perché il fatto non costituisce reato»?

Nell'ordinamento corrente non è possibile rinvenire norme che prevedono la possibilità di rimborsare agli amministratori locali le spese legali sostenute per giudizi instaurati in relazione a fatti asseritamente posti in essere nell'esercizio delle proprie funzioni.
In passato, parte della giurisprudenza aveva ritenuto di poter estendere in via analogica agli amministratori locali la normativa che consente tale rimborso per i dipendenti degli enti locali, sulla base dell'avverarsi di alcuni presupposti, quali la sussistenza di una connessione con i compiti d'ufficio dei fatti oggetto del processo penale, la mancanza di conflitto di interessi con l'amministrazione di appartenenza, nonché la conclusione del processo penale con una sentenza di assoluzione.
Secondo altri indirizzi ermeneutici, la possibilità di tale ricorso all'analogia nella materia in questione è preclusa.
Infatti, è stato ritenuto non pertinente il richiamo all'analogia, che risulta correttamente evocabile quando emerga un vuoto normativo nell'ordinamento, vuoto che nella specie non è apparso configurabile, atteso che il legislatore si è limitato a dettare una diversa disciplina per due situazioni non identiche fra loro, e tale diversità non si presenta priva di razionalità, atteso che gli amministratori pubblici non sono dipendenti dell'ente ma sono eletti dai cittadini, ai quali rispondono (e quindi non all'ente) del loro operato (cfr: sent. Cass. civ. sez. I n. 12645 del 25/05/2010).
Anche la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Basilicata, con la sentenza n. 165 del 15.10.2012, ha confermato tale orientamento, al quale ha aderito anche questo ministero, escludendo un'interpretazione estensiva della relativa disciplina prevista per i dipendenti e ritenendo anche non condivisibile la tesi dell'applicabilità, con il ricorso al procedimento analogico, dell'art. 1720 del codice civile nella parte in cui dispone che «il mandato deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell'incarico».
Da ultimo, nella specifica materia è intervenuta la Corte dei conti, sezione regionale per il Veneto la quale, con il parere reso in data 06.11.2013, ha ritenuto che debba essere rimesso al prudente apprezzamento dell'amministrazione ogni valutazione circa la sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti per procedere al rimborso delle predette spese legali nei confronti dei propri amministratori.
La scelta delle modalità con le quali applicare tale beneficio, secondo la citata sezione regionale, rientra nell'ambito dell'esercizio della discrezionalità dell'amministrazione comunale e, pertanto, la decisione di provvedere o meno al rimborso dovrà essere frutto di una valutazione propria dell'ente medesimo, nel rispetto delle previsioni legali e contrattuali, rientrante nelle prerogative esclusive dei relativi organi decisionali, trattandosi di ambito riservato alle scelte dell'ente che deve osservare accorte regole di sana gestione finanziaria e contabile.
Tuttavia, pur prendendo atto di detta recente pronuncia della Sezione regionale per il Veneto della Corte dei conti, questa amministrazione, in assenza di un dirimente intervento legislativo, non ravvisa motivi per discostarsi dal proprio precedente orientamento, sia in considerazione dell'attuale situazione economica che induce ad adottare ogni possibile misura contenitiva della spesa pubblica, sia per l'ampio dibattito giurisprudenziale che, allo stato, non sembra aver prodotto un indirizzo consolidato (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Parere in merito alla tutela dell’affidamento del privato nel caso di abuso edilizio molto datato nel tempo e mai contestato (Regione Emilia Romagna, parere 12.05.2014 n. 201593 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Risposta a quesito interpretativo su ristrutturazione con modifica di destinazione d’uso con opere (Regione Emilia Romagna, parere 08.02.2013 n. 35234 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: parere sulla disciplina edilizia e urbanistica dei dehors (Regione Emilia Romagna, parere 20.12.2011 n. 307880 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: risposta a quesito relativo al carattere abusivo di un edificio costruito nel 1938 e ricostruito nel 1948 (Regione Emilia Romagna, parere 19.10.2011 n. 253784 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: E’ chiesto parere in merito all’applicabilità della L.R. n. 20/2009, in sanatoria, nel caso di interventi di ampliamento di edifici esistenti eseguiti in assenza di titolo edilizio.
Il Comune richiedente, in particolare, segnala che, presso i propri uffici, è stata presentata istanza di permesso di costruire in sanatoria per “la realizzazione di un ampliamento relativo alla chiusura di un terrazzo trasformato in camera, utilizzando la L.R. 20/2009”.
Il Comune chiede, dunque, di sapere se “è possibile utilizzare tale normativa regionale per la sanatoria di abusi edilizi considerando che, se da una parte, l’art. 5 prevede una serie di limitazioni, dall’altra parte se il proprietario provvedesse a demolire l’abuso edilizio potrebbe poi richiedere, proprio ai sensi della L.R. 20/2009 la costruzione di quanto demolito ottenendone (nel rispetto degli altri adempimenti di legge) il benestare. Pare, dunque, di essere in una situazione simile alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale”.
Pur in assenza di specificazioni sul punto, si evince, dal tenore del quesito formulato –in particolare nel riferimento all’istituto della cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”- come l’intervento abusivo realizzato nel caso concreto non risulti verosimilmente conforme agli strumenti urbanistici vigenti al momento della sua realizzazione e neppure agli strumenti urbanistici vigenti alla data attuale, stante la richiesta di applicazione della L.R. n. 20/2009 (in sanatoria): è infatti la L.R. 20/2009 che consente interventi “in deroga” al P.R.G.; se l’ampliamento fosse ammesso dal piano, ovviamente non si porrebbe neppure il problema descritto dal Comune (Regione Piemonte, parere n. 156/2009 - tratto da www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruzione in area agricola di una strada di accesso a proprietà privata.
E’ chiesto parere in merito alla legittimità del rilascio di permesso di costruire per la realizzazione, in area agricola, di una strada di accesso a proprietà privata.

Il Comune richiedente segnala che in data 21.07.2008 è stata presentata, presso i propri uffici, istanza di permesso di costruire per la realizzazione di una “strada di accesso alla proprietà e formazione di recinzione” in area agricola di P.R.G.C., soggetta sia a vincolo paesaggistico sia a vincolo idrogeologico.
Come precisato dal Comune, a seguito di richiesta di ulteriori informazioni, la strada in progetto consentirebbe l’accesso carraio –e non soltanto pedonale, come consente l’attuale passaggio– ad un nucleo costituito da alcuni fabbricati ad uso abitativo siti, come detto, in area agricola di piano regolatore generale.
Il Comune segnala inoltre –dopo aver precisato che il “progetto definitivo del nuovo P.R.G.I. è stato adottato con D.C.C.M.M.R. n. 17 del 21.09.2006”- che “sia nell’art. 41 delle N.T.A. del P.R.G.C. vigente che nell’art. 3.5.1 Aree E1 delle N.T.A. del PRGC adottato non è normata la realizzazione delle opere di cui sopra, bensì la nuova costruzione è intesa come realizzazione di fabbricati accessori per la residenza ed attrezzature rurali-agricole, ma non è trattata la realizzazione di strade e viali di accesso alla proprietà”.
Il Comune precisa, infine, che, per quanto concerne il P.R.G.C. adottato, l’intervento in questione sarebbe normato, in particolare, dall’art. 3.5.6 delle N.T.A. contenente “norme particolari per gli edifici esistenti nel territorio agricolo adibiti ad usi extra-agricoli o abbandonati”.
Il Comune chiede, dunque, se “davanti ad un vuoto normativo a livello locale in merito a tale intervento sia legittimo autorizzare tali opere o se la mancata regolamentazione nelle NTA del PRGC operanti nel Comune sia presupposto legittimo per il diniego del permesso di costruire
(Regione Piemonte, parere n. 109/2009 - tratto da www.regione.piemonte.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEL’amministrazione deve preliminarmente (tenendo in debita evidenza il principio interpretativo affermato dalla Sezione centrale), verificare se il “contenuto specifico” dell’atto di pianificazione “Piano degli Interventi con il recupero e la valorizzazione delle aree a vincolo decaduto e delle aree di trasformazione delle frazioni”, sia “strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica” e sia caratterizzato da “quel quid pluris di progettualità interna”.
Una volta che l’amministrazione (la sola che detiene le informazioni utili per detto accertamento) avrà confermato l’esistenza di detto necessario presupposto legittimante l’attribuzione dell’incentivo, si tratterà di verificare l’ampiezza del novero dei destinatari dello stesso. Ciò, in quanto nel medesimo quesito si fa riferimento ad una platea variegata di dipendenti dell’ente (urbanisti, avvocati, agronomi, geologi, informatici, geometri, periti, disegnatori) che, a diverso titolo e con diversi apporti professionali, potrebbero contribuire alla redazione dell’atto di pianificazione cui si riferisce il comune di Rovigo.
Proprio richiamando il dato testuale dell’articolo 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 emerge chiaramente come la platea dei destinatari dell’incentivo (incentivo da ripartire con criteri e modalità fissati ex ante da apposito strumento regolamentare), possa essere ampia atteso che vi si annoverano “….i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto…”.
Sul punto, tuttavia, in relazione all’esigenza di fissare criteri idonei atti ad individuare detti dipendenti, appare necessario preliminarmente richiamare il già citato
parere n. 361/2013 di questa Sezione laddove si è affermato che nella stesura di un documento di pianificazione debba necessariamente attribuirsi “….alle specifiche professionalità del personale tecnico la elaborazione di una analisi che richiede una complessità superiore, frutto del necessario, imprescindibile apporto di una pluralità di professionalità”.
Va peraltro sottolineato che, secondo la prevalente giurisprudenza la redazione di un piano di lottizzazione e, in genere, di uno strumento di pianificazione urbanistica costituisce attività che richiede una competenza specifica in tale settore attraverso una visione di insieme e la capacità di affrontare e risolvere i problemi di carattere programmatorio.
Il Collegio, conclusivamente, ritiene che una volta valutato e verificato il collegamento tra l’attività di pianificazione e la successiva realizzazione dell’opera pubblica, i soggetti destinatari dell’incentivo di cui trattasi siano i dipendenti dell’ente, in possesso dei requisiti abilitanti (previsti dalla vigente normativa) per eseguire prestazioni professionali, seppur in quota parte, funzionali alla redazione dell’ atto di pianificazione. Dipendenti appositamente individuati ed incaricati dalla stessa amministrazione con specifico provvedimento.

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Il Sindaco del Comune di Rovigo, formula a questa Sezione una richiesta di parere, ai sensi dell'articolo 7, comma 8, della Legge 131/2003, in merito all’applicazione dei compensi per atti di pianificazione ai sensi dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n.163/2006.
Il legale rappresentante dell’ente, chiede nello specifico:
1) “Se la redazione di un "Piano degli Interventi con il recupero e la valorizzazione delle aree a vincolo decaduto e delle aree di trasformazione delle frazioni" possa rientrare nel novero degli atti di pianificazione comunque denominati previsti dalla norma".
2) "Se l'incentivo possa essere corrisposto oltre che ai dipendenti in possesso delle specifiche competenze tecniche professionali relative all'ingegneria e all'architettura, anche a dipendenti che partecipino alla redazione del piano a vario titolo (urbanisti, avvocati, agronomi, geologi, informatici, geometri, periti, disegnatori)”.
...
Venendo al merito, con il primo quesito il sindaco di Rovigo chiede se la “redazione di un "Piano degli Interventi con il recupero e la valorizzazione delle aree a vincolo decaduto e delle aree di trasformazione delle frazioni" possa rientrare nel novero degli atti di pianificazione comunque denominati previsti dalla norma di cui all’articolo 92, comma 6 del Codice appalti".
La disposizione da ultimo citata prevede espressamente che “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
In questa sede giova evidenziare che la Sezione, con il proprio parere 26.07.2011 n. 337, nel dare risposta ad un quesito sempre vertente sulla possibilità di corresponsione del corrispettivo di cui trattasi in caso di pianificazione urbanistica generale, aveva proceduto ad una attenta ricostruzione dell’istituto contemplato dal richiamato comma 6. Si affermava, in detto parere che la pianificazione urbanistica implica una complessa partecipazione multispecialistica che porta ad allargare necessariamente le figure professionali coinvolte (oltre a ingegneri, architetti, urbanisti non possono mancare geologi, economisti, esperti di mobilità e infrastrutture, ecc.).
La questione del rapporto tra la pianificazione comunque denominata e l’attività di pianificazione contemplata nell’articolo 92, comma 6, ha trovato, invece, approfondimento nel recente
parere 22.11.2013 n. 361 della Sezione nella quale, tra l’altro e per quello che qui interessa, si richiama anche la posizione assunta dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (AVCP) nell'atto di segnalazione 25.09.2013 n. 4 sul significato che deve assumere la dizione letterale “atto di pianificazione comunque denominato” utilizzata dal legislatore nel richiamato comma 6.
In detto Atto si sottolineava come “
….l’applicazione della norma è particolarmente ampia al punto che possano essere ritenuti assoggettati alla categoria di “atti di pianificazione comunque denominati” i piani di lottizzazione, i piani per insediamenti produttivi, i piani di zona, i piani particolareggiati, i piani regolatori, i piani urbani del traffico, e tutti quegli atti aventi contenuto normativo e connessi alla pianificazione, quali i regolamenti edilizi, le convenzioni, purché completi per essere approvati dagli organi competenti, ribadendo la considerazione, svolta nelle citate note precedenti, che “tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano" (l’Autorità a tal fine richiamava anche le seguenti pronunce rese in precedenza: determinazione n. 43 del 25/09/2000; deliberazione del 13/06/2000; parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10 e
parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12).
Il Collegio, in relazione al primo quesito posto dal Sindaco del comune di Rovigo ed alla luce di quanto evidenziato nei richiamati pareri della Sezione (ai contenuto dei quali si rinvia) e nell’Atto di segnalazione n. 47/2013 dell’Autorità citato, ritiene che il redigendo “Piano degli Interventi con il recupero e la valorizzazione delle aree a vincolo decaduto e delle aree di trasformazione delle frazioni", assumendo valenza pianificatoria nel senso sopra richiamato, possa ben essere ritenuto quale “atto di pianificazione comunque denominato.
In relazione al secondo quesito vertente sulla possibilità che “…l'incentivo possa essere corrisposto oltre che ai dipendenti in possesso delle specifiche competenze tecniche professionali relative all'ingegneria e all'architettura, anche a dipendenti che partecipino alla redazione del piano a vario titolo (urbanisti, avvocati, agronomi, geologi, informatici, geometri, periti, disegnatori)” preliminarmente deve essere risolta la questione della spettanza dell’incentivo in oggetto nelle ipotesi di pianificazione “comunque denominata”.
Sul punto, giova richiamare la posizione interpretativa già assunta dalla Sezione con proprio
parere 22.11.2013 n. 361 sopra richiamato (citato nella richiesta di parere e che l’ente mostra di ben conoscere).
In tale sede, questa Sezione, sul tema specifico relativo alla possibilità offerta agli enti pubblici appaltanti dall’articolo 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006, di corrispondere quale incentivo il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato ai dipendenti che lo abbiano redatto (con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento in materia approvato dall’Amministrazione), aveva riconosciuto tale possibilità indipendentemente dal collegamento dell’attività di pianificazione alla successiva realizzazione di un opera pubblica.
Il Collegio, affermando dapprima che le mansioni di pianificazione generali richiedono una attività multidisciplinare che non potrebbe trovare deroga alcuna attese le tassatività delle competenze professionali stabilite dalla legge, conclusivamente aveva ritenuto che la stessa modalità di commisurazione del compenso (collegato ad una percentuale delle tariffe professionali e fissato dalla norma in modo sensibilmente diverso rispetto a quello stabilito per l’attività di progettazione dell’opera pubblica ove la commisurazione è legata ad una percentuale del valore dell’opera), sia indice dell’intenzione del legislatore di attribuire la giusta retribuzione all’attività di pianificazione, anche mediata, a prescindere dal suo collegamento con un’opera pubblica.
Tale posizione interpretativa, peraltro, consentiva di attribuire piena effettività all’operatività della norma in oggetto anche in considerazione del fatto che non necessariamente all’attività di pianificazione consegue nell’immediatezza una successiva attività di progettazione prima e realizzazione poi, di un opera pubblica. L’assenza di detti ultimi elementi renderebbe di fatto non operativa la disposizione di cui trattasi nei casi, tutt’altro che rari, di pianificazione generale ove la realizzazione dell’opera pubblica può essere assente o procrastinata nel tempo.
Sulla questione oggetto del parere di cui trattasi, si sono espresse altre Sezioni regionali di controllo che hanno assunto divergenti posizioni interpretative in considerazione del fatto che la disposizione in oggetto –riferendosi alle amministrazioni aggiudicatrici– avrebbe ristretto la corresponsione dell’incentivo alle sole ipotesi di pianificazione urbanistica direttamente collegata alla realizzazione di opere pubbliche.
La Sezione di controllo della Liguria, alla luce degli emersi contrasti interpretativi sollevava questione interpretativa davanti alla Sezione delle Autonomie ai sensi dell’articolo 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174. La sezione ligure, infatti, con il
parere 21.01.2014 n. 6, rimetteva al Presidente della Corte dei conti per il successivo deferimento alla Sezione delle Autonomie una questione di massima in relazione a cosa debba intendersi per “atti di pianificazione comunque denominati”: dizione, quest’ultima, contenuta nel citato comma 6, dell’art. 92 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
In particolare si dibatteva se la stessa dizione dovesse essere intesa nel senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussista solo nel caso in cui l’atto medesimo sia collegato direttamente ed in modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero se l’anzidetto diritto si configuri anche nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione generale (quali ad esempio la redazione di un piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una variante), ancorché non puntualmente connessi alla realizzazione di un’opera pubblica.
La Sezione delle Autonomie, con propria
deliberazione 15.04.2014 n. 7 di orientamento, dopo aver ricostruito le diverse e contrastanti posizioni interpretative delle varie Sezioni regionali ha preliminarmente affermato che le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 “…..esprimono, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale e, pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego; il cui sistema retributivo è basato sui due principi cardine di onnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nonché di definizione contrattuale delle componenti economiche, fissato dal successivo art. 45, comma 1. Principi alla luce dei quali nulla è dovuto oltre il trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio….”.
Nel prosieguo, la Sezione delle Autonomie ha poi ritenuto che il legislatore “
……con le disposizioni in esame, ha voluto riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando agli anzidetti principi. In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92, ai commi 5 e 6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato, da ripartire fra i dipendenti dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto, entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche. La norma deve essere considerata, dunque, norma di stretta interpretazione, non suscettibile di applicazione in via analogica, alla luce del divieto posto dall’art.14 delle disposizioni preliminari al codice civile, e neppure appare possibile una lettura della definizione in essa contenuta che attribuisca alla volontà del legislatore quanto dallo stesso non esplicitato (lex minus dixit quam voluit)”.
In relazione a quanto sopra richiamato, i giudici della nomofilachia hanno conclusivamente ritenuto che ai “
…...fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale”, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo. “Pertanto, ove tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione contrattuale delle componenti del trattamento economico, alla luce dei quali, nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio….”.
Alla luce di quanto da ultimo affermato dalla Sezione delle Autonomie deve essere affrontata, dunque, la seconda questione interpretativa posta dal Sindaco del comune di Rovigo in merito all’ampiezza della platea dei destinatari dell’incentivo di cui alla norma in oggetto.
A tal fine, come si è accennato,
l’amministrazione dovrà preliminarmente (tenendo in debita evidenza il principio interpretativo affermato dalla Sezione centrale), verificare se il “contenuto specifico” dell’atto di pianificazione “Piano degli Interventi con il recupero e la valorizzazione delle aree a vincolo decaduto e delle aree di trasformazione delle frazioni”, sia “strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica” e sia caratterizzato da “quel quid pluris di progettualità interna”.
Una volta che l’amministrazione (la sola che detiene le informazioni utili per detto accertamento) avrà confermato l’esistenza di detto necessario presupposto legittimante l’attribuzione dell’incentivo, si tratterebbe di verificare l’ampiezza del novero dei destinatari dello stesso. Ciò, in quanto nel medesimo quesito si fa riferimento ad una platea variegata di dipendenti dell’ente (urbanisti, avvocati, agronomi, geologi, informatici, geometri, periti, disegnatori) che, a diverso titolo e con diversi apporti professionali, potrebbero contribuire alla redazione dell’atto di pianificazione cui si riferisce il comune di Rovigo.
Proprio richiamando il dato testuale dell’articolo 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 emerge chiaramente come la platea dei destinatari dell’incentivo (incentivo da ripartire con criteri e modalità fissati ex ante da apposito strumento regolamentare), possa essere ampia atteso che vi si annoverano “….i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto…”. Sul punto, tuttavia, in relazione all’esigenza di fissare criteri idonei atti ad individuare detti dipendenti, appare necessario preliminarmente richiamare il già citato
parere 22.11.2013 n. 361 di questa Sezione laddove si è affermato che nella stesura di un documento di pianificazione debba necessariamente attribuirsi “….alle specifiche professionalità del personale tecnico la elaborazione di una analisi che richiede una complessità superiore, frutto del necessario, imprescindibile apporto di una pluralità di professionalità”.
Va peraltro sottolineato che, secondo la prevalente giurisprudenza (cfr. TAR Brescia, sez. I, 29.10.2008 n. 1466, Cons. St. Sez. IV 03.09.2001 n. 4620) la redazione di un piano di lottizzazione e, in genere, di uno strumento di pianificazione urbanistica costituisce attività che richiede una competenza specifica in tale settore attraverso una visione di insieme e la capacità di affrontare e risolvere i problemi di carattere programmatorio.
Il Collegio, conclusivamente, ritiene che
una volta valutato e verificato il collegamento tra l’attività di pianificazione e la successiva realizzazione dell’opera pubblica, i soggetti destinatari dell’incentivo di cui trattasi siano i dipendenti dell’ente, in possesso dei requisiti abilitanti (previsti dalla vigente normativa) per eseguire prestazioni professionali, seppur in quota parte, funzionali alla redazione dell’ atto di pianificazione. Dipendenti appositamente individuati ed incaricati dalla stessa amministrazione con specifico provvedimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 14.05.2014 n. 319).

INCENTIVO PROGETTAZIONEIn ordine al controverso pronunciamento tra le varie sezioni regionali di controllo, la Sezione delle Autonomie con la deliberazione 15.04.2014 n. 7, il cui contenuto è vincolante per le Sezioni regionali di controllo, ha risolto la questione ritenendo <<di “palmare evidenza” il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici>> e considerando l’art. art. 926 d.lgs. 163/2006 <<norma di stretta applicazione non suscettibile di applicazione analogica, alla luce del divieto posto dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile>>.
Ne consegue che l’incentivo relativo alla redazione di atti di pianificazione può essere legittimamente riconosciuto per le sole prestazioni strettamente connesse alla realizzazione di un’opera pubblica e non per quelle rientranti genericamente nella materia urbanistico–edilizia.

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Il Sindaco del Comune di Andora ha inviato al Consiglio delle Autonomie Locali una richiesta di parere inerente alla corretta interpretazione dell’art. 92 d.lgs. 163/2006.
In particolare si chiede di sapere se sia corretto estendere la possibilità di erogare l’incentivo costituito dal 30% della tariffa professionale in presenza di redazione di atti di pianificazione urbanistica. Ciò, soprattutto, in considerazione dei diversi indirizzi, rispettivamente estensivo ed espansivo, assunti dalle Sezioni Regionali di controllo della Corte dei conti (con la sola eccezione della Sezione di controllo del Veneto) e dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici.
...
L’art. 926 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 prevede che <<il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5, tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto>>.
E’ stata più volte posta all’attenzione delle Sezioni regionali di controllo la questione relativa all’individuazione degli atti la cui predisposizione consenta ai dipendenti pubblici di godere del compenso aggiuntivo di cui sopra, con particolare riferimento alla pianificazione negativa.
La giurisprudenza contabile (C.d.C. Sez. contr. Campania
parere 10.07.2008 n. 14; C.d.C. Sez. contr. Toscana parere 18.10.2011 n. 213; C.d.C. Sez. contr. Puglia parere 16.01.2012 n. 1; C.d.C. Sez. contr. Lombardia parere 06.03.2012 n. 57; parere 30.05.2012 n. 259) ha costantemente affermato che si tratta di una interpretazione eccezionale, in quanto derogativa al principio generale di onnicomprensività delle retribuzioni pubbliche, come tale non suscettibile di estensione analogica a settori diversi da quello degli appalti.
Da ultimo C.d.C. Sez. contr. Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, la cui deliberazione è oggetto della richiesta di parere in esame, ha ribadito che lo scopo perseguito dal legislatore con l’art. 92 D.Lgs. è quello di <<diminuire i costi delle attività collegate alla progettazione delle opere pubbliche>> e che il riferimento all’atto di pianificazione <<è da intendersi limitato ad atti che abbiano oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un’opera) e non ad atti di pianificazione generale quali possono essere la redazione del piano regolatore o di una variante generale>>, ancorando il diritto ad ottenere il compenso incentivante <<alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente>>.
La sopravvenienza di un diverso e contrapposto indirizzo interpretativo espresso dalla Sezione regionale di controllo del Veneto ha indotto questa Sezione, chiamata a rispondere su analogo quesito sollevato dal Comune di Genova, a rimettere al Presidente della Corte dei conti la valutazione in ordine al deferimento della questione alla Sezione delle Autonomie, circostanza poi verificatasi.
La citata Sezione con la deliberazione 15.04.2014 n. 7, il cui contenuto è vincolante per le Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art. 64 d.l. 10.10.2012 n. 174, conv. in l. 07.12.2012 n. 213, ha risolto la questione ritenendo <<di “palmare evidenza” il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici>> e considerando l’art. art. 926 d.lgs. 163/2006 <<norma di stretta applicazione non suscettibile di applicazione analogica, alla luce del divieto posto dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile>>.
Ne consegue che l’incentivo relativo alla redazione di atti di pianificazione può essere legittimamente riconosciuto per le sole prestazioni strettamente connesse alla realizzazione di un’opera pubblica e non per quelle rientranti genericamente nella materia urbanistico–edilizia (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 08.05.2014 n. 26).

PATRIMONIO: Sulla gratuità per l'utilizzo di locali comunali alle associazioni o gruppi no profit ad alta valenza sociale.
La deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni.
A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire che la sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione.
La Sezione precisa, inoltre, che, oltre all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale
.
Con la conseguenza che risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento.

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Il Sindaco del Comune di Curno, con nota prot. n. 4683 del giorno 24.04.2014, dopo aver premesso che:
- nel perseguimento delle proprie finalità istituzionali di sviluppo sociale delle categorie fragili, il Comune intende prevedere tariffe agevolate (un euro all'ora) rispetto a quelle ordinarie (oggi 30 all'ora) o la gratuità per l'utilizzo di locali comunali alle associazioni o gruppi no profit ad alta valenza sociale;
- in questo ambito è stato individuato come gruppo ad alta valenza sociale il gruppo anziani e pensionati che svolge la propria attività a favore degli anziani del comune di Curno nell'area ricreativa, culturale e sportiva, per promuovere la cura della salute e l'informazione medica, servizi di solidarietà sociale verso le persone anziane non autosufficienti e svolge percorsi di aggregazione della popolazione anziana alla scopo di prevenire situazioni di isolamento ed emarginazione;
- il gruppo anziani e pensionati è l'unica organizzazione del territorio che offre sevizi gratuiti o con tariffe calmierate agli anziani residenti in comune,
ha posto alla Sezione il seguente quesito: “se è da ritenersi legittima tale intenzione della giunta comunale per tutte le manifestazioni del gruppo anziani, come per esempio gli auguri natalizi, ove non venga svolta alcuna attività di natura commerciale.
...
Il quesito oggetto della richiesta di parere del Comune di Curno deve ritenersi inammissibile.
Il quesito, infatti, non investe una questione di rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di esprimere una valutazione che attiene ad una attività gestionale dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste di parere devono avere rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, onde salvaguardare l’autonomia decisionale dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative opportune cautele e valutazioni che la sana gestione richiede.
Ad ogni modo, l’ente nell’adottare il provvedimento gestionale potrà orientare la sua decisione ai principi generali già espressi da questa Corte.
In particolare si ricorda come la Sezione regionale per il Veneto (parere 05.10.2012 n. 716), ponendosi in linea di continuità con quanto già affermato da questa Sezione (cfr. in particolare parere 13.06.2011 n. 349 e precedenti ivi richiamati), ha chiaramente evidenziato come
la deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata “solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni. A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire che la sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione. […] La Sezione precisa, inoltre, che, oltre all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale.
Con la conseguenza che
risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 06.05.2014 n. 172).

URBANISTICA: Sulla corretta interpretazione dell’art. 31, comma 48, della legge 23.12.1998, n. 448 concernente la determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà.
Si deve ritenere che il comune, a far data dall’entrata in vigore della legge di stabilità per il 2014, possa determinare il corrispettivo in parola sulla base dei nuovi criteri di calcolo con la conseguente facoltà di abbattere fino al 50 per cento l’importo corrispondente al valore venale del bene già ridotto del 60 per cento.
Si deve viceversa escludere che il comune possa rideterminare, sulla base dei medesimi criteri, i corrispettivi calcolati in applicazione della normativa previgente in modo da restituire l’eventuale eccedenza ai privati.
La nuova disciplina del calcolo del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà, disponendo per l’avvenire non fornisce alcun titolo giuridico per la restituzione di somme legittimamente riscosse dall’ente in relazione ad atti conformi alla legge che hanno già esaurito la propria efficacia.
I provvedimenti con i quali l’ente faccia applicazione dei nuovi criteri di calcolo stabiliti dalla legge di stabilità per il 2014, in altri termini, non possono legittimare alcuna pretesa al recupero di quanto versato da parte dei cittadini che in precedenza abbiano già aderito alla proposta comunale conseguendo il diritto di proprietà.
Non vale nemmeno invocare, sotto questo profilo, una pretesa disparità di trattamento scaturente dall’applicazione della norma, che si rivela essere solo la conseguenza di fatto di una diversa valutazione di interessi operata direttamente dal legislatore nel definire i nuovi criteri di calcolo e posto che il comune rimane comunque libero di modulare la riduzione, legislativamente rimessa alla propria discrezionalità, in maniera tale da allineare i valori tra i corrispettivi attuali e quelli determinati in base ai precedenti criteri.

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Con la nota sopra citata, a firma del Sindaco del comune di Paderno Dugnano (MI), si richiede un parere sulla corretta interpretazione dell’art. 31, comma 48, della legge 23.12.1998, n. 448 concernente la determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà.
A tal fine si rappresenta quanto segue.
L’amministrazione comunale, a decorrere dal 2009, ha dato attuazione alla disciplina normativa che consente la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà̀, calcolando il corrispettivo, a decorrere dal mese di giugno 2011 (delibera Consiglio Comunale n. 50 del 28.06.2011), nella misura del 60 per cento del valore venale del bene e conseguente riduzione del 40 per cento (secondo l’art. 31, comma 48, della legge 23.12.1998, n. 448).
La legge 27.12.2013, n. 147, (legge di stabilità per il 2014), all’art. 1, comma 392, ha modificato l’art. 31, comma 48, della legge n. 448/1998 consentendo ai comuni di abbattere il valore venale fino al 50 per cento.
L’ente, avvalendosi di questa facoltà̀, ha deliberato che il corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà fosse determinato nei termini seguenti:
• valore venale dell'area abbattuto del 50 per cento;
• ulteriore abbattimento 60 cento;
• detrazione degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sul base ISTAT dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati verificati si tra il mese in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione delle aree;
• verifica che il costo risultante non sia superiore a quello stabilito dal comune per le aree cedute direttamente in diritto di proprietà̀ al momento della trasformazione di cui all’art. 31, comma 47, della legge n. 448/1998.
Si rappresenta inoltre che, da una prima valutazione fatta dagli uffici, le stime redatte sulla base dei citati criteri risultano essere inferiori di almeno il 30 per cento rispetto a quelle redatte negli ultimi due anni sulla base dei vecchi criteri, con la conseguenza che coloro i quali nel recente passato hanno aderito alle proposte formulate dal comune si troveranno in una condizione di evidente disparità di trattamento rispetto a quanto aderiranno nel futuro, pur avendo all'origine pagato identico corrispettivo per il diritto di superficie.
Tutto ciò premesso, si chiede se sia legittimo procedere alla restituzione a quanti hanno già pagato e perfezionato l’atto di trasferimento di quanto corrisposto in più rispetto alle nuove stime che saranno predisposte con l'applicazione dei criteri dettati dalla legge di stabilità per il 2014 e della delibera consiliare adottata.
...
L’art. 31, comma 45, della legge 23.12.1998, n. 448, consente ai comuni di cedere in proprietà le aree comprese nei piani approvati a norma della legge 18.04.1962, n. 167, ovvero delimitate ai sensi dell'articolo 51 della legge 22.10.1971, n. 865, già concesse in diritto di superficie ai sensi dell'articolo 35, quarto comma, della medesima legge n. 865 del 1971.
Il successivo comma 47 precisa che la trasformazione del diritto di superficie in diritto di piena proprietà sulle predette aree può avvenire a seguito di proposta da parte del comune e di accettazione da parte dei singoli proprietari degli alloggi, e loro pertinenze, per la quota millesimale corrispondente, dietro pagamento di un corrispettivo determinato ai sensi del comma 48.
Quest’ultimo, nella sua formulazione originaria, prevedeva che il corrispettivo delle aree cedute in proprietà̀ fosse determinato dal comune, in misura pari al 60 per cento di quello determinato ai sensi dell’art. 5-bis, comma 1, del decreto legge 11.07.1992 n. 333 convertito, con modificazioni, dalla legge 08.08.1992, n. 359, escludendo la riduzione del 40 per cento prevista dall’ultimo periodo dello stesso comma, al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base della variazione, accertata dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi tra il mese in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione delle aree.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 348 del 2007 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto legge 11.07.1992, n. 333.
Sulla questione concernente il criterio di calcolo da adottare per la determinazione del corrispettivo in questione a seguito della declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni sopra richiamate, sono intervenute le Sezioni riunite della Corte dei conti che, con la deliberazione 14.04.2011 n. 22, hanno ritenuto che il rinvio operato dall’art. 31, comma 48, dovesse intendersi riferito ai vigenti criteri di calcolo dell’indennità̀ di espropriazione, ovvero all’art. 37, commi 1 e 2, del DPR 08.06.2001, n. 327, come modificati dalla legge 24.12.2007, n. 244, secondo cui l’indennità̀ di espropriazione di un area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene e quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, questa è ridotta del 25 per cento.
L’art. 1, comma 392, della legge 27.12.2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014) ha modificato il richiamato art. 31, comma 48, della legge n. 448/1998 il quale, nella formulazione attualmente in vigore, stabilisce che “il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato dal comune, su parere del proprio ufficio tecnico, in misura pari al 60 per cento di quello determinato attraverso il valore venale del bene, con la facoltà per il comune di abbattere tale valore fino al 50 per cento, al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base della variazione, accertata dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi tra il mese in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione delle aree. Comunque il costo dell'area così determinato non può essere maggiore di quello stabilito dal comune per le aree cedute direttamente in diritto di proprietà al momento della trasformazione di cui al comma 47”.
Alla luce dell’evoluzione del quadro normativo sopra descritto
si deve ritenere che il comune, a far data dall’entrata in vigore della legge di stabilità per il 2014, possa determinare il corrispettivo in parola sulla base dei nuovi criteri di calcolo con la conseguente facoltà di abbattere fino al 50 per cento l’importo corrispondente al valore venale del bene già ridotto del 60 per cento.
Si deve viceversa escludere, diversamente da quanto prospettato nella richiesta di parere in esame, che il comune possa rideterminare, sulla base dei medesimi criteri, i corrispettivi calcolati in applicazione della normativa previgente in modo da restituire l’eventuale eccedenza ai privati.
La nuova disciplina del calcolo del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà, disponendo per l’avvenire non fornisce alcun titolo giuridico per la restituzione di somme legittimamente riscosse dall’ente in relazione ad atti conformi alla legge che hanno già esaurito la propria efficacia.
I provvedimenti con i quali l’ente faccia applicazione dei nuovi criteri di calcolo stabiliti dalla legge di stabilità per il 2014, in altri termini, non possono legittimare alcuna pretesa al recupero di quanto versato da parte dei cittadini che in precedenza abbiano già aderito alla proposta comunale conseguendo il diritto di proprietà.
Non vale nemmeno invocare, sotto questo profilo, una pretesa disparità di trattamento scaturente dall’applicazione della norma, che si rivela essere solo la conseguenza di fatto di una diversa valutazione di interessi operata direttamente dal legislatore nel definire i nuovi criteri di calcolo e posto che il comune rimane comunque libero di modulare la riduzione, legislativamente rimessa alla propria discrezionalità, in maniera tale da allineare i valori tra i corrispettivi attuali e quelli determinati in base ai precedenti criteri (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 28.04.2014 n. 170).

PATRIMONIOIl Collegio ribadisce che l’indirizzo politico-legislativo (che si è venuto affermando negli ultimi anni) riconosce alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico una valorizzazione finalizzata all'utilizzo dei beni secondo criteri privatistici di redditività e di convenienza economica.
I
l Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata “l'ente locale rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove lo sviluppo".
L'eventuale scelta di disporre di un bene pubblico ad un canone di importo diverso da quello corrispondente al suo valore di mercato, ad avviso della Sezione deve avvenire a seguito di “un’attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale dell’ente, in cui però deve tenersi nella massima considerazione l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6, Cost.)”.
Altresì, “
l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione ed impone all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo temperamento degli interessi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile degli interessi compresenti”.
Naturalmente tale valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco nonché della verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, è rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento.

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Il Sindaco del Comune di Treviso, con la nota indicata in epigrafe, ha posto alla Sezione un quesito in ordine alle modalità di determinazione del canone dei beni demaniali e patrimoniali dell’ente locale, affidati in gestione alle associazioni di interesse collettivo nei campi della cultura, dello sport e del sociale (come ad esempio, palestre, campi sportivi, edifici).
A questo riguardo il Sindaco richiama il principio, affermato dall’art. 2, comma 4, del Decreto legislativo 28.05.2010, n. 86, di massima valorizzazione funzionale dei beni attribuiti al patrimonio dell’ente locale, a vantaggio diretto o indiretto della collettività, ed anche il principio di sussidiarietà verticale, in base al quale i cittadini, idoneamente associati, possono essere destinatari dell’esercizio di attività pubbliche, se queste vengono svolte in maniera più economica, efficiente ed efficace rispetto a quanto l’ente di riferimento possa garantire.
Per questo motivo, l’ente chiede se il solo modo legittimo di procedere, in materia di valorizzazione del proprio patrimonio, sia quello di sfruttare il bene in base al valore di mercato, idoneamente periziato, o se sia possibile impostare uno sfruttamento del bene patrimoniale non sul valore di mercato, bensì su un valore più basso, in considerazione delle finalità sociali, senza scopo di lucro, delle associazioni di interesse collettivo alle quali l’ente affiderebbe la gestione dei beni pubblici.
A questo proposito, il Sindaco richiama la norma di cui all’art. 32, comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724 che dispone che “a decorrere dal 01.01.1995, i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali”.
...
Passando al merito della questione, poiché nella richiesta in argomento viene fatto un indistinto riferimento ai beni demaniali e patrimoniali, la Sezione ritiene opportuno ricordare preliminarmente che tali categorie di beni, sebbene condividano l’attitudine ad essere utilizzati per fini di pubblico interesse, hanno in realtà un regime giuridico diverso.
Infatti, i beni demaniali (individuabili dalla lettura combinata degli artt. 822 e 824 c.c.) hanno come loro naturale e necessaria destinazione l’adempimento di una pubblica funzione e sono, pertanto, assoggettati ad una disciplina pubblicista; quelli patrimoniali, invece, si suddividono in due ulteriori categorie: i beni patrimoniali indisponibili (individuati dall’art. 826, commi 2 e 3, c.c.) che, in quanto destinati ad un pubblico servizio, sono sottoposti anch’essi alla disciplina pubblicistica; ed i beni patrimoniali disponibili, categoria residuale, che sono soggetti al regime giuridico proprio dei beni di diritto privato, dal momento che realizzano l’interesse pubblico solo in via strumentale ed indiretta, in virtù della destinazione data ai redditi ricavati derivante (dai frutti naturali o civili), facendoli concorrere in questo modo al finanziamento della spesa pubblica.
Con riferimento in particolare agli enti locali, si fa inoltre presente che la riforma del Titolo V della Costituzione ha riconosciuto che gli enti territoriali hanno un proprio patrimonio (art. 119 Cost., comma 7) e non solo il demanio e che, a seguito del c.d “federalismo demaniale”, attuato con il D.Lgs. 85/2010, è stata prevista l’attribuzione a titolo non oneroso, ad ogni livello di governo, di beni statali secondo dei criteri di territorialità, di sussidiarietà, di adeguatezza, di semplificazione e di capacità finanziaria. Con quest’ultimo requisito si intende la capacità finanziaria dell’ente territoriale al quale è trasferito il bene, di garantirne le esigenza di tutela, di gestione e di valorizzazione. Proprio con riferimento a questi beni statali così attribuiti, il legislatore ha specificato che l’ente dispone del bene nell’interesse della collettività, favorendone la “massima valorizzazione funzionale”, secondo il principio richiamato dal Sindaco di Treviso nel quesito.
La Sezione, infine, ricorda anche quanto previsto dall’art. 58 del decreto legge 25.06.2008, convertito dalla legge 03.08.2008, n. 133, che prescrive agli enti territoriali di procedere al riordino e valorizzazione del proprio patrimonio immobiliare attraverso l’adozione di appositi piani di alienazione immobiliare, che vanno allegati ai bilanci di previsione.
Da queste premesse si deduce che
le varie forme di gestione del patrimonio introdotte di recente dal legislatore sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle dotazioni immobiliari dei vari enti territoriali, di volta in volta coinvolti, nel senso che le diverse forme di utilizzazione o destinazione dei beni in argomento devono mirare all’incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale. Si tratta, infatti, di gestire dinamicamente partite del patrimonio immobiliare per potenziare le entrate di natura non tributaria.
Queste osservazioni permettono al Collegio di indicare alcuni principi rilevanti per il quesito posto dal Sindaco di Treviso.
Infatti,
l’ente, ai fini della possibilità di concedere la disponibilità di un bene appartenente al suo patrimonio, a delle condizioni diverse da quelle di mercato, in considerazione delle peculiari finalità sociali perseguite dal soggetto beneficiario (associazioni di interesse collettivo senza fini di lucro), dovrà tener conto, nell’ambito delle valutazioni da effettuare nell’esercizio della sua esclusiva discrezionalità, di una serie di principi che espongono di seguito.
Innanzitutto, indipendentemente dallo strumento giuridico che verrà utilizzato per disporre del bene (provvedimento amministrativo se si tratta di bene demaniale o appartenente al patrimonio indisponibile; negozio di diritto privato se si tratta di bene patrimoniale disponibile), l’atto di disposizione dovrà comunque tener conto dell’obbligo di assicurare una gestione economica dei beni pubblici, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie.
Quest’obbligo rappresenta infatti una delle forme di attuazione da parte delle pubbliche amministrazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l’economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, L 241/1990 e s.i.m.). Ne consegue che, da un lato, l’azione amministrativa deve garantire livelli ottimali di soddisfazione dell’interesse pubblico generale attraverso l’impiego di risorse proporzionate; dall’altro, deve conseguire il massimo valore ottenibile dall’impiego delle risorse a disposizione.
In questo senso si è espressa anche
questa Sezione con la delibera n. 33/2009/PAR che ha affermato, con riferimento alla cessione gratuita di un immobile comunale, come questa non possa considerarsi una modalità tipica di valorizzazione del patrimonio proprio perché “non reca alcuna entrata all’ente e costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del bene, ma addirittura una fonte di depauperamento e, dunque, di danno patrimoniale per l’ente”.
La Sezione fa anche presente che il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni.

A questo riguardo
il Collegio richiama non solo quanto previsto dall’art. 32, comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724 (cui si fa espresso riferimento nella richiesta di parere in questione) in ordine alla considerazione degli “scopi sociali” che possono giustificare un canone inferiore a quello di mercato per la locazione di beni del patrimonio indisponibile dei comuni, ma anche la disposizione di cui all’art. 32 della legge 07.12.2000, n. 383 che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
In questo caso la mancata redditività del bene è comunque compensata dalla valorizzazione di un altro bene ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e fondamento nell’art. 2 della Costituzione (in questo senso vedi anche delibera della Sezione di controllo della Lombardia n. 349/2011).
La Sezione tuttavia ritiene rilevante evidenziare che
le predette eccezioni si giustificano alla luce delle particolari caratteristiche che rivestono i beneficiari di tali disposizioni sulle quali si ritiene opportuno fare delle chiare precisazioni.
Infatti, nelle norme sopra citate si fa riferimento ad una categoria ben individuata di soggetti, quali organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione sociale (art. 32, L 383/2000), secondo la definizione contenuta nell’art. 2 della L 383/2000 che comprende “le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati”.
D’altra parte, anche il beneficio previsto dall'art. 32, comma 8, della L 724/1994, limitatamente ai canoni annui dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni, in considerazione degli “scopi sociali”, va letto, ad avviso di questo Collegio, in riferimento a quanto previsto dal comma 3 del medesimo articolo che esclude dall’incremento dei canoni annui dei beni patrimoniali, questa volta dello Stato, una serie di categorie di soggetti (vedove o persone già a carico di dipendenti pubblici deceduti per causa di servizio, ecc.) tra le quali sono comprese anche le associazioni e fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione sociale, con determinati requisiti.
Dalla lettura delle norme in questione, risulta pertanto evidente che
la deroga alla regola della determinazione di canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato di cui alla citata norma, appare giustificata solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni.
A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire che
la sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione, alla stessa stregua del parametro che viene utilizzato, ad esempio, per valutare il carattere economico o meno dei servizi pubblici locali.
La Sezione prende atto che attualmente la tradizionale contrapposizione tra impresa e assenza di scopo di lucro ha assunto contorni via via più sfumati, dal momento che viene riconosciuta la possibilità di svolgere un’attività economica organizzata anche da parte di soggetti diversi dall’imprenditore, purché comunque destinata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi di utilità sociale e diretta a realizzare finalità di interesse generale. Ci si riferisce, in particolare, alla figura dell’impresa sociale introdotta dal D.lgs. 155/2006; tuttavia, anche in questo caso, il legislatore, oltre ad indicare in modo tassativo i settori in cui i beni ed i servizi prodotti o scambiati si considerano di utilità sociale, fa dell’assenza d lucro l’elemento costitutivo della figura (precisando, tra l’altro anche il divieto di distribuzione, anche in forma indiretta, di utili o di avanzi di gestione).
La Sezione precisa, inoltre, che,
oltre all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale.
La Sezione ritiene, ancora che,
ove la disposizione del bene sia attuata con un provvedimento, la concessione ad un soggetto di un’utilità a condizioni diverse da quelle previste dal mercato, possa essere qualificata come “vantaggio economico” ai sensi dell’art. 12 della legge 07.08.1990, n, 241 (vedi in questo senso la citata delibera della Sezione Lombardia n. 349/2011). Tale norma, sotto la rubrica “Provvedimenti attributivi di vantaggi economici”, stabilisce che “la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”; poi, al secondo comma, aggiunge che “l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1”.
Questa norma va letta anche con riferimento alla disciplina introdotta di recente dall’art. 18 del decreto legge 22.06.2012, n. 183, con dalla legge 07.08.2012, n. 134, in tema di amministrazione aperta, che disciplina in maniera dettagliata il regime di pubblicità sulla rete internet delle concessione di “sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese e l’attribuzione dei corrispettivi…e comunque di vantaggi economici di qualunque genere di cui all’articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241 ad enti pubblici e privati”; regime di pubblicità che, a partire dal 01.01.2013, diventa una condizione legale di efficacia, a determinate condizioni, del titolo legittimante le concessioni stesse.
Se, invece, l’atto dispositivo è di diritto privato, si raccomanda all’ente di garantire, comunque, un’adeguata forma di pubblicità.
Il Comune dovrà, inoltre, redigere il relativo verbale di consistenza dei luoghi al fine di accertare l’effettiva consistenza dei beni, anche allo scopo della corretta determinazione del canone dovuto. L’atto costitutivo del diritto reale dovrà poi contenere il regime quanto più dettagliato possibile delle rispettive obbligazioni, alla luce dei sopra citati principi di massima valorizzazione del bene e di trasparenza, prevedendo anche un obbligo di rendicontazione periodica.

In conclusione,
il Collegio ribadisce che l’indirizzo politico-legislativo (che si è venuto affermando negli ultimi anni) riconosce alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico una valorizzazione finalizzata all'utilizzo dei beni secondo criteri privatistici di redditività e di convenienza economica.
Aggiunge, tuttavia, il Collegio che
il Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata “l'ente locale rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove lo sviluppo (art. 3, comma 2, D ).
L'eventuale scelta di disporre di un bene pubblico ad un canone di importo diverso da quello corrispondente al suo valore di mercato, ad avviso della Sezione deve avvenire a seguito di “un’attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale dell’ente, in cui però deve tenersi nella massima considerazione l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6, Cost.), secondo il principio già affermato nella citata delibera 33/2009/PAR di questa Sezione.
Nella stessa pronuncia viene inoltre ribadito che “
l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione ed impone all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo temperamento degli interessi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile degli interessi compresenti”.
Naturalmente tale valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco nonché della verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, è rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 05.10.2012 n. 716).

PATRIMONIO: La decisione se procedere o meno alla stipula di apposita convenzione con la locale associazione sportiva per la gestione degli impianti sportivi di proprietà comunale -al fine di consentire agli utenti amministrati (giovani atleti, studenti ecc.) lo svolgimento dì attività sportiva nel territorio comunale- attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente.
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in linea generale, si ricorda che la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un “vantaggio economico” in favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del negozio di comodato pone a carico del comodatario le spese per l’utilizzo del bene (in particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita che <<il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo comma aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti>>).
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All’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente locale.
In particolare, <<
l’ente locale nell’esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale medesimo>>.
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell’ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile e l’erogazione di contributi, purché l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo.
D’altra parte,
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale o finanziaria <<è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell’ente locale, posto che la stessa amministrazione pubblica –in ragione del principio di sussidiarietà orizzontale- opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata. In quest’ottica, inoltre, la legge n. 15 del 2005 che ha novellato la legge n. 241/1990 sui principi generali procedimento amministrativo, ha affermato a chiare lettere che l’amministrazione agisce con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico>>.
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Il Sindaco del Comune di Verdello ha posto alla Sezione un quesito del seguente tenore: <<L'amministrazione sta valutando la possibilità di stipulare apposita convenzione con la locale associazione sportiva per la gestione degli impianti sportivi di proprietà comunale al fine di consentire agli utenti amministrati (giovani atleti, studenti ecc.) lo svolgimento dì attività sportiva nel territorio comunale dato che la promozione dello sport e le attività dì facilitazione della attività agonistica, a livello dilettantistico, rientrano tra le finalità istituzionali dell'ente locale>>.
In particolare, l’ente locale istante chiede di <<conoscere se, alla luce delle recenti restrizioni legislative in tema di riduzione dei costi della finanza pubblica:
1) il Comune possa concedere alla locale associazione sportiva (unica presente in loco direttamente l'uso della gestione degli impianti di proprietà comunale, degli arredi e delle strutture dei locali senza alcun corrispettivo;
2) il Comune possa accollarsi, in tutto o in parte, gli oneri inerenti le spese per l'energia elettrica, la fornitura di acqua ed il riscaldamento derivanti dall'uso dei locali da parte degli utenti, restando a carico della associazione sportiva la gestione degli impianti e delle strutture compresa la manutenzione ordinaria. Le tariffe per l'utilizzo degli impianti e delle palestre, saranno stabilite dall'amministrazione comunale mentre i proventi derivanti dall'utilizzo o del subaffitto a terzi degli impianti, resterebbero appannaggio della associazione sportiva. Le spese, infine; di manutenzione straordinaria, trattandosi di impianti di proprietà comunale, sono a carico del Comune;
3) l'amministrazione inoltre dovrebbe accollarsi la erogazione di un contributo annuale, a titolo di concorso dell'ente, nelle spese per la manutenzione ordinaria degli impianti e la gestione generale del centro sportivo;
4) il Comune possa concedere un ulteriore contributo da finalizzare per la promozione e il sostegno delle attività e per la promozione della pratica sportiva della popolazione e ciò perché tali erogazioni contributive non sembrano in, contrasto con il disposto dell'art. 12 della legge della L . n. 241/1990, in ordine alla concessione di contributi, atteso che la effettiva erogazione è comunque subordinata alla stipulazione di una apposita convenzione; né sembra in contrasto con l'art. 6, comma 9, D.L. n. 78/2010, in tema di divieto di sponsorizzazioni, poiché l'erogazione dei contributi di che trattasi, verrebbe concessa per promuovere e facilitare l'accesso ai giovani della attività sportiva dilettantistica nell'ambito delle finalità istituzionali dell'ente
>>.
...
In via preliminare la Sezione precisa che
la decisione se procedere o meno alla stipula di apposita convenzione con la locale associazione sportiva per la gestione degli impianti sportivi di proprietà comunale -al fine di consentire agli utenti amministrati (giovani atleti, studenti ecc.) lo svolgimento dì attività sportiva nel territorio comunale- attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente.
Inoltre, l’ente locale istante chiede di <<conoscere se, alla luce delle recenti restrizioni legislative in tema di riduzione dei costi della finanza pubblica:
1) il Comune possa concedere alla locale associazione sportiva (unica presente in loco direttamente l'uso della gestione degli impianti di proprietà comunale, degli arredi e delle strutture dei locali senza alcun corrispettivo.
2) il Comune possa accollarsi, in tutto o in parte, gli oneri inerenti le spese per l'energia elettrica, la fornitura di acqua ed il riscaldamento derivanti dall'uso dei locali da parte degli utenti, restando a carico della associazione sportiva la gestione degli impianti e delle strutture compresa la manutenzione ordinaria. Le tariffe per l'utilizzo degli impianti e delle palestre, saranno stabilite dall'amministrazione comunale mentre i proventi derivanti dall'utilizzo o del subaffitto a terzi degli impianti, resterebbero appannaggio della associazione sportiva. Le spese, infine; di manutenzione straordinaria, trattandosi di impianti di proprietà comunale, sono a carico del Comune.
3) L'amministrazione inoltre dovrebbe accollarsi la erogazione di un contributo annuale, a titolo di concorso dell'ente, nelle spese per la manutenzione ordinaria degli impianti e la gestione generale del centro sportivo;
4) il Comune possa concedere un ulteriore contributo da finalizzare per la promozione e il sostegno delle attività e per la promozione della pratica sportiva della popolazione e ciò perché tali erogazioni contributive non sembrano in, contrasto con il disposto dell'art. 12 della legge della L. n. 241/1990, in ordine alla concessione di contributi, atteso che la effettiva erogazione è comunque subordinata alla stipulazione di una apposita convenzione; né sembra in contrasto con l'art. 6, comma 9, D.L. n. 78/2010, in tema di divieto di sponsorizzazioni, poiché l'erogazione dei contributi di che trattasi, verrebbe concessa per promuovere e facilitare l'accesso ai giovani della attività sportiva dilettantistica nell'ambito delle finalità istituzionali dell'ente
>>.
Anche con riferimento a queste specifiche richieste occorre, preliminarmente, osservare che il quesito non investe una questione di rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di esprimersi sul contenuto di specifiche clausole da inserire nella convenzione implicante una valutazione che attiene ad una attività gestionale dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste di parere devono avere rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, onde salvaguardare l’autonomia decisionale dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative opportune cautele e valutazioni che la sana gestione richiede.
Ad ogni modo, l’ente nell’adottare il provvedimento gestionale potrà orientare la sua decisione ai principi generali che seguono.
Con riferimento ai punti nn. 1, 2 e 3 dell’istanza di parere,
in linea generale, si ricorda che la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un “vantaggio economico” in favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del negozio di comodato pone a carico del comodatario le spese per l’utilizzo del bene (in particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita che <<il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo comma aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti>>).
Ne consegue che, nel caso di specie, viene in rilievo la disciplina generale dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della legge in materia di procedimento amministrativo (L. 07.08.1990, n. 241). L’art. 12 cit., sotto la rubrica <<Provvedimenti attributivi di vantaggi economici>>, stabilisce che <<la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi>>; poi, al secondo comma, aggiunge che <<l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1>>.
Chiarito che il provvedimento attributivo del vantaggio economico in favore di soggetto di diritto privato deve essere adottato nel rispetto dei principi generali dettati dalla l. n. 241/1990, nonché delle norme regolamentari dell’ente locale, occorre altresì evidenziare che
all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente locale.
In particolare, come ha già ricordato questa Sezione, <<
l’ente locale nell’esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale medesimo>> (si veda la delibera Lombardia/429/2010/PAR del 15.04.2010 con riferimento al contratto di comodato e, più in generale, le delibere Lombardia, 29/06/2006, n. 9, Lombardia 13/12/2007 n. 59, Lombardia 05/06/2008 n. 39 per l’erogazione di contributi da parte degli enti locali in favore di soggetti privati).
Dunque,
rientra nella sfera della discrezionalità dell’ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile e l’erogazione di contributi, purché l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo.
D’altra parte,
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale o finanziaria <<è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell’ente locale, posto che la stessa amministrazione pubblica –in ragione del principio di sussidiarietà orizzontale- opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata. In quest’ottica, inoltre, la legge n. 15 del 2005 che ha novellato la legge n. 241/1990 sui principi generali procedimento amministrativo, ha affermato a chiare lettere che l’amministrazione agisce con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico>> (così, Lombardia/429/2010/PAR del 15.04.2010).
Con riferimento al punto n. 4 dell’istanza di parere, inoltre, si aggiunga che alla stregua del divieto di “spese per sponsorizzazioni” introdotto dall’art. 6, comma 9, d.l. n. 78/2010, questa Sezione ha valorizzato una nozione lata di sponsorizzazione di matrice giuscontabile, in coerenza con la ratio di riduzione degli oneri a carico delle Amministrazioni e con finalità anti-elusive.
In sede consultiva, in merito all’obbligo di riduzione della spesa per sponsorizzazioni ex art. 61, commi 6 e 15, del d.l. n. 112/2008, ha infatti statuito che “
il termine sponsorizzazioni .. si riferisce a tutte le forme di contribuzione a terzi alle quali possono ricorrere gli enti territoriali per addivenire alla realizzazione di eventi di interesse per la collettività locale di riferimento” (delibera n. 2/2009). Dunque, il divieto di spese per sponsorizzazioni ai sensi dell’art. 6, comma 9, del d.l. 31.05.2010, n. 78, presuppone anche un vaglio di natura telelogica.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione comunale, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione del tutto interdetta dopo l’entrata in vigore del citato decreto, è la relativa funzione. La spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza del Comune, così da promuoverne l’immagine. Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di un soggetto terzo, rientranti nei compiti del Comune, nell’interesse della collettività anche sulla scorta dei principi di sussidiarietà orizzontale ex art. 118 Cost.
In via puramente esemplificativa,
il divieto di spese per sponsorizzazioni non può ritenersi operante nel caso di erogazioni ad associazioni che erogano servizi pubblici in favore di fasce deboli della popolazione (anziani, fanciulli, etc.), oppure a fronte di sovvenzioni a soggetti privati a tutela di diritti costituzionalmente riconosciuti, quali i contributi per il c.d. diritto allo studio o contributi per manifestazioni a carattere socio-culturale (et similia).
In sintesi,
tra le molteplici forme di sostegno all’associazionismo locale l’elemento che connota, nell’ordinamento giuscontabile, le contribuzioni tutt’ora ammesse (distinguendole dalle spese di sponsorizzazione ormai vietate) è lo svolgimento da parte del privato di un’attività propria del comune in forma sussidiaria. L’attività, dunque, deve rientrare nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che (direttamente) da parte di comuni e province, rappresentando una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’Amministrazione.
Dunque, come ha già ricordato più volte questa Sezione, <<
se la finalità perseguita dal Comune con l’erogazione di un contributo annuale alle Associazioni che operano sul territorio è quella di sostenere le associazioni locale che abbiano specifiche caratteristiche di collegamento con la Comunità locale, risultanti sia dall’iscrizione nel Registro locale che dallo svolgimento di attività e prestazioni in favore della Comunità insediata sul territorio sul quale insiste l’ente locale, si tratta di prestazione che non rientra nella nozione di spesa per sponsorizzazione vietata dall’art. 6, co. 9, del d.l. n. 78, conv. in l. n. 122 del 2010 e, come tale, ammissibile, nei limiti delle risorse finanziarie dell’ente locale e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica di carattere generale>> (Lombardia/122/2011/PAR del 10.03.2011; Lombardia/285/2011/PAR del 16.05.2011).
Tale profilo teleologico, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere palesato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento. L’Amministrazione dovrà palesare i presupposti di fatto e l’iter logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal destinatario del contributo (ovvero, dovrà evidenziare che il contributo viene erogato per finalità effettivamente legate allo sviluppo sociale), nonché l’erogazione dovrà essere rispondente ai criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.06.2011 n. 349).

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APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Niente stop agli incentivi se il Durc è negativo.
Il Durc dice addio alla carta. Il dl n. 34/2014, infatti, ha trasformato in versione telematica il documento unico di regolarità contributiva. Perciò, ferma restando la validità di quattro mesi, il documento unico di regolarità contributiva si potrà scaricare da internet tagliando in questo modo circa cinque milioni di certificazioni su carta. Altra novità interessante è il diritto, per le imprese prive di regolarità contributiva, di ricevere comunque le agevolazioni. Tuttavia, prima di finire nelle casse aziendali, gli incentivi salderanno le scoperture contributive.
Per regolarità contributiva s'intende la correttezza nei pagamenti e adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps e Inail, nonché casse edili nel caso di imprese di tale settore) con riferimento ai tutti gli obblighi ricadenti sull'intera situazione aziendale. Il Durc è un certificato che attesta tale regolarità per un'impresa. La regolarità contributiva (ossia il possesso del Durc da parte dell'azienda) è richiesta in diversi casi: appalti, lavori edili ecc. La Finanziaria 2007 (art. 1, comma 1175, della legge n. 296/2007) ha esteso tale vincolo anche ai benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale, fermo restando il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali.
La legge n. 98/2013 (conversione del dl n. 69/2013) ha previsto che alle erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, di qualunque genere, compresi quelli di cui all'art. 1, comma 553, della legge n. 266/2005 (cioè i benefici e le sovvenzioni comunitarie per la realizzazione d'investimenti), da parte di pubbliche amministrazioni, per le quali e «prevista» l'acquisizione del Durc, si applicano «in quanto compatibili» le previsione del comma 3 dell'art. 31 della stessa legge.
Quest'ultima norma disciplina il c.d. «intervento sostitutivo», vale a dire l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di trattenere dal pagamento da fare a un'impresa non in regolarità contributiva, l'importo corrispondente alle inadempienze evidenziate dal Durc. In pratica è previsto che in presenza di un Durc negativo con irregolarità nei versamenti dovuti a Inail, Inps o casse edili, le stazioni appaltanti si sostituiscano all'impresa debitrice (appaltatrice o subappaltatrice avente) e procedano a pagare, in tutto o in parte, il debito contributivo (a Inps, Inail o casse edili) trattenendo il relativo importo dal corrispettivo dovuto in forza dell'appalto.
La legge n. 98/2013, dunque, ha esteso l'utilizzo di questa disciplina (l'intervento sostitutivo) prevedendone l'applicazione «in quanto compatibile» anche alle amministrazioni pubbliche che erogano contributi, sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere per i quali sia «prevista» l'acquisizione d'ufficio del Durc.
Il dl n. 34/2014 interviene proprio su questa norma della legge n. 98/2013. Due le novità. La prima rende obbligatorio il Durc a tutte le erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziarie e vantaggi economici di qualunque genere, compresi benefici e sovvenzioni Ue per la realizzazione d'investimenti. La seconda rende obbligatoria negli stessi casi l'intervento sostitutivo. La conseguenza più interessante sembra quella a favore delle aziende. Fino al 21 marzo, infatti, era previsto che in caso di Durc negativo l'azienda non avesse diritto a incentivi per un mese ovvero, in caso di Durc positivo, ne avesse diritto per quattro mesi.
In altri casi, l'assenza di regolarità contributiva negava addirittura l'accesso a un bando di assegnazione di agevolazioni: è il caso, per esempio, dei finanziamenti Inail (Isi). In questi due esempi, allora, le modifiche del dl n. 34/2014 comportano che l'azienda è comunque e sempre ammessa agli incentivi, cioè anche se in possesso di Durc negativo. Però, con l'obbligatorietà dell'intervento sostitutivo, Inps o Inail prima di erogare materialmente gli incentivi, copriranno le scoperture contributive (articolo ItaliaOggi Sette del 19.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVia libera condizionato ai contratti decentrati. Gli integrativi irregolari possono ancora essere pagati. Pubblico impiego. La circolare del 12 maggio blocca le misure del Dl salva-Roma.
Il primo tentativo di risolvere le diffuse irregolarità dei fondi e dei contratti decentrati negli enti locali, contenuto nell'articolo 4 del Dl 16/2014, si scontra con un immediato stop da parte del Governo. I motivi –specificati nella circolare 12.05.2014 n. 60 di prot., firmata dai ministri per gli Affari regionali, Maria Carmela Lanzetta, per la Semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia, e dell'Economia, Pier Carlo Padoan– trovano origine nella «particolare complessità e stratificazione della disciplina», con la conseguente costituzione di un comitato temporaneo in Conferenza unificata che dovrà fornire indicazioni operative anche attraverso interventi normativi e direttive all'Aran.
Sembra evidente che il percorso prospettato richiederà molto tempo, tanto è vero che viene introdotto un periodo di sostanziale moratoria. Dietro al paravento della garanzia dei servizi, si è colta l'occasione per sdoganare (temporaneamente e salvo recupero) tutte le clausole contrattuali vigenti, anche se evidentemente viziate.
Si tratta quindi di una sanatoria ex ante di tutti i comportamenti adottati da oggi in poi e che trovano origine nei contratti decentrati firmati prima della circolare. A ben guardare, non si tratta di una semplice moratoria visto che rimane l'obbligo di recupero, ma di un sostanziale lasciapassare per i dirigenti che oggi sono chiamati ad applicare contratti decentrati di dubbia legittimità. L'obiettivo, neppure troppo velato, è quello di sollevare i responsabili del personale dal rischio di danno erariale derivante da colpa grave.
Perché proprio oggi è necessario garantire questa immunità? Perché cominciano a far sentire i loro effetti i verbali della Ragioneria dello Stato: è chiaro che un dirigente, a fronte di illegittimità rilevate in sede ispettiva, non può più far finta di niente e perpetrare comportamenti consolidati. In caso contrario ne risponderebbe in prima persona. Questo implica, quantomeno, la sospensione delle clausole contestate con la conseguente riduzione dello stipendio variabile per la generalità dei dipendenti.
Di cosa si tratta in pratica? Principalmente delle progressioni orizzontali stratificate nel tempo e riconosciute senza la necessaria selettività. Se a queste aggiungiamo i compensi che, seppure previsti nel contratto collettivo, sono stati male applicati (come rischio, disagio, responsabilità) e quelli nati dalla fervida fantasia che ha caratterizzato i tavoli della contrattazione decentrata (ad esempio, indennità di sportello, servizi aggiuntivi, indennità di chiamata, indennità di divisa) si può arrivare tranquillamente a una riduzione dello stipendio mensile del 20-30 per cento.
La situazione, già molto precaria, è stata ulteriormente aggravata dall'innesto della riforma Brunetta che imponeva la revisione dei contratti decentrati con l'obiettivo di enfatizzare gli istituti incentivanti legati alla performance. Riforma che, a distanza di anni e nonostante il riverbero mediatico, è inascoltata anche nelle realtà più grandi. L'inadempienza, troppo spesso sottovalutata, travolge, al contrario, l'intero contratto decentrato rendendo fin troppo facile la vita agli ispettori.
Ma per garantire tutto questo, è sufficiente una circolare, seppure a firma di tre ministri? Difficilmente il dirigente potrà soprassedere al testo normativo e ad anni di giurisprudenza e orientamenti consolidati.
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Caos recupero sugli stipendi. I limiti. Difficile rispettare la prescrizione di riprendere le somme versate in base a clausole di dubbia legittimità.
La circolare interministeriale 60 del 12 maggio autorizza il pagamento delle indennità previste nei contratti decentrati vigenti, anche di dubbia legittimità, ma necessarie per garantire i servizi indispensabili. A due condizioni:
1- in via temporanea
2- e salvo recupero.
Già sulla temporaneità si nutrono forti dubbi: il lavoro del comitato, che deve tendere a proporre soluzioni interpretative uniformi dell'articolo 4 del Dl 16/2014, appare alquanto arduo e, quindi, difficilmente risolvibile nel breve periodo. Sul recupero, le perplessità diventano quasi certezze in quanto sarà molto improbabile dar corso alla previsione della circolare. Le possibilità sono due: la riduzione del fondo per le risorse decentrate o la restituzione da parte dei dipendenti.
Per quanto riguarda i fondi, il Dl 16/2014 rappresenta una sorta di sanatoria per il passato, ma impone un comportamento irreprensibile per il futuro. Per questo il dirigente responsabile sarà obbligato a ricalcolare il suo ammontare per riportarlo a quell'importo che risulta dalla puntuale ricostruzione storica, sulla base di interpretazioni prudenziali delle previsioni contrattuali. L'operazione è tutt'altro che indolore: spesso vuol dire eliminare somme considerevoli e, quindi, anche il fondo risulta decurtato in modo sensibile.
Se sulla carta il sistema potrebbe anche funzionare, in pratica ci sono grossi problemi. In molti casi le risorse stabili del fondo sono appena sufficienti a garantire gli utilizzi stabili (progressioni, comparto e retribuzione di posizione), atteso che nei periodi di risorse abbondanti non si sono lesinati gli incentivi stabili a scapito di quelli variabili. Se a questi si aggiungono le risorse necessarie per il pagamento di turni e reperibilità, quello che rimane non è di certo sufficiente ad assorbire i recuperi. Ne consegue che l'operazione sui fondi teorizzata dal Dl salva-Roma potrebbe richiedere molti anni determinando l'azzeramento della produttività e il sostanziale fallimento del sistema.
L'alternativa potrebbe consistere nel recupero sugli stipendi dei dipendenti. Pur volendo prescindere dal dettato dello stesso Dl salva-Roma, l'esperienza insegna che politicamente è molto difficile, se non impossibile, ridurre sensibilmente e per lunghi periodi gli stipendi alla generalità dei dipendenti. Stipendi fermi dal 2010 a seguito del blocco dei contratti collettivi e che risentono del contenimento dei fondi
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.05.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIFine mandato, relazione alle sezioni regionali. Bilanci. Servono istruzioni dalla Corte.
Cambiano le regole sulla relazione di fine mandato dei sindaci: la legge 68/2014, di conversione del Dl salva-Roma ter, rivedendo la disciplina in materia, ha assegnato alla sezione regionale di controllo il ruolo di destinatario "giudicante".
Il maggior problema è rappresentato dalla mancata definizione del ruolo che andranno a svolgere in materia le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Un silenzio nei confronti del quale spetterà allo stesso giudice contabile rimediare. Ciò in quanto ogni sezione regionale dovrà necessariamente esprimersi, deliberando in proposito, quantomeno in termini di rispetto o meno dei tempi e delle procedure seguite dai Comuni.
Un dovere ineludibile, considerata la ratio legislativa intesa a riconoscere negli organi di giustizia erariale la migliore garanzia sull'operato finale dei sindaci. Un tale adempimento è peraltro dovuto, considerato lo stretto rapporto di analisi che lega i "saldi" giuridici ed economici, da rappresentare nel format ministeriale della relazione di fine mandato, con gli adempimenti routinari affidati alle sezioni regionali di controllo dall'articolo 148-bis del Tuel e dall'articolo 6, comma 2, del Dlgs n. 149/2011.
È necessario, quindi, che la sezione delle Autonomie approvi rapidamente linee guida ad hoc, per determinare comportamenti uniformi sul territorio nazionale.
Quanto auspicato è in linea con quanto sancito nell'articolo 6, comma 4, del Dl n. 174/2012 secondo cui «in presenza di interpretazioni discordanti delle norme rilevanti per l'attività di controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza, la sezione delle Autonomie emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano».
Ci si augura, pertanto, un chiarimento "filo istruttorio" su questi punti: la definizione dei termini in relazione alla loro perentorietà o meno; il limite che separa la mancata presentazione dalla non conformità e/o dalla non esauriente redazione della relazione; la necessità di chiarire se l'obbligatorietà della sottoscrizione si estenda alla certificazione e/o alla trasmissione, o anche –in termini di sanzione economica– se questa vada posta a carico dei soggetti tenuti alla redazione della relazione nell'ipotesi di successiva mancata sottoscrizione della stessa da parte del sindaco
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.05.2014).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASPECIALE JOBS ACT - PER I CONTRIBUTI L'OK ARRIVA ONLINE - Cresce il plafond degli incentivi destinati ai contratti di solidarietà.
Tra le varie misure contenute nel decreto legge 34/2014 a vantaggio delle imprese, appaiono particolarmente interessanti i provvedimenti con cui si interviene sulla disciplina del documento unico di regolarità contributiva (Durc) e sull'impianto a sostegno degli incentivi connessi ai contratti di solidarietà (Cds).
Le due norme sono orientate da logiche ben chiare: semplificazione e trasformazione per il Durc, destinato a smaterializzarsi; rivisitazione della normativa riferita alle agevolazioni per i contratti di solidarietà, stanziamento di maggiori risorse per i relativi incentivi e uniformazione della misura.
La rivisitazione del Durc è disciplinata dall'articolo 4 del decreto, con cui il governo si prefigge di far rivivere un progetto non nuovo: convertire il documento unico di regolarità contributiva in una semplice interrogazione online che ognuno, compresa l'impresa interessata, potrà eseguire dal proprio computer.
La sua realizzazione passa, in pratica, attraverso l'apertura delle banche dati in cui sono memorizzate le informazioni che servono a controllare se un determinato soggetto è in regola con i vari versamenti. Sarà possibile verificare, in tempo reale, la posizione dei contribuenti nei riguardi di Inps e Inail nonché, per le imprese interessate, anche della Cassa edile. Al momento, in realtà, si tratta soltanto di una previsione: sarà, infatti, un decreto interministeriale (Lavoro-Economia) –la cui emanazione è prevista entro 60 giorni dall'entrata in vigore del Dl 34, avvenuta il 21.03.2014– a dettare le regole.
Una volta che l'impianto sarà funzionante, l'interessato potrà controllare online la regolarità. L'esito varrà 120 giorni e le sue risultanze sostituiranno a ogni effetto il Durc, in tutti i casi in cui lo stesso è previsto, ad eccezione delle ipotesi di esclusione individuate dal decreto. Saranno, altresì, eseguibili le verifiche disposte in materia dal codice dei contratti pubblici. In tale ambito è determinante acquisire informazioni relative ai soggetti coinvolti che, se hanno commesso violazioni gravi definitivamente accertate alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, potranno essere esclusi dalle gare di affidamento delle concessioni, degli appalti e dei subappalti.
La norma, inoltre, aggiunge che dalla data di entrata in vigore del decreto interministeriale di regolamentazione, ogni disposizione di legge incompatibile con le previsioni del decreto lavoro sarà abrogata.
Attualmente le stazioni appaltanti possono verificare online il possesso dei requisiti di capacità generale e tecnico-economica delle imprese. Il controllo si esegue accedendo alla Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp) operativa presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (Avcp). Per rendere possibile lo scambio di informazioni telematiche tra le stazioni appaltanti e le imprese che vogliono partecipare a pubbliche gare d'appalto di lavori, forniture e servizi, è stata realizzata una piattaforma telematica denominata Avcpass. Previa registrazione, il sistema permette alle stazioni appaltanti/enti aggiudicatori l'acquisizione della documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per l'affidamento dei contratti pubblici; consente, inoltre, agli operatori economici di inserire a sistema i documenti richiesti dalle procedure di affidamento.
Nella delibera 111/2012, l'Autorità ha, tra l'altro, affermato che nella documentazione comprovante il possesso dei requisiti generali (articoli 38 e 39 del codice) figura anche il Durc fornito dall'Inail. Stante, dunque, quanto previsto dal Dl 34/2014, quando sarà pronto il decreto di regolamentazione del Durc smaterializzato, il passaggio all'Avcpass non dovrebbe più essere obbligatorio in quanto sarà sufficiente l'interrogazione online.
Il decreto lavoro si interessa anche dei contratti di solidarietà accompagnati da Cigs. La crisi economica che ha coinvolto il nostro Paese in questi ultimi anni ha visto crescere in maniera esponenziale il ricorso all'istituto del contratto di solidarietà come possibile strumento per la salvaguardia occupazionale.
Preso atto di questa realtà, con le nuove disposizioni si prevede un piccolo ma interessante maquillage delle regole inerenti l'accesso alle agevolazioni contributive a supporto dei Cds, si aumenta (triplicandolo) il plafond per finanziare gli incentivi e, parallelamente, si prevede un'agevolazione con misura uniformata che non tiene più conto delle diverse percentuali di riduzione dell'orario contrattuale, né della collocazione territoriale delle imprese
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2014).

APPALTI: Nei comuni acquisti centralizzati. Causa mafia.
Scioglimento dei comuni per mafia, si cambia: per quelli «riabilitati» scatterà l'obbligo di realizzare centrali uniche per acquisti e appalti. E un salto di qualità lo faranno i segretari comunali, la cui figura (di controllo) avrà «un senso» nell'assicurare la correttezza delle procedure.

È Filippo Bubbico, viceministro all'interno, ad anticipare i contenuti di un provvedimento in tempi stretti all'esame del Cdm, nel corso di una visita effettuata ieri, a Reggio Calabria.
Non manca molto alla messa in opera del restyling sullo scioglimento delle giunte in cui le organizzazioni criminali hanno allungato i tentacoli, condizionandone l'andamento e i servizi, giacché, riferisce, «siamo nella fase conclusiva della concertazione», laddove il Viminale da un lato ed il dicastero della giustizia dall'altro «hanno già condiviso un testo. Ora aspettiamo il passaggio conclusivo del Mef per gli aspetti relativi alla copertura delle spese conseguenti, anche in relazione alle innovazioni introdotte», quali, appunto, il vincolo di canali unici per il controllo delle forniture, degli incarichi e l'assegnazione delle concessioni per effettuare i lavori pubblici.
Nuova vita, dunque, per gli enti su cui le mafie hanno avuto influenza (il cui numero aumenta, sottolinea nel capoluogo calabrese), mediante un iter di «riabilitazione democratica», esteso anche ad «organismi istituzionali e ai momenti decisionali propri delle amministrazioni locali, a partire dalla gestione degli appalti e dell'affidamento di commesse all'esterno».
Necessarie, secondo l'esponente governativo, «procedure di qualità, di verifica costante sulla correttezza dei procedimenti amministrativi, e occorre dare anche un senso al ruolo ed alla funzione dei segretari comunali e restituire anche momenti di controllo non sul merito delle decisioni, ma sulla legittimità degli atti e anche il controllo di natura contabile e di natura finanziaria».
E, all'orizzonte, c'è anche la Carta dei diritti dei testimoni di giustizia che, prosegue Bubbico, sarà stilata da una commissione composta da sociologi, avvocati, magistrati e funzionari del servizio centrale di Protezione, che nei prossimi sei mesi rivaluterà strumenti per garantire loro sicurezza e «risarcirli» per i disagi tollerati (articolo ItaliaOggi del 17.05.2014).

APPALTIFattura elettronica, il Senato chiede i codici solo dal 2015. Dl Irpef. Emendamenti bipartisan.
Lavori in corso per evitare che la partenza della fatturazione elettronica si trasformi in un boomerang per i fornitori della Pa. Una serie di emendamenti trasversali al decreto Irpef presentati al Senato punta a prorogare e correggere le norme che rischiano di bloccare i pagamenti nel caso in cui le nuove fatture telematiche non contengano il Codice identificativo di gara (Cig) e il Codice unico di progetto (Cup).
Come noto, il 6 giugno prossimo scatta l'obbligo dell'utilizzo della fattura nei rapporti con ministeri, agenzie fiscali ed enti di previdenza. Il Dl anticipa inoltre al 31.03.2015 (dal 06.06.2015) l'obbligo per forniture verso tutte le altre Pa. Ma un'altra delle novità introdotte dal decreto, cioè l'obbligo per i fornitori di inserire nelle fatture il Cig e il Cup, ha fatto scattare nelle ultime settimane l'allarme delle imprese, dai più piccoli ai più grandi fornitori della Pa.
Il problema è finito al centro di alcuni emendamenti che mirano in prima battuta a rinviare l'obbligo di riportare i codici dal 06.06.2014 al 31.03.2015 (in subordine, le imprese propongono di spostarlo fino a 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione). E, inoltre, secondo emendamenti analoghi presentati da Pd, Ncd, Forza Italia e gruppo Per l'Italia, in assenza di codici la Pa sono legittimate a non pagare solo se in precedenza avevano comunicato queste informazioni ai fornitori.
Su questi aspetti ci sono stati diversi incontri a livello tecnico, anche con Ragioneria dello Stato, Agenzia delle entrate, Agenzia per l'Italia digitale e con gli altri attori che partecipano al Forum italiano sulla fatturazione elettronica. Il decreto introduce l'obbligo di prevedere nei documenti digitali Cig e Cup con l'obiettivo, sollecitato dalla Ragioneria, di avere in automatico un continuo monitoraggio dell'avanzamento della spesa per singoli progetti e unità organizzative. Un fine condivisibile, secondo le stesse imprese, perché consentirebbe di avere finalmente un quadro certo dei pagamenti arretrati e di mettere fine al fenomeno dei debiti fuori bilancio.
Il problema è rappresentato dai tempi, estremamente stretti per chi ha già effettuato investimenti per adeguare i sistemi informatici, e soprattutto dalla previsione del divieto di pagamento da parte delle Pa in caso di mancato inserimento dei codici. I fornitori potrebbero in realtà non disporne, dal momento che la normativa di riferimento (relativa alla tracciabilità finanziaria) ne prevede solo l'inserimento nelle operazioni di pagamento da parte delle Pa ma non dispone un esplicito obbligo di comunicarli ai fornitori.
Insomma: in assenza di modifiche, da giugno le imprese potrebbero avere l'obbligo di mettere in fattura dati che non hanno mai ricevuto e che per altro sono in già possesso dei committenti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.05.2014).

ENTI LOCALI - VARIAutovelox, gli scatolotti sono ok.
Nessuna disposizione normativa impedisce ai comuni di installare gli armadietti porta autovelox dove meglio credono. Anche come semplici dissuasori. Purché ogni tanto venga effettivamente realizzato qualche controllo di polizia stradale ospitando un misuratore al loro interno. E nella segnaletica di preavviso non vengano impiegati marchi che trasformano il segnale in pubblicità.

Lo ha confermato il Ministero dei trasporti con due distinti pareri nn. 1638 e 1870 rispettivamente dell'8 e 18.04.2014.
Nonostante le diverse indicazioni del ministro Lupi il suo dicastero continua a sostenere la legittimità di queste installazioni. Almeno fin tanto che non intervenga una possibile modifica normativa che potrebbe essere contenuta nell'imminente decreto interministeriale sulle multe all'esame in questi giorni della Conferenza stato-città. La questione dei finti autovelox si è infiammata dopo una trasmissione televisiva che ha evidenziato un impiego eccessivo di manufatti in materiale plastico realizzato in alcuni comuni.
Il ministro delle infrastrutture ha quindi preso posizione specificando sul suo blog il 26 marzo scorso che «gli autovelox finti non possono essere comprati e installati dai comuni. La limitazione alla velocità è prevista con appositi cartelli, previsti a livello europeo. Quei comuni che stanno utilizzando questi finti autovelox se ne assumono la responsabilità».
Con i due pareri in esame il suo dicastero contraddice questa posizione in linea con i precedenti orientamenti già espressi sul delicato tema negli ultimi anni. I manufatti porta autovelox non devono essere omologati o approvati e possono essere installati su qualsiasi tratto di strada, specifica il Mit, nel rispetto delle più elementari regole sulla sicurezza e dell'obbligo dell'eventuale presenza degli agenti in caso di strada non ammessa al controllo automatico.
Nessuna disposizione ne vieta l'uso anche come semplici dissuasori, prosegue il ministero, «a condizione che ospitino anche non continuativamente i dispositivi di controllo della velocità dei veicoli». Attenzione però ai segnali di avvertimento. L'uso di marchi registrati è vietato e trasforma il segnale in pubblicità (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOInput a forme associative da risorse per i dipendenti.
In caso di trasferimento di personale da un comune a un'unione di comuni, le risorse già quantificate sulla base degli accordi decentrati e destinate nel precedente anno a finanziare istituti contrattuali collettivi ulteriori rispetto al trattamento economico fondamentale confluiscono nelle corrispondenti risorse dell'unione.

Lo prevede l'art. 1, comma 114, della legge 56/2014 (c.d. legge Delrio), con l'evidente obiettivo di agevolare il percorso di costituzione delle forme associative che (insieme alla convenzioni) dovranno svolgere, entro fine anno, quasi tutte le funzioni fondamentali (restano fuori solo anagrafe, stato civile e servizi elettorali) spettanti ai piccoli comuni.
Per la verità, la norma non distingue e, quindi, si applica a tutte le unioni, comprese quelle di cui fanno o faranno parte comuni con popolazione superiore alle soglie demografiche sotto le quali scatta l'obbligo di gestione associata (5.000 abitanti in pianura, 3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane, salvo diversa decisione assunta dalle regioni).
Viene così introdotta una modifica alla disciplina contrattuale che regola il passaggio di personale dai comuni alle unioni: in particolare, ad essere superata è la disciplina di cui all'art. 13, comma 4, lett. a), del Ccnl del 22/1/2004, in base alla quale, in sede di prima applicazione, le unioni definiscono le risorse finanziarie destinate a compensare le prestazioni di lavoro straordinario e a sostenere le politiche di sviluppo delle risorse umane e della produttività, relativamente al personale assunto direttamente (anche per mobilità), sulla base di un valore medio pro capite ricavato dai valori vigenti presso gli enti aderenti per la quota di risorse aventi carattere di stabilità e di continuità.
Relativamente al personale temporaneamente messo a disposizione dai medesimi comuni, invece, il Ccnl prevede un trasferimento di risorse per il finanziamento degli istituti tipici del salario accessorio e con esclusione delle progressioni orizzontali, dagli stessi enti, in rapporto alla classificazione dei lavoratori interessati e alla durata temporale della stessa assegnazione; l'entità delle risorse viene periodicamente aggiornata in relazione alle variazioni intervenute nell'ente di provenienza a seguito dei successivi rinnovi contrattuali.
La novella legislativa è sicuramente migliorativa, ma non basta a risolvere tutte le problematiche che la costituzione delle unioni pone rispetto al passaggio delle risorse umane coinvolte nell'esercizio delle funzioni da trasferire. In molti casi, infatti, il fondo per la contrattazione decentrata delle costituende unioni rischia di non essere abbastanza capiente per coprire tutte le esigenze del nuovo ente e garantire l'ottimale riorganizzazione del personale. L'ostacolo principale deriva dai restrittivi vincoli di spesa previsti dalla legge statale, che al 31.12.2014 impone il blocco del fondo all'importo dell'anno 2010 (oltre all'automatica riduzione dello stesso in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio).
Per esemplificare quali criticità possano emergere nella pratica, si pensi al caso di tre comuni di 4.500, 1.000 e 800 abitanti che intendano mettere in gestione associata le funzioni relative alla polizia locale. Se l'ente più grande ha cinque vigili che lavorano per turni, percependo la relativa indennità, quest'ultima non potrà essere estesa anche agli agenti degli altri due comuni se essi hanno (come di norma accade nei piccoli comuni) un orario normale. Quindi, il servizio dovrà essere completamente riorganizzato, con non poche difficoltà (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014).

APPALTICodice degli appalti da abolire. Sufficiente applicare le direttive europee disponibili. Da Pinto (presidente Asmel) idea shock contro la corruzione e per rilanciare l'economia.
L'idea è stata lanciata dal presidente Asmel, Francesco Pinto, durante l'assemblea dell'associazione che raggruppa 1861 enti locali in tutt'Italia svoltasi presso la sede del Tar Campania e che ha visto la presenza attiva di oltre 400 comuni.
Nel corso della tavola rotonda su «Appalti e Legalità», cui hanno partecipato, tra gli altri, il presidente dell'Avcp Santoro e quello del Tar Campania Mastrocola, è stata proposta l'integrale e immediata abolizione del Codice degli appalti.
Una ragnatela di norme (vedi riquadro) che rendono la vita difficile, se non impossibile, alle stazioni appaltanti e che, anziché contrastare corruttela e malaffare di fatto li «coprono».
D'altra parte, l'integrale abolizione di questa giungla di disposizioni, non creerebbe un vuoto normativo. Le stazioni appaltanti sarebbero chiamate ad applicare le direttive sugli appalti appena entrate in vigore a livello europeo, di fatto già autoapplicative (cosiddette self-executive) senza attendere il loro recepimento nella legislazione italiana, previsto entro due anni. Si tratta di testi scritti in un italiano fluente e già tradotti in inglese con gran soddisfazione di operatori e investitori esteri che, come noto, si tengono alla larga dal mercato italiano, principalmente, a causa della farraginosità della nostra normativa. Una miriade di precetti bizantini e prescrittivi capaci di produrre solo deresponsabilizzazione e smarrimento negli uffici acquisti.
 La loro abolizione, assieme all'introduzione delle nuove norme sulla centralizzazione delle committenze, porterebbe gli uffici comunali, composti per la stragrande maggioranza da persone perbene e motivate, a impegnarsi solo sui risultati. In questo senso con Asmel la possibilità di costituire centrali di committenza tra comuni mediante «accordi consortili avvalendosi dei competenti uffici» viene declinata lasciando ampia autonomia agli stessi nei compiti da delegare alla centrale, che possono essere limitati a «pezzi» dell'attività o prevedere la delega completa. Esattamente come previsto dalle nuove direttive europee che lasciano libere le stazioni appaltanti di affidarsi alle centrali di committenza anche limitatamente a funzioni «ausiliarie».
Una simile proposta è in grado di ridurre drasticamente il contenzioso. Le statistiche dimostrano che esso è alimentato per la gran parte proprio dalle intricatissime norme che regolano le cosiddette «buste amministrative», e di dare una forte accelerazione agli investimenti pubblici e privati. Tenuto conto che il volume annuo degli appalti pubblici in Italia ammonta a circa 100 miliardi di euro, pari a circa l'8% del Pil, è sufficiente un'accelerazione della spesa nel settore pari al 15 per cento annuo per raddoppiare il tasso di crescita della nostra economia attualmente stimato per il 2015 nell'1,2%.
Di certo, una simile proposta andrà corredata dal rafforzamento del ruolo di vigilanza sull'attività delle Stazioni appaltanti già oggi svolto dall'Avcp in maniera incisiva, ma che, liberata dai vari orpelli, avrà maggiori poteri per perseguire i comportamenti dolosi. Nei comuni andrà rafforzato, invece, il ruolo dei segretari comunali, per affiancare gli uffici acquisti orfani della normativa di riferimento.
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Una ragnatela di norme.
Il Codice degli appalti è un testo di legge composto da 273 articoli, 1.560 commi e corredato da rinvii ad altre 148 norme di legge. Dal 2006, data di entrata in vigore, i suoi articoli hanno subito modifiche per 563 volte senza contare quelle entrate in vigore per un periodo limitato nei decreti legge che poi non hanno trovato conversione.
Per la sua corretta applicazione occorre far riferimento alle 6.155 pronunce dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e dei tribunali amministrativi, che fanno giurisprudenza e dunque obbligano di fatto le stazioni appalti ad uniformarsi. Per non parlare delle migliaia di pronunce emanate in «sede consultiva» dalle sezioni regionali della Corte dei conti, che, come tutti sanno, hanno un potere molto incisivo sull'azione dei pubblici funzionari. Non basta, al Codice va aggiunto il Regolamento attuativo, con i suoi 358 articoli e 1392 commi, e i Regolamenti regionali, anch'essi con valore di legge.
Infine, le stazioni appaltanti sono chiamate anche a uniformarsi alle intricate norme sulla privacy, sui «protocolli di integrità», «patti di legalità», e sul programma triennale anticorruzione, oltre a tutta la normativa sui procedimenti amministrativi (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIIl bonus mobili torna «libero». Via libera agli incentivi agli acquisti anche di valore superiore alle ristrutturazioni. Dal Parlamento. Approvato al Senato il decreto casa - Sì alla cedolare secca nei Comuni interessati da stati di emergenza.
Il decreto casa (47/2014) rilancia il bonus mobili «libero», assegnato cioè a prescindere dal valore della ristrutturazione a cui è collegato, e allarga la cedolare secca ai Comuni che sono stati coinvolti in stati di emergenza negli ultimi cinque anni, promettendo anche entro un mese un nuovo elenco Cipe con i centri ad alta intensità abitativa in cui si possono scrivere contratti di locazione a canone concordato.
Si perde invece per strada, nonostante i molti tentativi, l'Imu al 4% sulle case affittate ad affitto calmierato, caldeggiata dallo stesso ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che rappresenta il "padre" del provvedimento, oltre all'intervento che avrebbe sbloccato stipendi dei dipendenti e premi dei dirigenti nel Comune di Milano. A Palazzo Marino, come nelle altre città, si dovranno accontentare della sanatoria sugli integrativi fuori norma (a Milano non sono arrivate ancora contestazioni, ma i problemi ci sono) scritta nella circolare «salva-Roma» quater diffusa mercoledì (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
Suona così il bilancio della legge di conversione del decreto «casa-Expo» dopo il primo passaggio parlamentare, che si è concluso ieri in Senato con l'approvazione, con 133 voti a favore e 99 contrari. Un bilancio che ha buone probabilità di essere quello definitivo, dal momento che i tempi per la conversione definitiva scadono il 28 maggio e non offrono troppi spazi per modifiche alla Camera da far ulteriormente ratificare da Palazzo Madama.
Le ultime novità sono state definite nelle sedute di martedì e di ieri, dove sono state disattese una serie di indicazioni della commissione Bilancio e sono stati ripescati anche molti emendamenti bocciati dalle commissioni riunite. Ecco le più rilevanti.
Anzitutto, la detrazione del 55% sugli acquisti di arredi perde il tetto di spesa legato a quanto si è pagato per i lavori di recupero edilizio. Resta quindi solo il tetto di spesa a 10mila euro. Poi c'è la sanatoria dei «mini-canoni» degli inquilini che hanno denunciato i proprietari per gli affitti in nero e hanno sfruttato i grossi sconti offerti dalla norma poi cancellata dalla sentenza 50/2014 della Corte costituzionale: gli «effetti prodotti» da quella regola vengono «fatti salvi fino al 31.12.2015», con un intervento non proprio esemplare dal punto di vista costituzionale.
Sul fronte affitti, il Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione e alla «morosità incolpevole» servirà anche a rinegoziare i canoni esistenti attraverso agenzie per l'affitto e ad aiutare anche chi è colpito da sfratto per finita locazione, e non solo per morosità.
Per liberare le case popolari dagli abusivi, il decreto mette in campo parecchie norme, alcune approvate in ultima battuta dall'Aula del Senato: quella che vieta gli allacci di acqua, luce e gas a chi occuperà abusivamente una casa, anche se vuota (viene cancellato il possibile effetto retroattivo del provvedimento originale), e il divieto, per almeno cinque anni, di iscriversi nella lista per le aggiudicazioni delle case popolari. Novità anche per il riscatto delle case ex Iacp: non sarà ammesso prima dei sette anni di locazione, sarà limitato solo a chi non possiede altro alloggio idoneo alla famiglia e non si potrà rivendere la casa prima di altri cinque anni. Inoltre, alloggi di housing sociale sono considerati tali anche quando vengono locati (oltre che a famiglie in stato di disagio sociale) a donne ospiti di centri anti violenza.
Infine, esce dal concetto di «nuova costruzione» (quindi non serve più il permesso edilizio) l'installazione di manufatti leggeri (prefabbricati, roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni usate come abitazioni o depositi) che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto. Sugli appalti è infine ampliato a cinque anni il periodo per dimostrare i requisiti per le attività di verifica dei progetti, sono fatti salvi quelli messi a rischio dalle contraddizioni normative sui lavori specialistici e viene eliminato il principio di corrispondenza tra quote di partecipazione alle Ati e percentuale di esecuzione dei lavori per i raggruppamenti di imprese
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, stipendi liberi a maggio e riforma in vista. Pa. Diffusa la circolare «salva-Roma» quater.
Gli stipendi di maggio nei Comuni sono salvi, e i dirigenti che danno il via libera sono al riparo da contestazioni di nuovo danno erariali.
A difenderli c'è la
circolare 12.05.2014 n. 60 di prot. tri-firmata (il ministro dell'Economia Padoan, la collega degli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta e la titolare della Pa Maria Anna Madia) anticipata dal Sole 24 Ore di ieri e diffusa dalla Funzione pubblica.
Con il «salva-Roma» quater, in verità un «salva-città», sono infatti impossibili nuove contestazioni per dolo o colpa grave a carico dei funzionari. L'applicazione degli integrativi fuori linea potrà avvenire se viene considerata inevitabile per «garantire la continuità dei servizi necessari e indispensabili» dei Comuni, ma di fatto questa condizione si può verificare sempre: basta guardare al caso-principe, quello di Roma, dove i sindacati avevano già programmato uno sciopero per lunedì prossimo e un blocco degli straordinari che avrebbe paralizzato il Campidoglio sotto elezioni.
Gli integrativi giudicati illegittimi dalla Ragioneria generale potranno sopravvivere «in via temporanea e salvo recupero», anche se proprio i recuperi sono uno dei nodi più intricati nella querelle sui contratti: chiedere ai dipendenti la restituzione di somme già erogate ovviamente fa esplodere il conflitto, ma anche i tagli compensativi ai fondi decentrati si traducono in molti casi nell'impossibilità di continuare a pagare gli stessi stipendi di prima, perché le risorse mancano.
Sul futuro immediato, del resto, le incognite rimangono superiori alle certezze. Un «comitato temporaneo» composto da Stato, Regioni e Comuni e insediato in Conferenza Unificata dovrà fare «indicazioni operative nel più breve tempo possibile» su come gestire la patata bollente dei contratti integrativi fuori norma. Per farlo, potrà proporre nuove «disposizioni normative» oppure indirizzi per «la redazione di direttive all'Aran»: su questa seconda strada gli ostacoli non sono pochi, anche perché la revisione dei comparti pubblici prevista dalla riforma Brunetta non è mai stata attuata, e quindi manca la cornice in cui avviare il lavoro sulle nuove regole.
La mancata applicazione della riforma Brunetta rappresenta più in generale uno degli inneschi che hanno fatto esplodere la mina contratti. Le contestazioni della Ragioneria si appuntano sulla distribuzione "a pioggia" delle voci che si aggiungono al tabellare e al mancato adeguamento alla riforma, che farebbe scattare la decadenza degli integrativi a partire dal 1° gennaio scorso. Questa seconda ragione ha prodotto contestazioni milionarie per danno erariale a carico di alcuni dirigenti del Comune di Roma, ma la situazione si ripresenta in molte altre città.
Per questa ragione Cgil, Cisl e Uil sostengono in una nota congiunta diffusa ieri che la circolare «non basta a risolvere una situazione potenzialmente esplosiva», perché «in Toscana come in Veneto e in Emilia Romagna, a Roma come a Parma e Salerno, si susseguono casi analoghi. Serve una soluzione vera», concludono i sindacati, che passa attraverso «il rilancio della contrattazione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2014).

APPALTIContratti pubblici. Al setaccio le gare bandite prima del 12 maggio.
Entro il mese di agosto le stazioni appaltanti dovranno verificare i dati delle gare bandite prima del 12 maggio 2014 e comunicare le informazioni alla banca dati delle amministrazioni pubbliche che il Mineconomia avvierà a ottobre; previste sanzioni disciplinari per i responsabili del procedimento.

È quanto prevede l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con il comunicato del Presidente 08.05.2014, Sergio Santoro, che detta nuove modalità operative di invio dei dati a carico delle stazioni appaltanti.
Si tratta dei dati che devono alimentare la Banca dati delle amministrazioni pubbliche (Bdap) istituita in seno al ministero dell'economia con la legge n. 196/2009. L'Autorità precisa che dal 12.05.2014 le amministrazioni dovranno obbligatoriamente indicare sul sistema Simog (Sistema informativo monitoraggio gare), in sede di creazione del Cig (codice identificativo gara), il Cup (codice unico progetto) identificativo del progetto nell'ambito del quale si colloca lo specifico appalto.
Inoltre si specifica che per tutti i contratti per i quali alla data del 12.05.2014 risultino già trasmesse le relative schede di aggiudicazione, il responsabile unico del procedimento dovrà verificare che per le fattispecie per le quali è necessaria l'acquisizione del Cup, quest'ultimo risulti associato al Cig cui si riferisce, nell'ambito del sistema Simog (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSalvagente all'integrativo. Verso una sanatoria dei contratti collettivi. Circolare interministeriale dà le prime indicazioni agli enti locali.
Verso una sanatoria dei contratti collettivi degli enti locali.

La
circolare 12.05.2014 n. 60 di prot. sottoscritta dai ministri Lanzetta, Madia e Padoan per fornire indicazioni sull'applicazione dell'articolo 4 del dl 16/2014, convertito in legge 68/2014 (decreto «salva Roma») lascia intuire che questo potrà essere lo sbocco per risolvere i problemi dei contratti decentrati di comuni, regioni e province.
Come è noto, comuni come Roma, Firenze, Vicenza e Reggio Calabria, per restare ai capoluoghi (ma moltissimi altri più piccoli sono coinvolti), sono stati interessati da ispezioni del Mef, che hanno riscontrato una serie di violazioni a vincoli normativi e finanziari posti alla contrattazione collettiva decentrata dalla legge e dai Ccnl.
Le relazioni degli ispettori impongono alle amministrazioni di agire per il recupero delle somme che sarebbero state spese oltre i limiti normativi.
Ma, le iniziative dei comuni stanno portando a reazioni fortissime dei sindacati e dei lavoratori, come gli scioperi che hanno paralizzato Roma in questi giorni.
La mini sanatoria contenuta nell'articolo 4 del dl 16/2014 si è rivelata inadeguata a risolvere i problemi della contrattazione. Essa, per un verso, consente di non chiedere indietro ai lavoratori degli enti locali le maggiori somme percepite. Ma, per altro verso, impone di ridurre drasticamente l'ammontare dei fondi destinati alla contrattazione in un arco di tempo che appare essere cinque anni. Troppo pochi: le decurtazioni ai fondi finirebbero, così, per intaccare parti fisse degli stipendi, come l'indennità di comparto o le progressioni verticali. Per questa ragione, le organizzazioni sindacali si oppongono all'applicazione dell'articolo 4, nonostante esso possa rappresentare una via d'uscita per evitare contenziosi e gli strali del Mef.
La circolare interministeriale prende atto della situazione, rilevando che, al di là delle violazioni riscontrate, esiste un problema posto «dalla particolare complessità e stratificazione» delle norme e dei contratti. Per altro aggravato, è da aggiungere, da un improprio esercizio di una funzione di «pareristica» da parte dell'Aran, che con gli anni ha attribuito alle disposizioni contrattuali significati non espressi chiaramente dalle clausole, però fatti propri dai servizi ispettivi.
I ministri, se da un lato annunciano la costituzione di un «comitato temporaneo» per fornire indicazioni applicative dell'articolo 4 del «salva Roma», dall'altro evidenziano indirettamente la sostanziale poca utilità della misura normativa applicata. Non a caso, la circolare 60/gab altro non è se non un'ulteriore sanatoria temporanea extra ordinem. Infatti, nelle more dei risultati dell'attività del comitato istituito e delle direttive Aran sull'applicazione delle norme e dei contratti, la circolare autorizza gli organi di governo di regioni ed enti locali ad applicare il citato articolo 4 del «salva Roma» solo parzialmente, nei limiti in cui sia accettabile da sindacati e lavoratori. Non solo: i ministri indicano agli organi di governo perfino di applicare, sia pure «in via temporanea» le clausole contrattuali integrative da ritenere in violazione dei vincoli normativi, la cui attuazione risulti tuttavia indispensabile per evitare scioperi e blocchi delle attività, salvo successivo recupero delle somme (illegittimamente) esborsate.
Risulta evidente che quella delineata dalla circolare è solo una soluzione di ripiego, per altro in gran parte contrastante con le previsioni dell'articolo 4 del «salva-Roma», finalizzata a stemperare le tensioni fortissime nei comuni interessati dalle ispezioni (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014).

PATRIMONIODecreto in G.U.. Immobili, p.a. riduca gli acquisti.
Da quest'anno, l'acquisto di immobili destinati ad attività istituzionali della pubblica amministrazione deve sottostare preventivamente alle principali regole di indispensabilità e indilazionabilità dell'operazione. In pratica, l'acquisto dell'immobile deve soddisfare il superiore interesse pubblico e non può essere «allungato» nel tempo se questa dilazione compromette eventuali obiettivi fissati dal vertice dell'amministrazione pubblica. In relazione al prezzo, poi, deve essere acquisito il parere di congruità rilasciato dall'Agenzia del demanio.

Lo prevede il dm Economia 14/02/2014, in G.U. del 12/05/2014, in relazione alle disposizioni contenute all'art. 12, c. 1-bis, del dl 98/2011.
Pertanto, nel caso in cui le amministrazioni pubbliche, tranne gli enti territoriali, previdenziali e quelli del Servizio sanitario nazionale, comunicano alla ragioneria generale dello stato il piano triennale di investimento, come prevede il decreto attuativo delle disposizioni sopra richiamate (il dm Economia 16/03/2012), il responsabile del procedimento di ogni p.a. richiedente dovrà contestualmente documentare l'indispensabilità e l'indilazionabilità dell'operazione di acquisto.
Il primo requisito, precisa il dm, attiene alla necessità di procedere in tal senso sia per un obbligo giuridico che incombe all'amministrazione per il perseguimento delle proprie finalità che per la tutela ed il soddisfacimento dei superiori interessi pubblici. Il secondo, attiene all'impossibilità di differire l'acquisto senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi istituzionali. Entrambi tali requisiti si ritengono soddisfatti nel caso in cui l'acquisto comporti effetti finanziari ed economici positivi, così riscontrati dall'organo di controllo interno o dal competente ufficio della ragioneria.
Sull'iter di acquisto è necessario che si pronunci l'Agenzia del demanio con l'attestazione di congruità del prezzo. Documento, questo, che deve essere acquisito prima della definizione delle operazioni e che sarà rilasciato gratuitamente per le amministrazioni indicate all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001, mentre le restanti amministrazioni dovranno provvedere al rimborso delle spese sostenute (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, il Sistri cambia registro. Aggiornate le schede di movimentazione. Codice fiscale per la ricerca anagrafica.
Per il Sistri aggiornata l'applicazione della scheda «area movimentazione» e la sezione delle guide e dei documenti. Ottimizzate le ricerche in anagrafica Sistri utilizzando come chiave il codice fiscale per reperire la scheda movimentazione.

È stata rilasciata la nuova relase dell'applicazione movimentazione che rende disponibili le funzioni relative alla memorizzazione del pin per la firma dei documenti e la precompilazione delle schede in bianco per la microraccolta.
Nella sezione manuali e guide sono stati pubblicati gli aggiornamenti dei documenti relativi ai trasportatori, ai produttori, ai recuperatori-smaltitori, agli intermediari, alla regione Campania e microraccolta. Il tutto è contenuto nel sito del ministero dell'ambiente www.sistri.it. e aggiornato al 9 maggio scorso. La nuova funzionalità «memorizzazione del pin per la firma dei documenti» permette all'utente, previa esplicita accettazione, di memorizzare lo stesso, digitandolo una sola volta all'avvio di ogni sessione operativa, senza doverlo nuovamente inserire in occasione della firma di ogni scheda o registrazione.
Per poter utilizzare la soluzione l'utente deve provvedere all'aggiornamento del dispositivo Usb. L'altra applicazione rubricata «schede in bianco per la microraccolta» consente di pre-compilare e stampare schede in bianco inserendo le informazioni desiderate nella sezione produttore (dati rifiuti, dati produttore, dati trasportatore e dati destinatario) e/o nella sezione trasportatore. Al momento della riconciliazione l'utente potrà decidere se confermare le informazioni precedentemente inserite o meno.
Inoltre sono stati effettuati interventi di ottimizzazione delle ricerche in anagrafica sistri che consentono la ricerca delle schede di movimentazione utilizzando come chiave il codice fiscale e consentono la ricerca delle registrazioni di carico e scarico collegate ad una scheda di movimentazione utilizzando come chiave il codice della scheda di movimentazione. La scheda sistri area movimentazione è un documento informatico costituito da varie sezioni che vanno compilate a cura dei soggetti che intervengono nelle diverse fasi del ciclo di gestione dei rifiuti.
È possibile vedere la scheda come costituita da tre distinte sezioni: produttore, trasportatore e destinatario. La sezione «produttore» contiene i dati anagrafici del produttore, le informazioni qualitative e quantitative del rifiuto e i dati identificativi di tutti gli altri soggetti coinvolti. Quella del «trasportatore» contiene i dati anagrafici di tutti i soggetti coinvolti nel trasporto del rifiuto, le info identificative del mezzo e del percorso, le date di presa in carico e consegna. Infine la sezione «destinatario» contiene i dati anagrafici del destinatario e l'esito della movimentazione con l'indicazione della quantità accettata (articolo ItaliaOggi del 13.05.2014).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Come ha definitivamente chiarito il legislatore, la DIA è un atto del privato e non è, quindi, possibile ipotizzare la formazione di un provvedimento tacito a seguito della sua presentazione, neppure dopo lo spirare del termine di esercizio del potere inibitorio (cfr. art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990).
Ciononostante la giurisprudenza (che sulla natura della DIA aveva anticipato le conclusioni cui è poi giunto il legislatore) ritiene che, una volta spirato termine per l’esercizio del potere inibitorio, l’amministrazione possa ancora intervenire per contrastare l’attività edilizia non conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di autotutela sui generis (sui generis proprio perché non ha ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l’ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l’esercizio.
E’ pertanto indispensabile, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, che l’autorità amministrativa invii all’interessato la comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che l’atto di autotutela intervenga a ragionevole distanza temporale, e che si dia conto in esso delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati.

20. Si può ora passare proprio all’esame del secondo motivo, con il quale la ricorrente deduce il mancato rispetto delle norme e dei principi che governano il potere di autotutela.
21. Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato.
22. Come anticipato, l’amministrazione resistente, con provvedimento in data 01.10.2010, ha annullato il titolo edilizio formatosi a seguito della presentazione della DIA del 12.07.2010.
23. In realtà, l’atto impugnato non è intervenuto su un titolo edilizio giacché, come ha definitivamente chiarito il legislatore, la DIA è un atto del privato e non è, quindi, possibile ipotizzare la formazione di un provvedimento tacito a seguito della sua presentazione, neppure dopo lo spirare del termine di esercizio del potere inibitorio (cfr. art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990).
24. Ciononostante la giurisprudenza (che sulla natura della DIA aveva anticipato le conclusioni cui è poi giunto il legislatore) ritiene che, una volta spirato termine per l’esercizio del potere inibitorio, l’amministrazione possa ancora intervenire per contrastare l’attività edilizia non conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di autotutela sui generis (sui generis proprio perché non ha ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l’ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l’esercizio (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen., 29.07.2011 n. 15).
25. E’ pertanto indispensabile, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, che l’autorità amministrativa invii all’interessato la comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che l’atto di autotutela intervenga a ragionevole distanza temporale, e che si dia conto in esso delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
26. Ciò premesso, non ci si può esimere dall’osservare che il provvedimento impugnato non si è per nulla conformato a queste prescrizioni.
27. L’atto invero si limita ad enunciare le ragioni di illegittimità del titolo annullato (rectius dell’attività edilizia intrapresa) senza specificare in alcun modo le ragioni di interesse pubblico prevalenti rispetto a quelle contrastanti della ricorrente: il provvedimento si limita invero ad affermare “…la presenza di un interesse pubblico concreto ed attuale in relazione all’ambito particolare di tutela ambientale…”.
28. Tale enunciato è però del tutto inadeguato, considerato anche che il provvedimento impugnato è intervenuto a più di due anni di distanza dal momento di presentazione della DIA, quando i lavori erano pressoché ultimati, e che, quindi, in capo alla ricorrente si era ormai consolidato un fondato affidamento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.05.2014 n. 1278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In caso di contrasto tra le indicazioni grafiche e le prescrizioni normative dello strumento urbanistico generale prevalgano le prescrizioni normative, in quanto le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, non già sovrapporsi o negare quanto da esso risulta.
Ciò posto, è insegnamento giurisprudenziale in tema di interpretazione dell’atto amministrativo –per tutte C.d.S. sez. V 22.08.2003 n. 4734- che in caso di contrasto tra le indicazioni grafiche e le prescrizioni normative dello strumento urbanistico generale, prevalgano le prescrizioni normative, in quanto le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, non già sovrapporsi o negare quanto da esso risulta (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.05.2014 n. 508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Locazione futura con regole appalti.
Un contratto di locazione di opera futura rientra nella normativa Ue in materia di appalti. Nessuna possibilità, quindi, per l'amministrazione comunale di non applicare le direttive Ue perché se è vero che dall'ambito di applicazione delle direttive sugli appalti sono esclusi i contratti di locazione è anche vero che l'inquadramento di un'operazione non dipende dal diritto nazionale ma dalla normativa europea.

Lo ha chiarito l'avvocato generale della Corte di giustizia Ue Nils Wahl nelle conclusioni 15.05.2014 - C-213/13 su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato.
Per l'avvocato generale, le cui conclusioni non sono vincolanti per la Corte Ue, l'eccezione all'applicazione della normativa sugli appalti riguarda unicamente beni immobili esistenti e non «beni la cui costruzione non è neppure iniziata». La qualificazione di un'operazione come appalto pubblico di lavori -osserva Wahl- rientra nel diritto dell'Unione e deve essere effettuata prescindendo dal diritto nazionale.
Poco importa la qualificazione formale del contratto. L'avvocato generale fa salva, però, l'autorità di cosa giudicata, prevedendo nei casi in cui ciò renda impossibile l'applicazione del diritto Ue un risarcimento dei danni causati a terzi (articolo Il Sole 24 Ore del 16.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: I) stante la straordinarietà del beneficio del condono edilizio, è onere del richiedente provare, in modo rigoroso, che l’epoca di realizzazione delle opere sia antecedente a quella dettato dalla legge;
II) tale onere va assolto con elementi probatori stringenti o con l’allegazione di documenti altamente probanti;
III) non può mai sostenersi che l’amministrazione debba farsi carico di accertare l’epoca dell’abuso.
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La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l’assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria, il parere della commissione edilizia non obbligatorio, ma tutt’al più facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei numerosi presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore.
Tale impostazione è, peraltro, conforme alla interpretazione ministeriale (circolare ministeriale n. 3357/25 del 30.07.1985) che seppure riferita alla concessione edilizia (“il procedimento per il rilascio della concessione deve considerarsi completamente definito dall’art. 9 dell’art. 35, nel senso che il Sindaco non è tenuto a sottoporre la domanda agli organi tecnico–consultivi ed in particolare alla commissione edilizia”) deve intendersi estesa a tutti i procedimenti di natura edilizia.
Quanto alla previsione dell’art. 35 della l. n. 47/1985, in materia di rilascio del condono edilizio, che richiede che il provvedimento debba adottarsi “previ i necessari accertamenti”, si riferisce esclusivamente a quelli di competenza dell’ufficio tecnico comunale.

Tanto premesso, il collegio non intende decampare dai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza secondo cui: I) stante la straordinarietà del beneficio del condono edilizio, è onere del richiedente provare, in modo rigoroso, che l’epoca di realizzazione delle opere sia antecedente a quella dettato dalla legge; II) tale onere va assolto con elementi probatori stringenti o con l’allegazione di documenti altamente probanti; III) non può mai sostenersi che l’amministrazione debba farsi carico di accertare l’epoca dell’abuso (cfr. fra le tante Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3834; sez. IV, 23.01.2013, n. 414).
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La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l’assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria, il parere della commissione edilizia non obbligatorio, ma tutt’al più facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei numerosi presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 03.08.2010, n. 5156; sez. IV, 05.11.2012, n. 5619).
Tale impostazione è, peraltro, conforme alla interpretazione ministeriale (circolare ministeriale n. 3357/25 del 30.07.1985) che seppure riferita alla concessione edilizia (“il procedimento per il rilascio della concessione deve considerarsi completamente definito dall’art. 9 dell’art. 35, nel senso che il Sindaco non è tenuto a sottoporre la domanda agli organi tecnico–consultivi ed in particolare alla commissione edilizia”) deve intendersi estesa a tutti i procedimenti di natura edilizia.
Quanto alla previsione dell’art. 35 della l. n. 47/1985, in materia di rilascio del condono edilizio, che richiede che il provvedimento debba adottarsi “previ i necessari accertamenti”, si riferisce esclusivamente a quelli di competenza dell’ufficio tecnico comunale
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.05.2014 n. 2451 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di abusi edilizi, il provvedimento sanzionatorio è il doveroso e imprescindibile esercizio del potere sanzionatorio da parte della pubblica amministrazione.
Esso è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendosi nemmeno ammettere l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non potrebbe legittimare.
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E’ pacifico che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi non necessitino di alcuna particolare motivazione, essendo essa riscontrabile in re ipsa, nel ripristino della legalità violata.

In proposito, va solamente puntualizzato che il provvedimento sanzionatorio è il doveroso e imprescindibile esercizio del potere sanzionatorio da parte della pubblica amministrazione.
Esso è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendosi nemmeno ammettere l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non potrebbe legittimare (Cons. Stato, sez. VI, 04.03.2013, n. 1268; n. 758 del 2013).
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E’ comunque pacifico che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi non necessitino di alcuna particolare motivazione, essendo essa riscontrabile in re ipsa, nel ripristino della legalità violata (Cons. Stato, sez. V, 11.02.1999, n. 144)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.05.2014 n. 2451 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che l’obbligo giuridico del titolare di una concessione edilizia di corrispondere il contributo ai sensi della l. n. 10/1977 è rappresentato dal rilascio della concessione edilizia medesima, sicché a tale momento occorre avere riguardo per la determinazione dell’entità del contributo, è anche vero che laddove il rilascio del titolo sia artatamente differito nel tempo senza alcuna motivazione, al solo fine di far ricadere l’atto nella più onerosa regolamentazione del contributo di concessione -medio termine intervenuta ad opera dello stesso ente tenuto al rilascio del titolo- principi di correttezza, trasparenza ed imparzialità impongono che di tale disciplina sopravvenuta non si debba tenere conto.
Invero, in presenza di un affidamento giuridicamente tutelabile correlato alla comunicazione del provvedimento recante la liquidazione dell’importo definitivo degli oneri stessi, senza nemmeno una previsione di provvisorietà, il rapporto tra le parti deve ritenersi definito, restando puro atto formale il rilascio materiale del titolo (concessione edilizia).
Dirimente è la mancanza del generale richiamo nella quantificazione degli oneri di una previsione espressa di provvisorietà, che consente, in applicazione dei canoni ermeneutici, di ritenere definitivo l’impegno delle parti riferito alla somma dovuta per gli oneri di urbanizzazione, inizialmente fissata.
Ne consegue che nella situazione di cui si discute, caratterizzata da un procedimento protrattosi nel tempo per meri ritardi dell’amministrazione, conclusosi a distanza di circa cinque anni dalla presentazione della domanda, ove il rilascio della concessione venga ancor più ritardata e senza alcuna valida ragione al solo scopo di consentire la richiesta di un ben più elevato contributo di concessione, non può ritenersi legittima la richiesta del maggiore importo per effetto dell’applicazione retroattiva di una disposizione innovativa del sistema previgente.
E’, infatti, indubbio che, nel caso in esame, la nuova disciplina è intervenuta allorquando il procedimento era concluso in tutti i suoi aspetti, sia per quanto riguarda l’aspetto tecnico-urbanistico della pratica, sia per quanto concerne la determinazione degli oneri e il relativo pagamento.

L’appello è fondato e deve essere accolto.
La fattispecie all’esame presenta delle peculiarità che consentono di ritenere il ricorso fondato sul primo assorbente motivo.
Se è vero, infatti, come affermato nell’impugnata sentenza, che l’obbligo giuridico del titolare di una concessione edilizia di corrispondere il contributo ai sensi della l. n. 10/1977 è rappresentato dal rilascio della concessione edilizia medesima, sicché a tale momento occorre avere riguardo per la determinazione dell’entità del contributo, è anche vero che laddove il rilascio del titolo sia artatamente differito nel tempo senza alcuna motivazione, al solo fine di far ricadere l’atto nella più onerosa regolamentazione del contributo di concessione -medio termine intervenuta ad opera dello stesso ente tenuto al rilascio del titolo- principi di correttezza, trasparenza ed imparzialità impongono che di tale disciplina sopravvenuta non si debba tenere conto.
Invero, in presenza di un affidamento giuridicamente tutelabile correlato alla comunicazione del provvedimento recante la liquidazione dell’importo definitivo degli oneri stessi, senza nemmeno una previsione di provvisorietà, il rapporto tra le parti deve ritenersi definito, restando puro atto formale il rilascio materiale del titolo (concessione edilizia).
Dirimente è la mancanza del generale richiamo nella quantificazione degli oneri di una previsione espressa di provvisorietà, che consente, in applicazione dei canoni ermeneutici, di ritenere definitivo l’impegno delle parti riferito alla somma dovuta per gli oneri di urbanizzazione, inizialmente fissata.
Ne consegue che nella situazione di cui si discute, caratterizzata da un procedimento protrattosi nel tempo per meri ritardi dell’amministrazione, conclusosi a distanza di circa cinque anni dalla presentazione della domanda, ove il rilascio della concessione venga ancor più ritardata e senza alcuna valida ragione al solo scopo di consentire la richiesta di un ben più elevato contributo di concessione, non può ritenersi legittima la richiesta del maggiore importo per effetto dell’applicazione retroattiva di una disposizione innovativa del sistema previgente.
E’, infatti, indubbio che, nel caso in esame, la nuova disciplina è intervenuta allorquando il procedimento era concluso in tutti i suoi aspetti, sia per quanto riguarda l’aspetto tecnico-urbanistico della pratica, sia per quanto concerne la determinazione degli oneri e il relativo pagamento.
Quanto alla circostanza evidenziata in sentenza che il Comune può sempre intervenire modificando gli oneri e chiedendo integrazioni, non è significativa nella presente controversia, in cui non vi sono stati errori nei conteggi o errori nella iniziale fissazione degli importi per oneri di urbanizzazione, ma si controverte della applicazione retroattiva della nuova determinazione degli oneri, malgrado il procedimento di rilascio della concessione edilizia si fosse già perfezionato in vigenza della precedente disciplina (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.05.2014 n. 2434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALegittimamente l’ordine di demolizione è rivolto anche ai proprietari dell’area, indipendentemente dall’essere questi responsabili delle opere abusive, dato che l’estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi implica la sola insuscettibilità del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene.
- Rilevato che con atto depositato il 25.03.2014 il difensore della parte ricorrente ha rilevato che nelle more del giudizio il Comune aveva assentito permesso di costruire in sanatoria ed ha chiesto al Collegio di dichiarare la cessazione della materia del contendere, con condanna dell’Amministrazione intimata al pagamento delle spese di giudizio;
- Considerato che, essendo state sanate le opere oggetto dell’ordinanza di demolizione, deve ritenersi venuto meno ogni interesse alla definizione della causa, per cui il ricorso in esame non può non essere dichiarato improcedibile;
- Ritenuto, per concludere, che sussistano giuste ragioni per disporre la totale compensazione delle spese e degli onorari di giudizio, in quanto legittimamente l’ordine di demolizione era stato rivolto anche ai proprietari dell’area, indipendentemente dall’essere questi responsabili delle opere abusive (Cons. St., sez. VI, 17.01.2014, n. 225, e 15.10.2013, n. 5011, e TAR Umbria, 29.01.2014, n. 66, e TAR Napoli, sez. VI, 23.10.2013, n. 4679), dato che l’estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi implica la sola insuscettibilità del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene (TAR Napoli sez. VIII, 07.11.2013, n. 4964, TAR Roma, sez. I, 05.11.2013, n. 9386, e TAR Piemonte, sez. I, 24.10.2013, n. 1102) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 13.05.2014 n. 224 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome è noto, l’asservimento di un fondo ad un altro, in caso di edificazione di quest’ultimo, provocando la perdita definitiva ed irrevocabile delle potenzialità edificatorie dell’area asservita, crea una relazione pertinenziale, che costituisce una qualità oggettiva del fondo asservito. Permanendo a tempo indeterminato, tale asservimento continua pertanto a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva, essendo opponibile ai terzi e a chiunque ne sia il proprietario.
In definitiva, l’inedificabilità dell’area asservita o accorpata ovvero la sua avvenuta utilizzazione a fini edificatori, costituisce una qualità obiettiva del fondo e produce l’effetto di impedirne l’ulteriore edificazione oltre i limiti consentiti, a nulla rilevando che manchino specifici negozi giuridici privati diretti all’asservimento o che l’edificio insista su una parte del lotto catastalmente divisa. Con la conseguenza che non possono mai essere assentiti titoli edilizi in caso di esaurimento della volumetria assentibile.

Va, invero, al riguardo premesso che -come è noto (Cons. St., sez. V, 27.06.2011, n. 3823)- l’asservimento di un fondo ad un altro, in caso di edificazione di quest’ultimo, provocando la perdita definitiva ed irrevocabile delle potenzialità edificatorie dell’area asservita, crea una relazione pertinenziale, che costituisce una qualità oggettiva del fondo asservito. Permanendo a tempo indeterminato, tale asservimento continua pertanto a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva, essendo opponibile ai terzi e a chiunque ne sia il proprietario.
In definitiva, l’inedificabilità dell’area asservita o accorpata ovvero la sua avvenuta utilizzazione a fini edificatori, costituisce una qualità obiettiva del fondo e produce l’effetto di impedirne l’ulteriore edificazione oltre i limiti consentiti, a nulla rilevando che manchino specifici negozi giuridici privati diretti all’asservimento o che l’edificio insista su una parte del lotto catastalmente divisa. Con la conseguenza che non possono mai essere assentiti titoli edilizi in caso di esaurimento della volumetria assentibile (cfr. TAR Salerno sez. I, 16.04.2013, n. 890, TAR Bari, sez. III, 09.01.2013, n. 11, e TAR Catanzaro, sez. I, 08.11.2012, n. 1064) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 13.05.2014 n. 223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo cimiteriale, espresso dall'art. 338 del r.d. 27.07.1934, n. 1265 -come modificato dapprima dall’art. 4 della legge 30.03.2001, n. 130 e quindi dall’art. 28, comma 1, lettera a), della legge 01.08.2002, n. 166- ha natura assoluta e si impone, in quanto limite legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienico-sanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale, secondo giurisprudenza granitica.
Con riferimento alle censure dedotte con l'appello nr. 4291/2011, afferenti all'approvazione del progetto definitivo ed esecutivo dell'ampliamento del cimitero, alle presupposte deliberazioni di Giunta Municipale e di Consiglio Comunale e ai conseguenti atti della procedura espropriativa, deve rammentarsi che il vincolo cimiteriale, espresso dall'art. 338 del r.d. 27.07.1934, n. 1265 -come modificato dapprima dall’art. 4 della legge 30.03.2001, n. 130 e quindi dall’art. 28, comma 1, lettera a), della legge 01.08.2002, n. 166- ha natura assoluta e si impone, in quanto limite legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienico-sanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale, secondo giurisprudenza granitica (cfr. tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 22.11.2013, n. 5571, 20.07.2011, n. 4403, 16.03.2011, n. 1645, 27.10.2009, n. 6547, 08.10.2007, n. 5210; Sez. V, 14.09.2010, n. 6671, 08.09.2008, n. 4526).
Ne consegue che il rilevato contrasto con previsioni di P.R.G., secondo i rilievi cartografici più o meno certi o opinabili invocati dalla società appellante, non può implicare l'illegittimità del progetto di ampliamento cimiteriale, quando non sia contestato che il suolo appartenente alla società appellante ricada nella fascia assoggettata al vincolo cimiteriale, di tal che, e in ogni caso, risulti affatto prevalente il vincolo legale, e si ponga non già esigenza di una variante urbanistica ma, semmai, di adeguamento delle previsioni grafiche se e in quanto erronee, confuse, contrastanti con il sovraordinato limite legale.
Con ciò risulta, dunque, palesemente infondato il primo motivo dell'appello in esame, appunto incentrato sul lamentato contrasto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2014 n. 2405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: L'approvazione di progetti di opere pubbliche e di atti inerenti alla correlata procedura espropriativa rientra nella competenza gestoria dirigenziale, come disegnata dall'art. 107, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 in relazione a "...tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale...", in quanto non riconducibile alle competenze consiliari o delle giunte municipali, di cui, rispettivamente, ai precedenti art. 42, comma 2, e 48, commi 2 e 3, e anche tenendo in disparte il rilievo che l'ampliamento era previsto nel programma triennale delle opere pubbliche e inserito nel bilancio di previsione, e quindi in atti fondamentali di Giunta e Consiglio Comunale, con conseguente ulteriore radicamento della competenza dirigenziale ai sensi del comma 3 dell'art. 107, concernente appunto "... tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi" (di governo).
Non hanno maggior pregio le censure dedotte con il secondo motivo d'appello, perché l'approvazione di progetti di opere pubbliche e di atti inerenti alla correlata procedura espropriativa rientra nella competenza gestoria dirigenziale, come disegnata dall'art. 107, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 in relazione a "...tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale...", in quanto non riconducibile alle competenze consiliari o delle giunte municipali, di cui, rispettivamente, ai precedenti art. 42, comma 2, e 48, commi 2 e 3 (in tal senso vedi, Cons. Stato, Sez. IV, 16.03.2010, n. 1532), e anche tenendo in disparte il rilievo che l'ampliamento era previsto nel programma triennale delle opere pubbliche e inserito nel bilancio di previsione, e quindi in atti fondamentali di Giunta e Consiglio Comunale, con conseguente ulteriore radicamento della competenza dirigenziale ai sensi del comma 3 dell'art. 107, concernente appunto "... tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi" (di governo) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2014 n. 2405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il rilascio di un titolo edilizio -ancorché precario- in fascia di rispetto cimiteriale.
A tal riguardo, è del tutto evidente che l'ingiunzione di rimozione di opere la cui installazione e mantenimento era stata assentita con l'impegno unilaterale di rimuoverle da un lato trova sufficiente motivazione nelle richiamate esigenze connesse all'ampliamento del cimitero, dall'altro non imponeva alcuna comunicazione d'avvio del procedimento, con conseguente infondatezza anche del secondo motivo d'appello, poiché l'interessata era a conoscenza sin dal rilascio del titolo edilizio della sua natura e dei suoi effetti e dell'obbligo di dover procedere alla rimozione delle opere, assunto in chiara correlazione causale con la deroga al divieto legale di utilizzazione edilizia, ciò che denota l'assoluta carenza di fondamento giuridico anche del terzo motivo, incentrato sulla pretesa "nullità" dell'atto unilaterale d'obbligo.

Non hanno poi pregio giuridico le censure dedotte con l'appello nr. 4292/2011, concernenti l'ingiunzione di rimozione delle opere assentite solo a titolo precario, e proprio in funzione della loro insistenza nella fascia di rispetto cimiteriale, con autorizzazione edilizia n. 520/1997.
A prescindere dalla stessa dubbia legittimità di un titolo edilizio assentito a tal fine, in contrasto con vincolo legale d'inedificabilità (sull'estraneità della fattispecie all'ordinamento normativo edilizio cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.06.2013, n. 3256) e per giunta per la determinata tipologia (sull'esigenza del permesso di costruire, e quindi di concessione edilizia, per opere relative ad autolavaggio vedi Cons. Stato, Sez. VI, 22.10.2008, n. 5191), è del tutto evidente che l'ingiunzione di rimozione di opere la cui installazione e mantenimento era stata assentita con l'impegno unilaterale di rimuoverle da un lato trova sufficiente motivazione nelle richiamate esigenze connesse all'ampliamento del cimitero, dall'altro non imponeva alcuna comunicazione d'avvio del procedimento, con conseguente infondatezza anche del secondo motivo d'appello, poiché l'interessata era a conoscenza sin dal rilascio del titolo edilizio della sua natura e dei suoi effetti e dell'obbligo di dover procedere alla rimozione delle opere, assunto in chiara correlazione causale con la deroga al divieto legale di utilizzazione edilizia, ciò che denota l'assoluta carenza di fondamento giuridico anche del terzo motivo, incentrato sulla pretesa "nullità" dell'atto unilaterale d'obbligo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2014 n. 2405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il coordinamento esegetico dell'art. 11 con le altre disposizioni della legge n. 122/1989 circoscrive l'esonero dal contributo di concessione alle sole "opere e interventi" realizzati o nel quadro del programma urbano dei parcheggi (anche ai sensi del comma 4 dell'art. 9) o a quelli realizzati, "... nel sottosuolo degli stessi (immobili) ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati..anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti...(nonché e sempre)...ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico", di cui al comma 1 dell'art. 9.
In altri termini deve trattarsi di parcheggi da realizzare, con vincolo di pertinenzialità alle unità immobiliari dei residenti, in edifici già esistenti (nel sottosuolo, e completamente interrati, o in locali al piano terreno) o comunque, e sempre a uso esclusivo dei residenti, al servizio di edifici già esistenti (su aree esterne o anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne).
In tal senso l'orientamento affatto prevalente della giurisprudenza ha chiarito che l'art. 9 riguarda i soli edifici esistenti e non anche gli edifici nuovi per i quali trova invece applicazione l'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, come sostituito dall'art. 2 della stessa legge n. 122/1989 (a tenore del quale "Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione"), che a differenza degli spazi a parcheggio di cui all'art. 41-quinquies non sono aree pubbliche conteggiabili nella dotazione degli standards e che, peraltro, a seguito della novella di cui all'art. articolo 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246, che ha aggiunto un secondo comma alla disposizione, non sono assoggettati a vincoli pertinenziali e sono trasferibili autonomamente.

Com'é noto l'art. 11, comma 1, della legge 24.03.1989, n. 122 (recante "Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate nonché modificazioni di alcune norme del testo unico sulla disciplina della circolazione stradale, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 15.06.1959, n. 393") dispone che: "Le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f) , della legge 28.01.1977, n. 10".
A sua volta quest'ultimo stabiliva l'esonero dal contributo di concessione (tra gli altri) "per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici" (la disposizione è stata abrogata dall'art. 136, comma 1, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, dapprima con decorrenza dal 01.01.2002, quindi dal 30.06.2002 ex art. 5-bis del d.l. 23.11.2001, n. 411 e, finalmente, dal 30.06.2003, ai sensi in base all'art. 3 del d.l. 20.06.2002, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 01.08.2002, n. 185, e la corrispondente norma è contenuta nell'art. 17, comma 3, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380).
Orbene, per quanto qui interessa, il coordinamento esegetico dell'art. 11 con le altre disposizioni della legge n. 122/1989 circoscrive l'esonero dal contributo di concessione alle sole "opere e interventi" realizzati o nel quadro del programma urbano dei parcheggi (anche ai sensi del comma 4 dell'art. 9) o a quelli realizzati, "... nel sottosuolo degli stessi (immobili) ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati..anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti...(nonché e sempre)...ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico", di cui al comma 1 dell'art. 9.
In altri termini deve trattarsi di parcheggi da realizzare, con vincolo di pertinenzialità alle unità immobiliari dei residenti, in edifici già esistenti (nel sottosuolo, e completamente interrati, o in locali al piano terreno) o comunque, e sempre a uso esclusivo dei residenti, al servizio di edifici già esistenti (su aree esterne o anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne).
In tal senso l'orientamento affatto prevalente della giurisprudenza ha chiarito che l'art. 9 riguarda i soli edifici esistenti e non anche gli edifici nuovi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185, e 10.03.2011, n. 1565, e per più risalenti affermazioni Sez. V, 24.10.2000 n. 5676) per i quali trova invece applicazione l'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, come sostituito dall'art. 2 della stessa legge n. 122/1989 (a tenore del quale "Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione"), che a differenza degli spazi a parcheggio di cui all'art. 41-quinquies non sono aree pubbliche conteggiabili nella dotazione degli standards (Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2013 n. 32) e che, peraltro, a seguito della novella di cui all'art. articolo 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246, che ha aggiunto un secondo comma alla disposizione, non sono assoggettati a vincoli pertinenziali e sono trasferibili autonomamente (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2014 n. 2404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: La prevalente giurisprudenza estende anche agli accordi di programma, trattandosi di provvedimenti comportanti varianti urbanistiche, il principio per cui il dies a quo del termine d’impugnazione corrisponde a quello della loro pubblicazione, costituente presunzione legale di conoscenza.
Infatti, l’accordo di programma è un provvedimento amministrativo soggetto a pubblicazione ex art. 34 del d.lgs. 17.08.2000, n. 267 (in cui è confluito l’art. 27 della legge 06.06.1990, n. 142), e del quale non è necessaria la comunicazione individuale agli interessati atteso che il piano oggetto di approvazione, per contenuto e finalità, costituisce una variante di tipo generale preordinata ad incidere, non già su una singola area in proprietà privata per la realizzazione di una determinata e specifica opera pubblica, bensì su una generalità di aree del territorio comunale conformandole, cioè un tipo di variante avente la medesima valenza e gli stessi contenuti programmatici del piano regolatore generale; diverso, evidentemente, sarebbe il caso ove l’accordo di programma e la variante dallo stesso implicata avessero avuto ad oggetto una specifica e singola opera pubblica localizzata su una ben definita area: in questo caso infatti avrebbe trovato applicazione il noto e condivisibile orientamento secondo cui il termine per l’impugnazione non decorre dalla pubblicazione ma dalla comunicazione ovvero dalla piena conoscenza della variante da parte del singolo soggetto interessato.

Orbene, è appena il caso di sottolineare come la prevalente giurisprudenza estenda anche agli accordi di programma, trattandosi di provvedimenti comportanti varianti urbanistiche, il principio per cui il dies a quo del termine d’impugnazione corrisponde a quello della loro pubblicazione, costituente presunzione legale di conoscenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.11.2005, nr. 6467; id., 30.07.2002, nr. 4075).
Infatti, l’accordo di programma è un provvedimento amministrativo soggetto a pubblicazione ex art. 34 del d.lgs. 17.08.2000, n. 267 (in cui è confluito l’art. 27 della legge 06.06.1990, n. 142), e del quale non è necessaria la comunicazione individuale agli interessati atteso che il piano oggetto di approvazione, per contenuto e finalità, costituisce una variante di tipo generale preordinata ad incidere, non già su una singola area in proprietà privata per la realizzazione di una determinata e specifica opera pubblica, bensì su una generalità di aree del territorio comunale conformandole, cioè un tipo di variante avente la medesima valenza e gli stessi contenuti programmatici del piano regolatore generale; diverso, evidentemente, sarebbe il caso ove l’accordo di programma e la variante dallo stesso implicata avessero avuto ad oggetto una specifica e singola opera pubblica localizzata su una ben definita area: in questo caso infatti avrebbe trovato applicazione il noto e condivisibile orientamento secondo cui il termine per l’impugnazione non decorre dalla pubblicazione ma dalla comunicazione ovvero dalla piena conoscenza della variante da parte del singolo soggetto interessato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.12.1998, n. 1904)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2014 n. 2403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Pur essendo la delibera di adozione di un piano urbanistico immediatamente impugnabile, la sua impugnazione costituisce una mera facoltà e non un onere, di modo che l’omessa impugnativa non è in alcun modo preclusiva della successiva impugnazione della delibera di approvazione del piano.
Priva di pregio è anche la seconda eccezione riproposta col mezzo qui in esame, con cui si assume l’inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione della delibera di adozione del P.U.O.
Infatti, è jus receptum che, pur essendo la delibera di adozione di un piano urbanistico immediatamente impugnabile, la sua impugnazione costituisce una mera facoltà e non un onere, di modo che l’omessa impugnativa non è in alcun modo preclusiva della successiva impugnazione della delibera di approvazione del piano (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.09.2012, nr. 4828; id., 02.12.2011, nr. 6373; id., 13.01.2010, nr. 50)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2014 n. 2403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente": art. 3, comma 1, lett. d), t.u.) ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" (per effetto della modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
L’unica deroga all’esigenza di mantenere immutata volumetria e sagoma, per potersi mantenere nell’ambito della ristrutturazione edilizia, è data con riguardo alle “sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica” (lett. d), in fine).

L’esame del primo motivo è sufficiente a dichiarare l’appello fondato.
Come ha ribadito anche di recente la Sezione, l'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente": art. 3, comma 1, lett. d), t.u.) ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" (per effetto della modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente (sez. IV, 30.05.2013, n. 2972).
L’unica deroga all’esigenza di mantenere immutata volumetria e sagoma, per potersi mantenere nell’ambito della ristrutturazione edilizia, è data con riguardo alle “sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica” (lett. d), in fine), che davvero non sembrano venire in questione nella vicenda.
Nel caso di specie, la parte appellata non contesta quanto il Comune afferma nel proprio ricorso (pag. 10), e cioè che, alla stregua del progetto per cui il permesso di costruire è stato richiesto, “la tipologia costruttiva dei materiali e dei muri, la sagoma ed il volume del nuovo manufatto (villetta in muratura) non corrisponderebbero in nulla all’esistente (ricovero in legno)”.
L’intervento progettato fuoriesce così dall’ambito concettuale della ristrutturazione per divenire invece “intervento di nuova costruzione” (ex art. 3, comma 1, lett. e), t.u.). Legittimamente, dunque, il Comune ha respinto la domanda volta al rilascio di un titolo edilizio inteso a realizzare un’opera che solo in termini del tutto atecnici potrebbe qualificarsi come ristrutturazione edilizia, comportando in realtà -secondo l’oggetto testualmente indicato nella documentazione a corredo della domanda- un ampliamento del fabbricato.
Posto che le disposizioni del testo unico costituiscono “i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell'attività edilizia” (art. 1, comma 1), qualunque previsione del P.R.G. comunale, ove per avventura difforme, rimarrebbe comunque inefficace.
Dalle considerazioni che precedono, discende che il primo motivo dell’appello è fondato e deve essere pertanto accolto, con assorbimento dei motivi ulteriori (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2014 n. 2397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività edilizia svolta si è limitata ad un semplice intervento di manutenzione ordinaria, posto che la recinzione danneggiata dall’urto di un auto in transito ha comportato “la necessità di risistemare il muretto (di recinzione) nel tratto attinto dall’urto”.
Sicché, l’U.T.C., muovendo dall’art. 31 del D.P.R. n. 380, ha illegittimamente ritenuto sanzionabili con la demolizione opere edili non riconducibili nell’ambito della disposizione applicata.
Di fatto, la ricorrente ha sostanzialmente provveduto al ripristino di un breve tratto della recinzione danneggiata. Invero, trattandosi di un intervento liberalizzato, il dirigente dell’U.T.C. non avrebbe potuto, ai fini sanzionatori, ravvisarne l’illegittimità nella assenza di un titolo abilitativo non richiesto; avrebbe potuto invece, per giungere all’ordine di demolizione, verificare il rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina della attività edilizia e in particolare delle norme di sicurezza, posto che lo stesso art. 6 del D.P.R. n. 380/2001 pone tale condizione come necessaria per una “attività edilizia libera”.

Nel merito il ricorso può ritenersi fondato.
Con le censure proposte, da esaminare in un unico contesto in ragione della loro connessione, la ricorrente sostanzialmente sostiene che l’U.T.C., muovendo dall’art. 31 del D.P.R. n. 380, avrebbe ritenuto sanzionabili con la demolizione opere edili non riconducibili nell’ambito della disposizione applicata.
L’attività edilizia svolta, infatti, si sarebbe limitata ad un semplice intervento di manutenzione ordinaria, posto che la recinzione danneggiata dall’urto di un auto in transito avrebbe comportato “la necessità di risistemare il muretto nel tratto attinto dall’urto”.
Tale assunto, ad avviso del collegio, va condiviso.
Il D.P.R. n. 380/2001 definisce interventi di manutenzione ordinaria (art. 3), suscettibili d’essere eseguiti senza alcun titolo abilitativi (art. 6), “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici”.
Ora non è dubbio (giusta documentazione fotografica prodotta) che nel caso di specie, al di là delle differenti valutazioni offerte dalle parti in ordine alla consistenza dell’intervento, la ricorrente abbia sostanzialmente provveduto al ripristino di un breve tratto della recinzione danneggiata.
Di conseguenza, trattandosi di un intervento liberalizzato, il dirigente dell’U.T.C. non avrebbe potuto, ai fini sanzionatori, ravvisarne l’illegittimità nella assenza di un titolo abilitativo non richiesto; avrebbe potuto invece, per giungere all’ordine di demolizione, verificare il rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina della attività edilizia e in particolare delle norme di sicurezza, posto che lo stesso art. 6 del D.P.R. n. 380/2001 pone tale condizione come necessaria per una “attività edilizia libera”.
Invero, costituendosi in giudizio, l’Amministrazione precisa che l’ordine di demolizione in questione sarebbe stato emesso sul presupposto di un accertamento compiuto dalla polizia municipale che, con verbale n. 365/2013, contestava alla De Siato la violazione dell’art. 16, comma 1, lett. B c.d.s.
Tale circostanza tuttavia non può risultare idonea ad integrare la motivazione del provvedimento impugnato. L’ordine di demolizione, infatti, si limita a rilevare soltanto ed impropriamente l’assenza del titolo abilitativo e non invece a considerare la legittimità o meno dell’intervento alla luce delle disposizioni dettate dal codice della strada.
In ogni caso vale la pena osservare come l’Amministrazione, in ipotesi di riesercizio del potere, non possa non valutare con riferimento al caso concreto, la effettiva capacità del divieto posto dal c.d.s. (interventi edilizi di costruzione, ricostruzione ed ampliamento a distanza non regolamentare) “di rimuovere con il tempo situazioni di pericolo che preesistevano all’introduzione delle fasce di rispetto”.
Va da sé infatti che, in presenza di una recinzione estesa per decine di metri, l’interruzione per brevi tratti (ove analoghi episodi dovessero ripetersi) non determinerebbe apprezzabili benefici in termini di tutela della circolazione stradale, posto che la recinzione danneggiata resterebbe pur sempre a distanza non regolamentare dal ciglio della sede stradale.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso pertanto deve essere accolto fatti salvi gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione riterrà di dover adottare (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.05.2014 n. 1221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La variazione d’uso funzionale “realizzata in parziale difformità ai titoli abilitativi”, non può essere assimilata (in assenza di contestazione circa la realizzazione di opere edili) agli interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire, interventi considerati dall’art. 34 del D.P.R. e per i quali la stessa norma prevede la rimozione o la demolizione a spese dei responsabili dell’abuso.
Pertanto, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre un uso corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.

Il ricorso è fondato.
Non è dubbio che i ricorrenti utilizzino, per abitarvi, un immobile sito in zona artigianale e destinato dallo strumento urbanistico ad uso non residenziale (ufficio).
Il Comune di Ostuni, pertanto, verificata l’intervenuta variazione d’uso realizzata in parziale difformità al titolo abilitativo, ha ritenuto, per un verso, di dover ordinare ai responsabili, ex art. 34 del D.P.R., di adeguare la situazione di fatto dell’immobile alla situazione di diritto, d’altro canto, di applicare la sanzione amministrativa pecuniaria di € 2.582,00, prevista dall’art. 47 della legge regionale n. 56/1980 (da lire 1.000.000. a lire 5.000.000).
Ora, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre un uso corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.
Nella fattispecie infatti, contrariamente a quanto sembra desumersi dal provvedimento impugnato, la variazione d’uso funzionale “realizzata in parziale difformità ai precitati titoli abilitativi”, non può essere assimilata (in assenza di contestazione circa la realizzazione di opere edili) agli interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire, interventi considerati dall’art. 34 del D.P.R. e per i quali la stessa norma prevede la rimozione o la demolizione a spese dei responsabili dell’abuso.
Sicché, ferma restando la possibilità dell’Amministrazione di regolare la destinazione d’uso degli immobili, è fuor di dubbio che nella specie siano stati utilizzati strumenti impropri sotto il profilo normativo (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.05.2014 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAArea vincolata, demolizione libera. Consiglio di Stato. Se l'abuso è su aree tutelate non occorre la comunicazione di avvio del procedimento.
Ogni volta che opere edilizie abusive sorgano su un'area vincolata, non occorre che l'ordine di demolizione del Comune sia preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, a differenza di quanto prescritto in caso di abusi accertati in zone non tutelate dalle norme di settore.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 09.05.2014 n. 2380 sulla base dei dettami di vigilanza e responsabilità del Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001).
La decisione ha chiarito le conclusioni dei giudici amministrativi di primo grado che dieci anni fa avevano respinto un ricorso di privati contro l'ordinanza comunale di demolizione di opere abusive su un terreno agricolo in un'area sottoposta a vincolo paesaggistico dalle norme di protezione delle bellezze naturali (legge 1497/1939).
Precisazioni anche in merito ai contestati ordine di sospensione, affidamento dei lavori a terzi con trattativa privata e atti per il recupero delle spese. L'amministrazione aveva provveduto alla notifica dell'atto d'urgenza solo poche ore dopo aver ripristinato lo stato dei luoghi e nei giorni successivi, a demolizione conclusa, all'invio dell'atto di ingiunzione a bloccare le attività abusive.
I giudici hanno spiegato che «il potere-dovere di disporre la demolizione ha natura vincolata», in modo che non è necessario comunicarne l'avvio se le opere abusive sono su aree inedificabili o destinate a opere e spazi pubblici, interventi di edilizia residenziale pubblica o tutelate dalle norme su usi civici, beni culturali e ambientali, boschi e terreni montani (articolo 27, comma 2, Dpr 380/2001).
Così per l'ordine di sospensione: può anche non precedere l'ordinanza per il «carattere meramente eventuale delle esigenze cautelari che possono determinarlo», non esserci affatto e, anche se ormai "superfluo", non può renderla illegittima. I destinatari non hanno poi «alcun interesse a sindacare le modalità procedurali con le quali l'Amministrazione individua l'impresa cui affidare i lavori»
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.05.2014).

APPALTI: Sul c.d. "potere di soccorso" della stazione appaltante, ex art. 46, c. 1, del d.lgs. 163/2006 (fattispecie inerente una procedura di gara per l'individuazione dell'affidatario della sede farmaceutica di nuova istituzione).
L'art. 46, c. 1, del d.lgs. 163/2006 (codice dei contratti), disciplina il c.d. "potere di soccorso" della stazione appaltante consentendo, nei limiti previsti dagli artt. da 38 a 45, se necessario, che i concorrenti siano invitati a completare o fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati, riguardanti i requisiti generali per l'ammissione a gara. Essa rappresenta un'espressione, nel settore delle gare pubbliche, del più generale principio di cui all'art. 6, c. 1, lett. b), l. n. 241 del 1990, secondo cui il responsabile del procedimento adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria e può chiedere "il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete...". Il principio soddisfa la primaria esigenza di consentire la massima partecipazione alla selezione, consentendo di correggere l'eccessivo rigore delle forme insito nella logica "della caccia all'errore" e di eliminare quelle situazioni di esclusioni dalle gare anche per violazioni puramente formali.
Nelle procedure di gara il "potere di soccorso", sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione appaltante di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti, ovvero di completarli ma solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti, non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali.
L'omessa dichiarazione della sussistenza o meno della causa di impedimento di cui all'art. 13 della l. n. 475 del 1968, che concerne l'incompatibilità con il pubblico impiego dell'attività di propagandista di medicinali, nonché della causa interdittiva di cui all'art. 12 della stessa legge, per aver ceduto la titolarità di altra farmacia da almeno dieci anni, sono cause di esclusione essendo insito nelle citate previsioni di legge il carattere cogente dei divieti discendenti dalle norme. Tuttavia, l'omessa dichiarazione non è sanzionata, nel caso di specie, dalla clausola del bando con l'espressa comminatoria di esclusione; ne consegue che, secondo principi consolidati in giurisprudenza sulle conseguenze della non offensività delle omesse dichiarazioni in tema di requisiti generali di partecipazione alle gare, la stazione appaltante era tenuta ad esercitare il potere di soccorso nei confronti dei concorrenti, ammettendoli a fornire la dichiarazione mancante, in quanto gli stessi potevano essere esclusi solo in difetto del requisito sostanziale, ovvero se non avessero reso, nel termine indicato dalla stazione appaltante, l'integrazione della dichiarazione mancante. La stazione appaltante, dunque, ha correttamente accertato in concreto la posizione degli interessati, richiedendo il completamento della documentazione e ne ha disposto la riammissione in gara (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 09.05.2014 n. 2376 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: La strada in questione risulta inserita nella delibera di Giunta municipale n. 436/993, contenente la classificazione delle nuove strade ad uso pubblico, inoltre tutte le abitazioni che vi si affacciano hanno il numero civico e la strada medesima è dotata della segnaletica stradale.
Ad avviso del Collegio, pertanto, sussistono gran parte degli indizi di pubblicità della strada, e in particolare la segnaletica verticale, l’uso da tempo immemorabile da parte della comunità e l’inserimento nell’elenco delle strade pubbliche.
Tali indizi appaiono univoci e significativi, proprio perché risalenti nel tempo (almeno ad oltre venti anni fa, stando alla classificazione delle strade), e soprattutto perché tra essi vi è quello sostanziale e prevalente, ossia l’uso pubblico da tempo immemorabile, sicché essi non appaiono superati dalla circostanza che il ricorrente stesso abbia compiuto alcune opere sulla strada stessa.

Il ricorso è infondato.
Come documentato dal Comune resistente, e non contestato dal ricorrente, la strada in questione risulta inserita nella delibera di Giunta municipale n. 436 del 1993, contenente la classificazione delle nuove strade ad uso pubblico, inoltre tutte le abitazioni che vi si affacciano hanno il numero civico e la strada medesima è dotata della segnaletica stradale.
Ad avviso del Collegio, pertanto, sussistono gran parte degli indizi di pubblicità della strada, e in particolare la segnaletica verticale, l’uso da tempo immemorabile da parte della comunità e l’inserimento nell’elenco delle strade pubbliche (cfr. Tar Catanzaro, sentenza n. 643 del 2008).
Tali indizi appaiono univoci e significativi, proprio perché risalenti nel tempo (almeno ad oltre venti anni fa, stando alla classificazione delle strade), e soprattutto perché tra essi vi è quello sostanziale e prevalente, ossia l’uso pubblico da tempo immemorabile, sicché essi non appaiono superati dalla circostanza che il ricorrente stesso abbia compiuto alcune opere sulla strada stessa.
Tanto più che l’unica opera veramente incompatibile con la proprietà pubblica e soprattutto con l’uso pubblico della medesima è stata la recinzione del terreno, che ha appunto determinato la reazione dell’Amministrazione mediante i provvedimenti impugnati.
La strada, peraltro, come risulta dalla relazione tecnica allegata alla d.i.a., ha funzione di collegamento e raccordo con la viabilità esistente, ed anche questo elemento depone in modo rilevante per la natura pubblica della stessa (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 5596 del 2013).
La circostanza, dedotta nel ricorso, che essa non sia idonea alla circolazione veicolare (con auto o moto) non elimina l’uso pubblico che finora ne è stato fatto, ma semmai riguarda la possibilità che la medesima possa essere utilizzata a tal fine per l’avvenire, da parte dell’Amministrazione proprietaria, la quale dovrà ovviamente verificare ed impedire tale uso veicolare qualora, e nei limiti in cui, esso sia effettivamente in contrasto con le norme di sicurezza e di circolazione stradale (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 05.05.2014 n. 212 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'esercizio del potere sanzionatorio da parte dell'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture (Avcp) .
L'esercizio del potere sanzionatorio da parte dell' Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture (Avcp) deve riguardare per essere giustificato sul piano della razionalità e della ragionevolezza, un comportamento più grave ed ulteriore rispetto al mancato possesso dei requisiti o alla falsa attestazione degli stessi, che espone già l'operatore economico partecipante alla gara all'esclusione dalla stessa e all'escussione della cauzione provvisoria.
In effetti, l'ordinamento attribuisce all'Autorità di Vigilanza il potere sanzionatorio, in particolare quello di irrogare la sanzione pecuniaria, nel caso in cui vengano rese informazioni non veritiere o forniti documenti non veritieri, qualora a detta falsità corrisponda una "lacuna sostanziale", ossia l'effettiva mancanza del requisito falsamente dichiarato esistente.
Proprio la diversità dei presupposti del potere sanzionatorio della stazione appaltante ex art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006 e dell'Avcp ex art. 6, comma 11, del medesimo testo legislativo comporta che l'archiviazione del procedimento dinnanzi alla'Autorità di vigilanza non comporta l'illegittimità delle sanzioni irrogate dalla stazione appaltante (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 02.05.2014 n. 404 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICICds e requisiti. Gare, ok avvalimento parziale.
Legittimo l'avvalimento parziale dei requisiti anche nelle gare di lavori pubblici.

In attesa dell'adeguamento normativo previsto nella legge europea 2013-bis, per il Consiglio di Stato non c'è più dubbio alcuno che possa essere ammesso l'avvalimento parziale dei requisiti nelle gare di lavori pubblici e in tal senso è perentorio il contenuto della sentenza 28.04.2014 n. 2200 della V Sez..
In primo grado il Tar Calabria (sent. 868/2013) aveva invece riconosciuto la carenza, in capo all'aggiudicataria, della qualificazione nella categoria OG11, classifica III, e non aveva ammesso ai sensi dell'art. 61, dpr 207/2010, l'aumento del quinto in favore dell'impresa ausiliaria (in possesso del requisito di categoria OG 11, classifica II), ostandovi il divieto di frazionamento dei requisiti di qualificazione tra l'impresa ausiliaria e quella ausiliata.
Per il Cds, invece, dopo la sentenza della Corte di giustizia Ue, 10/10/2013, n. C-94/12, «deve ritenersi definitivamente superata la tesi che vieta l'uso dell'avvalimento per conseguire il cosiddetto “cumulo parziale dei requisiti”; la Corte di Giustizia, infatti, ha considerato del tutto legittimo che le capacità di terzi soggetti ausiliari (uno o più d'uno), si aggiungano alle capacità del concorrente, al fine di soddisfare –attraverso il cumulo di referenze singolarmente insufficienti– il livello minimo di qualificazione prescritto dalla stazione appaltante nella legge di gara».
Va considerato che nel frattempo lo stesso Cds (cfr. sez. V, 09.12.2013, n. 5874) aveva già accolto le indicazioni europee. Appare quindi ormai consolidato e certo l'orientamento del Consiglio di Stato teso a recepire i contenuti della sentenza europea e quindi ad affermare il riconoscimento del diritto al cumulo dei requisiti all'interno della medesima categoria con il corollario dell'aumento del quinto.
Va peraltro considerato che anche il legislatore si sta adeguando: con un emendamento al disegno di legge europea 2013-bis è stata prevista la sostituzione del comma 6 dell'articolo 49 del Codice dei contratti pubblici al fine di eliminare il divieto di ricorrere a più di una impresa ausiliaria per lavori compresi nella stessa categoria di qualificazione (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: L'art. 84, c. 4, D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, esprime una regula iuris di portata generale volta a dare concreta attuazione ai principi di imparzialità e di buona amministrazione contenuti dall'art. 97 della Costituzione
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La previsione di legge di cui all'art. 84, c. 4 previene il pericolo concreto di possibili effetti distorsivi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale.

L'art. 84, c. 4, D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, prevede che nella gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, "i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta".
Alla stregua di un consolidato insegnamento giurisprudenziale, il dettato di cui al 4° c. dell'art. 84 D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 esprime una regula iuris di portata generale volta a dare concreta attuazione ai principi di imparzialità e di buona amministrazione contenuti dall'art. 97 della Costituzione.
La norma esprime la necessità di conciliare i principi di economicità, di semplificazione e di snellimento dell'azione amministrativa con quelli di trasparenza, efficacia ed adeguatezza, regolando la scelta dei componenti delle commissioni di cui è demandata l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa in guisa da depotenziare profili di incidenza negativa sulla trasparenza e sull' imparzialità della commissione giudicatrice.
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L'Adunanza Plenaria con decisione 07.05.2013, n. 13 ha ritenuto che l'art. 84, c. 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, risponde all'esigenza di rigida separazione della fase di preparazione della documentazione di gara con quella di valutazione delle offerte in essa presentate, a garanzia della neutralità del giudizio ed in coerenza con la ratio generalmente sottesa alle cause di incompatibilità dei componenti degli organi amministrativi; è pertanto incompatibile il componente della commissione giudicatrice che era stato precedentemente incaricato della redazione del bando e del disciplinare di gara.
La previsione di legge di cui all'art. 84, c. IV, è, in definitiva, destinata a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti distorsivi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale definendo i contenuti e le regole della procedura. In base alla consolidata giurisprudenza amministrativa, una volta accertata l'illegittimità dell'azione della P.A., è a quest'ultima che spetta, al fine di vincere una presunzione insita nell'illegittimità dell'azione amministrativa, provare l'assenza di colpa attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del c.d. errore scusabile, ovvero l'inesigibilità di una condotta alternativa lecita.
Nel caso di specie, nella valutazione del comportamento dell'amministrazione rilevano, quali indici sintomatici di una condotta colposa non vinti dalla deduzione di un errore scusabile, il mancato rispetto dei principi in tema di composizione della commissione e la violazione di una chiara normativa di gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2191 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti riabilitati dal mercato. Conta l'esistenza di una domanda per i beni recuperati. La Corte di cassazione si pronuncia sui criteri che determinano l'end of waste.
Tra i requisiti necessari per considerare riabilitati a vero e propri «beni» i materiali provenienti da recupero di rifiuti non vi è più quello del loro valore economico, essendo su tale piano sufficiente l'esistenza di una domanda di mercato che detti beni sono diretti a soddisfare.
Questa, per la Corte di Cassazione, la rilevante caratteristica dell'attuale disciplina sulla «cessazione della qualifica di rifiuto» (meglio nota come «end of waste») prevista dal dlgs 152/2006.
Per il giudice di legittimità, Sez. III penale, che si è in materia pronunciato con sentenza 15.04.2014 n. 16423, resta però fermo, oltre al rispetto delle altre condizioni tecniche poste dal «Codice ambientale», l'obbligo di dimostrare sia l'effettiva sottoposizione dei rifiuti a procedimento di recupero che la sussistenza di idonea autorizzazione allo svolgimento di tale attività.
Le regole «end of waste». Con la sentenza in parola (vertente su un carico di materiali ferrosi e non, dichiarato dal trasportatore come ordinaria merce ma senza fornire prova del loro recupero) la Suprema Corte ha compiuto un esame su quelle che sono le regole previste dall'articolo 184-ter del dlgs 152/2006, nel quale dopo vari e complessi interventi legislativi (l'ultimo dei quali nel 2010) sono migrate (assumendo nuova natura ed identità) le diverse norme che determinano il momento in cui i rifiuti tornano ad essere beni (norme sulle «materie prime secondarie» ieri, norme sui «prodotti end of waste» oggi).
In base al vigente assetto normativo dettato dal «Codice ambientale», precisa la Cassazione, i rifiuti cessano di essere tali solo se sono sottoposti ad un'operazione di recupero e soddisfano i criteri specifici individuati per singola tipologia da decreti ministeriali nel rispetto di quattro precise condizioni, ossia: che i materiali in «output» siano comunemente utilizzati per scopi specifici; abbiano un mercato o una domanda di riferimento; soddisfino gli standard esistenti applicabili ai prodotti; il loro nuovo utilizzo non abbia impatti negativi su ambiente e salute.
E proprio in relazione alla seconda di tali condizioni la Corte di cassazione ha sottolineato come non sia più necessario (rispetto al regime precedente alle innovazioni apportate dal dlgs 205/2010) che i materiali ottenuti abbiano un valore economico, essendo sufficiente la sola esistenza di un mercato di sbocco e di una domanda da soddisfare. Ponendosi nel solco giurisprudenziale inaugurato dallo stesso giudice con sentenza 17.06.2011, n. 24427, la nuova sentenza conferma dunque che il valore nullo o irrisorio di determinati materiali ottenuti da un processo di recupero non può essere utilizzato per qualificarli come rifiuti. Ed in relazione ai processi di recupero, come ricorda la stessa Corte, l'unico degli attesi decreti ministeriali sull'end of waste ad oggi adottato risulta essere il dm Ambiente 22/2013 sui combustibili solidi secondari (c.d. «Css»).
Nelle more degli altri, la riabilitazione a «beni» delle diverse tipologie di rifiuti è necessario invece ricorrere (come espressamente sancito dallo stesso articolo 184-ter del dlgs 152/2006) alle regole previste dai dm 5 febbraio 1998, 161/2002, 269/2005 e dal dl 172/2008, ossia alle «vecchie» norme sulla produzione delle materie prime secondarie (norme che, a differenza di quelle sull'end of waste spostano però la cessazione della qualifica di rifiuto più avanti, richiedendo oltre alle operazioni di recupero anche l'effettivo e oggettivo conseguente prova del nuovo utilizzo).
A tali norme nazionali, è doveroso sottolinearlo, si affiancano però i regolamenti comunitari sull'end of waste adottati sulla base della direttiva madre sui rifiuti (la 2008/98/Ce), regolamenti (self-executing) già applicabili sul piano interno ed oggi disponibili per le seguenti tipologie di rifiuti: rottami di rame (regolamento n. 715/2013/Ue); vetro (n. 1179/2012); ferro, acciaio, alluminio (333/2011).
Il regime autorizzatorio per il recupero. Come accennato, la Cassazione non transige invece sulla necessità di esibire una valida autorizzazione al recupero per poter legittimamente invocare l'applicazione del regime dei «beni» in luogo di quello dei «rifiuti» sui residui detenuti.
Autorizzazione che, in base alle attuali regole recate dal dlgs 152/2006, può essere ottenuta secondo un regime «ordinario» (permesso rilasciato dalla regione a seguito di rituale istruttoria) o «semplificato» (avvio delle operazioni di trattamento trascorsi 90 giorni dalla comunicazione alla provincia competente, regime però attualmente utilizzabile solo per i rifiuti previsti e secondo le regole individuate da appositi dm, nelle more della cui adozione valgono oggi quelle dei citati dm 05.02.1998 e dm 161/2002).
E proprio su tale regime semplificato promette di intervenire l'annunciato dl ambientale allo studio del governo (si veda ItaliaOggi dell'8/5/2014), provvedimento che prevede la possibilità di effettuare sotto tale autorizzazione «light» tutte le attività di «end of waste», ma a condizione che si rispettino le regole tecniche sancite dai citati decreti ministeriali sulle materie prime secondarie (articolo ItaliaOggi Sette del 19.05.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. End of waste.
Affinché un rifiuto cessi di essere tale è comunque necessario che sia sottoposto ad operazione di recupero perché possa essere definitivamente sottratto alla disciplina in materia di gestione dei rifiuti. Anche a seguito delle modifiche introdotte con il d.lgs. 205/2010, infatti, la cessazione della qualifica di rifiuto deriva da una pregressa e necessaria attività di recupero (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.04.2014 n. 16423 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATARifacimento urgente del tetto dopo il preliminare d'acquisto. Immobili. Ammessa la tutela dell'articolo 700 del Codice di procedura civile.
Sì al provvedimento d'urgenza previsto dall'articolo 700 del Codice di procedura civile per tutelare i diritti del promissario acquirente.
Lo afferma il TRIBUNALE di Cassino (giudice Eramo) in un'ordinanza del 03.04.2014 (tratto da www.ilsole24ore.com).
Il caso riguarda una Srl, che aveva stipulato un preliminare per l'acquisto di un casolare da ristrutturare, ma poi aveva scoperto che l'immobile era gravato da vincoli paesaggistici e archeologici. Così si era rivolta al tribunale per ottenere l'annullamento del contratto, sostenendo di essere stata indotta in errore essenziale sulla natura e sull'oggetto dell'accordo.
Nel corso del giudizio la società ha chiesto al giudice l'emissione di un provvedimento d'urgenza in base all'articolo 700 del Codice di rito civile, perché il suo diritto era minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile perché il casolare aveva subito ingenti danni a causa della mancata manutenzione.
Il tribunale osserva che il provvedimento d'urgenza garantisce principalmente diritti che riguardano beni infungibili ma tutela anche «crediti pecuniari dal cui ritardato soddisfacimento potrebbe derivare un pregiudizio non riparabile altrimenti». La pretesa vantata dalla ricorrente non è un diritto di proprietà, ma ciò è irrilevante per la concessione dell'ordinanza perché dal contratto preliminare scaturisce «una specifica obbligazione di alienazione del promittente alienante, rispetto alla quale si contrappone un diritto soggettivo perfetto all'adempimento di tale obbligazione a favore dell'acquirente».
Il giudice rileva che per il consulente tecnico d'ufficio era «prevedibile a breve l'aggravarsi delle condizioni di sicurezza degli elementi strutturali del tetto». E poiché la ricorrente ha il diritto all'acquisto della proprietà di «un immobile il più possibile integro», alla promittente venditrice è ordinato di «provvedere alla ristrutturazione o rifacimento del tetto e delle altre parti danneggiate»
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.05.2014).

EDILIZIA PRIVATALa Scia spia degli abusi edilizi. La segnalazione ha valore confessorio dell'irregolarità. Il Consiglio di stato: se il comune non interviene entro 30 giorni scatta la sanatoria.
La Scia è spia d'abuso edilizio. Deve ritenersi che la segnalazione certificata di inizio attività abbia valore confessorio dell'irregolarità commessa dal proprietario dell'immobile: se quindi il Comune non interviene entro trenta giorni a bloccare i lavori, scatta il titolo abilitativo in sanatoria come effetto previsto dalla legge, indipendentemente da un'eventuale diversa volontà delle parti.
Risultato: è da considerarsi sanato l'abuso edilizio che aveva fatto scattare l'ordine di demolizione del solaio, rivelatosi più alto di sessanta centimetri rispetto al dovuto. E dunque l'ente locale non ha più interesse ad agire.
Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 31.03.2014 n. 1534.
Azione e condizioni
A far scattare l'ordine di demolizione è stato l'accertamento che il manufatto risulta difforme rispetto ai grafici allegati alla concessione edilizia. Ma ora viene dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d'interesse il ricorso proposto dall'amministrazione contro la sentenza di annullamento pronunciato dal tribunale amministrativo regionale dell'Umbria.
Il Comune non contesta che sia effettivamente decorso il termine di trenta giorni dalla presentazione della Scia senza che sia stato adottato e comunicato alcun provvedimento di divieto di prosecuzione dell'attività: ne consegue che oggi il solaio un tempo abusivo dispone di un titolo abilitativo, sia pure in sanatoria dell'attività edilizia originariamente abusiva. Si configura infatti la sopravvenuta carenza di interesse all'appello principale da parte del Comune che impugnava la sentenza del Tar favorevole al proprietario dell'immobile: la successiva Scia in sanatoria ha comunque sanato l'abuso dal quale è scaturita la controversia.
Sono quindi venute meno nelle more del giudizio le condizioni dell'azione che devono persistere per tutto il tempo della lite. Non ha buon gioco l'ente locale a porre la questione dell'ipotetico risarcimento in caso di rovesciamento del verdetto di primo grado. Spese compensate per la particolarità della questione (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014).

VARI: Comodato sì, ma non precario. La concessione a vita costituisce contratto a termine. CASSAZIONE/ Il comodante e i suoi eredi non possono svincolarsi prima del fine vita.
La concessione in comodato di un immobile per tutta la vita del comodatario non costituisce un comodato precario, ma un contratto a termine. Di conseguenza il comodante o i suoi eredi non possono svincolarsi liberamente dal contratto prima del «fine vita» del comodatario, salvo il caso in cui ricorrano gravi motivi.

Lo ha stabilito la III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 18.03.2014 n. 6203 (link a www.neldiritto.it).
Nel caso concreto due conviventi hanno stipulato un contratto di comodato per un immobile. Il convivente proprietario ha pattuito con il suo partner la cessione del godimento gratuito del bene «vita natural durante». E tuttavia, in fase di esecuzione, la convivenza è venuta a mancare, e il comodatario –ancora nel possesso dell'immobile– si è visto citare in giudizio dal comodante per ottenere il rilascio dell'immobile e la condanna al pagamento degli oneri condominiali a carico del convenuto.
Il processo di primo grado si è concluso col rigetto della domanda attorea. Secondo il tribunale, infatti, il contratto intervenuto dalle parti doveva qualificarsi come comodato a termine, sicché –in applicazione degli artt. 1809, 1810 e 1811, cod. civ.– la cessazione degli effetti del negozio non potevano discendere dalla semplice richiesta del comodante né dal –pure eccepito– grave inadempimento del comodatario, come invece previsto per il caso di comodato senza termine.
Di tutt'altra opinione è stata la Corte d'appello, adita in sede di gravame dal comodante soccombente in primo grado, per ottenere la riforma della decisione pronunciata dal tribunale. L'appellante ha insistito sulla diversa qualificazione del contratto, facendo leva sulla denominazione prescelta dai contraenti in sede di stesura dell'accordo (recante «Contratto di comodato gratuito a tempo indeterminato»); elemento testuale da cui trarre –con estrema chiarezza– la disciplina di riferimento, quanto alla fase patologica o conclusiva del rapporto giuridico.
La Corte territoriale, in riforma della prima decisione, ha accolto la domanda del comodante e condannato parte convenuta al rilascio dell'immobile assieme al pagamento di tutte le spese relative agli oneri indebitamente sostenute, per il comodatario, dal comodante.
La lite è, da ultimo, pervenuta all'attenzione della Suprema corte cui si è rivolto in ultima istanza il comodatario, insistendo per l'annullamento della sentenza della Corte del gravame e, di converso, per la conferma del pronunciamento (favorevole) del giudice di primo grado.
Gli Ermellini, nel pronunciarsi sulla questione, sono tornati ad occuparsi della sottile linea di confine che separa il contratto di comodato precario (cioè a tempo indeterminato) e quello a tempo determinato, sottolineando l'assoluta trascurabilità della qualificazione formale indicata dai contraenti rispetto alla sostanza contenutistica del contratto.
La Corte, nel ritenere fondato il ricorso, ha affermato come laddove le parti del contratto di comodato utilizzino, quale parametro di riferimento per la durata degli effetti del regolamento, la vita del comodatario deve assumersi concluso un comodato a termine, e non già un contratto precario. In altri termini, la concessione in comodato di un immobile per tutta la vita del comodatario costituisce un contratto a termine, di cui è certo l'an ed è incerto il quando, e a fronte del quale il comodante o i suoi eredi possono svincolarsi dal contratto soltanto nelle ipotesi descritte dagli artt. 1804, comma 3, 1809 e 1811 cod. civ.
Spiegano i giudici del Palazzaccio che «con l'inserimento di un elemento accidentale quale l'individuazione di una precisa durata (in questo caso, la massima durata possibile, coincidente con la vita della beneficiaria), il comodante sceglie liberamente, d'accordo con il comodatario, di inserire nel contratto un elemento accidentale -il termine appunto- che limita la sua possibilità di recuperare quando lo ritiene opportuno la disponibilità materiale dell'immobile e al contempo rafforza la posizione del comodatario, garantendogli il godimento di quell'immobile per tutto il tempo individuato con la fissazione del termine, e sottraendolo al rischio di subire il recesso ad nutum» (articolo ItaliaOggi Sette del 19.05.2014).
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MASSIMA
La concessione in comodato di un immobile per tutta la vita del comodatario costituisce un contratto a termine, di cui è certo l’an ed è incerto il quando, a fronte del quale il comodante o i suoi eredi possono sciogliersi dal contratto ma soltanto nelle ipotesi descritte dagli artt. 1804, terzo comma, 1809 e 1811 c.c. e non liberamente come avviene nel comodato precario.
Con l'inserimento di un elemento accidentale quale l'individuazione di una precisa durata (ad esempio, la massima durata possibile, coincidente con la vita del beneficiario), il comodante sceglie liberamente, d'accordo con il comodatario, di inserire nel contratto un elemento accidentale -il termine appunto- che limita la sua possibilità di recuperare quando lo ritiene opportuno la disponibilità materiale dell'immobile e al contempo rafforza la posizione del comodatario, garantendogli il godimento di quell'immobile per tutto il tempo individuato con la fissazione del termine, e sottraendolo al rischio di subire il recesso ad nutum.

EDILIZIA PRIVATAIl proprietario di un terreno edificabile ha la legittima aspettativa di sfruttare interamente la capacità edificatoria assegnatagli dal p.r.g..
A questa legittima aspettativa fa fronte il dovere del Comune di rilasciare il titolo abilitativo richiesto dall’interessato, salvo che non vi siano legittime ragioni ostative, quali ad esempio la non conformità del progetto alle previsioni del piano regolatore. Ma se il progetto prevede una determinata cubatura, e questa corrisponde a quella prevista dal p.r.g., il titolo abilitativo non può essere rifiutato adducendo l’opportunità di mantenere ridotta la densità edilizia della zona.
Le valutazioni discrezionali in merito alla densità edilizia debbono essere fatte, e sono state fatte, in sede di formazione del p.r.g.. In sede di esame dei singoli progetti edilizi l’autorità comunale non può sostituire la propria discrezionalità a quella espressa nel piano regolatore. Semmai, qualora ne ravvisi l’opportunità, può avviare una procedura di variante; in effetti ciò è avvenuto anche in questo caso, ma la variante non è mai stata perfezionata e, come si è visto, sono scaduti i termini delle misure di salvaguardia.
Il fatto che il proprietario abbia il diritto (alle condizioni di legge e di p.r.g.) di sfruttare interamente la cubatura edificabile assegnata al fondo non esclude, ovviamente, che egli possa liberamente decidere di presentare un progetto che prevede una cubatura più ridotta. Se lo fa, tuttavia, ciò non significa che egli abbia rinunciato definitivamente a sfruttare l’intera capacità edificatoria.
E’ perfettamente ammissibile che nelle more del rilascio del titolo abilitativo il richiedente ritiri il progetto e ne presenti un altro che prevede una cubatura maggiore. In un caso del genere nessuno vorrà sostenere che l’aver presentato il primo progetto implichi la rinuncia alla maggior cubatura.
Ma pure quando il titolo abilitativo è stato rilasciato e perfezionato con l’adempimento degli oneri dovuti dal richiedente, nulla vieta che questi proponga una variante in corso d’opera. In tale evenienza il Comune dovrà verificare se il nuovo progetto rientri nei parametri stabiliti dal p.r.g. e non potrà opporsi con l’argomento (infondato) che avendo accettato il primo titolo abilitativo l’interessato si sia preclusa la possibilità di una variante.

Conviene sviluppare e approfondire le considerazioni di massima sopra svolte.
Il proprietario di un terreno edificabile ha la legittima aspettativa di sfruttare interamente la capacità edificatoria assegnatagli dal p.r.g..
A questa legittima aspettativa fa fronte il dovere del Comune di rilasciare il titolo abilitativo richiesto dall’interessato, salvo che non vi siano legittime ragioni ostative, quali ad esempio la non conformità del progetto alle previsioni del piano regolatore. Ma se il progetto prevede una determinata cubatura, e questa corrisponde a quella prevista dal p.r.g., il titolo abilitativo non può essere rifiutato adducendo l’opportunità di mantenere ridotta la densità edilizia della zona.
Le valutazioni discrezionali in merito alla densità edilizia debbono essere fatte, e sono state fatte, in sede di formazione del p.r.g.. In sede di esame dei singoli progetti edilizi l’autorità comunale non può sostituire la propria discrezionalità a quella espressa nel piano regolatore. Semmai, qualora ne ravvisi l’opportunità, può avviare una procedura di variante; in effetti ciò è avvenuto anche in questo caso, ma la variante non è mai stata perfezionata e, come si è visto, sono scaduti i termini delle misure di salvaguardia.
Il fatto che il proprietario abbia il diritto (alle condizioni di legge e di p.r.g.) di sfruttare interamente la cubatura edificabile assegnata al fondo non esclude, ovviamente, che egli possa liberamente decidere di presentare un progetto che prevede una cubatura più ridotta. Se lo fa, tuttavia, ciò non significa che egli abbia rinunciato definitivamente a sfruttare l’intera capacità edificatoria.
E’ perfettamente ammissibile che nelle more del rilascio del titolo abilitativo il richiedente ritiri il progetto e ne presenti un altro che prevede una cubatura maggiore. In un caso del genere nessuno vorrà sostenere che l’aver presentato il primo progetto implichi la rinuncia alla maggior cubatura.
Ma pure quando il titolo abilitativo è stato rilasciato e perfezionato con l’adempimento degli oneri dovuti dal richiedente, nulla vieta che questi proponga una variante in corso d’opera. In tale evenienza il Comune dovrà verificare se il nuovo progetto rientri nei parametri stabiliti dal p.r.g. e non potrà opporsi con l’argomento (infondato) che avendo accettato il primo titolo abilitativo l’interessato si sia preclusa la possibilità di una variante (TAR Umbria, sentenza 10.11.2008 n. 715 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La convenzione annessa ad un piano attuativo è essenzialmente lo strumento mediante il quale il proprietario si assume gli obblighi relativi alle opere di urbanizzazione, alla cessione delle aree per standard ed agli altri oneri. Questo e non altro è il contenuto tipico e vincolante della convenzione. La sua accettazione non implica dunque logicamente la rinuncia a modificare il progetto, nella misura in cui il p.r.g. lo consenta.
Si potrà forse discutere se la facoltà di proporre varianti sopravviva ancora quando il progetto sia stato interamente realizzato, e vi sia quindi una situazione di fatto consolidata. Ma nel caso presente il problema non si pone, perché a quanto pare il piano attuativo non è ancora realizzato.
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La cessione gratuita delle aree destinate ad opere di urbanizzazione non ha l’effetto di rendere il Comune contitolare del piano di lottizzazione, vale a dire compartecipe della relativa iniziativa economica e del progetto. Tanto meno diviene contitolare “pro quota” della volumetria edificabile del comparto, sino a godere di un potere dispositivo “uti dominus” che gli consenta di porre un veto al completamento del progetto.
Il diritto di proprietà del Comune ha la sola funzione di dotare il comparto delle necessarie aree “a standard” ed i poteri che il Comune può esercitare quale proprietario sono solo quelli inerenti al conseguimento di quella finalità. Esso potrebbe dunque opporsi a una modifica del progetto che incidesse sulla destinazione delle aree di sua proprietà; ma non è questo il caso.
Tanto è vero che il Comune non diviene contitolare della cubatura edificabile, che sarebbe manifestamente assurda una sua eventuale pretesa, ad es., di esigere una quota dei profitti realizzati dai lottizzatori mediante la cessione dei lotti edificabili. Così come sarebbe inconcepibile che esso mettesse sul mercato le aree acquisite gratuitamente.
Supponendo, poi, che in futuro diventi impossibile, per cause sopravvenute (ad es. un vincolo d’inedificabilità o un mutamento radicale del p.r.g.) realizzare il progetto di lottizzazione, in tale evenienza non sarebbe forse manifestamente infondata la pretesa dei lottizzatori di chiedere la risoluzione della convenzione o comunque la retrocessione delle aree (se non altro in applicazione analogica delle norme in materia di terreni espropriati per p.u.).

Nella fattispecie, dunque, non si può dire che gli interessati, accettando un piano attuativo di dimensioni ridotte, e stipulando la relativa convenzione, abbiano rinunciato alla facoltà di proporre una variante per sfruttare le maggiori potenzialità edificatorie sopravvenute.
Una rinuncia espressa in tal senso non si legge nella convenzione; e non si può dire che essa vi sia contenuta implicitamente.
Va considerato, fra l’altro, che la convenzione annessa ad un piano attuativo è essenzialmente lo strumento mediante il quale il proprietario si assume gli obblighi relativi alle opere di urbanizzazione, alla cessione delle aree per standard ed agli altri oneri. Questo e non altro è il contenuto tipico e vincolante della convenzione. La sua accettazione non implica dunque logicamente la rinuncia a modificare il progetto, nella misura in cui il p.r.g. lo consenta.
Si potrà forse discutere se la facoltà di proporre varianti sopravviva ancora quando il progetto sia stato interamente realizzato, e vi sia quindi una situazione di fatto consolidata. Ma nel caso presente il problema non si pone, perché a quanto pare il piano attuativo non è ancora realizzato.
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Ci si deve ora dare carico delle singolari argomentazioni con le quali il Comune ha inteso giustificare la decisione impugnata.
E’ verosimile che gli organi comunali fossero consapevoli del fatto che, scaduta l’efficacia delle misure di salvaguardia, la proposta di variante del piano attuativo veniva a trovarsi in linea con le previsioni del p.r.g. e non poteva dunque essere formalmente respinta.
Ed invero –qui sta la singolarità della vicenda- negando il proprio assenso alla variante il Comune non ha inteso esercitare i suoi poteri di autorità urbanistica, bensì esercitare “uti privatus” il diritto di proprietà su una parte delle aree interessate dal piano attuativo: quelle aree che gli sono state cedute per effetto della convenzione di lottizzazione.
La ricorrente contesta tale assunto con argomenti che il Collegio ritiene di condividere.
La cessione gratuita delle aree destinate ad opere di urbanizzazione non ha avuto l’effetto di rendere il Comune contitolare del piano di lottizzazione, vale a dire compartecipe della relativa iniziativa economica e del progetto. Tanto meno è divenuto contitolare “pro quota” della volumetria edificabile del comparto, sino a godere di un potere dispositivo “uti dominus” che gli consenta di porre un veto al completamento del progetto.
Il diritto di proprietà del Comune ha la sola funzione di dotare il comparto delle necessarie aree “a standard” ed i poteri che il Comune può esercitare quale proprietario sono solo quelli inerenti al conseguimento di quella finalità. Esso potrebbe dunque opporsi a una modifica del progetto che incidesse sulla destinazione delle aree di sua proprietà; ma non è questo il caso.
Tanto è vero che il Comune non diviene contitolare della cubatura edificabile, che sarebbe manifestamente assurda una sua eventuale pretesa, ad es., di esigere una quota dei profitti realizzati dai lottizzatori mediante la cessione dei lotti edificabili. Così come sarebbe inconcepibile che esso mettesse sul mercato le aree acquisite gratuitamente.
Supponendo, poi, che in futuro diventi impossibile, per cause sopravvenute (ad es. un vincolo d’inedificabilità o un mutamento radicale del p.r.g.) realizzare il progetto di lottizzazione, in tale evenienza non sarebbe forse manifestamente infondata la pretesa dei lottizzatori di chiedere la risoluzione della convenzione o comunque la retrocessione delle aree (se non altro in applicazione analogica delle norme in materia di terreni espropriati per p.u.).
Il Collegio non può ora pronunciarsi su tali questioni, estranee alla materia del contendere; ma si vogliono prospettare queste ipotesi non irragionevoli per dimostrare che la posizione del Comune, quale proprietario delle aree a standard, è del tutto peculiare e non è assimilabile –per quanto attiene alla potestà di intervenire nelle scelte relative allo sfruttamento della cubatura pertinente al comparto- a quella di un proprietario privato (TAR Umbria, sentenza 10.11.2008 n. 715 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.05.2014

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IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Distinzione tra incarichi di studio, di consulenza e di ricerca conferiti dalla pubblica amministrazione.
Il presupposto indispensabile per l’affidamento di incarichi esterni è che l’amministrazione abbia preliminarmente accertato “l’impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili al suo interno” [art. 7, comma 6, lett. b), d.lgs. 165/2001]. Il riscontro concreto di tale condizione essenziale richiede una reale ricognizione di una situazione di oggettiva ed eccezionale impossibilità -sia sul piano qualitativo che sul piano quantitativo- di far fronte alle esigenze con le risorse interne all’amministrazione, in quanto assurge a regola generale il principio dell’autosufficienza dell’organizzazione degli enti.
Di conseguenza, l’affidamento all’esterno di incarichi in difetto di tale presupposto è fonte di responsabilità per danno erariale.
Al riguardo, tra le tante, si segnalano, le seguenti sentenze: sezione giurisdizionale per il Lazio, sentenza 18.11.2011 n. 1619
che ritiene insufficiente il riferimento a “notevoli difficoltà in termini di gestione ed organizzazione” e sezione giurisdizionale per la Calabria, sentenza 20.08.2012 n. 240 secondo cui “il conferimento di incarichi all’esterno, in qualunque delle ipotesi sopra riportate, e consentito solo allorquando nell’ambito della dotazione organica non sia possibile reperire personale competente ad affrontare problematiche di particolare complessità o urgenza”.
Va da sé, infine, che
non possono formare oggetto di conferimento all’esterno quelle attività afferenti alle funzioni essenziali dell’ente, per l’espletamento delle quali sono già destinate, all’interno dell’organigramma amministrativo, specifiche strutture e risorse (es. attività dell’ufficio tecnico, della ragioneria ecc.).
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In merito alla distinzione interna alla categoria delle collaborazioni autonome, le Sezioni Riunite in sede di controllo hanno chiarito che gli incarichi di studio, di consulenza e di ricerca si distinguono per l’oggetto della prestazione dedotta in contratto, il quale non muta la propria natura giuridica, rientrando comunque nella categoria dei contratti di prestazione d’opera intellettuale.
In particolare, secondo le richiamate Sezioni Riunite:
gli incarichi di studio si risolvono nello svolgimento di un’attività di studio, nell’interesse dell’amministrazione, nonché nella consegna di una relazione scritta finale in cui vengono illustrati i risultati dello studio e le soluzioni proposte;
gli incarichi di ricerca, invece, presuppongono la preventiva definizione del programma da parte dell’amministrazione;
le consulenze, infine, riguardano le richieste di pareri ad esperti.

Le stesse Sezioni Riunite hanno, poi, individuato i seguenti parametri per valutare la legittimità degli incarichi e delle consulenze esterne:
a) rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione;
b) inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
c) indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico;
d) indicazione della durata dell’incarico;
e) proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione.

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Il Sindaco del Comune di Ugento chiede alla Sezione un parere in merito all’applicabilità o meno dei vincoli e della disciplina di cui agli artt. 3, comma 55 e 56, l. 244/2007 e art. 6, comma 7, d.l. 78/2010 per l’affidamento all’esterno di alcune attività che richiedono professionalità tecniche allo stato attuale non disponibili all’interno del Comune, poiché “quelle presenti sono oberate dai numerosissimi adempimenti ed attività di servizi istituzionali
.
Nella richiesta del parere vengono enunciate in maniera analitica le attività oggetto degli incarichi da affidare e consistenti in:
"1. istruttoria e verifica paesaggistica delle pratiche di condono edilizio-Profili professionali richiesti architetto e ingegnere;
2. Verifica tecnico giuridica dei piani di lottizzazione. Il professionista dovrà procedere alla verifica di tutta la documentazione presente all’interno dei faldoni dei Piani di Lottizzazione, alla successiva ricognizione tecnico giuridica dello stato attuativo dei predetti piani dello stato attuativo dei predetti Piani ed alla predisposizione degli atti necessari per il perfezionamento del loro iter approvativo. Nel corso dello svolgimento dei lavori, in relazione all’evoluzione degli stessi, potranno poi essere concordati tra il professionista aggiornamenti del programma di attività, sempre nei limiti dell’oggetto del disciplinare di incarico e del suo programma di lavoro generale. profilo professionale richiesto: ingegnere;
3. Perizia tecnica circa l’effettivo stato dei luoghi in cui sono custoditi i beni museali, bibliotecari e di archivio storico; la perizia dovrà anche indicare le carenze strutturale dei luoghi l’eventuale cattiva esecuzione di opere di ristrutturazione eseguite, l’individuazione e la quantificazione di opere necessarie per rendere funzionali tali opere e quantificazione di eventuali danni subiti dall’amministrazione. Profilo professionale richiesto: architetto;
4. Perizia tecnica necessaria per la quantificazione economica dei contratti di concessione e gestione dei predetti beni comprovante la sussistenza dell’equilibrio economico-finanziario della concessione e gestione di servizi relativi ai suddetti beni museali, bibliotecari e di archivio storico. Profilo professionale richiesto; dottore commercialista
”.
Secondo il Comune, si tratta di compiti volti alla realizzazione, a vantaggio dell’amministrazione, di un risultato finale e che dovranno essere svolti a prescindere da obblighi di presenza fissa; per tali ragioni, non integrerebbero né fattispecie di rapporto di lavoro dipendente né fattispecie di incarichi di studio, ricerca e consulenza.
Sulla base di tali premesse, l’Ente ritiene che le attività da affidare costituirebbero singole forniture di servizi tecnici, rientrati nell’ambito di disciplina del d.lgs. 163/2006 e non soggetti a quella dell’art. 3, commi 55 e 56, della l. 244/2007 né ai limiti di spesa di cui all’art. 6, comma 7, d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010.
Di qui la richiesta di parere circa la corretta interpretazione della normativa sopra richiamata.
...
Passando al merito della richiesta, occorre sottolineare, in via preliminare, che
il presupposto indispensabile per l’affidamento di incarichi esterni è che l’amministrazione abbia preliminarmente accertato “l’impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili al suo interno” [art. 7, comma 6, lett. b), d.lgs. 165/2001]. Il riscontro concreto di tale condizione essenziale richiede una reale ricognizione di una situazione di oggettiva ed eccezionale impossibilità -sia sul piano qualitativo che sul piano quantitativo- di far fronte alle esigenze con le risorse interne all’amministrazione, in quanto assurge a regola generale il principio dell’autosufficienza dell’organizzazione degli enti (Sezione regionale per il controllo della Toscana parere 11.05.2005 n. 6).
Di conseguenza, l’affidamento all’esterno di incarichi in difetto di tale presupposto è fonte di responsabilità per danno erariale. Al riguardo, tra le tante, si segnalano, le seguenti sentenze: sezione giurisdizionale per il Lazio, sentenza 18.11.2011 n. 1619 che ritiene insufficiente il riferimento a “notevoli difficoltà in termini di gestione ed organizzazione e sezione giurisdizionale per la Calabria, sentenza 20.08.2012 n. 240 secondo cui “il conferimento di incarichi all’esterno, in qualunque delle ipotesi sopra riportate, e consentito solo allorquando nell’ambito della dotazione organica non sia possibile reperire personale competente ad affrontare problematiche di particolare complessità o urgenza.
Va da sé, infine, che
non possono formare oggetto di conferimento all’esterno quelle attività afferenti alle funzioni essenziali dell’ente, per l’espletamento delle quali sono già destinate, all’interno dell’organigramma amministrativo, specifiche strutture e risorse (es. attività dell’ufficio tecnico, della ragioneria ecc.).
Ciò posto e ponendo mente in maniera specifica al quesito, il Comune di Ugento chiede se la normativa in tema di vincoli e limiti per il conferimento di incarichi dettata dall’art. 6, comma 7, d.l. 78/2010 e dall’art. 3, comma 55 e 56, l. 344/2007 (legge finanziaria 2007) si debba applicare o meno al conferimento delle attività che ha deciso di esternalizzare, poiché -a giudizio dell’ente- si verterebbe in un’ipotesi di appalto di servizi.
L’art. 6, comma 7, d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010, fissando un tetto finanziario all’affidamento di incarichi per studi e consulenze, sancisce espressamente che “al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni, a decorrere dall’anno 2011 la spesa annua per studi e incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell’articolo 1 della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità indipendenti, escluse le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli incarichi di studio e consulenza connessi a processi di privatizzazione ed alla regolamentazione del settore finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell’anno 2009”.
Alla stessa ratio di contenimento degli incarichi esterni si ispira anche l’art. 3, commi 55 e 56, della legge finanziaria del 2008 che, riferendosi ai contratti di collaborazione autonoma, subordinano la possibilità per l’ente di conferire gli incarichi, indipendentemente dall’oggetto della prestazione, alla ricorrenza di due condizioni: in primo luogo, la prestazione deve riguardare le “attività istituzionali stabilite dalla legge o previste nel programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’articolo 42, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267 (art. 3, comma 55, l. 344/2007). In secondo luogo, l’Ente deve dotarsi di un regolamento che fissi “in conformità con le disposizioni vigenti, i limiti, i criteri e le modalità per l’affidamento di incarichi di collaborazione autonoma, che si applicano a tutte le tipologie di prestazioni (art. 3, comma 56, l. 244/2007).
Le due norme sopra citate si riferiscono ad un’identica tipologia di contratti, raggruppabili all’interno di un’unica nozione di collaborazione autonoma che può assumere contenuto diverso (richieste di parere, consulenze legali, studi e ricerche) ma che si caratterizza, in tutti i casi, per l’elevata e qualificata professionalità richieste al consulente che agisce, nell’esplicazione dell’incarico, con la massima autonomia (cfr. Sezione Regionale di Controllo per la Liguria, parere 21.06.2011 n. 54).
Si tratta, in sostanza, di contratti aventi per oggetto prestazioni d’opera intellettuale, inquadrabili nella tipologia del contratto di lavoro autonomo di cui agli artt. 2229-2238 c.c..
In merito alla distinzione interna alla categoria delle collaborazioni autonome, le Sezioni Riunite in sede di controllo nella deliberazione 15.02.2005 n. 6 hanno chiarito che
gli incarichi di studio, di consulenza e di ricerca si distinguono per l’oggetto della prestazione dedotta in contratto, il quale non muta la propria natura giuridica, rientrando comunque nella categoria dei contratti di prestazione d’opera intellettuale.
In particolare, secondo le richiamate Sezioni Riunite, gli incarichi di studio si risolvono nello svolgimento di un’attività di studio, nell’interesse dell’amministrazione, nonché nella consegna di una relazione scritta finale in cui vengono illustrati i risultati dello studio e le soluzioni proposte. Gli incarichi di ricerca, invece, presuppongono la preventiva definizione del programma da parte dell’amministrazione. Le consulenze, infine, riguardano le richieste di pareri ad esperti.

Le stesse Sezioni Riunite hanno, poi, individuato i seguenti parametri per valutare la legittimità degli incarichi e delle consulenze esterne:
a) rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione;
b) inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
c) indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico;
d) indicazione della durata dell’incarico;
e) proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione.

Si tratta di vincoli e limiti applicabili esclusivamente ai contratti di collaborazione autonoma nei diversi contenuti sopra richiamati (studio, ricerca, consulenza), mentre rimangono estranei alla disciplina appena delineata gli appalti di servizi di cui al d.lgs. 163/2006 che hanno per oggetto la prestazione imprenditoriale di un risultato resa da soggetti con organizzazione strutturata e prodotta senza caratterizzazione personale (Sezione delle Autonomie
deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008).
Quest’ultima osservazione consente di individuare gli elementi essenziali che differenziano l’appalto di servizi dal contratto di collaborazione autonoma: nel primo, infatti, la connotazione spiccatamente personale della prestazione dovuta viene sostituita dalla stabile organizzazione imprenditoriale e dall’assunzione del rischio del debitore.
Sulla distinzione tra contratto di collaborazione autonoma e appalto di servizi questa Corte si è recentemente pronunciata con
parere 07.06.2013 n. 236 della Sezione Lombardia, ove si osserva “La consulenza nell’accezione che qui rileva (rectius la collaborazione autonoma) è assimilata al contratto d’opera intellettuale, artistica o artigiana, disciplinato dagli artt. 2222 e seguenti c.c., che è considerato una species del genus contratto di lavoro. Tale tipo negoziale ricomprende l’esecuzione di una prestazione frutto dell’elaborazione concettuale e professionale di un soggetto competente nello specifico settore di riferimento, senza vincolo di subordinazione e in condizioni di assoluta indipendenza. Nel contratto d’opera la prestazione richiesta può assumere tanto i connotati di un’obbligazione di mezzi (es. un parere, una valutazione o una stima peritale), quanto i caratteri dell’obbligazione di risultato (ad es. la realizzazione di uno spartito musicale, o di un’opera artistica di particolare pregio).
Nel contratto di appalto, l’esecutore si obbliga nei confronti del committente al compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro, con organizzazione dei mezzi necessari (di tipo imprenditoriale) e con assunzione in proprio del rischio di esecuzione della prestazione (art. 1655 c.c.).
(…..)Ne consegue che le norme in tema di appalto si palesano nelle ipotesi in cui il professionista si sia obbligato a strutturare una stabile organizzazione per l’esecuzione della prestazione, mentre la carenza di tale requisito derivante dall’unicità, dalla singolarità e puntualità dell’incarico, nonché dalla determinatezza dell’arco temporale in cui si deve svolgere la prestazione professionale, inducono a qualificare la fattispecie quale contratto di prestazione d’opera e dunque quale consulenza e/o collaborazione autonoma
”.
Sulla base di tale coordinate ermeneutiche
l’elemento discretivo tra appalto di servizi e contratto di collaborazione non è -contrariamente a quanto ritenuto dal Comune richiedente- né il conseguimento per l’amministrazione di un risultato finale mediante il conferimento dell’incarico, né la circostanza che l’attività non importa obblighi di presenza fissa in ufficio, bensì la presenza o meno, in capo all’affidatario, di un’organizzazione imprenditoriale con assunzione del rischio della prestazione oggetto del contratto.
In assenza di siffatti elementi, con conseguente rilevanza dell’elemento personalistico della prestazione intellettuale, l’incarico da affidare rientra necessariamente nella categoria degli studi, consulenze e delle collaborazioni autonome soggette alla disciplina di cui agli artt. 3, comma 55 e 56, l. 244/2007 e art. 6, comma 7, d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010, fermo restando quanto detto in via preliminare in merito all’art. 7, comma 6 e ss, d.lgs. 165/2001, ai presupposti di oggettiva impossibilità ed eccezionalità per legittimare l’affidamento all’esterno (che dovrà essere adeguatamente motivato sotto tale profilo) ed in merito alla non esternabilità delle attività rientranti tra le funzioni essenziali dell’ente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 20.03.2014 n. 63).

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro.
< > < > < >
     A seguito dell'INTERROGATIVO DELLA SETTIMANA, posto con l'AGGIORNAMENTO AL 14.05.2014, abbiamo ricevuto alcuni riscontri (per la verità, ci aspettavamo molto di più visti i numerosi contenziosi giurisdizionali che sono all'ordine del giorno ...) ma, purtroppo, non sono pertinenti per lo specifico quesito posto.
     Solamente un riscontro ricevuto, invero, ha dato risposta a quello che si voleva sapere e cioè: "
Ai sensi dell’art. 22 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, rientra nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria l'installazione di una protezione in ferro ad una finestra". La sentenza è massimata e riproposta appena qui sotto.
     Confidiamo, comunque, che qualche UTC e, soprattutto, qualche avvocato (che abbia avuto un ricorso al TAR per la fattispecie di che trattasi) possa darcene notizia per arricchire il nuovo dossier, a disposizione di tutti gli interessati.
18.05.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATAOsserva il Collegio che le opere in questione, ai sensi dell’art. 22 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, rientrano nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria, trattandosi nel primo caso dell’installazione di una protezione in ferro ad una finestra, nel secondo della sostituzione di una preesistente copertura di un solaio, senza che vi sia stato alcun aggravio urbanistico.
Ne consegue che il regime giuridico di riferimento è stato correttamente individuato sia da parte ricorrente che della resistente amministrazione in quello della denuncia di inizio di attività (assente nel caso di specie).

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 2 UT del 08/01/2013 del Comune di Capua - Settore Urbanistica, con la quale viene ordinata la demolizione delle opere realizzate in assenza di denuncia di inizio attività presso l'immobile sito in Capua alla ....
...
In data 05.05.2010 la Polizia municipale di Capua accertava che presso un immobile sito alla via ..., nella disponibilità della “... s.r.l.”, erano stati realizzati interventi edilizi in assenza di preventiva denuncia di inizio attività, specificamente l’installazione di una grata in ferro all’esterno di una finestra delle dimensioni di circa mt. 1,50 x 1,50, nonché la copertura di un preesistente solaio mediante la posa in opera di lamiere metalliche ondulate.
All’esito del contraddittorio procedimentale, il Comune di Capua, con ordinanza n. 2 U.T. dell’08.01.2013, ha ordinato la demolizione delle predette opere, rilevando come, sebbene risalenti al 1987, le stesse fossero prive di titolo abilitativo.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso a questo Tribunale la società ... s.r.l. chiedendone l’annullamento, previa concessione di idonee misure cautelari.
Parte ricorrente ha lamentato che per interventi di tipo manutentivo e conservativo, come quelli in oggetto, l’assenza della denuncia di inizio attività non può comportarne la demolizione, ma solo l’applicazione di una sanzione pecuniaria; addirittura, le opere potrebbero configurarsi tra quelle ricadenti nell’ipotesi di cui all’art. 6 del d.p.r. 06.06.2001 n, 380, per cui sarebbe stata sufficiente una mera comunicazione. Con l’ultimo motivo è stata dedotta la carenza di motivazione, di istruttoria, nonché la violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e legittimo affidamento.
...
Il ricorso è fondato.
Osserva il Collegio che le opere in questione, ai sensi dell’art. 22 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, rientrano nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria, trattandosi nel primo caso dell’installazione di una protezione in ferro ad una finestra, nel secondo della sostituzione di una preesistente copertura di un solaio, senza che vi sia stato alcun aggravio urbanistico.
Ne consegue che il regime giuridico di riferimento è stato correttamente individuato sia da parte ricorrente che della resistente amministrazione in quello della denuncia di inizio di attività, incontestabilmente assente nel caso di specie.
In tal caso, l’art. 37, primo comma, del d.p.r. 06.06.2001 n. 380 prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi, ma non la demolizione dei medesimi.
Ne discende che, in assenza di ulteriori specificazioni tali da far ricadere le opere nel regime di cui al secondo comma dell’art. 37, il provvedimento impugnato deve essere dichiarato illegittimo e di conseguenza annullato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.11.2013 n. 5280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Definizione temporanea delle categorie SOA superspecialistiche e delle categorie a qualificazione obbligatoria (DPR 207/2010) (ANCE Bergamo, circolare 16.05.2014 n. 105).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: DL 24.04.2014, n. 66. Riduzione del cuneo fiscale per lavoratori dipendenti e assimilati (INPS, circolare 12.05.2014 n. 60 - link a www.inps.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ESPROPRIAZIONE: M. L. Maddalena, L'espropriazione per pubblica utilità in Europa, alla luce della Convenzione europea dei diritti dell'uomo: esperienze nazionali a confronto (maggio 2014 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. L. Maddalena, Il punto sul danno da ritardo.
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Sommario: 1. La disciplina del danno da ritardo: dalla l. 18.06.2009, n. 69 al codice del processo amministrativo. - 2. Le prime aperture della giurisprudenza amministrativa sul danno da ritardo mero. 3. Lo stato attuale della giurisprudenza. - 3.1. La risarcibilità del danno da ritardo mero: un principio solo in parte acquisito dalla giurisprudenza. - 3.2. L’onere della prova e la possibilità di ricorrere alla liquidazione equitativa. - 3.3. Recenti orientamenti sulla possibilità di trattare la domanda risarcitoria in camera di consiglio, congiuntamente alla domanda di cui all’art. 117 c.p.a. - 3.4. La determinazione dei danni risarcibili (maggio 2014 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Deliberazioni in libertà. Il consigliere ha il potere di fare proposte. L'impatto della normativa del 2000 e della modifica statutaria.
In base alle fonti di autonomia normativa proprie dell'ente locale, è possibile prevedere in capo al singolo consigliere il potere di proposta di deliberazioni consiliari?
Ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, il funzionamento dei consigli, nel quadro dei princìpi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento che dovrà prevedere le modalità per la presentazione e la discussione delle proposte. Il successivo art. 43 stabilisce che i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio.
Nella fattispecie in esame, appare dirimente la previsione, recata del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, che stabilisce che l'iniziativa per le deliberazioni consiliari, esercitata mediante la formulazione di un testo di deliberazione, spetta alla giunta e a ciascun consigliere.
Pertanto, l'eventuale modifica statutaria prospettata, nei termini di prevedere in capo ai singoli consiglieri la possibilità di formulare proposte di deliberazioni, è in linea con il descritto quadro normativo (articolo ItaliaOggi del 09.05.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Composizione gruppi consiliari.
I gruppi consiliari devono essere composti da consiglieri eletti nelle medesime liste?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», demanda al regolamento la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, per ciò che concerne la costituzione ed il funzionamento dei gruppi consiliari, occorre far riferimento alle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato, poiché è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative.
Nella fattispecie in esame, ai sensi dello statuto comunale i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare, salvo diversa espressa e motivata determinazione di ciascun consigliere. Tale disposizione è ripetuta, nella sostanza, anche nel regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
Ai sensi della citata fonte regolamentare è previsto che «il consigliere che intende appartenere a un gruppo diverso da quello in cui è stato eletto deve darne comunicazione al presidente allegando la dichiarazione di accettazione del capo del nuovo gruppo».
Alla luce del quadro normativo sopra delineato, si ritiene che i due consiglieri eletti nella lista del sindaco non possano essere obbligati a iscriversi ad altro gruppo rispetto a quello corrispondente alla lista elettorale nella quale sono risultati eletti.
Ciò in quanto la normativa locale prevede che i consiglieri eletti nella medesima lista formino, «di regola», un gruppo consiliare e che l'opzione di passare ad altro gruppo, pur consentita in ossequio al principio costituzionale del divieto del mandato imperativo, debba essere «espressa e motivata». Inoltre, la necessità di dover acquisire l'«accettazione» da parte del capo gruppo è prevista solamente nel caso in cui un consigliere decida di abbandonare il proprio gruppo originario per passare ad altro gruppo e non nel caso in cui egli intenda permanere nel gruppo corrispondente alla lista elettorale nella quale è stato eletto. In ordine alla possibilità di formare un gruppo unipersonale, tale opzione non sembra consentita.
Dal combinato disposto dello statuto comunale e del regolamento sul funzionamento del consiglio si evince che per la costituzione di un nuovo gruppo siano necessari almeno due componenti e che la possibilità di dare vita a un gruppo unipersonale sia limitata esclusivamente all'eventualità che in una lista sia stato eletto un solo consigliere (articolo ItaliaOggi del 09.05.2014).

NEWS

TRIBUTITasi, è corsa contro il tempo per calcolare la prima rata. Quindici i giorni a disposizione per il nuovo tributo sui servizi: aliquote note dopo il 31/5.
Quindici giorni, di cui 11 lavorativi (sabati compresi).

È questo il lasso di tempo (assai breve) che contribuenti e professionisti avranno a disposizione per calcolare e versare la prima rata della Tasi, il nuovo tributo comunale sui servizi indivisibili introdotto dall'ultima legge di Stabilità. Solo dopo il 31 maggio, infatti, sarà possibile conoscere le aliquote da applicare e, per le prime case, addirittura se l'acconto sia o meno dovuto.
Per evitare errori (e le conseguenti sanzioni), occorre districarsi in un ginepraio di norme, già oggetto di due modifiche nel giro di poco più di quattro mesi. La disciplina dettata dalla legge 147/2013, infatti, è stata dapprima rivista con il dl 16/2014, il quale, a sua volta, ha subito un profondo restyling durante l'iter parlamentare di conversione.
Di fatto, le novelle hanno toccato tutti gli aspetti più rilevanti, a partire dalla tempistica dei versamenti. Mentre in precedenza, erano i comuni a dover fissare modalità e scadenze, ora tale discrezionalità è rimasta solo per la Tari (ovvero la nuova tassa rifiuti che ha preso il posto della Tares).
Per la Tasi, invece, il pagamento potrà essere effettuato o in unica soluzione entro il 16 giugno o in due rate con le stesse scadenze previste per l'Imu (16 giugno e 16 dicembre): l'acconto dovrà essere versato sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei 12 mesi dell'anno precedente, con obbligo di conguaglio in sede di saldo, sempreché la deliberazione comunale sia pubblicata sul sito del Mef entro il 28 ottobre (i comuni devono trasmetterla entro il 21 ottobre); in mancanza, si applicheranno le aliquote dell'anno prima o quelle standard.
Questi meccanismi, però, andranno a regime solo dal prossimo anno. Per il solo 2014, essendo il primo anno di applicazione del tributo, sono dettate regole diverse.
Quest'anno, sugli immobili diversi dall'abitazione principale, qualora il comune non abbia deliberato una diversa aliquota entro il 31 maggio, la prima rata andrà versata entro il 16 giugno applicando l'aliquota base (1 per mille) e il versamento della rata a saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno dovrà essere eseguito a conguaglio sulla base delle deliberazioni pubblicate entro il 28 ottobre.
Sulle prime case, invece, si pagherà tutto in un'unica rata entro il 16 dicembre, salvo il caso in cui la deliberazione del comune sia pubblicata sul sito del Mef entro il 31 maggio (trasmissione entro il 23 maggio). In questo caso, l'acconto è da versare entro il 16 giugno.
In pratica, quindi, solo dal 1° giugno si conosceranno le scelte dei sindaci e quindi sarà possibile capire: 1) se sia dovuta e in che misura la prima rata sulle prime case o se invece se ne riparlerà a fine anno; 2) se sugli altri immobili l'acconto sia da calcolare applicando l'aliquota base ovvero la diversa aliquota tempestivamente decisa da ciascun comune. Il tutto entro il 16 giugno.
Ecco i 15 giorni di cui si diceva: un termine davvero breve, anche perché, come già accaduto per l'Imu, i comuni faranno certamente scelte differenziate gli uni dagli altri, non solo in termini di aliquota, ma anche per quanto concerne agevolazioni ed esenzioni. In quelle due settimane, quindi, sarà necessario monitorare attentamente le scelte compiute da ogni amministrazione. Ecco perché i Caf hanno già lanciato l'allarme.
Infine, c'è il problema (già da più parti evidenziato) della gestione degli eventuali rimborsi da riconoscere a tutti coloro che dovessero versare un acconto in misure superiore a quella dovuta in base alle decisioni assunte dal proprio comune dopo il 16 giugno. Un'eventualità, quest'ultima, tutt'altro che remota, considerato che i sindaci hanno tempo fino a fine luglio per approvare i bilanci ed i regolamenti collegati.
Ricordiamo infine che, dopo il dl 16, la Tasi non potrà essere pagata attraverso i sistemi elettronici offerti da banche e poste, ma solo con F24 e bollettino postale centralizzato.
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Dagli immobili statali alle chiese: esenzioni sulla scia dell'Imu.
Oltre alla tempistica, il dl 16 ha rivisto anche le tipologie di immobili soggette alla Tasi. Rispetto a quanto previsto dalla legge di Stabilità, il tributo colpirà solo fabbricati e aree edificabili, non più le aree scoperte, la cui identificazione (in mancanza di una precisa definizione normativa) risultava alquanto problematica. Coerentemente, è stato abrogato anche il comma 670 della legge 147, che esentava dalla Tasi le aree scoperte pertinenziali o accessorie non operative (oltre alle aree comuni condominiali non detenute o occupate in via esclusiva): tali fattispecie, ora, sono ricomprese nella più generale esclusione che riguarda, come detto, tutti gli immobili che non siano fabbricati o aree edificabili.
Inoltre, sono espressamente esclusi tutti i terreni agricoli (anche se non collocati in comuni montani o di collina), sulla cui imponibilità ai fini Tasi in precedenza regnava una notevole incertezza. Tale esenzione dovrebbe valere anche per i terreni incolti. È ancora incerto, invece, il trattamento da riservare alle aree edificabili possedute e condotte come terreni agricoli da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali: tali immobili, che rispetto all'Imu sono equiparati ai terreni agricoli, ai fini Tasi tornerebbero a essere aree edificabili, con conseguente (notevole) aggravio del prelievo. Questa, almeno, è la tesi fin qui sostenuta dagli uffici ministeriali. Peraltro, l'art. 2 richiama, anche per le aree edificabili (oltre che per i fabbricati), la definizione prevista ai fini Imu, per cui si potrebbe anche sostenere la sopravvivenza dell'agevolazione. Stesso dubbio riguarda i fabbricati inagibili/inabitabili e quelli di interesse storico/artistico, che pagano l'Imu su una base imponibile ridotta del 50%.
Ricordiamo che la Tasi colpisce anche i fabbricati rurali strumentali (che da quest'anno, invece, sono esenti dall'Imu), ma l'aliquota massima non potrà superare l'1 per mille. Il dl 16 ha reintrodotto alcune fattispecie di esenzione previste ai fini Imu. Si tratta, innanzitutto, delle fattispecie di cui all'art. 9, comma 8, del dlgs 23/2011, ovvero degli immobili posseduti dallo Stato, nonché di quelli posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, e dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali.
In secondo luogo, sono estese alla Tasi le esenzioni previste dall'art. 7, comma 1, lett. b), c), d), e), f) ed i) del dlgs 504/1992, riguardanti i fabbricati classificati o classificabili nelle categorie catastali da E/1 a E/9, i fabbricati con destinazione a usi culturali, i fabbricati destinati esclusivamente all'esercizio del culto, i fabbricati di proprietà della Santa Sede indicati negli artt. 13, 14, 15 e 16 del Trattato lateranense, i fabbricati appartenenti agli Stati esteri e alle organizzazioni internazionali per i quali è prevista l'esenzione dall'imposta locale sul reddito dei fabbricati in base ad accordi internazionali resi esecutivi in Italia, i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e recuperati al fine di essere destinati ad attività assistenziali e gli immobili utilizzati da enti non commerciali destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali ecc.
Per quest'ultima fattispecie, la norma precisa che l'esenzione spetta limitatamente alle parti dell'immobile utilizzato per le predette attività, secondo quanto previsto dall'art. 91-bis del dl 1/2012 (articolo ItaliaOggi Sette del del 12.05.2014).

APPALTIAppalti, aggregatori numerati. Non più di 35 centrali di committenza. Via a un Fondo. Gli effetti sulla spesa pubblica del dl 66/2014: acquisti accorpati nei piccoli comuni.
Tagli alla spesa pubblica per 2,1 miliardi e riduzione delle stazioni appaltanti attraverso la centralizzazione degli acquisiti per arrivare a non più di 35 «soggetti aggregatori» della domanda pubblica di beni e servizi su tutto il territorio nazionale.

Sono alcune delle misure più rilevanti del decreto legge 66/2014 (c.d. decreto «bonus» o «Irpef» o «spending review») attualmente in discussione al senato, che prevede anche un Fondo per promuovere la costituzione di centrali di committenza e più trasparenza sulla spesa pubblica.
E che delinea un ruolo di rilievo per l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
La riduzione della spesa pubblica. Il decreto legge prevede in primo luogo di raggiungere un ambizioso obiettivo di riduzione della spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi per un valore complessivo di 2,1 miliardi per i contratti delle amministrazioni locali, regionali e statali e di 400 milioni per la spesa per la difesa. Le riduzioni incidono in maniera finanziariamente equivalente su tutti i comparti della spesa (per 700 milioni di euro annui ciascuno) e potranno attuarsi in diverse modalità.
Per i contratti stipulati (in essere) si prevede la riduzione ex lege del 5% dell'importo contrattuale, salva la rinegoziazione del contratto e la facoltà di recesso da parte del prestatore di servizi entro 30 giorni dalla data di conversione del decreto legge, senza però applicazione di penali. Al riguardo va segnalato come i tecnici del senato abbiano messo in guardia rispetto al rischio che si possano «innescare meccanismi di contenzioso, con gli affidatari da cui potrebbero derivare nuovi o maggiori oneri di spesa per le p.a. e non la neutralizzazione di parte dei risparmi attesi» .
In caso di esercizio del diritto di recesso, il decreto consente alle amministrazioni di scegliere fra l'accesso a una convenzione Consip in essere, o di affidare in via diretta contratti «nel rispetto della normativa europea e nazionale sui contratti pubblici». Va anche rilevato che per i futuri contratti in ogni caso non si potranno né superare gli importi come risultanti dalla riduzione del 5%, né quelli di riferimento stabiliti dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici. L'intervento di riduzione dell'importo dei contratti ha portata generale e tassativa e per quel che riguarda la possibilità di recesso da parte del fornitore/appaltatore, si può immaginare anche qualche rischio di malfunzionamento o di interruzione di servizi pubblici nelle more della scelta di un nuovo fornitore, laddove non vi sia immediata disponibilità presso Consip, o presso la centrale regionale del bene o servizio che si deve sostituire.
La limitazione dei centri di spesa. In Italia sono troppi i centri di spesa: partendo da questa considerazione il provvedimento di legge si muove per favorirne l'aggregazione, con l'obiettivo di ridurre a un numero ristretto di centrali di committenza le diverse migliaia di stazioni appaltanti. Lo scopo finale dovrebbe essere quello di arrivare a un efficientamento delle procedure di acquisto creando un piano nazionale coordinato del procurement. La norma si indirizza quindi sia agli enti locali, sia alle regioni, ambiti in cui è più frammentata la spesa pubblica. Per gli enti locali si stabilisce che tutti i comuni non capoluogo dovranno procedere all'acquisizione di lavori, beni e servizi nell'ambito delle unioni dei comuni, ove esistenti, oppure costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni stessi o ancora ricorrendo a un soggetto aggregatore (centrale di committenza). In alternativa si potrà procedere alla costituzione dell'unione o alla stipula di un accordo consortile, oppure effettuare gli acquisti attraverso gli strumenti elettronici gestiti da Consip o da altra centrale di committenza.
Alle regioni si chiede invece di costituire o di designare, entro fine 2014 un «soggetto aggregatore», così rendendo effettivo il contenuto dell'inapplicato articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296. Il decreto stabilisce però anche un tetto al numero massimo centrali di committenza che non potranno quindi superare il numero di 35 su tutto il territorio nazionale. Per favorire i processi di aggregazione della domanda, il decreto-legge istituisce un Fondo per l'aggregazione degli acquisiti di beni e servizi, che dovrà finanziare le attività svolte dai soggetti aggregatori; sarà poi un decreto ministeriale a definire i criteri di ripartizione delle risorse del fondo che potrà contare su 10 milioni per il 2014 e 20 per ognuno degli anni a decorrere dal 2015.
Il decreto-legge prevede inoltre che venga istituito, nell'ambito dell'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti operanti presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, l'elenco dei «soggetti aggregatori» della domanda, cioè l'elenco delle centrali di committenza (Consip e centrali regionali); sarà poi un Dpcm a stabilire i requisiti delle centrali e il livello ottimale dell'aggregazione sul territorio (articolo ItaliaOggi Sette del del 12.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Ai prezzi di riferimento ci penserà l'Autorità di vigilanza sui contratti
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici diverrà lo strumento di controllo della spending review. All'Authority di via di Ripetta spetterà, inoltre, il compito di definire i prezzi di riferimento che costituiranno anche il limite massimo di aggiudicazione degli appalti.

È quanto prevede il decreto legge 66, che delinea un ruolo di particolare rilievo per l'organismo di vigilanza sui contratti pubblici, pur in attesa dell'annunciata riforma delle autorità indipendenti che sarà varata il 13 giugno dal consiglio dei ministri.
Nel decreto legge si prevede un sostanziale rafforzamento della funzione di controllo e di supporto dell'azione del Mef che ha la regia della spending review. Per esempio, si stabilisce che in attesa della messa a punto dei «costi standardizzati» per beni e servizi (compito dell'Osservatorio dell'Autorità), la stessa Autorità, dal 01.10.2014, attraverso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp), dovrà fornire alle amministrazioni una elaborazione dei prezzi di riferimento alle condizioni di maggiore efficienza di beni e servizi scelti tra quelli di maggiore impatto in termini di costo a carico della p.a. e pubblicare sul proprio sito i prezzi unitari corrisposti dalle amministrazioni.
I prezzi di riferimento saranno poi aggiornati ogni anno e verranno utilizzati per la programmazione degli acquisiti. Non solo: essi rappresenteranno il prezzo massimo di aggiudicazione anche per le procedure affidate con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, in tutti i casi in cui non sia in essere una convenzione con Consip, o con un'altra centrale di committenza. Si prevede inoltre che ogni soggetto aggregatore trasmetta all'Autorità il Piano di interventi con l'indicazione di quanto intenderà attuare per razionalizzare gli acquisiti.
La trasparenza della spesa e la tempestività dei pagamenti. Il decreto 66 punta anche alla trasparenza della spesa, stabilendo che ogni centro di spesa pubblichi sul proprio sito istituzionale e renda accessibili anche attraverso il ricorso a un portale unico, i dati relativi alla spesa desumibili dai propri bilanci preventivi e consuntivi e «l'indicatore di tempestività di pagamenti».
Il tutto dovrà avvenire sulla base di uno schema tipo e di modalità definite con decreto del presidente del consiglio dei ministri. Va notato che questo obbligo viene qualificato come «obbligo di trasparenza» ai sensi del dlgs 33/2013: l'inadempimento verrebbe valutato ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili. Viene infine soppresso l'obbligo di pubblicare i bandi di gara sui quotidiani: tutto dovrà andare online e gli operatori economici rimborseranno alle stazioni appaltanti i costi di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (articolo ItaliaOggi Sette del del 12.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico, rendita rideterminata.
Obbligo di revisione della rendita quando l'impianto fotovoltaico incrementa del 15% il valore dell'immobile o della redditività ordinaria.

Questa la risposta fornita recentemente (30/04/2014) dall'Agenzia delle entrate a un quesito (interrogazione a risposta immediata in commissione 5-02689) presentato da Marco Causi, nell'ambito di un question-time (si veda ItaliaOggi dell'01/05/2014).
In tale sede è stato evidenziato che l'Agenzia delle entrate (circ. 36/E/2013) ha previsto la possibilità che i detti impianti possono essere inquadrati come immobili, soprattutto quelli a terra, o come beni mobili, con la necessità di stabilire un preciso coefficiente di ammortamento.
Stante l'assenza di una specifica normativa per detti beni e, soprattutto, tenendo conto che gli impianti fotovoltaici non sono contemplati dal dm 31/12/1988 (quello concernente le aliquote applicabili per determinare le quote di ammortamento fiscalmente deducibili), la stessa Agenzia ha ribadito quanto già espresso con due precedenti documenti di prassi (circ. n. 46/E/2007 e n. 36/E/2013), precisando che se l'impianto si qualifica come immobile, a parte il necessario accatastamento, l'aliquota applicabile è quella del 4%, dovendo far riferimento al settore dell'energia termoelettrica, utilizzando l'aliquota disposta per i «fabbricati destinati all'industria», mentre se i pannelli solari sono ritenuti beni mobili si rende applicabile l'aliquota del 9%, dovendo far riferimento alle «centrali termoelettriche», di cui al citato provvedimento del 1988.
Infine, l'Agenzia delle entrate ha confermato la necessità di procedere alla variazione della rendita, mediante una vera e propria dichiarazione di variazione, quando l'impianto incrementa il valore capitale o la redditività ordinaria di una percentuale pari o superiore al 15%.
Non sussiste alcun obbligo in caso di incremento inferiore a detta percentuale o qualora, in alternativa, la potenza nominale dell'impianto non risulti superiore a 3 chilowatt per ogni unità immobiliare asservita, la stessa potenza non risulti superiore a tre volte il numero delle unità immobiliari le cui parti a comune siano servite dall'impianto o il volume individuato dell'intera area destinata all'intervento e dall'altezza all'asse orizzontale, per gli impianti a terra, risulti inferiore a 150 metri cubi (lett. e, comma 3, art. 3, dm 2/1/1998 n. 28) (articolo ItaliaOggi Sette del del 12.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA - VARIProprietà, diritto rinunciabile. Operazioni soggette a imposta di donazione o di registro. Studio del Notariato sulla rinuncia: l'effetto è l'acquisto dell'immobile in capo allo stato.
Un immobile non interessa più? È troppo oneroso fiscalmente rispetto al valore? Non ha una rendita soddisfacente? Nessun problema, si può rinunciare alla proprietà e ai diritti su di esso. Si può, infatti, esercitare la rinuncia al diritto di proprietà (nonché alla quota indivisa di comproprietà) ovvero a un diritto di natura disponibile e, in quanto tale, suscettibile di rinuncia.
L'effetto è l'acquisto dell'immobile in capo allo stato ai sensi dell'art. 827 c.c..

L'argomento di attuale interesse, visto il contesto socio-economico in cui stiamo vivendo, in cui atti del genere possono risultare frequenti stante la crisi economica e la forte pressione fiscale, è stato oggetto di approfondimento da parte del consiglio nazionale del Notariato nello studio 21.03.2014 n. 216-2014-C). Sul piano fiscale l'operazione è soggetta, a seconda dei casi, all'imposta di donazione o all'imposta di registro.
L'istituto della rinuncia. Viene tradizionalmente ricostruita come negozio giuridico unilaterale mediante il quale l'autore dismette una situazione giuridica di cui è titolare. Il suo effetto essenziale è unicamente l'abdicazione da parte del soggetto della situazione giuridica. Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono anche incidere sui terzi, sono conseguenze solo riflesse del negozio rinunciativo, non direttamente ricollegabili all'intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell'atto. La rinuncia abdicativa è un negozio unilaterale non recettizio, che non richiede la conoscenza né tanto meno l'accettazione da parte di altri soggetti.
È suscettibile di rinuncia abdicativa il diritto di proprietà (artt. 882-1104 c.c.); la circostanza che per escludere la rinunciabilità in relazione alle parti comuni dell'edificio il legislatore è dovuto intervenire espressamente (art. 1118 c.c.); la disparità di trattamento che si creerebbe altrimenti rispetto ai beni mobili, dei quali è indiscutibile la possibilità di abbandono; l'espresso riferimento contenuto negli artt. 1350 e 2643 c.c.
Nei casi in cui esiste una posizione di debito occorre una espressa previsione di legge affinché il debitore possa spogliarsi del debito senza il consenso del creditore. Stante il pregiudizio che questi risente, la dichiarazione di rinuncia deve inoltre essergli portata a conoscenza (vedi art. 1236 c.c.), assumendo pertanto natura recettizia.
Gli effetti della rinuncia. L'effetto della rinuncia è l'acquisto dell'immobile in capo allo Stato ai sensi dell'art. 827 c.c. Tale articolo, infatti, stabilisce che i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato. È evidente che l'ordinamento non consente che un bene immobile possa rimanere privo di un soggetto titolare. Da ciò consegue che, a fronte della rinunzia abdicativa da parte dell'unico proprietario di un bene, certamente la proprietà dello stesso spetterà allo stato, tenendo presente che tale acquisto non avviene a titolo derivativo (considerata la natura meramente abdicativa della rinuncia), bensì a titolo originario proprio in virtù del disposto dell'art. 827 c.c.
Si tratta di un acquisto a titolo originario, che costituisce effetto solo indiretto e mediato della rinuncia, e che trova fondamento nella legge. La rinunzia alla proprietà ha natura di negozio unilaterale non recettizio, per il quale è da escludersi un potere di rifiuto da parte dello stato.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria, infatti, la rinuncia al diritto di proprietà, considerando il suo effetto meramente abdicativo, ha natura di atto non recettizio.
L'atto in questione deve avere forma scritta ed è soggetto a trascrizione ai sensi dell'art. 2643, n. 5, c.c. Quanto alle modalità di trascrizione, sembra preferibile la tesi secondo la quale la rinunzia, stante la sua natura abdicativa, debba essere trascritta unicamente contro il rinunziante.
Riguardo alla natura dell'atto, esso è unilaterale essendo diretto unicamente alla dismissione del diritto, e non produce effetti traslativi. La natura puramente abdicativa e non traslativa della rinunzia esclude la necessità di un'accettazione (d'altra parte, sembra immaginabile un atto di rifiuto da parte dello stato il cui acquisto è imposto dall'art. 827 c.c.), al fine di evitare che la proprietà immobiliare divenga nullius.
Il rinunciante. Per quanto riguarda il rinunciante, questi si limita a spogliarsi del diritto di cui è titolare senza preoccuparsi della sua afferenza attuale ad altri. Al rinunciante, cioè, non interessa la sorte del diritto di cui si sta spogliando, ma solo il fatto di privarsene. È invece l'ordinamento che si preoccupa di stabilire quale sia la sorte del diritto rinunziato e, nel caso di proprietà individuale, prevede l'acquisto dell'immobile da parte dello stato (che avviene a titolo originario).
La comproprietà e il condominio. La rinuncia, oltre alla proprietà esclusiva, può riguardare anche la quota di comproprietà. Il codice civile prevede espressamente ipotesi di rinuncia alla quota. Tra queste, in particolare, viene in rilievo la rinuncia liberatoria di cui all'art. 1104 c.c., che si caratterizza per la circostanza che alla rinuncia al diritto reale si accompagna la dismissione di una situazione debitoria.
Molto diverse sono, infatti, la fattispecie della rinuncia abdicativa e quella della rinuncia liberatoria della quota di comproprietà. La prima determina puramente e semplicemente l'abdicazione della quota di cui il soggetto è titolare, senza ulteriori effetti negoziali propri dell'atto posto in essere.
Da ciò consegue che il condomino, mentre non sarà tenuto a corrispondere le spese concernenti la cosa comune per il tempo successivo alla rinuncia in quanto egli non risulterà più essere proprietario della stessa, rimarrà tenuto all'adempimento di tutte le obbligazioni inerenti la cosa sorte fino al giorno della rinuncia. In quella liberatoria, invece, all'effetto abdicativo si accompagna, per espressa previsione del legislatore, un effetto estintivo dell'obbligazione. In questo caso, dunque, il condomino, rinunziando alla propria quota, dismette il diritto di cui è titolare al fine di liberarsi da tutte le obbligazioni inerenti la cosa, non solo per il futuro, ma anche per quelle già sorte.
Riflessi fiscali. La tassazione dell'atto è soggetta all'imposta di donazione o a quella di registro. La prima si applica alla mera rinuncia, ovvero alla rinuncia abdicativa gratuita (fatta dal rinunciante senza percepire alcun corrispettivo), oppure nel caso di rinuncia traslativa a favore di soggetto diverso dal soggetto normalmente recettizio, ma sempre gratuita. In tal caso saranno dovute le imposte ipocatastali nella misura del 3%.
L'imposta di registro si applica invece nel caso di rinuncia a titolo oneroso (con pagamento di corrispettivo al soggetto rinunciante), sia che la rinuncia vada al soggetto normalmente recettizio, che ad altri. L'aliquota sarà del 9% in caso di fabbricati o terreni non agricoli, 12% per i terreni agricoli (salvo agevolazioni prima casa). Le imposte ipocatastali saranno applicabili in misura fissa (50 euro) (articolo ItaliaOggi Sette del del 12.05.2014).

VARI: Patenti, al medico vanno funzioni burocratiche.
Chi viene pizzicato con la patente scaduta per il rinnovo dovrà esibire al sanitario una copia della multa e un documento di riconoscimento in corso di validità. E in caso di discordanza tra i dati la pratica potrà sarà seguita direttamente dalla motorizzazione in modalità tradizionale.

Lo ha evidenziato il Ministero dei trasporti con la circolare 09.04.2014 n. 8326 di prot..
Il 7 febbraio è entrata definitivamente in vigore, senza eccezioni, la nuova procedura di rinnovo contestuale della licenza di guida senza adesivi, conseguente alla modifica dell'art. 126 del codice stradale.
Con questa circolare riepilogativa il ministero dettaglia ulteriormente la novella dopo la prima nota del 3 marzo 2014. Per il rinnovo della patente i sanitari preposti, all'esito positivo della visita medica, devono trasmettere telematicamente al ministero una comunicazione con i dati, la foto e la firma del titolare della licenza di guida.
Il sistema informatico genererà una ricevuta che il medico provvederà a stampare in carta semplice e a consegnare subito all'interessato. Ma non tutti i titoli possono essere rinnovati con il nuovo sistema semplificato. Occorrerà effettuare il rinnovo tradizionale tramite la motorizzazione, per esempio, per le patenti speciali, le patenti illeggibili e quelle smarrite, sottratte e distrutte. Ma anche nel caso in cui la patente sia stata ritirata in strada dalla polizia perché scaduta e l'interessato al rinnovo esibisca al sanitario un documento di identità riportante dati anagrafici discordanti rispetto a quelli presenti nel Ced del ministero.
Prima di effettuare la visita medica la circolare consiglia di procedere ad una verifica informatica sulla fattibilità del rinnovo riscontrando anche la validità dei dati riportati nel Ced. Il sanitario dovrà fare controllare all'interessato la correttezza dei dati indicati nella ricevuta che abilita alla guida, conclude il Mit. Ma anche la correttezza dei versamenti dei diritti e delle tariffe.
In caso di errori formali sulla nuova licenza spetterà all'utente richiedere infine a sue spese un nuovo documento. Solo per gli errori di stampa provvederà al duplicato la motorizzazione senza oneri (articolo ItaliaOggi Sette del del 12.05.2014).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATACondizionatori con bonus. Detrazione anche senza lavori ma solo per i modelli con pompa di calore. Impianti. I requisiti per ottenere le agevolazioni del 50 e del 65% fino a dicembre e l'Iva agevolata.
L'installazione di un nuovo condizionatore –o la sua sostituzione– fruisce sia della detrazione del 50% per le ristrutturazioni edilizie se il nuovo impianto è a pompa di calore (e non solo per il raffreddamento) che della riduzione dell'aliquota Iva dal 20 al 10 per cento.
La detrazione del 50%, commisurata a un importo massimo di 96mila euro, infatti, sino al 31 dicembre 2014, si rende applicabile anche agli interventi di risparmio energetico, con particolare riguardo all'installazione di impianti basati sul l'impiego di fonti rinnovabili di energia e anche in assenza di opere edilizie, tra i quali rientra anche l'installazione o sostituzione del condizionatore.
L'articolo 1 della legge 449/1997, che ha introdotto dal 1998 i benefici fiscali del 36%, nell'individuare le operazioni agevolate, accanto agli interventi di recupero edilizio definiti dall'articolo 3 del Dpr 380/2001, prevede distintamente agevolate anche «le opere finalizzate al risparmio energetico di cui alla legge 09.01.1991, n. 10 e del Dpr 26.08.1993, n. 412». La circolare 57/E del 1998 precisa, poi, che le opere finalizzate al risparmio energetico possono essere realizzate anche in assenza di opere edilizie, come in genere avviene per l'installazione dei moderni condizionatori d'aria.
Ovviamente la necessità che il condizionatore sia utilizzabile anche ai fini del riscaldamento per la stagione invernale, ad integrazione o sostituzione, dell'impianto di riscaldamento autonomo o centralizzato già esistente, sicuramente fa rientrare l'intervento tra quelli idonei a conseguire un risparmio energetico. Assicurazioni in tal senso vengono dalla stessa agenzia delle Entrate che nella Guida alle agevolazioni Irpef per le ristrutturazioni edilizie (pubblicata sul sito www.agenziaentrate.gov.it) include tra gli interventi agevolati alla voce "caloriferi e condizionatori", la spesa per la «sostituzione con altri anche di diverso tipo, la riparazione o l'installazione di singoli elementi, compresa l'installazione di macchinari esterni», a condizione che si tratti di opere finalizzate al risparmio energetico.
Ma quale è l'esatta procedura per evitare il disconoscimento dello sconto Irpef? Oltre a effettuare il bonifico "parlante" normalmente richiesto per la detrazione, occorre farsi rilasciare dall'installatore una dichiarazione di conformità dell'impianto al conseguimento del risparmio energetico (da conservare per eventuali richieste di chiarimenti del fisco). Si tratta della semplice dichiarazione di conformità dell'impianto a norma di legge che in genere viene sempre rilasciata dall'installatore ad integrazione della certificazione del produttore sulle caratteristiche dell'impianto.
Per la riduzione dell'Iva, che comunque risulta tra le spese detraibili ai fini del 50%, le apparecchiature di condizionamento e riciclo dell'aria rientrano tra i beni significativi di cui al Dm 29 dicembre 1999: si applica l'aliquota Iva del 10% per le prestazioni di installazione e per l'acquisto dei materiali utilizzati diversi dai condizionatori, mentre per l'acquisto dei condizionatori l'Iva al 10% si applica solo sino a concorrenza del valore della manodopera e degli altri materiali. Per la parte eccedente di valore si applica l'Iva al 22%.
A determinate condizioni si rende applicabile, in alternativa, la detrazione del 65% (importo massimo detraibile sempre in 10 anni pari a 30mila euro) ma solo se il condizionatore sostituisce integralmente o parzialmente l'impianto di riscaldamento preesistente.
Il 65%, oltre che per gli edifici residenziali posseduti da persone fisiche, si applica anche per gli interventi eseguiti su edifici non abitativi (uffici, negozi, capannoni) e anche se posseduti da imprese e società.

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In condominio il limite è il decoro. Parti comuni. Poche possibilità di opposizione per i vicini residenti in un altro edificio.
L'installazione del condizionatore in condominio è una annosa questione che non sempre trova univoca soluzione da parte dei giudici e che va valutata di volta in volta in ragione del diverso impatto visivo che il manufatto può avere sull'aspetto architettonico dell'edificio e decisa anche secondo le regole del buon senso.
È certo però che il condòmino, prima di posizionare il proprio condizionatore all'esterno, deve darne notizia all'amministratore affinché relazioni l'assemblea, che può richiederne la rimozione: è questa la regola dettata dal nuovo articolo 1122 del Codice civile, introdotto con la riforma del condominio.
Il principio generale è che qualsiasi intervento che possa interferire con il bene comune e che sia posto al servizio esclusivo dell'unità immobiliare di un condòmino deve avvenire nel rispetto delle regole dettate dalla legge e, in particolare, del divieto di pregiudicare il decoro architettonico dell'edificio e di impedire il pari uso da parte degli altri condomini della cosa comune. Le parti comuni possono essere utilizzate da ciascun condomino anche in modo particolare e diverso dal loro uso normale, sempre che ciò non alteri l'equilibrio tra le concorrenti utilizzazioni attuali e potenziali degli altri e non determini pregiudizievoli invadenze nell'ambito dei pari diritti degli altri partecipanti al condominio.
Entro questi limiti può dunque ritenersi legittima l'installazione da parte del singolo condomino di un impianto di condizionamento sulla facciata dello stabile condominiale. Deve trattarsi però di un manufatto di piccole dimensioni che non vada a stravolgere l'armonia della facciata stessa e che magari si inserisca in essa, per colore e posizione, quasi a scomparire. I limiti sono invece superati se il condizionatore assume dimensioni spropositate rispetto alla normale accettabilità (e l'ipotesi non è purtroppo rara) perché in questo caso viene a modificarsi la destinazione tipica del bene comune. Il ragionamento resta invariato anche nel caso in cui l'impianto venga posizionato sulla facciata interna dell'edificio.
L'offesa al decoro architettonico va comunque riguardata in sé, senza riferimento a edifici contigui o, ancor meno, ad alterazioni in questi già esistenti È da escludersi anche che persone estranee al condominio possano lamentarsi per un condizionatore mal posizionato dal condomino dell'edificio magari antistante al proprio: la tutela pubblica non concorre con quella privata. Ma in presenza di un condizionatore rumoroso oppure che produca eccessive esalazioni la tutela spetta a tutti gli interessati e non solo al condòmino vicino di casa. Per la valutazione del disturbo resta caposaldo invalicabile il limite della tollerabilità del rumore o delle esalazioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2014).

EDILIZIA PRIVATADebutta a giugno l'obbligo di libretto. Certificazioni. Anche per il raffreddamento.
La novità scatta dal prossimo 1° giugno: anche i condizionatori dovranno essere dotati, così come le caldaie, di un libretto di impianto e, al di sopra di una certa potenza, saranno soggetti a verifiche periodiche e all'obbligo di trasmissione del «rapporto di controllo» dell'efficienza energetica.
La regola è introdotta da un decreto ministeriale del 10.02.2014, che a sua volta attua le disposizioni del Dpr 74/2013. Il nostro Paese ha sanato, così, una procedura di infrazione aperta dalla Ue proprio perché non erano mai state contemplate in Italia norme relative alle ispezioni sugli impianti di raffrescamento, al fine di contenerne i consumi.
Ora la legge c'è e va rispettata. Innanzitutto con la predisposizione del libretto. Si tratta di una sorta di "cartella clinica" dell'impianto, che lo segue dalla prima accensione fino a fine servizio e demolizione. Dal 1° giugno deve essere disponibile sia per gli impianti esistenti che per quelli nuovi. Per gli impianti nuovi, a predisporlo (secondo il modello aggiornato e scaricabile dal sito del Mise) è l'installatore, all'atto della messa in funzione dell'apparato. Poi tenere aggiornato il documento spetta a chi ha la responsabilità dell'impianto, cioè il singolo proprietario o, per impianti condominiali, l'amministratore o la ditta abilitata e, da questi, delegata.
Per gli impianti esistenti, in teoria dopo il 1° giugno toccherebbe al responsabile (quindi, all'utente) scaricare il nuovo modello di libretto dai pdf predisposti sul sito del Mise e trascriverne sulla prima pagina i dati identificativi dell'impianto. Tuttavia, anche secondo quanto suggerisce il Cti, è ragionevole che a compilare il libretto la prima volta sia il manutentore, alla prima occasione utile, quando l'impianto viene sottoposto a una revisione.
Tanto più che, per gli impianti di potenza superiore ai 12 kW, i controlli per la verifica di efficienza scattano di legge. La periodicità cambia a seconda della potenza: in caso di apparati standard, fino a 100 kW, si procede ogni quattro anni. Terminata l'ispezione, così come già avviene per le caldaie, il tecnico manutentore dovrà ora compilare anche il rapporto (secondo il modello dedicato ai condizionatori in vigore dal 1° giugno) e trasmetterlo, preferibilmente in via telematica, all'ente locale che tiene aggiornato il catasto (in genere, la Provincia o il Comune, a seconda di quanto stabilito con delega dalla Regione).
Nel documento, allegato in copia anche al libretto, sarà indicato il risultato dell'ispezione. Se i valori dei parametri che sono rilevati e caratterizzano l'efficienza energetica dell'impianto risultano inferiori fino al 15% rispetto a quelli misurati in fase di collaudo o primo avviamento (riportati sul libretto d'impianto), i sistemi vanno riportati alla situazione iniziale, con una tolleranza del 5% (articolo 8, comma 9, Dpr 74/2013). Altrimenti, sostituiti.
Per i controlli, come per gli impianti di riscaldamento, le verifiche sono effettuate a campione. Con relative sanzioni. Ad esempio, da 500 a 3mila euro per proprietari, conduttori, amministratori di condominio o terzi responsabili che non ottemperino ai propri obblighi
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZITetto di spesa lineare per i contratti su beni e servizi. Riduzione obbligatoria del 5% dei prezzi. Decreto Irpef. Gli effetti concreti della nuova spending review.
Il decreto legge Irpef porta delle "novità" piuttosto vecchie per gli enti locali. Il problema riguarda prima di tutto il nuovo capitolo della spending review, che in parte riporta gli enti locali ai vecchi tetti di spesa abbandonati dalla Finanziaria del 2007.
La manovra è per circa la metà incentrata sulla riduzione della spesa per servizi (360 milioni di euro). Per ottenere questa riduzione, l'articolo 8, comma 5, lettera a), offre apparentemente una facoltà, ovvero quella di ridurre gli importi dei contratti sui beni e servizi, nella misura del 5 per cento, per tutta la durata residua dei contratti. In questo quadro si conferisce la facoltà «di rinegoziare il contenuto dei contratti»: in pratica, correttamente, non si tratta di uno sconto obbligatorio, ma della possibilità di ridurre i servizi, e si fa salva la possibilità di recesso della controparte.
Alla successiva lettera b), però, si rende chiaro che la riduzione dei servizi, almeno parzialmente, non è una facoltà, ma un obbligo: gli enti locali «sono tenuti ad assicurare che gli importi e i prezzi dei contratti stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto non siano superiori a quelli derivati, o derivabili» dal taglio del 5 per cento. Il successivo comma 9 precisa che «gli atti e i contratti adottati in violazione» di queste norme «sono nulli e sono rilevanti ai fini della performance individuale e della responsabilità dirigenziale di chi li ha sottoscritti».
Ma le tutele di finanza pubblica non si fermano qui. Il decreto introduce anche delle clausole di salvaguardia di indubbia efficacia. L'articolo 47, comma 11, prevede che il ministero dell'Economia, se non ottiene il risultato desiderato con le queste misure, si trattiene direttamente i soldi attraverso i mancati riversamenti dell'Imu, con chiare conseguenze sugli equilibri di bilancio degli enti inadempienti: ai revisori, peraltro, spetta l'onere di monitorare l'operato delle amministrazioni.
Si tratta, nel complesso, di novità di non poco conto ed alcune, in linea di principio, anche condivisibili. Purtroppo, però, si ripetono alcuni vecchi errori, su cui sarà necessario fare chiarezza in sede di conversione. Due per tutti: davvero si vuole ridurre, visto che rientra nelle spese per servizi, anche quanto concordato per il ciclo integrato dei rifiuti? Questo è in assoluto contrasto con gli obiettivi di raccolta differenziata, che porterà a un aumento della spesa e non certo a una sua riduzione, e che per altro è una operazione inutile sul piano della finanza pubblica, data l'integrale copertura tramite Tari.
Ancora, davvero ha senso ridurre anche i programmi di spesa cofinanziati dal Fondo Sociale Europeo, visto che se il Comune riduce la propria quota di spesa, proporzionalmente ridimensiona anche quella comunitaria? In un Paese che si lamenta di non riuscire a sfruttare in pieno i Fondi Ue è curioso che si vadano di fatto a ridimensionare quelli dei Comuni che dimostrano di riuscire a utilizzarli.
Un'ulteriore contraddizione riguarda il "trattamento" dei tempi di pagamento. L'articolo 47, comma 9, del Dl 66/2014 dispone un aumento del 5% nei tagli agli enti che nel 2013 hanno impiegato mediamente più di 90 giorni per pagare i propri fornitori. La base di calcolo per le riduzioni, che contempla anche gli acquisti e contratti di servizio del 2013, penalizza però proprio gli enti che l'anno scorso hanno sfruttato di più le anticipazioni sblocca-debiti. Anche qui il Parlamento dovrebbe intervenire, ma i tempi sono strettissimi (tutti i dati vanno comunicati entro il 31 maggio) e un ulteriore cambio delle regole in corsa finirebbe per aumentare ancora il caos applicativo
 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2014).

LAVORI PUBBLICIOpere pubbliche. Censimento, niente risorse ai lavori senza dati.
La Ragioneria generale dello Stato rende effettivi gli obblighi di invio dei dati riguardanti gli investimenti pubblici, tracciati mediante il Cup.
La
circolare 08.04.2014 n. 14 (si veda Il Sole 24 Ore del 6 maggio) attiva i sistemi definiti dal Dlgs 229/2011 per il monitoraggio delle opere pubbliche finanziate da risorse pubbliche e individuate mediante l'acquisizione, da parte delle amministrazioni realizzatrici, del codice unico di progetto.
I soggetti aggiudicatori sono tenuti a detenere e alimentare un sistema gestionale informatizzato contenente le informazioni anagrafiche, finanziarie, fisiche e procedurali relative alla pianificazione e programmazione delle opere e dei relativi interventi, nonché all'affidamento e allo stato di attuazione di tali opere.
La comunicazione delle informazioni alla banca dati gestita dal Mef deve essere effettuata secondo lo schema definito dal Dm del 26.02.2013 (successivamente modificato) e costituisce presupposto per l'erogazione dei finanziamenti pubblici (in particolar modo di quelli statali).
Oggetto della rilevazione sono le opere pubbliche, in corso di progettazione o realizzazione a partire dalla data del 21.02.2012, fatta eccezione per le opere di manutenzione ordinaria: per queste opere le amministrazioni e i soggetti aggiudicatori rendono disponibili alla banca dati le informazioni essenziali, secondo un quadro di scadenze chiarito dalla circolare.
Dal 5 maggio le amministrazioni devono inserire nelle per l'acquisizione del Cig o in quelle di aggiudicazione anche il Cup, qualora non sia stato richiesto (l'Avcp renderà disponibile una specifica funzionalità entro lo stesso mese). Inoltre provvedono ad aggiornare le informazioni relative al Cup nel sistema Dipe, ad esempio chiudendo il codice se l'opera è conclusa. Dalla stessa data, tuttavia, l'adempimento più rilevante si concretizza nell'obbligo di riportare sistematicamente il Cup nelle operazioni di pagamento tracciate con il Siope.
Analogamente, le amministrazioni devono utilizzare il Cup e il correlato Cig in tutti quei sistemi di rilevazione che prevedono l'inserimento del codice relativo agli investimenti (es. piattaforma rilevazione crediti, fatturazione elettronica, ecc.).
Da settembre 2014 le amministrazioni possono accedere alle informazioni della banca dati relative alle opere che le riguardano, potendo quindi controllare la completezza e l'esattezza delle informazioni.
Una volta verificate le informazioni, le amministrazioni riversano nella banca dati solo quelle non riportate in altri sistemi di rilevazione (ad esempio quelli dell'Avcp).
Il primo invio dovrà essere effettuato tra il 30 settembre e il 31.10.2014, mentre a regime dal 2015 gli invii avranno cadenza trimestrale.
Il Cup e il Cig costituiscono le informazioni rilevanti per assicurare l'univocità dell'invio e il raccordo tra i vari sistemi informativi, che consentono alle amministrazioni e ai soggetti aggiudicatori di inviare al Mef solamente i dati richiesti dal decreto ministeriale non inviati o non presenti nelle banche dati Avcp e Dipe: ad esempio, se l'informazione relativa al campo «importo Sal» è presente nella Banca dati dell'Avcp non deve essere trasmessa nuovamente alla Bdap, a condizione che al Cig di pertinenza sia correttamente associato il Cup dell'opera cui il contratto si riferisce.
Il Cig e il Cup assumono rilevanza anche nelle fatture elettroniche relative agli appalti, obbligatorie dal 31.03.2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti, fattura elettronica modello Ue. Adempimenti. La direttiva 2014/55/EU impone la standardizzazione dei contenuti.
Fattura elettronica europea con contenuto vincolato negli appalti pubblici ed estensione della particolare modalità di certificazione dei corrispettivi non solo per le pubbliche amministrazioni ma per tutte le stazioni appaltanti o i concessionari.

Sono, queste, due importanti novità contenute nella Direttiva Europea 2014/55/EU pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea in data 6 maggio, con entrata in vigore il prossimo 26 maggio.
In particolare, la direttiva impone la standardizzazione del contenuto della fattura e consente un utilizzo limitato a livello europeo di formati diversi. Questo approccio è dovuto al fatto che attualmente esistono regole e previsioni diverse in ogni Stato membro, regole che non consentono una piena utilizzabilità della fattura elettronica a livello di Ue.
La direttiva sul piano oggettivo interviene, infatti, sul modello semantico, ossia sul linguaggio da utilizzare per descrivere gli elementi da inserire in fattura e sul relativo contenuto che sarà unico e obbligatorio in tutta l'Unione e sul modello sintattico, ossia sul formato elettronico da adottare che, invece, sarà limitato ad alcuni specifici formati. A questo scopo, prevede l'implementazione di uno standard per la parte "core" della fattura e misure a favore dell'interoperabilità dei formati di emissione adottati.
In particolare, il testo affida al Cen (Comitato europeo di normazione), organismo tecnico di standardizzazione europea, di individuare, tra i numerosi formati presenti sul mercato una lista di formati che siano compatibili con lo standard semantico comune. I destinatari della fattura (Pa, enti aggiudicatori, altri soggetti assimilati) non potranno, quindi, rifiutare le fatture elettroniche conformi allo standard semantico europeo e ai formati tecnici identificati dal Cen e approvati dalla Commissione.
La presente direttiva non impedisce agli Stati membri di disporre che nel contesto degli appalti pubblici siano presente unicamente fatture elettroniche, precisando che se il mittente sceglie di presentare la fattura secondo la norma europea sulla fatturazione elettronica il destinatario ha l'obbligo di riceverla ed elaborarla se conforme ad uno degli standard pubblicati dalla Commissione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea.
Sul piano soggettivo la direttiva prevede che nell'ambito di contratti pubblici aggiudicati ai sensi delle nuove direttive europee sugli appalti pubblici e sulle concessioni l'utilizzo della fattura elettronica è soggetto di norma al preventivo accordo tra le parti e a differenza del caso Italia, in cui il Dm 55 del 03.04.2013 ha già previsto l'obbligo delle fatture elettroniche, i soggetti interessati non saranno esclusivamente le Pa ma tutti i soggetti aggiudicatori, incluse le imprese pubbliche ed enti concedenti
I tempi per l'entrata in vigore della direttiva sono i seguenti:
- entro il 27.11.2018 deve essere recepita dalla normativa nazionale;
- entro 18 mesi dall'adozione e pubblicazione sulla Gu europea del riferimento allo standard si applica l'articolo 7 che introduce l'obbligo di accettare le fatture conformi allo stesso;
- è possibile una deroga di ulteriori 30 mesi per le pubbliche amministrazioni Locali
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAcquisti a firma digitale. Da lunedì sarà l'unica procedura consentita. CONSIP/ Addio al fax per semplificare e ridurre i costi amministrativi.
Da lunedì prossimo, 12 maggio, gli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione sulla piattaforma di e-procurement Mef/Consip potranno essere effettuate solo da utenti in possesso di firma digitale con l'obiettivo di realizzare vantaggi in termini di semplificazione e minori costi amministrativi per la pubblica amministrazione e imprese.
«Un ulteriore passo avanti verso la digitalizzazione degli acquisti pubblici e la smaterializzazione delle relative procedure: è questo», si legge in una nota, «il senso della novità che partirà da lunedì prossimo, 12 maggio, sulla piattaforma di e-procurement Mef/Consip, quando tutte le attività di negoziazione potranno essere effettuate solo da utenti in possesso di firma digitale, eliminando così la possibilità di inviare ordinativi di fornitura con firma autografa e via fax». «Oltre a rendere più rapido e trasparente il processo d'acquisto», spiega la nota, «questo nuovo regime contribuirà a ridurre i costi di transazione sostenuti dalle amministrazioni.
L'uso della firma digitale sia da parte delle amministrazioni che delle imprese abilitate era già previsto per una serie di strumenti di acquisto quali il Mercato elettronico della pubblica amministrazione (Mepa), gli Accordi quadro e il Sistema dinamico di acquisizione in cui il processo di acquisto si svolge totalmente per via elettronica. Solo il sistema delle convenzioni
», ricorda la nota, «consentiva ancora l'uso del fax, in luogo dell'acquisto on-line, alle amministrazioni prive di firma digitale. A partire dal 12 maggio, tale possibilità verrà meno e il fornitore sarà tenuto a dare seguito esclusivamente agli ordini ricevuti online con firma digitale».
La Consip «ha comunque provveduto nei mesi scorsi a informare e a sensibilizzare le amministrazioni utenti del Programma di razionalizzazione della spesa ancora prive della firma digitale sulla necessità di dotarsi dell'apposito kit e di modificare il proprio profilo di utenza sul sistema».
Per quanto riguarda le imprese, invece, nella pratica non cambia nulla in quanto esse hanno già l'obbligo del possesso della firma digitale per gli altri adempimenti previsti dalle norme vigenti. Questo ulteriore step fa seguito all'avvio, nel mese di febbraio 2014, del servizio di fatturazione elettronica messo a disposizione delle piccole e medie imprese abilitate al Mepa.
Con tale servizio viene offerto supporto ad amministrazioni e imprese nel processo di adozione della fattura elettronica, che dal 06.06.2014 diventerà obbligatoria come documento di pagamento nei confronti di ministeri, agenzie fiscali ed enti nazionali di previdenza. Sia il passaggio all'obbligo di utilizzo della firma digitale per gli acquisti, sia l'adozione della fatturazione elettronica rappresentano importanti step verso la modernizzazione e una maggiore trasparenza e semplificazione dei processi d'acquisto della pubblica amministrazione, anche nell'ottica della realizzazione degli obiettivi dell'Agenda digitale italiana» (articolo ItaliaOggi del 10.05.2014).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Acquisti pubblici solo con firma digitale. Consip. Da lunedì passo avanti nella digitalizzazione sulla piattaforma di e-procurement del ministero dell'Economia.
Basta fax. E soprattutto porte aperte alla trasparenza.
Saranno questi alcuni dei principali effetti della nuova fase di "digitalizzazione" degli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione sulla piattaforma di e-procurement della Consip, la società del ministero dell'Economia che, anche sulla base del recente decreto Irpef del Governo, sta diventando sempre più un riferimento obbligato nel pianeta delle forniture.
Da lunedì 12 maggio tutte le attività di negoziazione potranno essere effettuate solo da utenti in possesso di firma digitale. Una procedura molto più snella e veloce che oltre a produrre vantaggi in termini di semplificazione dovrebbe anche consentire una riduzione dei costi amministrativi a carico delle imprese e della stessa Pa.
Si tratta di «un ulteriore passo avanti verso la digitalizzazione degli acquisti pubblici e la smaterializzazione delle relative procedure», sottolinea Consip.
Il ricorso alla firma digitale da parte delle amministrazioni e delle imprese abilitate era già previsto per gran parte degli strumenti di acquisto legati al "flusso" delle forniture: dal Mercato elettronico della pubblica amministrazione (Mepa) agli accordi quadro e al sistema dinamico di acquisizione collegato a una procedura esclusivamente elettronica. Di questa "gamma" fino ad oggi non faceva parte soltanto il sistema delle convenzioni nell'ambito del quale era ancora possibile il ricorso al fax per le amministrazioni prive di firma digitale. Ma da lunedì per tutti gli ordini dovrà tassativamente scattare la procedura on-line. Consip ha già provveduto a informare le amministrazioni interessate. Per le imprese cambia poco visto che le aziende devono già obbligatoriamente essere in possesso della firma digitale, anche se con la nuova procedura obbligatoria sarà più semplice ricevere e gestire gli ordini.
La firma digitale a 360 gradi si va ad affiancare al servizio di fatturazione elettronica messo a disposizione dal febbraio scorso delle Pmi abilitate al Mercato elettronico della Pa. Fatturazione elettronica che dal prossimo 6 giugno diventerà obbligatoria come documento di pagamento nei confronti di Ministeri, agenzie fiscali ed enti nazionali di previdenza. Secondo Consip «sia il passaggio all'obbligo di utilizzo della firma digitale per gli acquisti, sia l'adozione della fatturazione elettronica rappresentano importanti step verso la modernizzazione e una maggiore trasparenza e semplificazione dei processi d'acquisto della Pa»
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2014).

CONDOMINIO: Manutenzione agli inquilini, parti elettriche al proprietario. Il documento di Confedilizia e dei sindacati di settore sulla ripartizione delle spese.
Illuminazione comune, citofoni, allarmi e strumenti di video sorveglianza allestiti a spese del proprietario di casa. Non, però, la manutenzione, che grava sulle spalle dell'affittuario. E lo stipendio del portiere (così come l'indennità sostitutiva dell'alloggio e la cura ordinaria della guardiola), va suddiviso tra chi dà l'immobile in locazione (che ne versa il 10%) e chi lo prende (il restante 90%).

Arriva il «lifting», a 15 anni dalla precedente versione della tabella che specifica l'esatta ripartizione di oneri e accessori fra chi possiede un'abitazione e chi ne diventa inquilino. A realizzare il documento, le parti in causa datoriali e sindacali, ossia la Confedilizia e le sigle Sunia, Sicet e Uniat, consapevoli della necessità di aggiornare lo schema ai frutti dell'innovazione tecnologica, quali, per esempio, il cablaggio dei condomini, i sistemi di controllo video e le antenne satellitari.
Partendo dall'ascensore, si precisa che la manutenzione ordinaria e le piccole riparazioni spettano al conduttore, così come il consumo di energia elettrica per la forza motrice e l'illuminazione, le ispezioni ed i collaudi, ma a saldare per l'installazione e la manutenzione straordinaria degli impianti e l'adeguamento alle nuove disposizioni di legge dev'essere il locatore. Quanto all'autoclave (la pompa che fa arrivare l'acqua nei bagni e nelle cucine), collocarla e, eventualmente, sostituirla del tutto, o in parte, insieme alle imposte e alle tasse di impianto è a carico di chi possiede il bene immobile, mentre la manutenzione ordinaria, la forza motrice, il ricarico della pressione del serbatoio, le ispezioni, i collaudi e la lettura dei contatori sono costi in capo all'affittuario.
Il medesimo principio (installazione sostenuta finanziariamente dal proprietario, manutenzione ordinaria che spetta all'inquilino) vige, poi, per le luci comuni, suonerie, allarmi, citofoni e meccanismi di video sorveglianza, così come per le strutture sportive, laddove le quote per gli addetti, il consumo di acqua per la pulizia e depurazione, l'acquisto di materiale per la manutenzione ordinaria toccano al conduttore.
«È stata decisa», commenta Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia, «una rigorosa delimitazione degli ambiti di spesa» e per le voci non previste si rinvia «alle norme di legge e agli usi locali». «Obiettivo comune», dicono i sindacati, «è ridurre il contenzioso e la morosità, visto che il 30% degli inquilini paga in ritardo» (articolo ItaliaOggi del 09.05.2014).

APPALTITempi di pagamento ai raggi X. I dati 2013 vanno inviati entro il 31 maggio prossimo. Un decreto e una circolare del Viminale. Informazioni anche sugli acquisti centralizzati.
Si sblocca finalmente l'impasse sul censimento per i tempi medi di pagamento effettuati lo scorso anno e il valore degli acquisti centralizzati cui sono chiamati gli enti locali. Nella giornata di ieri, il Mininterno ha infatti diffuso sia il testo del decreto ministeriale di approvazione del modello di rilevazione che una circolare esplicativa sulle relative modalità di trasmissione.
A partire da oggi ed entro le ore 24,00 del 31 maggio prossimo, pertanto, tutte le province e i comuni dovranno infatti trasmettere, in forma esclusivamente telematica, il modello approvato. In caso di omessa trasmissione, agli enti inadempienti verrà applicata la sanzione consistente nell'incremento del dieci per cento dei risparmi da versare.
Come noto, il dl 66/2014 ha imposto anche a province e comuni di contenere le spese per l'acquisto di beni e servizi (oltre che per auto blu e consulenze). Come contropartita, gli enti di area vasta dovranno versare allo Stato 340 milioni per il 2014 e 510 milioni per ciascuno degli anni dal 2015 al 2017. Per i sindaci, invece, i risparmi attesi si traducono in nuovi tagli del fondo di solidarietà, che valgono, rispettivamente, 360 e 540 milioni. In mancanza di diverso accordo in Conferenza Stato-città (da sancire entro il 15 giugno per il 2014 ed entro il 28 febbraio per gli anni successivi), il riparto verrà effettuato su base proporzionale in relazione alla spesa media sostenuta da ciascun ente nell'ultimo triennio per i beni e i servizi indicati nell'allegato A del dl. Ulteriori penalizzazioni sono previste per le amministrazioni che, nell'ultimo anno, hanno fatto registrare tempi medi di pagamento relativi a transazioni commerciali superiori a 90 giorni rispetto a quanto disposto dal dlgs 231/2002 e acquisti centralizzati, in misura inferiore al valore mediano di comparto. Per gli enti che risulteranno fuori linea, la riduzione sarà incrementata di un ulteriore 5% per ciascuno dei due parametri di riferimento. Questi ultimi saranno calcolati dal Ministero dell'interno sulla base dei dati che le amministrazioni dovranno fornire entro il prossimo 31 maggio (28 febbraio per i prossimi anni) con la certificazione in esame.
Sulla scorta di questa normazione, la Direzione centrale della finanza locale ha precisato, con la circolare n. 8/2014, che sono tenuti alla trasmissione del modello tutte le province e tutti i comuni, inclusi quelli che nel corso di quest'anno si sono costituiti a seguito di fusione. In questo caso, gli enti dovranno riportare nella certificazione i dati determinati dalla sommatoria di quelli provenienti dai bilancio 2013 dei singoli comuni facenti parte della fusione. L'adempimento relativo all'inoltro telematico scatta da oggi e sino al termine (perentorio) delle ore 24,00 del 31 maggio prossimo.
Attraverso l'uso delle credenziali già in uso dai singoli enti per la trasmissione dei dati afferenti i bilanci, le amministrazioni chiamate troveranno un modello precompilato per quanto riguarda la sezione anagrafica, dovendo solo inserire i dati relativi al tempo medio dei pagamenti effettuati nel 2013 e il valore degli acquisti delle oltre 20 categorie di beni e servizi indicati nell'allegato B del dl n. 66/2014 sostenuti nell'anno precedente, con particolare evidenza di quelli effettuati mediante ricorso agli strumenti di acquisto tramite Consip o le centrali di committenza regionale. Il tutto, confermato dall'apposizione delle firme digitali richieste che, espressamente per questa certificazione, prevedono per legge la firma del rappresentante legale dell'ente. Occorrerà, pertanto, prestare particolare attenzione prima di inviare il documento telematico. Infatti, è necessario verificare che il soggetto rappresentante dell'ente sia già censito nell'area riservata del sito internet del Viminale. Infine, la circolare ricorda, come fatto altre volte per la trasmissione dei dati relativi alle certificazioni sui bilanci di previsione o sui consuntivi, che non saranno tenuti in considerazione e pertanto ritenuti inadempienti, gli enti che invieranno il modello di rilevazione in forma diversa da quella telematica.
Tuttavia, le istruzioni del Viminale non sciolgono ancora alcuni dubbi. Ad esempio, per data di pagamento s'intenderà quella del mandato o quella della quietanza? Si dovrà tenere conto anche dei ritardati pagamenti dovuti a cause non imputabili agli enti (come assenza o irregolarità del Durc, verifiche presso Equitalia non andate a buon fine, contestazioni verso i fornitori)? Tutti punti che vanno chiariti il prima possibile per consentire agli uffici di iniziare a lavorare e rispettare il termine di legge. Per i comuni, poi, c'è un'ulteriore incognita legata all'art. 22 del dl 66, che ha imposto di limitare l'ambito dell'esenzione Imu per i terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina.
Da tale misura è atteso un maggior gettito complessivo annuo non inferiore a 350 milioni, con contestuale riduzione di pari importo del Fsc. Come sottolineato dall'Anci, tale previsione desta forti preoccupazioni per l'ulteriore instabilità che induce nel sistema di determinazione delle risorse comunali. Anche qui, pertanto, è necessario che il decreto attuativo sia adottato il prima possibile (articolo ItaliaOggi del 09.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLavoro pubblico messo a dieta. In pensione volontariamente. Altrimenti lo farà la p.a.. I calcoli da effettuare e le norme da tenere in considerazione dopo la circolare Madia.
Lavoro pubblico a dieta. Gli esuberi vanno lasciati a casa, in pensione oppure in disponibilità (la cassa integrazione del settore pubblico). Il primo caso, tutto sommato, è un'agevolazione: i lavoratori infatti possono mettersi in pensione volontariamente, altrimenti lo farà la p.a. (è un obbligo), in base ai requisiti vigenti prima della riforma Fornero (come succede agli «esodati» del settore privato). Opportunità, questa, che può essere colta solo dai lavoratori in esubero che riescono a ottenere la pensione entro il 31.12.2016 (vecchia finestra inclusa). Ma anche il secondo caso non è da meno: se non è possibile il prepensionamento, volontario o meno, l'unica alternativa è la messa in disponibilità che comporta la sospensione del rapporto di lavoro e la riduzione dello stipendio all'80%.

Lo prevede, tra l'altro, la circolare 28.04.2014 n. 4/2014 del ministro per la p.a., Maria Anna Madia, sui piani di razionalizzazione e di riduzione della spesa del personale (si veda ItaliaOggi del 7 maggio).
Il prepensionamento
Il «prepensionamento dei lavoratori pubblici in esubero» è figlio della spending review di cui al dl n. 95/2012. Nel prevedere la riduzione degli organici nelle p.a, il decreto ha stabilito che per il personale in esubero possano continuare a valere i vecchi requisiti per la pensione (età e contributi), ossia quelli in vigore prima della riforma Fornero (dl n. 201/2011, in vigore dal 01.01.2012). La deroga, in particolare, può essere applicata ai dipendenti che soddisfino due condizioni:
1) risultino in esubero nelle rispettive dotazioni organiche;
2) ottengano la «decorrenza» della pensione in base ai vecchi requisiti di pensione (si vedano tabelle in pagine) entro il 31.12.2016.
Per l'applicazione della seconda condizione la Funzione pubblica, d'accordo con il ministero del lavoro, con quello dell'economia e con l'Inps, ha diramato le istruzioni con la circolare n. 3/2013 (su ItaliaOggi del 30.07.2013); l'unica novità è il termine entro cui deve avvenire la decorrenza della pensione che, in un primo tempo fissato al 31.12.2014, è stato esteso poi al 31.12.2016 dal dl n. 101/2013.
La circolare n. 4/2014 illustra ora le modalità di applicazione dei principi di razionalizzazione e riduzione della spesa di personale, indicando tra l'altro i limiti entro cui è ammesso il ricorso al prepensionamento e alla messa in disponibilità.
Chi è in «esubero»
Il lavoratore è in esubero se «nominativamente» individuato dalla p.a. cui appartiene come un «soprannumerario» o un «eccedentario». Si ha «soprannumerarietà» se il personale in servizio supera la dotazione organica in tutte le qualifiche, categorie o aree; in tal caso dunque, la p.a. non ha alcun posto vacante per l'eventuale riconversione del personale o per una sua diversa distribuzione dei posti. Si ha «eccedenza» invece se il personale in servizio supera la dotazione organica solo in alcune qualifiche, categorie o aree; quindi la p.a. ha dei posti disponibili per i quali potrebbe riconvertire il personale.
In pensione o in disponibilità
Il principio è chiaro: il personale in esubero va lasciato a casa. A tal fine la p.a. utilizza i due strumenti: prepensionamento e messa in disponibilità. La procedura è questa, una volta che ci sia la presenza di personale soprannumerario o in eccedenza:
1) il dirigente responsabile ne dà informativa ai sindacati (Rsu) per assicurare obiettività e trasparenza all'operazione;
2) trascorsi 30 giorni dall'avvio dell'esame, in assenza di criteri e modalità condivisi, la p.a. procede alla dichiarazione di esubero (cioè all'individuazione nominativa de lavoratori in più) e di messa in mobilità (include prepensionamento e collocazione in disponibilità). La messa in mobilità, in particolare, avviene prima di tutto attraverso il prepensionamento, volontario o d'ufficio previa ricognizione dei lavoratori in possesso dei requisiti per la pensione (la p.a. può rivolgersi all'Inps). In subordine la p.a. verifica la ricollocazione totale o parziale del personale in esubero, anche con ricorso a forme flessibili di orario di lavoro o di rapporti di lavoro;
3) trascorsi 90 giorni dall'informativa ai sindacati, se il prepensionamento non è bastato per azzerare gli esuberi, la p.a. procede infine alla collocazione in disponibilità: i lavoratori sono esonerati dal lavoro in cambio della riduzione di stipendio e indennità integrativa speciale alla misura dell'80%. Si resta a casa, intascando uno stipendio ridotto e attendendo la pensione (i periodi di «disponibilità» sono utili sia al diritto che alla misura della pensione) (articolo ItaliaOggi del 09.05.2014).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Appalti. Semplificazione. Per la regolarità contributiva verifica online.
Il documento unico di regolarità contributiva (Durc), anche a seguito del "decreto lavoro", malgrado la sua dematerializzazione, non modifica gli obblighi da parte del committente di appalto di lavori privati.
Il comma 1, dell'articolo 4, del Dl 34/2014 dopo le modifiche apportate al testo originario, ha risolto solo in parte la problematica in esame. Il nuovo testo stabilisce che «chiunque vi abbia interesse, compresa la medesima impresa, verifica, con modalità esclusivamente telematiche ed in tempo reale, la regolarità contributiva nel confronti dell'Inps, dell'Inail e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del settore dell'edilizia, nei confronti delle Casse edili».
Negli appalti edili conferiti dal committente privato a una impresa esecutrice, l'articolo 90 del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) stabilisce che questi, anche in caso di affidamento dei lavori ad una unica impresa o ad un lavoratore autonomo, verifica la loro idoneità professionale, con modalità di cui all'allegato XVII. Nei cantieri la cui entità presunta è inferiore a 200 uomini-giorno (esempio: inferiore a 5 lavoratori per 40 giorni) e i cui lavori non comportino rischi particolari (elencati nell'allegato XI), le dichiarazioni relative all'organico, alle posizioni contributive e contrattuali, possono essere soddisfatte mediante il Durc.
Lo stesso committente, prima dell'inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività, deve trasmettere all'amministrazione concedente, oltre la copia della notifica preliminare, anche il Durc delle imprese e dei lavoratori autonomi da impiegare. Obblighi a carico del committente che sono stati nel tempo modificati per gli appalti pubblici, ma non per quelli privati.
L'articolo 31 del Dl 69/2013 (decreto "del fare"), ha ribadito che la stazione appaltante e gli enti aggiudicatori acquisiscono d'ufficio il documento in questione, fermo restando, evidentemente, che negli appalti privati dovrà essere necessariamente l'impresa appaltatrice od il lavoratore autonomo a richiederlo all'Istituto o alla cassa edile seppure con modalità esclusivamente telematiche. Né, viceversa, sarebbe possibile al committente privato chiedere il Durc direttamente all'istituto o cassa edile in quanto il documento in questione, secondo quanto stabilito dalla legge 196/2003, è sottoposto alla privacy.
Resta comunque invariata la validità del Durc telematico per un periodo di 120 giorni dalla data della "interrogazione", secondo i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità di verifica che saranno stabiliti con apposito decreto ministeriale. Tale durata, per gli appalti privati, salvo ulteriori modifiche, opera fino al 31.12.2014 (articolo 31, comma 8-sexies, Dl 69/2013)
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIAppalti di lavori, meno vincoli. Partecipazione ed esecuzione, stop a quote equivalenti. La novità è contenuta nelle modifiche apportate al decreto legge sul Piano casa.
Meno vincoli nei raggruppamenti temporanei di imprese per gli appalti pubblici di lavori e più libertà nella fase esecutiva del contratto, con la soppressione anche per i lavori dell'equivalenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione; introdotto per servizi e forniture l'obbligo di requisiti minimi per i concorrenti raggruppati (40% per la capogruppo e 10% per le mandanti), oggi non previsto.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore interesse degli emendamenti al decreto-legge «casa» (il decreto 28.03.2014, n. 47), approvati martedì sera dalle commissioni ottava a tredicesima riunite del Senato.
Le novità sono contenute nell'emendamento 12100 proposto dai relatori Stefano Esposito e Franco Mirabelli, che ridisegna la disciplina dei requisiti da documentare in caso di operatori economici che si presentano in raggruppamento temporaneo, o in consorzio.
In primo luogo si abroga il comma 13 dell'articolo 37 del codice dei contratti pubblici che, soltanto per il settore dei lavori, oggi prevede che i concorrenti riuniti in raggruppamento, siano essi di natura «orizzontale» (ogni soggetto fa una quota di tutte le prestazioni) o «verticale» (ognuno fa una o più attività nella sua interezza), devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento stesso. Nell'agosto del 2012, per il settore delle forniture e dei servizi, tale vincolo era stato soppresso lasciando quindi i concorrenti liberi di modificare in sede di esecuzione del contratto la quota di attività dichiarate per ognuno di essi nella fase di offerta, ovviamente con il vincolo della necessaria qualificazione.
Per i lavori l'obbligo di corrispondenza era rimasto, ma con l'emendamento approvato martedì verrebbe abrogato. L'emendamento dei relatori interviene poi sul regolamento del Codice dei contratti pubblici toccando l'art. 92 che ad oggi disciplina si applica soltanto agli lavori. Il testo della disposizione regolamentare, relativa ai raggruppamenti di natura orizzontale, viene riformulato rendendolo innanzitutto valido per i contratti di forniture e di servizi, così introducendo anche in questi settori l'obbligo di requisiti minimi per ogni partecipante al raggruppamento (e anche per i consorzi ordinari).
In particolare la mandataria o capogruppo del raggruppamento temporaneo (e una delle imprese consorziate, in caso di consorzio ordinario) dovrà possedere almeno il 40% dei requisiti previsti dal bando di gara, mentre le mandanti (e le altre consorziate) dovranno documentare il possesso di almeno il 10% dei requisiti. Si prevede inoltre il principio generale per cui le quote di partecipazione al raggruppamento o consorzio, indicate in sede di offerta, possono essere liberamente stabilite entro i limiti consentiti dai requisiti di qualificazione posseduti dall'associato o dal consorziato, logica conseguenza dell'abrogazione del comma 13 dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici. La disposizione replica poi la prescrizione oggi vigente per cui la mandataria in ogni caso assume, in sede di offerta, i requisiti in misura percentuale superiore rispetto a ciascuna delle mandanti con riferimento alla specifica gara.
Per la fase di esecuzione del contratto si stabilisce che «i lavori sono eseguiti dai concorrenti riuniti secondo le quote indicate in sede di offerta, fatta salva la facoltà di modifica delle stesse, previa autorizzazione della stazione appaltante che ne verifica la compatibilità con i requisiti di qualificazione posseduti dalle imprese interessate». L'emendamento approvato dovrebbe quindi determinare l'applicazione a tutti i settori (lavori, forniture e servizi) delle nuove regole dettate nel novellato articolo 92 del dpr 207/2010.
Per quel che riguarda invece i settori disciplinati –sulla stessa materia dei raggruppamenti– da norme speciali, come ad esempio per l'ingegneria e per l'architettura (articolo 261, comma 7 del dpr 207 sui raggruppamenti di progettisti) si dovrebbe ritenere che prevalgano rispetto alle disposizioni di cui all'articolo 92 (articolo ItaliaOggi dell'08.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARecupero rifiuti semplificato. Materie prime secondarie, comunicazione alla provincia. È quanto prevede il decreto in materia ambientale in arrivo sul tavolo del governo.
Semplificazioni in arrivo per il recupero dei rifiuti. Le cosiddette materie prime secondarie («Mps») potranno essere prodotte utilizzando le nuove norme tecniche di matrice comunitaria sul recupero dei rifiuti meglio note come «end of waste». E questo dietro semplice comunicazione alla provincia territorialmente competente (in luogo dell'ordinaria e più pesante autorizzazione) rispettando comunque, oltre ai criteri tecnici propri, anche precisi e ulteriori parametri.

Lo prevede lo schema di decreto legge ambientale atteso all'esame del consiglio dei ministri di domani (si veda ItaliaOggi di ieri).
Produzione di Mps tra norme tecniche e burocrazia
Attualmente, lo ricordiamo, dal punto di vista tecnico-giuridico la «cessazione della qualifica di rifiuto» dei residui (ossia la loro riabilitazione a ordinari beni, nella veste di «materie prime secondarie») è sancita solo dal rispetto delle condizioni dettate dai singoli regolamenti comunitari sull'«end of waste» (ad oggi esistenti per rame, vetro, ferro, acciaio e alluminio) adottati in attuazione della direttiva madre 2008/98/Ce sui rifiuti e (ove compatibili con le prime) da quelli previsti dall'articolo 188-ter del dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice ambientale»).
E in relazione a questi ultimi il «Codice ambientale», nel delegare a nuovi decreti ministeriali la determinazione dei criteri tecnici da rispettare per l'«end of waste» di determinate tipologie di rifiuti (ad oggi adottati solo per i combustibili solidi secondari mediante il dm Ambiente 22/2013), fa salva (nelle more) l'applicazione delle condizioni stabilite da alcuni «vecchi» decreti ministeriali, ossia: il dm 05.02.1998 per il recupero semplificato rifiuti non pericolosi; il dm 161/2002 per i pericolosi; il dm 269/2005 per i rifiuti da navi, il dl 172/2008 sulle materie prime secondarie.
Dal punto di vista burocratico, invece, tutte le attività legate al recupero soggiaciono alle norme nazionali dettate dal solo dlgs 152/2006, che prevede un duplice regime autorizzatorio: quello «ordinario» fondato sul permesso rilasciato dalla regione per la realizzazione dell'impianto e lo svolgimento dell'attività di gestione dei rifiuti; quello «semplificato» che permette invece (fermo restando il rispetto della normativa, anche ambientale, sugli impianti) di effettuare le operazioni di trattamento trascorsi 90 giorni dalla relativa comunicazione alla provincia territorialmente competente, a condizione che si rispettino i citati e vetusti decreti nazionali.
Nuovo recupero semplificato
Intervenendo su tale variegato scenario, il decreto d'urgenza allo studio del governo crea un raccordo proprio tra le nuove norme tecniche sull'«end of waste» e le regole burocratiche ex dlgs 152/2006, stabilendo che le attività di trattamento dei rifiuti effettuate in base alle prime possono essere ben condotte in regime autorizzatorio semplificato a condizione che vengano rispettati requisiti (quantitativi e qualitativi) criteri e prescrizioni (soggettivi e oggettivi) indicati dai citati «vecchi» decreti ministeriali, con particolare riferimento a: quantità e qualità dei rifiuti da trattare; condizioni di svolgimento delle attività; prescrizioni per la protezione dell'uomo e dell'ambiente; destinazione dei rifiuti che cessano di essere tali agli utilizzi individuati.
Ma così prevedendo, con tale ultimo punto il dl in corso di approvazione rischia di vanificare proprio la vera innovazione introdotta dalle nuove regole sull'«end of waste», innovazione consistente nel fissare in un momento ben preciso del processo di recupero il passaggio dei residui da «rifiuti» a «beni» (in genere coincidente con la cessione delle Mps all'utilizzatore successivo) e lasciando ancora in capo ai soggetti che li processano l'onere di provare il loro effettivo reimpiego (articolo ItaliaOggi dell'08.05.2014).

ENTI LOCAI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., al via i prepensionamenti. Interessato personale in esubero di enti centrali e locali. Circolare della Funzione pubblica. Potenzialmente coinvolti oltre 10 mila dipendenti.
Prepensionamenti, la Funzione pubblica apre la strada.

Con la circolare 28.04.2014 n. 4/2014, la titolare di Palazzo Vidoni fornisce alle amministrazioni pubbliche uno strumento operativo per attivare i pensionamenti anticipati come strumento principale della riduzione dei costi del personale e della riorganizzazione, in attesa della «staffetta generazionale» adombrata nei 44 punti nei quali si articola la proposta di riforma complessiva della pubblica amministrazione.
Il «prepensionamento» nella p.a., precisa il ministro Madia, non può essere utilizzato come strumento per eludere la disciplina generale riformata col dl 201/2011, convertito in legge 214/2011. È, invece, attualmente uno dei mezzi principali per riassorbire le eccedenze di personale derivanti dalla riduzione delle dotazioni organiche, oppure dalla redazione di piani di ristrutturazione dovuti ragioni funzionali o finanziarie, dai quali scaturisce la conseguenza di una riduzione della spesa di personale.
La circolare, allo scopo di chiarire la fattispecie, stabilisce che per «prepensionamento» si intende la «risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro del personale in soprannumero o eccedentario nelle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, individuato in esubero, per il quale è prevista l'ultrattività (fino al 31.12.2016)» del trattamento pensionistico antecedente alla riforma Fornero del 2011.
Esiste, dunque, una relazione stretta tra il pensionamento anticipato e la condizione di «esubero», cioè l'individuazione nominativa del personale che, per effetto dei tagli alle dotazioni organiche dovuti alle riorganizzazioni, risulti in soprannumero (nell'ente vi è un numero di dipendenti maggiore della dotazione organica in tutti i profili e qualifiche) o in eccedenza (nell'ente vi sono eccedenze di personale solo in alcune aree e qualifiche e possibilità di riconversioni professionali).
Secondo Palazzo Vidoni, il prepensionamento in ordine di priorità deve coinvolgere proprio il personale in esubero; in seconda battuta, laddove non sia possibile la quiescenza anticipata, il personale in esubero va messo in «disponibilità» ai sensi dell'articolo 33 del dlgs 165/2001: quell'istituto, simile alla cassa integrazione, che sospende il rapporto di lavoro per 24 mesi, assegnando ai dipendenti una retribuzione tra il 70 e l'80% di quella spettante.
La circolare ricorda i presupposti e le procedure per giungere all'individuazione di situazioni di soprannumero o di eccedenze di personale, definiti dall'articolo 33 del dlgs 165/2001 e dall'articolo 2, comma 11, del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012. In particolare, al di là delle procedure formali e dell'informazione e consultazione con i sindacati, Palazzo Vidoni ricorda che gli strumenti di interruzione del rapporto di lavoro, prepensionamenti o messa in disponibilità, debbono essere preceduti dal tentativo di ricollocare il personale all'interno dell'ente o anche, attraverso la mobilità, verso altre amministrazioni.
Dunque, il prepensionamento scatta quando non siano possibili azioni di ricollocazione del personale, applicando il citato articolo 2, comma 11, del dl 95/2012.
Nei confronti del personale che risulti potenzialmente dotato dei requisiti per il prepensionamento, le amministrazioni debbono chiedere all'Inps la certificazione del diritto a pensione e della relativa decorrenza, rilasciata entro 30 giorni, col contestuale impegno a richiedere, nello stesso termine, agli Enti la certificazione dei periodi mancanti qualora la posizione assicurativa risultasse incompleta. Una volta acquista la certificazione Inps l'amministrazione potrà procedere, nei limiti del soprannumero, alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro
La circolare ricorda che è, comunque, necessario per le amministrazioni fissare preventivamente e motivatamente la tempistica di assorbimento delle eccedenze: da essa, infatti, potrebbe desumersi sufficiente il ricorso al pensionamento ordinario del personale avente i requisiti, scelta da preferire sempre rispetto al prepensionamento, che deve essere utilizzato solo con accorgimenti organizzativi tali da assicurare risparmi e non maggiori costi.
Per questo, Palazzo Vidoni indica alle amministrazioni di fornire agli organi di controllo interno le informazioni sulle misure adottate, insieme con una certificazione di conformità ai vincoli previsti dalla normativa vigente e agli obiettivi di riduzione di spesa perseguiti, come illustrati nella circolare. Tale certificazione dovrà essere firmata dal vertice amministrativo o dal dirigente responsabile in ragione dell'assetto organizzativo dell'ente, e trasmessa all'Inps per la liquidazione dei prepensionamenti (articolo ItaliaOggi del 07.05.2014).

APPALTIFatture a tinte Ue. Iter elettronico per tutti dal 2018. APPALTI/ La direttiva pubblicata ieri in Gazzetta.
Entro il 2018 in tutta Europa i contratti di appalto saranno oggetto di fatturazione elettronica.

È quanto stabilisce la direttiva 2014/55/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, pubblicata sulla gazzetta europea di ieri, relativa alla fatturazione elettronica negli appalti pubblici.
La piena attuazione della direttiva passerà anche per la definizione di una norma tecnica da parte dell'organo di formazione europeo competente. Il testo, composto di 14 articoli, si applica alle fatture elettroniche emesse a seguito dell'esecuzione di contratti a cui si applicano la direttiva 2009/81/CE aggiudicazione appalti settori difesa e sicurezza, e le nuove direttive su appalti pubblici e concessioni, nei confronti dei soli aggiudicatari dei contratti.
Se tuttavia, ai sensi dell'articolo 71 della direttiva 2014/24/Ue e dell'articolo 88 della direttiva 2014/25/Ue, gli stati membri provvedono a pagamenti diretti ai subappaltatori, gli accordi da definire per i documenti di gara dovrebbero comprendere disposizioni che definiscano se debba essere usata o meno la fatturazione elettronica relativamente ai pagamenti ai subappaltatori. La direttiva non si applica alle fatture elettroniche emesse a seguito dell'esecuzione di contratti dichiarate segreti o accompagnati da speciali misure di sicurezza.
L'articolo 6 della direttiva specifica quali siano gli elementi essenziali di una fattura elettronica: identificatori di processo e della fattura; periodo di fatturazione; informazioni relative al venditore; informazioni relative all'acquirente; e) informazioni relative al beneficiario; informazioni relative al rappresentante fiscale del venditore.
L'articolo 7 specifica le modalità di ricezione ed elaborazione delle fatture elettroniche. Entro 18 mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea dei riferimenti della norma europea sulla fatturazione elettronica predisposti dall'organo di formazione europeo, gli stati membri dovranno adottare, pubblicare e applicare le disposizioni necessarie per conformarsi all'obbligo di ricevere ed elaborare le fatture elettroniche. Il recepimento vero e proprio della direttiva dovrà invece avvenire entro novembre 2018 (articolo ItaliaOggi del 07.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA- URBANISTICAAree a scomputo dribblano le tasse. Cessioni, studio del Notariato.
Cessione aree a scomputo degli oneri di urbanizzazione a zero tasse. L'atto deve essere considerato a titolo «gratuito» e, ai fini delle imposte sui trasferimenti e di donazione, lo stesso beneficia dell'esenzione.

Il Consiglio nazionale del notariato, con lo studio 03.04.2014 n. 248-2014-T, è intervenuto sull'inquadramento giuridico, e il conseguente trattamento tributario, della cessione di aree a favore di un ente pubblico, il quale, come contropartita, non richiede al cedente alcun contributo di urbanizzazione.
Tale indicazione dottrinaria si è resa necessaria dopo l'entrata in vigore delle disposizioni, di cui all'art. 10, dlgs. 23/2011 (Federalismo municipale) che, a partire dal 1° gennaio scorso, hanno soppresso tutte le agevolazioni e tutte le esenzioni di natura tributaria, con particolare riferimento a quelle applicabili ai trasferimenti immobiliari.
Preliminarmente, la commissione del notariato ha dovuto inquadrare giuridicamente l'atto, se a titolo oneroso o gratuito, ricordando che un recente documento di prassi delle Entrate (circ. 2/E/2014) ha evidenziato che le agevolazioni, di cui all'art. 32, dpr 601/1973 (registro in misura fissa ed esenzione da ipo-catastali) non trovano più applicazione con espresso riferimento ai trasferimenti a titolo oneroso, per effetto dell'entrata in vigore delle disposizioni, di cui all'art. 10, del dlgs 23/2011.
Per il notariato, comunque, la cessione di un'area (spesso aree destinate a parcheggio) a scomputo degli oneri di urbanizzazione deve ritenersi un atto «essenzialmente» a titolo gratuito, giacché le parti non pongono in essere un vero e proprio regolamento di interessi, limitandosi a instaurare un «segmento negoziale» neutrale.
A sostegno di tale tesi, la Suprema Corte (Cassazione, sentenza n. 1366/1999) che ritiene la convenzione di lottizzazione una fattispecie contrattuale di natura pubblicistica finalizzata a realizzare gli scopi istituzionali dell'ente, la dottrina, che ritiene la convenzione di lottizzazione un contratto non a prestazioni corrispettive e, infine, la normativa (art. 28, legge 1150/1942) che definisce la detta cessione come «gratuita».
Posto quanto indicato, per il notariato restano applicabili, ai fini del trattamento tributario, le esenzioni per gli atti a titolo gratuito, come indicato in precedenza, di cui all'art. 32, dpr 601/1973, non rendendosi applicabile la disciplina riguardante l'imposta sulle donazioni e successioni, nonostante il recente intervento a cura del dl 262/2006, dovendosi applicare il principio giurisprudenziale (Cassazione nn. 5223/2008 e 14179/2007) secondo cui, tra due regole, deve essere applicata quella che evidenzia una maggiore aderenza alle caratteristiche dell'operazione in esecuzione.
In effetti, la norma speciale, contenuta nell'art. 32, dpr 601/1973, che non pare assolutamente cancellata per gli atti a titolo gratuiti, non resta abrogata da una norma di portata generale come quella prescritta per la tassazione degli atti gratuiti, di cui al dl 262/2006, per effetto del principio secondo il quale una legge generale posteriore non può derogare una legge speciale anteriore (articolo ItaliaOggi del 07.05.2014).

INCARICHI PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO«Basta affidare i progetti all'interno della Pa». Zambrano: spazio ai professionisti Più concorsi e più paletti alle imprese. Appalti. Le proposte della Rete professioni tecniche (ingegneri, architetti e altri 7 ordini).
Sono 20 anni, dall'approvazione della prima legge Merloni nel 1994, che il settore dei lavori pubblici discute della norma, anacronistica e ipocrita, che impone alle Pa di affidare prioritariamente ai propri dipendenti la progettazione degli interventi, consentendo invece l'affidamento "esterno" dei servizi a liberi professionisti o società di ingegneria solo dopo aver dimostrato la carenza di organico di personale tecnico o le difficoltà di rispettare i tempi della programmazione o ancora che si tratti di opere di speciale complessità o rilevanza architettonica o ambientale o di progetti integrati.
È una norma emblematica di un ordinamento che contrappone amministrazione pubblica e mercato, condannando i lavori pubblici in Italia a un progressivo declino, incapaci di darsi un assetto normativo e organizzativo adeguato ai tempi e rispettoso del criterio della competenza. Non a caso il documento sulla riforma degli appalti che la Rete delle professioni tecniche (Rpt), proporrà domani a Roma parte proprio dall'abolizione di questa norma che, in epoca di spending review, è anche un ostacolo alla ridefinizione del perimetro delle attività della Pa.
«È paradossale -dice Armando Zambrano, presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri e coordinatore della Rete delle professioni tecniche- che l'amministrazione chieda ai liberi professionisti requisiti severissimi di fatturato, competenze, lavori svolti, dipendenti, licenze e poi affidi prioritariamente incarichi al proprio interno a qualcuno che non ha nessuno di questi requisiti». Della Rpt fanno parte, oltre agli ingegneri, architetti, chimici, dottori agronomi e forestali, geologi, geometri, periti agrari, periti industriali, tecnologi alimentari, in rappresentanza di oltre 600mila professionisti.
«Aprire il mercato dei lavori pubblici» è il primo obiettivo del documento Rpt che piomba nel pieno della discussione per la riforma del nuovo codice dei lavori pubblici, rilanciata dall'attuale governo e trainata dall'obbligo di recepimento delle nuove direttive Ue su appalti e concessioni. Anzitutto, dice Rpt, «occorre rimuovere le regole attuali che impediscono l'accesso alle gare ai professionisti giovani e ai meno giovani che non siano in possesso di strutture professionali di notevoli dimensioni, con un numero notevole di dipendenti e con rilevanti fatturati». Un mercato dei lavori pubblici più largo, meno settario, più professionale: anche i professionisti pensano che questo sia il momento da non farsi sfuggire per un cambiamento profondo.
E, a questo proposito, torna anche la proposta legislativa, a lungo sostenuta dal settimanale del Sole 24 Ore «Edilizia e territorio», di un rilancio del concorso di idee e di progettazione quali strumenti per far vincere in gara il contenuto della proposta progettuale anziché l'identikit del progettista o il costo della progettazione e dare spazio così anche ai giovani professionisti. Strumenti che consentono un dibattito pubblico sulla trasformazione dei territori e più trasparenza, a patto che anche le commissioni aggiudicatarie siano riformate -come propone la Rpt- puntando su «giurie miste individuate dalla stazione appaltante in collaborazione con gli ordini professionali a seguito di pubblico sorteggio».
La volontà unanime dei professionisti tecnici di rilanciare la centralità della progettazione nel processo di produzione dell'opera pubblica -progettazione che, viceversa, continua ad avere oggi un ruolo marginale rispetto a quello dei lavori- nel documento di Rpt appare chiara anche dalle alte proposte avanzate per la riforma del codice dei contratti pubblici. Il fondo rotativo per il finanziamento della progettazione, un'altra invenzione dell'era della legge Merloni, ora viene rilanciato per dare le possibilità, soprattutto ai comuni grandi e piccoli, di rompere il circolo vizioso che oggi, come allora, paralizza sul piano finanziario la macchina degli appalti: senza progetto non si accede ai finanziamenti per le opere, ma le piccole amministrazione non hanno risorse per finanziare autonomamente il progetto che dovrebbe trovare i fondi nello stanziamento dell'opera. Con l'aggravante, oggi, che a rafforzare la paralisi finanziaria c'è il patto di stabilità interno.
Un altro tema di attualità è quello dell'appalto integrato che mette insieme nella stessa gara progettista e appaltatore di lavori. Nato negli anni '90 per tentare questa integrazione sotto il controllo stretto del costruttore, questa figura di appalto è tornata di attualità negli ultimi 5-6 anni con minori squilibri nel rapporto impresa-progettista e con maggiore attenzione da parte di molte imprese al ruolo del progetto.
Passi avanti che sono però, secondo il mondo delle professioni tecniche, del tutto insufficienti, al punto che si chiede di mettere alcuni paletti legislativi per «regolamentare in modo più chiaro ed efficace ruoli e diritti del professionista negli appalti integrati». A partire dal pagamento del professionista che dovrebbe esser assicurato sempre direttamente dalla stazione appaltante per evitare contenziosi e garantire più tutele al progettista
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAOpere di urbanizzazione, restano le agevolazioni. Fisco e immobili. Lo studio del Notariato.
Imposta di registro fissa ed esenzione dalle imposte ipotecaria e catastale per gli atti di cessione "gratuita" di aree e di opere di urbanizzazione effettuati, a favore del Comune, a scomputo dei contributi di urbanizzazione o in esecuzione di convenzioni di lottizzazione; e ciò, nonostante che l'articolo 10, comma 4, dlgs. 23/2011 (in vigore dal 01.01.2014), abbia disposto che «sono soppresse tutte le esenzioni e le agevolazioni tributarie» in relazione agli atti a titolo oneroso aventi a oggetto il trasferimento di beni immobili.
È quanto sostenuto dal Consiglio nazionale del notariato nello
studio 03.04.2014 n. 248-2014-T e diffuso ieri.
Ai sensi dell'articolo 16, comma 1, Dpr 380/2001, n. 380, «il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione». Il versamento della quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione può essere sostituita (a seguito di un accordo in tal senso stipulato con il Comune) dalla realizzazione diretta, da parte dell'interessato, delle opere di urbanizzazione, che poi vengono cedute «gratuitamente» (nel senso: senza corrispettivo monetario) al Comune e pertanto acquisite al suo «patrimonio indisponibile» (articolo 16, comma 2, Dpr 380). Si pensi al caso dell'impresa costruttrice che edifica una scuola a scomputo degli oneri di urbanizzazione e che poi, appunto, ne trasferisce la proprietà al Comune.
Va sottolineato che la cessione gratuita di un'opera non rappresenta (se il cedente è un soggetto Iva che agisce nell'esercizio della propria attività) una operazione rilevante ai fini Iva (articolo 51, legge 342/2000): non potendosi ravvisare, nella corresponsione del contributo concessorio "in natura", una controprestazione rispetto al rilascio della concessione, la mancanza di corrispettività determina la fuoriuscita di questa fattispecie dal perimetro applicativo dell'Iva (Risoluzione n. 6/E del 2003; Circolare n. 207/E del 2000; Risoluzione n. 363292 del 1978).
Si applica in ogni caso (cioè sia se il cedente è un soggetto Iva, sia se non lo è) l'imposta di registro. Ma è da capire se l'imposta di registro sia, o meno, quella propria degli atti "a titolo oneroso" (di cui all'articolo 1 della Tariffa parte prima, allegata al dpr 131/1986) e cioè quella da applicarsi in misura proporzionale con aliquota del 9 per cento: se si concludesse in tal senso, sarebbe infatti inevitabile incorrere nella falcidia dei trattamenti di beneficio disposta dal predetto articolo 10, comma 4, Dlgs. 23/2011, in quanto, fino al 31.12.2013, si applicava, in questi casi, l'articolo 32, dpr 601/1973, che dettava l'esenzione da imposte ipotecaria e catastale e l'applicazione dell'imposta di registro in misura fissa.
Nonostante manchi, nel caso di queste cessioni al Comune, la corresponsione di un prezzo da parte dell'ente cessionario, si tratta pur sempre di una cessione che non è "gratuita", a dispetto del suo nome, ma che è da qualificare come "prestazione imposta", perché collocata in un più ampio procedimento amministrativo finalizzato alla realizzazione dell'intervento edilizio per il quale si rendono dovuti i contributi concessori, i quali possono dunque essere oggetto di scomputo mediante appunto la cessione di aree o di opere di urbanizzazione. Nel caso di queste cessioni gratuite pare non potersi parlare tecnicamente di atti a titolo oneroso, concetto che presuppone una prestazione e una controprestazione.
Nemmeno può essere in campo l'imposta di donazione: è vero che nelle cessioni gratuite in questione non c'è corrispettivo, ma è pure vero che la categoria degli "atti a titolo gratuito" cui l'imposta di donazione deve essere applicata non può certo ricomprendere le cessioni a scomputo di oneri di urbanizzazione, per essere appunto queste cessioni una porzione di un procedimento teso a sostituire una prestazione pecuniaria con una "in natura", al fine di pagare gli oneri conseguenti ad attività di edificazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCensiti i vincitori dei concorsi p.a.. Comunicazioni online entro il 23/5.
Entro il prossimo 23 maggio, le amministrazioni pubbliche dovranno inviare telematicamente al dipartimento della funzione pubblica, i dati relativi al numero dei vincitori e a quello degli idonei collocati in graduatorie vigenti finalizzate all'assunzione a tempo indeterminato.

È quanto prescrive la nota 05.05.2014 n. 24663 di prot. di palazzo Vidoni diffusa ieri, in ossequio alle disposizioni contenute all'articolo 4, comma 5, del decreto legge n. 101 del 2013.
Come noto, il governo Letta, nel prorogare sino a tutto il 31 dicembre del prossimo anno la validità delle graduatorie per assunzioni a tempo indeterminato nella p.a. (vigenti alla data del 31/8/2013), ha altresì posto un ulteriore tassello per meglio delineare i contorni della vasta platea di soggetti che, molto spesso da anni, pur risultando vincitori o idonei in graduatorie definitive, non sono riusciti ad entrare nel mondo del lavoro pubblico a causa delle ben note restrizioni in termini di turnover.
Con la norma sopra richiamata quindi si prevede che la funzione pubblica, al fine di individuare quantitativamente i vincitori e gli idonei collocati in graduatorie concorsuali vigenti per assunzioni a tempo indeterminato, avrebbe dovuto avviare entro il 30 settembre dello scorso anno, un apposito monitoraggio telematico. Pertanto, con un ritardo effettivo sulla tabella di marcia di ben otto mesi, il dicastero oggi guidato da Marianna Madia ha dato il via libera alla rilevazione prevista dal decreto legge n. 101 dello scorso agosto. Tutto lascerebbe supporre che questo possa essere il primo passo verso quello snellimento generazionale dell'universo della pubblica amministrazione che l'esecutivo Renzi intende perseguire a testa bassa, come testimonia la lettera ai dipendenti pubblici diramata pochi giorni fa.
Pertanto, tutte le amministrazioni pubbliche dovranno collegarsi all'indirizzo http://concorsiripam.formez.it/ e accedere al sistema di rilevazione predisposto dalla funzione pubblica con la collaborazione di Formez P.a., per fornire le informazioni richieste. Le amministrazioni dovranno trasmettere i dati richiesti entro e non oltre il prossimo 23 maggio. Successivamente, i risultati del monitoraggio saranno raccolti ed evidenziati in un'apposita sezione del sito della Funzione pubblica (articolo ItaliaOggi del 06.05.2014).

PATRIMONIO: Demanio. La p.a. risparmia sugli affitti.
Un applicativo per consentire alle amministrazioni di risparmiare sugli affitti. Si chiama «Paloma» ed è la piattaforma predisposta dall'Agenzia del demanio per adempiere alle prescrizioni del «decreto spending» (dl 66/2014).

Il sistema, già attivo dall'anno scorso, consentirà alle amministrazioni statali di svolgere direttamente le proprie indagini di mercato, accedendo ad un unico database che raccoglie sia gli immobili di proprietà pubblica che quelli di soggetti privati, selezionando i più funzionali alle esigenze degli enti nel rispetto del parametro metro quadro/addetto previsto dalla legge. Le p.a. dovranno effettuare le loro ricerche prioritariamente fra quelli di proprietà pubblica e, successivamente, tra quelli offerti in locazione o in vendita da soggetti privati.
Ad oggi sono 130 gli immobili caricati sulla piattaforma che punta a favorire l'incontro tra domanda e offerta dei beni disponibili sul mercato. Il database sarà costantemente aggiornato, con l'inserimento di immobili di proprietà di soggetti privati e con gli immobili statali liberi o in via di rilascio (articolo ItaliaOggi del 06.05.2014).

ATTI AMMINISTRATIVIAmministrazioni lumaca, doppia tutela alle aziende.
Doppia tutela per le imprese. L'amministrazione paga il ritardo nella risposta alle istanze presentate e deve, comunque, adottare l'atto amministrativo. L'ente pubblico non può, infatti, monetizzare il suo inadempimento.

È quanto chiarisce l'Assonime con la circolare 02.05.2014 n. 14, che illustra l'art. 28 del dl 69/2013.
La norma ha previsto un indennizzo (massimo 2 mila euro) per le imprese se la p.a. sfora i tempi massimi di conclusione di un procedimento. La misura ha carattere sperimentale e non riguarda i privati cittadini. Ma l'iter per ottenere l'indennizzo ha numerose insidie: una su tutte è quella che obbliga a chiedere l'indennizzo entro 20 giorni dalla scadenza del termine per concludere il procedimento.
Dia e Scia - L'indennizzo da ritardo non può essere chiesto per Dia e Scia e questo perché la legge esclude che, in questi casi, la p.a. debba concludere il procedimento con un provvedimento espresso.
Importo - Il ritardo costa alla p.a. 30 euro per ogni giorno successivo alla data di scadenza del termine procedimentale. C'è anche un tetto massimo: la somma pagata all'impresa non può essere complessivamente superiore a 2 mila euro.
Iter - Innanzitutto bisogna dimostrare l'interesse alla conclusione del procedimento. Per questa ragione l'impresa deve attivare il potere sostitutivo e cioè deve chiedere che un superiore del funzionario competente si sostituisca e adotti il provvedimento finale. Altrimenti si perde il diritto all'indennizzo. L'attivazione del potere sostitutivo deve essere fatta entro 20 giorni dalla scadenza del termine procedimentale. L'interessato deve rivolgersi al titolare del potere sostituivo richiedendo l'emanazione del provvedimento non adottato e, contestualmente, il pagamento dell'indennizzo dovuto.
Il termine per la presentazione della domanda di indennizzo, ricorda la circolare in commento, è perentorio. L'indennizzo è pagato se e soltanto se il provvedimento amministrativo non viene adottato neanche dal titolare del potere sostitutivo entro il termine ad esso assegnato. Peraltro quando il titolare del potere sostitutivo non emana il provvedimento entro il termine previsto dalla legge, l'impresa non avrà necessità di reiterare la domanda di indennizzo, perché lo stesso sarà liquidato d'ufficio.
Risarcimento del danno - Il pagamento dell'indennizzo non fa venir meno l'obbligo di concludere l'iter amministrativo. La richiesta di indennizzo da ritardo si cumula con la possibilità di azione di risarcimento del danno (articolo ItaliaOggi del 06.05.2014).

LAVORI PUBBLICIOpere pubbliche, la Via entro 90 giorni.
Novanta giorni per la valutazione di impatto ambientale di progetti di opere pubbliche; consultazione pubblica garantita anche con accesso su portale internet; rimodulata la procedura e previste norme per evitare conflitti di interesse.

Sono questi alcuni degli elementi di maggiore interesse contenuti nella direttiva 2014/52/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la direttiva 2011/92/Ue concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, che è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Ue del 25.04.2014.
La direttiva dovrà essere recepita nel nostro ordinamento entro il 16.05.2017, fermo restando che i progetti relativi ad interventi già sottoposti a Via rimarranno regolati dalla precedente direttiva 2011/92. Il provvedimento incide su diversi aspetti della direttiva del 2011, ma fondamentalmente ha lo scopo di rendere più effettiva la trasparenza della procedura di valutazione di impatto ambientale, aggiornandone i contenuti e coordinando le previsioni vigenti rispetto alle altre normative settoriali intervenute nel frattempo.
Importante la ridefinizione della procedura, articolata nelle seguenti fasi endoprocedimentali: la preparazione di un rapporto di valutazione dell'impatto ambientale da parte del committente (che deve fare capo, dice la direttiva, ad «esperti competenti»); lo svolgimento delle consultazioni pubbliche; l'esame da parte del soggetto decisore delle informazioni presentate nel rapporto di valutazione dell'impatto ambientale, delle eventuali altre informazioni supplementari e dei dati desumibili dalla consultazione pubblica; infine, la conclusione motivata dell'autorità competente in merito agli effetti significativi del progetto sull'ambiente. Un punto importante è quello sui conflitti di interesse: si stabilisce che se l'autorità competente coincide con il committente, gli Stati membri (nel recepire la direttiva) provvedono almeno a separare in maniera appropriata, nell'ambito della propria organizzazione delle competenze amministrative, le funzioni confliggenti in relazione all'assolvimento dei compiti derivanti dalla direttiva.
Per quel che riguarda l'informativa al pubblico (al quale occorre consentire di prepararsi e di partecipare efficacemente al processo decisionale), la direttiva prescrive che sia garantita mediante affissione «entro un certo raggio, o mediante pubblicazione nei giornali locali»; si prevede inoltre che la consultazione del pubblico interessato (anche per la valutazione dell'eventuale impatto transfrontaliero di un progetto) avvenga per iscritto, o tramite indagine pubblica. Si dovrà poi fare in modo che le informazioni siano accessibili elettronicamente al pubblico, «almeno attraverso un portale centrale, o punti di accesso facilmente accessibili, al livello amministrativo adeguato».
Per quel che riguarda i tempi, la direttiva stabilisce che l'autorità competente adotti la propria determinazione, entro e non oltre 90 giorni dalla data in cui il committente abbia presentato tutte le informazioni necessarie. In casi eccezionali, relative ad esempio alla natura, la complessità, l'ubicazione o le dimensioni del progetto, l'autorità competente può prorogare tale termine (articolo ItaliaOggi del 06.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIOpere pubbliche, al via il controllo sulle incompiute. Investimenti. Prima verifica sui dati.
Parte, con calma, il monitoraggio del grado di avanzamento raggiunto dalle opere pubbliche, previsto da fine 2011 (Dlgs 229/2011) ma rimasto ancora inattuato.
Ieri la Ragioneria generale ha diffuso la
circolare 08.04.2014 n. 14 che avvia la «fase zero» del nuovo sistema, e che impone a tutte le amministrazioni pubbliche di raccogliere le «informazioni chiave» (codici unici di progetto e codici identificativi delle gare) aggiornate dei loro investimenti in conto capitale e di inserirle o correggerle all'interno delle banche dati in cui sono già presenti.
A settembre sarà tempo della «fase 1», con la possibilità di verificare tutte le informazioni già presenti nella Banca dati unitaria delle amministrazioni pubbliche, e a ottobre sarà tempo dell'invio dei dati sullo stato di attuazione delle opere: nel mega-censimento entrano tutte le opere in corso di progettazione o realizzazione a partire dal 21.02.2012.
Per capire il meccanismo occorre partire dall'inizio, cioè dal progetto di mettere sotto controllo il grado di realizzazione degli investimenti pubblici per provare a fermare l'epidemia di incompiute. Di qui il progetto di una raccolta sistematica di tutti i dati sulle opere e sul loro avanzamento, che ora prova però a fare i conti con l'esigenza di non soffocare di nuovi adempimenti le Pa. Per questa ragione, le istruzioni della Ragioneria mettono in atto il principio della «univocità dell'invio», che prova a evitare agli enti l'obbligo di inviare dati già presenti in database pubblici. Escono di conseguenza dal censimento le informazioni già inviate alla banca dati dei contratti pubblici, quelli del sistema Cup, quelli mandati al Siope e le informazioni rilevate dal database sui progetti europei.
La prima rilevazione vera e propria degli stati di attuazione delle opere sarà a ottobre, e riguarderà l'avanzamento al 30 giugno; l'attuazione a fine 2014 sarà censita a gennaio 2015 e le comunicazioni successive avranno cadenza trimestrale. Sempre che il calendario non si allunghi un'altra volta
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOSupercondominio al voto. Il rappresentante va nominato solo se i «partecipanti» sono più di 60. Assemblea. La procedura corretta per convocare la riunione in caso di impianti comuni a più stabili.
Nel supercondominio, quando i partecipanti (cioè i condòmini) sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare il proprio rappresentante all'assemblea da convocare per la gestione ordinaria delle parti comuni e per la nomina dell'amministratore.

Ma i quesiti sulla procedura concreta da seguire si sono accumulati, dopo l'entrata in vigore della legge 220/2012 (la riforma del condominio). Molti anche i dubbi sull'informativa da dare ai condòmini dei singoli condomìni dopo l'assemblea del supercondominio. Il riferimento esplicito all'informativa da dare in assemblea e alla tempestività fa presumere che si debba ricorrere alla riunione assembleare. Ma problemi ancora maggiori sorgono per l'eventuale impugnazione.
Ecco, dunque, alcune risposte concrete.
1. Tutti i condòmini sono «partecipanti»
Chi sono i «partecipanti»?

Tutti i condòmini di tutti i numeri civici interessati.
2. L'amministratore non è designabile
Può essere designato come rappresentante l'amministratore del condominio?

No: la legge vieta di delegare l'amministratore per qualsiasi assemblea e quindi anche per quelle del supercondominio; poi perché, se non fosse così, il legislatore non avrebbe previsto come obbligatoria la nomina di un «rappresentante», ma avrebbe statuito che per la gestione ordinaria e per la nomina dell'amministratore del supercondominio potessero partecipare, appunto, gli amministratori dei singoli condomìni al posto di tutti i condòmini.
3. Questioni ordinarie e straordinarie
C'è differenza tra quando in assemblea si discute di questioni ordinarie rispetto a quelle straordinarie?

Sulle questioni ordinarie devono votare i rappresentanti, sulle altre i partecipanti personalmente. Se, quindi, all'ordine del giorno ci sono solo questioni di natura straordinaria devono essere chiamati a intervenire tutti i partecipanti, anche se sono meno di sessanta. Se, infine, all'ordine del giorno sono poste questioni di gestione ordinaria e altre di natura straordinaria, devono partecipare sia i rappresentanti (che discutono e votano solo sulle questioni ordinarie) che tutti i partecipanti (che discutono e votano solo sulle questioni straordinarie).
4. Chi non è condòmino può essere nominato
Può essere nominato «rappresentante» un terzo estraneo al condominio?

Sì, perché la legge non prevede che il «rappresentante» debba essere un condomino.
5. Il rappresentante scelto dal giudice
Nel caso in cui il condominio non nomini il rappresentante e un condomino (o il rappresentante di uno degli altri condomìni) ricorra al giudice, questi chi può nominare? Un condomino o anche un estraneo?

Il giudice può nominare sia un condomino che un terzo estraneo ma possono sorgere in questo caso problemi connessi alla natura del rapporto intercorrente tra condominio e rappresentante designato.
6. Le difficoltà e il rischio del contenzioso
Questo meccanismo può rendere difficile il funzionamento delle assemblee ordinarie del supercondominio?

Sì, perché l'elevatissimo quorum richiesto per nomina del rappresentante (maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno i 2/3 dei millesimi), il divieto di designare l'amministratore e di conferirgli deleghe, e il nuovo limite al conferimento di deleghe ai condomini determineranno un frequente ricorso al giudice.
7. Tempi stretti per l'annullabilità
Come si deve comportare il rappresentante se ha votato contro la deliberazione adottata?

Le deliberazioni annullabili, cioè quelle affette da vizi che riguardano il procedimento di convocazione e le maggioranze (sono le più frequenti) sono soggette a termini di decadenza e cioè diventano valide se non impugnate nel termine di trenta giorni decorrente dalla data della deliberazione per i dissenzienti e gli astenuti, e dalla data della comunicazione della delibera per gli assenti. Il rappresentante deve informare l'amministratore, che a sua volta dovrà informare i condomini in quanto la decorrenza del termine per l'impugnativa decorre dal giorno dell'assemblea del supercondominio. L'informativa della delibera, che di fatto consisterà nella trasmissione del verbale dall'amministratore del supercondominio al rappresentante, che a sua volta la trasmetterà all'amministratore del singolo condominio, che avrà cura di inviarla a tutti i condomini, impone dei tempi strettissimi, che non permettono di utilizzare in pieno i trenta giorni previsti, in quanto il termine decorre non dall'effettiva conoscenza ma dal giorno dell'assemblea.
8. Chi può impugnare le deliberazioni
Chi può impugnare le deliberazioni dell'assemblea ordinaria del supercondominio?

La legittimazione all'impugnativa della delibera spetta sempre a tutti i singoli partecipanti e non può intendersi trasferito con la delega conferita al rappresentante che, pur trattandosi di una delega particolare che richiede una maggioranza più che qualificata, si limita pur sempre al potere di partecipazione.
9. Il termine decorre dal verbale
Se il rappresentante non interviene all'assemblea da quale momento decorre il termine per impugnare?

Il termine decorre dal momento in cui il singolo partecipante riceve copia del verbale da chiunque sia inviato (amministratore del supercondominio o rappresentante e/o amministratore del singolo condominio)
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2014).

EDILIZIA PRIVATAContabilizzatori di calore obbligatori entro la fine del 2016. Risparmio energetico. Decreto in arrivo.
Entro il 31.12.2016 tutti gli edifici con il riscaldamento centralizzato dovranno dotarsi di termoregolazione e contabilizzazione del calore. A oggi solo Piemonte (entro il 01.09.2014) e Lombardia (entro il 01.08.2014, ma con sanzioni sospese sino al 01.01.2017) prevedono obblighi di questo tipo, che le altre Regioni non hanno adottate.
Anche per dare uniformità alla necessità di adeguarsi alla direttiva 2012/27/Ue (che modifica le direttive 2009/125/Ce e 2010/30/Ue e abroga le direttive 2004/8/Ce e 2006/32/Ce) è ora allo studio del governo lo schema di decreto legislativo di attuazione alla direttiva stessa.
Lo schema di decreto legislativo è dedicato alla contabilizzazione dei consumi individuali e prevede:
a) qualora il riscaldamento, il raffreddamento o la fornitura di acqua calda per un edificio siano effettuati da una rete di teleriscaldamento o da un sistema di fornitura centralizzato che alimenta una pluralità di edifici (cioè un supercondominio, nella maggior parte dei casi), sarà obbligatoria entro il 31.12.2016 l'installazione da parte delle imprese di fornitura del servizio di un contatore individuale di calore o di fornitura di acqua calda in corrispondenza dello scambiatore di calore collegato alla rete o del punto di fornitura;
b) nei condomìni e negli edifici polifunzionali riforniti da una fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata o da una rete di teleriscaldamento o da un sistema di fornitura centralizzato che alimenta una pluralità di edifici è obbligatoria l'installazione (se tecnicamente possibile), entro il 31.12.2016, da parte delle imprese di fornitura del servizio, di contatori individuali, per misurare l'effettivo consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unità immobiliare, efficiente in termini di costi e proporzionato rispetto ai risparmi energetici potenziali. L'efficienza in termini di costi può essere valutata con riferimento alla metodologia indicata nella norma Uni En 15459. Eventuali casi di impossibilità tecnica vanno riportati in una relazione tecnica del progettista o del tecnico abilitato;
c) nei casi in cui l'uso di contatori individuali non sia tecnicamente possibile o non sia efficiente in termini di costi, per la misura del riscaldamento si ricorre all'installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali per misurare il consumo di calore in corrispondenza a ciascun radiatore nelle unità immobiliari dei condomini o degli edifici polifunzionali, secondo quanto previsto dalla norma Uni En 834, con esclusione di quelli situati negli spazi comuni degli edifici, salvo che l'installazione di tali sistemi risulti essere non efficiente in termini di costi con riferimento alla metodologia indicata nella norma Uni En 15459. In tali casi sono presi in considerazione metodi alternativi
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2014).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di responsabilità della pubblica amministrazione, il ricorrente ha l'onere di provare, secondo i principi generali, la sussistenza e l'ammontare dei danni dedotti in giudizio.
Infatti, la limitazione dell'onere della prova gravante sulla parte che agisce in giudizio, che caratterizza il processo amministrativo, si fonda sulla naturale ineguaglianza delle parti, che connota abitualmente il rapporto amministrativo di natura pubblicistica intercorrente tra la parte privata e la pubblica amministrazione, mentre l'esigenza di un'attenuazione dell'onere probatorio a carico della parte ricorrente viene meno con riguardo alla prova dell'an e del quantum dei danni azionati in via risarcitoria, inerendo in siffatte ipotesi i fatti oggetto di prova alla sfera soggettiva della parte che si assume lesa e trovandosi le relative fonti di prova normalmente nella disponibilità dello stesso soggetto leso.

Giova rammentare che in tema di responsabilità della pubblica amministrazione, il ricorrente ha l'onere di provare, secondo i principi generali, la sussistenza e l'ammontare dei danni dedotti in giudizio.
Infatti, la limitazione dell'onere della prova gravante sulla parte che agisce in giudizio, che caratterizza il processo amministrativo, si fonda sulla naturale ineguaglianza delle parti, che connota abitualmente il rapporto amministrativo di natura pubblicistica intercorrente tra la parte privata e la pubblica amministrazione, mentre l'esigenza di un'attenuazione dell'onere probatorio a carico della parte ricorrente viene meno con riguardo alla prova dell'an e del quantum dei danni azionati in via risarcitoria, inerendo in siffatte ipotesi i fatti oggetto di prova alla sfera soggettiva della parte che si assume lesa e trovandosi le relative fonti di prova normalmente nella disponibilità dello stesso soggetto leso (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.03.2011 n. 1672).
Ad avviso del Tribunale l’onere probatorio non è stato minimamente assolto dalla ricorrente, non soltanto sotto il profilo del quantum, ma neppure dell’an, essendosi la ricorrente limitata ad una astratta prospettazione della fattispecie illecita, sotto il profilo della responsabilità precontrattuale, senza dedurre argomentazioni (e tanto meno allegazioni probatorie) in relazione al caso concreto, anche tenuto conto che la procedura bandita dal Comune aveva ad oggetto la concessione a titolo oneroso di aree demaniali e che il procedimento si è arrestato alla fase dell’aggiudicazione provvisoria.
In conclusione la domanda risarcitoria deve essere rigettata (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 15.05.2014 n. 1264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: E' legittima la revoca, da parte del Sindaco, dell'incarico di Vice-Sindaco con deleghe assessorili laddove il rapporto fiduciario tra delegante-delegato, che è alla base della nomina, è venuto meno ed è necessario eliminare le situazioni di conflittualità venutesi a creare che possono essere di ostacolo alla serena prosecuzione dell'attività di governo della giunta comunale.
In ordine alla motivazioni dei provvedimenti di revoca dei componenti della Giunta comunale, la giurisprudenza consolidata ha avuto modo di affermare che, pur essendo atti amministrativi e non politici, gli stessi hanno natura ampiamente discrezionale e la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico/amministrativa rimesse in via esclusiva al vertice dell'ente, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario. Di talché, la motivazione dell'atto di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità politica.
Facendo applicazione di tali principi al caso di specie il Collegio osserva che la motivazione contenuta nel provvedimento impugnato, integrata con elementi di dettaglio dalla comunicazione del Sindaco allegata alla deliberazione del Consiglio comunale n. 3/2014, soddisfa il contenuto minimo necessario di tale tipo di atto, attesa la natura ampiamente discrezionale.
Quanto all’applicazione delle norme sulla partecipazione al procedimento amministrativo, la revoca dell'incarico di assessore comunale è esente dalla previa comunicazione dell'avvio del procedimento, atteso che —in un contesto normativo nel quale la valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo al Sindaco, cui compete in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l'amministrazione del Comune nell'interesse della comunità locale, con sottoposizione del merito del relativo operato unicamente alla valutazione del consiglio comunale— non c'è spazio logico, prima ancora che normativo, per l'applicazione dell'istituto partecipativo di cui all'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241.

... per l'annullamento del decreto prot. n. 273 del 17/02/2014 di revoca alla ricorrente dell'incarico di Vice Sindaco e delle deleghe ad assessore emesso dal Sindaco del Comune di Rogolo.
...
Il Collegio osserva che il provvedimento impugnato reca la seguente motivazione: "Considerato che è venuto meno il corretto rapporto collaborativo con la suddetta, il che ha talvolta impedito il sereno raggiungimento degli obiettivi di programma del Sindaco;
Considerato, altresì, che nonostante i diversi tentativi di conciliazione, il contrasto è divenuto ingiustificabile, in ed è insostenibile;
Ritenuto che sia oggettivamente venuto un rapporto fiduciario tra delegante-delegato che è alla base della nomina che è necessario eliminare le situazioni di conflittualità che possono essere di ostacolo alla serena prosecuzione dell'attività di governo di questa giunta comunale;
Atteso che sono quindi venute meno le condizioni per la permanenza dell'assessore nella carica e nelle funzioni
".
In ordine alla motivazioni dei provvedimenti di revoca dei componenti della Giunta comunale, la giurisprudenza consolidata ha avuto modo di affermare che, pur essendo atti amministrativi e non politici, gli stessi hanno natura ampiamente discrezionale e la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico/amministrativa rimesse in via esclusiva al vertice dell'ente, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario. Di talché, la motivazione dell'atto di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità politica (cfr. TAR Bari sez. I 19.02.2013 n. 230; Consiglio di Stato sez. V 10.07.2012 n. 4057).
Facendo applicazione di tali principi al caso di specie il Collegio osserva che la motivazione contenuta nel provvedimento impugnato, integrata con elementi di dettaglio dalla comunicazione del Sindaco allegata alla deliberazione del Consiglio comunale n. 3/2014, soddisfa il contenuto minimo necessario di tale tipo di atto, attesa la natura ampiamente discrezionale.
Quanto all’applicazione delle norme sulla partecipazione al procedimento amministrativo, la revoca dell'incarico di assessore comunale è esente dalla previa comunicazione dell'avvio del procedimento, atteso che —in un contesto normativo nel quale la valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo al Sindaco, cui compete in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l'amministrazione del Comune nell'interesse della comunità locale, con sottoposizione del merito del relativo operato unicamente alla valutazione del consiglio comunale— non c'è spazio logico, prima ancora che normativo, per l'applicazione dell'istituto partecipativo di cui all'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241 (Consiglio di Stato sez. V 05.12.2012 n. 6228).
In conclusione il ricorso deve essere rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 15.05.2014 n. 1263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La scelta del Comune di localizzare, nell’ambito dell’intero territorio comunale, l’installazione degli impianti di telefonia mobile in soli tre siti, si pone in evidente contrasto con la natura di opere di urbanizzazione primaria delle anzidette strutture, che devono essere poste al servizio degli insediamenti abitativi e seguire il loro sviluppo, garantendo una capillare distribuzione sul territorio della rete di telecomunicazione.
Quanto al merito della vicenda, la scelta del Comune di Veroli di localizzare, nell’ambito dell’intero territorio comunale, l’installazione degli impianti di telefonia mobile in soli tre siti, si pone in evidente contrasto con la natura di opere di urbanizzazione primaria delle anzidette strutture, che devono essere poste al servizio degli insediamenti abitativi e seguire il loro sviluppo, garantendo una capillare distribuzione sul territorio della rete di telecomunicazione.
Inoltre, come reso evidente dalla stessa intestazione del regolamento approvato con delibera n. 23 del 2003, la disposizione censurata si configura indirizzata a scopi di radioprotezione che esulano dalla sfera dei poteri assegnati al Comune dall’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001 sull’insediamento degli impianti di telecomunicazione nel proprio territorio e rientrano, invece, nelle attribuzioni degli organi dello Stato individuati dall’art. 4 della legge citata (cfr. ex multis Cons. St. Sez. VI, n. 1567 del 06.04.2007; n. 3332 del 05.06.2006) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.05.2014 n. 2455 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della classificazione e declassificazione delle strade, le definizioni di cui all’art. 2, co. 2 e 3, cod. str., non impediscono di ricomprendere le piazze nella nozione di strada a mente del comma 1 del medesimo articolo secondo cui: <<1. Ai fini dell’applicazione del presente codice si definisce <<strada>> l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali>>.
Tanto emerge, in prospettiva sistematica, anche dalla norma sancita dall’art. 190, co. 3, cod. str. -che, nel disciplinare la circolazione dei pedoni, vieta loro di <<… attraversare diagonalmente le intersezioni; è inoltre vietato attraversare le piazze e i larghi al di fuori degli attraversamenti pedonali.>>- specie se letta in correlazione con quanto stabilito dall’art. 1, co. 1 e 2, cod. str. -secondo cui <<1. La sicurezza delle persone, nella circolazione stradale, rientra tra le finalità primarie di ordine sociale ed economico perseguite dallo Stato. 2. La circolazione dei pedoni, dei veicoli, e degli animali sulle strade è regolata dalle norme del presente codice…>>- e dall’art. 22, co. 3, l. 20.03.1865 n. 2248, all. F (disposizione non abrogata, ed espressamente mantenuta in vita dal d.lgs. n. 179 del 2009), il quale include tra le strade comunali, fra l’altro, anche le piazze; in armonia con il delineato quadro normativo si colloca la consolidata giurisprudenza, che individua a tutti i fini (civili, penali, tributari) la nozione di strada in senso ampio, facendo leva sulla caratteristica della destinazione ad uso pubblico.

Ai fini della classificazione e declassificazione delle strade, le definizioni di cui all’art. 2, co. 2 e 3, cod. str., non impediscono di ricomprendere le piazze nella nozione di strada a mente del comma 1 del medesimo articolo secondo cui: <<1. Ai fini dell’applicazione del presente codice si definisce <<strada>> l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali>>; tanto emerge, in prospettiva sistematica, anche dalla norma sancita dall’art. 190, co. 3, cod. str. -che, nel disciplinare la circolazione dei pedoni, vieta loro di <<… attraversare diagonalmente le intersezioni; è inoltre vietato attraversare le piazze e i larghi al di fuori degli attraversamenti pedonali.>>- specie se letta in correlazione con quanto stabilito dall’art. 1, co. 1 e 2, cod. str. -secondo cui <<1. La sicurezza delle persone, nella circolazione stradale, rientra tra le finalità primarie di ordine sociale ed economico perseguite dallo Stato. 2. La circolazione dei pedoni, dei veicoli, e degli animali sulle strade è regolata dalle norme del presente codice…>>- e dall’art. 22, co. 3, l. 20.03.1865 n. 2248, all. F (disposizione non abrogata, ed espressamente mantenuta in vita dal d.lgs. n. 179 del 2009), il quale include tra le strade comunali, fra l’altro, anche le piazze; in armonia con il delineato quadro normativo si colloca la consolidata giurisprudenza, che individua a tutti i fini (civili, penali, tributari) la nozione di strada in senso ampio, facendo leva sulla caratteristica della destinazione ad uso pubblico (cfr., fra le tante, Cass. pen., sez. IV, 17.12.2010, n. 2582; Cass. sez. trib., 06.08.2009, n. 18052; Cass. civ., sez. II, 25.06.2008, n. 17350; sez. II, 07.04.2006, n. 8204) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.05.2014 n. 2447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Costituisce diritto vivente il principio secondo cui, in sede di valutazione delle offerte, il punteggio numerico ben può essere ritenuto sufficiente ex se ad esternare e sostenere il giudizio della commissione sui singoli elementi tecnici, allorquando la lex specialis della gara abbia predeterminato in modo adeguato i parametri di misurazione degli stessi consentendo la ricostruzione dell’iter logico seguito dall’organo tecnico.
Costituisce diritto vivente il principio secondo cui, in sede di valutazione delle offerte, il punteggio numerico ben può essere ritenuto sufficiente ex se ad esternare e sostenere il giudizio della commissione sui singoli elementi tecnici, allorquando (come nel caso di specie) la lex specialis della gara abbia predeterminato in modo adeguato i parametri di misurazione degli stessi consentendo la ricostruzione dell’iter logico seguito dall’organo tecnico (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 24.10.2013, n. 5160; sez. III, 15.04.2013, n. 2032; sez. VI, 19.03.2013, n. 1600; 17.12.2008, n. 6290; sez. V, 28.03.2008, n. 1332, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74 e 120, co. 10, c.p.a.) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.05.2014 n. 2444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La destinazione a zona agricola di un'area, salva la previsione di particolari vincoli ambientali o paesistici, non impone, in positivo, un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, bensì, in negativo, ha lo scopo soltanto di evitare insediamenti residenziali, e quindi non costituisce ostacolo alla installazione di opere che non riguardino l'edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone abitate e quindi necessariamente da realizzare in aperta campagna.
Così, ad esempio, sono stati ritenuti via via compatibili, con zone agricole, impianti di derivazione di acque pubbliche, attività di cava, depositi di esplosivi e, infine, per ciò che più qui interessa, anche discariche per rifiuti solidi urbani, come nella fattispecie ora in esame.

... per l'annullamento, quanto al ricorso n. 1265 del 2005, del provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica prot. n. 6324 del 01.06.2005, con il quale è stato negato il permesso edilizio relativo a un deposito di fuochi d’artificio con uffici e autorimessa;
...
A tale proposito appare opportuno ricordare il puntuale orientamento giurisprudenziale, da cui questo Collegio non ravvisa ragione di discostarsi e secondo cui (come condivisibilmente ricordato nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 15.06.2001 n. 3178) “la destinazione a zona agricola di un'area, salva la previsione di particolari vincoli ambientali o paesistici (che nella specie non risultano), non impone, in positivo, un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, bensì, in negativo, ha lo scopo soltanto di evitare insediamenti residenziali, e quindi non costituisce ostacolo alla installazione di opere che non riguardino l'edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone abitate e quindi necessariamente da realizzare in aperta campagna: così, ad esempio sono stati ritenuti via via compatibili, con zone agricole, impianti di derivazione di acque pubbliche (T.S.A.P., 18.02.1991 n. 7), attività di cava (C.di S., VI Sez. 19.02.1993 n. 180), depositi di esplosivi (V Sez., 28.09.1993 n. 968), e, infine, per ciò che più qui interessa, anche discariche per rifiuti solidi urbani, come nella fattispecie ora in esame (V Sez., 26.01.1996 n. 85)” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 13.05.2014 n. 494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare, ricorsi con termini elastici. Corte Ue. I 30 giorni decorrono dalla conoscenza della violazione.
Termini più elastici per impugnare l'esito delle gare: lo impone la Corte di giustizia Ue, Sez. V, nella sentenza 08.05.2014 nella causa C-161/13.
La decisione -presa in via pregiudiziale- rafforza le garanzie degli imprenditori che ritengano di essere stati erroneamente esclusi da gare di appalto, proprio nel momento in cui il Governo sta studiando misure per limitare l'accesso alla giustizia amministrativa (si veda il Sole 24 Ore del 3 maggio).
Il principio esaminato è quello che consente alle imprese che partecipino a un appalto di ottenere, con effettività, una tutela nei confronti di violazioni della corretta procedura, anche se le violazioni emergono in un momento successivo all'aggiudicazione della gara. Le norme nazionali (dlgs 104/2010), prevedono un termine di 30 giorni per contestare l'aggiudicazione: dopodiché la situazione si consolida anche se vi sono seri dubbi di legittimità.
Nel caso che ha generato l'intervento della Corte Ue si discuteva della manutenzione dell'acquedotto pugliese, cioè di una gara di 17 milioni di euro aggiudicata a un raggruppamento che, prima della firma del contratto, si era modificato perdendo uno dei partecipanti. Un concorrente aveva impugnato l'aggiudicazione ritenendo che la composizione del raggruppamento vincitore non potesse essere modificata. Questo ricorso, tuttavia, risultava presentato oltre la scadenza del termine di 30 giorni dall'aggiudicazione, e quindi avrebbe dovuto essere dichiarato tardivo e archiviato.
Il giudice comunitario ha invece posto l'accento sulla necessità che i ricorsi debbano essere efficaci: nel conflitto, quindi, tra la certezza del diritto (che restringe a 30 giorni il termine per contestare le aggiudicazioni) e la garanzia di un ricorso realmente efficace (che collega il termine dei 30 giorni ad una conoscenza effettiva), prevale il secondo principio. La Corte ha quindi stabilito che il termine di ricorso (30 giorni) previsto contro la decisione di aggiudicazione, deve decorrere nuovamente tutte le volte che occorra verificare la legittimità di una decisione che autorizzi una modifica all'esito della gara.
La sentenza si applica nelle gare che riguardano i settori dell'acqua, energia, trasporti e telecomunicazioni (Direttiva 17/2004), ma avrà un sicuro effetto anche nel settore degli appalti (regolato dalla diversa Direttiva 18/2004) poiché ad ambedue i settori si applicano i principi della Direttiva ricorsi 92/2013
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALIIl Tar dice sì all'obbligo di Pos. Decreto attuativo in linea con la legge - «Non irreparabile» il costo per gli operatori. Adempimenti. Il Tribunale amministrativo del Lazio ha rigettato l'istanza degli architetti che puntava alla sospensiva.
La norma che obbliga i professionisti e le imprese a consentire i pagamenti con il bancomat per importi al di sopra dei 30 euro non viola alcun parametro di legittimità né evidenzia eccessi di potere tali da giustificare la sua sospensione in via cautelare. Semmai, evidenzia solo un costo economico di certo non irreparabile.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, con l'ordinanza 30.04.2014 n. 1932 e resa nota ieri che ha rigettato l'istanza presentata dal Consiglio nazionale degli architetti contro il Dm 24.01.2014 del ministro dello Sviluppo economico attuativo dell'articolo 15, comma 5, del Dl 179/2012 laddove prevede (articolo 2, comma 1) che l'obbligo di accettare pagamenti attraverso carte di debito si applica a tutti i pagamenti di importo superiore a 30 euro a favore di imprese e professionisti per l'acquisto di prodotti o la prestazione di servizi.
A giudizio degli architetti si tratta di una norma insensatamente vessatoria e costosa stante che il suo scopo primario, quello di contrastare elusione ed evasione, può essere raggiunto attraverso pagamenti tracciati (bonifico o assegni) senza obbligare i professionisti ad attivare Pos costosi da installare e utilizzare, stante il divieto -ex articolo 15, comma 5-quater del Dl 179/2012- di richiedere un sovraprezzo legato all'utilizzo di un determinato strumento di pagamento.
E il Tar, alla luce della sommaria delibazione dell'atto impugnato e dei motivi di ricorso, ha ritenuto inesistente il "fumus boni juris" in quanto il decreto impugnato «sembra rispettare i limiti contenutistici e i criteri direttivi fissati dalla richiamata fonte legislativa che, all'articolo 9, comma 15-bis, impone perentoriamente e in modo generalizzato che a decorrere dal 30.06.2014, i soggetti che effettuano l'attività di vendita di prodotti e di prestazioni di servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito».
Peraltro il decreto impugnato ha dato attuazione al suddetto obbligo generale di fonte legale relativo all'uso tendenzialmente generalizzato delle carte di debito per le transazioni commerciali, mentre la fissazione di "importi minimi" da parte della fonte secondaria è espressamente indicata come "eventuale".
Dura la reazione di Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli architetti. «Riconfermiamo -si legge in una nota- che l'obbligo di utilizzo del Pos da parte dei professionisti dal prossimo 30 giugno nulla ha a che fare con i principi di tracciabilità dei movimenti di denaro, realizzabili semplicemente con il bonifico elettronico configurandosi, invece, come una vera e propria gabella medioevale ingiustamente pagata a un soggetto privato terzo, le banche, che non svolgono alcun ruolo, nel rapporto tra committente e professionista. Il bonifico Stp costa la metà del pagamento via Pos e consente lo stesso risultato di tracciabilità».
Peraltro –conclude Freyrie– «non ci fermeremo certo di fronte a questa ordinanza e sono sicuro che quando i giudici amministrativi entreranno nel merito del provvedimento che abbiamo impugnato sapranno cogliere tutti quei profili di illegittimità che noi abbiamo evidenziato»
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: In sede di gara indetta per l'aggiudicazione di un contratto, la pubblica amministrazione è tenuta ad applicare rigidamente le regole fissate nel bando, atteso che questo, unitamente alla lettera d'invito, costituisce la lex specialis della procedura ad evidenza pubblica, che non può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in essa contenute risultino non più conformi allo jus superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di autotutela: il bando di una gara di appalto è, infatti, atto a carattere normativo, lex specialis della procedura, rispetto alla quale l'eventuale jus superveniens di abrogazione o di modifica di clausole non ha effetti innovatori, ciò anche in ragione del principio di tutela dell'affidamento dei concorrenti, così che le gare devono essere svolte in base alla normativa vigente alla data di emanazione del bando, ossia al momento di indizione della relativa procedura.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale in tema di jus superveniens, dal quale non vi è motivo di discostarsi, in sede di gara indetta per l'aggiudicazione di un contratto, la pubblica amministrazione è tenuta ad applicare rigidamente le regole fissate nel bando, atteso che questo, unitamente alla lettera d'invito, costituisce la lex specialis della procedura ad evidenza pubblica, che non può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in essa contenute risultino non più conformi allo jus superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di autotutela (Cons. St., sez. V, 23.06.2010, n. 3963; sez. IV, 18.10.2002, n. 5714; Sez. V, 22.04.2002, n. 2197; Sez. V, 03.09.1998, n. 591; Sez. V, 11.07.1998, n. 224): il bando di una gara di appalto è infatti atto a carattere normativo, lex specialis della procedura, rispetto alla quale l'eventuale jus superveniens di abrogazione o di modifica di clausole non ha effetti innovatori, ciò anche in ragione del principio di tutela dell'affidamento dei concorrenti, così che le gare devono essere svolte in base alla normativa vigente alla data di emanazione del bando, ossia al momento di indizione della relativa procedura (Cons. St., Sez. V, 05.10.2005, n. 5316
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La facoltà, espressamente prevista dall'art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, di invitare le imprese a chiarire certificati, documenti e dichiarazioni presentati (c.d. "dovere di soccorso") deve essere esercitata secondo i principi generali della buona fede e della ragionevolezza e deve essere altresì raccordata all'esigenza di carattere generale delle pubbliche gare di consentire la massima partecipazione, che potrebbe essere compromessa da carenze di ordine meramente formale nel rispetto tuttavia dell’altrettanto fondamentale principio della par condicio, così che l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile e non ne consente l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali, e ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara.
Non vi è infatti ragione per discostarsi dal consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale a mente del quale la facoltà, espressamente prevista dall'art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, di invitare le imprese a chiarire certificati, documenti e dichiarazioni presentati (c.d. "dovere di soccorso") deve essere esercitata secondo i principi generali della buona fede e della ragionevolezza e deve essere altresì raccordata all'esigenza di carattere generale delle pubbliche gare di consentire la massima partecipazione, che potrebbe essere compromessa da carenze di ordine meramente formale nel rispetto tuttavia dell’altrettanto fondamentale principio della par condicio (Cons. St., sez. V, 23.10.2012, n. 5408), così che l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile e non ne consente l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali, e ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara (Cons. St., sez. V, 30.09.2013, n. 4842) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’articolo 48 del D.Lgs. n. 163 del 2006 è preordinato ad assicurare il regolare e rapido espletamento della procedura di gara e la tempestiva liquidazione dei danni prodotti dall’alterazione della stessa a causa della mancanza dei requisiti da parte dell’offerente, così che esso è strumentale all’esigenza di garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione, esigenza rispetto alla quale la sanzione dell’esclusione dalla gara, con l’escussione della cauzione e la segnalazione del fatto all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici risulta essere del tutto coerente, adeguata e si ricollega correttamente alla sola mancata prova del possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati con la presentazione dell’offerta.
Con il quinto mezzo di gravame la società appellante ha sostenuto che i primi giudici, nel ritenere corretto il provvedimento impugnato anche quanto all’irrogazione dei provvedimenti sanzionatori, avrebbero omesso di considerare, per un verso, che proprio le sanzioni previsti dall’art. 48 del D.Lgs. n. 163 del 2006 sarebbero state superate dall’entrata in vigore dello Statuto delle Imprese (che prevede l’esclusione dalle gare per un anno per la mancata comprova dei requisiti dichiarati in sede di partecipazione alla gara per la sola aggiudicataria) e, per altro verso, che in ogni caso le sanzioni previste dall’art. 48 del D.Lgs. n. 163 del 2006 non potevano essere applicate meccanicamente, presupponendo una dichiarazione falsa o mendacio (circa il possesso dei requisiti di partecipazione, poi non provati), situazione che nel caso di specie non si era affatto verificata.
Anche tale doglianza non può trovare accoglimento, essendo smentita dalla prevalente e consolidata giurisprudenza che ha avuto modo di rilevare come l’articolo 48 del D.Lgs. n. 163 del 2006 sia preordinato ad assicurare il regolare e rapido espletamento della procedura di gara e la tempestiva liquidazione dei danni prodotti dall’alterazione della stessa a causa della mancanza dei requisiti da parte dell’offerente, così che esso è strumentale all’esigenza di garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione, esigenza rispetto alla quale la sanzione dell’esclusione dalla gara, con l’escussione della cauzione e la segnalazione del fatto all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici risulta essere del tutto coerente, adeguata e si ricollega correttamente alla sola mancata prova del possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati con la presentazione dell’offerta (Cons. St., sez. v, 11.01.2012, n. 80; 16.02.2012, n. 810)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
II) a fronte della motivazione in re ipsa che incontra l’ordine di demolizione all’esito dell’accertamento dell’abuso edilizio, il lasso temporale che fa sorgere l’onere di una motivazione rafforzata in capo all’amministrazione –ma sempre in presenza di circostanze eccezionali rigorosamente provate da chi le invoca- non è quello che intercorre tra il compimento dell’abuso e il provvedimento sanzionatorio ma quello che intercorre tra la conoscenza dell’illecito e il provvedimento sanzionatorio adottato; in mancanza di conoscenza della violazione da parte dell’amministrazione non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui sacrificio meriti di essere adeguatamente apprezzato in sede motivazionale;
III) lo stesso è a dire per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive realizzate che non rappresenta un provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione; in senso ostativo all’acquisizione non può assumere quindi rilevanza né il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né l’affidamento eventualmente riposto dall’interessato sulla legittimità delle opere da realizzare, né l’assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione;
IV) il fatto che sia intercorso lungo tempo dalla realizzazione dell’abuso al provvedimento sanzionatorio non elide né aggrava quanto a motivazione, il doveroso e imprescrittibile esercizio del potere sanzionatorio da parte della p.a.;
V) l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo; né si configurano particolari esigenze o conseguenze connesse alla partecipazione procedimentale dell’interessato;

Facendo proprio il consolidato indirizzo giurisprudenziale concernente i punti controversi (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4470; sez. VI, 05.08.2013, n. 4086; sez. II, 26.06.2013, n. 649/13; sez. VI, 04.03.2013, n. 1268; sez. IV, 15.02.2013, n. 915; sez. VI, 08.02.2013, n. 718; sez. IV, 02.02.2012, n. 615, Cass. pen., sez. fer., 01.09.2011, n. 33267; Cass. pen., sez. III, 26.06.2013, n. 42330 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.):
I) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
II) a fronte della motivazione in re ipsa che incontra l’ordine di demolizione all’esito dell’accertamento dell’abuso edilizio, il lasso temporale che fa sorgere l’onere di una motivazione rafforzata in capo all’amministrazione –ma sempre in presenza di circostanze eccezionali rigorosamente provate da chi le invoca (come non verificatosi nel caso di specie)- non è quello che intercorre tra il compimento dell’abuso e il provvedimento sanzionatorio ma quello che intercorre tra la conoscenza dell’illecito e il provvedimento sanzionatorio adottato; in mancanza di conoscenza della violazione da parte dell’amministrazione non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui sacrificio meriti di essere adeguatamente apprezzato in sede motivazionale;
III) lo stesso è a dire per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive realizzate che non rappresenta un provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione; in senso ostativo all’acquisizione non può assumere quindi rilevanza né il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né l’affidamento eventualmente riposto dall’interessato sulla legittimità delle opere da realizzare, né l’assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione;
IV) il fatto che sia intercorso lungo tempo dalla realizzazione dell’abuso al provvedimento sanzionatorio non elide né aggrava quanto a motivazione, il doveroso e imprescrittibile esercizio del potere sanzionatorio da parte della p.a.;
V) l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo; né si configurano particolari esigenze o conseguenze connesse alla partecipazione procedimentale dell’interessato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: VI) quanto al concetto di «pertinenza», ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9, conv. dalla l. 25.03.1982 n. 94, tale da richiedere non già la concessione edilizia, bensì la mera «autorizzazione», si rileva, da un lato, la differenza da quello di cui all’art. 817 c.c., che è caratterizzato da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, (cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell’accessorio, altro uso rispetto alla cosa cui esso inserisce); dall’altro, che per potersi avere pertinenza è indispensabile che il manufatto destinato ad un uso pertinenziale durevole sia dalle dimensioni ridotte e modeste, per cui soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d’ornamento nei riguardi di essa;
VII) la sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell’intervento;
VIII) integra il reato previsto dall’art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001 (in precedenza art. 20, lett. b), l. n. 47 del 1985), la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell’edificio sul quale viene realizzata;
IX) per la realizzazione di una tettoia, appoggiata su un edificio, occorre il rilascio del permesso di costruire, poiché essa comporta una modifica della sagoma e del prospetto, sicché è legittimo l’ordine di demolizione che ne disponga la rimozione, perché abusiva.

Facendo proprio il consolidato indirizzo giurisprudenziale concernente i punti controversi (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4470; sez. VI, 05.08.2013, n. 4086; sez. II, 26.06.2013, n. 649/13; sez. VI, 04.03.2013, n. 1268; sez. IV, 15.02.2013, n. 915; sez. VI, 08.02.2013, n. 718; sez. IV, 02.02.2012, n. 615, Cass. pen., sez. fer., 01.09.2011, n. 33267; Cass. pen., sez. III, 26.06.2013, n. 42330 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.):
...
VI) quanto al concetto di «pertinenza», ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9, conv. dalla l. 25.03.1982 n. 94, tale da richiedere non già la concessione edilizia, bensì la mera «autorizzazione», si rileva, da un lato, la differenza da quello di cui all’art. 817 c.c., che è caratterizzato da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, (cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell’accessorio, altro uso rispetto alla cosa cui esso inserisce); dall’altro, che per potersi avere pertinenza è indispensabile che il manufatto destinato ad un uso pertinenziale durevole sia dalle dimensioni ridotte e modeste, per cui soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d’ornamento nei riguardi di essa (circostanza questa che non si verifica nel caso di specie);
VII) la sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell’intervento (come verificatosi nel caso di specie);
VIII) integra il reato previsto dall’art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001 (in precedenza art. 20, lett. b), l. n. 47 del 1985), la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell’edificio sul quale viene realizzata (come verificatosi nel caso di specie);
IX) per la realizzazione di una tettoia, appoggiata su un edificio (come nel caso di specie), occorre il rilascio del permesso di costruire, poiché essa comporta una modifica della sagoma e del prospetto, sicché è legittimo l’ordine di demolizione che ne disponga la rimozione, perché abusiva (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZITar veneto. Convenzioni, frazionamenti al bando.
Per aderire a una convenzione Consip non è possibile frazionare artificiosamente un appalto, ma occorre indire apposita procedura concorsuale per affidarlo ad un'impresa in grado di assicurare integralmente il servizio.

Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. I, nella sentenza 28.04.2014 n. 538, fissando alcuni punti fermi utili anche alla luce delle novità introdotte dal dl «spending review».
Il caso esaminato riguardava un'Asl che, dopo aver aderito a una convenzione Consip per assicurarsi servizi di gestione e manutenzione impiantistica nella fascia oraria 8-17, aveva contestualmente provveduto ad affidare la copertura delle ore notturne alla stessa ditta selezionata da Consip avvalendosi dell'art. 57, comma 5, lett. a), del dlgs 163/2006, che consente il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara per l'esecuzione di lavori o servizi complementari, originariamente non prevedibili, necessari all'esecuzione del servizio oggetto del contratto iniziale e funzionalmente non separabili dall'assegnazione originaria.
Poiché il servizio notturno, pur se non scorporabile, non poteva considerarsi imprevedibile, tale modus procedendi è stato ritenuto illegittimo: In un tale frangente, secondo il Tar, o la convenzione prevedeva la gestione e il monitoraggio degli impianti h24, e allora l'Asl poteva aderirvi, o non li prevedeva, e allora l'Asl doveva indire apposita procedura concorsuale per affidare l'appalto ad un'impresa in grado di assicurare il servizio nella sua interezza. Certamente non poteva suddividere artificiosamente il servizio in due tronconi.
Come detto, la pronuncia è interessante alla luce del dl 66/2014 e in particolare dell'art. 9, comma 4, che ha esteso a tutti i comuni non capoluogo (e non più solo a quelli sotto i 5.000 abitanti, come in precedenza) l'obbligo di ricorrere ad una centrale unica di committenza, da attivare nell'ambito delle unioni di comuni ovvero stipulando apposito accordo consortile, ovvero ancora ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province.
In alternativa, è possibile avvalersi degli strumenti elettronici di acquisto. Ma, come chiarito dalla sentenza commentata, si tratta di una strada percorribile solo a precise condizioni (articolo ItaliaOggi del 10.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PATRIMONIODanni da caduta, colpa estesa alla vittima. Risarcimenti. Il comportamento imprudente limita la responsabilità del «custode».
Per i danni subiti da un motociclista caduto su una strada provinciale si configura una doppia responsabilità: sia del custode, vale a dire la Provincia (in base agli articoli 2043 e 2051 del Codice civile), sia dell'utente danneggiato, che ha usato il bene senza la normale diligenza o con un affidamento soggettivo anomalo sulle sue caratteristiche o, infine, ignorando eventuali avvisi o divieti.
Lo ha precisato il TRIBUNALE di Napoli -Sez. XII civile- che, con la sentenza 14.04.2014 n. 5687 (tratta da www.ilsole24ore.com), si è pronunciato sul caso della caduta accidentale di un motociclista, avvenuta a causa -ha affermato- di un avvallamento situato a margine di un tombino. Per questo l'uomo ha citato in giudizio la provincia di Napoli (titolare del bene demaniale), per vedere riconoscere la responsabilità per omessa custodia della sede stradale.
Nel giudizio si è costituito l'ente pubblico, che ha contestato ogni propria responsabilità e invocato l'assenza di un obbligo di garantire, per tutta l'estensione dalla rete adibita alla circolazione, l'uniformità del manto stradale e l'assenza di insidie più o meno avvistabili dall'utente.
Nel dirimere la controversia, il tribunale riassume i profili di responsabilità che riguardano, in via generale, gli enti tenuti alla gestione e alla manutenzione della strada, rammentando che il custode risponde sia in forza dell'articolo 2043 del Codice civile (che impone un obbligo generale di diligenza e attenzione nella gestione del bene), sia per effetto della presunzione di responsabilità contenuta nell'articolo 2051 del Codice civile, che disciplina una sorta di responsabilità oggettiva che può essere superata solo se l'ente prova che la caduta è stata provocata da un caso fortuito. Quella prevista dall'articolo 2051 è, in effetti, una presunzione assai gravosa per il custode della rete stradale, sia per la difficoltà materiale di estendere il controllo a tutta la rete, sia perché nella giurisprudenza il concetto di "caso fortuito" è relegato a ipotesi residuali, come un evento atmosferico esterno e imprevedibile nelle conseguenze.
Nel caso esaminato, il tribunale di Napoli rileva che la conformazione dell'insidia stradale era tale da dover richiedere la pronta attivazione del custode che avrebbe dovuto esercitare in modo efficace quel potere di dominio sulla rete viaria, utile per ripristinare lo stato di agibilità della strada ed evitare pericolo per chi dovesse transitarvi.
Al tempo stesso, però, il tribunale non omette di considerare la condotta responsabile e concorrente della vittima che, vista la conformazione della strada e la relativa avvistabilità dell'insidia, avrebbe dovuto guidare il motociclo con attenzione. Nei fatti, secondo il giudice, il motociclista avrebbe contribuito attivamente alla caduta e, quindi, a provocare i danni.
Il concorso colposo della vittima che cada a terra per effetto di una insidia stradale, infatti, può essere dichiarato in associazione alla colpa del custode, secondo l'articolo 1227 del Codice civile, che, al primo comma, dispone che «se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate». Di conseguenza, il risarcimento del danno viene ridotto dal giudice nella misura del 50% di quanto gli sarebbe spettato in totale (
articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2014).

EDILIZIA PRIVATALa persiana nuova non altera la veduta. Immobili. Se la finestra esisteva già, i confinanti non possono contestare la modifica degli infissi.
Aprire una persiana sul cortile del vicino non è una turbativa del possesso, se la corrispondente finestra esiste da tempo.
Questo il principio affermato dal TRIBUNALE di Cassino con l'ordinanza 03.04.2014 (giudice Eramo).
Il titolare di un immobile a uso abitativo dotato di ampio cortile aveva proposto ricorso ex articolo 703 del Codice di procedura civile contro il suo confinante, titolare di un altro immobile posto di fronte al suo.
Il ricorrente ha riferito che sul cortile di sua proprietà affacciavano due finestre poste sull'immobile del vicino e quest'ultimo aveva eseguito dei lavori senza chiedergli alcuna autorizzazione, apponendo ex novo delle persiane esterne e limitando così apprezzabilmente il sereno godimento del proprio immobile.
Queste persiane si aprivano sul cortile e permettevano quindi di guardarvi all'interno. Il ricorrente ha chiesto pertanto che il giudice ne ordinasse la totale rimozione. Il convenuto in giudizio, invece, aveva chiesto al giudice di respingere il ricorso perché le due finestre erano già esistenti da tempo e non erano state modificate né in altezza né in larghezza.
Il tribunale, dopo una complessa istruttoria, gli ha dato ragione. È stato accertato infatti che i lavori erano consistiti nel cambio delle persiane e la modificazione aveva riguardato solo le rispettive aperture: prima gli infissi si aprivano verso l'interno e dopo i lavori si aprivano verso l'esterno. Ciò faceva ritenere che i lavori non avessero compromesso in modo giuridicamente apprezzabile l'esercizio del possesso del proprietario del cortile.
Secondo il giudice cassinate non può essere la mera mutazione dello stato di fatto a integrare uno spoglio o una turbativa, ma solo quella che comporti una concreta limitazione delle facoltà inerenti il potere di fatto precedentemente esercitato sulla cosa.
Le persiane non determinano, anche quando si aprono verso l'esterno, un aggravamento della servitù di veduta, poiché esse, quando sono chiuse, già la impediscono o la limitano, e quando sono aperte, non la rendono più penetrante. Il solo ruotare sui cardini non muta dunque il raggio di azione dell'esercizio della servitù di veduta; secondo il tribunale (che sul punto ricorda diverse pronunce della Cassazione), solo sulle finestre del tipo "a tendina" può paventarsi la possibilità che si superi la distanza di tre metri di visuale con ogni conseguenza sulla limitazione del possesso del confinante.
Le persiane nuove quindi potevano restare al loro posto e il ricorso è stato respinto con la condanna del ricorrente a pagare le spese di difesa sostenute dal suo confinante
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2014).

PUBBLICO IMPIEGOTar del Lazio. Demansionati depressi risarciti.
Quel posto doveva essere suo, anche se soltanto per il periodo in cui il capo va in ferie. E invece no, l'amministrazione gli preferisce un collega, benché non abbia i titoli per sostituire il dirigente quando è assente. Ecco allora che il dipendente pubblico ci resta male e non si rassegna, perché diventare il numero uno dell'ufficio, sia pure per poco, è comunque motivo di prestigio oltre che di gratificazione economica. E visto che la mancata promozione risulta frutto di una condotta omissiva e commissiva dell'amministrazione, sarà la mano pubblica a dover sborsare gli 80 mila euro liquidati a titolo di danno non patrimoniale, senza duplicazioni fra biologico, morale e così via.

È quanto emerge dalla sentenza 21.02.2014 n. 2120, pubblicata dalla Sez. I-quater del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso del dipendente della Giustizia, che ambiva al posto di reggente per il periodo di assenza del titolare: un riconoscimento non da poco che però gli è negato dal Ministero. L'interessato ne fa una malattia nel vero senso della parola: lamenta un «disturbo dell'adattamento con ansia e umori depresso misti» e i certificati medici gli danno ragione. Di più: risulta agli atti che la patologia insorge proprio nel periodo in cui il dipendente è ingiustamente escluso dall'incarico cui pure aveva diritto, assegnato evidentemente a un rivale senza gli stessi suoi titoli.
Fatto sta che il risarcimento deve essere pagato all'aspirante sostituto-capo laddove il lavoratore non presenta familiarità con i disturbi psichici: né lui né i suoi congiunti hanno mai sofferto di nevrosi d'ansia e dunque la sindrome risulta riconducibile all'illecita deminutio voluta dal datore. Risultato: liquidazione sì, duplicazioni no.
Il danno non patrimoniale da lesione della salute, ribadiscono i giudici amministrativi, costituisce una categoria ampia e omnicomprensiva: nel determinare il ristoro il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, senza però liquidare il danno biologico separatamente da quello morale, estetico, alla vita di relazione e da quello cosiddetto “esistenziale” (articolo ItaliaOggi del 07.05.2014).

EDILIZIA PRIVATAI lavori eseguiti, consistenti nella collocazione di una ringhiera in ferro su un lastrico solare e di un corrimano in ferro su una scala che porta al lastrico solare, non comportano -di per sé- né la modifica della complessiva sagoma dell’edificio, né un aumento della superficie coperta e dei volumi interni, né un cambio di destinazione d'uso dei lastrico solare, che per le sue caratteristiche (posa orizzontale in piano di materiali calpestabili) denotava già una attitudine all’impiego pedonale ed implicava già la presenza di una scala di accesso, di modo che gli interventi contestati, lungi dal variarne la destinazione, consentono solo di migliorarne la fruizione in condizioni di maggiore comodità e sicurezza.
Pertanto, per l’intervento edilizio in esame, volto alla messa in sicurezza di un lastrico solare già idoneo all’uso pedonale, è quindi sufficiente la comunicazione di inizio lavori ai sensi dell'art. 6 DPR 380/2001, alla stregua del criterio secondo cui sono liberi, e quindi non soggetti ad autorizzazioni o asseverazioni, tutti gli interventi edilizi di modifica della distribuzione degli spazi interni o di arredo e protezione degli spazi esterni volti, indipendentemente dai materiali utilizzati e dalla natura provvisoria o meno delle opere, solo ad ottimizzare le qualità e potenzialità intrinseche del preesistente manufatto, consentendone una migliore, più sicura o più ampia fruizione in conformità alle originarie destinazioni d’uso.

- Che, alla stregua di un criterio di efficacia sostanziale della tutela giurisdizionale e di economia processuale, il Collegio ritiene quindi di esaminare l’ulteriore profilo controverso, concernente il rapporto fra infondatezza dell’istanza di accertamento di conformità ed obbligatoria esecuzione del precedente ordine di esecuzione;
- Che, al contrario, l’accertamento, da parte del Tribunale, dell’obbligo di dare diretta esecuzione all’ordine di demolizione previa reiezione della domanda di accertamento trova un insormontabile ostacolo proprio nella palese fondatezza della stessa domanda;
- Che dalla documentazione allegata agli atti del giudizio risulta, infatti, che:
   1) l’intervento edilizio, che il ricorrente chiede di demolire e di cui la contro interessata chiede l’accertamento di conformità, è avvenuto in conformità alla DIA a suo tempo presentata e non contraddetta in termini dal Comune, così come attestato dal sopralluogo eseguito da patte dei Vigili Urbani a lavori ultimati;
   2) lo stesso intervento, come espressamente rilevato dall'Ufficio edilizia Privata di Roma Capitale, per il tipo di lavori eseguiti, consistenti nella collocazione di una ringhiera in ferro su un lastrico solare e di un corrimano in ferro su una scala che porta al lastrico solare, non comporta di per sé, né modifiche della sagoma, né modifiche della superficie, né aumento di volume, né cambio di destinazione d'uso dei lastrico solare, e quindi richiede solo la comunicazione di inizio lavori ai sensi dell'art. 6 DPR 380/2001;
- Che il primo profilo non assume valore dirimente, stante il carattere di illecito permanente dell’abuso edilizio, che è destinato a veder progressivamente aggravare il proprio impatto sul territorio, anche in relazione al successivo uso del manufatto abusivo ed all’inevitabile effetto emulativo, e che quindi, secondo il principio di legalità insito al nostro sistema Costituzionale ed anche per la presenza delle previste forme di pubblicità in occasione degli interventi edili e delle formalità pubblicistiche dei trasferimenti immobiliari (rogito notarile e trascrizione), non può generare alcun affidamento, e quindi determinare alcuna convalescenza, in conseguenza del semplice decorso del tempo: in tal modo, il decorso dei termini previsti in caso di DIA e SCIA preclude l’intervento pubblico riferito ai profili formali e procedurali, ma non il successivo accertamento della non conformità del manufatto alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie ad esso applicabili;
- Che, a giudizio del Collegio, merita al contrario apprezzamento il secondo profilo indicato, in quanto i lavori eseguiti, consistenti nella collocazione di una ringhiera in ferro su un lastrico solare e di un corrimano in ferro su una scala che porta al lastrico solare, non comportano di per sé, né la modifica della complessiva sagoma dell’edificio, né un aumento della superficie coperta e dei volumi interni, né un cambio di destinazione d'uso dei lastrico solare, che per le sue caratteristiche (posa orizzontale in piano di materiali calpestabili) denotava già una attitudine all’impiego pedonale ed implicava già la presenza di una scala di accesso, di modo che gli interventi contestati, lungi dal variarne la destinazione, consentono solo di migliorarne la fruizione in condizioni di maggiore comodità e sicurezza;
- Che per l’intervento edilizio in esame, volto alla messa in sicurezza di un lastrico solare già idoneo all’uso pedonale, è quindi sufficiente la comunicazione di inizio lavori ai sensi dell'art. 6 DPR 380/2001, alla stregua del criterio secondo cui sono liberi, e quindi non soggetti ad autorizzazioni o asseverazioni, tutti gli interventi edilizi di modifica della distribuzione degli spazi interni o di arredo e protezione degli spazi esterni volti, indipendentemente dai materiali utilizzati e dalla natura provvisoria o meno delle opere, solo ad ottimizzare le qualità e potenzialità intrinseche del preesistente manufatto, consentendone una migliore, più sicura o più ampia fruizione in conformità alle originarie destinazioni d’uso;
- Che la non infondatezza della domanda di accertamento di conformità, su di cui il Comune deve pronunciarsi prima di poter disporre la demolizione, conclusivamente osta a che l’accoglimento del ricorso in epigrafe entri nel merito del comportamento dovuto dal Comune intimato quanto all’esecuzione dell’ordine di demolizione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 18.09.2013 n. 8328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bellezze naturali e tutela paesaggistica.
Con riferimento a villino ad uso prevalentemente estivo sito in una località calda sottoposta a vincolo paesaggistico, la chiusura con inferriata di tre lati di un portico già murato sul quarto lato richiede la concessione edilizia (poiché il vano così ricavato in aggiunta a quelli preesistenti sicuramente si presta ad uso abitativo diurno, quanto meno nel periodo estivo) nonché l'autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo ambientale (posto che la posa in opera di pesanti cancellate non può non avere un considerevole impatto ambientale da valutarsi attentamente ad opera dell'autorità predetta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2001 n. 6776).

AGGIORNAMENTO AL 14.05.2014

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L'INTERROGATIVO DELLA SETTIMANA: l'intervento di installazione inferriate all'esterno delle finestre come si deve qualificare ex art. 3 del DPR n. 380/2001??

     Un comune deve procedere, a seguito di segnalazione, a reprimere l'abusiva installazione di inferriate (a mo' di antifurto) sulle finestre esterne (compresa la porta d'ingresso) di un alloggio posto al piano terreno di un fabbricato.
     Lasciamo in disparte, per il momento, la questione di cosa avrebbe dovuto presentare (preventivamente) il cittadino all'U.T.C. per non incorrere nell'abuso edilizio di che trattasi (comunicazione ex art. 6 dpr 380/2001 oppure D.I.A. oppure permesso di costruire) ... ciò che è urgente, ora, è capire come inquadrare la fattispecie ex art. 3 del DPR 380/2001: trattasi di intervento inquadrabile in quale lettera?? a), b), c), d), e), f) ??
     Abbiamo cercato in internet -a destra e manca- e nulla abbiamo trovato, sia in termini di giurisprudenza, sia in termini di dottrina.
     Poiché la fattispecie de qua interessa tutti, se qualcuno è a conoscenza di qualche pertinente e qualificato contributo giurisprudenziale/dottrinario sull'argomento è cortesemente invitato di inviarcelo (all'indirizzo info.ptpl@tiscali.it) che sarà prontamente pubblicato "su questi schermi" a vantaggio di tutti.
     Si ringrazia, già sin d'ora, tutti coloro che riscontreranno alla presente.
14.05.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Rilevazione delle graduatorie concorsuali vigenti e numero dei vincitori e degli idonei (nota 05.05.2014 n. 24663 di prot.).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.M. 12.04.1996 "Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l'esercizio degli impianti termici alimentati da combustibili gassosi"- Indicazioni applicative (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 08.05.2014 n. 6181 di prot.).

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Monitoraggio opere pubbliche in attuazione del decreto legislativo del 29.12.2011 n. 229: esplicazione delle modalità operative e prima rilevazione (Ministero dell'Economia e Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 08.04.2014 n. 14).

UTILITA'

VARILa sicurezza in casa: dai VV.F. la guida ai rischi, per conoscerli e prevenirli.
L’ambiente domestico è il luogo dove si registrano il maggior numero di incidenti, a fronte di quello che dovrebbe essere il posto più tranquillo e sicuro. Gran parte degli infortuni può essere evitata se c’è la conoscenza e la consapevolezza dei pericoli che si possono nascondere dietro l’angolo.
Al riguardo segnaliamo la pubblicazioni dei Vigili del Fuoco, “Sicurezza in casa” che ha lo scopo di illustrare i pericoli presenti in casa, al fine di prevenirli ed evitarli.
Nell’opuscolo sono presentate le principali situazioni di pericolo, divise nelle 4 categorie:
- elettricità
- gas di città
- liquidi infiammabili
- impianto idrico
In forma semplice ed incisiva, grazie anche alla cura prestata alle immagini, vengono descritte le tipologie di incidenti più frequenti, al fine di indicare gli opportuni comportamenti di prevenzione degli incidenti e su cosa fare in caso di incendio (08.05.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAPrevenzione incendi: in arrivo il Testo Unico che abbandona le norme prescrittive per favorire la semplificazione.
Il 30.04.2014 il Ministro dell’Interno e il capo del Dipartimento dei Vigili del Fuoco hanno presentato il Piano di semplificazione delle norme e delle procedure di prevenzione degli incendi, che ha l’obiettivo di snellire la normativa vigente e di aggregare in unico testo tutte le disposizioni di prevenzione incendi riguardanti ogni attività.
In linea generale, l’impostazione data alla normativa antincendio è sempre stata di tipo prescrittivo: lo Stato impone le regole precettive ed i soggetti obbligati agli adempimenti, che si avvalgono del supporto dei tecnici del settore, hanno l’onere di rispettarle, il tutto sotto il controllo sistematico del Corpo dei VV.F.
Questo tipo di impostazione, comoda per un'utenza poco abituata all’analisi del rischio incendio e alla valutazione delle conseguenti misure, ha comportato il frequente ricorso all'istituto della deroga, che crea una serie di difficoltà procedurali.
Si rende, pertanto, necessaria l’introduzione di un nuovo quadro della regolamentazione tecnica e di un nuovo approccio metodologico più aderente al progresso tecnologico, che superi l’articolata e complessa
stratificazione di norme, circolari e pareri del vigente panorama normativo di riferimento di settore.
Il piano presentato dai VV.F., che si tradurrà presto in decreto ministeriale, punterà su un approccio meno prescrittivo che favorisca contemporaneamente una migliore valutazione dei rischi ed introdurrà procedure più snelle continuando a mantenere un elevato controllo sui livelli di sicurezza.
I principi fondamentali a guida del nuovo piano sono:
generalità: le medesime metodologie di progettazione della sicurezza antincendio descritte possono essere applicate a tutte le attività;
semplicità: laddove esistano diverse possibilità per raggiungere il medesimo risultato si prediligono soluzioni più semplici, realizzabili, comprensibili, per le quali è più facile operare la revisione;
modularità: l’intera materia è strutturata in moduli di agevole accessibilità, che guidano il progettista antincendio alla individuazione di soluzioni progettuali appropriate per la specifica attività;
flessibilità: per ogni livello di prestazione di sicurezza antincendio richiesto all’attività sono indicate diverse soluzioni progettuali prescrittive o prestazionali. Sono, inoltre, definiti metodi riconosciuti che valorizzano l’ingegneria antincendio, che consentono al progettista antincendio di individuare, autonomamente, specifiche soluzioni progettuali alternative e dimostrarne la validità, nel rispetto degli obiettivi di sicurezza antincendio;
standardizzazione ed integrazione: il linguaggio in materia di prevenzione incendi è conforme agli standard internazionali e sono unificate le diverse disposizioni previste nei documenti esistenti della prevenzione incendi in ambito nazionale;
inclusione: le persone che frequentano le attività sono considerate un fattore sensibile nella progettazione della sicurezza antincendio, in relazione anche alle diverse abilità (es. motorie, sensoriali, cognitive, ecc.), temporanee o permanenti;
contenuti basati sull’evidenza: il presente documento è basato su ricerca, valutazione ed uso sistematico dei risultati della ricerca scientifica nazionale ed internazionale nel campo della sicurezza antincendio;
aggiornabilità: il documento è redatto in modo da poter essere facilmente aggiornato al continuo avanzamento tecnologico e delle conoscenze (08.05.2014 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 14.05.2014, "Classificazione del territorio montano ai sensi dell’art. 3 della legge regionale 15.10.2007, n. 25" (deliberazione G.R. 08.05.2014 n. 1794).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 14.05.2014, "Approvazione definitiva dei criteri e dei parametri per l’individuazione e la classificazione dei comuni montani e parzialmente montani, ai sensi dell’art. 3 della legge regionale 15.10.2007, n. 25" (deliberazione G.R. 08.05.2014 n. 1793).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 12.05.2014, "Integrazione del d.d.g. n. 9001 dell’08.08.2008 «Approvazione delle linee guida per l’avvio di sperimentazioni sul deflusso minimo vitale in tratti del reticolo idrico naturale regionale»" (decreto D.G. 08.05.2014 n. 3816).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 12.05.2014, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.04.2014, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"  (comunicato regionale 06.05.2014 n. 61).

APPALTI: G.U.U.E. 06.05.2014 n. L 133 "Direttiva 2014/55/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16.04.2014 relativa alla fatturazione elettronica negli appalti pubblici".

ENTI LOCALI - TRIBUTI: G.U. 05.05.2014 n. 102 "Testo del decreto-legge 06.03.2014, n. 16, coordinato con la legge di conversione 02.05.2014, n. 68, recante: «Disposizioni urgenti in materia di finanza locale, nonché misure volte a garantire la funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni scolastiche»".

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 05.05.2014, "Modalità e criteri per l’attuazione di interventi di rimozione barriere architettoniche negli edifici residenziali privati, in attuazione delle disposizioni contenute nell’art. 34-ter della legge 20.02.1989 e della deliberazione di Giunta regionale del 13.03.2014 n. X/1506" (decreto D.U.O. 28.04.2014 n. 3511).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: A. Piccolo, L’induzione «non costringe ma convince» - nota a Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 14.03.2014 n. 12228 (01.05.2014 - tratto da www.giurisprudenzapenale.com).

EDILIZIA PRIVATA: Cessione “gratuita” di aree (e di opere di urbanizzazione) al Comune: trattamento fiscale dopo il D.Lgs. n. 23/2011 (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 03.04.2014 n. 248-2014-T).
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Sommario: 1. Premessa – Impostazione della problematica; 2. La natura giuridica degli atti di cessione “gratuita”; 3. Corollari ai fini del trattamento tributario.

EDILIZIA PRIVATA: J. Cortinovis, A. Galbiati, L. Spallino, INFRASTRUTTURE E IMPIANTI DI COMUNICAZIONI ELETTRONICHE - digesto di normativa e giurisprudenza (aggiornato all'01.04.2014 - tratto da  www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 21.03.2014 n. 216-2014-C).
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Sommario: 1. Premessa. 2. La rinunzia in genere: cenni. 3. La rinunzia al diritto di proprietà: ammissibilità. 3.1. Segue: natura ed effetti. 3.2. Segue: la trascrizione. 4. La rinunzia alla quota indivisa di comproprietà: ammissibilità. 4.1 Segue: natura ed effetti. 4.2 Segue: la trascrizione. 5. La rinunzia al diritto di superficie. 6. La rinunzia al diritto di enfiteusi. 7. La rinunzia al diritto di usufrutto. 7.1. Segue: la rinunzia ai diritti di uso e abitazione. 8. La rinunzia alla servitù. 8.1. Segue: l’abbandono del fondo servente. 9. Conclusioni.

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Oggetto: Monitoraggio opere pubbliche in attuazione del decreto legislativo del 29/12/2011 n. 229 - Nuove modalità operative di invio dei dati - Indicazione del Codice Unico di Progetto (CUP).
Allo scopo di ridurre il set di informazioni che le stazioni appaltanti dovranno comunicare al Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), per l’inserimento nell’istituita Banca Dati delle Amministrazioni Pubbliche (BDAP), l’AVCP ha assunto l’impegno di trasmettere alla medesima BDAP tutti i dati concernenti il ciclo di vita dei contratti pubblici, dalla fase di assegnazione del CIG, già in suo possesso.
Risulterà tuttavia necessario che i suddetti dati siano corredati oltre che del CIG anche del Codice Unico di Progetto (CUP) cui si riferiscono.
L’integrazione ove necessaria, dovrà avvenire a cura dei RUP, nel rispetto della tempistica indicata (comunicato del Presidente 08.05.2014).

APPALTI: Contributi in sede di gara - Attuazione dell’art. 1, commi 65 e 67, della Legge 23.12.2005, n. 266, per l’anno 2014 (deliberazione 05.03.2014).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Art. 4, comma 6, del d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013. Stabilizzazioni.
L'art. 35, comma 3-bis, del d.lgs. 165/2001, cui rinvia il comma 6, dell'art. 4, del d.l. 101/2013 ai fini delle stabilizzazioni, richiama espressamente le pubbliche amministrazioni al rispetto del limite massimo complessivo del 50 per cento delle risorse finanziarie disponibili ai sensi della normativa vigente in materia di assunzioni ovvero di contenimento della spesa di personale, secondo i rispettivi regimi limitativi fissati dai documenti di finanza pubblica.
Per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia è necessario pertanto rispettare detto limite di spesa, con riferimento sia alle disposizioni regionali prettamente finanziarie relative al patto di stabilità e al contenimento della spesa del personale, sia avuto riguardo alle ulteriori previsioni limitative contenute all'art. 13, comma 16, della l.r. 24/2009.

Il Comune ha chiesto, in relazione al parere reso da questo Servizio con nota prot. n. 2400 del 27.01.2014, di conoscere se per gli educatori dei servizi educativi, scolastici, di integrazione scolastica e ricreatori, per i quali la l.r. 5/2013 ha introdotto una specifica deroga assunzionale all'art. 13, comma 16-bis, lett. a), punto 1-quater, della l.r. 24/2009
[1], risulti 'corretto avviare le procedure di stabilizzazione nel limite del 50% dei posti vacanti al fine di garantire l'adeguato accesso dall'esterno, fermo restando che l'altro 50 % dei posti verrà coperto con una procedura concorsuale ordinaria'.
Le procedure di stabilizzazione del personale precario, in applicazione di quanto disposto dall'art. 4, comma 6, del d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013, si configurano come procedure di reclutamento speciale, distinte quindi dalle ordinarie procedure di reclutamento (concorsi pubblici).
Trattandosi di procedure speciali, disciplinate da apposita normativa, trova applicazione quanto espressamente previsto dalla medesima disposizione che ne consente l'effettuazione: pertanto, per le stabilizzazioni è necessario rispettare il preciso limite di spesa per assunzioni imposto dal legislatore statale, limite inderogabile e, pertanto, non superabile.
A tal proposito, si osserva che l'art. 35, comma 3-bis, del d.lgs. n. 165/2001, cui rinvia il comma 6, dell'art. 4, del d.l. 101/2013 ai fini delle stabilizzazioni, richiama espressamente le pubbliche amministrazioni al rispetto del limite massimo complessivo del 50 per cento delle risorse finanziarie disponibili ai sensi della normativa vigente in materia di assunzioni ovvero di contenimento della spesa di personale, secondo i rispettivi regimi limitativi fissati dai documenti di finanza pubblica.
Pertanto, per gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, è necessario rispettare detto limite di spesa, con riferimento sia alle disposizioni regionali prettamente finanziarie relative al patto di stabilità e al contenimento della spesa del personale, sia avuto riguardo alle ulteriori previsioni limitative contenute nell'art. 13 della l.r. n. 24/2009, con riferimento quindi anche al comma 16 del medesimo articolo, che prevede un contingente di personale la cui spesa annua onnicomprensiva non superi il 20 per cento di quella relativa alle cessazioni di personale a tempo indeterminato avvenute nel corso dell'esercizio precedente e non già riutilizzata nel corso dell'esercizio stesso.
Si ritiene, pertanto, che il computo del 50% delle risorse disponibili per le procedure di stabilizzazione vada effettuato tenuto conto anche delle su esposte limitazioni.
Ad ogni buon conto si demandano all'attenta valutazione dell'Ente le determinazioni del caso, in relazione a quanto già operato complessivamente nel periodo pregresso ai fini assunzionali, tenendo conto anche della richiamata sentenza n. 54/2014 della Corte Costituzionale e degli eventuali correttivi che potrebbero essere apportati in applicazione dei principi affermati dalla medesima.
Per quanto concerne il computo delle risorse disponibili, si osserva che una sezione regionale di controllo della Corte dei conti
[2] ha precisato che l'avvio delle procedure di stabilizzazione risulta espressamente subordinato al rispetto della vigente normativa in materia di assunzioni e di contenimento della spesa di personale. Infatti -evidenzia la Corte dei conti- l'inserimento del lavoratore nella stabile struttura dell'ente, lungi dal risolversi in una mera modificazione del contratto già in essere, richiede l'instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro a tempo indeterminato che, come tale, rimane soggetto ai divieti e alle limitazioni previste in materia di assunzioni dalla legislazione vigente.
Richiamando i vincoli assunzionali previsti, a livello statale, per gli enti soggetti al patto di stabilità, la Corte dei conti ha espressamente ritenuto che il comune possa procedere nel 2014 all'assunzione a tempo indeterminato del personale in possesso dei requisiti previsti dall'art. 4, commi 6 e seguenti, del d.l. 101/2013 (stabilizzazioni) esclusivamente in misura non superiore al 50 per cento del limite assunzionale (pari al 40 % della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente) di cui all'art. 76, comma 7, del d.l. 112/2008
[3].
Resta fermo che il residuo 50% delle risorse disponibili sarà utilizzato dall'Ente per assunzioni mediante procedure di reclutamento ordinario (concorso pubblico), dovendo comunque garantire un adeguato accesso dall'esterno, ai sensi di quanto disposto dall'art. 35, comma 1, del d.lgs. 165/2001
[4].
La Corte dei conti ha peraltro precisato che la norma in materia di stabilizzazioni non richiede che le procedure esterne siano attivate contestualmente all'indizione delle procedure riservate ai precari
[5].
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[1] Al riguardo, si ricorda che la Corte Costituzionale, con sentenza 27.03.2014, n. 54, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli art. 12, comma 30 e 14, commi 43 e 44, della l.r. 22/2010 (Legge finanziaria 2011). In particolare, il comma 43 dell'art. 14 aveva inserito il comma 16-bis) dell'art. 13 della l.r. 24/2009.
[2] Cfr. Lombardia, 78/2014/PAR.
[3] Limiti assunzionali stabiliti dalla citata normativa statale.
[4] L'assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene tramite procedure selettive che garantiscano in misura adeguata l'accesso dall'esterno. Secondo l'orientamento consolidato della Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 90/2012), non può essere riservata a concorsi interni una quota superiore al 50 per cento dei posti disponibili.
[5] Cfr. sez. reg. di controllo per la Liguria, deliberazione n. 76/2013
(12.05.2014 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ape comunque necessario.
Domanda
Se il locatore, per qualsiasi motivo, non possiede e quindi non cita nel contratto di locazione l'Ape per un dato immobile, potrà farlo successivamente? In caso affermativo, occorre registrare nuovamente il contratto?
Risposta
A termini di legge deve comunque farlo entro 45 giorni, anche se l'omessa dichiarazione nel contratto di locazione resta comunque pesantemente sanzionabile ai sensi di quanto disposto dall'art. 6 del dlgs n. 192/2005, come recentemente modificato. In tal senso dispone espressamente la norma introdotta nell'art. 6 del dlgs n. 192/2005 nella fase di conversione in legge (n. 9/2014) del dl n. 145/2013: «Il pagamento della sanzione amministrativa non esenta comunque dall'obbligo di presentare la dichiarazione o la copia dell'attestato di prestazione energetica entro quarantacinque giorni».
Al fine di ottemperare a tale prescrizione non è necessario procedere nuovamente alla registrazione a tassa fissa (euro 200, come da ris. Ag. entrate del 22.11.2013) del contratto di locazione, integrato con la dichiarazione del conduttore di avere ricevuto copia dell'Ape, essendo sufficiente stipulare e registrare (comunque su base volontaria) un'appendice al contratto di locazione nella quale il conduttore potrà rendere tale dichiarazione richiamando tutti gli estremi (inclusi quelli di registrazione) del contratto di locazione (articolo ItaliaOggi Sette del 05.05.2014).

SEGRETARI COMUNALI: Segretari comunali. Limiti spese per missione e convenzioni.
Il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato ha chiarito che l'art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001 per i segretari comunali e provinciali, inerente il rimborso delle spese sostenute dal segretario titolare di sede di segreteria convenzionata, per gli spostamenti tra le varie sedi istituzionali, non è stato reso inefficace dall'entrata in vigore dell'art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010, che pone limitazioni alle spese per missione.
Il Comune ha chiesto di conoscere se il limite di spesa per missioni di cui all'art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010, debba intendersi applicabile anche nei confronti dei rimborsi per accessi effettuati dal segretario comunale in convenzione, per gli spostamenti dalla sede principale all'ente in convenzione.
La richiamata norma prevede che, a decorrere dall'anno 2011, le amministrazioni inserite nel conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni non possono effettuare spese per missioni, anche all'estero, con esclusione delle missioni internazionali di pace e delle Forze armate, delle missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale di magistratura, nonché di quelle strettamente connesse ad accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare la partecipazione a riunioni presso enti e organismi internazionali o comunitari, nonché con investitori istituzionali necessari alla gestione del debito pubblico, per un ammontare superiore al 50 per cento della spesa sostenuta nell'anno 2009.
La disposizione in esame precisa altresì che gli atti e i contratti posti in essere in violazione di tale prescrizione costituiscono illecito disciplinare e determinano responsabilità erariale.
Si stabilisce inoltre che il limite di spesa fissato può essere superato in casi eccezionali, previa adozione di un motivato provvedimento adottato dall'organo di vertice dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente.
Si specifica altresì che il limite introdotto non si applica alla spesa effettuata per lo svolgimento di compiti ispettivi e che, a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo d.l. 78/2010, gli articoli 15 della l. 836/1973
[1] e 417/1978 [2] e relative disposizioni di attuazione non si applicano al personale contrattualizzato di cui al d.lgs. 165/2001 e cessano di avere effetto eventuali analoghe disposizioni contenute nei contratti collettivi.
Si informa che della questione prospettata dall'Ente istante era stato investito a suo tempo, da parte dello scrivente Servizio, il Ministero dell'Interno, che aveva coinvolto a sua volta il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato.
Il citato Dipartimento si è espresso nei seguenti termini
[3].
Si è innanzitutto rammentato che le Sezioni Riunite in sede di controllo della Corte dei conti hanno ritenuto che l'art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001 per i segretari comunali e provinciali
[4] 'non sia stato reso inefficace dall'entrata in vigore dell'art. 6, comma 12, della legge n. 122 del 2010 stante la diversità della fattispecie. L'art. 6 della legge n. 122 del 2010 ha limitato le spese connesse al trattamento di missione, ossia ai trasferimenti effettuati per conto dell'amministrazione di appartenenza per l'espletamento di funzioni ed attività da compiere fuori dalla sede. Il rimborso previsto dall'art. 45, comma 2, del CCNL intende sollevare il segretario comunale o provinciale dalle spese sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove il medesimo è chiamato ad espletare le funzioni. L'art. 45, comma 3, ripartendo la spesa per suddetti trasferimenti tra i diversi enti interessati secondo le modalità stabilite nella convenzione' dimostra come tale onere assuma carattere negoziale e non possa ricondursi all'interno del trattamento di missione tout court.
Deve pertanto ritenersi che le limitazioni al trattamento di missione introdotte dall'art. 6 della legge n. 122 del 2010 non comportino l'inefficacia dell'art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001 per i Segretari Comunali e Provinciali inerente il rimborso delle spese sostenute dal segretario titolare di sede di segreteria convenzionata.
La Ragioneria Generale dello Stato, nel concordare con il su esposto orientamento, ha inoltre rappresentato ulteriori riflessioni sull'argomento.
In particolare, si è precisato che l'uso del mezzo proprio, da parte di un segretario titolare di una segreteria convenzionata, non configura un'esigenza estemporanea ed episodica, quanto piuttosto una modalità operativa e organizzativa connaturata alle caratteristiche proprie dell'istituto in esame. In sostanza, l'esigenza di garantire la necessaria flessibilità al segretario comunale, per suddividere la sua prestazione professionale tra più enti, appare legata alla possibilità di continuare ad utilizzare il mezzo proprio. Inoltre, le caratteristiche peculiari dell'attività del segretario, legata ai tempi e alle esigenze degli organi politici (si pensi, ad esempio, alla partecipazione a giunte e consigli comunali) rendono la medesima difficilmente conciliabile con l'uso di mezzi pubblici o di auto di proprietà degli enti.
A ciò deve aggiungersi che la stipulazione di una convenzione di segreteria ha tra i suoi obiettivi fondamentali proprio il conseguimento di un risparmio di spesa, poiché consente agli enti convenzionati (nella maggioranza dei casi, piccoli comuni) di non accollarsi in toto una retribuzione di significativa rilevanza.
In conclusione, la Ragioneria Generale dello Stato ha considerato non disapplicata la disposizione contrattuale di cui all'art. 45 del CCNL del 16.05.2001.
Tuttavia, nell'ottica di garantire la compatibilità di quanto affermato con i principi di risparmio introdotti dal d.l. 78/2010, ha ritenuto comunque necessario fornire ulteriori precisazioni di dettaglio.
Si è evidenziato che deve ritenersi disapplicata qualsiasi disposizione, a qualsiasi titolo posta in essere, che ancori l'entità del rimborso chilometrico alle tariffe ACI. Viceversa, deve ritenersi attribuibile solo un'indennità chilometrica pari ad un quinto del costo della benzina verde per ogni chilometro. Nelle convenzioni di segreteria devono essere predeterminate puntuali misure volte a circoscrivere gli spostamenti del segretario tra una sede e l'altra a quanto strettamente necessario alle esigenze lavorative, attraverso una programmazione delle presenze che riduca al minimo indispensabile gli oneri di rimborso per gli enti.
Da ultimo, si è sottolineato che nessun rimborso debba essere riconosciuto per i tragitti abitazione-luogo di lavoro e viceversa.
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[1] Trattamento economico di missione e di trasferimento dei dipendenti statali.
[2] Adeguamento trattamento economico di missione e di trasferimento dei dipendenti statali.
[3] Con nota prot. n. 54055 del 21.04.2011.
[4] Tale norma prevede che al segretario titolare di segreterie convenzionate, per l'accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute e documentabili
(
02.05.2014 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

TRIBUTI: Acconto Tasi, i contribuenti appesi alle delibere comunali. I titolari di fabbricati e aree edificabili sono costretti a monitorare i siti internet.
Contribuenti senza certezze per il pagamento dell'acconto Tasi entro il prossimo 16 giugno. I titolari di fabbricati, anche se destinati a prima casa, e di aree edificabili devono vigilare sulle scelte che le amministrazioni comunali faranno nelle prossime settimane, per stabilire se la nuova imposta dovrà essere versata in acconto e con quali aliquote dovrà essere calcolato il tributo. In sede di conversione del dl sulla finanza locale (16/2014), infatti, sono state apportate diverse modifiche alla disciplina dell'imposta per quanto concerne le scadenze di pagamento e le modalità di calcolo dell'acconto.
L'articolo 1 del dl 16/214, in seguito alle modifiche introdotte con la legge di conversione, sostituisce il comma 688 della legge di stabilità (147/2013) e sottrae ai comuni il potere di fissare le scadenze della Tasi.
Questo tributo va versato ex lege in due rate di pari importo, le cui scadenze coincidono con quelle previste per l'Imu, vale a dire: 16 giugno, acconto; 16 dicembre, saldo. Mentre per il prossimo anno l'acconto Tasi potrà essere determinato facendo riferimento alle aliquote e detrazioni deliberate per il 2014, per l'anno in corso il legislatore fissa delle deroghe alle regole ordinarie sia per le abitazioni principali che per gli altri immobili.
In particolare, per gli immobili diversi dall'abitazione principale i contribuenti devono pagare l'acconto calcolando l'imposta con l'aliquota di base dell'1 per mille, ma solo se i comuni non delibereranno un'aliquota diversa entro il 31 maggio.
Per le abitazioni principali, invece, si pagherà tutto a saldo, entro il 16 dicembre, a meno che i comuni non trasmettano le delibere di approvazione di aliquote e detrazioni entro il prossimo 23 maggio al ministero dell'economia e delle finanze per la pubblicazione sul Portale del federalismo fiscale entro il 31 maggio.
Dunque, i comuni hanno poco tempo a disposizione per deliberare aliquote e detrazioni.
L'imposta sui servizi indivisibili per gli immobili adibiti a abitazione principale dovrà essere versata in un'unica soluzione, a saldo, entro il 16 dicembre, a meno che le amministrazioni locali non rispettino due adempimenti: invio delle deliberazioni in via telematica entro il 23 maggio, con l'inserimento del testo nell'apposita sezione del Portale del federalismo fiscale, e loro pubblicazione sul sito informatico del ministero dell'economia e delle finanze entro il 31 maggio.
Soggetti passivi. Sono obbligati al pagamento della Tasi sia proprietari che inquilini. L'articolo 1, commi 671 e 681, della legge di stabilità individua come distinti soggetti passivi possessori e detentori degli immobili.
Al riguardo, va posto in rilievo che è privo di effetti giuridici qualsiasi eventuale accordo in base al quale il carico tributario viene traslato da uno all'altro dei soggetti passivi. Il titolare dell'immobile non può impegnarsi, anche se l'accordo viene manifestato all'ente attraverso la dichiarazione fiscale, a versare la quota a carico dell'inquilino che va dal 10 al 30% del tributo complessivamente dovuto, a seconda della scelta regolamentare fatta dall'ente. Del resto, il titolare non è tenuto neppure a pagare la quota che il comune pone a carico del detentore, qualora quest'ultimo non versi l'imposta dovuta.
Solo in caso di occupazione temporanea, non superiore a sei mesi, è obbligato al versamento del tributo colui che risulti possessore dell'immobile. La Tasi, che è diretta a recuperare i costi che l'amministrazione comunale sostiene per garantire i servizi indivisibili (trasporto, illuminazione pubblica e così via), che devono essere espressamente individuati nel regolamento comunale e per i quali è imposto l'obbligo di specificare i relativi costi, è in parte a carico dell'occupante dell'immobile che fruisce dei servizi stessi, sempre che la detenzione dell'immobile non sia di breve durata. In caso di detenzione temporanea non superiore a sei mesi nel corso dello stesso anno solare, infatti, il tributo è dovuto per intero dal titolare dell'immobile e non dall'inquilino.
Modalità di pagamento. Il pagamento della Tasi potrà essere effettuato, come per la Tares, con il modello F24 o tramite apposito bollettino di conto corrente postale, secondo le regole stabilite dall'articolo 17 del decreto legislativo 241/1997. Quindi, le somme versate dai contribuenti verranno incassate dalla «Struttura di gestione», allo stesso modo di come avviene per il modello F24, e riversate all'ente interessato.
A differenza della Tari, non è possibile pagare tramite i servizi elettronici di incasso e interbancari. La legge, però, impone che Tasi e Tari dovranno essere versate in momenti diversi, fermo restando che gli interessati potranno pagare in un'unica soluzione entro il 16 giugno di ciascun anno, qualora siano già a conoscenza delle deliberazioni adottate dall'ente (articolo ItaliaOggi Sette del 05.05.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Tecno-tracciabilità dei rifiuti, il Sistri continua ad avanzare. In Gazzetta il dm Ambiente del 24 aprile che semplifica da una parte e amplia dall'altra.
Nuove regole per l'applicazione del Sistri al trasporto intermodale (effettuato, cioè, con diversi mezzi di movimentazione: auto, navi, aerei) dei rifiuti su tutto il territorio nazionale ed allargamento del tracciamento telematico ai gestori dei rifiuti urbani della Regione Campania.
Avanza, anziché arretrare come potrebbe far inizialmente pensare la prevista esclusione dall'obbligo per le piccole imprese) il campo di applicazione del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti operativo dal 01.10.2013. Sistema, lo ricordiamo, che mira a sostituire (salvo casi particolari) le tradizioni scritture ambientali (costituite da registri di carico e scarico, formulario di trasporto e dichiarazione Mud), imponendo ai soggetti della filiera: l'invio telematico dei dati sui rifiuti prodotti e gestiti a un cervellone informatico gestito dallo Stato; il controllo satellitare del loro trasporto; il videocontrollo del conferimento negli impianti di trattamento.
Con il decreto 24.04.2014, pubblicato sulla Guri del 30.04.2014 n. 99 e recante le semplificazioni previste dal «Codice Ambientale» per snellire il nuovo sistema, il Minambiente ha infatti reso, sì, facoltativo l'utilizzo del Sistri per le aziende sotto i 10 dipendenti e quelle agricole che agiscono in circuiti di raccolta organizzati di rifiuti (sebbene limitatamente alla sola stretta produzione iniziale di rifiuti pericolosi e con l'obbligo di effettuare comunque di tracciamento tradizionale) ma al contempo portando avanti l'intera macchina, tramite l'adozione delle ultime regole per il funzionamento della tracciabilità telematica nei punti di interscambio dei carichi di rifiuti (come porti, ferrovie e scali aerei) e anticipando (partendo dalla Campania) l'allargamento del nuovo sistema alle fasi di smaltimento e recupero degli «urbani».
Trasporto intermodale. In attuazione dell'articolo 188-ter del dlgs 152/2006, il nuovo dm 24.04.2014 (in vigore dal 1° maggio) detta le attese «modalità operative di applicazione a regime del Sistri al trasporto intermodale», stabilendo (fermi restando tutti gli obblighi di tracciamento telematico già imposti) le particolari condizioni da osservare per gestire in modo semplificato (ossia senza la tradizionale autorizzazione) il deposito dei rifiuti effettuato presso i cosiddetti operatori intermodali, ossia i soggetti (tra cui terminalisti delle aree portuali, uffici gestione merci di stazioni e interporti) ai quali i residui sono affidati in attesa della presa in carico da parte della successiva impresa di trasporto.
Le nuove norme integrano e specificano la portata delle più generali regole di favore previste dall'art.193 del dlgs 152/2006 in relazione a tutte le operazioni carico/scarico, trasbordo e soste tecniche. In base a tali regole, le predette operazioni possono dai detentori dei rifiuti essere effettuate in deroga alle ordinarie norme autorizzatorie allo stoccaggio solo a condizione che: non superino l'arco temporale dei 6 giorni; siano protratte per il massimo di ulteriori 24 giorni solo per caso fortuito o forza maggiore previa annotazione nella «Scheda Sistri – Area movimentazione» e tempestiva comunicazione a Comune e Provincia competente; siano accompagnate da iniziative opportune per prevenire pregiudizi ad ambiente e salute umana; alla scadenza dei 30 giorni complessivi i rifiuti siano conferiti a terzi autorizzati a trasporto e trattamento.
È su tale modello che si innestano le nuove regole, dirette a specificare oneri e responsabilità degli operatori presso i quali viene effettuato il deposito (e, di riflesso, quelli degli altri soggetti coinvolti nella filiera). Agli operatori il nuovo dm chiede ora: se alla scadenza dei sei giorni dall'inizio del deposito i rifiuti non siano presi in carico dall'impresa di trasporto successiva, di darne comunicazione formale, immediatamente e comunque entro le 24 ore, al produttore e altri eventuali altri soggetti che hanno organizzato il trasporto, di condurre comunque il deposito, per tutto l'arco della sua durata, nel rispetto delle relative norme sanitarie ed ambientali (tra le quali rientrano anche quelle sul deposito temporaneo).
Ai trasportatori è ora espressamente imposto di provvedere alla presa in carico dei rifiuti entro il 24 giorni successivi allo scadere dei primi 6, al fine di avviarli al corretto trattamento. L'inosservanza di tali condizioni comporterà per operatori e trasportatori la responsabilità a tiolo di stoccaggio di rifiuti non autorizzato ex art. 256, Codice ambientale. Prevede altresì il nuovo dm che gli oneri sostenuti dagli operatori depositari dei rifiuti sono a carico dei precedenti detentori e del produttore di rifiuti, in solido tra loro. E ciò superando (evidentemente in forza del potere conferito dallo stesso Codice ambientale al Minambiente) il citato art. 193 che stabilisce invece come in caso di superamento dei 30 giorni sia il detentore dei rifiuti a dover conferire, a propri costi e spese, i rifiuti a terzi autorizzati al trattamento.
Rifiuti della Campania. Forte della delega conferitagli dall'articolo 188-ter comma 3 del dlgs 152/06, il Minambiente con il nuovo regolamento provvede a individuare le «ulteriori categorie cui è necessario estendere il sistema di tracciabilità», allargando l'obbligo di adesione già operativo per Comuni e imprese di trasporto di rifiuti «urbani» della Regione Campania a tutti gli enti e le imprese che effettuano raccolta, recupero e smaltimento dei medesimi rifiuti sullo stesso territorio (così anticipando un onere che dal 30.06.2014, previa adozione di specifico dm Ambiente, ricadrà su tutti gli analoghi soggetti delle altre Regioni).
Sempre in base al nuovo dm, se i rifiuti campani varcano i confini regionali, è obbligo del gestore dell'impianto di destinazione (attualmente non obbligato al tracciamento telematico per gli «urbani») controfirmare la scheda Sistri all'atto della accettazione presso la propria struttura (evidentemente intendendo la copia cartacea della «Scheda movimentazione» che deve accompagnare il trasporto dei residui).
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Nuove regole approvate con riserva dal mondo delle imprese. Le criticità non scompaiono. Oneri e costi ancora nel mirino.
Le nuove regole del Sistri trovano una sostanziale approvazione dal mondo delle aziende, pur con una serie di distinguo e in attesa di capire se le enunciazioni normative si trasformeranno in realtà.
Da Rete Imprese Italia arriva un plauso all'esclusione dall'obbligo di adesione al sistema telematico per le imprese con meno di dieci dipendenti. «Il decreto firmato dal ministro Galletti cancella l'assurda equiparazione negli adempimenti sui rifiuti tra un piccolo artigiano o commerciante e un'impresa di maggiori dimensioni», spiegano dall'associazione. «Adesso, però, occorre proseguire verso il superamento dell'attuale sistema di tracciabilità, che complica inutilmente l'attività delle imprese, in particolar modo quelle del trasporto e della gestione dei rifiuti».
Rete Imprese Italia conferma, poi, le critiche già espresse in passato relativamente ad alcuni aspetti del Sistri, tra cui l'interoperabilità, «che ha dimostrato troppe criticità e inefficienze. Il sistema è scarsamente trasparente, ed è causa di pesanti e onerosi adempimenti per le imprese. Per questo auspichiamo nel prossimo incontro di poter affrontare una volta per tutte la questione Sistri nella sua interezza, a cominciare dall'esclusione anche per i piccoli trasportatori e i piccoli gestori».
Il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti, parlando a nome della platea di artigiani, chiede di andare oltre, «rottamando definitivamente il Sistri che, in questi anni, a 300 mila imprese italiane è costato 250 milioni a fronte di un sistema che non ha mai funzionato».
La Cna accoglie positivamente il nuovo decreto, parlando di «una bella notizia per decine di migliaia di piccole imprese. Finalmente il Governo accoglie uno dei temi della nostra lunga mobilitazione sul Sistri», spiegano dall'associazione, «e cioè che non possono essere messe di fronte agli stessi obblighi di tracciabilità dei rifiuti un'estetista e un'industria siderurgica». Anche in questo caso il plauso va al titolare del dicastero dell'Ambiente, che dal suo insediamento si era impegnato per escludere dagli obblighi normativi le piccole imprese. «Il ministro Galletti ha mantenuto gli impegni senza esitare», commentano dalla Cna. «È una esplicita conferma che l'intero impianto del Sistri deve essere superato e riformato. Per le altre imprese che restano obbligate al sistema, tra cui anche i piccoli trasportatori e i piccoli gestori, permangono infatti complicazioni pesanti e costi inutili che sopportano dal primo giorno di applicazione del sistema». Da qui la proposta di ridefinire l'intero impianto normativo, in modo da arrivare, «dopo un'adeguata sperimentazione, a un sistema integrato di tracciabilità dei rifiuti pericolosi efficace, efficiente e semplice».
Tornando alle esclusioni, Agrinsieme (Confagricoltura, Cia e Alleanza nazionale delle cooperative) accoglie positivamente l'esonero delle aziende agricole. «Il decreto ha giustamente tenuto in considerazione le peculiarità del nostro settore e il suo carattere marginale nella produzione di rifiuti pericolosi, escludendo le imprese agricole sia per dimensione e valorizzando al contempo i sistemi di raccolta attuati con i circuiti organizzati di raccolta», commenta il coordinatore Mario Guidi.
«È un provvedimento che va nella direzione fortemente sostenuta da Agrinsieme di una semplificazione del carico burocratico gravante sulle imprese agricole, che non si sentono per questo esentate dalla tracciabilità dei rifiuti e dalla loro corretta gestione». Guidi insiste sul punto, sottolineando che il comparto agricolo «non si esime dalla tracciabilità dei rifiuti, ma ha la necessità che la stessa sia adattata alle esigenze operative dell'attività». Il cartello di associazioni accoglie la mossa del Governo come un primo passo «nell'opera di semplificazione promessa. L'augurio è che venga seguita, nell'immediato futuro, da provvedimenti analoghi relativi agli altri adempimenti amministrativi che le aziende agricole devono affrontare nella loro attività quotidiana».
A completare il quadro è l'opinione di Conftrasporto, con il responsabile del settore rifiuti, Maurizio Quintaiè, che ricorda come la confederazione sia stata sempre favorevole a un sistema telematico di tracciabilità dei rifiuti, a patto che «sia economico e di rapido utilizzo, in modo da essere efficace per combattere le ecomafie e la malavita organizzata nel mondo della movimentazione e dello smaltimento dei rifiuti». L'esperto ricorda che, per funzionare, «questo sistema deve essere attuato sia dai vettori italiani, che dagli esteri che operano in Italia». Una precisazione dettata dalla volontà di far emergere i limiti del nuovo decreto nella misura in cui si restringe il raggio di azione del Sistri ai soli rifiuti speciali pericolosi (circa il 10% di tutti quelli movimentati) e si limita l'obbligo alle aziende con oltre dieci dipendenti.
«Questa combinazione di elementi determina una forte limitazione della finalità di controllo del sistema telematico», spiega Quintaiè, «oltre che una confusione tra chi deve tracciare i rifiuti in modo cartaceo (con il formulario di trasporto, i registri di carico e scarico e il Mud annuale) e chi invece è soggetto alla tracciabilità informatica degli stessi. Senza dimenticare l'aggravio per i vettori specializzati, che dovranno operare con entrambi i sistemi: quello cartaceo per i clienti non soggetti a Sistri e quello informatico per gli altri», conclude.
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I piccoli produttori ora possono scegliere se aderire o meno.
Stretta l'uscita dal tracciamento telematico per enti e imprese in base al nuovo dm Ambiente solo «facoltizzati» al Sistri, novero che abbraccia i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi (ex articolo 184, comma 3, lettere a, b, c, d, e, f ed h, del dlgs 152/2006) che non superano i 10 dipendenti e le imprese agricole che, indifferentemente dall'organico, immettono i propri analoghi rifiuti in un circuito organizzato di raccolta.
In primo luogo, per tali soggetti il Sistri resta infatti un obbligo nel caso in cui oltre alla produzione dei rifiuti essi intendano procedere in prima persona anche allo «stoccaggio» ex art. 183, comma 1, lettera aa) del dlgs 152/06, ossia al «deposito preliminare» (allo smaltimento) o alla «messa in riserva» (preliminare al recupero), vere e proprie operazioni di gestione di rifiuti. Ancora, la mancata adesione (volontaria) al Sistri comporta per i medesimi soggetti l'obbligo di tracciamento tradizionale dei propri rifiuti speciali pericolosi. Obbligo, confermato dal nuovo Dm, che in alcuni casi vedrà anche allargato il proprio campo di applicazione.
Si ricorda infatti che in base al nuovo art. 190, dlgs 152/2006 introdotto dal dlgs 205/2010 e legge 125/2013, l'obbligo di registri di carico e scarico riguarderà tutti gli imprenditori agricoli produttori di rifiuti speciali pericolosi, sebbene mediante una modalità semplificata coincidente con la conservazione progressiva per tre anni: del formulario di trasporto dei rifiuti o della copia della scheda Sistri; nel caso di conferimento a circuito organizzato, del documento rilasciato dal soggetto che provvede alla raccolta. Nuove regole la cui applicazione il dm Ambiente appare invocare fin da subito (laddove nell'art. 1 richiama i soggetti in questione al rispetto de «gli obblighi relativi alla tenuta dei registri di carico e scarico e del formulario di identificazione di cui agli articoli 190 e 193 dlgs n. 15/2006 e successive modificazioni cd integrazioni»), ma la cui operatività è dalla legge 125/2013 e dal dl 150/2013) fatta slittare al 01.01.2015.
Contributo 2014. Il termine ultimo per il pagamento da parte dei soggetti iscritti del contributo per la copertura degli oneri derivanti da costituzione e funzionamento del Sistri è dal nuovo Dm, ma solo per l'anno in corso, prorogato dal 30 aprile al 30.06.2014. E sulla natura di tale contributo, evidentemente corrisposto anche dai soggetti che in base al nuovo regolamento del Minambiente non sono più obbligati al Sistri, val la pena ricordare come dal verbale della seduta 16.05.2012 della Commissione parlamentare d'inchiesta sui rifiuti risulti che lo stesso Dicastero abbia dichiarato che il «Sistri non è concepito come un servizio, ma come un obbligo di natura amministrativa al quale corrisponde un costo per l'operatore. Da questo punto di vista, l'Avvocatura dello Stato, a fronte di una richiesta circa la possibilità di sospendere il contributo, ha affermato che non esistono le condizioni, che la legge non lega il contributo alla prestazione».
Regime transitorio Sistri. In base all'attuale quadro normativo riformulato dal dl 101/2013 occorre infine sottolineare come fino al prossimo 31.12.2014 sia vigente un particolare regime transitorio che da un lato sospende l'applicazione delle sanzioni per le violazioni Sistri e dall'altro imponga ai soggetti interessati dal tracciamento telematico di continuare a osservare (dietro minaccia delle relative sanzioni ex dlgs 152/2006) le tradizionali regole di tracciamento telematico sostituite da registri di carico/scarico, formulario di trasporto e Mud (da effettuarsi dunque anche nel 2015) (articolo ItaliaOggi Sette del 05.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Climatizzatori al check-up. Da giugno libretto unico per caldaie e condizionatori. Nuova veste ai documenti che certificano l'efficienza degli impianti in case e uffici.
Dal 01.06.2014 gli impianti termici di uffici, aziende e abitazione dovranno essere muniti del nuovo libretto unico. Sempre dalla stessa data il libretto diventerà obbligatorio anche per i dispositivi di climatizzazione estiva. Rispetto al passato, il nuovo libretto non sarà suddiviso in due modelli (libretti di centrale e l'altro di impianto), ma sarà rappresentato da un unico libretto, composto da tante schede, utilizzabili in funzione delle apparecchiature componenti l'impianto.
Nel nuovo libretto sarà possibile indicare la presenza sia dell'impianto termico (di qualsiasi potenza) sia dell'impianto di climatizzazione estiva. Quindi, a partire dal 1° giugno cambierà il volto dei documenti che certificano l'efficienza degli impianti installati in ufficio, in azienda o in casa
.
È con il dm 10.02.2014 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 07.03.2014 n. 55) che sono stati definiti i nuovi modelli di libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica.
Gli impianti termici sono dispositivi tecnologici destinati alla climatizzazione estiva e invernale degli ambienti con o senza produzione di acqua calda per usi igienici e sanitari o alla sola produzione centralizzata di acqua calda per gli stessi usi, comprendente eventuali sistemi di produzione, distribuzione e utilizzazione del calore nonché gli organi di regolazione e di controllo. Sono compresi negli impianti termici gli impianti individuali di riscaldamento, mentre non sono considerati impianti termici i caminetti e gli scaldacqua unifamiliari.
Il provvedimento consentirà nel tempo di contenere i consumi di energia negli edifici per effetto dell'ampliamento della platea degli impianti da sottoporre a verifica e controllo dell'efficienza energetica e di avere un quadro sempre aggiornato su caratteristiche e dimensioni del parco nazionale degli impianti per la climatizzazione invernale ed estiva.
Le peculiarità del libretto. Il libretto di impianto per gli impianti di climatizzazione invernale e/o estiva sarà disponibile in forma cartacea o elettronica. Nel primo caso verrà conservato dal responsabile dell'impianto o eventuale terzo responsabile, che ne curerà l'aggiornamento dove previsto o mettendolo a disposizione degli operatori di volta in volta interessati. Il libretto di impianto elettronico sarà conservato presso il catasto informatico dell'autorità competente o presso altro catasto accessibile all'autorità competente, e verrà aggiornato di volta in volta dagli operatori interessati, che potranno accedere mediante una password personale al libretto.
Il libretto di impianto sarà obbligatorio per tutti gli impianti di climatizzazione invernale e/o estiva, indipendentemente dalla loro potenza termica, sia esistenti che di nuova installazione. Se un edificio sarà servito da due impianti distinti, uno per la climatizzazione invernale e uno per la climatizzazione estiva, che in comune hanno soltanto il sistema di rilevazione delle temperature nei locali riscaldati e raffreddati, saranno necessari due libretti di impianto distinti. In tutti gli altri casi sarà sufficiente un solo libretto di impianto.
Compilazione libretto unico. Il libretto dovrà essere compilato per la prima volta dall'installatore, quando verrà messo in funzione l'impianto e poi aggiornato dal responsabile o dal manutentore.
Dal 01.06.2014 spetterà direttamente al responsabile dell'impianto (che nei piccoli impianti è l'utente, in condominio è l'amministratore o la ditta abilitata da questi delegata) recepire il nuovo modello, trascrivere sulla prima pagina i dati identificativi dell'impianto e poi consegnarlo, al momento del controllo, al manutentore per l'aggiornamento dell'impianto.
Rapporto efficienza energetica. Dal 01.06.2014 dovranno essere utilizzati i nuovi modelli per il rapporto di efficienza energetica. Quattro sono le tipologie di rapporto:
• controllo di efficienza energetica tipo 1 - gruppi termici;
• controllo di efficienza energetica tipo 1 - gruppi frigo;
• controllo di efficienza energetica tipo 1 - scambiatori;
• controllo di efficienza energetica tipo 1 - cogeneratore.
Il rapporto di efficienza energetica si compilerà per gli impianti termici di climatizzazione invernale di potenza utile nominale maggiore di 10 kW e di climatizzazione estiva di potenza utile nominale maggiore di 12 kW, con o senza produzione di acqua calda sanitaria (articolo ItaliaOggi Sette del 05.05.2014).

APPALTILa stazione appaltante può rinnovare l'accordo. La direttiva europea 24/2014 e le pronunce dei giudici amministrativi.
Riabilitata la possibilità della stazione appaltante di rinnovare il contratto d'appalto. La DIRETTIVA 2014/24/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 26.02.2014 dedicata agli appalti pubblici che abroga la direttiva 18/2004, di recente pubblicazione sulla G.U.U.E. del 28.03.2014, tra le rilevanti novità in tema di appalti ribadisce, così come già l'articolo 9 della direttiva abrogata e l'articolo 29 del codice degli appalti, la possibilità per la stazione appaltante di prevedere il rinnovo del contratto.
È noto che la previsione ha determinato un forte dibattito in dottrina e in giurisprudenza sulla querelle se la disposizione legittimasse o meno il cosiddetto rinnovo espresso previsto nel bando di gara compreso nella base d'asta.
La nuova direttiva n. 24/2014 reitera il richiamo, nell'articolo 5, ma in modo differente rispetto alla pregressa normativa, secondo una formulazione che appare coerente con la giurisprudenza domestica che, in tempi recenti, si è espressa per la legittimità della proroga del contratto se prevista negli atti di gara.
L'articolo 5 della nuova direttiva, a differenza dell'articolo 9 citato, non si limita a richiamare l'opzione o il rinnovo rammentando la necessità che il relativo costo venga compreso nella base d'asta onde evitare violazioni del diritto comunitario, ma risulta totalmente riformulato.
In particolare, il testo del primo comma, primo periodo, dell'articolo 5, statuisce che la base d'asta, al netto dell'Iva, deve comprendere le eventuali opzioni «e rinnovi eventuali dei contratti come esplicitamente stabilito nei documenti di gara».
Quindi, a differenza del pregressa disposizione (e di quella attuale del codice degli appalti), la più recente previsione è sicuramente più esplicita nell'ammettere la possibilità del prolungamento del contratto a condizione che la sua stessa disciplina, oltre che previsione, venga esplicitamente fissata nei documenti di gara.
Dal tenore letterale pertanto, il legislatore comunitario sembra rimettere alla stazione appaltante la possibilità di valutare la decisione di avvalersi del rinnovo fissandone il modus operandi, in ossequio ai principi di trasparenza e par condicio, nella legge speciale di gara.
In questo senso, come annotato, la formulazione della prescrizione appare perfettamente coerente e in linea con la recente, e probabilmente ormai maggioritaria giurisprudenza che ammette forme di prosecuzione del contratto se risultano già stabilite ab origine del procedimento amministrativo di aggiudicazione e quindi chiaramente preannunciate nel bando di gara o atto omologo.
In questo senso, in tempi recenti, il consiglio di stato, sez. III, che con la pronuncia del 28.02.2014 n. 942 ha puntualizzato, che non deve ritenersi «illegittima la clausola, conosciuta e accettata da tutti i partecipanti alla gara, che ha formato oggetto dell'insieme di regole sulle quali si era svolto il confronto concorrenziale tra le imprese, nel rispetto dei principi di trasparenza e concorrenza» in modo che tutti i partecipanti abbiano «potuto formulare le proprie offerte tenendo conto della possibilità del prolungamento della durata del contratto».
Gli stessi giudici, con sentenza del n. 3580/2013, in modo anche più chiaro avevano già statuito che «allorché la possibilità della proroga contrattuale sia resa nota ai concorrenti sin dall'inizio delle operazioni di gara, cosicché ognuno possa formulare le proprie offerte in considerazione della durata eventuale del contratto, nessuna lesione dell'interesse pubblico alla scelta del miglior contraente è possibile riscontrare, né alcuna lesione dell'interesse generale alla libera concorrenza, essendo la fattispecie del tutto analoga, dal punto di vista della tutela della concorrenza, a quella nella quale si troverebbero le parti contraenti nell'ipotesi in cui l'azienda avesse operato, ab initio, una scelta “secca” per la più lunga durata del contratto» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori esterni, titoli su quattro livelli. Dalla comunicazione semplice al Comune al permesso di costruire l'iter corretto da seguire.
Permessi edilizi. La procedura per gli interventi in giardino o sulle facciate esterne dell'immobile alla luce delle ultime pronunce dei giudici.

Con l'arrivo della stagione calda si programma la realizzazione di interventi di sistemazione esterna alla propria abitazione, come tende parasole e tettoie, il rifacimento di pavimentazioni e recinzioni, o l'installazione nel giardino di pergolati, gazebo o casette per attrezzi.
Molti di questi interventi non possono essere eseguiti liberamente: è necessaria una preventiva comunicazione o l'acquisizione di un titolo abilitativo, se comportano una permanente trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, essendo riconducibili agli "interventi di nuova costruzione" previsti dall'articolo 3, comma 1, lettera e.5) del Testo unico edilizia Dpr 380/1001. Nel concetto di nuova costruzione rientra infatti anche «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili». Sempreché non siano volti «a soddisfare esigenze meramente temporanee» ed anche nel caso in cui siano installati «con temporaneo ancoraggio al suolo».
Alla legislazione regionale ed alla regolamentazione comunale, ai sensi dell'articolo 10 del Tu, viene lasciato il compito di individuare per quali interventi sarà necessario il permesso di costruire, quali sono assoggettati a denuncia di inizio attività (Dia) o segnalazione certificata di inizio attività (Scia) e quali potranno essere eseguiti con una comunicazione di inizio lavori semplice o asseverata da un tecnico abilitato, in relazione alle varie ipotesi previste dall'articolo 6, comma 2, del Tu.
La giurisprudenza
Una recente pronuncia del Tar Campania-Napoli (sezione VIII, 10.02.2014, n. 971), nell'occuparsi della realizzazione di un gazebo in assenza di permesso di costruire, ha affermato la non necessità del titolo stante le sue ridotte dimensioni rispetto alla superficie totale dell'immobile, la circostanza che il manufatto fosse solo appoggiato al suolo e non stabilmente ancorato ed il fatto che fosse totalmente aperto sui lati, così da non determinare la creazione di volumi.
La pronuncia contiene anche una sintesi dei principi giurisprudenziali in materia di piccoli interventi esterni, rilevando come non sia necessario un titolo abilitativo ogni qualvolta le opere consistano nella installazione di tettoie o di altre strutture apposte a parti di preesistenti edifici come accessori di protezione o di riparo di spazi liberi. Queste non necessitano del permesso di costruire se «la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell'immobile cui accedono».
Per i giudici campani è invece necessario il permesso di costruire ove si sia in presenza di un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale, essendo irrilevante che le opere siano state realizzate in metallo, in laminati di plastica,in legno o altro materiale.
Operazione preliminare sarà quindi quella di verificare che l'opera che si intende realizzare comporti una stabile trasformazione dello stato dei luoghi (Tar Toscana, n. 843/2012; Tar Liguria, n. 1015/2011), oppure abbia natura temporanea, magari perché installata per il solo periodo estivo, (Consiglio di Stato, n. 3683/2011), se sia o meno stabilmente ancorata al suolo (Cassazione penale, sezione III, n. 36594/2012), se sia di notevoli dimensioni (Tar Basilicata n. 307/2011) o determini un forte impatto visivo (Consiglio di Stato, n. 4318/2012). Non va infine trascurato che per nuova costruzione si intendono non solo i manufatti che si elevano al di sopra del suolo, ma anche quelli in tutto o in parte interrati che comunque trasformano durevolmente l'area impegnata, come nel caso della realizzazione di una piscina (Cassazione penale, sezione III, n. 39067/2009).
Sarà comunque opportuno consultare il regolamento edilizio sul sito istituzionale del Comune competente per territorio, dove devono essere riportate anche tutte le informazioni relative all'assetto urbanistico-edilizio del territorio e l'elenco della documentazione necessaria che l'interessato deve produrre per ottenere il provvedimento richiesto e la modulistica.
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Tutela del paesaggio. Controlli raddoppiati. Autorizzazione per le aree vincolate.
Prima di programmare interventi in giardino o comunque all'esterno della propria abitazione una verifica da effettuare sarà quella sulla presenza di eventuali vincoli, in particolare quelli di natura paesaggistica o storico artistica, per ottenere la necessaria autorizzazione ed evitare di incorrere in violazioni anche penalmente sanzionabili.
Anche gli interventi di modesta entità, per i quali non è necessario un titolo abilitativo ai fini edilizi, devono essere prima autorizzati se effettuati su immobili ricadenti in aree assoggettate a tutela paesaggistica. La normativa di riferimento è costituita dal Dpr 139/2010, che disciplina il procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per le varie opere indicate nel relativo Allegato 1. Tra queste rientrano:
- la realizzazione di "tettoie, porticati, chioschi da giardino e manufatti consimili aperti su più lati, aventi una superficie non superiore a 30 mq.";
- la costruzione o la modifica di cancelli, recinzioni, muri di contenimento del terreno e muri di cinta esistenti senza incrementi di altezza;
- l'installazione di impianti tecnologici esterni per uso domestico autonomo, come condizionatori e impianti di climatizzazione dotati di unità esterna, caldaie, parabole, antenne, nonché pannelli solari, termici e fotovoltaici fino ad una superficie di 25 mq;
- gli interventi realizzati su pertinenze di edifici esistenti, quali pavimentazioni, accessi pedonali e carrabili di larghezza non superiore a 4 m, modellazioni del suolo, rampe o arredi fissi.
L'istanza va presentata, preferibilmente in via telematica, all'amministrazione competente individuata in ciascuna regione (può essere lo stesso Comune) insieme con una relazione paesaggistica semplificata, redatta da un tecnico abilitato. Se l'autorità preposta al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica non ha anche competenza in materia urbanistica ed edilizia, l'istanza andrà corredata dall'attestazione del Comune territorialmente competente di conformità dell'intervento alle prescrizioni urbanistico-edilizie. In caso di intervento assoggettato a Dia/Scia, l'attestazione sarà sostituita con le asseverazioni previste dall'articolo 23 del Dpr 380/2001.
Entro trenta giorni dal ricevimento della domanda, l'amministrazione verifica preliminarmente la conformità dell'intervento progettato alla disciplina urbanistico-edilizia, ove ne abbia la competenza, oppure verifica l'attestazione di conformità urbanistica rilasciata dal Comune o l'asseverazione del professionista. In caso di difformità la domanda di autorizzazione paesaggistica sarà dichiarata improcedibile. In caso di verifica positiva l'amministrazione valuta, entro lo stesso termine, la conformità dell'intervento alle prescrizioni d'uso contenute nel piano paesaggistico o nella dichiarazione di pubblico interesse o nel provvedimento di integrazione del vincolo, oppure la sua compatibilità con i valori paesaggistici presenti nel contesto di riferimento.
Se ritiene l'intervento compatibile, l'amministrazione trasmette una "motivata proposta di accoglimento della domanda" alla Soprintendenza, che nei successivi venticinque giorni esprime il proprio parere, non vincolante solo se l'area interessata è già assoggettata a specifiche prescrizioni d'uso del paesaggio. In caso di parere positivo, nei successivi cinque giorni l'amministrazione rilascia l'autorizzazione e, se competente, il titolo abilitativo. Se non sorgono problemi, l'intero iter dovrebbe durare 60 giorni.
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In condominio. Il rispetto delle parti comuni. Limiti da assemblea e regolamento.
Per l'immobile in condominio (dall'appartamento alla villetta a schiera, alla bifamiliare), prima di effettuare opere nel giardino o comunque in spazi esterni occorre accertarsi che nel regolamento contrattuale non vi siano espliciti divieti. Le previsioni negoziali in esso contenute sono infatti costitutive di un vincolo assimilabile ad una servitù reciproca (Cassazione, sentenza 18.01.2011 n. 1064). Eventuali divieti devono essere formulati in modo espresso o comunque non equivoco in modo da non lasciare alcun margine d'incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni. Non è nemmeno possibile dar luogo ad un'interpretazione estensiva delle norme (Cassazione, 20.07.2009 n. 16832).
Chi effettua opere nella porzione a lui assegnata deve curare che esse non rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio. Per quanto attiene alle prime tre voci occorrerà, eventualmente, una relazione peritale che vada ad attestare l'assenza di pregiudizi. Per quanto attiene invece al decoro, esso è inteso quale estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell'edificio, imprimendo allo stesso una sua armoniosa fisionomia. Va valutato con riferimento al fabbricato condominiale nella sua totalità e non rispetto all'impatto con l'ambiente circostante (Cassazione, sentenza 25.01.2010 n 1286). Stabilire se un'innovazione determini o no alterazione del decoro architettonico si risolve in un apprezzamento discrezionale demandato al giudice (Cassazione, 13.05.2011 n. 10684). Ma il regolamento contrattuale può dare una definizione più rigorosa del decoro.
In ogni caso, ai sensi dell'articolo 1122 Codice civile, dopo la riforma del condominio (legge 220/2012 in vigore dal giugno scorso), deve essere data preventiva notizia all'amministratore degli interventi. Questi deve convocare l'assemblea in modo da mettere i condòmini in condizione di valutare la legittimità delle opere. L'assemblea non sarà quindi chiamata a dare l'assenso ma, nel caso in cui ritenesse il pregiudizio, potrà rivolgersi al giudice.
È espressamente consentita dall'articolo 1122-bis Codice civile, l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili sulle parti di proprietà individuale dell'interessato. Qualora si rendano comunque necessarie modifiche delle parti comuni, l'interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi. L'assemblea può prescrivere, con la maggioranza degli intervenuti e almeno 2/3 dei millesimi, adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio.
Per quanto attiene alle distanze legali va precisato che queste, rivolte fondamentalmente a regolare rapporti fra proprietà contigue e separate, sono applicabili anche nei rapporti tra i condòmini quando siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime. Nell'ipotesi di contrasto prevalgono le norme sulle cose comuni con la conseguente inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che nel condominio degli edifici e nei rapporti fra singolo condomino e condominio sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (Cassazione, sentenza 25.10.2011, n. 22092)
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2014).

TRIBUTI: Tasi con acconto boomerang. Sugli altri immobili rischio di versamenti con successivo rimborso. Fisco. Se l'aliquota non è fissata entro il 31 maggio, l'acconto del 16 giugno va pagato sui parametri standard.
La legge di conversione del Dl 16/2014 non risolve i problemi della Tasi, che resta la componente più critica della nuova Iuc (imposta unica comunale), e finisce per rendere ancora più complessa la sua applicazione. A partire dal pagamento per il 2014, che viene disciplinato in maniera differenziata: le abitazioni principali devono versare la Tasi in unica soluzione entro il 16 dicembre, tutti gli altri immobili pagano invece l'acconto a giugno con l'aliquota base dell'1 per mille.
Fatta salva la diversa decisione dei Comuni, ma in tal caso la delibera deve essere inviata al dipartimento delle Finanze entro il 23 maggio. Termine piuttosto ristretto se si considera che i sindaci hanno ancora tre mesi di tempo per chiudere i bilanci e decidere come azionare la leva fiscale sugli immobili, vista anche la complementarietà con l'Imu sulle aliquote complessivamente applicabili. Ancora più critica appare la scelta per gli oltre 4mila comuni che vanno al voto il 25 maggio (su cui si veda il servizio a pagina 8) e che possono adottare solo atti urgenti e improrogabili. L'operazione sarebbe formalmente legittima perché si tratta di rispettare un termine di legge, ma di fatto finirebbe per condizionare la nuova amministrazione, quindi è difficile che i sindaci uscenti portino in consiglio la delibera sulle aliquote Tasi.
In molti Comuni scatterà così il sistema previsto dalla legge di conversione del Dl 16/2014, foriera di complicazioni con particolare riferimento agli immobili diversi dalle abitazioni principali, tutti soggetti al pagamento dell'acconto compresi quelli che non dovrebbero corrispondere nulla. Ad esempio: il Comune ha l'aliquota Imu al massimo e quindi non ha più margini per introdurre la Tasi sulle seconde case, e intende far pagare la Tasi solo alle prime case oppure vuole azzerare l'aliquota per specifiche tipologie di immobili. I problemi peraltro non riguardano solo i contribuenti ma anche i Comuni, che si troveranno a gestire una marea di richieste di rimborso.
Inoltre il legislatore non ha tenuto conto che la Tasi va pagata anche dall'occupante, nella misura compresa tra il 10 e il 30% da stabilire con regolamento comunale; in assenza del quale verranno di fatto a mancare le condizioni per effettuare il pagamento dell'acconto, non potendo peraltro pretendere che il proprietario versi anche la quota dell'inquilino trattandosi di due obbligazioni tributarie autonome.
Resta da sciogliere anche il nodo dei bollettini Tasi precompilati che i Comuni dovrebbero inviare ai contribuenti, operazione che si rivela complessa se non proprio di scarsa utilità per mancanza di dati ed informazioni sugli occupanti degli immobili. Sul punto è difficile ipotizzare un chiarimento da parte del Governo, dopo l'annuncio sull'invio della dichiarazione dei redditi a casa dei contribuenti dal 2015.
La legge di conversione del Dl 16 contiene tuttavia alcuni elementi che fanno propendere per l'autoliquidazione della Tasi: 1) l'indicazione delle stesse date di versamento dell'Imu; 2) l'utilizzo del canale esclusivo di pagamento a mezzo F24; 3) l'aliquota dell'1 per mille che il contribuente deve utilizzare per l'acconto di giugno, nel caso di mancata adozione dei provvedimenti comunali. Si attende ora una conferma ufficiale del Ministero con il decreto di adozione del bollettino di versamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2014).

TRIBUTI: Sulla Tari l'esonero è obbligatorio. Igiene ambientale. L'ultima versione.
La legge di conversione del decreto «salva-Roma» ter porta con sé l'ennesimo dietro-front del legislatore sul regime di tassazione delle superfici produttive di rifiuti assimilati avviati al recupero. Una norma che interessa da vicino migliaia di imprese, e che rischia nella sua versione attuale di creare non pochi problemi sia ai contribuenti sia ai Comuni. La soluzione adottata, in pratica, finisce purtroppo per creare più problemi di quelli che intendeva risolvere.
All'origine di tutto c'è il contrasto tra il comma 649 e il comma 661 della legge di stabilità 2014: il primo attribuiva ai Comuni la facoltà di ridurre la parte variabile della Tari in proporzione ai rifiuti assimilati che i produttori dimostrino di avviare al recupero, mentre il secondo imponeva tout court l'abbattimento del prelievo.
Con circolare del 13/02/2014 il ministero dell'Ambiente ritiene prevalente il comma 649, anche per evitare aumenti di tariffe per tutti gli altri contribuenti, ma un mese dopo il Dl 16/2014 aderisce alla tesi contraria lasciando in vita solo il comma 661. Disposizione che in realtà non prevede un esonero tout court ma una non debenza della Tari rapportata alla percentuale degli assimilati avviati al recupero rispetto al totale dei rifiuti, sistema però di difficile gestione e a rischio contenzioso.
Si arriva così al giro di boa con la legge di conversione del Dl 16/2014, che elimina il comma 661 e modifica il comma 649 reintroducendo la riduzione della quota variabile del tributo per le superfici che producono rifiuti assimilati avviati al riciclo. La nuova versione introduce due novità: l'obbligatorietà della riduzione (non più facoltativa) e il riferimento al riciclo anziché al recupero.
Il legislatore però non si ferma alla riduzione ma integra il comma 649 demandando ai Comuni l'individuazione delle «aree di produzione di rifiuti speciali non assimilabili e i magazzini di materie prime e di merci funzionalmente ed esclusivamente collegati all'esercizio di dette attività produttive, ai quali si estende il divieto di assimilazione».
In sostanza il Comune dovrebbe stabilire l'esonero dalla Tari per depositi e magazzini delle attività produttive, esattamente il contrario di quanto affermato dalla Cassazione negli ultimi venti anni (tra le tante, si possono citare le decisioni 1242/1996, 12749/2002, 15857/2005, 4569/2010, 11503/2013).
Peraltro la norma non si esprime in termini di mera facoltà per l'ente, come si evince dal verbo indicativo presente "individua" (cioè deve individuare), quindi le attività produttive potrebbero pretendere l'esonero dei magazzini pur in assenza di un'espressa previsione regolamentare
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2014).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il tubo di scarico della caldaia sul muro di confine è pericoloso e si applica l’art. 890 c.c..
Per costante giurisprudenza di questa Suprema Corte il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall'art. 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano, giusta Cass. 12927/1991, anche i comignoli, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività o pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisce la distanza medesima, mentre in difetto di una disposizione regolamentare si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppur relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino.
1.- Con il primo motivo del ricorso si censura il vizio di "violazione ed erronea applicazione delle norme di cui agli articoli 890 e 2697 c.c.".
Al riguardo si sottopone al vaglio di questa Corte, ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c., il seguente quesito: "nell'applicazione della norma di cui all'art. 890 c.c. (con riferimento all'art. 2697 c.c.), ai fini della distanza, la prova della pericolosità in ordine a danni alla salubrità, salute e sicurezza dei fondi, in mancanza di regolamenti (come nel caso di specie), deve essere fornita dal proprietario del fondo, che si assume soggetto a pericolo di danno o dal proprietario del fondo che ha operato un foro sul muro prospiciente l'altra proprietà; foro, dal quale fuoriescono sostanze gassose quali esiti di processi di combustione di caldaia a metano?".
Il motivo è fondato e va, quindi, accolto.
Con la decisione impugnata, dopo aver ritenuto –correttamente- applicabile in ipotesi la norma di cui all'art. 890 c.c., sono state svolte due decisive affermazioni.
Si è ritenuta –innanzitutto- una sorta di equiparabilità del "foro di areazione" (a servizio di caldaia di riscaldamento) creato in ipotesi ad una mera "presa d'aria come quella in questione" giacché "il foro in questione è una presa d'aria e non uno scarico di aria".
Si è poi ritenuta insussistente la violazione dell'art. 890 c.c. poiché "l'appellante non ha mai prospettato alcun pericolo o danno scaturente dal foro di areazione".
Entrambe le affermazioni della Corte territoriali sono errate in fatto ed in diritto.
Il foro in questione, data la sua accertata finalità (espellere sostanze gassose di combustione del locale caldaia) più che una mera "presa d'aria" (così come erroneamente ritenuto) è -cosa ben diversa- uno scarico di aria.
Il tutto con emissioni di sostanze pericolose, almeno potenzialmente, sotto il profilo proprio di quella "salubrità e sicurezza", pure richiamati nell'impugnata sentenza, e –quindi- comportanti la violazione delle distanze ai sensi del citato art. 890 c.c..
Quanto all'aspetto della asserita "mancata prospettazione di pericolo" deve rilevarsi che la presunzione di nocività, ricorrente in ipotesi, non imponeva alcuna particolare "prospettazione", comportando –viceversa- il superamento della stessa presunzione con apposita prova (in ispecie non fornita) dalla parte avversa interessata al mantenimento del manufatto.
In proposito non possono che richiamarsi le note affermazioni ribadite in più occasione da questa Corte, secondo le quali: "per costante giurisprudenza di questa Suprema Corte il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall'art. 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano, giusta Cass. 12927/1991, anche i comignoli, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività o pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisce la distanza medesima, mentre in difetto di una disposizione regolamentare si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppur relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino" (Cass. 06.03.2002, n. 3199) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.05.2014 n. 9991  - link a www.avvocatocassazionista.it).

APPALTI: Sulla ratio dell'art. 38, c. 1, lett. m-quater, D.Lgs. n. 163/2006.
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Sull'istituto dell'avvalimento.

L'eliminazione a seguito dell'introduzione, nel Codice dei Contratti (D.Lgs. n. 163 del 2006), della lett. m-quater dell'art. 38, della causa automatica di esclusione dalla procedura di gara dei soggetti che si trovino tra loro in situazione di controllo e la sua sostituzione con la previsione della necessità di procedere al controllo, caso per caso ed in concreto, attraverso la verifica dell'imputabilità delle offerte ad un unico centro decisionale, dell'effettività della lesione dei fini che si intendono tutelare, ovvero la garanzia della concorrenza e della leale competizione, pone in evidenza la stretta finalizzazione della previsione dell'esclusione del concorrente con l'effettività della lesione del bene tutelato.
Tale stretta interrelazione tra fattispecie escludente e lesione del principio della libera concorrenza, consente di valorizzar il riferimento, nel caso di specie, contenuto nella citata norma, alla 'medesima procedura di affidamento'. Ed invero, se la ratio della norma in esame risiede nell'esigenza di garantire un'effettiva e leale competizione tra gli operatori economici attraverso l'imposizione di un limite alla partecipazione alle gare a tutte quelle imprese le cui offerte si rivelino in concreto espressione di un unico centro decisionale, e quindi, come tali, idonee a condizionare il confronto concorrenziale, è evidente che la mancanza di autonomia nella formulazione delle offerte può assumere rilievo, ai fini concorrenziali al cui presidio la norma è rivolta, unicamente nelle ipotesi in cui le offerte, provenienti da un unico centro decisionale, siano volte ad ottenere l'aggiudicazione della medesima gara, essendo solo in tali casi le offerte non formulate in modo autonomo e indipendente idonee a falsificare il confronto concorrenziale.
La ratio della norma esclude, quindi, che possa assumere rilievo la riconducibilità ad un unico centro decisionale delle offerte presentate da imprese collegate o controllate laddove le stesse partecipino a gare distinte.
In coerenza con la disciplina comunitaria secondo cui il sistema delle gare pubbliche può funzionare solo se le imprese partecipanti si trovano in posizione di reciproca ed effettiva concorrenza, che deve essere riferita alla medesima gara, la quale ha avuto riconoscimento normativo attraverso l'introduzione, nel Codice degli appalti, dell'art. 38, c. 1, lett. m-quater, il quale, in presenza di una delle due fattispecie ivi considerate -situazione di controllo o relazione di fatto di collegamento sostanziale- prevede l'esclusione dalla gara dell'impresa previa verifica in concreto dell'effettiva incidenza causale di tali situazioni sull'autonomia decisionale dei soggetti interessati, autonomia decisionale che, può assumere rilievo solo con riferimento alla medesima procedura di gara, potendo solo in tali casi essere alterata la concorrenza.
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La disciplina in materia di avvalimento essendo rivolta a permettere la più ampia partecipazione alle gare, contemperando l'esigenza che la massima concorrenza sia al contempo condizione per una efficiente e sicura esecuzione degli appalti, consentendo quindi a soggetti che ne siano privi di partecipare ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, essendo indispensabile unicamente che il primo dimostri di poter disporre dei mezzi del secondo - il contratto di avvalimento deve rispettare la disciplina civilistica in tema di contenuto del contratto, con particolare riferimento all'esistenza e alla determinatezza dell'oggetto, con la conseguenza che occorre verificare, in conformità alle indicazioni desumibili dall'art. 49, c. 2, lett. f), del D.Lgs. n. 163 del 2006, se il contratto individui in modo chiaro ed esaustivo la volontà dell'impresa ausiliaria di impegnarsi, la natura dell'impegno assunto per tutta la durata dell'appalto e la concreta ed effettiva disponibilità di porre a disposizione della concorrente i requisiti considerati.
Nella disciplina dell'avvalimento assume, difatti, valore decisivo la dimostrazione dell'effettiva disponibilità da parte della concorrente dei mezzi e dei requisiti offerti da altra impresa e a tal fine l'art. 49 del D.Lgs. n. 163 del 2006 richiede che il concorrente produca: a) una sua dichiarazione verificabile ai sensi dell'art. 48, attestante l'avvalimento dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con specifica indicazione dei requisiti stessi e dell'impresa ausiliaria, b) una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente, c) il contratto di avvalimento, in virtù del quale l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell'appalto.
Essendo l'istituto dell'avvalimento, sul piano delle finalità, inteso a promuovere la concorrenza, ampliando la platea dei possibili partecipanti alle gare indette dalle Amministrazioni pubbliche, consentendo a imprese, di per sé sprovviste di determinati requisiti, di fare propri quelli ad esse prestati da altri operatori economici, il limite di operatività dell'istituto, di per sé suscettibile di un amplissimo campo operativo, è dato dal fatto che la messa a disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto, essendo invece necessario che dal contratto risulti chiaramente l'impegno dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti).
Deve pertanto ritenersi insufficiente la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle risorse necessarie di cui è carente il concorrente, o espressioni equivalenti (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 08.05.2014 n. 4810 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAIl confinante –titolare del requisito della vicinitas– è sempre legittimato a impugnare un atto abilitativo potenzialmente pregiudizievole nei suoi confronti e allo stesso modo può censurare l’atto di secondo grado che –nel riconoscere la legittimità del titolo abilitativo– ne conferma gli effetti (in particolare, i ricorrenti sono proprietari del terreno sul quale insiste un fabbricato, confinante con il fondo che ospita l'intervento contestato: essi lamentano la violazione delle distanze di legge e dei parametri volumetrici).
Come ha di recente affermato la giurisprudenza “In siffatte evenienze, deve ritenersi che la vicinitas, ovvero il collegamento stabile fra l'immobile di proprietà del ricorrente e quello di proprietà della controinteressata, soddisfi in pieno quanto richiesto ai fini tanto della legittimazione quanto dell'interesse al ricorso”.
In definitiva l’elemento della vicinitas, proprio perché suscettibile di una molteplicità di contenuti correlati a situazioni soggettive, è ex se sufficiente a conferire la legittimazione al ricorso, tenuto conto che quest'ultimo costituisce strumento di difesa della tipologia di zona e dunque di tutela delle esistenti proprietà (o attività imprenditoriali) di fronte ad opere che ne turbino l’ordinato sviluppo.

L’eccezione è infondata, poiché il confinante –titolare del requisito della vicinitas– è sempre legittimato a impugnare un atto abilitativo potenzialmente pregiudizievole nei suoi confronti e allo stesso modo può censurare l’atto di secondo grado che –nel riconoscere la legittimità del titolo abilitativo– ne conferma gli effetti. In particolare i ricorrenti sono proprietari del terreno sul quale insiste un fabbricato, confinante con il fondo che ospita l'intervento contestato: essi lamentano la violazione delle distanze di legge e dei parametri volumetrici.
Come ha di recente affermato la giurisprudenza (TAR Lombardia Milano, sez. II – 24/06/2013 n. 1622) “In siffatte evenienze, deve ritenersi che la vicinitas, ovvero il collegamento stabile fra l'immobile di proprietà del ricorrente e quello di proprietà della controinteressata, soddisfi in pieno quanto richiesto ai fini tanto della legittimazione quanto dell'interesse al ricorso (cfr. ex multis Cons. Stato Sez. VI, Sent., 18.04.2013, n. 2153, secondo cui la suesposta considerazione vale tanto più nel caso in cui legittimazione e interesse sono riferiti alla asserita violazione delle distanze)”.
In definitiva l’elemento della vicinitas, proprio perché suscettibile di una molteplicità di contenuti correlati a situazioni soggettive, è ex se sufficiente a conferire la legittimazione al ricorso, tenuto conto che quest'ultimo costituisce strumento di difesa della tipologia di zona e dunque di tutela delle esistenti proprietà (o attività imprenditoriali) di fronte ad opere che ne turbino l’ordinato sviluppo (Consiglio di Stato, sez. IV – 12/09/2007 n. 4821) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.05.2014 n. 481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA(a) in base alle definizioni contenute nell’art. 3, comma 1-b-d, del DPR 06.06.2001 n. 380 (v. art. 27, comma 1-b-d, della LR 12/2005), l’elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell’edificio.
Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può comprendere anche innovazioni, ossia l’introduzione di elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e le relative funzionalità, ma se le innovazioni seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è la creazione di un organismo edilizio nell’insieme diverso da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella ristrutturazione;
(b) perché vi sia ristrutturazione non è necessario che cambi la destinazione dei locali o che vi siano incrementi nel volume o nella superficie (questi sono semmai indici della ristrutturazione pesante ex art. 10, comma 1-c, del DPR 380/2001).
La ristrutturazione presuppone soltanto che si possa apprezzare una differenza qualitativa tra il vecchio e il nuovo edificio;
(c)
nello specifico, l’insieme delle opere previste dal progetto rivela chiaramente la finalità di trasformare l’edificio in questione da struttura produttiva unitaria in agglomerato di microimprese.
Poiché cambiano profondamente sia gli spazi interni sia le modalità di utilizzazione dell’immobile, è evidente che il nuovo assetto dell’edificio è il prodotto di una ristrutturazione e non di una semplice innovazione, seppure riferita a elementi strutturali.
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(d) gli oneri di urbanizzazione hanno carattere corrispettivo, poiché compensano le spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un edificio nuovo o rinnovato.
Quando si verifica un cambio di destinazione d'uso, la pretesa dell’amministrazione è limitata al costo aggiuntivo delle urbanizzazioni per la nuova destinazione. Gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria sono commisurati all’eventuale maggiore somma determinata in relazione alla nuova destinazione rispetto a quella che sarebbe dovuta per la destinazione precedente.
Gli oneri urbanistici sono comunque da corrispondere anche nel caso in cui, pur non variando la destinazione dell’edificio, venga mutato l’assetto dello stesso;
(e) nelle ipotesi in cui, a seguito di un intervento di ristrutturazione edilizia, il nuovo organismo edilizio recuperi l’impianto di quello precedente, senza sostituirsi tramite demolizione e ricostruzione, ma conservando la medesima destinazione, si ha continuità nella destinazione sia formale (coerenza con la zonizzazione produttiva) sia materiale (i passaggi di proprietà, pur segnando il progressivo abbandono dell’attività insediata, non hanno causato la perdita delle potenzialità d’uso per finalità produttive).
In questa ipotesi, dove non cambia la destinazione ma è comunque evidente che il nuovo assetto dell’edificio ne consentirà un uso più intenso e quindi con maggiori costi riflessi per la collettività, gli oneri di urbanizzazione devono essere calcolati in modo da tenere conto soltanto dell’incremento del carico urbanistico.
Poiché non esiste un metodo univoco, e in mancanza di una disciplina comunale di carattere generale, è possibile procedere in via residuale scorporando dall’importo calcolato secondo i parametri attuali quello originariamente versato per il medesimo titolo al momento della costruzione dell’edificio e dei successivi ampliamenti.
Il confronto tra questi importi va fatto in base al loro valore nominale (previa conversione in euro), perché le somme versate a suo tempo dal privato corrispondono a opere di urbanizzazione che l’amministrazione ha realizzato nel medesimo periodo, mentre le nuove opere devono essere evidentemente eseguite con i costi attuali, che non possono essere compensati attraverso rivalutazioni virtuali.
In altri termini, più ci si allontana dalla data di costruzione dell’edificio, minore è l’utilità delle originarie opere di urbanizzazione, e quindi maggiore è il contributo economico che può essere ragionevolmente chiesto al privato quando attraverso interventi di ristrutturazione viene aumentato il carico urbanistico.

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Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) in base alle definizioni contenute nell’art. 3, comma 1-b-d, del DPR 06.06.2001 n. 380 (v. art. 27, comma 1-b-d, della LR 12/2005), l’elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell’edificio. Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può comprendere anche innovazioni, ossia l’introduzione di elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e le relative funzionalità, ma se le innovazioni seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è la creazione di un organismo edilizio nell’insieme diverso da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella ristrutturazione;
(b) perché vi sia ristrutturazione non è necessario che cambi la destinazione dei locali o che vi siano incrementi nel volume o nella superficie (questi sono semmai indici della ristrutturazione pesante ex art. 10, comma 1-c, del DPR 380/2001). La ristrutturazione presuppone soltanto che si possa apprezzare una differenza qualitativa tra il vecchio e il nuovo edificio;
(c) nello specifico, l’insieme delle opere previste dal progetto rivela chiaramente la finalità di trasformare l’edificio in questione da struttura produttiva unitaria in agglomerato di microimprese. Poiché cambiano profondamente sia gli spazi interni sia le modalità di utilizzazione dell’immobile, è evidente che il nuovo assetto dell’edificio è il prodotto di una ristrutturazione e non di una semplice innovazione, seppure riferita a elementi strutturali;
(d) tuttavia il caso è particolare, perché il nuovo organismo edilizio recupera l’impianto di quello precedente, senza sostituirsi tramite demolizione e ricostruzione, e inoltre conserva la medesima destinazione. La continuità nella destinazione è sia formale (coerenza con la zonizzazione produttiva) sia materiale (i passaggi di proprietà, pur segnando il progressivo abbandono dell’attività insediata, non hanno causato la perdita delle potenzialità d’uso per finalità produttive);
(e) la normativa regionale (v. art. 44, comma 12, della LR 12/2005) disciplina la fattispecie della ristrutturazione con cambio di destinazione, prevedendo che gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria siano commisurati all’eventuale maggiore somma determinata in relazione alla nuova destinazione rispetto a quella che sarebbe dovuta per la destinazione precedente. Questa norma mette in evidenza il carattere corrispettivo degli oneri di urbanizzazione, che compensano le spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un edificio nuovo o rinnovato.
Quando si verifica un cambio di destinazione, la pretesa dell’amministrazione è limitata al costo aggiuntivo delle urbanizzazioni per la nuova destinazione, perché non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico;
(f) valutazioni analoghe devono essere svolte nel caso in esame, dove non cambia la destinazione ma è comunque evidente che il nuovo assetto dell’edificio ne consentirà un uso più intenso e quindi con maggiori costi riflessi per la collettività. La principale novità introdotta dalla ristrutturazione è rappresentata infatti dall’incremento del carico urbanistico, che può essere assimilato (a scopo esemplificativo) a quello che si verifica quando da una sola grande unità immobiliare si passa a una pluralità di unità immobiliari autonome. In particolare, con la presenza di numerose microimprese e di spazi di deposito si possono ragionevolmente presumere aggravi nella viabilità e nella movimentazione delle merci, e una maggiore produzione e diversificazione dei rifiuti;
(g) pertanto, fermo restando l’obbligo di corrispondere per intero il contributo collegato allo smaltimento dei rifiuti, e prendendo atto della rinuncia dell’amministrazione ad applicare il contributo sul costo di costruzione in conseguenza della natura produttiva dell’edificio (v. memoria del Comune depositata il 03.01.2014), gli oneri di urbanizzazione devono essere ricalcolati in modo da tenere conto soltanto dell’incremento del carico urbanistico.
Poiché non esiste un metodo univoco, e in mancanza di una disciplina comunale di carattere generale, è possibile procedere in via residuale scorporando dall’importo calcolato secondo i parametri attuali quello originariamente versato per il medesimo titolo al momento della costruzione dell’edificio e dei successivi ampliamenti;
(h) il confronto tra questi importi va fatto in base al loro valore nominale (previa conversione in euro), perché le somme versate a suo tempo dal privato corrispondono a opere di urbanizzazione che l’amministrazione ha realizzato nel medesimo periodo, mentre le nuove opere devono essere evidentemente eseguite con i costi attuali, che non possono essere compensati attraverso rivalutazioni virtuali. In altri termini, più ci si allontana dalla data di costruzione dell’edificio, minore è l’utilità delle originarie opere di urbanizzazione, e quindi maggiore è il contributo economico che può essere ragionevolmente chiesto al privato quando attraverso interventi di ristrutturazione viene aumentato il carico urbanistico;
(i) gli uffici comunali hanno a disposizione 60 giorni dalla comunicazione della presente sentenza per ricalcolare gli oneri di urbanizzazione secondo le indicazioni esposte ai punti precedenti, e per restituire alla ricorrente la parte indebitamente trattenuta. Sulla somma da restituire devono essere applicati gli interessi legali dal pagamento (14.02.2008) al saldo.
Il ricorso deve quindi essere parzialmente accolto come sopra specificato. La complessità di alcune questioni consente la compensazione delle spese di giudizio. Il contributo unificato è a carico dell’amministrazione ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1 del DPR 30.05.2002 n. 115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 06.05.2014 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'interdittiva antimafia non si collega a fatti e attività oggetto di approfondimento d'ordine penale, essendo diversi i parametri di valutazione sul piano amministrativo.
E' assodato che l'interdittiva antimafia non si collega a fatti e attività oggetto di approfondimento d'ordine penale, essendo diversi i parametri di valutazione sul piano amministrativo, bensì alle stesse emergenze giudiziarie, indizi, collegamenti societari e intrecci imprenditoriali ed economici, contatti e frequentazioni e in definitiva a un quadro che, nel complesso di tutti gli elementi e prescindendo dalle singole circostanze, rende plausibile e giustifica l'adozione dell'interdittiva quale specifica misura di tutela anticipata volta a prevenire e/o stroncare ogni possibile "inquinamento" delle aziende, degli appalti pubblici e quindi dell'attività della P.A., posto in essere notoriamente anche attraverso operazioni apparentemente legittime ma fittizie tipiche delle organizzazioni mafiose (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.05.2014 n. 2290 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: La dichiarazione ex art. 38, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 136/2006 di pregresse risoluzioni contrattuali prescinde dalla stazione appaltante.
L'art. 38, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 136/2006, impone a pena di esclusione la dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali anche da parte di stazioni appaltanti diverse da quella che bandisce l'appalto.
Dunque, si tratta di dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla stazione appaltante, la stessa o altra, perché attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con la stazione stessa, né si rilevano validi motivi per non effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque all'Amministrazione la valutazione dell'errore grave che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.05.2014 n. 2289 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e come tale non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 cit., trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.

Il mezzo è palesemente infondato alla luce della ormai costante giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. Stato, sez. II, 26.06.2013, n. 649/2013; sez. IV, 15.02.2013, n. 915, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), secondo cui l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e come tale non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 cit., trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla stregua di un consolidato insegnamento giurisprudenziale, il dettato di cui al 4° comma dell'art. 84 D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 esprime una regula iuris di portata generale volta a dare concreta attuazione ai principi di imparzialità e di buona amministrazione contenuti dall'art. 97 della Costituzione.
La norma esprime la necessità di conciliare i principi di economicità, di semplificazione e di snellimento dell'azione amministrativa con quelli di trasparenza, efficacia ed adeguatezza, regolando la scelta dei componenti delle commissioni di cui è demandata l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa in guisa da depotenziare profili di incidenza negativa sulla trasparenza e sull’imparzialità della commissione giudicatrice.
L'Adunanza Plenaria di questo Consiglio ha ritenuto che l'art. 84, comma 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, ove si prevede che i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta, risponde all'esigenza di rigida separazione della fase di preparazione della documentazione di gara con quella di valutazione delle offerte in essa presentate, a garanzia della neutralità del giudizio ed in coerenza con la ratio generalmente sottesa alle cause di incompatibilità dei componenti degli organi amministrativi; è pertanto incompatibile il componente della commissione giudicatrice che era stato precedentemente incaricato della redazione del bando e del disciplinare di gara.
L’Adunanza Plenaria ha soggiunto che “in sede di affidamento di una concessione di servizi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sono applicabili le disposizioni di cui all'art. 84, commi 4 (relativo alle incompatibilità dei componenti della commissione giudicatrice) e 10 (relativo ai tempi di nomina della commissione), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in quanto espressive dei principi di trasparenza e di parità di trattamento, richiamati dall'art. 30, comma 3, dello stesso decreto; l'applicazione di tali norme prescinde dall'espressa previsione del bando di gara proprio per la loro natura di derivazione diretta da principi generali, norme imperative, espressive di principi generali e consolidati della materia e quindi come tali, in grado di integrare e sovrapporsi alla lex specialis”.
La previsione di legge di cui all’art. 84, comma IV, è, in definitiva, destinata a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti distorsivi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale definendo i contenuti e le regole della procedura.
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Una volta accertata l'illegittimità dell'azione della P.A., è a quest'ultima che spetta, al fine di vincere una presunzione insita nell’illegittimità dell’azione amministrativa, provare l'assenza di colpa attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del c.d. errore scusabile, ovvero l'inesigibilità di una condotta alternativa lecita.
Nel caso di specie, nella valutazione del comportamento dell’Amministrazione rilevano, quali indici sintomatici di una condotta colposa non vinti dalla deduzione di un errore scusabile, il mancato rispetto dei principi in tema di composizione della commissione e la violazione di una chiara normativa di gara.

Nel merito occorre premettere che non assume rilievo la questione relativa alla qualificazione della procedura in esame alla stregua di appalto di opera pubblica o di alienazione e concessione di beni pubblici in quanto la lex specialis contiene un auto-vincolo che impone il rispetto delle norme in materia di evidenza pubblica dettate dal codice dei contratti pubblici.
Nella fattispecie il Tribunale di prima istanza ha posto a fondamento del decisum di accoglimento la violazione del disposto dell’art. 84, comma 4, a tenore del quale, nella gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, “i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
Alla stregua di un consolidato insegnamento giurisprudenziale (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 14.06.2013, n. 3316), il dettato di cui al 4° comma dell'art. 84 D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 esprime una regula iuris di portata generale volta a dare concreta attuazione ai principi di imparzialità e di buona amministrazione contenuti dall'art. 97 della Costituzione.
La norma esprime la necessità di conciliare i principi di economicità, di semplificazione e di snellimento dell'azione amministrativa con quelli di trasparenza, efficacia ed adeguatezza, regolando la scelta dei componenti delle commissioni di cui è demandata l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa in guisa da depotenziare profili di incidenza negativa sulla trasparenza e sull’imparzialità della commissione giudicatrice (vedi, anche con riguardo all’applicabilità dell'art. 84 ai contratti dei cosiddetti settori speciali ai sensi dell'art. 206 D.Lgs. 163/2006, Cons. Stato, V, 25.07.2011 n. 4450; id., VI, 21.07.2011 n. 4438; id., VI, 29.12.2010 n. 9577).
Con decisione 07.05.2013, n. 13 l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio ha ritenuto che l'art. 84, comma 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, ove si prevede che i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta, risponde all'esigenza di rigida separazione della fase di preparazione della documentazione di gara con quella di valutazione delle offerte in essa presentate, a garanzia della neutralità del giudizio ed in coerenza con la ratio generalmente sottesa alle cause di incompatibilità dei componenti degli organi amministrativi; è pertanto incompatibile il componente della commissione giudicatrice che era stato precedentemente incaricato della redazione del bando e del disciplinare di gara.
L’Adunanza Plenaria ha soggiunto che “in sede di affidamento di una concessione di servizi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sono applicabili le disposizioni di cui all'art. 84, commi 4 (relativo alle incompatibilità dei componenti della commissione giudicatrice) e 10 (relativo ai tempi di nomina della commissione), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in quanto espressive dei principi di trasparenza e di parità di trattamento, richiamati dall'art. 30, comma 3, dello stesso decreto; l'applicazione di tali norme prescinde dall'espressa previsione del bando di gara proprio per la loro natura di derivazione diretta da principi generali, norme imperative, espressive di principi generali e consolidati della materia e quindi come tali, in grado di integrare e sovrapporsi alla lex specialis”.
La previsione di legge di cui all’art. 84, comma IV, è, in definitiva, destinata a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti distorsivi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale definendo i contenuti e le regole della procedura.
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In base alla consolidata giurisprudenza amministrativa, una volta accertata l'illegittimità dell'azione della P.A., è a quest'ultima che spetta, al fine di vincere una presunzione insita nell’illegittimità dell’azione amministrativa, provare l'assenza di colpa attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del c.d. errore scusabile, ovvero l'inesigibilità di una condotta alternativa lecita (cfr. da ultimo C.d.S., Sez. IV, 31.01.2012 n. 482; Cons. Stato, sez. V, 06.12.2010, n. 8549 e 18.11.2010, n. 8091; Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2010, n. 2384 e 11.01.2010, n. 14; Cons. Stato, sez. V, 08.09.2008, n. 4242).
Nel caso di specie, nella valutazione del comportamento dell’Amministrazione rilevano, quali indici sintomatici di una condotta colposa non vinti dalla deduzione di un errore scusabile, il mancato rispetto dei principi in tema di composizione della commissione e la violazione di una chiara normativa di gara
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2014 n. 2191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opera precaria - Natura oggettivamente temporanea e contingente - Necessità - Artt. art. 3, c. 1, lett. e, 5, 6, 10, c. 1, lett. a, 22, c. 3, lett. b, e 44, lett. c), D.P.R. 380/2001.
La natura precaria dell'opera edilizia non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione, tanto meno dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che l'opera è destinata a soddisfare.
Chiaro è, in tal senso, il dettato normativo che, nel definire gli interventi di nuova costruzione, per i quali è necessario il permesso di costruire o altro titolo equipollente (artt. 10, comma 1°, lett. a, e 22, comma 3°, lett. b, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), individua -tra gli altri- i manufatti leggeri e le strutture di qualsiasi genere che siano utilizzati come depositi, magazzini e simili e "che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee" (art. 3, comma 1°, lett. e.5, d.P.R. 380/2001 cit.). La natura oggettivamente temporanea e contingente delle esigenze da soddisfare è richiamata anche dall'art. 6, comma 2°, lett. b, d.P.R. 380/2001 per individuare le opere che, previa mera comunicazione dell'inizio lavori, possono essere liberamente eseguite.
Si tratta di criterio che significativamente, sia pure ad altri fini, l'art. 812 cod. civ. utilizza per collocare nella categoria dei beni immobili gli edifici galleggianti saldamente ancorati alla riva o all'alveo e destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione, così diversificandoli dai galleggianti mobili adibiti alla navigazione o al traffico in acque marittime o interne, di cui all'art. 136 cod. nav. e che, a norma dell'art. 815 cod. civ., costituiscono, invece, beni mobili soggetti a registrazione.
Opere precarie e non precarie - Criterio di distinzione - Giurisprudenza.
In tema di opere precarie, bisogna verificare l’oggettiva destinazione dell'opera a soddisfare bisogni non provvisori, la sua conseguente attitudine ad una utilizzazione non temporanea, né contingente, è criterio da sempre utilizzato dalla giurisprudenza per distinguere l'opera assoggettabile a regime concessorio (oggi permesso di costruire) da quella realizzabile liberamente, a prescindere dall'incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9229 del 12/02/1976, Sez. 3, Sentenza n. 1927 del 23/11/1981, Sez. 3, Sentenza n. 5497 del 11/03/1983, Sez. 3, Sentenza n. 6172 del 23/03/1994, Sez. 3, Sentenza n. 12022 del 20/11/1997, Sez. 3, Sentenza n. 11839 del 12/07/1999, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009).
Nemmeno il carattere stagionale dell'attività implica di per sé la precarietà dell'opera (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 34763 del 21/06/2011, Sez. 3, Sentenza n. 13705 del 21/02/2006, Sez. 3, Sentenza n. 11880 del 19/02/2004, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009).
Si tratta di principio talmente consolidato da far ritenere, per esempio, di natura eccezionale e non applicabile oltre i casi in esse tassativamente previsti, le disposizioni introdotte dalle leggi della Regione Sicilia che, privilegiando il dato strutturale su quello funzionale, hanno ricondotto nell'ambito dell'attività edilizia libera la chiusura di terrazze di collegamento oppure di terrazze non superiori a metri quadrati 50 e/o la copertura di spazi interni con strutture precarie, la chiusura di verande o balconi con strutture precarie (così, da ultimo, l'art. 20 L. Reg. Sicilia 4/2003 che definisce precarie le strutture realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione) (sul punto, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16492 del 16/03/2010 e Sez. 3, Sentenza n. 35011 del 26/04/2007 che hanno avuto modo di precisare che, in questi casi, la facile amovibilità delle strutture deve essere interpretata in senso assolutamente restrittivo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.03.2014 n. 13843 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Il rapporto tra la normativa generale in tema di accesso e quella particolare dettata in materia di contratti pubblici non va posto in termini di accentuata differenziazione, ma piuttosto di complementarietà, nel senso che le disposizioni (di carattere generale e speciale) contenute nella disciplina della legge n. 241 del 1990 devono trovare applicazione tutte le volte in cui non si rinvengono disposizioni derogatorie (e quindi dotate di una specialità ancor più elevata in ragione della materia) nel Codice dei contratti, le quali trovano la propria ratio nel particolare regime giuridico di tale settore dell’ordinamento.
In tal senso la disciplina dettata dall’art. 13 codice dei contratti pubblici, essendo destinata a regolare in modo completo tutti gli aspetti relativi alla conoscibilità degli atti e dei documenti rilevanti nelle diverse fasi di formazione ed esecuzione dei contratti medesimi, costituisce una sorta di microsistema normativo, collegato all’idea della peculiarità del settore considerato, pur all’interno delle coordinate generali dell’accesso tracciate dalla l. n. 241 del 1990.
Orbene, nel codice dei contratti l’accesso è strettamente collegato alla sola esigenza di una difesa in giudizio con una previsione, quindi, molto più restrittiva di quella contenuta nell’art. 24, l. n. 241 cit., la quale contempla un ventaglio più ampio di possibilità, consentendo l’accesso ove necessario per la tutela della posizione giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione processuale.
In definitiva, nell’ambito di tale codice, l’accesso assume una particolare natura, in quanto non è sufficiente il riferimento alla cura di propri interessi giuridici ma è richiesto espressamente che l’accesso sia effettuato in vista della difesa in giudizio.

L’appello deve essere accolto.
Al riguardo, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento secondo cui il rapporto tra la normativa generale in tema di accesso e quella particolare dettata in materia di contratti pubblici non va posto in termini di accentuata differenziazione, ma piuttosto di complementarietà, nel senso che le disposizioni (di carattere generale e speciale) contenute nella disciplina della legge n. 241 del 1990 devono trovare applicazione tutte le volte in cui non si rinvengono disposizioni derogatorie (e quindi dotate di una specialità ancor più elevata in ragione della materia) nel Codice dei contratti, le quali trovano la propria ratio nel particolare regime giuridico di tale settore dell’ordinamento (Consiglio di Stato n. 5062/2010).
In tal senso la disciplina dettata dall’art. 13 codice dei contratti pubblici, essendo destinata a regolare in modo completo tutti gli aspetti relativi alla conoscibilità degli atti e dei documenti rilevanti nelle diverse fasi di formazione ed esecuzione dei contratti medesimi, costituisce una sorta di microsistema normativo, collegato all’idea della peculiarità del settore considerato, pur all’interno delle coordinate generali dell’accesso tracciate dalla l. n. 241 del 1990.
Orbene, nel codice dei contratti l’accesso è strettamente collegato alla sola esigenza di una difesa in giudizio con una previsione, quindi, molto più restrittiva di quella contenuta nell’art. 24, l. n. 241 cit., la quale contempla un ventaglio più ampio di possibilità, consentendo l’accesso ove necessario per la tutela della posizione giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione processuale (Consiglio di Stato n. 6121/2008).
In definitiva, nell’ambito di tale codice, l’accesso assume una particolare natura, in quanto non è sufficiente il riferimento alla cura di propri interessi giuridici ma è richiesto espressamente che l’accesso sia effettuato in vista della difesa in giudizio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.03.2014 n. 1446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L’induzione «non costringe ma convince».
Come è noto, a seguito della riforma intervenuta ad opera della legge 06.11.2012, n. 190, il nuovo assetto normativo presenta da un lato la concussione ‘per costrizione’, dall’altro l’induzione indebita a dare o promettere altre utilità.
La scissione del previgente art. 317 c.p. con contestuale introduzione del nuovo art. 319-quater c.p. –ossia quell’operazione che da più parti è stata definita con il termine di «spacchettamento» della concussione– ha posto problemi interpretativi circa il discrimen tra le due fattispecie, considerato che nella previgente disciplina costituivano autonome modalità di condotta del medesimo reato.
Il reato appena introdotto si pone in una posizione intermedia tra i due estremi della concussione, nella quale la prevaricazione del pubblico ufficiale è massima, e della corruzione, nella quale il pubblico ufficiale e il privato si trovano in perfetta simmetria negoziale.
Nell’induzione indebita, infatti, il privato, in seguito all’abuso del pubblico agente, cede alle richieste indebite non perché coartato ma in quanto mira a percepire un personale vantaggio, ponendo quindi le parti in una logica negoziale, seppur asimmetrica. Mutuando una felice espressione di autorevole dottrina può, dunque, affermarsi che l’induzione «non costringe ma convince».
Analizzando le precedenti e contrastanti pronunce delle sezioni semplici, con la sentenza n. 12228/2014
la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha evidenziato le lacune presentate dai precedenti orientamenti e ha individuato il «danno ingiusto» e il «vantaggio indebito» elementi impliciti costitutivi rispettivamente del reato di concussione e dell’induzione indebita (Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 14.03.2014 n. 12228 - tratto da e link a www.giurisprudenzapenale.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Spacchettamento della concussione: le motivazioni delle Sezioni Unite (12228/2014).
Il discrimine fra il delitto di concussione e quello di indebita induzione deve essere individuato nei seguenti termini:
il primo reato sussiste in presenza di un abuso costrittivo del pubblico ufficiale attuato mediante violenza o minaccia, da cui deriva una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del destinatario che, senza ricevere alcun vantaggio, viene posto di fronte all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’utilità;
il secondo consiste nell’abuso induttivo posto in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che con una condotta di persuasione, suggestione, inganno o pressione morale condizioni in modo più tenue la libertà di autodeterminazione del privato, il quale disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di un tornaconto personale.

Sono state depositate oggi le 63 pagine di motivazioni della pronuncia n. 12228/2014 delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione a proposito del cd. spacchettamento della concussione e, prontamente, le pubblichiamo.
E’ ormai noto che la riforma dei reati contro la pubblica amministrazione -legge 190 del 2012– ha dato a luogo a quello che è stato ribattezzato come il cd. “spacchettamento” della concussione, ossia l’aver suddiviso le originarie condotte di “costrizione” e “induzione” in due autonome fattispecie criminose. La legge di riforma ha, in altri termini, eliminato dall’art. 317 c.p. la condotta di “induzione”, lasciando come unica condotta incriminatrice la “costrizione” creando una nuova fattispecie per la condotta di induzione.
Come avevamo anticipato, lo scorso 24 ottobre le Sezioni Unite si erano pronunciate sull’individuazione della precisa linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione (prevista dal novellato art. 317 cod. pen.) e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista dall’art. 319-quater cod. pen. di nuova introduzione), affermando il seguente principio di diritto: "
La linea di discrimine tra le due fattispecie ruota intorno al fatto che, nell’induzione indebita prevista dall’articolo 319-quater del Codice Penale, si assiste ad una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un suo indebito vantaggio. Al contrario, nel reato, più grave, della concussione per costrizione si sarebbe in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del destinatario".
Oggi sono state depositate le motivazioni.
Le Sezione Unite della Suprema Corte risolvendo un contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità a seguito della riforma dei reati contro la pubblica amministrazione da parte della legge n. 190 del 2012, hanno individuato il discrimine fra il delitto di concussione e quello di indebita induzione, ritenendo, in particolare, che:
il delitto di concussione sussiste in presenza di un abuso costrittivo del pubblico ufficiale attuato mediante violenza o minaccia, da cui deriva una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del destinatario che, senza ricevere alcun vantaggio, viene posto di fronte all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’utilità;
il delitto di indebita induzione, invece, consiste nell’abuso induttivo posto in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che con una condotta di persuasione, suggestione, inganno o pressione morale condizioni in modo più tenue la libertà di autodeterminazione del privato, il quale disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di un tornaconto personale.
Posta in questi termini la distinzione tra “abuso costrittivo” e “abuso induttivo”, la Corte ha anche specificato che,
nei casi ambigui o di confine, i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito devono essere utilizzati nella loro operatività dinamica ed all’esito di una complessiva ed equilibrata valutazione del fatto (
Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 14.03.2014 n. 12228 - tratto da e link a www.giurisprudenzapenale.com).

APPALTIL'offerta è rinegoziabile. Altra chance all'aggiudicatario della gara. APPALTI/ Con una sentenza il consiglio di stato apre la porta.
Con la recente sentenza 28.02.2014 n. 943 del Consiglio di Stato, Sez. III, i giudici hanno ammesso la rinegoziabilità, da parte dell'aggiudicatario, dell'offerta già presentata in gara.
La questione si è sviluppata nell'ambito di una vicenda che ha preso avvio con la gara bandita da una Asl lombarda nel 2010, con aggiudicazione annullata dal giudice, a cui però non faceva seguito l'assegnazione giudiziale dell'appalto per effetto della clausola contenuta nel capitolato di gara che consentiva alla stazione appaltante, in luogo dell'aggiudicazione della gara, di ricercare soluzioni operative migliorative aderendo ad appalti banditi da altre aziende sanitarie locali oppure attraverso la richiesta di rinegoziazione del prezzo di aggiudicazione.
La stazione appaltante, nonostante la controproposta economica, che riduceva il prezzo presentato in gara, non procedeva a riscontrare l'istanza ma proseguiva con delle proroghe con il pregresso affidatario per giungere, a distanza di un lungo lasso di tempo, a respingere l'offerta di sconto con affermazioni che la sentenza n. 943/2014 ha ritenuto illegittime.
Secondo la stazione appaltante la controproposta economica, appositamente richiesta, non poteva risultare aggiudicataria «per l'impossibilità giuridica di ammettere offerte migliorative dopo la conclusione della gara e in considerazione dell'esistenza di proposte più convenienti sul mercato».
A ciò seguiva l'appello, condiviso dal consesso, sulla base di consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. c.d.s., sez. VI, 23.04.2007), per cui «la stazione appaltante può concordare con l'aggiudicatario uno sconto maggiore rispetto a quello offerto in gara, senza che ciò costituisca una nuova aggiudicazione o una distorsione della concorrenza, a condizione che l'adeguamento sia minimo e, pertanto, non sfoci in un nuovo appalto». Sempre, secondo il giudice i presupposti di gara «risultano (_) trattandosi di minimo sconto» senza alcuna modifica delle «condizioni essenziali dell'appalto e, pertanto, nessun ostacolo» risultava rinvenibile e tale da impedire l'assegnazione dell'appalto in moto tempestivo.
Quindi una volta effettuata la comparazione tra i partecipanti alla gara e individuata l'offerta migliore, non erano più ravvisabili ragioni logico-giuridiche che impedissero «all'amministrazione di avviare un'ulteriore trattativa con il vincitore che ha presentato l'offerta migliore al fine di ottenere un risultato ancora più conveniente». Senza che venisse vulnerata la par condicio.
La stazione appaltante, in luogo di procedere nel senso appena prospettato, si determinava invece a proseguire il contratto con il precedente affidatario procedendo al riscontro con un ritardo inaccettabile tradendo anche l'affidamento dell'appaltatore.
Il giudice, conclude anche stigmatizzando il comportamento della stazione appaltante puntualizzando che il «comportamento (_) appare del tutto contraddittorio e incoerente: per un verso» perché la stessa p.a. avviava «le trattative, creando il legittimo affidamento nell'esperibilità della soluzione migliorativa; per altro verso, solo pochi mesi dopo, cambia avviso sulla utilizzabilità» giuridica «della rinegoziazione del prezzo. Ben avrebbe potuto, invece, l'azienda prudentemente verificare la praticabilità giuridica della soluzione prima di avviare le trattative»; ravvisando un comportamento colposo nel comportamento tenuto dall'amministrazione aggiudicatrice, e riconoscendo la responsabilità precontrattuale per il cosiddetto interesse negativo ovvero limitato al riconoscimento per il danno «consistente innanzitutto nelle spese inutilmente sostenute e, inoltre, nella perdita di favorevoli occasioni contrattuali, cioè di ulteriori possibilità vantaggiose sfuggite al contraente a causa della trattativa inutilmente intercorsa» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Per la nullità della vendita pagano notaio e geometra. Riconosciuta la responsabilità in solido tra i due professionisti. Immobili. Decisiva l'assenza di verifiche sull'effettiva titolarità del bene trasferito.
Compravendita immobiliare nulla? Sono responsabili in solido il notaio e il geometra che non abbiano effettuato le dovute verifiche circa l'effettiva proprietà del bene.
Lo puntualizza la Corte d'appello di Milano, con la sentenza 07.01.2014 n. 16 (tratto da www.ilsole24ore.com).
Il caso
Protagonista della vicenda giudiziaria è l'acquirente di un immobile che, nell'avviare le pratiche di ristrutturazione, scopre di non essere proprietaria di una parte. Infatti, secondo le visure catastali, alcuni dei locali acquistati non erano mai stati di proprietà dei venditori ma risultavano intestati a terze persone. Di qui, la decisione di citarli in giudizio per far dichiarare «la nullità parziale del contratto di compravendita immobiliare», farsi restituire il prezzo pagato per l'acquisto e ottenere il risarcimento dei danni.
Ma i convenuti, a loro volta inconsapevoli dell'effettiva titolarità dei beni, chiamano in causa il geometra e il notaio, incaricati, rispettivamente, degli aggiornamenti catastali e della redazione dell'atto. Secondo i venditori, doveva essere dichiarata l'esclusiva responsabilità dei professionisti, poiché inadempienti all'obbligo di svolgere diligentemente i propri compiti. Così, i convenuti riconoscono la parziale nullità del contratto di compravendita e ammettono di doversi fare carico del rimborso del prezzo incassato ma contestano il risarcimento del danno, visto che, da parte loro, non c'era stata malafede.
Il tribunale riconosce la responsabilità dei professionisti e li condanna –in solido– a rifondere ai venditori le somme da restituire all'acquirente.
L'appello
La sentenza viene però impugnata di fronte alla Corte d'appello dal geometra e, con appello incidentale, dal notaio. Nella preparazione dell'atto –si difende il notaio– ha svolto tutti gli accertamenti richiesti a garanzia del corretto adempimento dell'incarico ricevuto. In particolare, il notaio afferma che il suo obbligo di controllo si sarebbe limitato alla visura sullo stato catastale dei beni, effettuata sulla base delle nuove schede catastali predisposte dal geometra.
Secondo il notaio, una volta accertata la legittimità dei titoli e verificata la corrispondenza dell'oggetto della vendita alle risultanze catastali, non sarebbe stato suo compito professionale controllare che «la rappresentazione grafica e planimetrica degli immobili» corrispondessero allo stato reale della proprietà dei luoghi. L'errore, semmai, era da imputarsi al geometra, colpevole della non aggiornata identificazione catastale. Accuse respinte dal tecnico: l'incarico ricevuto –rileva– consisteva nella semplice redazione delle nuove schede catastali sulla base delle informazioni fornite dai venditori, senza alcun obbligo di consultare i titoli di provenienza e di verificare la veridicità delle informazioni ricevute.
La decisione
Le difese dei professionisti sono bocciate dalla Corte d'appello, che respinge i ricorsi e li condanna a rimborsare ai venditori gli importi da rendere all'acquirente, vista la nullità della compravendita.
Quanto al geometra, spiega il collegio, l'incarico di aggiornamento dell'identificazione catastale dei beni e la redazione delle relative schede «non poteva prescindere dal controllo» che la proprietà fosse realmente dei venditori. Questo vaglio avrebbe dovuto essere realizzato mediante un semplice esame dei titoli d'acquisto, seguito da un accertamento della posizione e consecutività dei subalterni da riaccatastare. Operazioni, queste, sufficienti a impedire l'infedele riproduzione, nelle planimetrie, dello stato dei luoghi.
Pari responsabilità –prosegue la Corte d'appello– va ravvisata in capo al notaio, per aver considerato, nella redazione dell'atto, solo le planimetrie predisposte dal tecnico «senza consultare con la dovuta perizia i precedenti atti di provenienza». Sarebbe bastato, dunque, un semplice raffronto tra la descrizione e le coerenze dei beni oggetto del titolo di provenienza con quanto riportato nelle schede catastali, per scongiurare la stipula di un contratto nullo. Del resto, le risultanze dei registri catastali «hanno un valore meramente indiziario e da esse non può trarsi la prova decisiva della consistenza degli immobili e della loro appartenenza». Ciò, a maggior ragione nelle ipotesi –come quella processuale– in cui quelle risultanze risultino contraddette da altre emergenze. Si può affermare, allora, che in tema di compravendita immobiliare, al fine di individuare l'immobile oggetto di contratto «più che i dati catastali», assumeranno «valore determinante il contenuto descrittivo del titolo e i confini indicati nel titolo stesso».
È per queste ragioni che la Corte d'appello, nel respingere i gravami dei professionisti, ne sancisce –in identica misura– la responsabilità contrattuale per inadempimento degli incarichi, con condanna solidale restitutoria in favore degli appellati
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2014).

EDILIZIA PRIVATALa posizione espressa dall’Amministrazione coincide con l’orientamento giurisprudenziale che, ai fini della sussistenza dei presupposti per la demolizione e ricostruzione, richiede che l’edificio esista, con strutture perimetrali, orizzontali e di copertura, mentre inquadra la <ricostruzione dei ruderi> nell’intervento di nuova edificazione.
Sul tema si è, d’altra parte, già espressa la Sezione, evidenziando che il concetto di demolizione e ricostruzione presuppone che esista “un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura”, mentre “non è invece ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi, attesa la mancanza di elementi attuali sufficienti a dimostrare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare”.

Le censure sono infondate.
Il ricorrente ha avanzato domanda di permesso di costruire volta alla “ricostruzione di annesso agricolo ad uso fienile mediante intervento di sostituzione edilizia” (doc. 4), ciò con riferimento alle previsioni di cui all’art. 43, comma 1, lett. c), della legge regionale Toscana n. 1 del 2005 (che contempla tra gli interventi consentiti sul patrimonio edilizio con destinazione agricola la <sostituzione edilizia>) e all’art. 78, comma 1, lett. h), della legge n. 1 cit., che definisce tale tipologia di interventi come “demolizione e ricostruzione di volumi esistenti”.
Il punto del contendere di cui alla presente controversia attiene proprio all’essere, l’edificio che si intende fare oggetto di “demolizione e ricostruzione”, <esistente> al momento in cui è stato chiesto il rilascio del permesso di costruire.
Nella relazione tecnica, proveniente da parte ricorrente e allegata all’istanza, si legge, con riferimento al periodo successivo al 1994, che “in effetti dopo tale data il manufatto non è stato oggetto nessun intervento di manutenzione con conseguente degrado delle strutture fino al crollo della copertura avvenuta circa due anni fa. Oggi sono rinvenibili sul posto solo i <ritti> in pali di legno che sorreggevano la copertura anch’essa costituita da struttura lignea con sovrastanti lamiere grecate”. Ma allora siamo in presenza di un edificio integralmente diruto e della richiesta di ricostruzione di un rudere.
In tal quadro deve leggersi l’atto di diniego qui gravato che, nel respingere l’istanza di <sostituzione edilizia>, motiva evidenziando che “non sussistano le condizioni per considerare l’intervento proposto come sostituzione edilizia ma, a tutti gli effetti, come nuova costruzione”. La posizione espressa dall’Amministrazione coincide con l’orientamento giurisprudenziale che, ai fini della sussistenza dei presupposti per la demolizione e ricostruzione, richiede che l’edificio esista, con strutture perimetrali, orizzontali e di copertura, mentre inquadra la <ricostruzione dei ruderi> nell’intervento di nuova edificazione (da ultimo Cons. St., 5^, 25.07.2013 n. 3968, che richiama Cons. St., 5^, 03.04.2000, n. 1906).
Sul tema si è, d’altra parte, già espressa la Sezione, evidenziando che il concetto di demolizione e ricostruzione presuppone che esista “un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura”, mentre “non è invece ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi, attesa la mancanza di elementi attuali sufficienti a dimostrare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare” (TAR Toscana, sez. 3^, 13.07.2009, n. 1258; id. 18.01.2010, n. 44).
Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto e con esso va respinta la domanda di risarcimento dei danni connessa all’infondata impugnativa del provvedimento di diniego del permesso di costruire, non essendovi luogo a regolamentare le spese di giudizio, stante la mancata costituzione dell’Amministrazione resistente (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.11.2013 n. 1560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lotto asservito - Modifiche alla disciplina urbanistica - Acquisizione di maggiore potenzialità edificatoria - Verifica dell’edificabilità - Quantificazione della volumetria assentibile - Calcolo.
Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza, nel caso in cui, un originario lotto urbanistico abbia acquisito una maggiore potenzialità edificatoria in dipendenza di modifiche alla disciplina urbanistica e, quindi, la parte rimasta inedificata sia suscettibile di edificazione, per verificare l'effettiva potenzialità edificatoria di quest’ultima, occorre sempre partire dalla considerazione che, in virtù del carattere "unitario" dell'originario lotto interamente asservito alla precedente costruzione, non possono non computarsi le volumetrie realizzate sul lotto urbanistico originario (considerato complessivamente), il quale è l'unico ad aver acquisito (e mantenuto) una "propria" potenzialità edificatoria; conseguentemente la verifica dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificato e la quantificazione della volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla predetta potenzialità, diminuita della volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica, complessiva, area (Cons. Stato, sez. IV, 19.01.2008, n. 255; 26.09.2008, n. 4647; 19.10.2006, n. 6229; 31.01.2005, n. 217; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 22.08.2007, n. 286; TAR Sardegna, sez. II, 19.05.2006, n. 996).
Tale operazione deve però essere condotta avendo a riferimento gli indici di edificabilità previsti dalla nuova normativa urbanistica e non da quella precedentemente vigente (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.03.2011 n. 614 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Aree asservite - Inedificabilità - Opponibilità ai terzi acquirenti - Irrilevanza delle vicende inerenti la proprietà dei terreni.
L’inedificabilità di un’area asservita o accorpata o comunque utilizzata a fini edificatori costituisce una qualità obiettiva del fondo che, pur non vigendo l’obbligo di trascrizione del vincolo nei registri immobiliari (cfr. Cons. Stato V, 28.06.2000 n. 3637), è opponibile a terzi acquirenti, ed ha l’effetto di impedirne l’ulteriore edificazione oltre i limiti previsti, a nulla rilevando che la proprietà dell’area sia stata trasferita, che manchino specifici negozi giuridici privati volti all’asservimento o che l’edificio sia collocato in una parte del lotto catastalmente divisa (Cons. Stato V, 09.10.2007 n. 5232).
In altri termini, un’area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, non può essere considerata libera neppure parzialmente, agli effetti della volumetria realizzabile, in sede di rilascio di una seconda concessione, nella perdurante esistenza del primo edificio, restando irrilevanti le vicende inerenti alla proprietà dei terreni (Cons. Stato IV, 06.09.1999 n. 1402) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.06.2010 n. 2668 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato di costruzione abusiva - Asservimento di terreno per scopi edificatori - Cessione di cubatura - Efficacia al momento del rilascio del titolo abilitativo - Conseguenze.
Gli effetti derivanti dall’istituto del c.d. “vincolo di asservimento di terreno per scopi edificatori” (o “cessione di cubatura”), decorrono dal momento del rilascio del titolo abilitativo edilizio, hanno carattere definitivo ed irrevocabile ed integrano una qualità oggettiva dei terreni, producendo una minorazione permanente della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario.
Ne consegue che è preclusa la possibilità di richiedere ed assentire ulteriori interventi eccedenti i volumi costruttivi sul fondo asservito, attesa la perdita definitiva delle potenzialità edificatorie dell’area asservita, rendendosi configurabile il reato edilizio anche in presenza di un titolo abilitativo erroneamente rilasciato.
Fattispecie avente ad oggetto il sequestro preventivo di un’area interessata da attività edificatoria a seguito di rilascio di permesso di costruire.
Istituto del c.d. “asservimento dl terreno per scopi edificatori” (o cessione di cubatura) - Nozione - Effetti.
L’istituto del c.d. “asservimento dl terreno per scopi edificatori” (o cessione di cubatura) consiste in un accordo tra proprietari di aree contigue, aventi la stessa destinazione urbanistica, in forza del quale il proprietario di un’area “cede” una quota di cubatura edificabile sul suo fondo per permettere all’ altro di disporre della minima estensione di terreno richiesta per l’edificazione, ovvero di realizzare una volumetria maggiore di quella consentita dalla superficie del fondo di sua proprietà.
Gli effetti che ne derivano hanno carattere definitivo ed irrevocabile, integrano una qualità oggettiva dei terreni e producono una minorazione permanente della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario.
Trasferimento di volumetria - Rilascio del permesso di costruire - Volontà del proprietario "cedente" - Vincolo di asservimento - Nuovo lotto di pertinenza urbanistica dell'edificio - Effetti.
L’efficacia della volontà del proprietario "cedente" costituisce, all'interno del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire, presupposto di tale provvedimento, così che il trasferimento di volumetria si realizza soltanto con il rilascio finale del titolo edilizio [Cons. Stato, Sez. V, 28.06.2000, n. 3637 e Cass. civ.: 22.02.1996, n. 1352; 12.09.1998, n. 9081].
Sicché, soltanto per effetto del rilascio del provvedimento amministrativo (licenza edilizia, concessione edilizia o permesso di costruire) si costituisce il "vincolo di asservimento" che, senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, incide definitivamente sulla disciplina urbanistica ed edilizia delle aree interessate, in quanto nel territorio comunale il titolo abilitativo edilizio crea un nuovo lotto di pertinenza urbanistica dell'edificio, che non coincide con i confini di proprietà ed ha una consistenza indipendente rispetto ai successivi interventi nelle aree medesime, derivandone l'impossibilità di assentire e di richiedere ulteriori ed eccedenti realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito, per la parte in cui esso è rimasto privo della potenzialità edificatoria già utilizzata, dal titolare del fondo in favore del quale ha avuto luogo l'asservimento.
Instaurazione di un autonomo e peculiare regime urbanistico delle aree - Costituzione di un "vincolo di asservimento" - Verifica delle ragioni - Irrilevanza.
La oggettiva instaurazione di un autonomo e peculiare regime urbanistico delle aree, per effetto della intervenuta costituzione di un "vincolo di asservimento", rende irrilevante -alla stregua del fondamentale principio dell'autonomia negoziale- la verifica delle ragioni che possano avere indotto il proprietario cedente a trasferire la suscettibilità edificatoria del proprio fondo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.05.2009 n. 21177 - link a www.ambientediritto.it).

AGGIORNAMENTO AL 05.05.2014

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IN EVIDENZA

S.O.S.: Salva l'Amazzonia, Oasi del Mondo

Dal 1° al 18 maggio invia un SMS o chiama da fisso il 45505. Potrai donare 2 euro via SMS oppure 2 o 5 euro da rete fissa.

Ogni anno scompare 1 milione e mezzo di ettari di foresta amazzonica.

L’ Amazzonia ci dà acqua, cibo, ossigeno, medicinali, energia e ospita 2 milioni e mezzo di specie tra mammiferi, uccelli, insetti e piante, 33 milioni di persone, 350 comunità indigene.

Pezzo dopo pezzo, la foresta viene divorata per lasciare spazio a terreni impoveriti e degrado.

Per tirare giù un albero di 800 anni bastano 30 minuti.
Per fermare tutto questo, a te bastano 5 secondi.
Il tempo di un SMS.
Dal 1° al 18 maggio invia un SMS al
45505

SE L’ AMAZZONIA SCOMPARE, SCOMPARE TUTTO QUESTO E ANCHE IL NOSTRO FUTURO.
Non restare indifferente: L'INDIFFERENZA DISTRUGGE, UCCIDE!!

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Le proposte del Governo sulla riforma della Pubblica Amministrazione:
ABOLIZIONE DELLA FIGURA DEL SEGRETARIO COMUNALE.

     E' l'intenzione (fra le tante) scritta, nero su bianco, dal Presidente del Consiglio dei Ministri (Matteo Renzi) e dal Ministro della Semplificazione e Pubblica Amministrazione (Maria Anna Madia) nella nota 30.04.2014 inviata ai pubblici dipendenti (diramata dopo il Consiglio dei Ministri n. 15 del 30.04.2014, con invito a rispondere entro il 30.05.2014 -con e-mail all'indirizzo rivoluzione@governo.it- circa le proprie considerazioni, proposte, suggerimenti).
     La consultazione sarà aperta dal 30 aprile al 30 maggio. Nei giorni successivi il Governo predisporrà le misure che saranno approvate dal Consiglio dei Ministri venerdì 13.06.2014.
     La nota 30.04.2014 è stata divulgata anche in formato .pdf scaricabile qui.
     Comunque, ci sono molte altre interessanti intenzioni ... vediamole riproponendo -di seguito- uno stralcio della suddetta nota:
"Le nostre linee guida sono tre.
Il cambiamento comincia dalle persone. Abbiamo bisogno di innovazioni strutturali: programmazione strategica dei fabbisogni; ricambio generazionale, maggiore mobilità, mercato del lavoro della dirigenza, misurazione reale dei risultati, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, asili nido nelle amministrazioni.
Tagli agli sprechi e riorganizzazione dell’Amministrazione. Non possiamo più permetterci nuovi tagli orizzontali, senza avere chiari obiettivi di riorganizzazione. Ma dobbiamo cancellare i doppioni, abolendo enti che non servono più e che sono stati pensati più per dare una poltrona agli amici degli amici che per reali esigenze dei cittadini. O che sono semplicemente non più efficienti come nel passato.
Gli Open Data come strumento di trasparenza. Semplificazione e digitalizzazione dei servizi. Possiamo utilizzare le nuove tecnologie per rendere pubblici e comprensibili i dati di spesa e di processo di tutte le amministrazioni centrali e territoriali, ma anche semplificare la vita del cittadini: mai più code per i certificati, mai più file per pagare una multa, mai più moduli diversi per le diverse amministrazioni.
Ciascuna di queste tre linee guida richiede provvedimenti concreti.
Ne indichiamo alcuni su cui il Governo intende ascoltare la voce diretta dei protagonisti a cominciare dai dipendenti pubblici e dai loro veri datori di lavoro: i cittadini.
Il cambiamento comincia dalle persone
1) abrogazione dell’istituto del trattenimento in servizio, sono oltre 10.000 posti in più per giovani nella p.a., a costo zero
2) modifica dell'istituto della mobilità volontaria e obbligatoria
3) introduzione dell’esonero dal servizio
4) agevolazione del part-time
5) applicazione rigorosa delle norme sui limiti ai compensi che un singolo può percepire dalla pubblica amministrazione, compreso il cumulo con il reddito da pensione
6) possibilità di affidare mansioni assimilabili quale alternativa opzionale per il lavoratore in esubero
7) semplificazione e maggiore flessibilità delle regole sul turn-over fermo restando il vincolo sulle risorse per tutte le amministrazioni
8) riduzione del 50% del monte ore dei permessi sindacali nel pubblico impiego
9) introduzione del ruolo unico della dirigenza
10) abolizione delle fasce per la dirigenza, carriera basata su incarichi a termine
11) possibilità di licenziamento per il dirigente che rimane privo di incarico, oltre un termine
12) valutazione dei risultati fatta seriamente e retribuzione di risultato erogata anche in funzione dell’andamento dell’economia
13) abolizione della figura del segretario comunale
14) rendere più rigoroso il sistema di incompatibilità dei magistrati amministrativi
15) conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, asili nido nelle amministrazioni
Tagli agli sprechi e riorganizzazione dell’Amministrazione
16) riorganizzazione strategica della ricerca pubblica, aggregando gli oltre 20 enti che svolgono funzioni simili, per dare vita a centri di eccellenza
17) gestione associata dei servizi di supporto per le amministrazioni centrali e locali (ufficio per il personale, per la contabilità, per gli acquisti, ecc.)
18) riorganizzazione del sistema delle autorità indipendenti
19) soppressione della Commissione di vigilanza sui fondi pensione e attribuzione delle funzioni alla Banca d'Italia
20) centrale unica per gli acquisti per tutte le forze di polizia
21) abolizione del concerto e dei pareri tra ministeri, un solo rappresentante dello Stato nelle conferenze di servizi, con tempi certi
22) leggi auto-applicative; decreti attuativi, da emanare entro tempi certi, solo se strettamente necessari
23) controllo della Ragioneria generale dello Stato solo sui profili di spesa
24) divieto di sospendere il procedimento amministrativo e di chiedere pareri facoltativi salvo casi gravi, sanzioni per i funzionari che lo violano
25) censimento di tutti gli enti pubblici
26) una sola scuola nazionale dell’Amministrazione
27) accorpamento di Aci, Pra e Motorizzazione civile
28) riorganizzazione della presenza dello Stato sul territorio (es. ragionerie provinciali e sedi regionali Istat) e riduzione delle Prefetture a non più di 40 (nei capoluoghi di regione e nelle zone più strategiche per la criminalità organizzata)
29) eliminazione dell'obbligo di iscrizione alle camere di commercio
30) accorpamento delle sovrintendenze e gestione manageriale dei poli museali
31) razionalizzazione delle autorità portuali
32) modifica del codice degli appalti pubblici
33) inasprimento delle sanzioni, nelle controversie amministrative, a carico dei ricorrenti e degli avvocati per le liti temerarie
34) modifica alla disciplina della sospensione cautelare nel processo amministrativo, udienza di merito entro 30 giorni in caso di sospensione cautelare negli appalti pubblici, condanna automatica alle spese nel giudizio cautelare se il ricorso non è accolto
35) riforma delle funzioni e degli onorari dell’Avvocatura generale dello Stato
36) riduzione delle aziende municipalizzate
Gli Open Data come strumento di trasparenza. Semplificazione e digitalizzazione dei servizi
37) introduzione del Pin del cittadino: dobbiamo garantire a tutti l’accesso a qualsiasi servizio pubblico attraverso un'unica identità digitale
38) trasparenza nell’uso delle risorse pubbliche: il sistema Siope diventa "open data"
39) unificazione e standardizzazione della modulistica in materia di edilizia ed ambiente
40) concreta attuazione del sistema della fatturazione elettronica per tutte le amministrazioni
41) unificazione e interoperabilità delle banche dati (es. società partecipate)
42) dematerializzazione dei documenti amministrativi e loro pubblicazione in formato aperto
43) accelerazione della riforma fiscale e delle relative misure di semplificazione
44) obbligo di trasparenza da parte dei sindacati: ogni spesa online".

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Ai funzionari delle Soprintendenze: non ce ne sarebbe bisogno ma visti alcuni atti che girano (ancora, purtroppo) bisogna necessariamente ricordarlo...
E' ILLEGITTIMO IL PARERE FAVOREVOLE DELLA SOPRINTENDENZA, IN MATERIA DI SANATORIA AMBIENTALE, CONDIZIONATO A PRESCRIZIONI !!

EDILIZIA PRIVATAL’accertamento di compatibilità paesaggistica non può che riguardare esclusivamente le opere che si intendono sanare, riferite al reale stato dei luoghi; pertanto non è possibile un’autorizzazione paesaggistica (postuma) laddove la relativa richiesta preveda la futura demolizione delle opere realizzate abusivamente.
Il procedimento di autorizzazione paesaggistica postumo, per le sue caratteristiche, non consente, pertanto, una valutazione della sanatoria subordinata ad opere che si intendono demolire o ad interventi ancora da realizzarsi.

Il ricorso è infondato.
L’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica -previsto dall’art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. 42/2004- è atto dovuto in tutti i casi relativi ad interventi edilizi realizzati in assenza di autorizzazione ovvero in difformità da questa, ove rilasciata.
L’interesse pubblico, del quale l’art. 167 si pone a presidio normativo, è quello di consentire una verificare circa la conformità ai valori del paesaggio di opere edilizie carenti, in tutto o in parte, di titolo.
L’art. 167, comma 4, prescrive rigorosamente i casi in cui è possibile sanare gli interventi effettuati in assenza o in difformità dal titolo. Trattasi di:
a) lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) lavori per i quali siano stati impiegati materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 d.p.r. 06.06.2001, n. 380.
L’accertamento di compatibilità paesaggistica non può che riguardare esclusivamente le opere che si intendono sanare, riferite al reale stato dei luoghi; pertanto non è possibile un’autorizzazione paesaggistica laddove la relativa richiesta preveda la futura demolizione delle opere realizzate abusivamente. Il procedimento di autorizzazione paesaggistica postumo, per le sue caratteristiche, non consente, pertanto, una valutazione della sanatoria subordinata ad opere che si intendono demolire o ad interventi ancora da realizzarsi.
In particolare, riguardo al primo immobile (foglio 46, particelle 536-537-538), le opere realizzate abusivamente, presenti ancora in sito, non rispondono ai requisiti previsti dagli artt. 167 e 181 del menzionato d.lgs. 42/2004, attesa la sussistenza di ampliamenti volumetrici e di superficie.
Come chiarito da pacifica giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio (ex multis, recente, Cons. Stato, sez. VI , 20.06.2013, n. 3373; o anche, TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 11.04.2013, n. 350), l'art. 167, comma 4, menzionato d.lgs. 42/2004, non consente il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria qualora il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l'aumento di superfici utili o di volumi (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 18.04.2014 n. 777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

Ai responsabili degli U.T.C.: non ce sarebbe bisogno ma visti alcuni atti che girano (ancora, purtroppo) bisogna necessariamente ricordarlo...
E' ILLEGITTIMO CONCLUDERE IL PROCEDIMENTO DI SANATORIA AMBIENTALE SENZA AVER PRELIMINARMENTE ACQUISITO AGLI ATTI IL PARERE OBBLIGATORIO E VINCOLANTE DELLA SOPRINTENDENZA !!

EDILIZIA PRIVATALa richiesta di di compatibilità paesaggistico-ambientale, avanzata ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, d.l.vo 42/2004, deve essere necessariamente istruita con l’acquisizione di parere vincolante da parte della Soprintendenza.
Invero, l’art. 146, comma 12, del dlgs n. 42/2004 prevede che non possano più essere rilasciate autorizzazioni paesaggistiche “in sanatoria”, ossia successive alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, salvo le ipotesi tassative volte a sanare “ex post” gli interventi abusivi di cui all’art. 167; in tali casi deve essere instaurata un’apposita procedura ad istanza della parte interessata che contempla –a differenza dell’ordinario procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (in vigore in via transitoria)– l’accertamento della compatibilità paesaggistica, demandato all’amministrazione preposta alla gestione del vincolo, previa acquisizione del parere della Soprintendenza che nella particolare fattispecie in esame assume carattere non solo obbligatorio, ma vincolante.

Ad avviso del Collegio deve stimarsi pregiudiziale ed assorbente la seconda censura,con la quale si deduce la mancata acquisizione del parere obbligatorio e vincolante della Soprintendenza ai B.A.P. di Salerno ed Avellino, ai sensi degli artt. 167, comma 5 e 181, comma 1-quater, d.lgs n. 42/2004;
Osserva il Collegio che l’art. 167 del d.l.vo 42/2004, ai commi 4 e 5, così dispone: “L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L’importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell'articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma
”.
Parimenti l’art. 181, commi 1-ter e quater, dello stesso d.l.vo, così dispone: “Ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui all’articolo 167, qualora l’autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la disposizione di cui al comma 1 non si applica:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 1-ter presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni
”.
Dall’esposizione che precede risulta evidente come la richiesta della ricorrente di compatibilità paesaggistico-ambientale, avanzata ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, d.l.vo 42/2004, andava necessariamente istruita con l’acquisizione di parere vincolante da parte della Soprintendenza di Salerno, competente per territorio; ma detto adempimento procedurale, come dedotto in ricorso e come si ricava altresì dallo stesso tenore letterale del provvedimento gravato, è stato nella specie completamente pretermesso (né alcunché in contrario è stato osservato da parte dell’Amministrazione intimata, rimasta estranea al giudizio).
Si cfr. quanto statuito, in giurisprudenza, con riferimento al procedimento in oggetto: “L’art. 146, comma 12 –nella versione modificata dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 157 del 2006– prevede che non possano più essere rilasciate autorizzazioni paesaggistiche “in sanatoria”, ossia successive alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, salvo le ipotesi tassative volte a sanare “ex post” gli interventi abusivi di cui all’art. 167; in tali casi deve essere instaurata un’apposita procedura ad istanza della parte interessata che contempla –a differenza dell’ordinario procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (in vigore in via transitoria)– l’accertamento della compatibilità paesaggistica, demandato all’amministrazione preposta alla gestione del vincolo, previa acquisizione del parere della Soprintendenza che nella particolare fattispecie in esame assume carattere non solo obbligatorio, ma vincolante” (TAR Veneto Venezia, sez. II, 23.04.2010, n. 1550; Tar Lombardia Brescia Sez. I 27.03.2009; Tar Campania, Salerno, Sez. I n. 759/2012) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 23.04.2014 n. 821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA.

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Piani di razionalizzazione degli assetti organizzativi e riduzione della spesa di personale. Dichiarazione di eccedenza e prepensionamento (circolare 28.04.2014 n. 4/2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: F. P. Garzone, Le opere di livellamento e consolidamento di terreni agricoli in aree vincolate a tutela dell’ambiente. Il regime amministrativo e la tutela penale apprestata dal T.U. delle disposizioni in materia edilizia (D.P.R. 380/2001) (30.04.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Concas, Il contratto preliminare di compravendita, nozione e fasi, dalla radazione alla registrazione (28.04.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. di Russo, Diritto di superficie e locazione nella realizzazione di impianti fotovoltaici. Profili civilistici e fiscali (23.04.2014 - link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: G. A. Lo Prete, PA ed enti privati in controllo pubblico: incompatibilità e inconferibilità di incarichi (21.04.2014 - link a www.filodiritto.com).

APPALTI: G. Corsi, L’interesse strumentale nelle gare d’appalto (17.04.2014 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: V. Raeli, Il modello della responsabilità amministrativa come "clausola generale" e le fattispecie sanzionatorie (maggio 2014 - link a www.lexitalia.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Senatore, La decadenza dal permesso a costruire: decorrenza e proroga dei relativi termini (Urbanistica e appalti n. 4/2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 02.05.2014, "Approvazione del piano regionale della mobilità ciclistica ai sensi della l.r. 7/2009" (deliberazione G.R. 11.04.2014 n. 1657: 1^ parte - 2^ parte).

ENTI LOCALI: G.U. 30.04.2014 n. 99 "Ulteriore differimento dal 30 aprile al 31.07.2014 del termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2014 degli enti locali, ai sensi dell’articolo 151, comma 1, del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267" (Ministero dell'Interno, decreto 29.04.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 30.04.2014 n. 99 "Disciplina delle modalità di applicazione a regime del SISTRI del trasporto intermodale nonché specificazione delle categorie di soggetti obbligati ad aderire, ex articolo 188-ter, comma 1 e 3 del decreto legislativo n. 152 del 2006" (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del Mare, decreto 24.04.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 28.04.2014 n. 97 "Norme Tecniche per gli attraversamenti ed i parallelismi di condotte e canali convoglianti liquidi e gas con ferrovie ed altre linee di trasporto" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 04.04.2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI: OGGETTO: Decoro delle bandiere esposte all'esterno degli edifici pubblici (Prefettura di Avellino, nota 28.04.2014 n. 9633 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Legge 07.04.2014, n. 56 (c.d. Legge Delrio) - "Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni dei comuni" - Chiarimenti in ordine all'articolo 1 - comma 135, 136, 137 e 138 (Prefettura di Avellino, nota 25.04.2014 n. 9159 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Legge 07.04.2014, n. 56 - "Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni dei comuni (Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, nota 24.04.2014 n. 6508 di prot.).

QUESITI & PARERI

SEGRETARI COMUNALI: Personale degli enti locali. Spese personale e assunzione segretario.
La Corte dei conti ha chiarito che la spesa inerente alla figura del segretario comunale, sotto il profilo finanziario, è assimilata a quella del personale e risulta assoggettata pertanto ai vincoli imposti dalla disciplina finanziaria vigente.
Il Comune si è posto la questione relativa alla possibilità di 'assumere' il segretario comunale, figura obbligatoria per legge, qualora con detta 'assunzione' non vengano poi rispettati i limiti di spesa complessivi per il personale (conseguenza del fatto che in passato si è fatto ricorso a prolungate reggenze o supplenze o a convenzioni tra una molteplicità di comuni). L'Ente richiama, a tal proposito, le osservazioni formulate dalla Corte dei conti della Lombardia (parere n. 130/2014) e chiede di conoscere se debba prioritariamente essere garantita la presenza di una figura obbligatoria per legge procedendo, successivamente, a sostenere spese per figure professionali non obbligatorie.
Sentito il Servizio finanza locale, si osserva quanto segue.
La Corte dei conti, nel citato parere, ha evidenziato che il segretario comunale è un pubblico funzionario dipendente del Ministero dell'Interno, che svolge le proprie funzioni presso un ente territoriale, in base ad incarico conferito attraverso un provvedimento di nomina del Sindaco.
La particolarità di detta figura, obbligatoria per legge
[1], non influisce comunque sull'allocazione, sotto il profilo finanziario, delle poste contabili relative all'incardinamento (solo in senso lato qualificabile come assunzione) in capo all'ente locale presso cui il segretario operi funzionalmente, in modo assimilabile a quelle per i dipendenti [2].
La Corte dei conti ha rilevato che, conseguentemente, l'aspetto problematico risulta quello di conciliare l'evidente obbligatorietà dell'incardinamento del segretario comunale con la disciplina finanziaria vigente, in particolare con riferimento ai limiti posti alla spesa del personale intesa complessivamente.
Ha evidenziato, a tal proposito, che la spesa per il personale 'per la sua importanza strategica ai fini dell'attuazione del patto di stabilità interno (data la sua rilevante entità), costituisce non già una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente
[3], con la conseguenza che le disposizioni relative al suo contenimento assurgono a principio fondamentale della legislazione statale'.
Premesso un tanto, si è anche sottolineato che, in linea di massima, la disciplina finanziaria non interferisce con la disciplina ordinamentale e tiene fermi facoltà, obblighi e divieti sostanziali imputabili all'amministrazione; introduce piuttosto indirette limitazioni alla discrezionalità operativa degli enti che, a causa dei predetti limiti, sotto la propria responsabilità, devono effettuare scelte gestionali che li mettano in condizione di esercitare facoltà e adempiere doveri compatibilmente con il rispetto di tali obiettivi di spesa, e ciò è sostenibile anche per l'esercizio di legittime prerogative come, nel caso di specie, la nomina di un segretario comunale.
In sostanza, la Corte dei conti ha ribadito che il comune non può sottrarsi al rispetto dei vincoli di finanza pubblica relativi alle spese del personale. E' onere, pertanto, di ogni singola amministrazione effettuare scelte alternative, come la rinuncia al turn-over o la riduzione delle voci di spesa di personale facoltative, per personale non strutturato
[4], ricompreso nel calcolo dell'aggregato previsto dalla vigente normativa finanziaria.
In ogni caso -ha concluso la Corte dei conti- resta ferma la necessità, per le amministrazioni locali, di verificare la compatibilità di qualsiasi scelta si intenda effettuare con la disciplina finanziaria medesima.
In conclusione, appurato l'obbligo di legge di garantire la figura del segretario comunale, spetta al Comune 'adottare tutte le possibili forme organizzative che consentono il rispetto del contenimento della spesa del personale, in primo luogo, cercando una forma di collaborazione del segretario comunale che contenga per quanto è possibile la spesa ed eventualmente riducendo altre spese di personale'
[5] facoltative.
La Corte dei conti, sez. Marche
[6], richiamando l'orientamento espresso dalla sez. Veneto, con deliberazione n. 154/2011, ha precisato inoltre che 'ai fini della verifica del rispetto del vincolo posto dalla legge deve necessariamente prescindersi dalla valutazione circa la precarietà o meno della copertura del posto del Segretario: ciò che rileva è la figura in quanto tale, per la sua indefettibilità evidenziata tra l'altro non solo dalla previsione dell'art. 97 del TUEL (e in particolare il compito di assistenza agli organi), ma anche dalla stessa circostanza (...) secondo cui in caso di mancata nomina viene comunque inviato un Segretario, seppur in disponibilità (...). La circostanza secondo cui tale spesa, sia pure in un'ottica complessiva di matrice vincolistica che tende alla sua diminuzione, debba essere comunque garantita, rafforza ancora di più la conclusione sopra riportata, alla luce tra l'altro delle rinnovate funzioni attribuite alla figura del Segretario comunale e a seguito in particolare del D.lgs. 190/2012 [7] che individuano, di norma, in tale figura l'organo responsabile della prevenzione della corruzione e di fondamentali compiti di programmazione e vigilanza'.
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[1] Vedasi in proposito la lettera dell'Assessore alla funzione pubblica, autonomie locali e coordinamento delle riforme, prot. n. 703-SP/13-G, 'Copertura sedi vacanti di segreteria nella Regione Friuli Venezia Giulia' del 12.12.2013.
[2] Cfr. anche Corte dei conti, Sezione Autonomie, deliberazione 30.05.2012, n. 8. Tale sezione è giunta alla conclusione che nel complessivo assetto normativo che regola ruolo, funzioni e 'status' dei segretari comunali, pur a fronte di incrementi della spesa di personale non coerenti con gli obiettivi di finanza pubblica, tenuto conto delle specifiche disposizioni di contenimento di tale tipo di spesa, non sono intervenute innovazioni tali da poter giustificare una posizione funzionale diversa nel contesto ordinamentale degli enti locali e che pertanto non sussistono elementi per una ridefinizione della natura giuridico-economica della retribuzione agli stessi spettante, che possa giustificare un'allocazione contabile delle relative spese diversa da quella in cui sono appostate le spese per il personale dipendente degli enti.
[3] Secondo il principio posto dalla Corte dei conti (cfr. Sezioni Riunite, deliberazione n. 27 del 2011), per individuare l'esatto aggregato della spesa di personale nel confronto con la spesa corrente, la si deve ritenere come onnicomprensiva di tutte le sue possibili componenti e quindi inclusiva di ogni voce, comprese quelle sostenute con finanziamenti esterni. L'art. 1, comma 557-bis, della l. 296/2006 (disciplina statale) precisa che costituiscono spese di personale anche quelle sostenute per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, per la somministrazione lavoro, per il personale di cui all'articolo 110 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nonché per tutti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all'ente. Per quanto concerne la normativa finanziaria applicabile agli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, l'art. 12, comma 25, della l.r. 17/2008 stabilisce che costituiscono spese di personale, oltre a quelle iscritte all'intervento 1 del titolo I della spesa corrente, anche quelle sostenute per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, per la somministrazione di lavoro, per il personale di cui all'articolo 110 del decreto legislativo 267/2000.
[4] Da intendersi quale ricorso a forme contrattuali di lavoro flessibile (ad es. co.co.co., lavoro somministrato, rapporti a tempo determinato), non riferito quindi a rapporti di lavoro a tempo indeterminato, che comportano un costo di bilancio irreversibile.
[5] Cfr. Corte dei conti, sez. Lombardia, deliberazione n. 1047 del 2010, Corte dei conti, sez. Veneto, parere n. 97/2013.
[6] Cfr. deliberazione n. 64/2013.
[7] Rectius, legge 190/2012
(02.05.2014 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Maggioranze necessarie per la validità delle deliberazioni del consiglio comunale.
1) Se la base di riferimento del calcolo del quorum costitutivo delle sedute del consiglio comunale è quella dei 'componenti assegnati', detto quorum rimane immutato anche a seguito delle dimissioni di alcuni consiglieri.
2) La determinazione del quorum deliberativo è lasciata all'autonomia regolamentare dell'Ente.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito al quorum necessario per la validità delle deliberazioni del consiglio comunale. A tal fine, precisa che il consiglio comunale, originariamente composto da 13 componenti, compreso il sindaco, si dovrebbe ridurre a 11 membri (compreso il sindaco).
[1]
Ciò premesso, desidera sapere quali siano le maggioranze necessarie ai fini della validità delle sedute consiliari, sia sotto il profilo del quorum costitutivo che di quello deliberativo.
L'articolo 38, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 stabilisce che 'il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento'. La norma citata affida all'autonoma determinazione del consiglio comunale, attraverso lo strumento di autonomia normativa del regolamento, la disciplina dei quorum necessari per la validità delle deliberazioni, ponendo essa un limite solo con riferimento al numero minimo di consiglieri necessario per la validità della seduta (c.d. quorum costitutivo o strutturale). Recita, infatti, l'articolo 38, comma 2, TUEL che: '[...] in ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco [...]'.
L'articolo 8 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, rubricato 'Numero legale per la validità delle sedute', facente parte del Titolo II ('Adempimenti preliminari alle sedute') recita: '1. Per la validità delle riunioni del Consiglio Comunale è necessaria la presenza della metà dei componenti assegnati. 2. Dopo la prima seduta resa nulla per mancanza del numero legale, per la validità della seduta successiva, di seconda convocazione, è sufficiente la presenza di almeno quattro Consiglieri'.
Atteso che si tratta di comune con popolazione fino a 3.000 abitanti, la legge prevede che il consiglio comunale sia composto dal sindaco e da 12 membri.
In base alle prescrizioni contenute nel regolamento consiliare, segue che il quorum strutturale minimo per la valida costituzione di una seduta del consiglio comunale, in prima convocazione, è di 7 componenti (compreso il sindaco). Quanto alla seconda convocazione il regolamento consiliare ritiene sufficiente la presenza di almeno quattro consiglieri.
Attesa la base di riferimento del calcolo del quorum costitutivo, che è quella dei 'componenti assegnati' secondo la previsione di legge, segue che detto quorum (sette componenti) rimane immutato anche a seguito delle dimissioni di due consiglieri.
Con riferimento alle maggioranze richieste per la valida assunzione di una deliberazione consiliare, l'articolo 9 del regolamento per il funzionamento del consiglio comunale, rubricato 'Numero legale per la validità delle deliberazioni', stabilisce che: 'Nessuna deliberazione è validamente adottata dal Consiglio se non risulta approvata dalla maggioranza dei votanti, fatti salvi i casi in cui sia richiesta, dalla legge o dallo statuto, una maggioranza qualificata'. Il successivo articolo 39, tuttavia, rubricato 'Calcolo della maggioranza' e inserito nel Titolo VI del regolamento consiliare ('Operazioni di votazione') recita: 'Perché una deliberazione sia valida occorre che ottenga, di regola, la maggioranza assoluta e cioè un numero di voti favorevoli pari alla metà più uno dei votanti, arrotondato per eccesso'.
L'Ente rileva una discrasia fra le due previsioni e, sentito per le vie brevi, chiede dei chiarimenti al riguardo che possano risultare utili anche nell'ottica di una possibile modifica dell'attuale regolamento consiliare.
Al riguardo, si osserva che non compete a questo Ufficio interpretare il significato delle norme del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, dovendo attribuirsi tale compito all'organo che le ha elaborate; pertanto, le seguenti considerazioni sono espresse in via meramente collaborativa.
Come già sopra evidenziato, la determinazione delle maggioranze richieste per la valida assunzione di una deliberazione consiliare è lasciata all'autonomia regolamentare dell'Ente.
In generale, per gli organi collegiali, vige il principio proprio di tutti i procedimenti decisori secondo cui la deliberazione deve essere presa a maggioranza di voti. Sul concetto di maggioranza si suole, poi, distinguere tra una maggioranza semplice (o relativa) che è quella che consiste nella mera prevalenza numerica rispetto a coloro che esprimono voti differenti; una maggioranza assoluta, costituita dalla metà più uno degli aventi diritto al voto ed una maggioranza qualificata, costituita da una frazione prefissata dei votanti, superiore alla metà (per esempio, due terzi o tre quarti).
[2]
Ciò premesso, nell'analizzare gli articoli 9 e 39 del regolamento consiliare si rileva che entrambi riferiscono il calcolo della maggioranza al numero dei votanti ma, mentre la prima disposizione non contiene specificazioni ulteriori, la seconda precisa che deve trattarsi di una maggioranza assoluta.
L'apparente discrasia tra le due disposizioni del regolamento consiliare può trovare spiegazione se si considera la vetustà dello stesso. Il regolamento del consiglio comunale risulta, infatti, adottato con deliberazione del consiglio comunale del 10.12.1997 e successivamente modificato nell'anno 1998.
Il testo unico comunale e provinciale del 04.02.1915, n. 148 conteneva un'espressa disciplina sulle deliberazioni consiliari. In particolare, l'articolo 298 dello stesso stabiliva, al terzo comma, che: 'Nessuna deliberazione è valida se non ottiene la maggioranza assoluta dei votanti'. [3]
Se si considerano le sentenze emesse dalla giurisprudenza in quegli anni si constata come il principio dalle stesse affermato era che 'In mancanza di specifiche disposizioni le quali stabiliscano una diversa maggioranza nelle deliberazioni volte alla formazione della volontà collegiale, detta volontà si identifica con quella espressa dalla maggioranza assoluta dei votanti'.
[4]
Una possibile interpretazione
[5] delle norme in esame potrebbe, pertanto, portare ad affermare che la maggioranza richiesta ai fini della valida assunzione di una deliberazione consiliare sia quello della maggioranza assoluta dei votanti.
La giurisprudenza, a tale riguardo, ha affermato che se il numero dei votanti è pari la maggioranza assoluta può dirsi raggiunta quando vengano ottenuti un numero di voti pari alla metà più uno dei votanti; se il numero dei votanti è dispari, invece, la maggioranza assoluta sarebbe costituita da quel numero che, raddoppiato, dia una cifra superiore di una unità al numero di votanti, purché venga superata, anche di una sola frazione, la metà del collegio.
[6]
Si ribadisce, peraltro, che spetta al consiglio comunale esprimersi sull'interpretazione delle norme regolamentari. Considerata, inoltre, la datazione dell'attuale regolamento consiliare, antecedente al testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (ovverosia il D.Lgs. 267/2000), si consiglia l'Ente di modificare lo stesso adeguandolo alla normativa attualmente in vigore e, con riferimento specifico alla determinazione del quorum funzionale, di formulare, in un'unica disposizione, che tipo di maggioranza debba sussistere affinché una deliberazione consiliare sia validamente assunta ed a quale elemento-base la stessa debba essere rapportata.
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[1] Ciò a seguito delle dimissioni di due consiglieri comunali (le une già rassegnate, le seconde meramente prospettate) ed all'impossibilità di procedere alla surroga dei dimissionari per esaurimento della lista a cui appartenevano i consiglieri venuti meno.
[2] Così, 'Treccani.it, l'Enciclopedia italiana', alla voce 'Maggioranza', consultabile sul sito: www.treccani.it
[3] Tale decreto è stato abrogato (salvo che per taluni articoli specificamente indicati) dall'articolo 64 della legge 08.06.1990, n. 142; successivamente l'articolo 28 della legge 03.08.1999, n. 265 ha nuovamente disposto l'abrogazione dell'indicato decreto.
[4] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 24.03.1994, n. 414. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 14.06.1994, n. 672 e Corte Conti, sez. controllo, sentenza del 27.11.1992, n. 44.
[5] Ci si avvarrebbe, in particolare, di un'interpretazione logico-sistematica in forza della quale il significato di una norma viene determinato tenendo conto della connessione con le altre norme e del fatto che l'interprete dovrebbe sempre privilegiare quelle interpretazioni che, evitando le contraddizioni nell'ambito di un singolo documento normativo, diano una certa coerenza al sistema.
[6] Così, TAR Sicilia, Catania, sez. I, sentenza del 23.05.1994, n. 1032; TAR Campania, sez. III, sentenza del 29.01.1988, n. 5; Consiglio di Stato, sentenza n. 1135 del 1976
(24.04.2014 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Art. 55-septies, comma 5-ter, del d.lgs. 165/2001. Circolare n. 2/2014 del Dipartimento funzione pubblica. Assenze per visite, terapie, esami diagnostici.
Il Dipartimento della funzione pubblica, in relazione al disposto dell'art. 55-septies, comma 5-ter, del d.lgs. 165/2001, ha chiarito che, per l'effettuazione di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, il dipendente deve fruire dei permessi per documentati motivi personali, secondo la disciplina dei CCNL, o di istituti contrattuali similari o alternativi (come i permessi brevi o la banca delle ore).
La giustificazione dell'assenza, ove ciò sia richiesto per la fruizione dell'istituto (es.: permessi per documentati motivi personali), avviene mediante attestazione redatta dal medico o dal personale amministrativo della struttura pubblica o privata che ha erogato la prestazione (attestazione di presenza).
Nel caso di concomitanza tra l'espletamento di visite specialistiche, l'effettuazione di terapie od esami diagnostici e la situazione di incapacità lavorativa, trovano applicazione le ordinarie regole sulla giustificazione dell'assenza per malattia.

Il Comune ha chiesto di conoscere se la circolare n. 2/2014 diramata da l Dipartimento della funzione pubblica sia applicabile anche al personale del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale. Inoltre l'Ente si è posto la questione se, in caso affermativo, in mancanza del certificato medico attestante l'incapacità lavorativa, tali assenze devono essere recuperate o compensate nell'ambito della flessibilità e/o della 'banca delle ore', oppure in alternativa possono rientrare nell'ambito dei permessi retribuiti per festività soppresse.
Preliminarmente si osserva che l'art. 55-septies, comma 5-ter, del d.lgs. 165/2001, come modificato dal d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013 si applica anche al personale del comparto unico, in quanto trattasi di disciplina concernente in generale i dipendenti delle pubbliche amministrazioni..
La richiamata norma, come novellata, recita testualmente: 'Nel caso in cui l'assenza per malattia abbia luogo per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici il permesso è giustificato mediante la presentazione di attestazione, anche in ordine all'orario, rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privati, che hanno svolto la visita o la prestazione o trasmesse da questi ultimi mediante posta elettronica'.
Il Dipartimento della funzione pubblica, con circolare n. 2/2014, è intervenuto a fornire chiarimenti interpretativi sull'applicazione di detta disposizione ed ha precisato che 'a seguito dell'entrata in vigore della novella, per l'effettuazione di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici il dipendente deve fruire dei permessi per documentati motivi personali, secondo la disciplina dei CCNL, o di istituti contrattuali similari o alternativi (come i permessi brevi o la banca delle ore). La giustificazione dell'assenza, ove ciò sia richiesto per la fruizione dell'istituto (es.: permessi per documentati motivi personali), avviene mediante attestazione redatta dal medico o dal personale amministrativo della struttura pubblica o privata che ha erogato la prestazione (attestazione di presenza)'.
Si è inoltre affermato che, nel caso di concomitanza tra l'espletamento di visite specialistiche, l'effettuazione di terapie od esami diagnostici e la situazione di incapacità lavorativa, trovano applicazione le ordinarie regole sulla giustificazione dell'assenza per malattia.
Pertanto, non prevedendo la contrattazione regionale permessi per documentati motivi personali, qualora non sussista l'incapacità lavorativa, le assenze potranno essere giustificate mediante l'utilizzo dei permessi brevi a recupero oppure, in alternativa mediante l'utilizzo della 'banca ore' dello straordinario o la fruizione ad ore delle festività soppresse
(18.04.2014 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ENTI LOCALI - VARIAutovelox ad alto rischio. Obblighi precisi per la segnalazione delle «apparecchiature».
Molte postazioni autovelox fisse rischiano di diventare fuorilegge. Se lo schema di decreto ministeriale sui controlli di velocità verrà approvato (forse questo mese) nella versione inviata a metà aprile alla Conferenza Stato-città-autonomie locali, le postazioni dovranno essere corredate da un segnale che attualmente non hanno.

Si tratta della novità principale del decreto, scritto dai tecnici dei ministeri delle Infrastrutture e dell'Interno, richiesto quattro anni fa dalla riforma del Codice della strada (legge 120/2010) e finora rimasto fermo per difficoltà e contrasti sull'altro punto che la legge richiedeva fosse contenuto nel testo: la devoluzione di metà dei proventi autovelox agli enti proprietari delle strade (si veda Il Sole 24 Ore del 1° maggio).
Disciplinare i controlli di velocità, invece, presentava meno problemi: c'era già la "direttiva Maroni", emanata dal ministero dell'Interno il 14.08.2009. E infatti il nuovo decreto la riprende quasi per intero, ampliandola e aggiornandola in linea coi pareri resi dai ministeri in questi ultimi anni su questioni emerse di recente (come alcuni problemi sul controllo della velocità media). Sono novità che in gran parte favoriscono i controlli, "ammorbidendo" qualche vincolo. La direttiva del 2009 è stata resa più garantista solo sulla visibilità delle postazioni fisse per i controlli automatici, richiesta dal Dl 117/2007.
Oggi il testo lascia la scelta tra il piazzarvi sopra un piccolo segnale col simbolo del corpo di polizia che utilizza la postazione (la sagoma stilizzata dell'agente per la Polizia stradale, il casco per quelle locali) o adottare un'«opportuna colorazione». Quest'ultima opzione lascia una certa libertà interpretativa: alcuni Comuni si ritengono in regola anche con una striscia riflettente bianca e rossa, altri (tra cui Milano) reputano opportuno anche il colore grigio scuro.
Secondo il nuovo schema di dm, tutti dovranno piazzare il segnale, sulla postazione o nelle immediate vicinanze. Diventano invece più utilizzabili i tutor per il controllo della velocità media: inizialmente, le modalità d'uso stabilite dai decreti di approvazione delle apparecchiature escludevano le rilevazioni su tratti dove il limite variasse (anche per situazioni eccezionali, come maltempo o cantieri), ma da fine 2010 un parere ministeriale le aveva ammesse in situazioni del genere, prendendo come riferimento il limite più alto fra quelli in vigore.
Inoltre, la legge 120/2010 aveva imposto per le postazioni fisse fuori dai centri abitati una distanza minima di un chilometro tra il segnale di limite di velocità e l'apparecchio di controllo, ma un altro parere aveva stabilito che questo vincolo non riguarda il portale che rileva l'ingresso nel tratto controllato, ma solo quello che registra l'uscita (perché è qui che l'infrazione si considera commessa per questo stesso motivo i ricorsi si presentano all'autorità competente sul luogo del secondo portale).
Entrambi i pareri vengono confermati dallo schema di Dm. Sempre riguardo alla distanza minima di un chilometro, confermati i pareri secondo cui il segnale può stare anche più vicino se si limita a ricordare la velocità massima consentita dal Codice o se è una mera conferma del limite locale dopo un incrocio.
In quest'ultimo caso, però, occorre che prima dell'intersezione vigano limiti uguali su tutti i tratti di strada che vi confluiscano e che tutti i segnali che li impongono distino più di un chilometro dalla postazione di controllo
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Appalti di opere pubbliche: liti temerarie ad alto costo. Consiglio di Stato. Il peso delle super-sanzioni.
Il Governo in settimana ha rilanciato sulla stretta alle sospensive concesse dai Tar in caso di appalti. L'intento è quello di garantire tempi certi e di evitare mosse "dilatorie" sulle opere pubbliche di maggior peso, come quelle connesse a finanziamenti Ue o a programmi di sviluppo articolati. Due le direttrici praticabili: fissare presupposti più severi ai Tar e inasprire le sanzioni per chi abusa della richiesta di sospensiva.
La prima via –quella dei presupposti– è già stata imboccata con la riforma del processo amministrativo (Dlgs 104/2010), di poco successiva alla legge sugli appalti (163/2006): prima di sospendere l'esito di una gara va verificata una griglia di presupposti (riportati nella tabella qui sotto). Questa fitta griglia, tuttavia, non ha impedito l'intervento della magistratura, ad esempio, sulle opere di Expo 2015 (Tar Milano 164/2013).
Il Governo potrebbe imporre ai Tar, per concedere la sospensiva, l'ulteriore e più severo requisito della ragionevole sicurezza di un esito certo della lite, tenendo presente che la sentenza sopravverrà dopo pochi mesi garantendo a chi risulti ingiustamente danneggiato un congruo risarcimento (magari pagato dall'impresa vincitrice, se emerga un suo comportamento poco trasparente). Questo sembra tuttavia il paletto massimo utilizzabile, poiché lo Stato deve rispettare la direttiva comunitaria (90/665) che prevede un'obbligatoria tutela urgente per chi intenda contestare l'esito delle gare.
L'altra via, quella delle super-sanzioni per iniziative temerarie (il contributo iniziale si può moltiplicare per cinque) è un sistema indiretto per limitare il potere cautelare del giudice, ma forse più agevole anche se deve fare i conti con quanto già esistente, come si può vedere da una recentissima sentenza del Consiglio di Stato (n. 1436 del 24 marzo). Un'impresa, nel contestare la regolarità del Durc (sui contributi) dell'aggiudicatario, non aveva adottato un comportamento prudenziale e aggiornato alla giurisprudenza. L'impresa aveva anche ottenuto una sospensiva sulla base di equivoci e affermazioni poi smentite dai fatti. Il Consiglio di Stato non solo ha respinto il ricorso, ma ha anche condannato l'impresa ricorrente al pagamento di un ulteriore importo punitivo per lite «temeraria».
La lite in materia di appalti pubblici ha un costo iniziale di matrice tributaria che può raggiungere i 9.000 euro. In caso di vittoria in giudizio, l'importo ricade su chi soccombe, cumulandosi ai normali costi della lite (spese di consulenza, oneri professionali). E a questi importi si possono aggiungere somme ancor più rilevanti, rimesse alla valutazione del giudice (si veda la sintesi nella tabella qui sotto).
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Le regole attuali
SOSPENSIONE APPALTI OPERE STRATEGICHE
Che cosa chiede la legge per la sospensione Tar degli appalti per «opere strategiche» (articolo 125, decreto legislativo 104/2010):
- Obbligo di tener conto delle probabili conseguenze del provvedimento per tutti gli interessi che possono essere lesi
- Obbligo di tener conto del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera
- Valutazione dell'irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente
- Obbligo di comparare l'interesse del ricorrente con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure
- La sospensione non incide sul contratto già stipulato, e il risarcimento del danno avviene solo per equivalente
I «DISSUASORI ECONOMICI»
- Il giudice può disporre una cauzione (articolo 55, comma 2, Dlgs 104/2010)
- Il contributo unificato varia da 2.000 a 6.000 euro (articolo 1, comma 25 a), n. 1-3, legge 228/2012)
- In appello il contributo aumenta del 50%, al massimo è 9.000 euro (articolo 13, comma 1-bis, Dpr 115/ 2002)
8 Contributo raddoppiato per gli appelli inammissibili o improcedibili (articolo 13, comma 1-quater, Dpr 115/2002)
- La parte soccombente paga da 2 a 5 volte il contributo per lite temeraria (articolo 26, comma 2, Dlgs 104/2010)
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARIBox autovelox segnalati meglio. Ma saranno utilizzabili come dissuasori della velocità. In dirittura il decreto che prevede il riparto a metà delle multe accertate dagli enti locali.
I box autovelox dovranno essere segnalati meglio ma nessuna disposizione ne vieterà l'utilizzo anche come dissuasori degli eccessi di velocità. E arriva il via libera alla ripartizione a metà delle multe accertate dagli enti locali su strade non di proprietà mentre per la rendicontazione periodica al ministero da parte della polizia locale occorrerà attendere istruzioni.

Sono queste in sintesi le indicazioni più interessanti che emergono da una lettura dello schema dell'atteso decreto interministeriale recante «disposizioni in materia di destinazione dei proventi delle sanzioni a seguito dell'accertamento delle violazioni dei limiti massimi di velocità di cui all'art. 142 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285» che doveva essere sottoposto ieri al vaglio della conferenza stato-città e autonomie locali ma che è stato stralciato all'ultimo minuto per permettere all'Anci di valutarne meglio i contenuti ed arrivare ad una approvazione entro il mese di maggio.
La legge n. 120/2010 ha riscritto l'art. 142 del codice della strada in materia di eccesso di velocità e proventi delle multe, prevedendo che per tutte le violazioni dei limiti di velocità i relativi proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada, con stringenti vincoli di spesa. E che entro il 31 maggio di ogni anno ciascun ente locale dovrà rendicontare al ministero.
Queste nuove disposizioni non sono ancora diventate operative (nonostante il dl 16/2012 abbia tentato di superare l'impasse) in quanto non è stato emanato il provvedimento che tra l'altro dovrà disciplinare anche le modalità tecniche di controllo della velocità dei veicoli. Anche a seguito delle recenti polemiche sull'impiego improprio degli armadietti autovelox il provvedimento sembra essere in procinto di essere licenziato. A quanto risulta ad ItaliaOggi il ministro Maurizio Lupi è fermamente intenzionato a licenziare il decreto prima possibile. Ma l'Anci ha avanzato perplessità e per questo ha richiesto lo slittamento dell'esame alla prossima seduta della conferenza prevista per metà maggio. Il decreto in corso di approvazione si compone di pochi articoli.
I primi sono dedicati alle modalità di rendicontazione periodica dei proventi delle multe e alla ripartizione dei proventi autovelox che per una incomprensibile alchimia normativa non dovrà interessare le forze di polizia dello stato. Per la trasmissione informatica della relazione occorrerà attendere l'avvio del portale dedicato mentre per quanto riguarda la ripartizione delle multe si farà riferimento alle multe accertate a decorrere dal 01.01.2014. La ripartizione, da eseguire entro il mese di gennaio 2015, «interesserà il totale delle somme incamerate, al netto delle spese sostenute per tutti i procedimenti amministrativi connessi». Una brutta sorpresa specialmente per alcune province che ritenevano di poter confidare già sugli incassi dell'anno precedente.
Circa le modalità di collocazione ed uso dei sistemi di controllo della velocità non sono tante le modifiche rispetto all'attuale disposizione normativa. Per quanto riguarda il Tutor viene chiarito definitivamente che il luogo della commessa violazione è rappresentato dal secondo portale che fotografa il trasgressore ad una velocità media superiore al previsto. Gli strumenti elettronici devono essere controllati nel rispetto delle indicazioni fornite dal costruttore. In particolare per quelli automatici andrà effettuata una verifica metrologica almeno annuale, prosegue la bozza di decreto.
Novità importanti in materia di segnalazione delle postazioni di controllo che devono essere sempre segnalate e ben visibili. Per le postazioni temporanee la segnaletica di preavviso potrà essere di carattere permanente solo se l'impianto viene utilizzato frequentemente. Per la contestazioni immediata della violazione non è necessario alcun riscontro documentale, prosegue il decreto. In buona sostanza sono perfettamente validi i controlli con sistemi laser senza prova fotografica o documentale della violazione. Nessuna novità infine per i temuti porta autovelox senza strumento che potranno continuare ad essere utilizzati come deterrente sulle strade del Bel paese (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2014).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: La novità del Durc.
Con riferimento all'articolo «Durc online più costoso», a firma Simona D'Alessio, pubblicato su ItaliaOggi del 30 aprile, possono essere utili alcune precisazioni.
La nuova modalità di rilascio del Durc telematico rappresenterà una vera e propria rivoluzione in termini di tempestività, trasparenza e «sburocratizzazione» delle procedure amministrative a favore dei contribuenti.
Con questo nuovo procedimento, su circa 5 milioni di richieste annue di regolarità contributiva che oggi sono gestite tramite lo Sportello unico previdenziale, si calcola che almeno la metà potranno ottenere in tempo reale risposta positiva alle loro istanze; un notevole passo in avanti rispetto agli attuali tempi di attesa che, sebbene ridotti notevolmente negli ultimi tempi, possono arrivare sino a trenta giorni.
Questo snellimento di procedimento sarà ottenuto utilizzando tecniche e risorse tecnologiche già disponibili presso gli Istituti coinvolti.
Il nuovo Durc, infatti, sarà il frutto di integrazione di infrastrutture per lo scambio dei dati già in essere e utilizzate per la determinazione della regolarità contributiva che gli istituti già attivano per emettere l'attuale Durc.
Il cambiamento che si introduce non è tecnologico ma di paradigma: si certifica online quello che i sistemi automaticamente già oggi sono in grado di recuperare negli archivi.
Lo scambio dei dati avverrà secondo gli indirizzi contenuti nel Sistema pubblico di connettività, utilizzando i ben collaudati servizi di cooperazione applicativa stabiliti tra gli enti coinvolti, implementando la tecnologia XML già largamente utilizzata tra gli istituti.
Pertanto, il costo e i tempi delle modifiche delle procedure già esistenti sarà irrilevante rispetto ai benefici tradotti in termini di minor impegno degli operatori addetti al rilascio, di minor impegno di risorse informatiche, di una migliore qualità e tempestività del servizio all'utenza (le stazioni appaltanti, le aziende, l'intermediazione professionale, il cittadino) che riceverà immediatamente una certificazione di regolarità ovvero potrà immediatamente attivarsi per la risoluzione dell'irregolarità contributiva rilevata (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2014).

TRIBUTIGli aumenti Tasi diventano legge. Dubbio bollettini. Regole diverse per prime e seconde case. Il senato ha convertito definitivamente in legge il dl 16. Tari anche sui rifiuti assimilati.
Il decreto Salva Roma ter è legge. Con 132 voti favorevoli, 71 contrari e 9 astenuti, l'aula di palazzo Madama ha dato il via libera definitivo al dl 16/2014 non apportando nessuna modifica rispetto al testo ampiamente modificato nel passaggio alla camera dei deputati.
Con la conversione in legge del provvedimento, il puzzle della Iuc, la nuova imposta unica comunale istituita dall'ultima legge di stabilità, si arricchisce di alcuni tasselli importanti. Altri, però, mancano ancora all'appello: per esempio, non si hanno più notizie del decreto direttoriale col quale il dipartimento delle finanze dovrebbe escludere l'obbligo per i comuni di inviare ai contribuenti i bollettini precompilati per il pagamento della Tasi.
Proprio su quest'ultimo tributo si concentrano i correttivi più significativi introdotti dal dl 16 e dalla relativa legge di conversione. Oltre alla possibilità di aumentare le aliquote sopra i tetti massimi fino allo 0,8 per mille (con l'onere, assai incerto nella sua reale portata, di introdurre detrazioni o altre agevolazioni che riproducano gli effetti di quelle previste in regime Imu), la Tasi vede meglio definito il suo ambito di applicazione, con la definitiva esclusione dei terreni agricoli (che però ora, in base al successivo dl 66, rischiano di pagare l'Imu se si trovano in collina) e il recupero di gran parte delle esenzioni già previste per l'imposta municipale.
Novità importanti anche per la Tari, che dovrà essere pagata anche dai produttori di rifiuti assimilati (con, però, sconti obbligatori da parte dei comuni) e che ritrova elementi di flessibilità che la fanno somigliare molto alla cara, vecchia Tarsu. Cambiano anche le modalità di riscossione e di versamento: la Tasi si pagherà come l'Imu, ovvero in due rate, con scadenza al 16 giugno e al 16 dicembre, salvo che il contribuente non preferisca versare subito tutto in un'unica soluzione. Per quest'anno, però, le regole si complicano e distinguono le prime case dagli altri immobili.
Per il solo 2014, sugli immobili diversi dall'abitazione principale, qualora il comune non abbia deliberato una diversa aliquota entro il 31 maggio, la prima rata andrà versata applicando l'aliquota base (1 per mille) e il versamento della rata a saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno dovrà essere eseguito a conguaglio sulla base delle deliberazioni pubblicate entro il 28 ottobre.
Sempre per il 2014, per le prime case, si pagherà tutto in un'unica rata entro il 16 dicembre, salvo il caso in cui la deliberazione del comune sia pubblicata sul sito del Mef entro il 31 maggio (trasmissione entro il 23 maggio). I contribuenti potranno utilizzare solo F24 e bollettino postale centralizzato, non i sistemi elettronici offerti da banche e poste, che restano solo per la Tari. È saltata la facoltà per i comuni di esternalizzarne la gestione della Tasi senza gara a chi nel 2013 ha gestito l'Imu. La Tari, invece, potrà essere affidata a chi lo scorso anno ha gestito la Tares. Sostanzialmente invariata la disciplina dell'Imu, che rappresenta la terza gamba della Iuc (che, come ormai noto, di unico ha solo il nome).
L'unica novità riguarda gli immobili oggetto di multiproprietà, per i quali il versamento deve ora essere effettuato dall'amministratore, che è autorizzato a prelevare l'importo necessario dalle disponibilità finanziarie comuni attribuendo le quote al singolo titolare dei diritti con addebito nel rendiconto annuale. La Tari, invece, potrà essere riscossa tramite anche mav, rid, pos. La tempistica è rimessa alle scelte dei comuni (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2014).

EDILIZIA PRIVATARiscaldamenti al libretto unico. Da giugno l'obbligo vale anche per i condizionatori. Un solo documento al posto di due per gli impianti termici in aziende, uffici e abitazioni.
Dal primo giugno nuovo libretto unico per gli impianti termici installati negli uffici, nelle imprese e nelle abitazioni private. Dalla stessa data il libretto diventerà obbligatorio anche per i dispositivi di climatizzazione estiva. Il nuovo libretto non sarà suddiviso in due distinti modelli ( libretti di centrale e l'altro di impianto), ma sarà costituito da un unico documento, composto da tante schede, utilizzabili in funzione delle apparecchiature componenti l'impianto. Nel nuovo libretto sarà possibile indicare la presenza sia dell'impianto termico (di qualsiasi potenza) sia dell'impianto di climatizzazione estiva.

È con il dm 10.02.2014 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 07.03.2014 n. 55) che sono stati definiti i nuovi modelli di libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica .
Il libretto di impianto per gli impianti di climatizzazione invernale e/o estiva sarà disponibile in forma cartacea o elettronica. Nel primo caso verrà conservato dal responsabile dell'impianto o eventuale terzo responsabile, che ne curerà l'aggiornamento dove previsto o mettendolo a disposizione degli operatori di volta in volta interessati. Il libretto di impianto elettronico sarà conservato presso il catasto informatico dell'autorità competente o presso altro catasto accessibile all'autorità stessa, e verrà aggiornato di volta in volta dagli operatori interessati, che potranno accedere mediante una password personale al libretto.
Se un edificio sarà servito da due impianti distinti, uno per la climatizzazione invernale e uno per la climatizzazione estiva, che in comune hanno soltanto il sistema di rilevazione delle temperature nei locali riscaldati e raffreddati, saranno necessari due libretti di impianto distinti. In tutti gli altri casi sarà sufficiente un solo libretto di impianto.
Sanzioni - Le sanzioni in caso di inadempimenti legati alla manutenzione degli impianti termici sono disciplinate dalla normativa nazionale (articolo 15, 5 e 6 comma, del Dlgs 19.08.2005, n. 192) o dalle disposizione dettate dalle Regioni. Il proprietario o il conduttore dell'unità immobiliare, l'amministratore del condominio, o l'eventuale terzo che se ne è assunta la responsabilità, che non provvede alla manutenzione degli impianti termici invernali ed estivi, è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 500 euro e non superiore a 3 mila euro. L'operatore incaricato del controllo e manutenzione, che non redige un rapporto di controllo tecnico, è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 1.000 euro e non superiore a 6 mila euro. L'autorità che applica la sanzione deve darne comunicazione alla Camera di commercio di appartenenza per i provvedimenti disciplinari conseguenti.
Compilazione - Il libretto dovrà essere compilato per la prima volta dall'installatore, quando verrà messo in funzione l'impianto e poi aggiornato dal responsabile o dal manutentore. Dal 01.06.2014 spetterà direttamente al responsabile dell'impianto (che negli piccoli è l'utente, nel condominio è l'amministratore o la ditta abilitata da questi delegata) recepire il nuovo modello, trascrivere sulla prima pagina i dati identificativi dell'impianto e poi consegnarlo, al momento del controllo, al manutentore per l'aggiornamento dell'impianto. Per gli impianti esistenti al 01/06/2014 i «libretti di centrale» e i «libretti di impianto», compilati in precedenza, dovranno essere allegati al nuovo «libretto per la climatizzazione».
Rapporto efficienza energetica - Dal 01.06.2014 dovranno essere utilizzati i nuovi modelli per il rapporto di efficienza energetica. Il rapporto di efficienza energetica si compilerà per gli impianti termici di climatizzazione invernale di potenza utile nominale maggiore di 10 Kw e di climatizzazione estiva di potenza utile nominale maggiore di 12 Kw, con o senza produzione di acqua calda sanitaria. Gli impianti termici alimentati esclusivamente da fonti rinnovabili non rientrano negli impianti soggetti a compilazione del rapporto (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2014).

EDILIZIA PRIVATAMeno burocrazia nelle imprese. Ai professionisti il ruolo di certificatori della sicurezza. ANTINCENDIO/ Il ministro dell'interno ha presentato il nuovo piano per la prevenzione.
Arrivano le misure anti-burocrazia in materia di sicurezza per le piccole e medie imprese. E cambia anche la vita per i professionisti che assumeranno in concreto quel ruolo di sussidiarietà sempre promesso e quasi mai applicato, visto che lo stato non regolererà più il dettaglio, ma saranno i professionisti stessi a realizzarlo.

Con lo slogan di «meno carta, tempi certi, più sicurezza e più risparmi», il ministro dell'interno, Angelino Alfano, ha presentato un nuovo piano per la prevenzione degli incendi elaborato dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco, che prevede lo snellimento di norme e procedure, salvaguardando nello stesso tempo, le garanzie di sicurezza.
Una rivoluzione da cui si attendono risparmi, in termini di oneri amministrativi per le pmi, superiori a quei 650 milioni di euro annui già accertati con l'entrata in vigore del dpr 151/2011 che ha avviato un significativo snellimento delle procedure amministrative. Ma il nuovo corpus normativo composto in tutto da 200 pagine e che in un primo tempo affiancherà (per poi mandarle a esaurimento) le vecchie regole che componevano oltre una dozzina di volumi, promette di cambiare la vita anche ai professionisti.
Categorie tecniche (per lo più ingegneri e periti industriali, ma anche architetti e geometri) che a fronte di una maggior autonomia nell'applicazione delle norme avranno più responsabilità. Non è un caso che lo stesso ministro Alfano abbia definito questo processo di semplificazione «la forma più moderna di declinazione dell'idea di sussidiarietà orizzontale che esalta le professionalità italiane».
Il ruolo dei professionisti
Per gli addetti ai lavori si tratta di un traguardo che offrirà maggiore flessibilità progettuale, consentendo di uscire dai rigidi schemi e parametri dei decreti prescrittivi. In sostanza, i professionisti potranno studiare soluzioni innovative e alternative anche nell'ambito della sicurezza antincendio, disciplina tradizionalmente piuttosto rigida. Finora, l'impostazione data alla normativa ha avuto un taglio prescrittivo (regole imposte dallo stato e soggetti obbligati agli adempimenti sotto il controllo dei Vvf) che ha comportato un frequente ricorso all'istituto della deroga, con conseguente appesantimento dei procedimenti amministrativi.
Il nuovo approccio così definito di tipo prestazionale, proporzionato cioè al rischio e alla complessità dell'attività, consentirà quindi ai tecnici di personalizzare gli accorgimenti da adottare, coniugando le esigenze di sicurezza con quelli di funzionalità, e magari anche di risparmi economici. «Abbiamo milioni di professionisti», ha detto Alfano, «che sono autonomamente in grado di dire qual è il modo più efficiente per centrare l'obiettivo sicurezza. Il professionista metterà la firma e se ne assumerà tutta la responsabilità, l'ente pubblico invece fornirà l'obiettivo, effettuerà i controlli, ma non darà prescrizioni che vincolano. L'importanza di questa giornata è nell'esempio che i Vigili del fuoco offrono alle altre pubbliche amministrazioni. Un esempio perché cede il passo ai professionisti italiani, realizzando finalmente la sussidiarietà orizzontale».
A chi interessa
Le nuove norme interesseranno le imprese, i commercianti, le strutture alberghiere e tutti i cittadini che vogliono svolgere lavori di ristrutturazione. Ed è anche dalle loro richieste che si è avviato il processo. Per mettere a punto le nuove norme, infatti, gli ingegneri dei vigili del fuoco hanno raccolto le testimonianze degli imprenditori che spingevano per avere regole certe e procedure più snelle per ottenere le certificazioni di prevenzione incendio per le loro attività. Per loro d'ora in poi sarà più facile mettersi a norma perché avranno una modalità più semplici per adeguarsi, con regole semplificate anche per le nuove attività produttive nei centri storici.
Proprio per superare la precedente impostazione si è pensato di inserire in un unico testo organico quelle disposizioni di prevenzione incendi che sono applicabili a tutte le attività soggette ai controlli dei Vvf. I contenuti del progetto saranno poi recepiti con un apposito decreto ministeriale che sarà emanato entro l'estate e conterrà pochi articoli e una serie di allegati tecnici (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIGestione aggregata per gli appalti al via dal 1° luglio. Gare. Anche per i piccoli Comuni.
Tutti i Comuni non capoluogo di provincia devono affidare gli appalti per mezzo di centrali di committenza e di soggetti aggregatori, indipendentemente dalla tipologia e dal valore.
Il decreto Renzi interviene in modo drastico sui processi di acquisizione di lavori, servizi e forniture, riformulando completamente il comma 3-bis dell'articolo 33 del Codice dei contratti pubblici e rendendo obbligatorio il ricorso a modelli di gestione aggregata delle gare per la razionalizzazione della spesa.
La disposizione contenuta nell'articolo 9 del Dl stabilisce infatti che i Comuni che non hanno veste di capoluogo procedono all'acquisizione di lavori, beni e servizi nell'ambito delle unioni dei Comuni (quando esistenti), oppure costituendo un accordo consortile tra loro e avvalendosi dei competenti uffici, o, ancora, ricorrendo a un soggetto aggregatore o alle Province, riconfigurate come possibili stazioni uniche appaltanti dalla legge n. 56/2014 (articolo 1, comma 88).
In alternativa alla soluzione che fa leva su un organismo o una struttura operante come centrale di committenza, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip o da altro soggetto aggregatore di riferimento, come ad esempio le analoghe centrali istituite dalle Regioni.
La nuova norma estende l'ambito soggettivo di applicazione, eliminando il previgente riferimento ai soli Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. La disposizione rimuove anche il limite dimensionale provinciale per le strutture individuate come centrali di committenza.
Le diverse soluzioni offerte consentono, quindi, ai Comuni di rapportarsi a enti già esistenti (unioni o Province) o a organismi specializzati (individuati nella nuova configurazione dei soggetti aggregatori, sancita dai primi due commi dello stesso articolo 9 del Dl Renzi), ma anche di costituire tra essi gestioni associate finalizzate a svolgere il ruolo di centrali di committenza.
L'ambito oggettivo di applicazione della norma è molto esteso, poiché nella riformulazione del comma 3-bis viene a essere eliminata anche la parte che consentiva ai Comuni di procedere autonomamente per acquisizioni di lavori, servizi o forniture di valore inferiore ai 40mila euro. Nella nuova versione tale deroga non c'è più, quindi i Comuni, anche per acquisti di modesto importo non realizzabili mediante le convenzioni centralizzate di Consip o mediante i mercati elettronici, dovranno procedere mediante il modello organizzativo "aggregativo" prescelto.
La nuova norma presenta, tuttavia, molti aspetti critici, a partire dalla tempistica di applicazione, che, in forza della combinazione con l'articolo 3, comma 1-bis della legge n. 15/2014 viene a essere determinata nel 1° luglio di quest'anno.
Gli appalti indetti dalle centrali di committenza dovranno peraltro rispettare sempre il principio di suddivisione in lotti (salvo esplicita motivazione di diversa scelta a lotto unitario), come evidenziato anche dalla direttiva 24/2014/Ue, che richiama tali organismi a impostare gli appalti in modo tale da consentire la partecipazione alle Pmi secondo le loro capacità.
L'obbligo di utilizzo dei modelli aggregativi per la gestione anche degli appalti di lavori deve peraltro essere necessariamente coordinato con le peculiarità stabilite dagli articoli 175 e 176 del Dpr n. 207/2010 in ordine a quelli urgenti e di somma urgenza.
Le disposizioni del Dl n. 66/2014 definiscono anche previsioni volte a potenziare ulteriormente il ricorso alle convenzioni centralizzate stipulate da Consip e dalle centrali di committenza regionali, prefigurando un sistema focalizzato su un numero definito di soggetti aggregatori (non superiore a 35).
Affinché la razionalizzaizone degli acquisti di beni e di servizi attraverso tali strumenti sia efficace, l'articolo 10 individua specifici poteri di controllo in capo all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, che può avvalersi della guardia di finanza, nonché di amministrazioni e di organismi di diritto pubblico
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIIncassi autovelox per metà al gestore della strada. Obbligo solo da quest'anno Esclusi gli organi di polizia statali. Conti dei Comuni. Lo schema del provvedimento è alla Conferenza Stato-città.
La devoluzione all'ente proprietario di metà dei proventi autovelox scatta solo da quest'anno e riguarda le sole polizie locali. Ancora incerte restano invece decorrenza e modalità degli obblighi di rendicontare più rigorosamente l'utilizzo degli incassi di tutte le multe stradali da parte degli enti locali. E viene posto un freno alla determinazione delle spese di accertamento dell'infrazione, che vanno addebitate a chi è tenuto a pagare le multe.
Sono le principali novità dell'attesissimo schema di decreto ministeriale sui controlli di velocità, previsto sin dal luglio 2010 dalla riforma del Codice della strada (legge 120/2010) e finora rimasto al palo proprio per dubbi e difficoltà sul principale vincolo introdotto dalla legge: la devoluzione dei proventi.
Lo schema è stato inviato dal ministero delle Infrastrutture alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali ed è in attesa di essere messo all'ordine del giorno di una delle prossime sedute. Nel frattempo, l'Anci lo sta studiando e quasi certamente porterà ufficialmente alcune sue osservazioni.
Il principale dubbio riguarda la rendicontazione dell'utilizzo dei proventi, che deve avvenire in via telematica entro il 31 maggio dell'anno successivo a quello cui il rendiconto si riferisce. Non è ancora pronto il portale destinato a raccogliere gli invii da parte degli enti e, nel silenzio del testo, sembra di intendere che l'obbligo sia scattato già dal 2013, per cui vada adempiuto già entro questo mese.
Invece il testo è esplicito nello stabilire che la devoluzione scatta soltanto dal 2014. Una novità che chiude una diatriba interpretativa aperta due anni da dal decreto semplificazioni fiscali (Dl 16/2012), che aveva cercato di avviare la devoluzione nonostante mancasse proprio il decreto ministeriale che sta per andare al vaglio della Conferenza. In ogni caso, il testo precisa che i proventi da devolvere sono solo quelli effettivamente incassati nel corso dell'anno precedente (anche se relativi a infrazioni commesse ancora prima), al netto delle spese sostenute per tutti i procedimenti amministrativi connessi.
Un punto controverso dello schema di decreto è nell'ambito di applicazione dell'obbligo di destinare metà dei proventi all'ente proprietario della strada. Nel tempo, si sono succedute varie bozze e sembra che in quelle attuali vengano escluse dall'obbligo le forze di polizia statali, anche se la legge 120 non pareva fare questa distinzione.
Delle spese di accertamento parla l'allegato che, come richiedeva la legge, regola le modalità con cui vanno effettuati i controlli di velocità: finora non c'erano praticamente paletti, mentre ora si stabilisce che i costi dovranno essere documentabili e analitici e non possono includere quelli che non concorrono direttamente all'individuazione del trasgressore o alla notifica (per esempio, le spese di assistenza legale e di recupero del credito).
Per il resto, l'allegato riprende la "direttiva Maroni" del 14.08.2009, ampliandola con le ultime novità già contenute in pareri ministeriali (soprattutto sul tutor) e imponendo l'uso di segnali per rendere visibili le postazioni fisse
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.05.2014).

ENTI LOCALISi amplia lo spettro delle notizie da comunicare. Gli effetti. Più trasparenza.
Fattura verso la pubblica amministrazione con informazioni obbligatorie allargate.
L'articolo 25 del decreto legge n. 66 del 2014 incrementa, infatti, il patrimonio informativo che accompagna la FatturaPA. Tra le informazioni obbligatorie delle fatture elettroniche, comprese quelle che saranno obbligatoriamente trasmesse dal prossimo 06.06.2014, vanno indicati i codici CIG e CUP salve le esclusioni normativamente previste. In capo alle amministrazioni pubbliche sussiste infatti il divieto di procedere al pagamento delle fatture elettroniche ricevute che non riportano tali codici.
Si tratta di un cambiamento introdotto nel tracciato FatturaPA con la finalità di assicurare l'effettiva tracciabilità dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, le fatture elettroniche che saranno emesse dovranno perciò riportare il Codice identificativo di gara - CIG salvo i casi di esclusione dall'obbligo di tracciabilità dei flussi finanziari di cui alla legge 13.08.2010, n. 136. In particolare il CIG non è altro che un codice identificativo, associato ad un appalto o ad un lotto. L'articolo 7 del decreto legge 187 del 12.11.2010, convertito con modificazioni in legge 217 del 2010, per garantire la tracciabilità dei flussi finanziari ha previsto che gli strumenti di pagamento devono riportare, in relazione a ciascuna transazione posta in essere dalla stazione appaltante, il codice identificativo di gara attribuito dall'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (AVCP).
L'esclusione dall'obbligatoria indicazione del codice CIG interessa le fatture emesse in relazione a figure contrattuali non qualificabili come contratti di appalto, quali ad esempio i contratti di lavoro conclusi dalle stazioni appaltanti con i propri dipendenti, i contratti aventi ad oggetto l'acquisto o la locazione di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni nonché i contratti relativi ai servizi di arbitrato e conciliazione.
Le FatturePa devono inoltre riportare il Codice Unico di Progetto (CUP), quando relative a opere pubbliche, interventi di manutenzione straordinaria, interventi finanziati da contributi comunitari e ogni nuovo progetto di investimento pubblico nei casi previsti dall'articolo 11 della legge 16.01.2003, n. 3.
I codici CIG e CUP completano il contenuto informativo della FatturaPA. Tale contenuto, come evidenziato dagli allegati al Dm 55/2013, è costituito innanzitutto da quelle informazioni da riportare obbligatoriamente in fattura in quanto rilevanti ai fini fiscali secondo la normativa vigente. Si tratta delle indicazioni richieste dagli articoli 21 e 21-bis del Dpr 633/1972 che vanno riportate in ogni caso in fattura in quanto rilevanti ai fini fiscali (tra queste vanno annoverate la data della fattura, la natura e la quantità dei servizi e dei beni trattati, nonché il regime Iva da applicare alla singola transazione.
In aggiunta alle informazioni fiscali obbligatorie, il formato xml deve contenere obbligatoriamente anche le informazioni indispensabili ai fini di una corretta trasmissione della fattura al soggetto destinatario attraverso il Sistema di Interscambio (l'Indirizzo della Pubblica amministrazione - IPA).
Inoltre, per favorire l'automazione informatica del processo di fatturazione, a integrazione delle informazioni obbligatorie, il formato prevede anche la possibilità di inserire nella fattura ulteriori dati quali le informazioni utili per la completa dematerializzazione del processo del ciclo passivo attraverso l'integrazione del documento fattura con i sistemi gestionali e/o con i sistemi di pagamento, nonché le informazioni che possono risultare di interesse per esigenze informative concordate tra operatori economici e amministrazioni pubbliche oppure specifiche dell'emittente, con riferimento a particolari tipologie di beni e servizi, o di utilità per il colloquio tra le parti
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2014).

PUBBLICO IMPIEGOPrepensionamenti Pa obbligati. Necessaria una situazione di soprannumero o di eccedenza. Pubblico impiego. L'opzione non può essere scelta dal dipendente ma solo dall'amministrazione.
Il prepensionamento è consentito solo nei casi di dichiarazione di soprannumerarietà o di eccedenza e non può mai essere utilizzato come strumento per scansare i nuovi requisiti della pensione di vecchiaia o anticipata, dettati dalla riforma Monti-Fornero di fine 2011.
È questa la considerazione principale contenuta nella circolare 28.04.2014 n. 4/2014 della Funzione pubblica (si veda anche il Sole 24 Ore di ieri), che estende a tutte le pubbliche amministrazioni, regioni ed enti locali compresi, la possibilità di collocare in pensione chi è in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi validi ante riforma Fornero o che li possono conseguire in tempo utile per perfezionare il requisito entro il 31.12.2016. Non si tratta, quindi, di un diritto soggettivo del lavoratore, bensì di una scelta che opera l'amministrazione nel contesto dei piani di razionalizzazione degli assetti organizzativi e di riduzione della spesa di personale.
Nella circolare, la Funzione pubblica chiarisce una volta per tutte i concetti di "soprannumerarietà" e di "eccedenza" di personale. Il primo caso è quello in cui il personale in servizio supera la dotazione organica in tutte le qualifiche, categorie e aree. Il secondo termine indica, invece, la situazione in cui i lavoratori in servizio superano la dotazione organica solo in alcune qualifiche, categorie o aree in modo da permetterne una eventuale ricollocazione. Con il generale termine di "esubero" si designa, invece, il personale da porre in prepensionamento o in disponibilità.
È arrivata anche la tanto attesa identificazione delle situazioni da cui possono derivare soprannumero o eccedenza di personale: riduzione obbligatoria delle dotazioni organiche per le amministrazioni centrali; ragioni funzionali; ragioni finanziarie che possono portare a squilibrio dei bilanci; piani di ristrutturazione decisi autonomamente dagli enti. Per le autonomie locali viene precisato che le situazioni in esame possono rientrare anche nella volontà di ridurre il rapporto tra spesa di personale e spesa corrente. Ad oggi, per poter assumere, un Comune deve mantenere tale percentuale al di sotto del 50% e quindi il valore viene anche evidenziato come "campanello d'allarme" per la valutazione di criticità negli equilibri finanziari.
Fermo restando l'obbligo di adozione della programmazione triennale del fabbisogno di personale, non si può non ricordare che spetta ai competenti dirigenti l'individuazione dei profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti istituzionali delle strutture cui sono preposti. L'adempimento è, quindi, propedeutico a ogni verifica di soprannumero o eccedenza.
Da questa disamina scattano di conseguenza le procedure dettagliate per giungere correttamente al prepensionamento. Punto di partenza è, appunto, una dichiarazione di soprannumero o eccedenza di personale secondo quanto disposto dall'articolo 33 del Dlgs 165/2001. Qualora l'ente intenda avvalersi delle misure in esame, dovrà effettuare una ricognizione delle posizioni dei lavoratori che potrebbero risultare in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi vigenti prima del decreto legge 201/2011 e, passaggio fondamentale, chiedere all'Inps la certificazione del diritto a pensione e della relativa decorrenza. L'istituto ha trenta giorni di tempo per dare risposta richiedendo l'ulteriore certificazione di eventuali periodi mancanti. La risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro nei limiti del soprannumero potrà pertanto avvenire solo ed esclusivamente dopo aver acquisito la certificazione da parte dell'istituto di previdenza.
La Funzione pubblica ricorda, infine, che i posti soppressi a seguito di dichiarazione di eccedenza di personale non possono essere più ripristinati e che i prepensionamenti non sono mai utili a definire il budget da destinare a nuove assunzioni (la quota per gli enti locali è pari al 40% delle cessazioni dell'anno precedente)
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIMini enti, largo agli assessori. Anche i comuni che non votano possono nominarne due. Il Viminale sulla legge Delrio. Criteri più rigidi per calcolare il costo delle poltrone.
I comuni sotto i mille abitanti, non interessati dalla tornata elettorale del 25 maggio, potranno comunque nominare due assessori secondo quanto previsto dalla legge Delrio (legge 56/2014). «Le esigenze di armonizzazione complessiva del sistema e di salvaguardia del funzionamento dell'ente locale» portano infatti a un'applicazione generalizzata della nuova infornata di poltrone che dovrebbe creare nei piccoli comuni circa 23.000 incarichi in più (tra consiglieri e assessori).
A condizione che siano a costo zero, perché la legge vincola le nuove nomine al principio dell'«invarianza di spesa». Per evitare di spendere anche solo un euro in più in costi della politica rispetto al passato, gli enti dovranno prendere come parametro di riferimento i tagli introdotti dal dl 138/2011 (la manovra di Ferragosto dell'ultimo governo Berlusconi che aveva messo a dieta consigli e giunte) anche se questi in realtà non sono mai stati applicati perché le amministrazioni interessate non sono ancora andate al voto.

A precisarlo è l'attesa nota 24.04.2014 n. 6508 di prot. del ministero dell'interno con i chiarimenti applicativi della legge Delrio.
La nota, sollecitata anche dall'Anci per far luce su alcuni punti controversi della legge 56, risponde ai dubbi sollevati da ItaliaOggi (si veda il numero dell'11/4) soprattutto in merito a come calcolare il requisito dell'invarianza di spesa che costituisce la «condicio sine qua non» dell'aumento delle poltrone. Non era infatti chiaro se il richiamo alla «legislazione vigente» fosse da intendersi riferito al citato dl 138, ovvero alla normativa in vigore nel momento in cui gli organi oggetto di rinnovo sono stati formati.
In molti casi, infatti, i consigli e le giunte uscenti si sono insediati prima del dl 138 e quindi hanno giunte e consigli più affollati rispetto al dl 138. Tanto per fare un esempio, un comune sotto i 3.000 abitanti che andrà a elezioni il prossimo mese di maggio, ha di norma un numero di consiglieri pari a 12, contro i 6 previsti dal dl 138 e i 10 della legge Delrio.
Quale dunque il parametro di riferimento? Nella circolare, datata 24 aprile, il dipartimento affari interni e territoriali del Viminale risponde che «al fine di individuare un criterio di calcolo uniforme per tutti i comuni, si ritiene che l'interpretazione della legge 56 debba tenere conto delle esigenze di rafforzamento delle misure di contenimento e controllo della spesa che costituiscono uno dei principali obiettivi cui è finalizzata la legge, funzionale alla correzione e al risanamento dei conti di finanza pubblica». Per questo anche i comuni che, non essendo ancora andati al voto non hanno potuto ridurre consiglieri e assessori, dovranno «parametrare la rideterminazione degli oneri per assicurare l'invarianza di spesa» ai tagli del dl 138.
La circolare chiarisce, inoltre, che nel calcolo non dovranno essere considerati gli oneri per i permessi retribuiti, nonché gli oneri previdenziali, assistenziali e assicurativi. Si tratta infatti di voci di spesa estremamente variabili in quanto collegate all'attività lavorativa dell'amministratore. Restano invece incluse nel computo degli oneri le indennità e i gettoni, le spese di viaggio e quelle sostenute per la partecipazione alle associazioni rappresentative degli enti locali.
Rappresentanza di genere. La nota ministeriale interviene anche sul tetto del 40% che le giunte dovranno garantire per rispettare la parità di genere. Tale percentuale andrà calcolata includendo nel calcolo degli assessori anche il sindaco, visto che per consolidata giurisprudenza, «quando l'ordinamento non ha inteso annoverare il sindaco nel quorum richiesto lo ha espressamente indicato».
Giunte. Infine, come detto, il chiarimento sulla composizione delle giunte. La legge Delrio ridisegna le soglie demografiche per il conferimento degli incarichi. Tutti i comuni fino a 3.000 abitanti potranno nominare due assessori, mentre la previgente disciplina non ne prevedeva nessuno negli enti fino a 1.000 abitanti.
Le nuove regole si applicheranno, com'è ovvio, ai comuni che andranno al voto a maggio, ma, limitatamente alla composizione delle giunte, anche a quelli non interessati dal rinnovo elettorale che potranno quindi nominare subito due assessori. A seguito della nomina della giunta, il ruolo di vicesindaco, che nei comuni fino a 1.000 abitanti doveva essere attribuito a uno dei consiglieri, sarà conferito a uno dei nuovi assessori (articolo ItaliaOggi del 30.04.2014).

APPALTIPagamento dei debiti p.a. senza certezze.
Il pagamento dei debiti della p.a. rischia di slittare alle calende greche.

Nella versione finale del dl 66/2014, infatti, è saltato l'obbligo per gli enti di indicare nelle certificazioni rilasciate su istanza dei creditori una data di pagamento non superiore a 12 mesi. La modifica non limita la possibilità di utilizzare il credito certificato in compensazione degli eventuali debiti fiscali, ma potrebbe depotenziare l'efficacia dei nuovi strumenti introdotti per agevolare le operazioni di cessione.
Partiamo dall'inizio. I titolari di crediti certi, liquidi ed esigibili per somministrazioni, forniture e appalti, ovvero per obbligazioni relative a prestazioni professionali possono chiedere alla p.a. debitrice di certificarli. L'operazione, che si deve svolgere esclusivamente attraverso l'apposita piattaforma telematica del Mef, in caso di esito positivo, si conclude con il rilascio della certificazione, che di norma indica la data entro cui il credito verrà pagato.
Prima del 24 aprile, per le regioni e per gli enti locali soggetti al patto di stabilità, era prevista la possibilità di certificare i crediti senza indicare la data prevista di pagamento. Tale eccezione (che si spiegava alla luce delle difficoltà di programmazione che le regole del patto determinano) è stata cancellata dall'art. 27 del dl 66. Tale norma impone, da un lato, di indicare la data in tutte le certificazioni rilasciate dopo la suddetta data, dall'altro di integrare le certificazioni già emesse in precedenza senza data.
Il testo del dl licenziato dal governo stabiliva che la data di pagamento indicata nella certificazione dovesse essere non superiore a 12 mesi. Al contrario, quello finito in Gazzetta Ufficiale non prevede più quest'ulteriore vincolo. In pratica, fermo restando l'obbligo di indicare una data, questa potrà essere in calendario, per esempio, anche due o tre anni dopo quella in cui la certificazione è stata rilasciata.
Che conseguenze potrà avere questo ripensamento dell'ultima ora? Per chi intende utilizzare i crediti certificati per ridurre o azzerare le proprie pendenze col fisco, nessun problema. La normativa, in tal caso, si accontenta che la certificazione indichi una data di pagamento, anche se lontana.
Maggiori difficoltà potrebbero insorgere per coloro che intendano cedere i crediti. Per banche e altri intermediari finanziari, infatti, la data di pagamento è un elemento di primaria rilevanza e tanto più essa è lontana, tanto più l'operazione si presenta rischiosa. E i rischi si traducono, inevitabilmente, in oneri per i soggetti cedenti, che incassano una somma inferiore (ossia subiscono un tasso di sconto più elevato).
Siccome, finora, la maggior parte delle certificazioni sono state rilasciate senza data, il rischio è che la prassi si sposti verso le certificazioni a lungo termine, con effetti non molto dissimili nei rapporti col sistema bancario, cui lo stesso dl 66 assegna un ruolo decisivo nella nuova fase di sblocco dei debiti pregressi della p.a. Saranno, infatti, gli istituti di credito i protagonisti dell'operazione di smobilizzo dei debiti di parte corrente prevista dall'art. 37. È vero che tale norma prevede una garanzia statale e un ruolo di ultima istanza della Cassa depositi e prestiti, ma ciò non fa venire meno la remunerazione delle banche.
Un decreto del ministero dell'economia e delle finanze dovrà fissarne il tetto massimo, ma è impensabile che si possa procedere senza l'accordo del mondo bancario. Che ora, col rischio di dover aspettare fino alle calende greche per essere pagato, potrebbe alzare il prezzo (articolo ItaliaOggi del 30.04.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIEnti locali, preventivi al 31 luglio.
Ora è ufficiale: il termine per l'approvazione dei bilanci di previsione 2014 degli enti locali slitta dal 30 aprile al 31 luglio.
Alla base del differimento le incertezze finanziarie che ancora gravano sui comuni (non si conoscono gli importi del Fondo di solidarietà per il 2014) e le elezioni del 25 maggio che vedranno impegnate oltre 4.000 amministrazioni. Il decreto di proroga è stato firmato ieri dal ministro dell'interno Angelino Alfano. Il Viminale ha dunque anticipato i tempi rispetto alla conversione in legge del decreto Salva Roma-ter (dl 16/2014), prevista per oggi, che negli emendamenti approvati alla camera già contiene una norma di slittamento dei termini.
Sempre oggi la Conferenza stato-città si riunirà per approvare la nota metodologica sulla verifica del gettito Imu 2013 relativo ai fabbricati di categoria D. Si tratta del necessario atto prodromico alla rideterminazione del Fondo di solidarietà e al conseguente dm di proroga dei bilanci consuntivi che, com'è noto, slitteranno al 30 giugno (articolo ItaliaOggi del 30.04.2014).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADurc online più costoso. Aggravio di spesa per l'informatizzazione. I rilievi dei tecnici del servizio bilancio del senato sul dl 34/2014.
Il Documento unico di regolarità contributiva online? Altro che vantaggi: produrrà un aggravio dei costi nel breve termine (a causa della necessità di informatizzazione del processo nelle amministrazioni coinvolte), «sebbene, nel lungo periodo, si potranno produrre significativi risparmi».
E non è tutto, perché è impossibile immaginarne i riflessi sulla semplificazione, giacché le norme non entreranno in vigore dopo l'approvazione, bensì grazie a un (successivo) decreto attuativo. La smaterializzazione del Durc, contenuta nel decreto del ministro del welfare Giuliano Poletti (34/2014), fa storcere il naso ai tecnici del servizio bilancio di palazzo Madama che analizzano il provvedimento da ieri al vaglio dell'XI commissione, dopo il via libera dei deputati (si veda ItaliaOggi del 24/04/2014).
«Indeterminabile», pertanto, la valenza dell'iniziativa, visto che un ulteriore step governativo contemplerà la definizione dei requisiti di regolarità, i contenuti, le modalità della verifica e l'indicazione delle ipotesi in cui non sarà sostitutiva del Durc cartaceo. Quanto all'implementazione delle procedure, inoltre, poiché si prevede che «la verifica telematica avvenga tramite un'unica interrogazione presso gli archivi dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili che, anche in cooperazione applicativa, operano in integrazione e riconoscimento reciproco», occorrerebbe fornire «maggiori informazioni anche sul grado attuale di compatibilità tra i sistemi gestiti dai diversi organismi».
Alle perplessità dei tecnici si contrappongono le certezze sul ritorno alle origini del decreto in seconda lettura, senza «sanzioni sproporzionate» per le aziende (i cui effetti «si scaricano sul lavoratore») sui contratti a termine e di apprendistato. A ribadire che saranno cancellate alcune modifiche impresse dal Pd il presidente Maurizio Sacconi del Ncd il cui gruppo, «piegatosi» al voto di fiducia a Montecitorio, ha ottenuto dall'esecutivo la garanzia che sarà trasformato il vincolo di procedere all'assunzione, in caso di modelli a termine che superano il «tetto» del 20%, in una sanzione pecuniaria per l'impresa.
A seguire, gli alfaniani premono per lo stop al ripristino della formazione pubblica obbligatoria per gli apprendisti, laddove qualora le regioni non provvedano a far sapere all'azienda «entro 45 giorni dalla comunicazione di instaurazione del rapporto, le modalità per usufruire» del percorso di apprendimento, si legge, infatti, nel testo licenziato, l'azienda non avrà il vincolo di «integrare la formazione di tipo professionale e di mestiere con quella finalizzata all'acquisizione di competenze di base trasversali».
E, mentre il relatore Pietro Ichino (Sc) punta a far passare una sua idea, ossia l'introduzione di un modello a tempo indeterminato «con possibilità di scioglimento condizionato a un costo di separazione proporzionato all'anzianità di servizio», la tabella di marcia è particolarmente serrata: il voto sulle proposte di modifica dovrà chiudersi entro lunedì 5 maggio, per consentirne lo sbarco in Aula il giorno dopo (articolo ItaliaOggi del 30.04.201t).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Tar: nelle gare stop alla sospensiva facile.
Limitare lo strapotere di Tar e Consiglio di Stato. Lo va dicendo da sempre, già da quando era sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Perché -è il ragionamento del premier- chiunque può presentare ricorso, ottenere una sospensiva, e bloccare l'attività di un'azienda o di un'impresa anche per lunghi periodi.

Che il sistema non sia tra i più fluidi non è una novità, seppure le ultime riforme della giustizia amministrativa siano abbastanza recenti (una varata nel 2000, l'ultima nel 2010). Ma le materie trattate sono tra le più delicate per l'economia.
Basti pensare che il 21% dei ricorsi presentati nel 2013 davanti ai Tribunali amministrativi regionali riguardano l'edilizia e l'urbanistica.
Ecco il motivo per cui Renzi ha annunciato che, oltre alla riforma della Pubblica amministrazione, presto «cambierà il meccanismo della sospensiva» davanti ai Tar: «Io non discuto del fatto che dobbiamo avere una grandissima attenzione alla legalità nelle gare. Ma la premessa per garantirla è la semplicità delle norme. Noi abbiamo messo una norma di riduzione dello spazio della sospensiva». Ad oggi, il sistema della sospensiva consente di bloccare, ad esempio, l'aggiudicazione di una gara d'appalto in attesa che il Tar si pronunci sul merito della questione.
Nel corso dell' inaugurazione dell'anno giudiziario 2014, il presidente del Consiglio di Stato Giorgio Giovannini aveva respinto l'accusa che le tutele offerte dalla giustizia amministrativa possano frenare lo sviluppo o pesare sul Pil. Queste critiche -a detta del presidente della giustizia amministrativa- si sono fatte più aspre in una fase di crisi, generando «insofferenza verso le verifiche».
Invece -aveva detto Giovannini lo scorso gennaio, quando ancora il governo Renzi era lontano da venire ma il futuro premier Renzi era già stato eletto nuovo segretario del Pd- è proprio «la cattiva gestione della cosa pubblica» a imporre di «non abbassare la guardia». Quanto alla limitazione o alla eliminazione della sospensiva, dal presidente del Consiglio di Stato era arrivato un altolà perché la sospensiva «impedisce che la durata del processo danneggi il ricorrente che ha ragione». C'è da credere che la riforma targata Renzi farà storcere il naso a molti, a Palazzo Spada (articolo Il Messaggero del 30.04.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un primo orientamento, l’annullamento d’ufficio di un permesso edilizio non necessiterebbe di una espressa motivazione sul pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo nell’interesse della collettività nel rispetto dell’ordinato assetto del territorio dato dalla disciplina urbanistica, mentre, in base ad un altro orientamento giurisprudenziale, l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire richiederebbe un’espressa motivazione in ordine all’interesse pubblico concreto che giustifica il ricorso al potere di autotutela, non essendo, anche nella materia edilizia, sufficiente l’intento di operare un astratto ripristino della legalità violata.
A giudizio del Collegio l’opzione ermeneuticamente più corretta del disposto dell’art. 21-nonies della L. 241 del 1990 è quella per cui anche l’annullamento d’ufficio di un permesso edilizio debba necessariamente risultare fondato su un interesse pubblico attuale e concreto al ripristino dello status quo ante.
Il potere di autotutela è, infatti, per sua natura “discrezionale” e, quindi, frutto di una scelta di opportunità che deve essere congruamente giustificata. Soltanto in casi eccezionali il legislatore deroga a tale consolidato principio prevedendo, in considerazione della preminenza che egli vuole assicurare a determinati interessi, che l’esercizio del potere di ritiro debba assumere natura “doverosa”. Ciò, ad esempio, accade per i provvedimenti amministrativi che determinino un illegittimo esborso di denaro pubblico (1, comma 136, della L. n. 311 del 2004) o per le attività poste in essere sulla base di una s.c.i.a. non conforme a legge che arrechino pregiudizio al patrimonio artistico e culturale, all’ambiente, alla salute, alla sicurezza pubblica o la difesa nazionale (art. 19 comma 4 della L. 241/1990).
Al di fuori delle fattispecie normativamente tipizzate non è consentito configurare in via giurisprudenziale nuove ipotesi di autotutela doverosa poiché ciò significherebbe sovrapporsi alla scelta di valore compiuta dal legislatore che ha, invece, preferito rimettere alla p.a., in base ad una valutazione da operarsi caso per caso nell’ambito di un procedimento di riesame, la scelta se rimuovere o meno un proprio provvedimento illegittimo.
Ciò, peraltro, non significa disconoscere la peculiarità degli interessi afferenti la tutela del territorio che, per effetto di atti autorizzativi non conformi alla pianificazione urbanistica o a vincoli di ordine extraurbanistico, possono subire un pregiudizio permanente ed irreversibile.
In particolari fattispecie la necessità di agire in via di autotutela per proteggere tali interessi può, in effetti, apparire talmente evidente da non richiedere alcuna specifica motivazione come, ad esempio, accade qualora interventi edilizi di notevole consistenza siano stati assentiti in totale spregio alle prescrizioni urbanistiche sostanziali che pongono vincoli di inedificabilità assoluta o che prevedono limitazioni volumetriche.
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Se è vero, infatti, che i provvedimenti tipici e nominati specificamente previsti dalla normazione sulla tutela dei beni ambientali sono riservati all'autorità attributaria del relativo interesse primario, è vero altresì che ai fini dell'annullamento d'ufficio di una licenza edilizia le ragioni di interesse pubblico che giustificano il provvedimento non sono limitate a quelle di natura urbanistica, ma si estendono anche a tutti gli interessi pubblici secondari ed ulteriori.

Nella disamina delle diverse censure proposte dalla Società ricorrente il Collegio ritiene che abbia priorità logica quella di difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico concreto proposta avverso il provvedimento di annullamento in via di autotutela del permesso di costruire.
Sul punto occorre dare atto che la giurisprudenza di primo e secondo grado appare divisa.
Secondo un primo orientamento, l’annullamento d’ufficio di un permesso edilizio non necessiterebbe di una espressa motivazione sul pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo nell’interesse della collettività nel rispetto dell’ordinato assetto del territorio dato dalla disciplina urbanistica (Cons. Stato, IV, 4300/2012; Cons. Stato, V, 3037/2013; TAR Sardegna 651/2013), mentre, in base ad un altro orientamento giurisprudenziale, l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire richiederebbe un’espressa motivazione in ordine all’interesse pubblico concreto che giustifica il ricorso al potere di autotutela, non essendo, anche nella materia edilizia, sufficiente l’intento di operare un astratto ripristino della legalità violata (Cons. Stato, IV, 19/03/2013 n. 1605; Cons. Stato, IV, 4770/2011 che riforma sul punto TAR Toscana, III, 6648/2010; Cons. Stato, V, n. 6252/2007, TAR Marche, Ancona, I, 593/2013).
A giudizio del Collegio l’opzione ermeneuticamente più corretta del disposto dell’art. 21-nonies della L. 241 del 1990 è quella per cui anche l’annullamento d’ufficio di un permesso edilizio debba necessariamente risultare fondato su un interesse pubblico attuale e concreto al ripristino dello status quo ante.
Il potere di autotutela è, infatti, per sua natura “discrezionale” e, quindi, frutto di una scelta di opportunità che deve essere congruamente giustificata. Soltanto in casi eccezionali il legislatore deroga a tale consolidato principio prevedendo, in considerazione della preminenza che egli vuole assicurare a determinati interessi, che l’esercizio del potere di ritiro debba assumere natura “doverosa”. Ciò, ad esempio, accade per i provvedimenti amministrativi che determinino un illegittimo esborso di denaro pubblico (1, comma 136, della L. n. 311 del 2004) o per le attività poste in essere sulla base di una s.c.i.a. non conforme a legge che arrechino pregiudizio al patrimonio artistico e culturale, all’ambiente, alla salute, alla sicurezza pubblica o la difesa nazionale (art. 19 comma 4 della L. 241/1990).
Al di fuori delle fattispecie normativamente tipizzate non è consentito configurare in via giurisprudenziale nuove ipotesi di autotutela doverosa poiché ciò significherebbe sovrapporsi alla scelta di valore compiuta dal legislatore che ha, invece, preferito rimettere alla p.a., in base ad una valutazione da operarsi caso per caso nell’ambito di un procedimento di riesame, la scelta se rimuovere o meno un proprio provvedimento illegittimo.
Ciò, peraltro, non significa disconoscere la peculiarità degli interessi afferenti la tutela del territorio che, per effetto di atti autorizzativi non conformi alla pianificazione urbanistica o a vincoli di ordine extraurbanistico, possono subire un pregiudizio permanente ed irreversibile.
In particolari fattispecie la necessità di agire in via di autotutela per proteggere tali interessi può, in effetti, apparire talmente evidente da non richiedere alcuna specifica motivazione come, ad esempio, accade qualora interventi edilizi di notevole consistenza siano stati assentiti in totale spregio alle prescrizioni urbanistiche sostanziali che pongono vincoli di inedificabilità assoluta o che prevedono limitazioni volumetriche.
Nel caso di specie, tuttavia, non è dato riscontrare un palese e grave contrasto fra l’intervento autorizzato con il permesso di costruire annullato dal Comune di Aulla e la disciplina urbanistica sostanziale dettata dal p.r.g., pacifica essendo la circostanza che il progetto (originario) rispetta limiti volumetrici e tipologici previsti dalle n.t.a della zona (R.U. 3 che consente la ristrutturazione urbanistica con destinazioni non residenziali con un incremento massimo di mc. 2000).
La difformità dell’atto di assenso rispetto alle prescrizioni del piano regolatore generale riguarda, invece, il vincolo di rinvio che sottopone gli interventi edificatori alla previa approvazione di un piano attuativo (particolareggiato o di recupero).
Il pregiudizio risentito dagli interessi protetti dallo strumento urbanistico in conseguenza di siffatta violazione non appare, tuttavia, così evidente da non richiedere alcuna motivazione sul punto; sarebbe stato, invece, necessario un attento esame dell’impatto del progetto di ampliamento dell’edificio sull’impianto urbanistico preesistente onde verificare se le modifiche edilizie illegittimamente assentite richiedessero effettivamente una complessiva operazione di ristrutturazione urbanistica mediante il ridisegno dei lotti, degli isolati e della relativa rete stradale e se tale necessità fosse così stringente da giustificare il sacrificio dell’affidamento del privato che, in forza del permesso rilasciato, aveva effettuato investimenti e realizzato i lavori.
Anche la mancanza dei pareri della Autorità di Bacino e della Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico non può considerarsi tale da superare l’esigenza di giustificare con apposita motivazione il provvedimento di autotutela.
Non è qui in discussione la preminenza degli interessi paesaggistici e di tutela idraulica, ma, anche in questa volta, i vincoli che nel caso di specie gravavano sull’area di proprietà della ricorrente non avevano carattere assoluto ma imponevano una concreta verifica di compatibilità dell’intervento edilizio con i valori protetti.
Di tale verifica l’Amministrazione avrebbe dovuto farsi carico in sede di esercizio del potere di autotutela, eventualmente con l’apporto istruttorio delle amministrazioni competenti. Se è vero, infatti, che i provvedimenti tipici e nominati specificamente previsti dalla normazione sulla tutela dei beni ambientali sono riservati all'autorità attributaria del relativo interesse primario, è vero altresì che ai fini dell'annullamento d'ufficio di una licenza edilizia le ragioni di interesse pubblico che giustificano il provvedimento non sono limitate a quelle di natura urbanistica, ma si estendono anche a tutti gli interessi pubblici secondari ed ulteriori (Cons. Stato sez. V, 11.05.1989 n. 272; Cons. Stato sez. V 07.10.1985 n. 308).
L’assenza di ogni valutazione in ordine al concreto pregiudizio derivante dalla mancata approvazione di un piano attuativo e la carenza di istruttoria in ordine all’effettivo contrasto dell’opera assentita con i valori tutelati dal vincoli idrogeologico e da quello paesaggistico rendono, perciò, illegittimo l’impugnato provvedimento di annullamento d’ufficio del permesso di costruire a prescindere dalla fondatezza dei rilievi in ordine alla legittimità o meno di tale atto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.05.2014 n. 688 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’utilizzazione di un container (semplicemente posato su terreno) non temporanea bensì stabile nel tempo, ancorché periodica, comporta l'utilità prolungata nel tempo e, conseguentemente, va esclusa la precarietà dello stesso.
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Quanto al materiale di cava arido presente (abusivamente) sul terreno, non rileva l’asserita circostanza che responsabile della presenza di esso non sarebbe l’odierna ricorrente; attesa infatti la natura ripristinatoria dell’ordine di rimozione/demolizione di quanto abusivamente realizzato, legittimamente l’amministrazione lo rivolge al proprietario attuale dell’immobile (quale è la ricorrente, nella fattispecie in esame) e comunque a chi utilizzi il medesimo, indipendentemente dal suo coinvolgimento nella realizzazione dell’abuso.

Considerato che:
− alla ricorrente, imprenditrice agricola, è stata ordinata la rimozione di due container e di un accumulo di materiale di cava arido situati su un terreno di sua proprietà ad uso seminativo arborato sito nel Comune di Cascina (PI), registrato nel Catasto Terreni al Foglio 35, particella 181;
− che in ricorso si sostiene la precarietà dei manufatti e la non riferibilità del materiale di cava a comportamenti della ricorrente;
− che il terreno in questione si trova in area classificata tra le “Aree rilevanti da un punto di vista ambientale o con funzioni strategiche – Parco del Fosso vecchio”, le quali sono disciplinate dall’art. 34 delle Norme tecniche di attuazione del Regolamento urbanistico; il fondo non risulta inserito tra gli immobili soggetti ai vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004;
− che i manufatti sono stati qualificati come opere realizzate in assenza di titolo ai sensi della l.r. Toscana n. 1/2005 e del D.P.R. n. 380/2001;
− che avverso l’ordinanza dirigenziale impugnata, di estremi specificati in epigrafe, sono state dedotte le censure di eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto d’istruttoria e disparità di trattamento, nonché di violazione delle norme di legge che l’amministrazione ha ritenuto applicabili e di difetto di motivazione;
− che il Comune di Cascina non si è costituito in giudizio;
− che alla camera di consiglio del 25.03.2014 la causa −sentite le parti, ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., sulla possibile definizione del giudizio con sentenza resa in forma semplificata− è stata trattenuta in decisione;
Ritenuto che:
− il giudizio può essere definito con sentenza ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., atteso che sussistono tutti i presupposti di legge;
− le tesi sostenute in ricorso non possono essere condivise, in quanto: a) il provvedimento è sufficientemente e adeguatamente motivato, anche con richiamo delle norme che disciplinano la fattispecie; b) è pertinente l’applicazione dell’art. 3/1, lett. e.5), T.U. Edilizia, che precisa la nozione di nuova costruzione, imperniata sulla natura non temporanea delle esigenze in vista delle quali alcuni manufatti, sotto il profilo strutturale precari –ovvero amovibili– sono stati collocati sul territorio; c) la stessa esposizione della ricorrente rivela che l’utilizzazione dei container (adibiti al trasporto dei prodotti agricoli) non è temporanea, bensì stabile nel tempo, ancorché periodica; d) che la giurisprudenza ha elaborato, in proposito, il principio secondo il quale l’utilità prolungata esclude la precarietà (cfr.: Consiglio di Stato, V, 28.03.2008 n. 1354; TAR Veneto, 03.04.2003 n. 2267; Tar Puglia – Bari, III, n. 404/2009; Tar Umbria, I, n. 66/2014);
− che, quanto al materiale di cava arido presente sul terreno, non rileva l’asserita circostanza che responsabile della presenza di esso non sarebbe l’odierna ricorrente; attesa infatti la natura ripristinatoria dell’ordine di rimozione/demolizione di quanto abusivamente realizzato, legittimamente l’amministrazione lo rivolge al proprietario attuale dell’immobile (quale è la ricorrente, nella fattispecie in esame) e comunque a chi utilizzi il medesimo, indipendentemente dal suo coinvolgimento nella realizzazione dell’abuso (cfr.: Tar Umbria, I, n. 66/2014, cit., ed ivi ulteriore ampio ragguaglio di giurisprudenza);
− che il ricorso deve, per tutte le considerazioni su esposte, essere respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.05.2014 n. 681 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittima una motivazione anche succinta in quanto l’onere motivazionale può essere assolto mediante l’individuazione, nell’opera abusiva, di caratteristiche che ne impediscono il corretto inserimento nella zona oggetto di specifica tutela.
La necessità di una motivazione più penetrante ricorre, invece, nel caso di parere favorevole, dovendosi dare compiutamente conto delle ragioni per cui un concreto e specifico intervento edilizio non determini un impatto ambientale negativo nonostante la precostituita imposizione di un vincolo sull’area ove l’intervento è allocato, essendo i valori dell’ambiente, valori di rilevanza costituzionale primaria, tali cioè da prevalere, ove in concreto sussistenti, anche sullo jus aedificandi.
Né il legislatore impone all’Ente pubblico l’obbligo di indicare le prescrizioni tese a rendere l’intervento compatibile con il paesaggio tutelato. Non sussiste cioè a carico del Comune l’obbligo di proporre misure idonee ad assicurare un corretto inserimento dell’abuso edilizio nel contesto paesaggistico di riferimento, dovendo l’autorità adita limitarsi a valutare l’opera così come è, ed essendo semmai compito del privato interessato proporre con l’istanza di condono misure funzionali a ridimensionare l’impatto visivo dell’opera stessa.
Inoltre, la valutazione negativa del predetto organo collegiale, riferita ad un contesto tutelato dal punto di vista paesaggistico, costituisce atto vincolante ai fini del diniego di condono edilizio.
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Quanto, poi, alla maggiore o minore visibilità dell'opera abusiva, la stessa non può rilevare ai fini del giudizio di compatibilità con i valori paesaggistici tutelati, in quanto la compatibilità delle opere con le esigenze di tutela ambientale non è un giudizio legato alla maggiore o minore visibilità delle opere stesse, ma al rispetto di determinati criteri e modalità di costruzione, che costituiscono i presupposti per il corretto adeguamento del vincolo paesaggistico.
Ed infatti, nella fattispecie in esame, il diniego di sanatoria risultava motivato proprio con riferimento alla contrarietà della costruzione abusiva con i valori estetici tradizionali del luogo a causa dell'impiego di materiali non armonici rispetto all'ambiente circostante nonché del ricorso a caratteristiche costruttive non usuali per una zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
In altri termini, ove l'Amministrazione verifichi l'inconciliabilità di un'opera abusiva rispetto ai valori paesaggistici tutelati, l'eventuale mancanza di visibilità della costruzione non potrà essere idonea a giustificare un esito positivo del giudizio di compatibilità.
Senza peraltro considerare che qualora si accedesse alla tesi ricorsuale si finirebbe per introdurre nel sistema una sorta di esimente -non prevista dalla legge- mediante la automatica sanabilità degli abusi edilizi pure se consistenti in opere che, per i materiali utilizzati e le caratteristiche costruttive e tipologiche, siano assolutamente inconciliabili con l'ambiente circostante, per il solo fatto della loro mancanza di visibilità.
Con la conseguenza di una facile -ed inammissibile– elusione della normativa ambientale: si consentirebbe, infatti, in modo surrettizio la realizzazione di manufatti anche se palesemente contrastanti con i valori estetici del luogo.

Del resto, la giurisprudenza amministrativa ha più volte statuito che è legittima una motivazione anche succinta, in quanto l’onere motivazionale può essere assolto mediante l’individuazione, nell’opera abusiva, di caratteristiche che ne impediscono il corretto inserimento nella zona oggetto di specifica tutela (Tar Toscana, III, 27/11/2006, n. 6052; Tar Campania, Napoli, VI, 04/08/2008, n. 9718).
La necessità di una motivazione più penetrante ricorre, invece, nel caso di parere favorevole, dovendosi dare compiutamente conto delle ragioni per cui un concreto e specifico intervento edilizio non determini un impatto ambientale negativo nonostante la precostituita imposizione di un vincolo sull’area ove l’intervento è allocato, essendo i valori dell’ambiente, valori di rilevanza costituzionale primaria, tali cioè da prevalere, ove in concreto sussistenti, anche sullo jus aedificandi (cfr., TAR Toscana, III, 12.11.1998, n. 377).
Né il legislatore impone all’Ente pubblico l’obbligo di indicare le prescrizioni tese a rendere l’intervento compatibile con il paesaggio tutelato (Tar Toscana, III, 27/11/2006, n. 6052; Tar Campania, Napoli, IV, 13/6/2007, n. 6142). Non sussiste cioè a carico del Comune l’obbligo di proporre misure idonee ad assicurare un corretto inserimento dell’abuso edilizio nel contesto paesaggistico di riferimento, dovendo l’autorità adita limitarsi a valutare l’opera così come è, ed essendo semmai compito del privato interessato proporre con l’istanza di condono misure funzionali a ridimensionare l’impatto visivo dell’opera stessa.
Inoltre, la valutazione negativa del predetto organo collegiale, riferita ad un contesto tutelato dal punto di vista paesaggistico, costituisce atto vincolante ai fini del diniego di condono edilizio (cfr., TAR Toscana, III, 02.10.2000 n. 2011; 06.03.2006 n. 793; 26.02.2010 n. 547; 14.05.2010 n. 1458).
Difficilmente, del resto, il Sindaco potrebbe discostarsi dal giudizio della Commissione Edilizia Integrata, rilevando non l’esercizio di una discrezionalità amministrativa, ma valutazioni tecniche che trovano nelle attribuzioni della Commissione stessa la sede appropriata.
Quanto, poi, alla maggiore o minore visibilità dell'opera abusiva, la stessa non può rilevare ai fini del giudizio di compatibilità con i valori paesaggistici tutelati, in quanto la compatibilità delle opere con le esigenze di tutela ambientale non è un giudizio legato alla maggiore o minore visibilità delle opere stesse, ma al rispetto di determinati criteri e modalità di costruzione, che costituiscono i presupposti per il corretto adeguamento del vincolo paesaggistico (cfr., TAR Valle d'Aosta, sent. n. 103 del 23.05.2003; nello stesso senso TAR Umbria, sent. n. 218 del 24.03.1998).
Ed infatti, nella fattispecie in esame, il diniego di sanatoria risultava motivato proprio con riferimento alla contrarietà della costruzione abusiva con i valori estetici tradizionali del luogo a causa dell'impiego di materiali non armonici rispetto all'ambiente circostante nonché del ricorso a caratteristiche costruttive non usuali per una zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
In altri termini, ove l'Amministrazione verifichi l'inconciliabilità di un'opera abusiva rispetto ai valori paesaggistici tutelati, l'eventuale mancanza di visibilità della costruzione non potrà essere idonea a giustificare un esito positivo del giudizio di compatibilità.
Senza peraltro considerare che qualora si accedesse alla tesi ricorsuale si finirebbe per introdurre nel sistema una sorta di esimente -non prevista dalla legge- mediante la automatica sanabilità degli abusi edilizi pure se consistenti in opere che, per i materiali utilizzati e le caratteristiche costruttive e tipologiche, siano assolutamente inconciliabili con l'ambiente circostante, per il solo fatto della loro mancanza di visibilità.
Con la conseguenza di una facile -ed inammissibile– elusione della normativa ambientale: si consentirebbe, infatti, in modo surrettizio la realizzazione di manufatti anche se palesemente contrastanti con i valori estetici del luogo (cfr., TAR Toscana, sez. III, 06.11.2001 n. 1738) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.05.2014 n. 674 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A seguito della presentazione di domanda di condono o sanatoria, il provvedimento repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituito o da un provvedimento favorevole alla domanda o, in caso di diniego, da un nuovo provvedimento sanzionatorio, essendo l’Amministrazione tenuta al completo riesame della fattispecie assumendo, ove del caso, nuovi e definitivi provvedimenti sanzionatori, sui quali si sposterà l’interesse alla caducazione giurisdizionale.
Anche tale eccezione non ha pregio, in quanto, secondo l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente –dal quale il Collegio non intende discostarsi– a seguito della presentazione di domanda di condono o sanatoria, il provvedimento repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituito o da un provvedimento favorevole alla domanda o, in caso di diniego, da un nuovo provvedimento sanzionatorio, essendo l’Amministrazione tenuta al completo riesame della fattispecie assumendo, ove del caso, nuovi e definitivi provvedimenti sanzionatori, sui quali si sposterà l’interesse alla caducazione giurisdizionale (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 19.02.1997, n. 165; n. 3659/2007) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.05.2014 n. 672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione.
In base a tale criterio, dunque, non è necessario il permesso per costruire per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o comunque la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Occorre, invece, il permesso, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica, incidendo esso in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio.
Per la posa in opera di una semplice recinzione con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, non è necessaria alcuna richiesta di provvedimento concessorio, trattandosi di installazione precaria e rientrando tale opera tra le attività di mera manutenzione.

Sulla scorta delle risultanze della suindicata istruttoria si può, quindi, affermare:
- che in relazione alla strada in questione sussiste una presunzione iuris tantum di uso pubblico della stessa discendente dalla sua iscrizione nell’elenco delle strade pubbliche, presunzione che non risulta superata da quanto emerso a seguito della verificazione, e dalla inclusione di tale strada, a tutto il 1948, tra le “strade non rotabili” nelle planimetrie dell’Istituto Geografico Militare;
- che effettivamente la recinzione insiste su un tratto di strada comunale, quale risulta dalle mappe catastali, e che allo stato attuale la strada risulta deviata dal suo tracciato originario e occupa un’area di proprietà della ricorrente (mappale 1 foglio 9).
Né tali conclusioni possono essere inficiate sostenendo, sulla base della nota esplicativa redatta dal consulente tecnico di parte, che “la strada, già all’epoca della realizzazione della recinzione, non coincideva più con il tracciato catastale a seguito di uno slittamento verso sud verificatosi “in modo del tutto naturale””, spostamento, “oggi visibile in loco”, che avrebbe comportato un’invasione della proprietà della ricorrente esterna all’area del campeggio recintata; che, pertanto, non potrebbe essere contestata sulla scorta delle risultanze catastali una difformità tra lo stato realizzato e quello concessionato, dal momento che le risultanze catastali già all’epoca non avrebbero rispecchiato l’esatto stato dei luoghi.
Infatti, tali affermazioni, oltre a non essere adeguatamente supportate sul piano probatorio, non sarebbero comunque in grado di superare il contrasto esistente tra quanto realizzato e quanto concessionato, sulla base di quanto risulta, con un adeguato grado di attendibilità, per espressa ammissione della stessa ricorrente, dalla planimetria allegata alla concessione edilizia n. 30 del 28.05.1980; è, infatti, la stessa ricorrente (pg. 8 del ricorso) ad asserire che, nella suindicata planimetria, “Nella parte meridionale (quella che qui interessa) la recinzione è affiancata da una doppia riga tratta dalla mappa catastale e volta, probabilmente, a rappresentare la strada vicinale” -che, aggiunge, “non è più esistente”- riconoscendo in tal modo che, secondo la rappresentazione catastale della strada, questa correva esternamente alla recinzione così come concessionata.
Quand’anche, infatti, il tracciato stradale risultante dalle mappe catastali non fosse stato all’epoca fedelmente riproduttivo dello stato dei luoghi, come sostenuto dalla ricorrente, tale circostanza non avrebbe comunque legittimato la ricorrente a modificare unilateralmente le prescrizioni della concessione.
Né si può fondatamente sostenere che per la realizzazione della recinzione di cui si discute, tenuto conto delle caratteristiche costruttive della stessa, quali emergono dal provvedimento impugnato e dal verbale di accertamento n. 03/96 del 21.12.2012, nello stesso richiamato, non fosse necessaria la concessione edilizia.
Infatti, si è in presenza di un intervento di trasformazione del territorio (ex art. 1 della legge 10/1977, che subordinava a concessione ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale), realizzato con installazione di un muro in calcestruzzo con pali e rete metallica.
Sul punto la giurisprudenza è concorde; si veda, fra le tante, TAR Lazio Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644, secondo cui “la valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione; in base a tale criterio, dunque, non è necessario il permesso per costruire per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o comunque la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà; occorre, invece, il permesso, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica, incidendo esso in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio. Per la posa in opera di una semplice recinzione con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, non è necessaria alcuna richiesta di provvedimento concessorio, trattandosi di installazione precaria e rientrando tale opera tra le attività di mera manutenzione” (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.05.2014 n. 668 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARICorte di cassazione. Non fa più paura pagare le multe in modo incompleto.
Chi paga tempestivamente la multa dei vigili trascurando solo le spese postali non potrà più ricevere cartelle esattoriali esorbitanti con sanzioni raddoppiate perché il comune in questo caso ha diritto solo al recupero delle somme non versate. Senza raddoppio del verbale come avviene generalmente.

Lo ha deciso con una innovativa sentenza la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 30.04.2014 n. 9507.
Un cittadino ha pagato tempestivamente un verbale omettendo di integrare il versamento con 3,25 euro per spese postali di comunicazione di avvenuto deposito della raccomandata. Per questo ammanco contabile l'interessato ha ricevuto una cartella esattoriale molto salata contro la quale ha proposto con successo ricorso al giudice di pace.
Gli ermellini sradicando una consolidata tradizione hanno confermato questa interpretazione evidenziando che è artificioso «condizionare la maggior pretesa al mancato versamento integrale di una somma che va oltre al pagamento in misura ridotta e che ingloba le spese nella sanzione». In buona sostanza a parere del collegio il legislatore ha posto una netta differenziazione tra importo della sanzione e spese del procedimento.
Come specifica l'art. 203 cds, qualora nei termini non sia avvenuto il pagamento in misura ridotta la multa di fatto raddoppia. Ma non centrano affatto le spese del procedimento. L'art. 389/1 del regolamento stradale conferma questa interpretazione, prosegue la sentenza. Estendere l'area della sanzione alle spese del procedimento a parere dei giudici del Palazzaccio non risulta coerente con il principio di legalità richiamato dall'art. 1 della legge 689/1981.
Inoltre questa interpretazione grossolana, anche se generalizzata nella pratica operativa, penalizza allo stesso modo chi non paga la multa e chi invece per errore effettua un pagamento leggermente inferiore. Lo stesso articolo 201/4 del codice stradale, prosegue la sentenza, milita a favore della distinzione tra pagamento della sanzione e pagamento delle spese del procedimento (articolo ItaliaOggi del 03.05.2014).

APPALTI: Le stazioni appalti non possono respingere un'offerta per il motivo che i prodotti ed i servizi offerti non sono conformi alle specifiche di riferimento se nell'offerta stessa è data prova che le soluzioni proposte corrispondano in maniera equivalente.
Ai sensi dell'art. 68, c. 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, non è consentito alle stazioni appaltanti respingere un'offerta per il motivo che i prodotti ed i servizi offerti non sono conformi alle specifiche di riferimento, se nell'offerta stessa è data prova, con qualsiasi mezzo appropriato, che le soluzioni proposte corrispondano in maniera equivalente ai requisiti richiesti dalle specifiche tecniche, ciò significa che, in caso di prodotto non conforme e di mancanza della citata prova in sede di offerta (il che non è contestato nel caso di specie), ne deriva l'automaticità dell'esclusione, senza che possa ravvisarsi in capo alla stazione appaltante un onere di attività di indagine circa l'eventuale equivalenza (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.04.2014 n. 2273 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'azione di dissociazione in tema di partecipazione delle imprese alle gare d'appalto.
La dissociazione, non trattandosi di istituto giuridico codificato, può aver luogo in svariate forme, ma è certo che deve risultare esistente, univoca e completa. L'azione di dissociazione intrapresa, nel caso di specie, dalla società non è sufficiente a realizzare un'effettiva dissociazione dalla condotta dell'ex amministratore.
E' evidente che, se non si richiedesse un'effettività della dissociazione, la norma che vieta la partecipazione delle imprese alle gare d'appalto i cui amministratori siano incorsi in reati incidenti sulla moralità professionale si presterebbe a facili elusioni e le attività di dissociazione rivestirebbero la qualità di mere 'operazioni di facciata', consentendo invece il perpetrarsi di illeciti e il rischio che si assuma quale contraente con la P.A. un soggetto che dovrebbe essere qualificabile come inaffidabile, proprio il rischio che, ai sensi dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006 il legislatore intende scongiurare (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.04.2014 n. 2271 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa ricostruzione va provata. Tar Toscana. Solo i documenti dimostrano com'era l'edificio.
Si può demolire e ricostruire un edificio esistente, ma occorrono elementi documentali su dimensioni e caratteristiche originarie.
Lo sottolinea il
TAR Toscana, Sez. III, nella sentenza 23.04.2014 n. 654, su un magazzino privo di copertura e con mura perimetrali in buona parte crollate.
La decisione si collega alle innovazioni all'articolo 3 del Dpr 380/2001 (Tu edilizia, modificato col Dl 69/2013), che ammette il ripristino di edifici (o di parti di essi) crollati o demoliti, con la ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Due le tesi: la prima è che essa possa essere dimostrata solo in modo documentale (catasto, foto, perizie del tempo), la seconda si accontenta della leggibilità della costruzione (come nel caso di un'area libera per avvenuta demolizione, ma inserita con continuità in una schiera di fabbricati). Le scelte hanno effetti sulle detrazioni del 50% e del 65% (contenimento dei consumi energetici), oltre che sull'Iva.
Il Dl 69 ha semplificato, eliminando l'obbligo di una ristrutturazione "fedele": per intervenire, basta rispettare la sagoma preesistente, il che significa che potrebbero variare la disposizione interna, le destinazioni e anche il numero dei piani.
Nel caso esaminato dai giudici fiorentini, il Comune non aveva traccia di un intero secondo piano, dell'altezza originaria e della presenza di alcuni ampliamenti laterali. Vi era quindi una parte bassa ristrutturata, ma anche e soprattutto un organismo edilizio diverso. E il Tar ha dunque aderito alla tesi più restrittiva.
Tutto ciò si è riverberato sul trattamento sanzionatorio, che per le ristrutturazioni non demolibili genera sanzioni pecuniarie, mentre per le nuove costruzioni ha sanzioni più gravi, fino alla demolizione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.05.2014).

ENTI LOCALI: Sulla legittimità dello scioglimento anticipato di una società in house.
E' legittimo lo scioglimento anticipato di una società in house posseduta al 100% dal Comune e nata per svolgere un'ampia gamma di servizi (gestione della biblioteca, l'assistenza al servizio mensa scolastica, l'assistenza scuolabus, il trasporto pasti scolastici dalla materna alle scuole elementi e medie, la consegna a domicilio dei pasti per persone sole e bisognose, l'operatore ecologico, la manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili comunali, la gestione dell'isola ecologica e il trasporto degli alunni) motivato con esplicito richiamo all'art. 4, commi da 1 a 3 del d.l. 06.07.2012, n. 95, in quanto si tratta di una società strumentale soggetta ad obbligo di dismissione.
Nel caso di specie, l'unico servizio effettivamente qualificabile come servizio pubblico potrebbe essere quello della consegna dei pasti alle persone sole e bisognose. Tale particolare prestazione non appare, però, affatto sufficiente a qualificare l'attività della società come prestazione di servizi pubblici e non anche di servizi strumentali, i quali ultimi risultano nettamente prevalenti.
Deve, pertanto, ritenersi che trattandosi di una società strumentale, in perdita, sussistesse un obbligo di legge, per il Comune di provvedere alla messa in liquidazione della suddetta società in house.
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A prescindere dal fatto che scelta di procedere alla liquidazione di una società pubblica è sempre e comunque rimessa alla volontà dell'ente che l'ha costituita, che al pari di quanto accade in una ordinaria società di diritto privato, può in ogni momento decidere di sciogliere la società creata, la messa in liquidazione della società risulta comunque giustificata dall'applicazione della normativa richiamata negli stessi.
Invero la normativa di cui all'art. 4 del d.l. 95/2012 appare in contrasto con quanto disposto e non abrogato precedentemente: essa impone lo scioglimento o l'alienazione delle società il cui fatturato è, al 90 % almeno, sostenuto dall'ente pubblico e che, in ragione di ciò possono ritenersi strumentali e cioè proprio quelle società che, alla luce della legge Bersani, potevano continuare la propria attività.
Ma il contrasto è ravvisabile anche all'interno dello stesso articolo, il cui primo comma non consente il mantenimento di società costituite esclusivamente per procurare beni e servizi all'amministrazione di riferimento, mentre l'ottavo comma consente che il servizio possa essere affidato alla società strumentale se ciò avvenga nel rispetto dei principi per l'affidamento in house. Tale antinomia è stata, però, superata dalla sopravvenienza del d.l. 179/2012, che ha introdotto la discrezionalità dell'ente nella valutazione dell'opportunità dello scioglimento (attraverso l'elaborazione di un piano di ristrutturazione e razionalizzazione).
Nel caso di specie, dunque, sebbene non vi sia stata una vera e propria predisposizione di un piano, il Comune risulta aver effettuato, oltre ad una ricognizione degli obblighi di legge, anche una valutazione in concreto dell'opportunità della scelta, in un'ottica di concreto risparmio della spesa (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 23.04.2014 n. 423 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Sull'inapplicabilità dell'istituto della revisione prezzi in materia di concessioni affidate in modo diretto.
In materia di concessioni, affidate in modo diretto, non si applica l'istituto della revisione prezzi, logicamente connesso alla dinamica concorrenziale propria degli appalti, vigendo l'opposto principio della invariabilità del canone concessorio.
Tale regola, che oggi si ricava agevolmente dal combinato disposto dell'art. 30 e dell'art. 115 del D.Lgs. n. 163/2006, non è stata introdotta innovativamente con il codice degli appalti, ma discende dai principi di sistema, ed in particolare dal criterio della invariabilità del canone concessorio (che fa da pendant all'affidamento diretto senza gara della prestazione, e di cui il codice degli appalti costituisce quindi una mera esplicitazione), come è confermato anche dal fatto che l'art. 115 del D.Lgs 163/2006, per sua espressa indicazione, si limita a riprodurre l'art. 6, co. 4, della legge n. 537/1993, e la giurisprudenza amministrativa, con condivisibili argomentazioni, si era espressa in questo senso, anche precedentemente all'entrata in vigore di tale D.Lgs. (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.04.2014 n. 1053 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione a rimuovere un’opera abusivamente realizzata perde la propria efficacia in conseguenza della presentazione dell’istanza di sanatoria.
Ed invero, il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla domanda di accertamento di conformità comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a superare la precedente ingiunzione a demolire, per modo che, anche nell’ipotesi di rigetto dell’istanza, l’amministrazione comunale è obbligata ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con l’assegnazione in tal caso di un ulteriore termine per adempiere.
Pertanto, nell'ipotesi in cui, successivamente all’emissione di un’ordinanza di demolizione, e prima della proposizione del ricorso giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria dell’abuso edilizio contestato, è da reputarsi esulante ab origine, in capo al ricorrente, l’interesse ad ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente inefficace e ineseguibile; conseguentemente, il gravame esperito avverso quest’ultimo va dichiarato inammissibile: come già evidenziato, l'accoglimento dell’istanza di accertamento di conformità legittimerebbe, infatti, l'opera abusiva ed eliderebbe l’impugnata sanzione demolitoria, mentre il suo rigetto obbligherebbe, comunque, l’amministrazione comunale a riattivare il procedimento sanzionatorio sulla base dell'accertata insanabilità del manufatto, concentrandosi, in tale ipotesi, l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sulla contestazione del diniego oppostogli.

- al riguardo, il Collegio ritiene di dover aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’ingiunzione a rimuovere un’opera abusivamente realizzata perde la propria efficacia in conseguenza della presentazione dell’istanza di sanatoria (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 28.10.2005, n. 17863; 28.02.2006, n. 2429; 02.03.2006, n. 2561; 12.05.2006, n. 4178; 21.07.2006, n. 7664; 25.07.2006, n. 7677; 26.07.2006, n. 7686; 14.09.2006, n. 8130; 28.09.2006, n. 8351; 25.01.2007, n. 701; 20.02.2007, n. 1152; 27.03.2007, n. 2860; sez. VII, 12.04.2007, n. 3426; sez. IV, 13.04.2007, n. 3556; 26.07.2007, n. 7071; Salerno, sez. II, 29.11.2007, n. 2853; Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; 07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV, 26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315; 07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 22.12.2005, n. 8159; sez. II, 13.11.2006, n. 2987; 31.01.2007, n. 259; 05.03.2007, n. 723; 26.06.2007, n. 1704; Catania, sez. I, 18.12.2007, n. 1990; TAR Puglia, Bari, sez. III, 31.03.2006, n. 1088; 24.04.2006, n. 1515; 03.05.2006, n. 1551; Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 13.11.2006, n. 4141; sez. I, 30.10.2008, n. 2721; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306);
- ed invero, il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla domanda di accertamento di conformità comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a superare la precedente ingiunzione a demolire, per modo che, anche nell’ipotesi di rigetto dell’istanza, l’amministrazione comunale è obbligata ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con l’assegnazione in tal caso di un ulteriore termine per adempiere;
- pertanto, nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame– in cui, successivamente all’emissione di un’ordinanza di demolizione, e prima della proposizione del ricorso giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria dell’abuso edilizio contestato, è da reputarsi esulante ab origine, in capo al ricorrente, l’interesse ad ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente inefficace e ineseguibile; conseguentemente, il gravame esperito avverso quest’ultimo va dichiarato inammissibile: come già evidenziato, l'accoglimento dell’istanza di accertamento di conformità legittimerebbe, infatti, l'opera abusiva ed eliderebbe l’impugnata sanzione demolitoria, mentre il suo rigetto obbligherebbe, comunque, l’amministrazione comunale a riattivare il procedimento sanzionatorio sulla base dell'accertata insanabilità del manufatto, concentrandosi, in tale ipotesi, l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sulla contestazione del diniego oppostogli (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 03.02.2005, n. 724; 08.03.2005, n. 1664; Salerno, sez. II, 21.03.2006, n. 314; Napoli, sez. I, 18.05.2006, n. 4743; Salerno, sez. II, 09.03.2007, n. 241; Napoli, sez. VII, 05.06.2009, n. 3105; sez. III, 18.06.2009, n. 3354; sez. VII, 02.07.2009, n. 3673; 09.07.2009, n. 3829; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 22.12.2005, n. 8159; 25.09.2006, n. 1947; Catania, sez. I, 15.10.2007, n. 1669; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 13.12.2006, n. 4654; TAR Lazio, Roma, sez. II, 04.05.2007, n. 3973; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 13.05.2008, n. 1455; 09.04.2009, n. 605) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2166 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio del certificato di abitabilità si deve fondare esclusivamente su valutazioni di ordine igienico-sanitarie dell’immobile, e non su quelle urbanistico-edilizie o su profili che, in quanto attinenti al mancato pagamento di oneri di urbanizzazione, sono del tutto estranei alla conformità dell’opera al progetto.
- Considerato che con il ricorso in epigrafe la ricorrente ha impugnato il provvedimento con il quale il Comune di Telese Terme le ha negato il rilascio del certificato di agibilità per le costruzioni edificate in virtù dei permessi di costruire nn. 29 e 30 del 2008, non risultando integralmente versato il costo di costruzione;
- Considerato che, a sostegno del ricorso, la ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 24 e 25 D.P.R. 380/2001 e l’eccesso di potere sotto vari profili, adducendo che ai fini del rilascio del certificato di agibilità non assumerebbe rilievo il pagamento del costo di costruzione e che, comunque, nel caso di specie tale costo non era stato correttamente quantificato;
- Ritenuto che il ricorso deve essere accolto in quanto fondato;
- Ritenuto, infatti, che, come già affermato dalla giurisprudenza di questo Tribunale, il rilascio del certificato di abitabilità si deve fondare esclusivamente su valutazioni di ordine igienico-sanitarie dell’immobile, e non su quelle urbanistico-edilizie o su profili che, in quanto attinenti al mancato pagamento di oneri di urbanizzazione, sono del tutto estranei alla conformità dell’opera al progetto (TAR Campania, Napoli, sez. II, n. 9822 del 06.05.2004; TAR Lazio, Latina, n. 706 del 12.06.2002; TAR Puglia, Lecce, I Sez., n. 208 del 01.04.1995);
- Ritenuto che, nel caso di specie, il Comune di Telese Terme con il provvedimento del 25.07.2013 ha denegato il rilascio del certificato d’agibilità ed abitabilità “in quanto da una verifica contabile, sebbene più volte sollecitato, non risulta trasmessa a questo Ufficio l’attestazione dell’avvenuto pagamento relativo alle rate del costo di costruzione”, in contrasto con i principi enunciati e subordinando detto rilascio ad un’attività del privato, costituente l’adempimento, da parte del medesimo, di un obbligo che non concerne l’abitabilità dell’immobile;
- Che il ricorso deve quindi essere accolto, con annullamento del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'accesso a documenti amministrativi e sui soggetti legittimati.
L'accesso a documenti amministrativi o ad atti di diritto privato relativi all'attività amministrativa la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridicamente tutelati è sempre garantito, anche laddove trattasi di un giudizio non ancora pendente, consistendo in un diritto soggettivo ad un'informazione qualificata, cui corrisponde l'obbligo della pa di esercitare un'attività materiale vincolata volta all'ostensione.
Inoltre, il diritto di accesso, oltre che alle persone fisiche, spetta anche a enti esponenziali di interessi collettivi e diffusi, ove corroborati dalla rappresentatività dell'associazione o ente esponenziale e dalla pertinenza dei fini statutari rispetto all'oggetto dell'istanza, quali i comuni (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.04.2014 n. 1768 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

TRIBUTIAddizionale Irpef, delibere a tempo. Il Tar Campania sulle aliquote.
Le aliquote dell'addizionale comunale all'Irpef per il 2013 devono essere adottate dal consiglio comunale entro il termine per l'approvazione del bilancio di previsione e devono essere pubblicate sul sito del Ministero dell'economia e delle finanze entro il 20 dicembre dell'anno a cui si riferisce la delibera comunale.

È quanto ha stabilito il TAR Campania-Napoli, Sez. I, che, con la sentenza 08.04.2014 n. 2009, si allinea alle decisioni adottate dai giudici calabresi e siciliani sulla delicata questione di deliberazione delle aliquote dell'addizionale comunale all'Irpef che, a quanto pare, non ha mancato di dare problemi a molti comuni italiani.
Il Tar campano ha accolto il ricorso presentato dal Ministero dell'economia e delle finanze avverso la deliberazione di un comune del napoletano che per l'anno 2013:
- ha diminuito la misura dell'aliquota dell'addizionale comunale all'Irpef dallo 0,8 allo 0,75% con deliberazione del 20.12.2013;
- ha inviato la delibera per la pubblicazione sul sito web del Ministero dell'economia e delle finanze in data 13.01.2014.
Il Mef ha chiesto innanzitutto al Tar l'annullamento di tale deliberazione perché adottata dopo la scadenza del termine per l'approvazione del bilancio di previsione stabilito per l'anno 2013 al 30.11.2013.
Ha inoltre sostenuto che il provvedimento sarebbe anche inefficace, in quanto per l'anno 2013, sarebbe stata necessaria la sua pubblicazione sul portale del Ministero stesso entro il 20 dicembre dell'anno di riferimento.
I giudici hanno accolto entrambe le ragioni di impugnativa in quanto hanno evidenziato che le disposizioni dell'art. 1, comma 169, della legge 296 del 2006, sono ben chiare quando stabiliscono che:
- gli enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione;
- dette deliberazioni, anche se approvate successivamente all'inizio dell'esercizio purché entro il termine innanzi indicato, hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento;
- in caso di mancata approvazione entro il suddetto termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno.
Poiché per l'anno 2013 il suddetto termine è stato differito dapprima al 30.09.2013, dall'art. 10, comma 4-quater, lettera b), numero 1), del decreto legge 08.04.2013, n. 35 e successivamente, dall'art. 8 del dl 31.08.2013 n. 102, convertito dalla legge 28.10.2013, n. 124, al 30.11.2013, «ne consegue», concludono i giudici, «la manifesta violazione del richiamato termine decadenziale, dal momento che la deliberazione è risulta adottata successivamente alla sua scadenza».
Il Tar risolve anche il secondo motivo di impugnazione partendo dall'esame dell'art.14, comma 8, del dlgs n. 23 del 2011 il quale stabilisce, anch'esso in maniera assai chiara, che a decorrere dall'anno 2011, le delibere di variazione dell'addizionale comunale all'Irpef hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di pubblicazione sul sito informatico del Mef a condizione che detta pubblicazione avvenga entro il 20 dicembre dell'anno a cui la delibera afferisce.
Detta pubblicazione ha anch'essa una portata assai particolare tanto che viene definita dai giudici del Tar come «fase procedimentale integrativa dell'efficacia della deliberazione di modifica dell'addizionale».
Anche in questo caso però tale adempimento è intervenuto solo il 14.01.2014, per cui, affermano i giudici, la riduzione non potrebbe comunque avere effetto per l'anno 2013.
Al pari di quanto è avvenuto con le sentenze nn. 470, 471, 472, 473 tutte del 21.03.2014 del Tar per la Calabria, sede di Catanzaro, e con la sentenza n. 700 del 17.03.2014 del Tar per la Sicilia, anche questa volta è stata annullata una deliberazione comunale in materia di addizionale all'Irpef che questa volta, paradossalmente, era a favore del contribuente, in quanto prevedeva la riduzione dell'aliquota (articolo ItaliaOggi del 03.05.2014).

EDILIZIA PRIVATAA differenza dal regime in precedenza vigente, alla stregua del quale spettavano all'Autorità regionale, o ad altra da questa delegata, i compiti di amministrazione attiva in materia di gestione dei vincoli paesaggistici, rimanendo alle Soprintendenze solo funzioni di controllo sui provvedimenti autorizzatori, consistenti nella possibilità di procedere al loro annullamento entro il termine perentorio di gg. 60 dal rilascio, qualora fosse stata ravvisata la sussistenza di vizi di legittimità), quello attuale, di cui all'art. 146 dello stesso decreto, delinea una situazione di co-gestione del vincolo, in sede di amministrazione attiva, da parte dell'Autorità regionale (o di quella delegata) e dell'Autorità statale periferica, con una chiara prevalenza delle valutazioni fatte da quest'ultima, sebbene effettuate in sede consultiva.
Sicché l’approvazione del progetto con condizioni o prescrizioni, peraltro pacificamente ammessa anche nel sistema previgente, non trova oggi alcun ostacolo nel disposto in alcuna norma, spettando alla Soprintendenza il potere di vagliare l’inserimento ambientale dell’opera sotto tutti i profili e, se necessario, imporne tutti gli adattamenti necessari per il rispetto dei valori protetti dal vincolo.
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La Soprintendenza non ha fornito alcuna evidenza delle ragioni per le quali l’esigenza di preservare le peculiarità del paesaggio tutelate dal vincolo avrebbero imposto la riduzione delle dimensioni del manufatto, né ha puntualmente spiegato il perché le numerose prescrizioni costruttive già dettate dalla Commissione paesaggistica del Comune al fine di armonizzare l’opera con l’ambiente circostante non possano ritenersi sufficienti allo scopo anche alla luce di un criterio di proporzionalità.
Pertanto, la Soprintendenza, entro 45 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, dovrà nuovamente pronunciarsi sulla istanza della ricorrente rivalutandola integralmente e motivando in modo puntuale le sue determinazioni secondo i criteri sopra stabiliti, non ostando la perentorietà del termine previsto dall’art. 146, comma nono, del D.Lgs 42/2004 alla rinnovazione “ora per allora” del provvedimento annullato.

Il primo motivo di ricorso è privo di fondamento.
Occorre in proposito rammentare che, a differenza dal regime in precedenza vigente, alla stregua del quale spettavano all'Autorità regionale, o ad altra da questa delegata, i compiti di amministrazione attiva in materia di gestione dei vincoli paesaggistici, rimanendo alle Soprintendenze solo funzioni di controllo sui provvedimenti autorizzatori, consistenti nella possibilità di procedere al loro annullamento entro il termine perentorio di gg. 60 dal rilascio, qualora fosse stata ravvisata la sussistenza di vizi di legittimità), quello attuale, di cui all'art. 146 dello stesso decreto, delinea una situazione di co-gestione del vincolo, in sede di amministrazione attiva, da parte dell'Autorità regionale (o di quella delegata) e dell'Autorità statale periferica, con una chiara prevalenza delle valutazioni fatte da quest'ultima, sebbene effettuate in sede consultiva (TAR Napoli Campania sez. VII, 12.03.2013 n. 1404).
Sicché l’approvazione del progetto con condizioni o prescrizioni, peraltro pacificamente ammessa anche nel sistema previgente, non trova oggi alcun ostacolo nel disposto in alcuna norma, spettando alla Soprintendenza il potere di vagliare l’inserimento ambientale dell’opera sotto tutti i profili e, se necessario, imporne tutti gli adattamenti necessari per il rispetto dei valori protetti dal vincolo.
Fondato è, invece, il secondo motivo di ricorso.
La Soprintendenza non ha fornito alcuna evidenza delle ragioni per le quali l’esigenza di preservare le peculiarità del paesaggio tutelate dal vincolo avrebbero imposto la riduzione delle dimensioni del manufatto (TAR Venezia Veneto sez. II, 13.09.2013 n. 1104), né ha puntualmente spiegato il perché le numerose prescrizioni costruttive già dettate dalla Commissione paesaggistica del Comune di Castelfranco di Sopra al fine di armonizzare l’opera con l’ambiente circostante non possano ritenersi sufficienti allo scopo anche alla luce di un criterio di proporzionalità.
L’autorizzazione paesaggistica deve essere, quindi, annullata.
In esecuzione della presente pronuncia la Soprintendenza, entro 45 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, dovrà nuovamente pronunciarsi sulla istanza della ricorrente rivalutandola integralmente e motivando in modo puntuale le sue determinazioni secondo i criteri sopra stabiliti, non ostando la perentorietà del termine previsto dall’art. 146, comma nono, del D.Lgs 42/2004 alla rinnovazione “ora per allora” del provvedimento annullato (Consiglio di Stato sez. V, 17.02.2006 n. 640; Consiglio Stato sez. V 08.07.1995 n. 1034)  
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa novazione soggettiva nei rapporti inerenti il titolo edilizio avviene con la voltura non essendo, invece, sufficiente, a realizzare tale effetto il mero acquisito dell’immobile. Tant’è che, secondo la giurisprudenza, del pagamento dei contributi di urbanizzazione risponde direttamente e per intero il titolare della concessione edilizia, essendo i successivi acquirenti estranei al rapporto che al riguardo si è instaurato col Comune.
Peraltro, la titolarità del permesso edilizio incide solo sul profilo passivo della obbligazione relativa al pagamento del contributo ma nulla, invece, ha a che vedere con l’azione di ripetizione dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa.
Nessuna rilevanza assume ai fini della legittimazione ad esercitare l’azione in discorso il fatto che l’onere economico del pagamento indebito sia poi stato trasferito da parte del solvens su un soggetto terzo. Infatti, il presupposto della azione di ripetizione, è esclusivamente quello del pagamento di un debito non dovuto e non quello dell’”arricchimento ai danni di altra persona” che è, invece, proprio della diversa azione di arricchimento senza causa.

La Sig.ra Giuliana Vitale ha acquistato nel 2009 una porzione di fabbricato destinato a civile abitazione nel comune di Pistoia.
La sua dante causa, Sig.ra Vettori Antonella, prima della vendita aveva già presentato al predetto comune una d.i.a. per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione e pagato i relativi oneri di urbanizzazione.
I predetti oneri, in forza di apposito patto contrattuale, sono stati poi posti a carico dell’acquirente che ha poi portato a termine i lavori.
La Sig.ra Vitale si è, tuttavia, avveduta che l’ammontare degli oneri di urbanizzazione richiesti dal Comune di Pistoia superava la somma effettivamente dovuta.
In particolare, il predetto ente, in applicazione della delibera consiliare n. 225 del 21/12/2007, aveva calcolato gli oneri sulla base della superficie lorda dell’intero fabbricato anziché prendere a riferimento la sola unità immobiliare interessata dal progetto di ristrutturazione.
Ritenendo, anche sulla scorta di precedenti pronunce di questo Tribunale Amministrativo, tale sistema di calcolo palesemente illegittimo, la Sig.ra Vitale ha intentato azione di ripetizione dell’indebito contro il Comune di Pistoia per ottenere la ripetizione delle somme pagate in eccesso a titolo di oneri di urbanizzazione.
Nel costituirsi in giudizio il Comune di Pistoia ha preliminarmente eccepito la carenza di legittimazione attiva della ricorrente osservando che l’azione di ripetizione potrebbe essere esercitata solo da chi ha eseguito il pagamento non dovuto e, quindi, nella specie, dalla Sig.ra Vettori che ha versato alla tesoreria comunale le somme richieste a titolo di oneri di urbanizzazione.
Al riguardo la ricorrente ha replicato di essere subentrata, per effetto dell’acquisto dell’immobile, in tutti i rapporti attivi e passivi facenti capo al titolo edilizio. Sicché, così come l’obbligo di pagare gli oneri concessori (qualora questi fossero ancora insoluti) si sarebbe trasferito su di lei, allo stesso modo, essa sarebbe divenuta titolare dell’azione di ripetizione di quanto indebitamente corrisposto a tale titolo dalla sua dante causa.
Gli argomenti dedotti dalla ricorrente per contrastare l’eccezione formulata dal Comune non appaiono, tuttavia, convincenti.
Occorre in primo luogo osservare che la novazione soggettiva nei rapporti inerenti il titolo edilizio avviene con la voltura non essendo, invece, sufficiente, a realizzare tale effetto il mero acquisito dell’immobile. Tant’è che, secondo la giurisprudenza, del pagamento dei contributi di urbanizzazione risponde direttamente e per intero il titolare della concessione edilizia, essendo i successivi acquirenti estranei al rapporto che al riguardo si è instaurato col Comune (Cons. Stato, V, 26/06/1996 n. 793).
Peraltro, la titolarità del permesso edilizio incide solo sul profilo passivo della obbligazione relativa al pagamento del contributo ma nulla, invece, ha a che vedere con l’azione di ripetizione dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa (Cassazione civile sez. III, 01.12.2009 n. 25276; TAR Napoli Campania sez. V, 05.04.2011 n. 1916).
Nessuna rilevanza assume ai fini della legittimazione ad esercitare l’azione in discorso il fatto che l’onere economico del pagamento indebito sia poi stato trasferito da parte del solvens su un soggetto terzo. Infatti, il presupposto della azione di ripetizione, è esclusivamente quello del pagamento di un debito non dovuto e non quello dell’”arricchimento ai danni di altra persona” che è, invece, proprio della diversa azione di arricchimento senza causa.
Il ricorso deve essere, quindi, dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione attiva (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl principio del legittimo affidamento può essere invocato a tutela di coloro che, sulla scorta di un atto o di un comportamento della p.a., abbiano in buona fede confidato di poter conservare una determinata situazione di vantaggio rivelatasi a posteriori non conforme a legge.
A prescindere dal problema se il protrarsi dell'inerzia della p.a. nella irrogazione di una sanzione possa considerarsi un comportamento astrattamente suscettibile di ingenerare una legittima aspettativa nel trasgressore, è da escludere che ciò possa avvenire allorché, come accade nella fattispecie in esame, la contestazione del fatto sia stata tempestivamente effettuata e ad essa non abbia fatto seguito la comminazione della misura repressiva.
In tale ipotesi, infatti, il comportamento della p.a. -benché possa qualificarsi come negligente dal punto di vista della tutela dell'interesse pubblico- non lascia adito ad alcun legittimo affidamento.

Il primo motivo di ricorso è infondato.
Il principio del legittimo affidamento può essere invocato a tutela di coloro che, sulla scorta di un atto o di un comportamento della p.a., abbiano in buona fede confidato di poter conservare una determinata situazione di vantaggio rivelatasi a posteriori non conforme a legge.
A prescindere dal problema se il protrarsi dell'inerzia della p.a. nella irrogazione di una sanzione possa considerarsi un comportamento astrattamente suscettibile di ingenerare una legittima aspettativa nel trasgressore, è da escludere che ciò possa avvenire allorché, come accade nella fattispecie in esame, la contestazione del fatto sia stata tempestivamente effettuata e ad essa non abbia fatto seguito la comminazione della misura repressiva.
In tale ipotesi, infatti, il comportamento della p.a. -benché possa qualificarsi come negligente dal punto di vista della tutela dell'interesse pubblico- non lascia adito ad alcun legittimo affidamento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn materia di responsabilità della p.a. per danni che il privato ritenga di avere subito a causa dell’azione amministrativa gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinari sono molto oscillanti.
Come è noto, mentre ai fini della responsabilità extra-contrattuale occorre verificare la sussistenza di tutti i presupposti di cui all’art. 2043 cod. civ. -ossia una condotta attiva od omissiva, l'elemento psicologico della colpa, il danno e il nesso di causalità tra condotta e pregiudizio- ai fini dell’individuazione di una responsabilità contrattuale (o meglio, da contatto sociale o da contatto sociale qualificato) va accertata la violazione da parte dell’amministrazione dell’affidamento riposto dal cittadino, nell’ambito di uno specifico rapporto con la pubblica amministrazione, sull’agire legittimo di questa.
Orbene, va in proposito precisato che in giurisprudenza si tende a ricondurre la responsabilità dell’amministrazione, prevalentemente, al modello aquiliano (Cons. Stato, V, 27.03.2013, n. 1833, che –sia pure con riguardo al diverso settore dell’evidenza pubblica e del danno da mancata aggiudicazione– ricostruisce la responsabilità della p.a. in termini aquiliani, osservando, tra l’altro, che la riconduzione di detta responsabilità al modello lato sensu contrattuale condurrebbe “ad un’inaccettabile sovrapposizione delle posizioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo, ricostruendo la prima categoria alla stregua di un interesse alla legittimità dell’attività amministrativa, immediatamente leso dalla mera presenza di un vizio di legittimità”).

Le pretese risarcitorie della società ricorrente sono, ad avviso del Collegio, infondate.
Nonostante gli sforzi di parte ricorrente volti a individuare la fonte della responsabilità risarcitoria dell’Autorità portuale di Livorno, non si ravvisano, nella fattispecie in esame, i presupposti che l’ordinamento richiede ai fini della sussistenza di un danno risarcibile; e ciò sia ragionando in termini di responsabilità aquiliana, derivante dalla violazione del principio del neminem laedere, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., sia ragionando in termine di responsabilità da inadempimento di obblighi gravanti sull’amministrazione nell’ambito di un rapporto regolato da fonte convenzionale (responsabilità contrattuale), atteso che le deduzioni di parte ricorrente per certi versi sembrano fare riferimento ai canoni dell’illecito extracontrattuale, per altri invocano principi che si attagliano alla responsabilità da inadempimento o, quantomeno, da contatto sociale.
Non è inutile ricordare brevemente che in materia di responsabilità della p.a. per danni che il privato ritenga di avere subito a causa dell’azione amministrativa gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinari sono molto oscillanti.
Come è noto, mentre ai fini della responsabilità extra-contrattuale occorre verificare la sussistenza di tutti i presupposti di cui all’art. 2043 cod. civ. -ossia una condotta attiva od omissiva, l'elemento psicologico della colpa, il danno e il nesso di causalità tra condotta e pregiudizio (TAR Puglia-Lecce, III, 10.10.2013, n. 2109; Tar Calabria–Catanzaro, I, n. 199/2013)- ai fini dell’individuazione di una responsabilità contrattuale (o meglio, da contatto sociale o da contatto sociale qualificato) va accertata la violazione da parte dell’amministrazione dell’affidamento riposto dal cittadino, nell’ambito di uno specifico rapporto con la pubblica amministrazione, sull’agire legittimo di questa.
Orbene, va in proposito precisato che in giurisprudenza si tende a ricondurre la responsabilità dell’amministrazione, prevalentemente, al modello aquiliano (Cons. Stato, V, 27.03.2013, n. 1833, che –sia pure con riguardo al diverso settore dell’evidenza pubblica e del danno da mancata aggiudicazione– ricostruisce la responsabilità della p.a. in termini aquiliani, osservando, tra l’altro, che la riconduzione di detta responsabilità al modello lato sensu contrattuale condurrebbe “ad un’inaccettabile sovrapposizione delle posizioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo, ricostruendo la prima categoria alla stregua di un interesse alla legittimità dell’attività amministrativa, immediatamente leso dalla mera presenza di un vizio di legittimità”) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ricollega alla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità la conseguenza processuale di far venir meno l’interesse a coltivare l’impugnativa del pregresso provvedimento di demolizione, dal momento che il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di reiezione, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso.
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Il Collegio rileva che la motivazione esternata dall’amministrazione nel denegare la sanatoria è generica e stereotipata; essa consiste nel rilievo che "i materiali e le forme utilizzate non sono idonei al contesto ambientale tutelato in considerazione dell'impatto negativo creato in un contesto in cui le innumerevoli case rurali distribuite armoniosamente nell'intera zona configurano quadri e scorci panoramici di notevole valore anche da un punto di vista estetico ed ambientale, godibili da vari punti di vista accessibili al pubblico, che con i loro valori tradizionali si ritengono degni di particolare tutela e salvaguardia".
Pur essendo di indubbia rilevanza il bene paesaggio richiamato nel diniego impugnato, bene cui l’ordinamento appresta particolare tutela e che è provvisto di copertura costituzionale (art. 9, comma secondo, Cost.), è tuttavia necessario che le amministrazioni a vario titolo deputate alla cura di esso tengano conto -nel necessario contemperamento degli interessi pubblici e privati che coesistono e confliggono in ogni situazione in cui un diritto del privato viene inciso da provvedimenti amministrativi- delle facoltà ricomprese nel diritto di proprietà (pure assistito da garanzia costituzionale, ai sensi dell’art. 42 Cost.).
Non può sottacersi, infatti, che rientra nelle facoltà del titolare di un diritto reale, anzi, del diritto reale più pieno, quello dominicale, la possibilità di recintare il proprio fondo con finalità protettive; e, se è vero che l’attività edificatoria a ciò finalizzata deve essere svolta nel rispetto dei vincoli (nella specie paesaggistici) che caratterizzano la zona in cui si trova il bene interessato, è altrettanto vero che non è possibile comprimere del tutto tale facoltà, che può trovare limitazioni nei limiti della necessità effettiva e della ragionevolezza, oltre che con adeguata proporzionalità tra il sacrificio imposto al privato e il beneficio per la collettività e per il pubblico interessa alla tutela del paesaggio.
Proprio per dare conto di questo delicato bilanciamento degli interessi pubblici e privati il provvedimento che esita negativamente l’istanza di accertamento di conformità deve essere congruamente ed esaustivamente motivato, non potendo limitarsi a invocare una generica disarmonia del manufatto con l’ambiente circostante e con i valori che lo connotano, risolvendosi altrimenti in mera tautologia.

Orbene, la giurisprudenza ricollega alla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità la conseguenza processuale di far venir meno l’interesse a coltivare l’impugnativa del pregresso provvedimento di demolizione, dal momento che il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di reiezione, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso (TAR Piemonte–Torino, II, 18.01.2013, n. 48; Consiglio di Stato, IV, 12.05.2010, n. 2844).
Applicando alla fattispecie in esame detti principi, va dichiarata l’improcedibilità, ai sensi dell’art. 35, comma primo, lett. c), cod. proc. amm., del ricorso e dei motivi aggiunti in epigrafe, con i quali sono stati contestati l’ordinanza di demolizione dei manufatti descritti in narrativa e gli atti istruttori e propedeutici che l’hanno preceduta.
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Si ritiene fondata l’assorbente censura di difetto di motivazione.
Più precisamente, il Collegio rileva che la motivazione esternata dall’amministrazione nel denegare la sanatoria è generica e stereotipata; essa consiste nel rilievo che "i materiali e le forme utilizzate non sono idonei al contesto ambientale tutelato in considerazione dell'impatto negativo creato in un contesto in cui le innumerevoli case rurali distribuite armoniosamente nell'intera zona configurano quadri e scorci panoramici di notevole valore anche da un punto di vista estetico ed ambientale, godibili da vari punti di vista accessibili al pubblico, che con i loro valori tradizionali si ritengono degni di particolare tutela e salvaguardia".
Pur essendo di indubbia rilevanza il bene paesaggio richiamato nel diniego impugnato, bene cui l’ordinamento appresta particolare tutela e che è provvisto di copertura costituzionale (art. 9, comma secondo, Cost.), è tuttavia necessario che le amministrazioni a vario titolo deputate alla cura di esso tengano conto -nel necessario contemperamento degli interessi pubblici e privati che coesistono e confliggono in ogni situazione in cui un diritto del privato viene inciso da provvedimenti amministrativi- delle facoltà ricomprese nel diritto di proprietà (pure assistito da garanzia costituzionale, ai sensi dell’art. 42 Cost.).
Non può sottacersi, infatti, che rientra nelle facoltà del titolare di un diritto reale, anzi, del diritto reale più pieno, quello dominicale, la possibilità di recintare il proprio fondo con finalità protettive; e, se è vero che l’attività edificatoria a ciò finalizzata deve essere svolta nel rispetto dei vincoli (nella specie paesaggistici) che caratterizzano la zona in cui si trova il bene interessato, è altrettanto vero che non è possibile comprimere del tutto tale facoltà, che può trovare limitazioni nei limiti della necessità effettiva e della ragionevolezza, oltre che con adeguata proporzionalità tra il sacrificio imposto al privato e il beneficio per la collettività e per il pubblico interessa alla tutela del paesaggio.
Proprio per dare conto di questo delicato bilanciamento degli interessi pubblici e privati il provvedimento che esita negativamente l’istanza di accertamento di conformità deve essere congruamente ed esaustivamente motivato, non potendo limitarsi a invocare una generica disarmonia del manufatto con l’ambiente circostante e con i valori che lo connotano, risolvendosi altrimenti in mera tautologia.
Del resto, dalla documentazione fotografica versata in atti è agevole desumere che la recinzione di cui trattasi non ha carattere di stabilità, che è facilmente amovibile e non implicante una trasformazione definitiva e irreversibile del territorio, essendo sostenuta da palificazione in legno
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 1990, ai sensi della quale l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento non può condurre all'annullamento del provvedimento finale ove emerge che quest'ultimo non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato, può trovare applicazione unicamente nei casi in cui tale contenuto sia vincolato o in cui risulti che palesemente lo stesso non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, in quanto inevitabile nella sua parte dispositiva.
Laddove, invece, deve procedersi ad un accertamento della sussistenza di una violazione sulla base di criteri non automatici, ma previa valutazione della valenza di determinate condotte, il carattere discrezionale del provvedimento finale esclude che possa trovare applicazione la possibilità di sanatoria dei vizi formali del procedimento prevista dal citato art. 21-octies.

Ciò posto, l'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 1990, ai sensi della quale l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento non può condurre all'annullamento del provvedimento finale ove emerge che quest'ultimo non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato, può trovare applicazione unicamente nei casi in cui tale contenuto sia vincolato o in cui risulti che palesemente lo stesso non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, in quanto inevitabile nella sua parte dispositiva. Laddove, invece, come nel caso di specie, deve procedersi ad un accertamento della sussistenza di una violazione sulla base di criteri non automatici, ma previa valutazione della valenza di determinate condotte, il carattere discrezionale del provvedimento finale esclude che possa trovare applicazione la possibilità di sanatoria dei vizi formali del procedimento prevista dal citato art. 21-octies (cfr., TAR Lazio, Sez. II, 08.02.2012, n. 1230).
La rilevata mancanza procedimentale si riflette, dunque, sulla legittimità dell'impugnato provvedimento, che, pertanto, va caducato, con assorbimento degli ulteriori motivi di gravame.
In aderenza ad un autorevole orientamento giurisprudenziale, va, infatti, riconosciuto il principio del carattere necessariamente assorbente della censura volta a far valere il mancato invio della comunicazione in discorso, nel senso che l'accoglimento di essa inibisce l'esame delle altre eventuali censure, stante l'invalidità dell'istruttoria svoltasi in carenza della comunicazione stessa (cfr., Cons. St., Sez. VI, 01.09.2000, n. 4649) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come affermato dalla giurisprudenza, “non appare dubbio, invero, (che) alla luce dell’individuazione dei beni paesaggistici contenuta ….(negli artt. 136 e segg. del d.lgs. n. 42 del 2004) con il termine paesaggio il legislatore abbia inteso designare una determinata parte del territorio che, per le sue caratteristiche naturali e/o indotte dalla presenza dell'uomo, è ritenuta meritevole di particolare tutela, che non può ritenersi limitata al mero aspetto esteriore o immediatamente visibile dell'area vincolata, così che ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi tipo di opera, è soggetta al rilascio della prescritta autorizzazione”.
Tale nozione ampia di paesaggio coincide, peraltro, con la definizione contenuta nella Convenzione europea sul paesaggio, firmata a Firenze il 20.10.2000 e ratificata con la legge 09.01.2006, n. 14, secondo la quale il termine paesaggio “designa una determinata parte del territorio, così come percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
Osserva il Collegio che dalla predetta definizione di paesaggio deriva che il vincolo ambientale-paesaggistico si palesa operante anche con riferimento alle opere realizzate nel sottosuolo, in quanto anche queste ultime implicano una utilizzazione del territorio idonea a modificarne l'assetto, specie quando, come nel caso in esame, si tratti di opere di rilevante entità.
Quanto esposto risulta confermato, in primo luogo, dal contenuto dell’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, che vieta l'esecuzione di lavori “di qualsiasi genere” su beni paesaggistici senza la necessaria autorizzazione o in difformità da essa ed, in secondo luogo, dalla giurisprudenza che –da un lato- ha ritenuto che il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, siano essi interrati o meno, e –dall’altro– che il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del 2004) preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati’), pur quando ai fini urbanistici-edilizi non andrebbero ravvisati volumi in senso tecnico.

Il Collegio ritiene corrette le argomentazioni della Direzione regionale del Ministero.
Come affermato dalla giurisprudenza, “non appare dubbio, invero, (che) alla luce dell’individuazione dei beni paesaggistici contenuta ….(negli artt. 136 e segg. del d.lgs. n. 42 del 2004) con il termine paesaggio il legislatore abbia inteso designare una determinata parte del territorio che, per le sue caratteristiche naturali e/o indotte dalla presenza dell'uomo, è ritenuta meritevole di particolare tutela, che non può ritenersi limitata al mero aspetto esteriore o immediatamente visibile dell'area vincolata, così che ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi tipo di opera, è soggetta al rilascio della prescritta autorizzazione” (Cass. Pen., Sez. III, 16.02.2006, n. 11128).
Tale nozione ampia di paesaggio coincide, peraltro, con la definizione contenuta nella Convenzione europea sul paesaggio, firmata a Firenze il 20.10.2000 e ratificata con la legge 09.01.2006, n. 14, secondo la quale il termine paesaggio “designa una determinata parte del territorio, così come percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (Cass. Pen., Sez. III, 16.02.2006, n. 11128).
Osserva il Collegio che dalla predetta definizione di paesaggio deriva che il vincolo ambientale-paesaggistico si palesa operante anche con riferimento alle opere realizzate nel sottosuolo, in quanto anche queste ultime implicano una utilizzazione del territorio idonea a modificarne l'assetto, specie quando, come nel caso in esame, si tratti di opere di rilevante entità (cfr: Cass. pen., Sez. III, 16.01.2007, n. 7292).
Quanto esposto risulta confermato, in primo luogo, dal contenuto dell’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, che vieta l'esecuzione di lavori “di qualsiasi genere” su beni paesaggistici senza la necessaria autorizzazione o in difformità da essa ed, in secondo luogo, dalla giurisprudenza che –da un lato- ha ritenuto che il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, siano essi interrati o meno (Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.1997, n. 102), e –dall’altro– che il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del 2004) preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati’), pur quando ai fini urbanistici-edilizi non andrebbero ravvisati volumi in senso tecnico (Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 19.02.2014 n. 171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi: Cassazione chiarisce i limiti dell’indice di edificabilità.
Con la sentenza 05.02.2014 n. 5751 la III Sez. penale della Corte di Cassazione interviene in materia edilizia, offrendo alcuni chiarimenti in merito all’indice di edificabilità che ne precisano limiti e contenuto.
In particolare, gli Ermellini chiariscono in primo luogo
l’inderogabilità del D.M. 02.04.1968, n. 1444 a cui è stata in passato riconosciuta efficacia di legge dello Stato con la conseguenza che gli strumenti urbanistici non possono discostarsene, prevalendo il decreto anche sui regolamenti locali nella determinazione degli standard urbanistici. Ciò per chiarire che l’art. 7 del D.M. citato stabilisce i limiti inderogabili di densità edilizia per le diverse zone territoriali omogenee e che, in particolare, per le zone A –relative al caso di specie– si conformano nel senso che per le nuove eventuali costruzioni ammesse, la densità fondiaria non deve superare il 50% della densità fondiaria media della zona.
E’ importante questa precisazione da parte della Corte di Cassazione perché permette di ribadire l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale
sulla differenza tra densità edilizia territoriale e densità edilizia fondiaria. La prima si riferisce a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona, mentre la seconda è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile. In buona sostanza –come si legge anche nella sentenza-, la differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona omogenea, per cui il relativo indice di edificabilità è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati a viabilità, ecc. Al contrario, la densità edilizia fondiaria, in quanto riferita alla singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato alla effettiva superficie suscettibile di edificazione.
Per i giudici del Palazzaccio diventa rilevante tracciare un netto confine tra i due concetti di densità, specificando che quella territoriale attiene al comparto, al lordo di strade e altri spazi pubblici, mentre quella fondiaria attiene al singolo lotto o fondo identificato al netto delle aree asservite a standard urbanistici. Ne consegue che l’indice di fabbricabilità fondiaria risulta essere lo strumento di misura del massimo volume edificabile su ciascuna unità di superficie fondiaria. Su questo aspetto si è fondato l’errore del giudice di merito che, come rilevato da Piazza Cavour, confonde, ai fini della determinazione della volumetria assentibile, la superficie edificabile con la superficie dell’intero comparto, pretermettendo la distinzione che giuridicamente distingue l’area edificabile dalla zona omogenea in cui si inserisce. Ciò elide i limiti di edificabilità in quanto questi costituirebbero in questo modo un a percentuale della zona omogenea anziché una percentuale dell’area interessata direttamente dalla edificabilità stessa, finendo per confondere il criterio da applicare.
Nel caso di specie il giudice di prime cure aveva condannato i titolari di una società di costruzione e i funzionari pubblici coinvolti alla pena di quattro mesi di arresto e 25000 € di ammenda per i reati di cui agli articoli 110 cod. pen. e 44, lettera c), del d.p.r. n. 380/2001 e art. 734 cod. pen. Ciò per la realizzazione di un complesso edilizio in area urbana sottoposta a vincolo paesaggistico ed in violazione della normativa di settore in merito a forme e misure consentite. Il Giudice di Appello tuttavia riformava la sentenze di primo grado assolvendo tutti gli imputati dai reati ascritti perché il fatto non sussiste. Da qui il ricorso del Procuratore generale della Repubblica, che contesta la violazione dell'articolo 44, lettera c), d.p.r. 380/2001 con riferimento all'articolo 7 D.M. 1444/1968.
Come si è visto la Cassazione accoglie le contestazioni del ricorrente annullando la sentenza impugnata con rinvio ad altra Corte di Appello territoriale (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di abuso edilizio, la concessione in sanatoria si estende anche ai c.d. reati satelliti.
Consolidata e recente giurisprudenza di legittimità e di merito (Cass. Penale, Sez. III, 01/09/2010 (Ud. 01/07/2010), Sentenza n. 32547, Tribunale di Cassino – Sez. penale, sentenza del 01.02.2010) ritiene che l’efficacia estintiva della sanatoria è limitata ai reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e non si estende ad altri reati correlati alla tutela di interessi diversi quali quelli previsti dalla normativa sulle opere in cemento armato, sulle costruzioni in zone sismiche oppure di tutela delle aree di interesse ambientale.
Di diverso avviso, invece, il TRIBUNALE di Termini Imerese che con sentenza 21.05.2013, accogliendo la tesi difensiva degli avvocati dell'imputato, secondo cui il rilascio della concessione in sanatoria, ex artt. 13 Legge n. 47 del 1985 e 45 D.P.R. n. 380 del 2001, estingue non solo il reato previsto e punito dall'art. 44, lettera b), D.P.R. n. 380 del 2001, ma anche i c.d. “reati satelliti”, ovvero, nel caso di specie, quelli previsti e puniti dagli artt. 64 e 71, 65 e 72, 83 e 95 del D.P.R n. 380 del 2001.
Dalla sentenza in questione emerge che il Tribunale di Termini Imerese ha ritenuto che la nozione di “reati urbanistici”, come quelli riguardanti la disciplina del corretto e razionale uso edile del territorio va estesa anche ai reati “edilizi minori” o “reati satellite”, ovvero quelli previsti dalla normativa sulle opere in cemento armato, sulle costruzioni in zone sismiche oppure di tutela delle aree di interesse ambientale, con la conseguenza di non doversi procedere anche in ordine a tali reati (link a www.diritto.it).
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SENTENZA
nel processo penale
CONTRO
xxxx xxxxx nato a xxxxx il xxxxxx ivi residente in Via xxxxxxx, elettivamente domiciliato in
xxxxxxxx difeso di fiducia dall'avv. Giuseppe Ortolani del Foro di Palermo e dall'Avv. Francesco Paolo Maurigi del Foro di Palermo
– LIBERO – CONTUMACE - IMPUTATO
a) della contravvenzione p.e.p. Dalla letetra b) dell'art. 44 del D.P.R. n. 380/2001, 81 c.p. per
aver , in qualità di proprietario/committente dei lavori, iniziato, continuato ed eseguito in
assenza del prescritto permesso a costruire, nell'immobile sito
a xxxxx, le seguenti opere:
a) magazzino aventi dimensioni di 7,80 x 6,00 metri con struttura costituita da pilastri e capriate in ferro su fondazione in cemento armato, tamponamento e copertura in lastre di lamiera grecata verniciata. Porzione di fabbricato aventi dimensioni di: 3,90 x 5,70 metri; 2,20 x 3,40 metri con struttura portante in cemento armato.
b) delle contravvenzioni p.e p. dagli articoli 64, 71, 65 e 72 del D.P.R. n. 380/2001, art. 81 c.p., perchè in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nella medesima qualità, realizzava le strutture in cemento armato di cui al capo a), senza il progetto esecutivo e la direzione di un professionista abilitato e la prescritta denuncia d'inizio lavori all'ufficio del Genio Civile.
c) delle contravvenzioni p.e p. dagli articoli 83 e 95 del D.P.R. n. 380/2001, art. 81 c.p., perché  in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nella medesima qualità, realizzava le strutture in cemento armato di cui al capo a), senza avere rispettato le norme e le prescrizioni tecniche contenute nei decreti ministeriali vigenti; omettendo di denunziare l'inizio dei lavori alle competenti autorità e senza avere ottenuto la prescritta autorizzazione scritta da parte dell'Ufficio tecnico Regionale.
In Valeldolmo, accertati tutti il 09.04.2010.
MOTIVAZIONE
A seguito di decreto di citazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Termini Imerese, l'imputato veniva tratto a giudizio dinanzi a questo Tribunale per rispondere dei reati di cui alla rubrica. Al dibattimento, esaurita l'esposizione introduttiva del P.M. e le richieste di prova dallo stesso formulate, il difensore dell'imputato produceva la documentazione relativa al rilascio della concessione in sanatoria delle opere abusive allo stesso contestate.
Indicati gli atti utilizzabili, le parti concludevano come da separato verbale di causa in atti, a cui si allegava apposita memoria difensiva del difensore dell'imputato.
Ciò posto, osserva il giudicante, che la produzione documentale in atti depositata attesta la coincidenza tra contestato all'imputato ed esposto dal P.M. In sede dibattimentale e l'oggetto del provvedimento amministrativo di autorizzazione in sanatoria del Comune di Valledolmo rilasciata in data 21.02.2013.
Risulta altresì che l'imputato ha regolarmente versato, ai sensi dell'art. 13 della Legge n. 47 del 1985, a titolo di oblazione, il contributo di concessione edilizia in misura doppia.
Pertanto, in applicazione di quanto previsto dal comma 3° dell'art. 22 della Legge n. 47 del 1985, deve dichiararsi di non doversi procedere procedere nei confronti dell'odierno imputato, in ordine a tutti i capi d'imputazione, per estinzione dei reati dovuta ad intervenuto rilascio del provvedimento amministrativo in sanatoria.
P.Q.M.
Visti gli articoli 531 c.p.p. e 13 della Legge n. 47 del 1985
DICHIARA
di non doversi procedere a carico di xxxxx in ordine a tutti i reati ascrittigli perché estinti per intervenuto rilascio di concessione in sanatoria.

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra le costruzioni. Disposizione regolamentare secondo cui, nel caso di case a schiera, non si applicano i limiti di distanza tra edifici. Principio della prevenzione ex artt. 873 e ss. cod. civ..
La previsione del p.r.g. secondo cui nella zona destinata alla costruzione di case a schiera non sono stabiliti limiti di distanza tra edifici, non trova applicazione ove nel fondo finitimo preesista un edificio non posizionato sul confine, non essendo ipotizzabile, in tale evenienza, l'edificazione in aderenza, secondo la tipologia delle costruzioni a schiera, senza alcun titolo pattizio (Cfr. Cons. Stato , sez. V, 08.02.1991, n. 114).
Nel campo urbanistico, il principio della prevenzione ex art. 873 e ss. c.c. trova applicazione non soltanto nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, ma altresì in quelli nei quali gli strumenti urbanistici non vietino l'edificazione sul confine.
In questo caso, dunque, essendo ammessa la costruzione in aderenza, a chi edifica per primo sul fondo contiguo ad altro spettano tre diverse facoltà:
1) in primo luogo, quella di costruire sul confine;
2) in secondo luogo, quella di costruire con distacco dal confine, osservando la distanza minima imposta dal codice civile, ovvero quella maggiore distanza stabilita dai regolamenti edilizi locali;
3) ed infine quella di costruire con distacco dal confine a distanza inferiore alla metà di quella prescritta per le costruzioni su fondi finitimi, facendo salvo in questa evenienza la facoltà per il vicino, il quale edifichi successivamente, di avanzare il proprio manufatto fino a quella preesistente, previa corresponsione della metà del valore del muro del vicino e del valore del suolo occupato per effetto dell'avanzamento della fabbrica (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04.02.2011, n. 802) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2012 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fascia di rispetto cimiteriale. Individuazione e applicabilità.
L'art. 338 del Testo unico delle leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265/1934, il quale vieta l'edificazione nelle aree ricadenti nella fascia di rispetto cimiteriale (di 200 metri o del limite inferiore di cui al D.P.R. n. 285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.), prevede un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il vincolo di rispetto cimiteriale riguarda non solo i centri abitati, ma anche i fabbricati sparsi.
Il vincolo di rispetto cimiteriale preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo.
Anche il parcheggio interrato, da realizzare ai sensi dell'art. 9 della L. n. 122/1989, in quanto struttura servente
all'uso abitativo e, comunque, posta nell'ambito della fascia di rispetto cimiteriale, rientra tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.09.2010 n. 6671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Atti amministrativi. Istanza per realizzazione opere di urbanizzazione primaria. Silenzio della P.A..
E’ illegittimo il silenzio serbato da una Amministrazione comunale sulla istanza con la quale alcuni proprietari di un edificio adibito a civile abitazione hanno chiesto l’adozione dei provvedimenti necessari alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria (nella specie, rete idrica) funzionali all’edificio.
Se è vero infatti che le opere di urbanizzazione primaria sono di regola realizzate dalla P.A., deve rilevarsi anche la possibilità di un impegno, da parte del privato, alla realizzazione delle opere medesime in sede di attuazione dell’intervento oggetto del permesso (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.11.2009 n. 7432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gara d’appalto. Presentazione domanda di partecipazione a mezzo fax.
Illegittimamente viene esclusa da una gara pubblica una ditta che ha presentato domanda di partecipazione, a mezzo fax, in ritardo rispetto all’ora prevista dalla lex specialis, ove sia provato che l’ora indicata sul fax in uscita del concorrente escluso era inesatta, perché l’orario di spedizione dell’apparecchio non risultava aggiornato all’ora solare, e l’ora indicata era quella legale.
In tal caso, infatti, incombe l’obbligo sulla stazione appaltante di valutare opportunamente, nel rispetto del noto principio del favor partecipationis, la possibilità di considerare tempestiva la domanda, anche semplicemente verificando l’orario di arrivo  del fax presso l’apparecchiatura telefax di destinazione, sicché l’attività provvedimentale della P.A. non può ritenersi conforme al principio di correttezza e di buona fede, da osservarsi obbligatoriamente nei rapporti con i soggetti privati coinvolti nelle procedure ad evidenza pubblica (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.05.2009 n. 2817 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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